SCIENZA E CRISTIANESIMO: UNA RICERCA SULLA TRANSIZIONE DALLA SCIENZA CLASSICA ALLA TEOLOGIA PATRISTICA FINO A CARLO MAGNO

Roberto Renzetti

1 – PRELIMINARI STORICI

          Intorno alla fine del II secolo d.C., come abbiamo visto, si assiste ad una generale decadenza delle scienze. In particolare si registra la lenta fine della superba età ellenistica che, tra l’altro, aveva visto la separazione della scienza dalla filosofia con la gran parte degli scienziati che mostrava scarso interesse per qualsiasi cosa che non fosse filosofia naturale, comunque sempre confinata in ambiti molto ristretti. Le condizioni storiche, politiche e sociali che caratterizzarono quel periodo le ho già discusse ed è quindi a questi precedenti scritti che rimando mentre qui fornisco solo qualche riferimento storico.

        L’editto di Milano del 313 segna il trionfo del Cristianesimo; nel 330 la capitale dell’Impero, diviso amministrativamente, diventa Costantinopoli; nel 391, con Teodosio, il Cristianesimo diventa religione di stato; nello stesso anno il vescovo Teofilo guida fanatici cristiani alla distruzione di parte della Biblioteca di Alessandria; nel 395, alla morte di Teodosio, si scinde l’Impero in Romano d’Oriente e Romano d’Occidente; il 410 vede il sacco di Roma; nel 476 cade definitivamente e simbolicamente l’Impero romano d’Occidente (in realtà già da molti anni non esisteva più); nel 529 Giustiniano chiude d’autorità l’Accademia di Atene e vieta l’insegnamento ai pagani (non cristiani); nel 642 Alessandria viene conquistata dagli arabi e la Biblioteca sarà definitivamente distrutta. Anche la Chiesa subisce le sue dure sconfitte: prima vi è lo scisma dei copti (IV-V secolo); poi nel Concilio di Calcedonia (451, quando Attila entrava in Italia) lo scisma dei nestoriani; quindi con il Sinodo di Costantinopoli (553) se ne va definitivamente la chiesa monofisitica; un evento notevole fu l’incoronazione di Carlo Magno imperatore a Roma (800) dopo che era stato fermato il suo tentativo espansionista verso la Spagna a Roncisvalle (778) ma non verso la Sassonia (780) dove vi furono evangelizzazioni forzate crudeli e disumane che, insieme ad altre cose, gli fruttarono l’eterna riconoscenza della Chiesa; finalmente il grande scisma, quello della chiesa d’Oriente (1054); nello scenario dei grandi rivolgimenti accennati, guerre, invasioni, saccheggi, malattie, si inserisce una profonda crisi dell’agricoltura, la scarsità di manodopera, la grande difficoltà di comunicazione ed una burocrazia ingigantita. 


        Come queste cose abbiano influito direttamente in ciò che discutiamo è difficile dire ma alcuni elementi qua e là si possono certamente cogliere. A partire dal I sec. già Plinio si lamentava della scarsezza di manodopera servile e, a partire dal III sec. il costo degli schiavi sui mercati era diventato sempre più proibitivo a causa del fatto che i mercati stessi erano sempre meno riforniti da merce raccolta in differenti campagne belliche. Furono i barbari che iniziarono a vendere schiavi a Roma e, molto spesso, tra di essi vi erano moltissimi romani. Furono i poveri ad immettere i propri figli nei mercati degli schiavi. Ma la gran quantità di denaro che possedeva l’Impero in epoche precedenti si era esaurita. Il mercato degli schiavi non poteva accrescersi. Inoltre era venuta a gravare sull’Impero una enorme spesa che non rendeva nulla: il finanziamento della Chiesa ed il pagamento degli ecclesiastici. Un esercito, quest’ultimo, di bocche inutili che spessissimo aveva intrapreso la carriera ecclesiastica per ragioni di prestigio e per avere un sicuro stipendio (un vescovo guadagnava sei volte di più di un medico o di un ingegnere e cinque volte di più di un professore di grammatica o di retorica !). Queste risorse venivano meno per altre imprese, tra cui il finanziamento delle scuole (solo quella di Alessandria fu sostenuta fino al V sec.). Ed era soprattutto dalle Scuole che proveniva il mantenimento materiale di chi faceva scienza (e non solo): ora, non solo occorreva scontrarsi con difficoltà economiche ma anche contro moltissimi autori cristiani che anteponevano la rivelazione alla ragione, la fede alla  conoscenza.

        Inoltre, a parte casi isolati di persone illuminate, i cristiani mostrarono una diffidenza che si tramutò subito in ostilità verso la scienza che era rappresentata solo da personaggi situati all’interno del paganesimo. Nomi noti del Cristianesimo, come Tertulliano (circa 155-222) e Lattanzio (circa 260-340), si scagliarono contro la scienza ed i più tolleranti, come San Basilio (329-379) e San Gregorio Nazianzeno (circa 329-390), avevano una posizione del tipo accetto questa conclusione a patto che non sia in contrasto con le Sacre Scritture. E la scienza diventa così un insieme di conclusioni acquisite che devono solo confermare l’opera divina del Creatore. E dove le cose non erano acquisite non si doveva indagare (fu così che non si portarono avanti gli studi iniziati da Galeno e, ad esempio, la malattia mentale passò immediatamente nel capitolo orrido della demonologia e dell’esorcismo). Dal V – VI secolo le Scritture iniziarono ad essere considerate  con un dogmatismo devastante tanto che anche le persone colte dubitarono e rifiutarono le cose che erano state acquisite. Ad esempio, Agostino rifiutò la teoria degli antipodi e Cosma Indicopleuste (VI secolo) negò la sfericità della Terra e costruì un modello di universo a forma di Tabernacolo (vedi figura).

        A questo proposito, scrivono Hall e Boas: “con l’espandersi del cristianesimo, a nord, est ed ovest, la cultura medioevale, portando con sé la Bibbia ed i volumi dei Padri della chiesa, cominciò ad assumere la sua forma caratteristica: monca, alimentata dalle reminiscenze di un più glorioso (e tuttavia sospetto) passato clericale e sempre soggetta ai dogmi cristiani”.

        A ciò si deve aggiungere la grande delusione che rappresentò il Cristianesimo per il popolo degli oppressi, soprattutto schiavi. Una delle più belle illusioni che il Cristianesimo portava con sé nei tempi eroici era destinata a morire non appena la Chiesa assurse al potere. Non era vero che tutti gli uomini erano uguali ma, a causa del peccato originale, era inevitabile la schiavitù (quale cosa non sarebbe capace di giustificare una religione ben strutturata ?). In questo senso si espressero molti padri della Chiesa tra cui Agostino d’Ippona (354-430). Già nel 324 il Concilio di Granges aveva intimato: “Se qualcuno, sotto il pretesto di pietà, incita lo schiavo a disprezzare il suo padrone, a sottrarsi alla schiavitù, a non servire con buona volontà e rispetto, anatema sia su di lui“. E quasi tutti gli ecclesiastici a titolo individuale, e la Chiesa in quanto istituzione, disponevano di ingenti quantità di schiavi. Ancora nel 916, lo schiavo che fuggiva dal suo padrone era assimilato al chierico che abbandonava la Chiesa (Concilio di Altheim). E se qualche ecclesiastico avesse avuto la malaugurata idea di affrancare i suoi schiavi, egli avrebbe dovuto risarcire la Chiesa della quantità corrispondente in denaro. Infine, nella grandissima maggioranza dei casi, lo schiavo non era ammesso al sacerdozio.
          In questo desolante paesaggio qualche cosa però si mosse nel senso vero della liberazione dell’uomo. Gli ordini monastici, generalmente rifuggenti dalla Chiesa ufficiale, quella costantemente alleata con il Potere, rappresentarono un’oasi di civiltà e progresso civile e morale. A partire da San Benedetto (480-547) che, ricordiamolo, fu perseguitato proprio da svariati chierici ormai assestati nel loro potere, e che fondò (529) la regola dell’ Ora et labora nella quale per la prima volta dalle squalificazioni di Platone  il lavoro manuale riacquistava una dignità pari alla preghiera (superando in questo gli oppressivi e discriminatori significati che, a partire dall’antichità classica, proprio al lavoro erano assegnati), continuando con i cistercensi e quindi con i francescani, si iniziò una tradizione di mantenimento, e sviluppo di tecniche artigianali tra cui, a partire da un certo momento, anche la conservazione e la trascrizione di svariati testi dell’antichità. Ma qui occorre fare un attimo di attenzione perché il ruolo dei monaci nella conservazione non deve essere enfatizzato più di tanto. Se è vero che da un certo punto vi fu una certa cura per il sapere da parte di alcuni ordini monastici, tale cura arriverà troppo tardi quando già il patrimonio culturale era stato irrimediabilmente distrutto (da Carlo Magno in poi sarà la stessa Chiesa nel suo complesso a conservare ogni testo di cultura classica a quel punto rimasto), inoltre riguardi li avranno quelle opere più affini ai loro interessi, quelle teologiche e magico teologiche, e non certo quelle scientifiche che saranno completamente dimenticate quando non distrutte o ridotte a palinsesto.

        E quei barbari ai quali ho accennato più su fecero alla fine crollare l’Impero d’Occidente, ed insieme ad esso quei barlumi di scienza che qua e là si mantenevano e quella tecnica (acquedotti, strade, urbanistica, edilizia, …) che invece aveva progredito di molto. Questi invasori avevano distrutto le strutture economiche, sociali e politiche distruggendo ogni possibilità materiale e morale di ricerca ma, come vedremo, a loro si deve l’introduzione di tecniche che fornirono via via la base di un modo di vita materialmente superiore a quello che si aveva nell’età classica (pantaloni al posto della toga, burro al posto dell’olio di oliva, sci, barili, botti, coltivazione della segale, dell’avena e del luppolo, staffa per cavalcare, … ). Le  grandi invasioni del V secolo posero fine anche alla sola conservazione della cultura ellenistica. Nel periodo di tali invasioni, proprio per i caratteri dei popoli che entravano dal nord nel vecchio bacino del Mediterraneo, non si assiste a riproduzioni della scienza antica o a scimmiottamenti delle forme di conoscenza ellenistica ma si iniziano ad intravedere i segni di un nuovo modo di curiosità scientifica. Nel resto dell’Impero, quello di Bisanzio, pur privato della sua anima vivificatrice di Alessandria, si ebbe una vita scientifica che ancora si muoveva, anche se a rilento.

        Un minimo di retroterra culturale di Bisanzio si può intravedere dalle brevi note seguenti. Dopo l’assassinio di Ipazia, gli ultimi studiosi superstiti di Alessandria si trasferirono ad Atene presso l’Accademia platonica dove Proclo (412-485)  teneva le sue lezioni. Gli allievi di Proclo seguirono ancora la sua opera pubblicando lavori di commento di Euclide. Ma anche qui intervenne la stroncatura dell’autorità: l’imperatore Giustiniano la chiuse nel 529. Da questo momento l’ultimo rifugio per gli ultimi superstiti amanti del sapere fu Bisanzio dove, anche se non si produssero cose originali, divenne impegno primario la conservazione del patrimonio tramandato dall’antichità classica in un clima neoplatonico.

        L’Impero romano d’Oriente visse per un migliaio di anni in un clima di cambio continuo di frontiere, di un instabile equilibrio politico e sociale, di frequenti lotte per motivi religiosi che si ripercuotevano continuamente nella vita pubblica. C’era Bisanzio, con l’eredità della Grecia e delle colonie dell’Asia Minore,  come nucleo stabile ma l’Impero si gonfiava e si sgonfiava a seconda degli attacchi esterni e delle invasioni e delle capacità dell’imperatore di turno. Il potere era e non poteva essere che molto centralizzato per tenere insieme una miriade di popoli, costumi, religioni differenti. Il peso delle tasse e degli obblighi militari era tutto dei contadini che avevano una situazione non dissimile  ai servi della gleba dell’Europa feudale. Dall’esterno vi erano pressioni continue dal Nord e dall’Est (visigoti, unni, ostrogoti, bulgari) che combattevano per conquistare le pianure del Danubio ed i Balcani. Altre pressioni venivano dalle repubbliche marinare Venezia e Genova. Vi furono poi gli attacchi religioso-commerciali delle Crociate, la quarta delle quali arrivò ad attaccare e saccheggiare la medesima Costantinopoli (1204) facendola diventare colonia di veneziani e franchi ed avendo come effetto collaterale il trasferimento di migliaia di testi e codici classici in Italia.

L’impero bizantino poco prima della caduta, nel 1355

        Finalmente i turchi da Est, come prima i sassanidi e gli arabi, fecero cadere definitivamente l’Impero nel 1453 (con altra mole di testi classici che si riversò sui mercati europei. La cultura bizantina era quella ereditata dall’ellenismo ma incapace di fare cose nuove. Era e restava isolata sugli allori delle glorie del passato essendo impossibilitata di scambiare conoscenze con chiunque, certamente non con i popoli barbari dell’Est e con gli islamici dell’Oriente (che tra l’altro avevano tutti lingue ed alfabeti radicalmente diversi).

L’Impero bizantino da Giustiniano alla vigilia della caduta.

        In ogni caso, a partire dal VII secolo, saranno i dotti bizantini a trasferire le loro conoscenze ed i loro codici agli umanisti dell’Occidente cristiano. Assai prima però la cultura greca era già stata trasmessa ad un altro popolo, quello arabo che era passato da un periodo iniziale puramente guerresco ad un crescente interesse per studi filosofico-scientifici (VIII secolo). Ed a questo punto la storia mette al centro dell’attenzione questa nuova forza costituita da popoli arabi che si riconoscono in una nuova religione monoteista, l’Islam, che preme da Sud sul Mediterraneo, sui resti dell’Impero romano e sull’Europa in genere.

        Mentre in Occidente la scienza era ridotta a trovare esempi della verità della morale e della religione, a ricavare simbologie che rappresentassero questioni morali (la Luna era paragonata alla Chiesa perché rifletteva la luce di Dio; il vento era l’immagine dello spirito; il numero 11, andando oltre il numero dei comandamenti, era il simbolo del peccato), nell’Oriente, diventato arabo come vedremo, si coltivava, si traduceva e si sviluppava la scienza dei classici greci. Cosicché, col passare dei secoli furono proprio gli arabi che divennero (come dice Koyré) maestri ed educatori dell’Occidente cristiano.

         Alcuni cristiani (i nestoriani) della Persia e di lingua siriaca avevano iniziato importanti lavori di traduzione dal greco al siriaco che, nel frattempo, era diventata la lingua più diffusa dell’area di dominio arabo. Ciò avveniva tra il VI ed il VII secolo. Più tardi, intorno al IX secolo, Damasco e Bagdad divennero i centri di traduzione dal siriaco all’arabo e, sempre più spesso, le traduzioni erano fatte a partire direttamente dal greco. Nel X secolo si può dire che quasi la totalità della produzione dei classici greci era disponibile in lingua araba.

        Questo è il quadro del tutto generale dentro il quale andrò ad indagare gli sviluppi del pensiero che più interessano chi si occupa di scienza.

2 – LA CRISI DELLA SCIENZA ELLENISTICA
    

        All’inizio del primo paragrafo dicevo che verso la fine del II secolo si assiste ad una generale decadenza delle scienze. Già agli inizi del periodo imperiale si erano avuti sintomi in tal senso. Non vi era stato uno sviluppo di nuove ricerche e/o teorie ma solo l’interesse per quanto antiche elaborazioni avevano realizzato. Lo stesso metodo scientifico era stato rifiutato in un modo ben descritto dalla filosofia scettica della quale Sesto Empirico (II secolo) era un rappresentante. Nel suo Contro i matematici, così scriveva il nostro: 

Se esiste qualche maqhma (leggi: matema), su quattro cose bisogna accordarsi: l’oggetto dell’insegnamento, chi insegna, chi apprende e il metodo di insegnamento. Ma, come mostreremo, non esistono né l’oggetto insegnato, né !’insegnante, né chi apprende, né il metodo di insegnamento; non vi è quindi alcun maqhma. 

Ecco un argomento sull’inesistenza dell’oggetto dell’insegnamento:

Poiché le cose o sono corporee o sono incorporee. gli oggetti dell’insegnamento, se sono qualcosa, debbono essere o corporei o incorporei […]. Ora gli oggetti corporei, soprattutto secondo gli Stoici, non possono essere insegnati; infatti ogni oggetto di insegnamento è un lektó(leggi: lektón), ma un corpo non è un lektón e quindi non può essere insegnato. […]

Né lo può essere l’incorporeo […] giacché alcuni affermano che tali cose esistono, altri che non esistono, mentre altri ancora sospendono il giudizio […].

Lucio Russo commenta come segue:

I lekta (leggi lektà che letteralmente vuol dire i dicibili, ossia i signifieati) che per gli Stoici erano il solo possibile oggetto di insegnamento sono evidentemente strumenti concettuali. In epoca imperiale, essendosi perduto il concetto di modello teorico, tali enti erano concepibili solo come oggetti reali; l’alternativa tra “enti corporei” ed “enti incorporei” diveniva così ineludibile. Alcuni di tali enti furono effettivamente materializzati, come accadde nel caso delle sfere celesti di cristallo che sostituirono le sfere di Eudosso di Cnido e gli epicicli di Apollonio di Perge. Analogamente i “raggi visuali” dell’ottica riacquistarono la natura di oggetti fisici emessi dagli occhi, che avevano perduto nella teoria euclidea. Questa nuova interpretazione è già presente in una prefazione all’Ottica di Euclide (risalente forse al IV secolo d.C.) che è premessa all’opera nei manoscritti che ne riportano l’edizione usualmente attribuita a Teone. Ad altri enti, come a quelli della geometria, fu assegnata una realtà incorporea, respingendo la geometria nell’ambito della concezione platonica che la matematica ellenistica aveva superato.

Quali furono allora le cause della crisi della scienza?

Secondo alcuni storici di prestigio sembrerebbe che tutto sia da far risalire alla straripante autorità di Aristotele che quasi paralizzò ogni sviluppo visto che questi aveva trattato ogni campo dello scibile in modo esaustivo. Una sorta di paralisi era stata prodotta dai suoi lavori, un qualcosa di analogo a ciò che provocherà 1500 anni dopo l’opera di Newton. Ma la stessa opera di Aristotele pone un qualche dubbio sul cambiamento di clima: mentre essa si era potuta sviluppare senza alcun riguardo verso testi precedenti, con Aristotele inizia questo riguardo che, appunto, indica che qualcosa nel clima generale culturale si è modificato.

        Continua Lucio Russo:

Il livello della scienza dei primi due secoli della nostra era, per quanto basso rispetto a quello del primo ellenismo, è molto alto se misurato con il metro dei periodi successivi. In alcuni casi, come in quello della Collezione di Pappo, del IV secolo d.C., la qualità dei risultati esposti è ancora molto alta; non si tratta però di opere originali ma, appunto, di collezioni di risultati precedenti, la cui importanza è dovuta alla perdita delle fonti. Il livello scientifico di Pappo può essere valutato quando i suoi contributi possono essere esaminati insieme alla fonte, come nel caso del suo commento all’Almagesto; diviene allora chiaro che non si tratta di un vero scienziato, ma di una persona dotata di scarsa autonomia intellettuale.
Sesto Empirico critica aspramente il metodo scientifico, in cui non crede. Egli è però ancora un esponente della stessa cultura cui erano appartenuti gli scienziati e i filosofi contro cui polemizza; Sesto è in grado di leggere le loro opere e di usare contro di loro argomenti che sono espressi nel linguaggio razionale dell’antica filosofia. Non a caso l’opera di Sesto Empirico è, tra l’altro, una delle principali fonti utilizzabili per ricostruire la logica proposizionale e la semantica.
Successivamente in quelli che erano stati i centri dell’ellenismo prendono definitivamente il sopravvento correnti irrazionalistiche. Le conoscenze chimiche, contaminate da elementi magico-religiosi, danno origine all’alchimia e le conoscenze astronomiche sopravvissute vengono usate come linguaggio utile per la formulazione degli oroscopi. La scienza è sopraffatta dalle nuove pseudoscienze, che, almeno dal punto di vista dell’interesse del pubblico, da allora non hanno più ceduto la loro posizione di predominio.
La filosofia ellenistica è ormai divenuta incomprensibile e l’interesse si rivolge verso autori sempre più lontani nel tempo: all’interesse per Aristotele e per Platone, che era iniziato a formarsi nel I secolo a.c., si aggiunge e si sovrappone l’interesse per Pitagora. Grazie al ritorno alla numerologia pitagorica propugnato dai neopitagorici, anche la matematica è inserita in un ambito di pensiero dominato dall’irrazionalismo. […]
Anche le contaminazioni di antiche tradizioni con residui scientifici finirono con l’avere vita difficile e ogni residuo dell’antica cultura fu infine distrutto. Il Serapeo, che era stato la prima biblioteca pubblica, fu fatto demolire dal patriarca di Alessandria, Teofilo, nel 391. Nel 415, come abbiamo già ricordato, Ipazia, ultima commentatrice di opere scientifiche ad Alessandria, fu linciata.

        Russo ci informa quindi di elementi magico-religiosi che si inseriscono negli ampi spazi vuoti lasciati dalla razionalità scientifica. Per quanto si conosce di storia dell’umanità è sempre stato così. Quando c’è un decadere dell’economia e quindi di un dato livello di benessere si ha anche il decadere di una delle strutture di sostegno dell’economia che è la scienza con la tecnologia ad essa strettamente legata. A questo fenomeno si accompagna in modo salvifico il ricorso ad enti sovrannaturali, alla metafisica, alla religione. E non a caso, la religione, sempre esistita, ed ora intesa come bisogno, acquista in quest’epoca di decadenza un’importanza sempre maggiore situandosi al centro della scena della storia, in luogo proprio della scienza e della cultura che era stata dell’ellenismo. Di fronte a guerre, catastrofi naturali, epidemie la ricerca si indirizza verso la salvezza (intesa brutalmente come salvezza personale e materiale) e chi predica la salvezza, anche con altri significati, vince su chi crede di poter rivolgersi alla forza della ragione per capire ed intervenire per modificare.

        Politicamente vi era stata nel II secolo dell’Impero di Roma la dinastia degli Antonini, in qualche modo definibile illuminista e comunque contraria all’invasione delle pratiche magiche importate dall’Egitto (i misteri) e dall’Oriente  (oracoli caldei). Ma proprio in quest’epoca, con un sempre maggiore distacco tra il potere ed il comune sentire, il predominio della magia divenne più forte fino a potersi parlare di fanatismo religioso delle popolazioni che portò ad una concezione di un impero che poteva continuare ad esistere solo se veniva garantita la pax deorum. Da un lato il culto dell’imperatore vivente andava decadendo, dall’altro lato restava il culto sacrale dell’impero ed anche se ufficialmente il titolo di dominus per l’imperatore era da questi rifiutato, nella pratica diventa d’uso corrente proprio sull’onda della filosofia stoica che era silenziosamente ma prepotentemente entrata nella cultura dell’impero. A lato di ciò, come già accennato, nella vita dei cittadini le prime gravi difficoltà finanziarie si fanno avanti dovunque con richieste di sempre maggiori interventi dal centro. I barbari iniziano a premere e forzare le frontiere. E agli inizi del IV secolo prima i Visigoti di Alarico fecero razzie nell’intera penisola, con il saccheggio di Roma (410), poi gli Unni con Attila … Anche fenomeni naturali si sovrapposero a ciò: carestie, pestilenze, alluvioni e terremoti spaventarono le popolazioni pagane provocando panico, ricerca di soluzioni metafisiche, l’individuazione del colpevole. In questo clima si avanzava la religione cristiana, messa ai margini fino alla morte di Marco Aurelio, proprio perché individuata come quel colpevole delle sciagure che incombevano sull’Impero, ma recuperata da Commodo (e proseguita sotto i Severi fino a Valeriano, con brevi interruzioni persecutorie iniziate verso la metà del III secolo e conclusesi con Diocleziano all’inizio del IV secolo) con l’inserimento di suoi esponenti nell’amministrazione pubblica e con un riconoscimento di fatto anche se non di diritto. Dietro questo atteggiamento vi è il tentativo da parte dell’autorità imperiale di recuperare, in cambio della tolleranza, la collaborazione della forte minoranza cristiana a difesa della sorti dell’Impero medesimo anche con il loro inserimento nell’esercito.

3 – L’AFFERMAZIONE DEL CRISTIANESIMO

        La vittoriosa diffusione del cristianesimo va anche collegata al fatto che il movimento portatore di esso fu in grado di soddisfare meglio di ogni altro indirizzo filosofico e religioso dell’epoca quel bisogno di religiosità che esplose in tutta l’area del Mediterraneo e del quale dicevo nel paragrafo precedente(1). Vi erano evidentemente della grandi novità rispetto al resto delle offerte e, tra queste, emergeva l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a dio, la non discriminazione dei sessi, il rifiuto della schiavitù, la realizzazione del regno dei cieli sulla Terra in tempi brevi. La struttura di fondo di questa religione, all’inizio confusa ma piena di eventi magici come i miracoli, era ricavata innanzitutto dall’ebraismo con inserimenti di religioni orientali tra cui in modo particolare il culto di Mitra(2) ma anche quelli di Dioniso, di Cibele, di Baal, di Zoroastro.

        Il riconoscimento ufficiale del Cristianesimo da parte di Costantino il Grande era comunque il riconoscimento di vari movimenti religiosi che si rifacevano a Cristo ma che in comune avevano molto poco, oltre ai testi ritenuti allora sacri ma dopo una cernita tra innumerevoli fioriture fantastiche (il Vecchio testamento integrato con il Nuovo testamento, gli Atti degli Apostoli, l’Apocalisse, le Lettere degli apostoli e poco più) già interpretati comunque in modi del tutto differenti. Fu Costantino che costrinse le varie chiese cristiane a convergere in un Concilio che stabilisse la cornice principale di un movimento religioso unico, a partire dalla lotta a quelle che già allora furono valutate come eresie. La principale tra queste, per combattere la quale Costantino convocò e presiedette il Concilio di Nicea nel 325, era quella del diacono Ario secondo il quale il Figlio era subordinato al Padre risultando una divinità secondaria. La condanna dell’arianesimo che si ebbe era di capitale importanza anche per l’Impero perché le teorie di Ario mettevano in predicato il dogma della Trinità al quale tanto teneva lo stesso Costantino per non creare fratture importanti con varie altre religioni di diversa provenienza(3). In qualche modo quel Concilio stabilì un primo corpo di regole e norme che dovevano fare da direttrici per i cristiani e può essere preso come riferimento di una svolta importante che trasformò la religione cristiana in filosofia cristiana con la conseguente impellente necessità di confrontarsi con il pensiero latino e soprattutto con la filosofia dei classici greci. Ed è qui che nasce un problema storico mai risolto davvero se non negli imbrogli dialettici di teologi e papi, quello del rapporto tra fede e ragione. A tale proposito scrive Geymonat:

Vi è innanzi tutto l’aspetto teoretico che si accentra sul rapporto tra fede e ragione, cioè fra l’accettazione di una verità non perché dimostrata o dimostrabile ma semplicemente perché «rivelata», e la spiegazione di essa attraverso un processo razionale filosofico o scientifico (imperfetto, forse, ma comunque perfettibile). I pericoli qui presenti erano due: da un lato, quello di attribuire un eccessivo peso alla razionalità, cioè di assorbire la fede nella ragione (riconoscendole un proprio specifico compito solo per le persone incapaci di elevarsi ai gradi più alti della ragione), il che avrebbe rappresentato il dissolvimento della funzione fondamentale riconosciuta dal cristianesimo alla fede; dall’altro, la contrapposizione pura e semplice della fede alla ragione (credo quia absurdum), il che avrebbe rappresentato la rottura completa con la tradizione della filosofia greca e la possibilità di assorbirne – sia pure solo in parte – i preziosi insegnamenti nel patrimonio della cultura cristiana. Vedremo che, oscillando fra questi due estremi, i pensatori cristiani cercarono varie formule conciliative che consentissero loro di mantener vivi entrambi gli atteggiamenti.
Particolarmente delicati furono, a tale riguardo, i rapporti con l’immanentismo neoplatonico, proprio perché esso – con la sua teoria delle emanazioni dell’uno – pareva offrire la chiave per la comprensione dei più difficili misteri cristiani come quello della trinità. Non è possibile interpretare il logos cristiano (il verbo fatto uomo in Cristo) come analogo all’intelletto di Plotino ? Il pericolo, insito in questa interpretazione, è che essa ci conduca a riconoscere nel logos una divinità inferiore, lasciando il dio supremo in una posizione di assoluta trascendenza rispetto al mondo. La subordinazione del figlio al padre fu sostenuta, come si è visto, da Ario, e tenacemente combattuta dagli «ortodossi» che videro in essa un subdolo abbandono del più prezioso insegnamento cristiano.

        Questa situazione non nasceva dal nulla. Era accompagnata da un paio di altre vicende storiche di grande importanza. La prima era il disinteresse dei romani, che già ho discusso altrove, per ogni astratta speculazione ed elaborazione scientifica in cui si dilettavano i filosofi naturali greci ed ellenisti. L’interesse di Roma era pratico: agire e non speculare. Per il cristianesimo che si sviluppava in terre italiche questa posizione sembrava la più naturale. La seconda vicenda storica era più pratica e riguardava la separazione dell’Impero con la conseguente separazione linguistica. Dalle parti dell’Impero d’Occidente (la metà latina del mondo romano) la lingua dominante era il latino e non il greco, la lingua di tutti i classici e gli scienziati greci che era dell’Impero d’Oriente (la metà greca ed ellenistica del mondo romano). Senza questo strumento si era praticamente tagliati fuori dalla conoscenza dei grandi sviluppi scientifici ellenistici. A queste considerazioni ed a quanto detto da Geymonat, Boas e Boas Hall aggiungono quanto segue:

Nessuna meraviglia, allora, che i Padri latini della chiesa cristiana fossero anch’essi contrari alla speculazione scientifica. Nei primi tre secoli dell’era cristiana, quando l’impero romano sembrava esser cosi forte, era già diffuso uno spirito completamente alleno dalla ricerca intellettuale, uno spirito di misticismo e di disperazione. Fin dal primo secolo dopo Cristo, durante il regno del grande imperatore Augusto, alcuni romani andavano profetizzando che la grande decadenza delle antiche virtù romane avrebbe significato la morte e lo sfacelo di tutto il mondo. Questa è una concezione non insolita per una aristocrazia spodestata. La particolarità del caso romano è la diffusione che questa concezione ebbe. Questo fu il clima che alimentò la crescita di numerose religioni misteriche (il cui scopo era la salvezza dell’anima nella vita ultra terrena attraverso l’iniziazione in un gruppo segreto e ristretto). Per i romani il cristianesimo fu soltanto una di queste religioni che andavano dal manicheismo – con la sua visione dell’eterna lotta tra il bene e il male – all’alchimia, che cercava la salvezza attraverso mistiche procedure di natura chimica, sorta in Alessandria attorno al primo secolo dopo Cristo. La maniera per raggiungere la tranquillità d’animo non fu più considerata il vivere in armonia con la società, ma il vivere in maniera tale che la propria anima potesse trovare la felicità eterna nella vita ultraterrena. La ragione non poteva esser d’aiuto, soltanto la fede; di qui l’affermazione di Tertulliano «credo perché assurdo» [il credo quia absurdum incontrato nella precedente citazione di Geymonat, ndr], cioè razionalmente assurdo. Sant’Agostino, il più colto di tutti i Padri latini della chiesa, riconosceva che l’intelletto era una trappola poiché la ragione non lo portava a credere, e soltanto abbandonando la ragione per la fede avrebbe trovato la salvezza. Egli concepiva soltanto un minimo di scienza, come aiuto nell’interpretazione della Bibbia, dati i suoi riferimenti alla storia naturale del Levante, una rozza astronomia come aiuto per il calcolo del calendario ecclesiastico e un platonismo stemperato per aiutare a comprendere la perfezione divina.
L’accusa nei confronti della ragione fu più comune tra i Padri della chiesa latini che non tra i Padri della chiesa greci (sebbene non fosse ignota anche all’Est). Questo è da attribuirsi soprattutto alla differenza del clima intellettuale tra la parte orientale dell’impero e quella occidentale. Mentre infatti la parte occidentale produceva enciclopedie di livello sempre più basso, ognuna più lontana della precedente dalle fonti originali, l’oriente produsse opere di livello piuttosto elevato. Non è che il mondo greco sfuggisse totalmente allo spirito di declino. Sia Erone nel primo secolo dopo Cristo che Tolomeo nel secolo successivo, lo riconobbero abbastanza esplicitamente, commentando con tristezza che essi non potevano evidentemente essere dei grandi pensatori, ma che doveva nondimeno esser possibile produrre qualcosa di ignoto «agli antichi», cioè i greci del quarto, terzo e secondo secolo avanti Cristo, già considerati come fonti di ogni scienza. Che una mente cosi potente come quella di Tolomeo potesse ragionare in questa maniera, è una dimostrazione del carattere dei tempi.
L’incapacità di credere nella possibilità del sorgere di nuove idee condusse a risultati utili, sotto forma di storie e commenti, di valore inestimabile per noi. Pappo (c. 300 d. C.) compilò una Collezione matematica, resoconto sistematico della matematica e della meccanica più elevate, con alcuni contributi originali, e Proclo (410-485), che insegnò nell’Accademia ad Atene, scrisse un commento su Euclide, un misto di storia e filosofia della matematica con analisi di problemi matematici. Proclo fu anche l’autore degli Elementi delle ipotesi astronomiche, che è un’introduzione alle opere di Ipparco e di Tolomeo, con interessanti dettagli matematici. Il più importante di questi tardi commenti  sebbene tutti dovessero essere di immenso valore nel conservare il pensiero greco a beneficio degli studiosi medievali e del Rinascimento – furono quelli sulle opere di Aristotele. I trattati di Aristotele, come noi oggi li conosciamo, rimasero in mani private fino al primo secolo avanti Cristo, quando furono curati e pubblicati, proprio nel periodo in cui andava emergendo l’idea che la scienza giacesse nel passato.
Apparvero moltissimi commenti. I più importanti furono quelli scritti nel sesto secolo dopo Cristo da Simplicio e da Giovanni Filopono. Il commento di Simplicio fu letto moltissimo nell’Europa dei secoli XIII e XIV, e le sue opinioni su ciò che intendesse Aristotele furono spesso accolte come assolutamente autorevoli. Egli produsse anche una dettagliata trattazione del sistema astronomico a sfere concentriche e registrò lo sviluppo storico di vari aspetti della scienza aristotelica. Filopono fu più originale e meno incline di Simplicio a seguire Aristotele. Le sue opere furono meno ben conosciute, ma le sue idee sul movimento ebbero (forse indirettamente) una profonda influenza sulla fisica del tardo Medio Evo [ricordo che Filopono sviluppò la teoria dell’impeto, ndr]. […]
Fu un evento veramente fortunato che lo spirito scientifico sia rimasto vivo tra i greci della parte orientale dell’impero romano – la regione destinata in breve ad essere conosciuta come l’impero bizantino. Sebbene l’antica gloria della scienza avesse le sue radici nel lontano passato, la tradizione rimase viva. Il profondo rispetto per «gli antichi» che impediva di portare contributi nuovi, portò a preservare la conoscenza del passato. Dovevano passare molti secoli prima che gli scienziati, in una qualsiasi parte del mondo, potessero portare qualche grande contributo alla scienza o ristabilire la tradizione di progresso scientifico. Ma gli scienziati greci dell’era cristiana avevano garantito la conservazione della conoscenza, rinchiusa senza dubbio nell’idioma greco, ma disponibile per chiunque desiderasse sufficientemente fare lo sforzo di tradurla.

        La nuova visione filosofica che si accompagnò con il cristianesimo ebbe grandi ed a mio giudizio gravi conseguenze. Il cristiano dovrebbe innanzitutto preoccuparsi della sua salvezza e per questa ragione non dovrebbe desiderare la ricerca dei segreti della natura più a fondo di quanto lo richieda e soprattutto lo permettano le Scritture. Qui si parla di cristianesimo perché è la religione che poi divenne filosofia che interessò l’Europa e quindi è quella che interagì fortemente con altri sviluppi e particolarmente con quello del pensiero scientifico. Parlare di religione è parlare di un corpo di credenze, che non sono frutto di ricerca, a cui l’uomo aderisce come una rivelazione e quindi è l’accettazione di una verità frutto di una testimonianza superiore. Questo è quanto lo stesso Gesù disse ai farisei che gli dicevano che egli testimoniava solo se stesso e quindi era portatore di una testimonianza non valida. La risposta di Gesù fu che egli testimoniava il Padre (Giovanni, VIII, 13 e 16). Quindi accettazione di un discorso circolare che proviene dall’alto, da una autorità superiore non discutibile, che esclude completamente la ricerca che ritorna solo come esigenza filosofica, in senso teologico, della giustificazione dei singoli passi della suddetta accettazione fino alla (impossibile o quasi) comprensione da parte dell’uomo della verità rivelata da Gesù che dovrà comprendere in sé il significato profondo. Come operare in modo che questo scopo possa essere raggiunto nel modo più efficace ? Con gli strumenti della filosofia greca che viene presa ed utilizzata, per ciò che serviva, dai vari pensatori cristiani delle origini. La ragione è quindi esclusa perché la filosofia deve solo aiutare a comprendere una cosa già data ed immodificabile con una Chiesa che, definendo i dogmi, chiude con recinti lo spazio di manovra della filosofia medesima che, per sua definizione, era libera di spaziare autonomamente definendo termini e significato delle sue problematiche qui invece già date. In definitiva la libera filosofia dei classici greci è piegata e snaturata per dimostrare una tesi preesistente ed immodificabile. Ma vi fu anche un altro effetto perverso molto più profondo. Il cristianesimo che diventava filosofia si presentò come il continuatore di quella filosofia che aveva snaturato e come il massimo compimento di essa Il primo Padre latino ed apologista che portò avanti questa tesi fu Giustino nel II secolo (anche se questa posizione sarà discussa dai Padri che vennero dopo perché ritenuta troppo semplicistica). Quasi si fosse cercata una verità nei secoli precedenti, questa verità era ora data. La continuità era garantita dall’unità del logos (con il significato anche di Verbo divino), cioè della ragione, che Dio aveva dato agli uomini tutti (ai filosofi pagani, ai profeti ebrei ed ai cristiani), lo stesso Dio che ora ancorava questo logos alla rivelazione garantendone un sicuro fondamento. In tal modo la filosofia e la religione diventavano un tutt’uno. Qualunque attività, anche la scientifica, per poter espletarsi ha bisogno dell’autorità della Rivelazione nei riguardi dell’intelletto umano. Ed anche l’unità di filosofia e religione non è discutibile, rientra quasi nei dati incontrovertibili ed i vari pensatori cristiani lo daranno come un qualcosa di ovvio e quindi da non discutere. Il problema, semmai, nasceva per i non cristiani.

        Tutto questo groviglio di problematiche fu all’inizio del pensiero cristiano e fu compito dei  cosiddetti Padri latini (o della Chiesa) il districarlo in vari secoli. Di questo mi occuperò ora ricercando nelle elaborazioni di tali Padri quanto d’interesse risulti per la scienza.

4 – LA PATRISTICA



         Per costruire il nucleo delle teorie della rivelazione ritenute buone, le ortodosse, e separarle dalla grande quantità di quelle in contrasto con esse, le eterodosse prima ed eretiche poi, occorsero infinite discussioni combattute a fil di logica con lo sfoggio del massimo di teologia che utilizzava il patrimonio dialettico della filosofia classica. Servirono diversi concili che via via enuclearono i dogmi del cristianesimo a partire da un terreno molto complesso, quello in cui tali dogmi non esistevano. Essi ancora non esistevano come obblighi per tutti i cristiani così come non erano mai esistiti come un qualcosa di fisso ed universalmente accettato nella religione greca ed ellenistica tanto che la scienza poteva tranquillamente crescere con sue proprie leggi intrinseche senza essere costretta a riconoscere alcuna autorità al di fuori di quella della ragione indipendente. La prima definizione dei dogmi fondamentali della Chiesa richiese qualche secolo ed ebbe termine intorno alla metà del V secolo. Questo periodo va sotto il nome di patristica. Ad esso alcuni storici aggiungono altri tre secoli, la tarda patristica, fino ad arrivare alla fondazione del Sacro Romano Impero con Carlo Magno (789). A questo punto, con la maggior parte dei dogmi definiti, il compito dei pensatori cristiani non sarà più concentrato nelle definizioni ma nel dare giustificazioni razionali attraverso complesse costruzioni filosofiche del dogma cristiano. Tale periodo, del quale ci siamo già occupati, prende il nome di scolastica e si protrarrà fino al Cinquecento, all’umanesimo.

        Non è questa la sede per entrare in tutte le controversie tra cristiani ed in tutte le polemiche, gli attacchi e le difese con i non cristiani. Cercherò di cogliere alcuni aspetti salienti del dibattito generale ricercando i dettagli della considerazione della ragione, svincolata dai dogmi della fede, in tali dibattiti.

        Il primo problema che si presentò ai cristiani nel cercare la continuità con la filosofia greca fu quello della gnosi (parola che vuol dire conoscenza) pagana di derivazione pitagorica. In ambito cristiano questa parola cambiò di senso non significando più la conoscenza nel suo significato più ampio, cioè conoscenza pura, ma solo la conoscenza collegata alla fede(4). Gli gnostici (Valentino, Saturnilo, Basilide, Carpocrate, Bardesane – e per certi versi anche Marcione che divenne in seguito un sostenitore del proseguimento sulla strada aperta da Gesù – tutti del II secolo) furono i primi pensatori che tentarono di costruire un sistema filosofico del cristianesimo partendo dal presupposto che la salvezza può passare solo per la via della conoscenza. Ma l’essere cristiano e ricercare la conoscenza, già allora e con diatribe tutte interne al cristianesimo, creò gravi problemi. Gli gnostici lavorarono con gran lena per trovare ogni possibile combinazione tra dati della fede e dati della conoscenza. La ricerca non era finalizzata ad un mero confronto ma ad una reale integrazione in sintesi unitarie. Ciò che ne venne fuori fu qualcosa di straordinario (Geymonat parla di quadro fantasmagorico) che mescolava elementi cristiani, orientali, mitici, neoplatonici in un qualcosa di molto confuso e privo di rigore sistematico e che prevedeva un Dio da cui venivano emesse varie entità divine (gli eoni) con la funzione di intermediarie tra di Lui ed il mondo. Tra gli eoni vi era anche quello del Vecchio Testamento, un essere malvagio che aveva creato e ordinato il mondo terreno e materiale. Questa immagine serve agli gnostici per rendere conto della presenza del male nel mondo, male dovuto ad una caduta iniziale, responsabile anche dell’esistenza della materia, molto più grande della semplice caduta del peccato originale. Dal male l’uomo si può liberare perché egli ha in sé parte di natura divina ma gli occorre l’intervento di un eone buono, Gesù, che lo renderebbe partecipe della conoscenza necessaria alla salvezza (diventerebbe così un iniziato). Vi è qui un abbozzo di teoria filosofica che però si scontra con i dogmi di quanto la medesima teoria vorrebbe spiegare. Gesù ha qui la funzione di un eone, una sottospecie di divinità. Gesù, essendo un eone, è incorporeo e quindi chi lo ha visto ha avuto a che fare con una gigantesca illusione. Gesù ed il Dio creatore sono due eoni addirittura con finalità opposte. Vi è quindi completa discordanza con la dottrina cristiana ed anche se questa concezione mistica è appunto fantasmagorica ad essa va il merito di aver posto un problema che presto diventerà centrale nel dibattito, quello del male che, come accennato in nota 3, verrà ripreso con forza dal manicheismo. In ogni caso lo gnosticismo si diffonde rapidamente negli ambienti più diversi (pagani, ebraici, cristiani, greci,  barbari, …). Dovunque sorgono spiegazioni misteriose della creazione, discendenti da messaggi rivelati in segreto ad alcuni eletti da parte del dio o del profeta (l’ermetismo di Hermes Trismegisto di cui parlo in nota 6 è uno dei prodotti di tale modo di intendere le cose. Fu comunque questo approccio alla conoscenza (?) che permise il diffondersi dell’occultismo, dell’astrologia, dell’alchimia, della magia. Quest’ultima, in particolare, era sempre stata praticata in clandestinità, soprattutto tra gli ignoranti ma nei primi secoli del cristianesimo emerge alla luce del sole conquistando l’ambiente cosiddetto colto. I taumaturghi poi la facevano da padroni arricchendosi a più non posso. La filosofia, lo strumento del conoscere per eccellenza, non seppe reagire a queste ondate antirazionali. Si assiste al sostituirsi dello sforzo per stabilire le leggi e capire i fenomeni, alla ricerca di cause misteriose e soprannaturali agenti a distanza).

        Prima di lasciare lo gnosticismo pagano leggiamo da Jonas le loro concezioni cosmologiche, osservando che la cosmologia (con la sua ancella astronomia) è sempre stata un elemento di ogni religione per i suoi più vari significati rapportabili sia alla creazione che all’agricoltura che agli oroscopi:

L’universo, il dominio degli Arconti, è come una vasta prigione la cui cavità più interna è la terra, lo scenario della vita dell’uomo. Intorno e al di sopra di esso le sfere cosmiche sono disposte in orbite concentriche che lo racchiudono. Più spesso vi sono le sette sfere dei pianeti circondati dall’ ottava, quella delle stelle fisse. Ci fu tuttavia una tendenza a moltiplicare le strutture e costruire schemi sempre più estesi: Basilide contava non meno di 365 «cieli». Il significato religioso di questa architettura cosmica sta nell’idea che tutto quello che si frappone tra qui e l’aldilà serve a separare l’uomo da Dio, non soltanto per la distanza spaziale ma per le forze attive demoniache. Perciò la vastità e la molteplicità del sistema cosmico esprime il grado di separazione dell’uomo da Dio.
Le sfere sono i seggi degli Arconti, specialmente dei «Sette », ossia degli dèi planetari presi a prestito dal pantheon babilonese. È significativo che questi sono spesso chiamati, ora, mediante i nomi che l’Antico Testamento usa per Dio (Iao, Sabaoth, Adonai, Elohim, El Shaddai), i quali non sono più sinonimi dell’unico e supremo Dio, ma sono divenuti per tale trasposizione i nomi propri di esseri demoniaci inferiori: un esempio della rivalutazione peggiorativa alla quale lo gnosticismo ha sottoposto le antiche tradizioni in genere e la tradizione giudaica in specie.
Gli Arconti governano collettivamente sul mondo, e ciascuno individualmente nella sua sfera è un guardiano della prigione cosmica. Il loro tirannico governo del mondo è chiamato heimarméne, Fato universale, concetto preso dall’ astrologia ma colorito ora di spirito gnostico anticosmico. Nel suo aspetto fisico questo governo è la legge di natura; nel suo aspetto psichico, che include per esempio l’istituzione e l’approvazione della Legge mosaica, mira all’asservimento dell’uomo. Come guardiano della propria sfera, ciascun Arconte sbarra il passaggio alle anime che cercano di ascendere dopo la morte, allo scopo di impedirne la fuga dal mondo e il ritorno a Dio. Gli Arconti sono anche i creatori del mondo, tranne quando questa funzione è riservata al loro capo, il quale allora prende il nome di demiurgo (l’artefice del mondo nel Timeo di Platone) ed è spesso dipinto coi lineamenti alterati del Dio dell’ Antico Testamento.

        E’ evidente che agli gnostici, detti pagani, corrispose una reazione piuttosto dura da parte di altri cristiani, tra cui Ireneo da Lione (130-202) ed Ippolito di Roma (170-235).

        Ireneo, che ha il merito di aversi fatto conoscere il pensiero gnostico attraverso le sue confutazioni, sosteneva che vi è un’unica e vera gnosi, quella che è stata tramandata dagli Apostoli della Chiesa che, contrariamente a quella eretica non vuole elevarsi al di sopra delle possibilità dell’uomo. Dio non è discutibile perché non è intellegibile, essendo al di sopra di ogni possibilità umana di comprensione. E’ meglio non cercare di sapere nulla su di Lui con vane ricerche ma credervi ed amarlo. Solo la rivelazione ci dice qualcosa di modo che noi possiamo conoscere Dio solo attraverso Dio, ma oltre non è lecito andare soprattutto non è lecito bestemmiare con un Dio che non avrebbe creato essendosi servito di intermediari e di un Cristo sottomesso al Dio, allo stesso modo del Logos o Spirito Santo. Cristo è subordinato al Padre in quanto strumento della rivelazione divina, ma solo in tal senso e non per la sua essenza. Riguardo poi al bene ed al male le cose sono abbastanza semplici: il bene è credere in Dio ed obbedirgli mentre il male è negare Dio o disobbedirgli. Il bene porta all’immortalità dell’anima che Dio concede perché non è un qualcosa di connaturato ad essa mentre il male è punito da Dio con la morte eterna. Vi sarà poi la resurrezione di tutti i corpi con la nuova venuta di Cristo che si avrà dopo il regno dell’Anticristo.

        Ippolito fu allievo di Ireneo e fu uno dei primi antipapi della Storia. Egli si scagliò contro Papa Callisto (217-222) perché riammetteva nella Chiesa delle comunità eretiche e perché assegnava quasi l’intera redenzione al Padre, non sufficientemente distinto dal Logos, trascurando il Figlio che è persona diversa dal Padre anche se costituiscono una sola potenza. Secondo Ippolito il Logos era subordinato al Padre come la luce è subordinata alla fonte luminosa ed il Logos è l’intermediario di cui il Padre si servì per la creazione. E’ d’interesse notare quindi che oltre al padre ed al Figlio vi è l’ammissione dello Spirito Santo (Il Padre comanda, il Figlio ubbidisce, lo Spirito Santo illumina; il Padre è sopra tutto, il figlio è per  tutto, lo Spirito Santo è in tutto). I suoi attacchi agli gnostici sono fondati sul fatto che costoro non prenderebbero le mosse dal cristianesimo ma da pensatori pagani.

        Diverso da questo duro attacco fu l’atteggiamento di altri pensatori cristiani dell’Oriente, come Clemente Alessandrino (circa 150 – circa 215) ed Origene di Alessandria (185 – 254), che pur criticando le posizione degli gnostici pagani tentarono di prendere da loro e di tramutare in cose digeribili per il cristianesimo molte loro idee, atteggiamenti e concezioni. Costoro sono spesso definiti come gnostici cristiani.

        Per Clemente la conoscenza è la più alta vetta cui l’uomo possa aspirare e la fede è la conoscenza sommaria delle verità indispensabili all’uomo ma la fede è anche l’unica via per arrivare alla conoscenza. Allo stesso modo che la scienza prevede preliminarmente la conoscenza dei fondamenti, la gnosi prevede preliminarmente la fede. Lo strumento che permette il passaggio da fede a conoscenza è la filosofia. I filosofi hanno detto moltissime cose in passato ed hanno mescolato molte concezioni vere con molte cose false. E’ la fede che permette di discernere il vero dal falso e la filosofia, in tal senso, è ancella della fede. Questa è la gnosi cristiana che si distingue dalla falsa gnosi degli gnostici pagani per il fatto che questi ultimi ammettevano che fosse la fede ancella della filosofia, in quanto sostenevano che la conoscenza avesse il primato su tutto. In questa visione Gesù è il Maestro di un’educazione progressiva alla salvezza che è compito del cristianesimo. E questa posizione che sarà centrale in Origene avrà grande importanza per un cristianesimo in crisi di fronte a questo Cristo il cui ritorno era stato promesso come immediato, e che invece non voleva saperne di ritornare. Si trattava di amministrare con la pedagogia di Cristo una salvezza graduale.

        Origene fu colui che mise in piedi il primo sistema filosofico cristiano, sistema accolto inizialmente con entusiasmo e poi condannato come eterodosso(5). Origene non si discostava molto dagli gnostici pagani in alcune delle cose che sosteneva. Egli iniziava a riconoscere agli Apostoli l’aver tramandato con grande chiarezza tutto ciò che c’era da sapere nella forma più semplice, tale da poter essere compresa anche dagli spiriti più lenti. Ma nei loro insegnamenti vi era anche da cogliere le ragioni dei loro insegnamenti e tale scopo era stato riservato agli spiriti superiori, dotati di facoltà superiori, di saggezza, di capacità di parola e di scienza. Siamo quindi di fronte ad un cristianesimo fondamentale per i più semplici ed uno accessorio per gli spiriti più elevati che hanno anche il compito di spiegare il primo ed interpretare il secondo, andando a ricercare i significati reconditi delle Scritture che hanno sempre un significato letterale ed uno allegorico, utilizzando la ragione nel senso che abbiamo visto negli gnostici. Il significato letterale ci fornisce la fede che diventa conoscenza nel passaggio al significato allegorico. E’ quindi evidente il primato della conoscenza che racchiude in sé la fede. Ma le Scritture sono il livello minimo di conoscenza risultando una semplice introduzione ad essa. Al di sopra del Vangelo che ci è stato fornito materialmente vi è un Vangelo eterno che solo a pochi iniziati è dato conoscere. Riguardo alla natura di Dio è da rigettare ogni antropomorfismo ed ogni sentimento terreno riferibile a Dio, così come rappresentato nel Vecchio Testamento. La formazione del mondo sensibile è molto vicina a come la pensavano gli gnostici. Il mondo intellegibile era pieno di sostanze intellettuali o intelligenze incorporee che, essendo create, sono soggette a mutamento e dotate di libero arbitrio. La loro caduta è dovuta alla pigrizia che queste intelligenze hanno mostrato di fronte agli sforzi necessari per praticare il bene che dipendeva esclusivamente dallo loro libera volontà. Quindi la caduta è conseguenza di un libero atto di ribellione a Dio delle intelligenze incorporee (questa cosa era esclusa dagli gnostici che negavano la libertà delle intelligenze). L’unico ad opporsi alla ribellione fu Gesù. La punizione dei ribelli fu l’acquisizione di un’anima rivestita di un corpo, fatto che rappresenta un secondo grado della caduta. Queste anime rivestite da corpi rendono conto della varietà del mondo sensibile perché il corpo è più o meno luminoso o tenebroso a seconda della gravità della ribellione. Vi sono così delle anime che costituiscono le intelligenze eteree, altre gli angeli, altre ancora si rivestono dei corpi umani, le ultime diventano invece diavoli. Il mondo visibile è quindi la caduta e la degenerazione del mondo intellegibile. E’ il Logos che regola il mondo, lo dirige, lo regola e proprio per questo è distinto da Dio risultandone subordinato. Esso è la forza che è in grado di permettere la divinizzazione del mondo penetrando nell’uomo ed operando per ricondurlo alla perfezione originaria. E’ il Logos quindi che permette l’incarnazione ed in particolare è il Logos che rende l’anima ed il corpo di Gesù una unità assoluta, anche se poi la funzione di Gesù sembra non essere più importante allo stesso modo del suo sacrificio e della sua resurrezione. In ogni caso ogni spirito tenderà alla redenzione e quindi a tornare a Dio perché ogni male prevede una punizione che pian piano convincerà gli spiriti alla suddetta redenzione. Ciò comporterà la scomparsa della materia e quindi del male.

        Questi sono i tratti essenziali della formulazione dottrinale del cristianesimo fatta da Origene di ispirazione chiaramente idealista e fondata in gran parte sul platonismo e lo stoicismo innestati al cristianesimo ma con la novità della libertà dell’azione dell’uomo e quindi della sua redenzione non in modo passivo come prevedevano le altre interpretazioni di differenti pensatori cristiani.

        Ancora differente fu la risposta allo gnosticismo da parte dei pensatori cristiani dell’Occidente, come Tertulliano (circa 155 – circa 230) un cartaginese, educato come era costume nei più colti ambienti romani, che si convertì al cristianesimo tra il 193 ed  il 197 per poi passare nel 202 all’eresia montanista (si veda nota 2) per polemizzare con virulenza contro la Chiesa cattolica, allo stesso modo con cui precedentemente aveva attaccato gli eretici ed i pagani. Contrariamente ad Origene la filosofia di Tertulliano è orientata verso il materialismo. Si trova infatti nelle sue opere l’esaltazione dell’esperienza sensibile, del senso contro la dialettica pura, con addirittura una concezione dell’anima dotata di una qualche corporeità allo stesso modo di Dio. Proprio perché mosso da questa esigenza di corporeità Tertulliano dette molta importanza alla resurrezione della carne, garantita da quella di Gesù, che era la cosa più disprezzata dai pensatori greci contro i quali dedicò molto del suo impegno polemico. Il rigetto della dialettica in cui i greci erano maestri, porta Tertulliano a valutare positivamente i sentimenti che per manifestarsi non richiedono entità astratte. Il sentimento porta poi alla fede che è la manifestazione più pura di assenza di razionalità e quindi non richiede alcuna gnosi. La fede quindi esiste, contrariamente alle concezioni gnostiche, proprio in quanto la ragione viene tolta di mezzo. Da qui la frase già citata di Tertulliano: credo quia absurdum. Anche Tertulliano ha una sua filosofia che, ad esempio, prevede una certa subordinazione del Logos al Padre, come in Origene. Ma la filosofia interessa poco al nostro perché gli sembrerebbe di tornare alla pratica del pensiero greco. Al suo posto egli reclama l’azione contro eretici e pagani in difesa della fede. La rivelazione è un concetto molto semplice. Per convincersene basta solo rivolgersi all’anima che è in sé naturalmente cristiana ed anch’essa non può morire, trasferendosi da padre in figlio. Comunque Tertulliano non ha dubbi nel sostenere nel suo Liber de praescriptione haereticorum (c.7, PL II, 20-21) che per noi la curiosità non è più necessaria dopo Gesù Cristo, né la ricerca dopo il Vangelo.

        Manca a questo punto Agostino che tratterò nel prossimo paragrafo ma prima di chiudere questo debbo almeno citare altri pensatori come Gerolamo (347-420), Arnobio (255-327), Ambrogio (circa 335 – 397), Lattanzio(circa 250 – circa 327)   (6), Gregorio di Nissa (335-395), …, che ebbero però un’importanza teologico-filosofica minore e che quindi non tratterò(7). Debbo invece, con l’aiuto di Deschner (1998) dire qualcosa sulla vicenda citata del Concilio di Nicea che ormai si situa in un punto in cui, tra le diversissime posizioni appena accennate tenterà di fare chiarezza in modo autoritario, sotto la direzione di Costantino(8).

        Alcune assemblee di vescovi, i sinodi, si erano fatte in varie parti per cercare di fare un qualche ordine nelll’immensa confusione dottrinale.  L’ultimo di essi, convocato e guidato da Osio di Cordoba nel 324-325 si fece ad Antiochia. In esso si condannò Ario per sostenere la subordinazione del figlio al padre. A tale Sinodo parteciparono 56 persone e le decisioni furono prese da ben pochi fratelli esperti in faccende di fede ecclesiastica.  Esso fu solo una sorta di preludio all’assemblea chiesastica prevista da Costantino in un primo tempo in Ancira (l’odierna Ankara), poi tenuta nel 325 nella sua residenza estiva di Nicea (oggi Iznik, a 130 Km da Istanbul) in Bitinia, nell’Asia Minore nordoccidentale, il primo Concilio ecumenico, vale a dire universale, cui presero parte circa trecento vescovi provenienti da ogni parte del mondo. In verità la massima parte dei delegati proveniva dall’Oriente; l’Occidente fu rappresentato solo da un vescovo gallico, uno calabrese e uno pannonico, inoltre erano presenti il vescovo spagnolo Osio di Cordoba, Ceciliano di Cartagine e due preti romani delegati in rappresentanza del vescovo di Roma Silvestro, che era ammalato. Il livello intellettuale di molti padri sinodali era oltremodo basso; un contemporaneo, sicuramente a torto, parla maliziosamente di un «sinodo di veri e propri cretini».

        La grandissima parte dei chierici cattolici nemmeno oggi ha grande dimestichezza con la teologia storico-critica, ma per altre ragioni. A Nicea, in ogni caso, come già in Antiochia, solo pochi padri sinodali si mostrarono capaci di autonomia di giudizio, ma neppur essi riuscirono a concludere nulla. Da maggio o giugno fino all’agosto ospiti dell’imperatore, restarono impressionati dalla pompa, dalle adulazioni del monarca, da come egli baciava le cicatrici dei martiri e dall’appellativo di «amici» e «amati fratelli», col quale si rivolgeva ai presenti; così il credo niceno fu esattamente la formulazione che l’imperatore voleva: nulla accadde contro la sua volontà.

        Costantino aprì il concilio, intervenne nel dibattito e ne determinò l’andamento. Non furono approntati protocolli oppure essi furono fatti sparire ad opera della Chiesa. Quando gli Ariani lesserò il loro credo, al portavoce fu strappato di mano il foglio e ridotto in mille pezzi, prima ancora che avesse finito.
Oltre la questione ariana, si tentò di regolamentare anche altre questioni che in definitiva riguardavano il portare la concordia nella Chiesa perché una chiesa divisa non gli serviva.

        Assecondando i desiderata imperiali, alla fine ai vescovi venne proposta una formula che non era stata sostenuta da nessuno dei due gruppi contendenti, che affermava l’uguaglianza di sostanza del Figlio col Padre, l’identità di una sostanza divina in entrambe le persone (la cosa era stata già rigettata da un altro Sinodo – Antiochia 268 – e anche nella Bibbia non era prevista). In tal modo furono poste fuori gioco tutte le concezioni subordinazionistiche in relazione al rapporto Padre-Figlio. Da dove proveniva questa idea ? La Chiesa non ce lo ha fatto mai sapere esplicitamente fino agli inizi del Novecento. Da allora sappiamo che l’idea è di derivazione gnostica. Anche il concetto numerico di «triade», che si trova alla base del dogma trinitario, come concetto dogmatico è di derivazione gnostica. Il Valentiniano Teodoto fu il primo cristiano a definire Trias Padre, Figlio e Spirito Santo, mentre la Chiesa non aveva assolutamente inventato nulla di simile nella sua tradizione più antica. E così un imperatore, per giunta neppure battezzato detta dogmi alla chiesa. E questo è solo l’inizio del vero miracolo non di Gesù o Dio ma della Chiesa: la completa distruzione del messaggio del Cristo delle origini. E la Chiesa continuò per secoli ad essere governata da imperatori e, come accennato, nel 381, nel sinodo ecumenico di Costantinopoli, come già accennato, nacque la Trinità come legge dello Stato ed il Credoniceno-costantinopolitano che è una formula di fede relativa all’unicità di Dio, alla natura di Gesù e, implicitamente, alla Trinità (e molte altre cose come raccontato in nota 8). Una invenzione che l’antica comunità cristiana non si sarebbe mai sognata, che non compare nei Vangeli dove semmai il dogma viene contraddetto. A questo primo Concilio seguirono altri concili per sistematizzare via via quanto già acquisito e per codificare nuovi dogmi (il Concilio di Costantinopoli I del 381 in cui si approvò definitivamente il Credoniceno-costantinopolitano  e si vietarono ulteriori modifiche senza il consenso di un concilio ecumenico; il Concilio di Efeso del 431 in cui condannò il nestorianesimo e il pelagianesimo,  e si adottò il titolo di Madre di Dio in riferimento alla madre di Gesù; …).

5 – AGOSTINO D’IPPONA       


        Agostino (354 – 430) si situa nell’Occidente cristiano essendo nato a Tagaste, nell’Africa romana e la sua opera viene elaborata dopo le decisioni dei Concili di Nicea e Costantinopoli. Iniziò da giovane (374) con l’aderire al manicheismo, passò quindi attraverso lo scetticismo, il platonismo ed il neoplatonismo, prima di convertirsi al cristianesimo a Milano, nel 387, sotto la guida di Ambrogio. Da Milano tornò in Africa a predicare la nuova fede e nel 391, a Tagaste, fu ordinato prete per poi essere promosso Vescovo di Ippona nel 395.

        Egli predicò contro varie concezioni eterodosse del cristianesimo e, naturalmente, contro varie eresie. Iniziò contro i manichei, poi contro i pelagiani, quindi contro i donatisti (si veda nota 3). Il pensiero di Agostino prende il via dalla coscienza, ritenuta un qualcosa di concreto, tramite la quale è possibile cogliere i rapporti che esistono tra ragione e fede, quest’ultima intesa nel senso di Tertulliano, e con la quale è possibile giungere a Dio. E’ al proprio interno che l’uomo deve cercare i due generi di verità assolute che sono alla base della salvezza: da una parte le verità logico-matematiche ed i principi morali e dall’altra la coscienza del proprio esistere. Queste due verità sono assolute e questa assolutezza ci conduce a Dio. Agostino indica qui una via per raggiungere Dio, attraverso la partecipazione del nostro intero essere (amare, volere, intelligere), disinteressandosi completamente di ogni considerazione almeno apparentemente razionale. Il concetto di verità è discusso in modo più approfondito da Agostino. Egli afferma infatti, in un ambito non eminentemente pedagogico, che, se entrambi, maestro e scolaro, vediamo che è vero quel che dici tu ed entrambi vediamo che è vero ciò che dico io, dove mai lo vediamo ? Poiché è chiaro che io non sono in grado di leggere nel tuo animo e tu nel mio, vi deve essere qualche immutevole verità, al di sopra di te e di me, che non può essere altro che il Verbo di Dio, cioè Gesù. E’ lui che illumina la nostra conoscenza e garantisce l’assolutezza delle nostre verità. La via per giungere a Dio indicata da Agostino richiede quindi una seria riflessione su se stessi, ciascuno alla propria interiorità dove risiede, in un luogo più interno dell’anima, la verità. Questa è una posizione platonica modificata ad uso cristiano. Infatti quella verità con caratteristiche divine non compare in Platone. Invece Agostino la assegna anche all’intero universo come impronta di Dio ed addirittura come impronta della Trinità nella triade amare, essere, sapere che compare sotto diverse forme nell’universo (a queste diverse forme Agostino dedica molte speculazioni, alcune delle quali del tutto fantasiose). Il rapporto tra Dio e mondo è presente in Agostino anche in alcune delle sue più belle pagine de Le Confessioni (Libro XI, Capitolo XIV), quelle dedicata alla natura del tempo(9) e che vale la pena leggere.

CAPITOLO XII

IDDIO PRIMA DELLA CREAZIONE

Ed eccomi a rispondere a chi domanda: «Che cosa faceva Iddio prima di creare il cielo e la terra? ». Non darò la risposta di quel tale che, per eludere con un motto di spirito la difficoltà della domanda, disse: «Preparava l’inferno per coloro che vogliono scrutare il cielo ».
Altra cosa è comprendere, altra cosa scherzare. Non è dunque quella la mia risposta. Preferirei dire: «Non so», se non so, al cavarmela con un motto che metta in ridicolo chi fa una domanda profonda e dia lode a chi dà una risposta sbagliata.
Invece, affermo che Tu, o nostro Iddio, sei il creatore di tutta quanta la creazione: e se con le parole cielo e terra si intende tutto ciò che è stato creato, affermo francamente: «Prima di creare il cielo e la terra, Iddio non faceva nulla». Se avesse fatto qualche cosa, che cosa poteva essere se non una creatura? E almeno avessi io la stessa certezza delle altre nozioni che sarei contento di conoscere, come ho la certezza che prima della creazione non esisteva alcuna creatura!
 

CAPITOLO XIII

IL TEMPO È NELL’ORDINE DELLE COSE CREATE

Se poi qualcuno, leggiero di mente, vuol risalire a ritroso le immagini dei tempi, e si maraviglia che Tu, Dio onnipotente, onnicreante, onnireggente, artefice del cielo e della terra, ti sii astenuto per secoli innumerevoli dal por mano ad un’opera così grandiosa, apra bene gli occhi e si convinca che la sua maraviglia manca di base.
Donde avrebbero potuto incominciare a scorrere quegli innumerevoli secoli, che Tu non avresti fatto, Tu, autore e principio di tutti i secoli? Potevan forse esistere tempi non creati da Te? Come avrebbero potuto passare se non erano mai esistiti?
Se dunque sei Tu l’artefice di tutti i tempi, se esistettero tempi prima della creazione del cielo e della terra, come si può dire che eri inoperoso? Proprio quei tempi Tu li avevi creati, né potevano passare tempi prima che Tu li avessi fatti. Se poi prima del cielo e della terra il tempo non esisteva, a qual titolo si domanda che cosa facevi allora? Non esistendo il tempo, non esisteva nemmeno un «allora».
E nemmeno si può dire che Tu precedi i tempi nel tempo: ché non avresti preceduto tutti i tempi. Invece, precedi tutto il passato nell’immensità della eternità sempre presente, domini tutto il futuro, il quale appunto perché futuro, appena arrivato, sarà passato: ma «Tu rimani lo stesso, i tuoi anni non avranno fine». Essi non vanno, non vengono: questi nostri vanno e vengono, perché vengano tutti. Gli anni tuoi sono tutti in un punto perché immobili, né quelli che passano sono spinti via dai sopravvenienti, perché non passano: i nostri saranno tutti quando non saranno più. Gli anni tuoi sono un giorno solo, e il tuo giorno non è l’ogni giorno, ma l’oggi, perché il tuo oggi non si annulla nel domani, come non succede ad un ieri. Il tuo oggi è l’eternità, e quindi coeterno generasti colui a cui hai detto: «lo ti ho generato oggi». Tu hai creato tutti i tempi e tutti li precedi: non si può parlare di tempo quando il tempo non esisteva.

CAPITOLO XIV

NATURA DEL TEMPO

Non si può dunque parlare di un tempo in cui Tu sia rimasto inoperoso, perché il tempo l’hai creato Tu: e non si può parlare di tempi coeterni con Te, perché Tu permani, ed essi, se permanessero, non sarebbero più tempi. Che cosa è infatti il tempo? Chi potrebbe darne una breve e facile definizione ? Chi ne capirà tanto, almeno con il pensiero, da paterne poi far parola? Ed invece vi ha una nozione più familiare, più nota, nel parlare comune, del tempo? Certo, quando ne parliamo sappiamo che cosa intendiamo, e lo sappiamo anche quando ne sentiamo parlare gli altri.
Che cosa e, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so: eppure posso affermare con sicurezza di sapere che se nulla passasse, non esisterebbe un passato; se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe un futuro; se nulla esistesse, non vi sarebbe un presente.
Passato e futuro: ma codesti due tempi in che senso esistono, dal momento che il passato non esiste più, che il futuro non esiste ancora? E il presente, alla sua volta, se rimanesse sempre presente e non tramontasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente, perché sia tempo, deve tramontare nel passato, in che senso si può dire che esiste, se sua condizione all’esistenza è quella di cessare dall’esistere; se cioè non possiamo dire che in tanto il tempo esiste in quanto tende a non esistere? 

CAPITOLO XV

MISURAZIONE DEL TEMPO

Con tutto ciò, noi parliamo di tempo lungo e di tempo breve, ma sempre riguardo al passato e al futuro. Così, per esempio, diciamo lungo un tempo passato da cento anni; come diciamo lungo un tempo futuro che sarà fra cento anni: breve tempo passato, diremo, quello di dieci giorni fa, e così per il futuro. Ma come può essere lungo o breve quello che non è?, Il passato non è più, il futuro non è ancora. Non si Non si dica più dunque: «È lungo»; ma, si dica: «Fu lungo», per il passato, e: «Sarà lungo », per il futuro.
O mio Signore e mia luce, anche qui, forse, la tua verità si fa beffe dell’uomo? Un tempo passato, che diciamo lungo, fu lungo quando era già passato o quando era ancora presente? perché non poteva essere lungo se non in quanto esisteva qualche cosa che potesse essere lunga: ma il passato, come tale, non esisteva; non poteva dunque essere lungo.
Non è, quindi, esatto dire: «Quel tempo passato fu lungo», non trovandosi in esso niente che fosse suscettibile di essere lungo. Una volta passato, non è più. Dovremmo dire invece: «fu lungo quel tempo presente», poiché era lungo solo in quanto presente. Non era ancora passato al non essere; c’era possibilità che fosse lungo: ma una volta passato, cessò di essere lungo, avendo cessato di esistere.
Vediamo un po’ ora, o anima umana, se possa essere lungo il tempo presente; hai ricevuto infatti il potere di sentire e di misurare la durata. Che cosa mi risponderai ? Cento anni presenti son forse un tempo lungo? Esamina prima se possano essere presenti cento anni. Se sta passando il primo di essi, questo è presente, ma gli altri novantanove sono futuri, dunque non esistono ancora; se si tratta dell’anno numero due, uno è passato, il secondo è presente, tutti gli altri futuri. Così è per tutti gli anni intermedi; qualunque tu prenda, da una parte stanno quelli passati, dall’altra i futuri. Dunque cento anni non possono essere presenti. 
Vedi un po’ se almeno dell’anno in corso si possa dire che è presente. Se siamo nel primo mese, tutti gli altri sono futuri; se nel secondo, il primo è nel passato, tutti gli altri nel futuro. Neanche dell’anno che sta passando si può dire che è tutto presente: se non è presente tutto, l’anno non è presente. I suoi mesi sono dodici, e ciascuno di essi mentre è in corso è presente; gli altri sono passati o futuri.
Del resto, nemmeno quando sta passando, si può dire di un mese che è presente: presente è un giorno; se è il primo, futuri gli altri, se l’ultimo, passati gli altri; se intermedio, tra passati e futuri.
Ed ecco; quel tempo presente, il solo a cui possa convenire il termine di «lungo», è ridotto alla durata di una sola giornata. Ma sottoponiamo ad esame anche questa, perché neanche di un giorno si può dire che sia presente tutto. Esso è formato, tra giorno e notte, di ventiquattro ore: per la prima tutte le altre sono future, per l’ultima tutte le altre sono passate, per l’intermedia un po’ sono passate, un po’ future. Ed anche l’ora si svolge in istanti fuggitivi; quello volato via è passato, quello che gli resta è futuro. Se possiamo farci un’idea del tempo, quel solo punto si può chiamare presente che non si può più suddividere in particelle, per quanto piccolissime: ma anche quel punto trasvola così rapido dal futuro al passato, da non avere estensione alcuna di durata. Ché, se l’avesse, sarebbe divisibile in passato e in futuro: il presente invece non ammette estensione.
Dove è, allora, un tempo che si possa chiamare lungo? Il futuro, forse? Ma per esso noi usiamo tale espressione, perché non esiste ancora ciò che può essere lungo: diciamo, invece: «Sarà lungo». Quando sarà lungo? Quando sarà ancora futuro? No, perché non esiste ancora quello che dovrebbe essere «lungo». O quando dal futuro – che non è ancora – ha incominciato e sia diventato presente? Da quanto si è detto sopra, il presente proclama di non poter essere un tempo lungo.

CAPITOLO XVI

SI PUÒ MISURARE SOLTANTO IL PRESENTE

Eppure, Signore, noi possiamo distinguere gli intervalli dei tempi e paragonarli tra loro; e diciamo che alcuni sono più lunghi, altri più brevi. Misuriamo pure quanto questo o quel tempo sia più lungo o più breve: e rispondiamo che quello è il doppio o il triplo, questo semplice o tanto quanto quello. Ma noi possiamo misurare il tempo che passa, e lo misuriamo per la percezione che ne abbiamo. Ora, chi può misurare il passato, che non esiste più, o il futuro che non esiste ancora? A meno che uno osi affermare che si può percepire e misurare il non esistente. Dunque si può aver la percezione e misurare il tempo quando sta passando, ma quando è passato non è possibile, perché non esiste.

CAPITOLO XVII

PASSATO E FUTURO ESISTONO

Ed ora, qui, o Padre, non affermo, vado cercando: o mio Dio, assistimi, sorreggimi.
C’è chi voglia dimostrarmi che non esistono tre forme del tempo, come abbiamo imparato da fanciulli e come abbiamo insegnato ai fanciulli, e cioè il passato, il presente, il futuro, ma che solo il presente sia tempo, poiché gli altri due non esistono? O forse esistono anch’essi, e il tempo, quando da futuro diventa presente esce da qualche occulto recesso, per ritirarsi in qualche occulto recesso quando da presente diventa passato? E quelli che hanno preannunziato avvenimenti futuri dove li videro se non esistevano ancora? Quello che non c’è, non si può certo vedere. E quelli che narrano avvenimenti passati non racconterebbero cose vere, se non le vedessero con la loro mente: e non potrebbero assolutamente essere viste, se non esistessero.
Esistono dunque anche il passato e il futuro. 

CAPITOLO XVIII

CONOSCENZA DEL PASSATO E DÈL FUTURO

Permettimi di approfondire alquanto le mie ricerche, o Signore, mia speranza; fa’ che in questo mio proposito io non mi lasci sviare.
Se futuro e passato esistono, vorrei sapere dove hanno sede. Se per ora non ci riesco, so però che, dovunque siano, non vi sono come futuro e passato, ma come presente; perché se anche là sono come futuro o come passato, o non vi sono ancora o non vi sono più. Quindi, dovunque siano, comunque siano non vi sono che in forma di presente. Però, quando si raccontano avvenimenti passati veri, non si tiran fuori dalla memoria gli avvenimenti in se stessi, ma espressioni formate dalle loro immagini che si sono impresse a guisa di orme nell’animo per mezzo dei sensi. Così, la mia fanciullezza non esiste più se non in un tempo passato, che non esiste più; ma, quando la rievoco e ne parlo, io ne vedo l’immagine nel presente, perché essa è ancora nella mia memoria.
Devo invece confessare, o mio Dio, che proprio non so se nella predizione del futuro, il fenomeno si svolga nello stesso modo; se, cioè, le immagini delle cose non ancora esistenti siano presentite come già tali. So tuttavia che noi di solito pensiamo prima a nostre azioni future; che codesta anticipazione di pensiero è presente, mentre l’azione premeditata non esiste ancora, perché futura: quando invece vi ci saremo applicati e realizzeremo quanto avevamo pensato, quell’aazione non sarà più futura, allora, ma presente.
In qualunque modo avvenga codesto arcano presentimento del futuro, è certo che non si può vedere se non quello che esiste. Ma ciò che esiste è il presente, non il futuro. Perciò quando si dice che si vede il futuro, non si vede il futuro in se stesso, che non esiste ancora, ma si vedono forse cause o indizi suoi, già esistenti; non il futuro; dunque, ma il presente appare alla nostra vista, e grazie ad esso possono venire preannunziate cose future, concepite con lo spirito: forme concepite che già esistono, e chi predice il futuro le intravede come presenti.
Mi aiuterò con un esempio, scelto fra i tanti.
lo vedo l’aurora: preannuncio il levar del sole: ciò che vedo è presente, ciò che preannuncio è futuro; non il sole è futuro: esso esiste già; ma il suo sorgere, che è futuro; sorgere però che io, se non ne avessi l’immagine nell’animo, non potrei certo predire. Ma nemmeno l’aurora che vedo in cielo è il sorgere del sole, quantunque lo preceda, e nemmeno lo è l’immagine del mio animo: ambedue sono visti nel presente perché si possa preannunciare il futuro. Il futuro dunque non c’è ancora; se non c’è ancora, non esiste; se non esiste, non si può assolutamente vedere; ma si può preannunciarlo dai segni presenti, che già esistono e si possono vedere.

[…]

CAPITOLO XXIII

IL TEMPO NON È IL MOTO DEGLI ASTRI

Sentii una volta affermare da una persona colta che il tempo, propriamente, è il moto del sole, della luna e degli astri; ma non posso ammetterlo. Perché, anzi, non si dovrebbe dire che il tempo è il movimento di tutti i corpi? Se si fermassero i luminari celesti e continuasse a girare la ruota del vasaio, non vi sarebbe più il tempo con cui misurare quei giri, sì da dire che si tratta di un moto uniforme, o invece, se si movesse un po’ più lenta e un po’ più rapida, da dire che alcuni giri durano più, altri meno? E dicendo questo, non parleremmo anche noi nel tempo? Il nostro dire non risulterebbe di sillabe lunghe e brevi, e tutto perché quelle si pronunziano in un tempo più lungo e queste in un tempo più breve?
O Dio, fa’ che gli uomini intendano da quel piccolo esempio le cognizioni comuni alle cose piccole e alle grandi. Vi sono gli astri e i luminari del cielo che segnano le stagioni, i giorni, gli anni; certo; e non io affermerò che il rotare di quel dischetto di legno sia il giorno; ma quel dotto non mi venga a dire che non è tempo.
lo, invece, voglio conoscere l’essenza, la natura del tempo che ci permette di misurare il moto dei corpi, per cui diciamo, per esempio, che un moto dura il doppio di un altro. Ed ecco una mia domanda. Ciò che si chiama giorno non è soltanto la durata del sole sulla terra – che determina la differenza tra giorno e notte -, ma tutta la sua rotazione da un oriente all’altro, quello che ci fa dire: «Son passati tanti giorni» (e con quel «tanti giorni» s’intendono altrettante notti, che non hanno un conteggio a parte); ebbene, io domando: se il giorno ha il suo compimento nel moto del sole rotante da oriente a oriente, esso giorno è il moto in sé? o è il tempo che dura quel moto? o l’uno e l’altro?
Nel primo caso (giorno = moto circolare del sole), noi avremmo sempre un giorno anche se il sole compisse tutto il suo giro nella durata di tempo di un’ora. Nel secondo caso (giorno = durata del moto), non si avrebbe un giorno se la durata tra un sorgere del sole e un altro non fosse che di un’ora, ma il sole dovrebbe compiere ventiquattro giri perché si compia un giorno. Nel terzo caso (giorno = moto del sole + durata del moto), non si potrebbe parlare di giorno se il sole compisse il suo giro in un’ora, né se il sole si arrestasse tanto tempo quanto impiega a compiere il suo giro da una mattina all’altra.
Non mi indugerò oltre a stabilire che cosa sia propriamente il giorno, ma che cosa sia il tempo: di cui, quando misuriamo il giro del sole, si dovrebbe poter dire che è stato ridotto a metà del tempo solito, se la rivoluzione solare si fosse svolta tutta nello spazio di dodici ore, e, confrontando le due diverse durate, dire l’uno metà, l’altro doppio (rispetto al primo), nell’ipotesi che il sole compisse l’intero percorso da oriente a oriente qualche volta nel primo, qualche volta nel secondo modo.
Non mi si venga dunque a dire che il tempo è il movimento dei corpi celesti. Del resto anche quando, per la preghiera di un uomo, il sole si fermò per dargli modo di condurre il combattimento alla vittoria, il sole era fermo ma il tempo camminava: e quella battaglia fu condotta a fine nella durata di tempo che le era necessaria.
Vedo dunque che il tempo è una specie di estensione. Ma lo vedo davvero? O credo di vederlo? Tu me lo chiarirai, o luce, o verità!

CAPITOLO XXIV

IL TEMPO MISURA IL MOTO

Vuoi che trovi esatta l’affermazione che il moto di un corpo è il tempo? Non lo vuoi, perché so, e Tu me lo dici che un corpo non si muove se non nel tempo. Ma non credo non lo dici già Tu, che proprio il moto di un corpo sia il tempo. Quando un corpo si muove, io posso misurare nel tempo tutta la durata del movimento, dal principio alla fine del moto. Se non ne ho visto il principio e continua a muoversi senza che io riesca a vedere quando si ferma, non ho mezzo per misurarne il moto, tranne forse dal momento in cui comincio al momento in cui cesso di osservarlo. Se lo osservo a: lungo, posso dire solo che si tratta di un tempo lungo, ma non in quale misura, perché la misura noi la esprimiamo con un confronto, come: «Tanto questo quanto quello», oppure: «Questa durata è il doppio di quella», o con altre simili espressioni.
Se poi esso si muove con un moto circolare, come in un tornio, e possiamo osservare il punto dello spazio donde viene e dove tende il corpo o una delle sue parti, potremo anche stabilire la misura del tempo intercorso da un punto all’altro per il movimento del corpo o di una sua parte.
Se dunque il movimento di un corpo è ben altra cosa della sua durata, chi non vede quale di essi si debba chiamare tempo? Che se il corpo ora si muove ora sta fermo, noi misuriamo, ancora per mezzo del tempo, il periodo di stasi, e diciamo: «La stasi è durata quanto il moto», oppure: «È stato fermo un tempo doppio o triplo del tempo del moto», o tutte le altre determinazioni, compiute con esattezza o con approssimazione, o come si suol dire, più o meno. Dunque il tempo non è il moto dei corpi.

CAPITOLO XXV

CONFESSIONE DI IGNORANZA

E pur devo confessarti, o Signore, che ancora non so che cosa sia il tempo, e confessarti di nuovo di sapere che quello che sto dicendo lo dico nel tempo, e che sto parlando del tempo da «molto», e questo «molto» non è molto se non per la durata del tempo. Come poi lo so, se non so che cosa sia il tempo? O invece non so come dire quello che so? Povero me, non so neppure che cosa ignoro. Son qui, alla tua presenza, Signore; non dico menzogna,. parlo secondo il cuore. «Tu accenderai la mia lucerna, Signore e mio Dio, tu schiarirai le mie tenebre».

CAPITOLO XXVI

LA MISURA DEL TEMPO

Non è forse nel vero la mia anima quando ti confessa di misurare il tempo? Ma allora, o Signore, misuro e non so quello che misuro. Misuro il moto di un corpo nel tempo. Non misuro dunque anche il tempo? Ma potrei misurare il moto di un corpo, la durata, la durata relativa da un punto all’altro, se non misurassi anche il tempo in cui avviene il moto?
Ma il tempo in sé come lo misuro? Misurando forse da un tempo più breve un tempo più lungo, come da quella di un cubito la lunghezza di una trave? Così si vede che misuriamo con la durata di una sillaba breve quella di una sillaba lunga, e diciamo che è doppia. Così misuriamo la lunghezza di un carme dai versi, e i versi dai piedi, e i piedi dalla lunghezza delle sillabe e la lunghezza delle lunghe da quella delle brevi: questo, però, non secondo le pagine, perché in questo caso misuriamo lo spazio, non il tempo, ma secondo il passar via delle parole: e diciamo: è una poesia lunga, perché è formata da tanti versi; questi versi sono lunghi, perché formati da tanti piedi; e lunghi i piedi se sono molte le sillabe: e lunga una sillaba se è doppia di una breve.
Con tutto questo, però, non si ha una misura precisa del tempo, perché può accadere che un verso breve, pronunziato più lentamente, si senta per una durata maggiore di tempo che non un verso più lungo recitato più rapidamente. Il che vale per una poesia, per un piede, per una sillaba.
Di qui mi parve che il tempo non sia altro se non estensione: di che cosa, poi, non lo so, se non forse proprio dell’animo. Che cosa misuro infatti (te ne scongiuro, o mio Dio), se dico in modo indeterminato: «Questo tempo è più lungo di quello», o, in modo definito: «Questo tempo è doppio rispetto a quello»? Misuro il tempo, lo so; ma non misuro il futuro, che non esiste ancora; non misuro il presente, che non ha estensione, non misuro il passato, che ormai non esiste più. Che cosa misuro dunque? Il tempo al suo passaggio, non ancora passato? Così, infatti, avevo detto.


CAPITOLO XXVII

LA MISURA DEL TEMPO E LA MEMORIA

Insisti, o mia anima; intensifica la tua attenzione; Iddio è il nostro aiuto: Egli ha creato noi, non noi Lui. Sta’ attenta, là dove albeggia la verità.
Ecco, per esempio, una voce incomincia a risonare, risuona, risuona ancora, ed ecco, si è taciuta, è sottentrato il silenzio, la voce è passata e non è più voce. Prima di risonare, era futura, non si poteva misurare perché ancora non esisteva, né lo si può ora che non è più. Mentre risonava si poteva misurarla, perché allora era suscettibile di misura. Però anche allora non era immobile: si svolgeva e passava via. Forse per questo era misurabile più facilmente? Nel suo svolgersi infatti essa si estendeva in un certo lasso di tempo che ne permetteva la misurazione: il presente, invero, non ha estensione.
Supponiamo adunque che allora si potesse: ed ecco, un altro suono incomincia a farsi sentire, e continua in ritmo uniforme, senza interruzione: misuriamolo mentre dura, perché appena sarà cessato, sarà nel passato e non più misurabile. Misuriamolo bene e computiamone la durata. Ma il suono continua, e noi non possiamo misurarlo se non dal momento in cui è incominciato al momento in cui finisce. Quello che noi misuriamo, infatti, è proprio l’intervallo da un inizio ad una fine. Il suono che non è ancora cessato non può essere misurato, sì da poter dire quanto sia lungo o breve, né se sia eguale, metà o doppio, e simili, di un altro. Ma quando è cessato, non è più. Con quale criterio, allora, si potrà misurare? Il tempo lo misuriamo, ma non prima che giunga, non quando è passato, non quello che non ha durata; infine non quando non è determinato da limiti. Dunque, noi non misuriamo il futuro, né il passato, né il presente, né il tempo mentre passa: eppure misuriamo il tempo.
«Deus creator omnium»: è un verso di otto sillabe in cui le brevi si alternano con le lunghe; le quattro brevi, cioè la prima, la terza, la quinta, la settima, sono metà delle quattro lunghe: la seconda, la quarta, la sesta, l’ottava: ciascuna di queste, rispetto a ciascuna di quelle, dura un tempo doppio? Le pronunzio, le ripronunzio, ed è proprio così come è chiaramente percepito dal senso. Il senso mi dice chiaramente che misuro una sillaba lunga per mezzo di una sillaba breve e noto che quella è due volte tanto. Siccome però si pronunciano una dopo l’altra, se la prima è breve e quella che segue è lunga, come potrò tener ferma la breve e come, misurandola, la confronterò con la lunga per arguire che questa e due volte tanto, dal momento che la sillaba lunga non incomincia ad aver suono se non quando la breve non ne ha più. E anche la lunga, posso forse misurarla mentre è presente, quando, se non è finita, non posso ancora misurarla? Ma il suo finire è anche il suo cadere nel passato.
Che cosa misuro allora? Dov’è la breve che mi serve di misura? Dove la lunga che voglio misurare? Entrambe diedero il loro suono, volarono via, passarono, non sono più: ed io le misuro, e, con la sicurezza che ci può venire da un senso esercitato, dico che la prima, quanto alla durata del tempo, è la metà dell’altra. Ma non lo posso dire se non perché sono passate, finite. Non esse dunque io misuro, ma un qualche cosa rimasto stampato nella mia memoria.
In te, o anima mia! misuro il tempo. Non disturbarmi; ossia, non disturbarmi con il tumulto delle tue impressioni. In te, io affermo, misuro il tempo. L’impressione lasciata in te dalle cose mentre passano e che dura anche quando esse sono passate, quella io misuro come presente non le cose che, passando, ve la lasciarono: è essa che io misuro quando misuro il tempo. E allora: o questo è il tempo, o io non misuro il tempo.
Quando poi misuriamo il silenzio e diciamo che quel determinato silenzio e durato tanto quanto quel suono, non applichiamo forse il nostro pensiero alla misura del suono, come se il silenzio fosse un suono, per poter dare un’idea degli intervalli del silenzio nell’estensione del tempo? Cessa la voce, cessa la parola, ma noi riandiamo nel pensiero poesie, versi, discorsi, ogni sviluppo di movimenti, e possiamo valutare la durata relativa di ciascuno, non altrimenti che se la esprimessimo a parole. Se uno vuole emettere un suono alquanto prolungato e se nel suo pensiero vuole precisarne la durata, costui percorre in silenzio quello spazio di tempo, e, affidatolo alla memoria, comincia a emettere quel suono che dura fino ad arrivare al termine prefisso: anzi è durato e durerà, poiché il suono già emesso è risonato, quello che rimane risonerà: e così si completa, a misura che la tensione presente fa passare il futuro nel passato: diminuisce il futuro, cresce il passato, finché, esaurito il futuro, tutto diventa passato.

CAPITOLO XXVIII

LA MISURA DEL TEMPO È NELL’ANIMA

Come, però, può diminuire o consumarsi il futuro che non esiste ancora, come può crescere il passato che non esiste più, se non perché nella mente, in cui quel complesso ha il suo svolgimento, sussistono le tre forme [il passato, il presente, il futuro, ndr].
L’animo attende, presta attenzione, ricorda: in modo che quello che attende, attraverso il suo sviluppo nel presente, passi poi nel ricordo. Chi potrebbe negare che il futuro non esiste ancora? Ma nell’animo vive l’attesa del futuro. Chi potrebbe negare che il passato non esiste più? Ma nell’animo vive la memoria del passato. E chi negherà che il tempo presente manca di estensione perché non è che un punto transeunte? Ma dura l’attenzione attraverso la quale il futuro tende al passato. Non si può avere dunque un futuro lungo – non esiste ancora-, ma il lungo futuro è la lunga attesa del futuro; non si può avere un passato lungo – non esiste più -, ma il lungo passato è il lungo ricordo del passato.
Voglio recitare un carme che conosco: prima di incominciare dirigo tutta la mia attenzione all’insieme: una volta incominciato, quanto ne vado cogliendo per trasferirlo nel passato, tanto entra nell’ambito della memoria, e il corso di questa mia attività si estende nella memoria per la parte recitata e nell’attesa per quella da recitare: però è presente la mia attenzione che fa scorrere nel passato quello che era futuro. E, a mano a mano che il passaggio si sviluppa, tanto si accorcia l’attesa quanto si prolunga la memoria, finché tutta l’attesa si esaurisce quando, ad azione finita, tutto è passato nella memoria. Quello che avviene del carme nel suo complesso, si verifica in tutte le sue parti, in ogni sillaba: e avviene anche in una attività più estesa di cui quel carme può essere un frammento; avviene in tutta quanta la vita dell’uomo, costituita da tante parti quante sono le azioni, avviene nel succedersi di tutte le umane generazioni, le cui parti sono tutte le singole vite degli uomini.

        E’ un vero pezzo di bravura questo di Agostino. Ma Le Confessioni sono un’opera molto complessa che è anche, in grandissima parte, una sorta di autobiografia di Agostino. Tanti e tali sono i temi trattati che è impossibile riassumerli in questa sede. Mi sono comunque soffermato in una citazione così estesa perché in essa compaiono in qualche modo degli elementi di osservazione della realtà e la cosa, come vedremo nel prossimo paragrafo, è piuttosto rara in questa serie di pensatori cristiani. Oltre a questi brani è possibile ritrovare altri accenni alla natura nel racconto della creazione ed alla matematica sia nella affermazione che Agostino fa della superiorità dell’aritmetica sulla geometria che mostrerebbe una sua conoscenza delle due discipline sia nel suo uso delle proporzioni per mostrare l’esistenza di Dio (la saldezza delle conoscenze logico-matematiche e dei principi morali dimostrerebbe che esse non provengono da noi rivelando in noi la presenza dell’Assoluto). La matematica risulta così salvata a priori da Agostino da ogni accusa di empietà ed è posta tra le conoscenze più elevate che conducono a Dio(10). Nonostante queste aperture, pochi anni prima di morire, Agostino si pentì amaramente del rilievo che aveva attribuito alle arti liberali e concluse che le scienze teoriche e le arti meccaniche non erano di nessun aiuto per il cristiano.

        Anche Agostino non poteva sottrarsi al problema del male, nelle sue accezioni metafisico, fisico e morale, che è centrale nella sua filosofia. Il problema già affrontato da altri pensatori è quello della domanda: Se c’è Dio come fa ad esservi il male ? Dio è il sommo bene, l’universo è opera di Dio ed allora perché Dio comprende il male nella sua creazione ? La questione era stata discussa dai manichei ed Agostino era passato per quella esperienza. Ci volle molta fatica per uscire fuori da quella posizione ed arrivare al male come un non essere, una assenza di realtà e quindi del bene che Dio aveva creato.  Ed allora cos’è il peccato ? quella forza che ci spinge ad errare ad essere viziosi ? I manichei vedevano una continua lotta tra bene e male, lotta che vedeva l’uomo come soggetto passivo. Per Agostino la coscienza dell’uomo è unitaria non divisa tra bene e male ed è invece responsabilità dell’uomo scegliere tra bene e male. Le argomentazioni di Agostino sono cariche di passione, tanto appassionate che Pelagio potrà riprenderle sostenendo che la grazia non serve per la salvezza, visto che l’uomo può fare da sé. Ma Agostino si scagliò con ogni violenza contro Pelagio affermando che il peccato di Adamo non è del solo Adamo ma riguarda l’intera umanità che non può non avere, come affermava Pelagio, le colpe di questo suo antenato. Ed è Dio e solo Dio che permette la salvezza di alcuni predestinati (qui la cosa risultava debole se messa in relazione con il libero arbitrio che era invece sostenuto con forza da Pelagio), l’uomo da sé non può fare nulla. Questa posizione di Agostino fu di nuovo ripresa dai pelagiani che accusarono Agostino di essere tornato alle sue origini manichee. E la Chiesa che rifiutava decisamente le teorie di Pelagio, non accettò neppure il complesso di quelle di Agostino (teorie che invece tornarono ad essere prese sul serio dalla Chiesa in epoca di Controriforma). Vi era nella posizione di Agostino sul male un problema di fondo. Qual era la colpa così grave dell’uomo insita in quel peccato originale che condannava l’intera umanità ? Se quell’enormità di peccato si era realizzato ciò significa che il male è nell’universo con suoi rappresentanti. Ma se così è allora il male non è il non essere che Agostino aveva teorizzato. Il problema non è comunque del solo Agostino. Esso è insolubile come secoli di indagini teologiche hanno mostrato. Ma la fede fa ammettere tutto sotto la voce mistero che assume valenza esplicativa di ogni cosa. In ogni caso l’indagine di Agostino sul male resta magistrale nel pensiero cristiano. Il peccato è uno stato di servitù dell’anima che può essere liberato mediante la grazia. Questi concetti di peccato e grazia non sono mai tramontati nelle elaborazioni dei pensatori cristiani: il peccato e la vittoria su di esso riguardano il profondo della coscienza dell’uomo.

        Prima di chiudere con Agostino è utile ricordare cosa egli sostenne a proposito delle verità che si leggono nelle Scritture, in relazione all’uso che di questo brano fece Galileo nella sua Lettera a Cristina di Lorena. Nell’Epistola septima ad Marcellinum egli sostenne che se alla prova certa e manifesta si oppone l’autorità delle Scritture, colui che fa questo non è in grado di comprendere; e non oppone alla verità il senso delle Scritture che non poté penetrare, ma piuttosto il suo, e non ciò che si trova in quelle, ma quel che trova in sé al posto di quelle. Come si può osservare è una posizione molto avanzata che purtroppo verrà affossata da teologi che non erano in grado di comprendere nulla di esse.



6 – I PADRI DELLA CHIESA E LE SCIENZE ESATTE



        Intorno alla metà del V secolo questo vivacissimo dibattito, da me solo lontanamente accennato, si estingue. Ormai si sono definiti i dogmi, si è accettata una dottrina, sono state individuate le eresie e, soprattutto, la Chiesa ha avuto accettazione ed ampio riconoscimento dal potere. In Oriente i dibattiti saranno tutti di natura teologica finalizzati al potere interno alla Chiesa. L’Occidente non ha molto tempo per pensare troppo perché l’Italia (e Roma) è preda di svariate invasioni barbariche. Questa mancanza di ulteriori ricerche originali si esplica in estratti e commentari del pensiero degli altri che vengono codificati e mummificati come i sapienti e quindi Padri della Chiesa per l’eternità.

        Che fine ha fatto l’indagine scientifica ? La crisi, alla quale ho accennato e che inizia nel II secolo, è molto ma molto più grande di quella del pensiero teologico. In quanto ho scritto sul pensiero cristiano sembra evidente che non vi è alcuno spazio per lo studio del mondo naturale ma neanche per studi di matematica. Alcuni storici, come Klemm, assegnano al cristianesimo un merito indiretto almeno negli sviluppi tecnici. Secondo costoro il merito consiste nel non negare la natura ma di accettarla come elemento inferiore. Il merito risulterebbe non come valore assoluto ma come confronto con il misticismo orientale che invece negava del tutto la natura. Il fatto è che la natura compare nel cristianesimo come prodotto della creazione e come tale deve essere considerata anche se nella creazione la parte del leone la fa l’uomo che deve servirsi della natura , della quale è re, per giungere a Dio. Su questo problema si intrattiene Gregorio Nisseno nel IV secolo:

Grande catechesiIl pensiero distingue due mondi nella realtà, che la speculazione divide in intelligibile e sensibile; oltre a questi niente altro si deve ritrovare nelle cose, che non sia compreso in questa divisione. Questi due mondi sono tuttavia separati da una grande differenza, per modo che la natura sensibile non ha caratteri intelligibili, né quella intelligibile caratteri sensibili, ma ciascuna può venir riconosciuta come opposta all’altra. Imperocché la natura intelligibile è qualcosa di immateriale, non percettibile e senza forma; quella sensibile invece, come dice già il nome, ricade entro la percezione dei sensi. Casi come nello stesso mondo sensibile, malgrado i molteplici contrasti fra i diversi elementi, la saggezza che regola l’universo ha potuto ricavare da tanti opposti un accordo (per cui l’intera creazione sta in armonia con se stessa, senza alcuna dissonanza naturale che rompa la continuità dell’accordo), allo stesso modo attraverso la sapienza divina ha luogo la composizione e la fusione del sensibile e dell’intelligibile, casi che tutto abbia ugual parte nella bellezza universale e nessuna cosa della natura resti esclusa dal bene. Così, benché la sfera propria della natura spirituale sia l’essenza sottile e mobile che, occupando le regioni sovraterrene, mostra per le proprietà della sua natura una stretta relazione con il mondo intelligibile, grazie ad una sublime provvidenza ha luogo tuttavia un cèrto legame fra la natura intelligibile e quella sensibile, acciocché nessuna cosa della natura sia da disprezzare, come dice l’Apostolo, o resti esclusa dalla partecipazione in Dio. A questo fine fu l’uomo creato dalla divina natura mescolando l’intelligibile con il sensibile,· come c’insegna la storia della creazione. Poiché sta scritto che Dio prese della polvere dalla terra e formò l’uomo, e con il suo alito pose in quel simulacro lo spirito della vita, affinché la natura terrena venisse sublimata dalla divinità, ed un’unica grazia potesse ugualmente permeare l’intera creazione con l’unione della natura soprannaturale a quella inferiore. E quindi, poiché il mondo intelligibile preesisteva all’altro ed a ciascuna delle angeliche potestà era stata attribuita dalla Maestà che su tutto domina una certa attività per l’organizzazione dell’universo, una di queste potestà era stata incaricata dalla forza che ordina tutto l’universo, di mantenere e governare la sfera terrestre; e come fu pronto il simulacro terreno a somiglianza della potenza suprema (questo essere vivente essendo l’uomo), e fu in lui infusa insieme a una inesprimibile facoltà la divina bellezza della natura intelligibile, colui al quale era stato attribuito il dominio sulla terra tenne per ignominioso ed intollerabile che dalla natura a lui sottoposta fosse prodotto un essere fatto ad immagine della suprema altezza. 
La dote dell’uomo. E dunque, dopo che il Creatore dell’universo ebbe preparato una dimora reale per il futuro re – e cioè le terre, le isole, il mare e la volta del cielo che come un tetto ricopre ogni cosa – e dopo che ogni sorta di ricchezza fu posta in questa sede regale – e con ricchezza intendo l’intera creazione, e gli alberi e le erbe, e tutto quanto ha vita, sensibilità ed anima, e si devono contare fra le ricchezze anche tutte le specie di materia, quelle che per un loro certo splendore appaiono preziose agli occhi dell’uomo, come l’oro e l’argento, come pure le pietre, quelle che piacciono all’uomo – e dopo che Egli di tutto ciò ebbe risposta grande abbondanza nel grembo della terra come in uno scrigno regale, fece Egli allora apparire sulla terra l’uomo che delle meraviglie di essa fosse testimonio e signore, affinché attraverso il godimento delle ricchezze ambisse a conoscere il donatore, ed insieme potesse presentire da tanta bellezza e grandezza la potenza indescrivibile del Creatore. Per questo l’uomo fu fatto entrare nel mondo dopo che era terminata la creazione, a conclusione di essa, non perché disprezzato fra le ultime cose, ma per onorarlo, perché già al suo apparire egli fosse il re dei suoi sudditi.
Ora, i compiti essenziali furono suddivisi fra i diversi esseri a noi sottoposti, allo scopo di rendere necessaria la nostra signoria su di essi. La lentezza e la pesantezza del nostro corpo richiedevano i servizi del cavallo, e questo fu addomesticato; la nudità della nostra carne rese necessario l’allevar pecore che con l’annuale tributo di lana rimediano a questo difetto della nostra natura; il trasporto dei viveri anche da lontane regioni portò all’assoggettamento degli animali capaci di portar some; e il non poterci noi nutrire d’erbe, come gli animali che pascolano, rese utile alla vita il bove, che con il suo lavoro ci aiuta a procurarci il necessario sostentamento. E poiché ci servono anche, denti e zanne, per poter avere con i morsi il sopravvento nella lotta con alcuni animali, così il cane presta al nostro bisogno, oltre alla sua velocità, anche le sue fauci, sì che rappresenta per l’uomo un’arma vivente. Più forte delle corna e più acuto degli artigli è poi per l’uomo il ferro, che non fa parte del nostro corpo come quelli fanno parte del corpo degli animali, ma che può esser deposto dopo che ci è servito durante la lotta. E in luogo della corazza del coccodrillo, può ben l’uomo adoperare una simile armatura, quando si ricopre il petto di cuoio; od altrimenti anche per questo scopo può venir con arte adoperato il ferro che, dopo essere stato utilizzato per la guerra, può di nuovo in tempo di pace lasciar liberi dal suo peso gli armati. E utili alla vita sono anche le ali degli uccelli, così che ingegnosamente possiamo ottenere anche la velocità del volo: poiché taluni di essi vengono addomesticati e son d’ausilio ai cacciatori, altri vengono costretti alle nostre necessità, e addirittura abbiamo l’arte ingegnosa di munire di penne le frecce, così da ottenere con l’arco la velocità del volo che ci abbisogna.
 [Citato da Klemm]

        Per quanto si voglia dare rilievo a questi raccontini, che vanno confrontati con l’ellenismo e non con il lontano Oriente, dobbiamo prendere coscienza del loro essere piccolissima cosa, quasi nulla. Nella lode al creato del De civitate Dei di Agostino troviamo qualcosa di più interessante perché, oltre a ritrovare l’unità tra natura materiale e spirituale troviamo anche le arti tecniche a suo giudizio testimonianza della superiori doti dell’anima:

Lode del CreatoOra parlerò dei beni, che Iddio ha donato, o fino ad ora dona, anche alla natura colpevole o dannata: però che condannando non tolse tutto quello che aveva dato (ché, la natura sarebbe cosi ridotta. quasi ormai a nulla), e neppure la rimosse dalla sua potestà, anche quando per pena la sottomise al diavolo, cosi come non tolse il diavolo dal suo imperio; in quanto anche la natura di esso diavolo sussiste per opera di Colui che sommamente è, e dà esistenza a tutto ciò che in alcun modo è …
Però, che Egli con l’opera sua, che insino ad ora svolge, fa che spieghino i semi le loro virtù e da alcune invisibili inclusioni si sviluppino fino alle visibili forme di questa bellezza che sta davanti ai nostri occhi. Egli fa animata questa natura congiungendo e collegando in maravigliosi modi natura corporea e natura incorporea, quella in posizione di dominio e questa di soggezione. E questa sua opera è tanto grande e mirabile che non solamente considerando l’uomo, che è animale razionale, e per questo più eccellente e più nobile di tutti gli animali terreni, ma anche la pùu piccola mosca, si genera stupore in chi ciò bene considera, e lo induce a lodare il Creatore …
Però che oltre alle arti di vivere bene e di pervenire alla felicità terrena, le quali arti si chiamano virtù e vengono concesse ai figliuoli della promessa e del regno per la sola grazia di Dio che è in Cristo: non trova forse e non esercita l’ingegno umano anche tante e tali arti, parte ancelle della necessità, parte del piacere, da testimoniare la tanto eccellente virtù della mente e della ragione anche con il tendere a tante cose eccessive o addirittura pericolose e mortali? Non mostra forse l’uomo quanto bene abbia nella sua natura, nell’aver potuto trovare, far sue ed esercitare queste arti? A quali opere è pervenuta l’industria umana dei vestimenti e degli edifici e quanto mirabili, quanto stupende! quanto ha proceduto nell’agricoltura e nella navigazione! quante opere ha ideato e compiuto nella fabbricazione di ogni sorta di vasi, statue, e pitture! quanto è riuscita a fare nei teatri di meraviglioso per quelli che guardano, di incredibile per quelli che odono! quali e quante cose ha trovate per catturare, uccidere e domare le bestie, e contro gli uomini stessi quanti generi di veleni, d’armi, di macchine belliche, quanti medicamenti ed adiutorî ha escogitato per difendere e riparare la salute del corpo! quanti condimenti e delizie ha prodotto pure per il diletto della gola! quale moltitudine e varietà di segni, principalmente la lingua e la scrittura, ha studiato per esprimere e tramandare il pensiero! quali ornamenti di eloquenza e di poesia per dilettare gli animi, quanta dovizia di strumenti, quanti suoni e canti per far piacere agli orecchi! quale vasta conoscenza delle misure e dei numeri ha raggiunto e con quanta acutezza ha compreso i movimenti e la posizione delle stelle! quante vaste nozioni ha saputo radunare sulle cose del mondo! Chi potrebbe mai giungere alla fine di tale enumerazione, specialmente se non s’accontentasse di comprendere tutto insieme, ma volesse considerarne ciascuna cosa di per sé? …
Quanta sublime bontà di Dio, quanta sublime provvidenza di tanto Creatore appare poi nel nostro stesso corpo? … Però che l’uomo non è stato fatto così come vediamo gli animali irrazionali, inclinati col capo verso terra: ma la forma del corpo, drizzata verso il cielo, lo induce a tendere alle cose che stanno in alto. La maravigliosa mobilità che fu attribuita alla lingua ed alle mani, atta e conveniente al parlare ed allo scrivere, cosi come al compiere le opere di moltissime arti ed uffici, non mostra forse chiaramente come debba essere eccellente l’anima al cui servizio fu posto un così eccellente corpo?
 [Citato da Klemm]

        Siamo in un’epoca in cui inizia il tramonto della schiavitù perché da un certo punto in poi essa non è più conveniente al padrone. A partire dalla caduta dell’Impero, in corrispondenza con lo spopolamento delle città e afflusso di persone verso le campagne, divenne sempre più difficile il mantenimento degli schiavi e, in epoca Medioevale, gradualmente si arrivò al superamento della schiavitù. Non va trascurata a questo proposito l’influenza di ordine morale esercitata dalla Chiesa. Paolo scriveva nella Lettera ai Galati (III, 28): 

Non c’è né ebreo né greco, non c’è né schiavo né uomo libero, non c’è né uomo né donna, ma siete tutti insieme uno solo in Cristo Gesù. 

Ma si correggeva poi nella Lettera agli Efesini (VI, 5-8), affermando:

Servi, ubbidite ai vostri signori secondo la carne, con timore e tremore, nella semplicità del cuor vostro, come a Cristo, non servendo all’occhio come per piacere agli uomini, ma, come servi di Cristo, facendo il voler di Dio d’animo; servendo con benevolenza, come se serviste il Signore e non gli uomini; sapendo che ognuno, quand’abbia fatto qualche bene, ne riceverà la retribuzione dal Signore, servo o libero che sia.

        Il diminuire dell’offerta di schiavi dopo la fine dell’egemonia romana produsse una rivalutazione del lavoro manuale libero. Dalla fine del IV secolo si ebbe il passaggio dalla schiavitù alla servitù della gleba. Agostino vedeva la causa della schiavitù nel peccato. La schiavitù, nella sua concezione, era uno stato che, qualora il padrone si rifiutasse di concedere l’affrancamento, andava sopportato come immutabile. Leggiamo un brano del De Civitate Dei (XIX, 14-15) in cui si possono intravedere le stesse posizioni che ha oggi la Chiesa:

Quelli che assumono la cura di altri, a quelli comandano: così il marito alla moglie, il padre ai figli, il padrone agli schiavi. Ed ubbidiscono quelli di cui altri hanno cura: come le mogli ai mariti, i figli ai padri, gli schiavi ai padroni. Ma nella casa del giusto che vive nella fede e che non è che un pellegrino ancora separato dalla città celeste, anche coloro che comandano servono a quelli cui possono comandare. Poiché non comandano per desiderio di potere, ma per il loro ufficio di aver cura di quelli, e non per superbia di dominazione, ma per misericordia nel provvedere… 

Dio volle che l’uomo razionale fatto ad immagine sua signoreggiasse sopra gli esseri privi di ragione: non l’uomo sopra l’uomo, ma l’uomo sopra le bestie. Per questo i primi giusti furono piuttosto fatti pastori di greggi che non re di uomini, acciocché anche così dimostrasse Iddio che cosa esige l’ordine delle creature, e che cosa [più tardi] ha meritato il peccato. Poiché la condizione di schiavo giustamente fu imposta al peccatore. In nessun luogo della Scrittura leggiamo di servi fino a quando Noè giusto non punì con questa parola il peccato del figliuolo suo (Gen. 9, 25). Sicché questo nome venne dalla colpa, non dalla natura. E l’origine del vocabolo “schiavo” (servus) si crede derivata nella lingua latina dal fatto che quelli che secondo il diritto di guerra potevano essere uccisi, quando i vincitori li solevano risparmiare [servare] diventavano schiavi [servi]. Ma anche ciò non succede senza colpa. Però che quando si fa giusta guerra, si combatte l’avversario per il suo peccato: ed ogni vittoria, anche se tocca al malvagio, per divino giudizio umilia i vinti, e ne emenda o punisce i peccati… Adunque la prima cagione della servitù è il peccato… E per conseguenza anche molti timorosi di Dio servono a signori iniqui, ma (malgrado la loro signoria) sono liberi…

Nello stato naturale, in cui Dio creò dapprima l’uomo, nessuno era servo di un uomo, o del peccato. Ma anche la servitù imposta come pena, è soggetta a quella legge che comanda di osservare l’ordine naturale e vieta di turbarlo. Che se non si fosse mancato a quella legge, non si sarebbe costretti neppure per pena alla servitù. E quindi l’apostolo ammonisce anche gli schiavi, che siano soggetti ai loro signori, e che li servano con animo leggero e con buona volontà (Ephes. 6, 5). E se non possono ottenere di essere liberati dai loro padroni, trasformino essi stessi in libertà la loro schiavitù, servendo non con fraudolento timore, ma con fedele affezione, fino a quando non scompaia ogni iniquità e ogni principato e potestà umana, e sia Iddio ogni cosa in tutte le cose.

        Si sente in queste parole la coscienza del cristianesimo che arriva a stare con le classi dominanti ed in tale posizione le grandi speranze di liberazione dell’uomo delle origini vengono buttate via. La teologia la fa da padrona dimenticando l’uomo per cui era nata. Il lavoro viene comunque percepito come un qualcosa che non riguarda più i soli schiavi, via via che essi vengono meno, ma ogni uomo e non a caso è all’interno dei primi ordini monastici che la necessità del lavoro viene avvertita. Il riconoscimento teorico della nobiltà del lavoro e del suo essere alla pari dell’attività di pensatore era stata fornita per la prima volta dallo svilupparsi e consolidarsi del monachesimo. Il lavoro manuale, a partire dall’epoca di Benedetto da Norcia (San Benedetto, con la sua formidabile regola dell’Ora et Labora, in cui per la prima volta da Platone le due pratiche del pensiero e del lavoro erano equiparate(11)) fino all’epoca dei primi francescani, costituiva una parte essenziale delle regole degli ordini monastici(12). Così si cominciò ad attribuire al lavoro manuale la nobiltà e il significato religioso che gli era stato negato dall’antichità classica. 

Felice colui che si guadagna il pane con il lavoro delle proprie mani, 

sentenziava Giovanni Crisostomo nella seconda metà del IV secolo d.C. (in Genesim homilia, L, 2). E questo riferimento al lavoro è un riferimento alle mani che, in una feconda unità con il cervello, sono gli strumenti per indagare la natura.

        Fin qui per ciò che riguarda l’approccio alla tecnica ed al lavoro, per quel che riguarda invece il problema delle scienze naturali i Padri della Chiesa osservarono uno stretto silenzio. Si potrebbe pensare che la cosa derivi dalla loro ignoranza dell’argomento da discutere o da elaborare ma in realtà, al di là di questa eventualità, certamente vera, vi era il completo disinteresse per tali problemi, tanto erano pressanti quelli dell’anima, e della sua salvezza. La scienza è un insieme di conoscenze che sono estremamente difficili da conseguire e tanto tempo ci vuole per organizzare un certo numero di esse quanto poco perché tutto cada nell’oblio. Fu così che per secoli almeno l’Occidente cristiano regredì in modo incredibile, almeno per ciò che riguarda le conoscenze tecniche e scientifiche che dovranno essere reimportate da altri (arabi) e/o reinventate. La posizione dei Padri della Chiesa è anche teorizzata dal suo massimo rappresentante, Agostino. Ne Le Confessioni egli afferma esplicitamente di non avere altro interesse che per Dio e per l’anima e questa è l’affermazione del Padre più preparato ed influente che è l’affermazione di tutti coloro che elaborarono le basi della dottrina cristiana, pur essendo molto preparati a dibattere temi anche molto sottili e complessi. I temi che sono in qualche modo riconducibili alla filosofia della natura vengono fuori qua e là in modo del tutto casuale, discontinuo e disordinato. Qualcuno criticherà l’atomismo che è una credenza empia; qualcun altro cercherà di argomentare la creazione come raccontata dalla Bibbia. Ma il tutto non avanzava e non poteva farlo per i limiti che i dogmi imponevano. Un fatto naturale ha la sua causa generatrice (causa prima) nel non indagabile Dio. Al massimo possiamo fare una qualche indagine del secondo ordine (causa seconda) che però, detta così, interessa poco perché l’argomento è a priori squalificato. Non soffriva del problema delle cause del secondo ordine la matematica che infatti, pur avendo sorte simile alle scienze della natura, non fu così completamente dimenticata (ricordo che l’aritmetica e la geometria risulteranno comprese tra le arti del quadrivio).

        Ma vi era un altro elemento che faceva trascurare completamente le scienze ed era che esse erano state sviluppate in epoca pagana ed erano state uno dei substrati culturali di quella civiltà.  Per la gran maggioranza dei pensatori cristiani dei primi secoli, i rappresentanti della cultura greca non avevano prodotto che sproloquivane chiacchiere prive della più piccola scintilla di verità, destituite di ogni fondamento. Anche il colto Tertulliano si chiedeva scandalizzato cosa mai potessero avere in comune un filosofo ed un cristiano, un discepolo dell’ellenismo ed un discepolo del cielo, un mistificatore ed un sostenitore della verità. L’intera cultura greca era da rigettare in blocco perché aveva a che fare con il diavolo. Sulla stessa strada proseguì imperterrito Clemente di Alessandria concentrandosi sulla condanna di oggetti o fatti naturali venerati dai pagani, come gli astri, i fiumi, gli animali i fenomeni meteorologici, ma anche sulla mitologia ritenuta sessualmente oscena (il che mostra che Clemente non conosceva il Vecchio Testamento in cui si raccontano storie che definire pornografiche è un dolce eufemismo). Su questo aspetto della diffamazione delle credenze precedenti, scrive Deschner (2000):

I Cristiani mostrarono, dunque, una totale indifferenza nei riguardi del fascino esercitato dai cicli naturali sui pagani, nei riguardi della loro interpretazione del mondo legata ai miti ancestrali della fertilità, all’empatia verso gli eventi terrestri e cosmici. Fu estraneo ai Cristiani quel sentimento della bellezza e della pienezza dell’ esistenza che caratterizzava, invece, il paganesimo. […]
Anche Clemente, del resto, vedeva nell’adorazione del sole, della luna, delle stelle, della terra con i suoi frutti, “la massima espressione della malvagità”, una forma “di eresia e di negazione di Dio”, “di detestabile allontanamento dalla verità, destinata a condurre l’uomo lontano dal cielo e a farlo sprofondare nell’abisso”. “Maledetta empietà”, tuonava Clemente. “Perché avete abbandonato il cielo e venerate la terra? .. Avete rivolto (non mi stancherò di ripeterlo) … la vostra devozione alla terra … Ma io la terra la calpesto con i piedi, non l’adoro”. 
In quest’ultima affermazione si coglie un’eco del passo biblico: “Schiacciateli sotto i vostri piedi!”. Si faceva, dunque, strada una nuova visione del mondo, le cui conseguenze sarebbero state di portata difficile da valutare. All’idea di un “cosmo dominato dalle forze della natura”, si sostituiva quella di un “cosmo controllato dalla Chiesa”, una sorta di antropocentrismo radicale di natura religiosa, che la Chiesa medievale avrebbe fatto proprio e sviluppato […].

        Anche quando tale atteggiamento dei pensatori cristiani, contro la produzione culturale ed in particolare scientifica della Grecia e dell’ellenismo (la diabolica Babilonia dei filosofi), verrà superato da qualcuno di essi (Basilio e Giorgio di Nazianzo) lo sarà sempre e solo con due condizioni immodificabili: è accettabile tutto ciò che non entri in contrasto con le Sacre Scritture e non distogliesse il credente dalla strada della ricerca della salvezza (con l’evidente conseguenza dell’impossibilità di ciò già solo a partire dai primi passi della Genesi). Ciò vuol dire che questi testi, rispettabilissimi ma completamente estranei ad una logica conoscitiva, divengono il primo riferimento per il confronto di ogni possibile conoscenza o acquisizione di fatti e dati. Il mondo da induttivo diventa deduttivo con la conseguenza che verranno elaborate teorie più che fantastiche completamente ridicole (anche per l’epoca). Ad esempio, ancora Agostino (con Lattanzio) rigettò la concezione degli antipodi (e Lattanzio lo faceva perché chi viveva agli antipodi si sarebbe trovato a testa in giù, ridicolo !), da ciò Lattanzio ricavò che la Terra non poteva essere sferica d’accordo con la Topographia Cristiana dell’orientale Cosma Indicopleuste (VI secolo) che costruì un modello di universo a forma di Tabernacolo (la Terra sarebbe un parallelogramma circondato da muraglie incurvate alla sommità per formare la volta celeste; al centro vi sarebbe un’alta montagna, dietro la quale il sole scompare ogni sera. Una figura che illustra tale mondo è nel paragrafo 1) che divenne l’opinione prevalente nella Chiesa per molti secoli. Spiega con maggiori dettagli Dijksterhuis:

L’opera di Cosma illustra la complicata situazione che si era venuta creando in séguito all’obbligo che gli uomini sentivano di considerare le affermazioni della Scrittura su argomenti scientifici come altrettante rivelazioni divine concernenti la natura, tali da essere accolte come pure e semplici verità. Cosma dà gli ultimi tocchi alla teoria della Terra basata su fondamenti biblici che era stata abbozzata da Clemente di Alessandria e da Teofilo di Antiochia. Egli ricava le sue argomentazioni dal racconto della creazione contenuto nella Genesi, dai libri di Giobbe e di Isaia, e dai Salmi. La Terra, circondata su quattro lati dall’Oceano, si innalza come una parete verso nord; il Sole viene trasportato ogni giorno da angeli, che lo fanno girare intorno a quell’altezza e lo portano verso il punto dove esso sorge. La sfericità della Terra va esclusa poiché in tal caso la gente che si trova dall’altra parte non potrebbe vedere il Signore quando discenderà attraverso le nubi nel giorno del giudizio.
Ora è bensì vero che Lattanzio e Cosma non debbono venir considerati come rappresentativi della cultura scientifica dei Padri della Chiesa. Un pensatore come Sant’Agostino non commette errori così elementari come quelli che si possono incontrare nelle loro opere. Anche con lui, però, diventano assolutamente evidenti le difficoltà con cui deve lottare lo studio della natura in conseguenza della necessità di prendere in considerazione le asserzioni della Scrittura. Ne è un esempio il suo punto di vista nella questione degli antipodi. Sebbene egli accetti la sfericità della Terra, respinge tuttavia l’esistenza di popolazioni che abitino le regioni della Terra che si trovino dall’altra parte rispetto a noi; non lo fa, però, in base all’argomentazione primitiva di Lattanzio, ma perché considera l’idea incompatibile con l’unità del genere umano. Per capire la sua argomentazione, bisogna partire dalla convinzione, corrente a quei tempi, che la zona temperata dell’emisfero meridionale fosse inaccessibile da nord a motivo del calore eccessivo della zona torrida intermedia. Tutti gli abitanti di quella zona avrebbero dovuto essere autoctoni, ma quest’ipotesi era inaccettabile poiché tutti gli uomini erano discesi da Adamo ed Eva, come è asserito nella Scrittura. Un’altra argomentazione derivava dalle lettere Ai Romani, X, 18, dove si dice dei predicatori del Vangelo: “il loro suono si diffuse per tutta la terra, e le loro parole giunsero sino ai confini del mondo.” Essendo certo che essi non avessero visitato gli antipodi, questi ultimi non potevano esistere.
L’esempio è istruttivo anche per un’altra ragione; esso mostra come fosse inevitabile per i Padri interessarsi di questioni scientifiche, e come fosse difficile per loro mantenere il punto di vista secondo cui le risposte a tali questioni non avevano realmente una grande importanza. Anche se l’inestinguibile sete di conoscenza dell’uomo non era tenuta in alcun conto, già l’interpretazione della Scrittura, che essi consideravano uno dei loro compiti principali e a cui essi dedicavano tutte le loro cure, li avrebbe costretti ripetutamente a interessarsi di tali questioni. Lo stesso primo capitolo della Genesi dava già origine a una quantità di questioni scientifiche: l’accenno contenuto in Genesi, 1, 1, a “i cieli e la terra” creati da Dio, prima che si parli di alcuna separazione tra il cielo e la terra, la divisione delle acque al di sopra del firmamento da quelle al di sotto di esso in 1, 6, la creazione della luce in 1, 3 nel primo giorno, mentre solo nel quarto giorno appaiono i luminari; questi erano alcuni dei problemi che l’interprete biblico doveva risolvere. In molti casi è storicamente interessante conoscere quale fosse tale soluzione, poiché in essa si può spesso discernere l’eco di idee greche più antiche, come pure l’origine di concezioni che diventeranno comuni nel Medioevo. Ci porterebbe però troppo lontano discuterne qui in maniera più dettagliata: è sufficiente dire che è riconoscibile dappertutto l’influenza del Timeo; per la loro cosmologia i Padri sembrano aver attinto abbondantemente ai commenti stoici su questo dialogo nei quali erano state incorporate anche le teorie aristoteliche concernenti gli elementi. Per i nostri scopi, però, il punto principale è che la nuova fonte di conoscenza per la ricerca scientifica, quale si pensava essere la Scrittura (idea che, considerata l’importanza di questo libro, era assolutamente coerente), doveva inevitabilmente portare a intensificare e a confondere i problemi in misura eccessiva. Se si ricorda anche che la scienza stessa era da molto tempo in decadenza, non è difficile comprendere come il periodo patristico fosse un’era in cui non ci si doveva aspettare la sua rinascita.

        A proposito del rifiuto dei pensatori cristiani di ogni cosa che sapesse di paganesimo e della successiva accettazione di qualche elemento del passato, riporto un commento di Grant:

Nonostante l’ovvia preoccupazione per i potenziali pericoli insiti nella cultura pagana, della quale scienza e filosofia erano parti integranti, le circostanze imposero un mbarazzato compromesso. Pressoché tutto il sapere secolare disponibile era di origine pagana. L’istruzione, tanto elementare quanto superiore, era permeata di riferimenti alla religione, alla filosofia, alla mitologia e alla letteratura pagane. Gli esempi nei testi di grammatica e retorica erano sistematicamente estratti da fonti pagane. Inevitabilmente, la regolare formazione secolare dei cristiani traeva in gran parte alimento dalla cultura pagana tradizionale. Pur con riluttanza, la Chiesa avvertì la necessità di modificare il suo atteggiamento, anche se non il proprio disagio, verso il sapere e la scienza pagani. In effetti, il racconto della creazione nella Genesi metteva i cristiani di fronte alla necessità di fornire, entro certi limiti, spiegazioni di carattere fisico sul mondo, come risulta evidente dai numerosi commentari sui sei giorni della creazione, o trattati esamerali come venivano chiamati, che cominciarono ad apparire nel quarto secolo.

        Ed a proposito della bontà di qualcuno che sosteneva che in fondo non c’era nulla di male a studiare la natura c’è solo da osservare che tali concessioni avvenivano dopo che tale studio era stato ammazzato.


7 – LE COMPILAZIONI


        Uno degli effetti della crisi e dell’obsolescenza sempre maggiore delle conoscenze fu la preoccupazione di molti studiosi dell’Occidente cristiano di raccogliere in compilazioni ciò che risultava ancora essere il risultato delle speculazioni scientifiche e filosofiche dei periodi precedenti. La crisi si faceva sempre più grave e piano piano da una parte il numero degli autori diminuì con grande rapidità e dall’altra la compilazione diventava sempre più il riassunto di riassunti cosicché arriviamo a nozioni fantastiche che hanno perso ogni carattere di scientificità, di rigore e di rapporto con la conoscenza del mondo. Ad un certo punto non si conoscevano più né Aristotele, né Euclide, né Pitagora, né Archimede, … si era ripiombati nell’oscurità più completa. Ciò diventava comunque inessenziale perché, a fronte di quanto detto, vennero a mancare anche persone in grado di leggere concetti così complessi ed evoluti. Qualcuno capì che c’erano delle conoscenze da salvare ed era inutile dilungarsi in trattati elaborati. Si trattava di salvare il salvabile riunendo nel minor numero possibile di pagine alcune notizie, alcuni frammenti, delle più diverse discipline. La cosa risultò completamente inefficace perché, ad esempio, un teorema privato della sua dimostrazione non rappresentava più nulla. In ogni caso almeno tre di questi compilatori occidentali vanno ricordati: il cartaginese Marziano Capella (IV-V secolo), il romano Severino Boezio (476-525), il calabrese Aurelio Cassiodoro (circa 490 – circa 583). Ad essi seguirono in epoche più tarde: il vescovo visigoto Isidoro di Siviglia o Ispano (560-636), il benedettino inglese Beda il Venerabile (circa 672-735), il teologo britannico Alcuino di York (735-804).

          Marziano Capella, avvocato pagano, neoplatonico e neopitagorico, scrisse un’opera didattica (inizi V secolo) dedicata a suo figlio, De nuptiis Philologiae et Mercurii (con Mercurio che ha notevoli somiglianze con Hermes Trismegisto), che raccoglieva molte elaborazioni classiche in una sorta di compilazione che avrà molto successo nel Medioevo cristiano. Tra i nove libri dell’opera, dedicati alle sette arti liberali (grammatica, dialettica, retorica, geometria, aritmetica, astronomia e musica), quelli che ci riguardano sono:

Liber VI: De geometria
Liber VII: De arithmetica
Liber VIII: De astronomia
Liber IX: De harmonia

        E’ d’interesse notare che dalla traccia fornita da Capella, in un latino molto discutibile e con fantasiose allegorie esplicative, si trarrà il sistema che sarà adottato come base dell’educazione cristiana.

        Severino Boezio, cristiano  ma libero nel suo pensare, legato alle tradizioni stoiche e neoplatoniche, scrisse la sua compilazione più nota, De consolatione philosophiae in cinque libri, dalle carceri di Teodorico dove era finito con l’accusa di praticare arti magiche. In realtà Boezio era caduto in disgrazia presso Teodorico per aver auspicato il ritorno della libertà romana e fu per questo che Teodorico lo fece incarcerare e giustiziare. Quest’opera, molto vasta e nella quale non compare mai il nome di Cristo, sarà per tutto il Medioevo una delle fonti più autorevoli del pensiero cristiano. L’indice dell’opera è il seguente:

Si duole e rammarica in questo libro Boezio colla Filosofia dell’acerbità delle sue sventure, inasprite ancora più dalla rammemorazione delle grandezze e felicilà passate

In questo secondo libro gli applica la Filosofia alcuni rimedii più blandi e gli dimostra che a torto lagnasi della fortuna.

Rappresenta questo libro altri rimedii più forti ed efficaci per liberarlo dall’afflizione e travaglio dell’ animo ; e , cavata la maschera alla felicità falsa ed ingannevole, gli dichiara qual sia la vera beatitudine

Questo quarto libro gl’insegna come, se Dio è rettore del tutto, non possono i malvagi esser se non infelici ed impotenti, ed all’ incontro i buoni se non potenti e beati. E così mettesi a trattare della provvidenza e del fato, e mostragli come non si dà fortuna trista

Trattasi in questo libro del caso, della libertà dell’arbitrio, e della concordia della libertà colla prescienza di Dio.

         Boezio, l’ultimo dei Romani ed il primo degli Scolastici e Maestro del Medioevo, scrisse anche di aritmetica nelle sue Institutiones arithmeticae, Qui raccolse le conoscenze elementari che si avevano dell’aritmetica con qualche pretesa inesistente di novità. Risulterebbe anche un’opera di geometria che però non ci è pervenuta (esiste un’opera di Geometria firmata Boezio ma il fatto che vi si usino per i numeri i simboli oggi noti dall’1 al 9, che sappiamo essere stati introdotti molto più tardi da Fibonacci, fa ritenere non attendibile l’attribuzione). Scrisse anche un rifacimento dell’opera di Nicomaco, una compilazione delle opere di Nicomaco, Euclide e Tolomeo sulla musica, un riassunto degli Elementi di Euclide e dei lavori astronomici di Tolomeo. Da ultimo occorre dire che Boezio fece pure una traduzione delle opere di logica di Aristotele come le Categorie ed il De interpretatione (si era proposto di tradurre tutto l’Aristotele ed il Platone noti in Occidente ma non visse abbastanza), opere che determinarono per molti secoli i maggiori interessi extrateologici.

       Aurelio Cassiodoro fu un politico calabrese che servì il re ostrogoto Teodorico. In vecchia si ritirò in Calabria dove fondò un monastero, quello di Vivario, in cui istituì uno scriptorium per la raccolta e la riproduzione di manoscritti, che fu il modello a cui successivamente si ispirarono i monasteri medievali, come quelli benedettini (a questa scuola dobbiamo il paziente lavoro di copiatura di innumerevoli opere classiche che non erano neppure capite). Scrisse un’opera che fu molto utilizzata fino al Medioevo, le Institutiones divinarum et saecularium litterarum, che erano un compendio, da una parte, utile per lo studio delle Sacre Scritture e dall’altra delle varie arti liberali tra cui l’aritmetica, la geometria con l’aggiunta dell’astronomia. Altra opera con le caratteristiche di compilazione è la sua Varirum epistolarum libri XII. Tra le sue opere didattiche per il clero, si annoverarono la De artibus ac disciplinis liberalium litterarum, i Commenta psalterii, comprendenti anche una mistica dei numeri, le Epistolas et Acta apostolorum et Apocalypsin. A Cassisodoro si deve una suddivisione delle artes liberales in artes (grammatica, retorica e dialettica) e disciplinae (aritmetica, geometria, musica e astronomia) suddivisione che sarà conosciuta in seguito come le arti del Trivio e del Quadrivio. Inaugurando, pur in un ambito molto povero, una differenza tra discipline che prefigura quella che da secoli ci portiamo dietro.

        Ed i tre citati sono i massimi compilatori tra i quali un ruolo di pensatore e filosofo può forse essere assegnato al solo Boezio. Riguardo agli altri tre, minori, si possono ricordare alcune piccole cose.

        Isidoro di Siviglia scrisse le Etymologiae sive originum in venti libri, enciclopedia di tutto lo scibile del tempo: arti liberali, religione, medicina, diritto, lingue e popoli, l’uomo e gli animali, la geografia, l’architettura, l’agricoltura, la geologia, la guerra, le armi, l’abbigliamento e i mezzi di trasporto. Secondo Isidoro è solo attraverso la conoscenza delle etimologie che si possono conoscere davvero fatti e cose. E poiché molte etimologie proposte sono errate, si può ben capire cosa accade delle informazioni riportate. Inoltre l’ignoranza complessiva era davvero abissale e per rendere conto di tali bassissimi livelli a cui si era giunti, riporto un brano tratto da Grant:

Isidoro aveva ancora meno da dire di geometria che di aritmetica. Cominciando con una strana quadruplice divisione della geometria in figure piane, grandezze numeriche, grandezze razionali e figure solide, egli conclude con le definizioni di punto, linea, cerchio, cubo, cono, sfera, quadrilatero e con qualche altra. Qui troviamo il cubo definito come «una figura solida limitata da lunghezza, larghezza e spessore», una definizione applicabile ad ogni altro solido (Euclide lo definisce come «una figura solida compresa da sei quadrati uguali»). Un quadrilatero è «un quadrato, giacente su un piano, costituito da quattro linee rette», e così tutte le figure di quattro lati vengono identificate con i quadrati!

        C’è da aggiungere che Isidoro aveva molta tolleranza verso l’astrologia (contrariamente ad Agostino che malediva i matematici (cioè gli astrologi) dicendo che si trattava di impostori che non compiono sacrifici e non pregano alcuna divinità per le loro predizioni, arti che la vera e cristiana pietà respinge e condanna recisamente). Isidoro distingueva tra astrologia naturale e superstiziosa. L’ultima era la scienza praticata dai matematici che leggono le profezie del cielo, considerano le dodici costellazioni come capaci di agire sull’anima e sul corpo e dal corso delle stelle predicono gli oroscopi e i destini degli uomini. Egli accettava quindi molte delle conclusioni dell’astrologia arrivando a consigliarne lo studio ai medici. D’altra parte l’astrologia è stata ed è un eterno supplizio per la Chiesa che non risolse ed ancora non risolve. Anche Agostino ebbe a che fare in modo contraddittorio con essa. Leggiamolo nelle parole di Dijksterhuis:

L’atteggiamento polemico spesso assunto dai Padri verso la scienza pagana (quando Sant’Agostino riconosce che è desiderabile studiarla, lo fa con intenzioni polemiche, cioè per mettere il Cristiano in grado di tener fronte agli oppositori pagani e per proteggerlo dal fascino che le loro teorie potrebbero esercitare se fossero nuove per lui) si manifesta nel modo più netto nella lotta contro l’astrologia. Sebbene la genetlialogia fosse accettabile per il fatalismo degli Stoici, era inaccettabile per coloro che condividevano la convinzione cristiana della libera volontà dell’uomo di scegliere tra il bene ed il male. Sant’Agoostino, perciò – per fare solo un esempio – elenca tutte le argomentazioni tradizionali che si potevano trovare già in Carneade, e mostra di attribuire grande valore particolarmente alla argomentazione dei gemelli [due persone che dovrebbero avere medesima sorte, ndr], giacché questo, secondo il suo parere, confuterebbe anche l’idea moderata che le stelle hanno la funzione di indizi e non di cause.
Per quanto intransigente e inflessibile possa sembrare il suo ripudio dell’astrologia, a un esame più approfondito mostra qualche punto debole, che non sarà privo di significato nell’ulteriore sviluppo dei rapporti tra il Cristianesimo e l’astrologia. In primo luogo la sua condanna dell’astrologia non si estende alla dottrina dell’influenza delle stelle sui processi puramente fisici; come ogni altro pensatore dell’Antichità Sant’Agostino non poteva fare a meno di essere colpito dall’evidente interdipendenza tra i fenomeni naturali che hanno luogo sulla Terra e le posizioni e i movimenti di certi corpi celesti (il succedersi delle stagioni in connessione col Sole, l’influenza della Luna sulle maree), e dall’antica credenza popolare che vi fosse una connessione tra i processi di crescita sulla terra e le diverse fasi della Luna. Per questa via si era già aperta la porta, almeno in linea di principio, al riconoscimento del valore dell’astrologia nella scienza medica. Successivamente però, proprio come Origeene e Lattanzio, Sant’Agostino fa chiaramente capire di considerare l’ambizione degli astrologi di leggere nelle stelle la sorte degli uomini come una pretesa peccaminosa piuttosto che come una pretesa stupida. Non è affatto coerente con le sue idee respingere come impossibile una praescientia futurorum, una precognizione di ciò che il futuro ha in serbo; egli disapprova fortemente il fatto che Cicerone l’abbia respinta, e qualifica come la più evidente pazzia credere in Dio e negare che Egli in- qualsiasi misura conosca il futuro. 
Ma l’uomo non dovrebbe presumere di penetrare nel mistero divino, e questo è proprio ciò che l’astrologo tenta di fare. Che cosa c’è di peccaminoso in ciò? La risposta è non meno sorprendente che significativa: egli può riuscire soltanto con l’aiuto di demoni, cioè di nemici di Dio. Così si è proibita l’astrologia, ma non se ne è esclusa la possibilità. Infatti se i demoni sono in grado di leggere il futuro nelle stelle e di permettere all’astrologo che ha fatto ricorso al loro aiuto di partecipare della loro conoscenza, ne segue che il futuro dev’essere scritto in qualche modo nelle stelle, giacché neppure i demoni potrebbero leggere alcunché dove nulla fosse scritto. È evidente che la questione non può considerarsi risolta, e infatti il punto di vista che un Cristiano deve assumere nei riguardi dell’astrologia doveva venire ripetutamente discusso e qualificato.
I Padri non ammettono soltanto la possibilità di praticare efficacemente l’astrologia con l’aiuto di demoni, ma accettano anche la realtà di un’arte magica praticata col medesimo aiuto. Ma proprio per questa ragione il Cristiano deve astenersene. Con la venuta di Cristo ha avuto inizio la contesa con Satana e le sue schiere; i gentili erano ancora liberi di servirsi del loro aiuto, ma ai Cristiani non si permette più di farlo. Nella persona dei tre Magi provenienti dall’Oriente – è questa l’interpretazione di Tertulliano (sulla quale indugia ancora oggi, 6 gennaio 2010, Bendetto XVI tentando un ulteriore imbroglio nei riguardi del suo gregge e raccontando dei Magi che sarebbero i veri scienziati, proprio così !) – l’arte magica veniva a consegnare il suo dominio alla mangiatoia del Salvatore, e quest’abdicazione è espressa dal fatto che essi fecero ritorno al loro paese per una via diversa da quella per la quale erano venuti (Matteo, n,12).

        Beda il Venerabile scrisse un lavoro sui fenomeni naturali (De Natura Rerum) e due sulla cronologia (De temporibus e De temporum ratione). Fece anche un calcolo approssimato dell’età della Terra ed iniziò a dividere gli anni in prima di Cristo e dopo Cristo. Scrisse che la Terra è rotonda come una palla da gioco, in contrasto con l’opinione corrente di una terra piatta (a questo punto la regressione aveva portato!).

         Alcuino di York scrisse diverse opere (De grammatica, De dialectica, De rhetorica, De orthographia, De virtutibus et vitiis ad Widonem comitem, Disputatio Pippini cum Albino scolastico, De Cursu et Saltu Lunae ac Bissexto)che nel complesso rappresentano la compilazione delle conoscenze dell’epoca e che in definitiva sono le arti liberali. Egli scrisse poi una raccolta di Propositiones ad acuendos iuvenes in cui erano poste varie questioni di aritmetica e geometria, oltre a vari indovinelli (famoso quello del salvare capra e cavoli). Nel 782 Alcuino fu chiamato da Carlo Magno a dirigere la Schola Palatina di Aquisgrana che per il suo lavoro di educatore laico divenne ciò che il Re aveva sognato: il centro della conoscenza e della cultura per l’intero regno e per l’Europa intera. Carlo Magno stesso, la sua regina, sua sorella, i suoi tre figli e le due figlie studiarono presso la scuola, un esempio che il resto della nobiltà non mancò di imitare.

        Altre opere che ebbero in un dato tempo una certa importanza sono le seguenti:  il Commento al Timeo di Platone del neoplatonico Calcidio (III secolo), gli scritti militari, e quelli sulla veterinaria (Mulomedicinae) di Flavio e Publio Vegezio appartenenti allo stesso secolo, il Commento al Sommnium Scipionis di Cicerone dovuto a Teodosio Macrobio (400 circa),i Placita Philosophorum dello pseudo Plutarco, e le Eclogae di Stobeo (V secolo) redazioni diverse di una stessa raccolta dossografica. Circolavano infine scritti medici ed erboristici volti in rozzo latino (come le pagine di Ippocrate e di Dioscoride), nonché ricette alchimistiche e artigianali. E di tutto ciò facevano tesoro frati curanti e farmacisti, e pochi laici guaritori. Anche la botanica di Pedanio Dioscoride non fu affatto dimenticata, e del pari non lo furono la scienza, le frottole e la poesia del generoso Plinio, come provano anche bestiari, erbari e lapidari di predecessori e contemporanei di Dante.

        La conoscenza del Timeo di Platone, una delle pochissime opere classiche pervenute alla conoscenza dei pensatori  cristiani, ebbe una certa rilevanza. Leggimao in proposito cosa dice Singer:

Delle opere di Platone, il Timeo ben si conciliava con il neoplatonismo del tardo impero e non era incompatibile con la fede cristiana. Parte di un commentario latino al Timeo, redatto nel terzo secolo, presenta una dottrina dell’universo e dell’uomo che permarrà lungo tutto il Medioevo, divenendo una delle opere più influenti dell’antichità, perché recava il dogma centrale della scienza medievale, la dottrina del macrocosmo e del microcosmo (vedi figura seguente). L’idea che la natura e la struttura dell’universo adombrino la natura e la struttura dell’uomo è di fondamentale importanza per intendere la scienza medievale.

Epitome della dottrina del macrocosmo e del microcosmo. Una serie di cerchi concentrici rappresenta le sfere concentriche della astronomia antica, con il Mondo, l’Anno e l’Uomo al centro. Un altro cerchio porta il nome dei quattro elementi, associati alle quattro stagioni e ai quattro umori. Ai lati di ciascun elemento sono i nomi delle «qualità». Il cerchio più esterno raffigura il limite che divide il nostro mondo da quello celeste di cui non possediamo una conoscenza diretta. La figura è tratta dall’opera di Isidoro di Siviglia De responsione mundi et astrorum ordinatione, stampata ad Augusta nel 1472. Tale dottrina fu accettata e compresa per tutto il periodo intercorso tra poco prima dell’ era cristiana e il XVII secolo.

Si osservi che abbiamo a che fare anche con i quattro elementi di Aristotele con le qualità primarie e secondarie che ad essi competono.

        Il Demiurgo di Platone (il Mosè dell’Attica) somigliava molto al racconto della Creazione nella Genesi e qualcuno insinuò, essendo subito creduto, che Platone avesse scritto dopo aver conosciuto la Bibbia dei Settanta in Egitto e fosse addirittura entrato in contatto con il profeta Geremia (ma la storia dei credenti non ha nulla a che vedere con quella che è, infatti Platone era nato troppo presto perché potesse aver letto quella Bibbia e troppo tardi per aver conosciuto Geremia). Ma tanto bastò perché si creasse tra platonismo, e soprattutto neoplatonismo,  e cristianesimo uno stretto rapporto che durò molto nel tempo finché non fu sostituito con l’Aristotele di Tommaso nel XIII secolo. Ed aggiunge Dijksterhuis:

Così tutto congiurava a mantener vivo il crudo contrasto assiologico tra il regno dell’intelletto e quello della materia che è sempre stato così dannoso per lo sviluppo della scienza. Non poteva ancora sorgere l’idea che l’intera creazione partecipasse in qualche misura della perfezione di Dio e perciò meritasse l’ammirazione e l’attenzione dell’uomo; ciò aiuta molto a capire perché la scienza fosse molto meno apprezzata di quanto ci si sarebbe potuto aspettare in considerazione della concezione cristiana della genesi del mondo e del suo duraturo rapporto col suo Creatore. Infatti, sebbene dopo la Caduta questa creazione si sia corrotta, così da non possedere più la sua bellezza originaria, tuttavia le parole di San Paolo (Ai Romani, 1, 20), in cui parla della comprensione e della visione delle invisibili cose di Dio, restavano ancora valide. 
A questo modo di vedere tipico dei pensatori Cristiani è possibile rintracciare un antecedente nell’influenza dei filosofi pagani. È questo il primo esempio del fenomeno, frequentemente osservabile, che nonostante la sua netta opposizione al Paganesimo nelle sfere della religione e dell’etica, il Cristianesimo era sempre prontissimo a goderne i tesori filosofici. Per coloro che potessero pensare che ciò fosse strano o indegno di un cristiano, Sant’Agostino aveva giustificato questi prestiti una volta per tutte: i pagani posseggono sì questi tesori, ma non ne sono i possessori di pieno diritto; per diritto quei tesori appartengono ai Cristiani, che saranno i primi a farne il giusto uso; quando si impadroniscono di questi tesori, non fanno altro che comportarsi come gli Ebrei, che, uscendo dall’Egitto portarono con sé, col consenso del Signore, vasi d’oro e d’argento, gioielli e vestiti preziosi che erano appartenuti agli Egizi, poiché potevano farne un miglior uso. E ogni sorpresa per il fatto che tanta saggezza era stata data a popoli che erano rimasti privi della luce della Rivelazione veniva eliminata citando il passo del Vangelo secondo Giovanni, 1, 9, dove si dice che la Luce illumina ogni uomo che viene al mondo.

* * *

        Prima di passare ad epoche successive, occorre dare un’occhiata a cosa accadeva in Oriente che, come detto più volte, non soffriva allo stesso modo dei drammi ora visti in Occidente. 

8 – UN PICCOLO RINASCIMENTO IN ORIENTE

        In Oriente a partire dal VI secolo si ebbe qualche segnale di ripresa come discuterò dopo aver accennato ad un altro nome entrato nella mitologia cristiana come Hermes Trismegisto. Mi riferisco a Dionigi l’Areopagita cui furono attribuiti un certo numero di scritti, firmati Dionigi, che eserciteranno vasta influenza sui pensatori medioevali dell’Occidente. Chi era questo personaggio ?  La firma parla di Dionigi, da dove proviene quindi quell’Areopagita ? Da uno scritto sacro, gli Atti degli Apostoli. In questo scritto (XVII, 34) risulta che un tal Dionigi fu convertito al cristianesimo da Paolo di Tarso nell’Areopago di Atene durante il I secolo. Per ciò che tali scritti contengono e per altre questioni storiche essi non possono essere anteriori alla fine del V secolo e che quindi l’attribuirli a quel Dionigi è del tutto impossibile (o quantomeno falso). Presentare nel VI secolo tali scritti come risalenti al I secolo significava aumentarne l’autorità intanto perché legati direttamente al più influente apostolo e poi perché Dionigi sarebbe stato uno tra i primi pensatori pagani ad abbracciare il cristianesimo con ciò che ne conseguiva in termini di continuità (supposta e millantata) tra la filosofia della Grecia classica e quella cristiana. Ho già accennato ad Hermes e dell’uso che di tale ipotetica persona fece Lattanzio. Questo è un caso simile ma ve ne furono molti altri nel Medioevo, quando la gestione delle fonti era monopolio di pochi ecclesiastici, perché il cristianesimo, oltre ad ottime persone in totale buona fede, ha sempre avuto dentro grandi bugiardi e falsificatori. Oltre quindi a questi scritti dello pseudo Dionigi, ve ne saranno dello pseudo Agostino, dello pseudo Boezio, … Fu solo nel periodo dell’umanesimo, quando si ebbe un ritorno alla filologia, che si riuscirono a scoprire molti falsi apocrifi. In definitiva Dionigi deve essere stato uno scrittore mistico del V o VI secolo con idee fortemente in linea con il neoplatonismo e particolarmente con Proclo che, incredibilmente per uno del I secolo, viene citato continuamente nell’opera di Dionigi pur essendo Proclo (411-485) del V secolo. Nell’opera di Dionigi vengono esasperate le difficoltà della teologia che affermava le qualità di Dio passando ad altro modo di trattare la somma divinità, cioè attraverso ciò che essa non è. Viene  inoltre data notevole importanza a tutti gli intermediari di Dio dal cielo alla terra con chiara derivazione da Plotino ed una visione complessivamente panteistica che si rifletterà in molti mistici medioevali.

        Fatta questa digressione su imbrogli di fede, passiamo ad accennare al periodo che Lucio Russo definisce uno dei rinascimenti, in riferimento all’epoca d’oro dell’ellenismo. Abbiamo già parlato della frattura economico-politica e conseguentemente spirituale che nel VI secolo si creò tra Occidente ed Oriente, frattura legata a fattori storici peculiari, come le invasioni barbariche, ma sul piano culturale anche conseguenza della differenziazione linguistica. Alcuni elementi della storia del periodo li ho già forniti ma è utile ricapitolare molto in breve cosa accadde in Oriente.

        Dopo che nel 415 Ipazia, la matematica direttrice della Biblioteca di Alessandria fu fatta a pezzi dai cristiani fondamentalisti istigati dal criminale patriarca Cirillo e guidati da un lettore di nome Pietro (13), si chiuse l’esperienza fantastica dell’ambiente culturale della Biblioteca. L’ultimo rifugio di scienziati, filosofi, artisti, … fu la rinata Accademia di Atene (aveva chiuso dopo la prima occupazione romana finché Marco Aurelio non la riconobbe finanziandola) fondata secoli prima  (387 a.C.) da Platone nella quale Proclo insegnava matematica e filosofia. A questa scuola si formarono molti studiosi che proseguirono l’opera di Proclo scrivendo commenti di molte delle opere classiche della matematica e filosofia greche, in particolare di Euclide. Tra questi è da ricordare Eutocio di Ascalona, che scrisse su Archimede e Apollonio,  e Simplicio che si soffermò a commentare diffusamente Aristotele. Anche qui arrivarono i cristiani fondamentalisti come l’Imperatore Giustiniano I di Bisanzio (527-565) che la fece chiudere d’autorità con un suo editto nel 529. A questo imperatore cristianissimo si deve anche il Codice Giustiniano che conteneva due statuti (Cod., I, XI 9 e 10) i quali decretavano la totale distruzione della cultura ellenistica, anche nella vita civile; queste disposizioni vennero attuate con assoluto rigore. Le fonti dell’epoca raccontano di gravi persecuzioni, anche di personalità importanti per il solo non aderire al cristianesimo. Anche gli ebrei soffrirono; non solo le autorità restrinsero i loro diritti civili (Cod., I., v. 12), e minacciarono i loro privilegi religiosi (Procopio, Historia Arcana, 28); ma l’imperatore interferì negli affari interni della sinagoga (Nov., cxlvi., Feb. 8, 553), vietando ad esempio l’uso della lingua ebraica nel culto. I recalcitranti vennero minacciati con punizioni corporali, esilio e perdita delle proprietà. Molti di loro dovettero abbracciare la cristianità; molte sinagoghe divennero chiese (ad esempio: Procopio, De Aedificiis, vi. 2).

        Dalla caduta dell’Accademia di Atene l’ultimo rifugio per i filosofi e gli scienziati fu Bisanzio dove gli sforzi si concentrarono nella conservazione dei patrimoni culturali del passato con maggiore facilità dovuta, come accennato, alla lingua. Su questo periodo riporto il giudizio di Lucio Russo:

[Uno dei rinascimenti, dopo l’ellenismo, risale] alla prima metà del VI secolo d.C. ed ebbe tra i suoi maggiori esponenti Simplicio; Giovanni Filopono, Eutocio, Antemio di Tralle e Isidoro di Mileto. Ai fini del nostro discorso interessano solo poche osservazioni su questo risveglio culturale.
Questi autori mostrano grande interesse per la scienza ellenistica: Eutocio non solo scrisse un commento ad alcune opere di Archimede e di Apollonio, ma credette anche di ritrovare una dimostrazione perduta di Archimede. Giovanni Filopono (che, come Simplicio, è noto soprattutto come commentatore di Aristotele) si interessò anche di matematica e scrisse un’opera sull’astrolabio. Isidoro di Mileto (noto soprattutto per essere stato, con Antemio, l’architetto autore della basilica di Santa Sofia a Costantinopoli) curò un’edizione di opere di Archimede e scrisse, tra l’altro, commenti a Erone. Anche la sua opera sui meccanismi meravigliosi è evidentemente basata su fonti ellenistiche.
Gli intellettuali ricordati sono tutti condiscepoli, essendo stati allievi di Ammonio Ermia ad Alessandria; Antemio di Tralle, al quale Eutocio dedica i suoi commenti ad Archimede, ha Isidoro di Mileto come suo collaboratore e successore. In questo ambiente sono note alcune opere ellenistiche sconosciute agli studiosi alessandrini dei primi secoli della nostra era: ad esempio l’opera di Diocle sugli specchi ustori era stata sconosciuta a Pappo, ma è citata da Eutocio e Simplicio è l’unica nostra fonte esplicita sull’opera perduta di Ipparco sul moto dei gravi. Forse lo spostamento del baricentro culturale da Alessandria a Bisanzio (dove lavorarono in particolare Antemio e Isidoro) aveva portato all’acquisizione di opere conservate in Oriente, che non erano mai entrate nella tradizione alessandrina; si può osservare che Simplicio (originario della Cilicia) dopo la chiusura della scuola filosofica di Atene si recò in Persia e che Giovanni Filopono dedicò una sua opera al patriarca di Antiochia.
Il livello di originalità scientifica degli autori di questo periodo è pressoché nullo. Il commento di Eutocio ad Archimede è per noi molto importante come unica fonte su diverse opere matematiche ellenistiche, ma non è mai originale. La trattazione di Antemio delle coniche mostra un livello matematico ben misero se confrontato con l’opera di Apollonio di Perge e Simplicio mostra di non capire l’opera di Ipparco. La presenza in opere di quest’epoca di conoscenze a noi non note da altra fonte ha fatto tuttavia datare spesso al VI secolo scoperte scientifiche o tecnologiche.

9 – GIOVANNI FILOPONO

       Un pensatore or ora citato da Russo che merita attenzione nel deserto che circondava la conoscenza è Giovanni Filopono di Alessandria (circa 490 – 570). L’interesse è legato al seguito che alcune sue ricerche ebbero durante l’Alto Medioevo nelle scuole di Oxford e Cambridge del XII e XIII secolo ed addirittura fino a Galileo. Egli è uno dei tanti commentatori di Aristotele che opera nell’Impero bizantino come direttore della Biblioteca di Alessandria. E’ un neoplatonico convertito al cristianesimo che trasformerà la scuola di Alessandria in una sorta di scuola di teologia e che sarà però condannato dalla Chiesa (681) per eresia (per aver tentato di spiegare la Trinità con Aristotele era arrivato alla teoria Triteista, nella quale il Dio unico si articola in tre persone legate in una triade divina, arrivando a sostenere che le tre persone sono distinte ma accomunate alla Natura Divina alla stessa maniera in cui gli individui di una stessa specie ne fanno parte. Oltre a questo negò la Resurrezione dei corpi, si schierò contro le tesi del Concilio di Calcedonia tanto che lo stesso Imperatore cristiano Giustiniano, quello che chiuse la Scuola di Atene, gli intimò di andare a giustificare l’eresia. Filopono non andò e ricevette la condanna a distanza dal Capo della Chiesa, Giovanni Scolastico (525-606), che era secondo all’Imperatore. Erano passati circa novecento anni dalla morte di Aristotele perché qualcuno rimettesse in discussione alcune formulazioni non di poco conto alla base del suo complesso edificio. Filopono merita di essere ricordato perché, nel suo commentare Aristotele, quell’Aristotele che arrivava in lettura platonica, mostra che alcune cose non gli tornano. Ed in particolare non gli tornava un mondo in cui i cieli erano trasportati dalle essenze angeliche. Per risolvere le difficoltà avanzò una teoria, quella dell’impetus. Seguirò questo sviluppo con qualche dettaglio proprio per quanto detto sulle sue ricadute posteriori.

    La critica di Filopono ad Aristotele è radicale e per capirla occorre riprendere alcune concezioni di Aristotele sullo spazio, il tempo ed il luogo.

   L’universo aristotelico essendo finito e tutto pieno non prevede l’esistenza del vuoto. Ciò vuol dire che al di là dell’ultima sfera non vi è alcuna cosa, neppure il vuoto. Cerchiamo ora di vedere quali sono le motivazioni che Aristotele porta all’impossibilità dell’esistenza del vuoto all’interno della sfera delle stelle fisse.

      Poiché il vuoto, se c’è, deve essere in qualche luogo e poiché il luogo è definito quando è occupato da un corpo (o più in generale da materia), è assurdo pensare alla sua esistenza essendo il vuoto, per sua definizione, assenza di corpo e di materia.

       Ci sono poi alcuni che credono nell’esistenza del vuoto in quanto esiste il movimento ma, osserva Aristotele, “non è possibile che neppure un solo oggetto si muova, qualora il vuoto esista“.

       Infatti se ci riferiamo ai moti che avvengono naturalmente in natura (i “moti naturali”, quelli rettilinei che procedono dall’alto verso il basso o dal basso verso l’alto), come è possibile che essi accadano o nell’infinito o nel vuoto, se sia infinito che vuoto non hanno luoghi particolari verso cui una cosa possa muoversi (come per esempio il fiume verso il mare, il fuoco verso l’alto, la terra verso il basso,…)? Se ci riferiamo invece ai moti violenti, ebbene, un sasso lanciato continua nella sua corsa

perché l’aria, spinta, spinge a sua volta con un moto più veloce di quello spostamento del corpo spinto in virtù del quale il corpo stesso viene spostato verso il suo proprio luogo“.


     E’ quindi l’aria che permette l’esistenza di un moto; è l’aria infatti che sostiene una freccia lanciata e che, chiudendosi dietro di essa, la sospinge.
    Dice poi Aristotele nel De Coelo:

…al di fuori del cielo non c’è, né è ammissibile che venga ad essere, alcuna mole corporea; il mondo nella sua totalità è dunque formato di tutta la materia propria ad esso… cosicché… questo cielo è uno, e solo, e perfetto.

E’ insieme evidente anche che fuori del cielo non c’è né luogo, né vuoto, né tempo. In ogni luogo infatti può sempre trovarsi un corpo; vuoto poi dicono essere ciò in cui non si trova presente un corpo, ma può venire a trovarsi; tempo infine è il numero del movimento, e non c’è movimento dove non c’è un corpo naturale
“.

       Da questo branorisulta che l’intero spazio concepibile da Aristotele è all’interno dell’ultima sfera, quella delle stelle fisse. Anzi per essere più precisi esso è all’interno della superficie interna dell’ultima sfera. Dice Aristotele, che usa il termine luogo invece del nostro spazio:

…il luogo è il primo immobile limite del contenente“.

      E siccome il contenente è l’ultima sfera essa è il limite del luogo. Inoltre l’esistenza del luogo rende possibile il moto:

il più comune e fondamentale movimento, quello che si suol chiamare spostamento, è in relazione ad un luogo“.

         D’altra parte l’evidenza naturale di movimenti rende plausibile l’esistenza del luogo:

Che il luogo esista sembra risultare chiaro dallo spostamento reciproco dei corpi“.

   E poiché un luogo è definito dalla presenza di un corpo, allora:

sarebbe lecito supporre che il luogo sia qualcosa che prescinde dai corpi“.

Ed inoltre:

…è difficile determinare che cosa esso sia, se una massa corporea o qualche altra natura… Comunque, esso ha tre dimensioni: lunghezza, larghezza e profondità, le stesse da cui ogni corpo è determinato. Ma è impossibile che il luogo sia un corpo, perché allora in esso stesso ci sarebbero due corpi“.

     In definitiva, poiché l’ultima sfera, quella delle stelle fisse, si muove e poiché il movimento è possibile là dove c’è un luogo, allora:

“anche il cielo, anzi esso più di ogni altra cosa, è in un luogo, poiché il cielo è sempre in movimento”.

    Se uno però sta un poco attento al legame esistente tra queste affermazioni, si accorge che esiste almeno una incongruenza. Poiché infatti il movimento, inteso come spostamento, è definito da Aristotele come l’occupare successivo di luoghi diversi, se non c’è luogo al di là dell’ultima sfera, com’è possibile che essa ruoti? E d’altra parte, essendo la Terra immobile, essa (ultima sfera) ruota.

    Questa difficoltà era ben presente in Aristotele il quale, per conciliare l’inesistenza di qualunque cosa (anche il vuoto) al di là dell’ultima sfera, con il fatto che essa ruota (dovendo perciò occupare luoghi diversi) è costretto ad ammettere che l’ultima sfera, pur ruotando, occupa sempre lo stesso luogo:

…ciò che si muove in circolo non può mutar di luogo“.

Evidentemente questo è il punto più debole della teoria aristotelica di luogo e di moto e proprio su questo punto si inserisce la critica di Filopono.

    Secondo Filopono c’è innanzi tutto da rimettere in discussione la teoria del movimento di Aristotele. Se si lancia un proiettile

è necessario che una certa potenza motrice incorporea sia ceduta al proiettile dallo strumento che lo lancia; l’aria non contribuisce affatto a tal moto, e vi contrasta ben poco…“.

    Questa formulazione, che anticipa teoria dell’impetus, fa a meno del mezzo per giustificare il movimento e considera una sorta di potenza motrice che si trasferisce da ciò che provoca il moto al proiettile che lo subisce. La fine del moto avviene per consumazione progressiva di questa potenza motrice a causa, tra l’altro, del fatto che l’aria oppone al moto una resistenza (questo almeno per quanto riguarda i moti provocati, quelli che non hanno origine naturale). Ma poiché il moto è legato al luogo, è necessario considerare cos’è il luogo. E qui viene fuori il punto più delicato della discussione: si tratta essenzialmente dello scoprire una profonda contraddizione nella definizione aristotelica di luogo. Abbiamo già visto che per Aristotele “luogo è il primo immobile limite del contenente“. Ebbene per quello che ora ci serve occorre puntare l’attenzione su quell’immobile. Infatti la questione che, ad esempio, si pone è: qual è il luogo di un sasso poggiato nel letto di un ruscello? Il corpo contenente è l’acqua, per cui ad un certo istante uno potrebbe pensare che è la superficie interna dell’acqua avvolgente il sasso che costituisce il luogo del sasso.

       Ma l’istante successivo “quel luogo” si è spostato facendo posto ad un “altro luogo”. La pietra non si è mossa, essa è rimasta là ma il presupposto suo luogo cambia istante per istante. E’ chiaro che bisogna riferirsi allora a quell’immobile di qualche riga più su. Il luogo della pietra non è altro infatti che il letto del fiume su cui è poggiata. E fin qui tutto torna. Ma se applichiamo la definizione aristotelica di luogo alle sfere celesti troviamo la contraddizione di cui si diceva. Certamente il luogo del mondo sublunare è delimitato dalla superficie interna della sfera della Luna ma essa ruota e quindi si muove e quindi non può delimitare un luogo.

     Aristotele aveva però ben presente questa difficoltà tanto è vero che per lui un moto rotatorio attorno ad un centro o ad un asse fisso, poiché la sfera occupa sempre lo stesso luogo, non è da considerarsi moto locale. Filopono prende invece in esame una zona particolare di una sfera in rotazione ed osserva che questa zona occupa successivamente luoghi diversi. E’ facile concludere allora che l’intera sfera pur restando, per così dire, nello stesso luogo, occupa sempre luoghi diversi (essendo dotata quindi di moto locale).

     Rimane allora il problema: qual è il luogo del mondo sublunare? Esso non è il cielo della luna ma non può certamente esserlo il cielo di Giove o Saturno o qualunque altro cielo perché si muovono. In particolare neanche il cielo delle stelle fisse può delimitare un qualche luogo proprio perché anch’esso non è immobile. Inoltre se ci ponessimo la domanda del qual è il luogo in cui si muove questo cielo, dovremmo ammettere di non essere in grado di rispondere poiché non sappiamo in quale luogo esso sia non essendo noi in grado di trovare alcun “primo immobile limite” di un qualche cosa che lo contenga. D’altra parte il fatto che l’ultima sfera sia dotata di moto locale implica che anche la superficie esterna di essa occupi successivamente luoghi diversi che debbono però esservi per poter, appunto, essere occupati. E’ qui evidente che comincia a traballare l’affermazione aristotelica dell’inesistenza di qualsiasi cosa (ed in particolare di luogo, tempo e vuoto), al di là del cielo delle stelle fisse e si intravede la possibilità di estendere lo spazio oltre quell’ultima sfera.

    In ogni caso sorge allora la necessità di distinguere luogo, o meglio spazio, dalla materia che lo occupa o lo delimita. E Filopono nel definire lo spazio che discende dalle precedenti osservazioni, fa proprio l’operazione di separarlo da ogni considerazione relativa al suo contenuto:

Lo spazio non è la superficie limite del corpo avvolgente… esso è un certo intervallo, misurabile in tre dimensioni, di sua natura incorporeo, diverso dal corpo in esso contenuto; è pura dimensionalità priva di qualunque corporeità; invero, per quanto riguarda la materia, spazio e vuoto sono identici” . 

    Ed è proprio il fatto che, quando si sposta un oggetto da un luogo, lo spazio da esso occupato viene ad essere rimpiazzato da un’altra sostanza che rende concettualmente valida l’idea di vuoto. In ogni caso gli oggetti si spostano ma lo spazio, sotto, rimane immobile e questo spazio, proprio perché inerte, non può più essere alla base della dinamica come lo era in Aristotele, tant’è vero che viene rimpiazzato da un abbozzo di “teoria dell’impetus”

       Altro contributo di Filopono importante per quanto vedremo tra poco, è quello relativo alla caduta dei gravi. Egli attacca l’idea aristotelica che la caduta dei gravi implichi una maggiore velocità del corpo con maggiore peso egli con una lunga ed aristotelica discussione arrivò alla conclusione che lasciando cadere corpi di diverso peso da una stessa altezza, essi arrivano al suolo insieme. Riporto di seguito una pagina in cui Filopono argomenta contro la teoria di Aristotele della caduta dei gravi con diverse velocità a seconda del peso (da Clagett):

 Il peso è quindi la causa efficiente del movimento verso il basso, come asserisce lo stesso Aristotele. Data perciò una distanza da percorrere, per esempio nel vuoto dove non c’è nulla che possa impedire il moto, e dato che la causa efficiente del moto differisce, i moti risultanti presenteranno inevitabilmente velocità diverse, anche nel vuoto … È chiaro allora che le differenze nel moto saranno causate dal peso naturale dei corpi, che avranno una tendenza verso il basso maggiore o minore. Infatti quello che ha una maggiore tendenza verso il basso fende meglio il mezzo. Ora, l’aria è divisa più efficacemente da un corpo più pesante. A quale altra causa dovremmo ascrivere questo fatto, che ciò che ha un peso maggiore ha anche, per natura, una maggiore tendenza verso il basso, anche se il moto non è attraverso un mezzo pieno? ..
E così, se un corpo fende meglio un mezzo in ragione della sua maggiore tendenza verso il basso, allora, anche se non c’è nulla da fendere, il corpo conserverà nondimeno la sua maggiore tendenza verso il basso … E se i corpi possiedono in se stessi una tendenza verso il basso maggiore o minore, possiederanno chiaramente questa differenza in se stessi anche se si muovono nel vuoto. Lo stesso spazio sarà percorso conseguentemente dal corpo piti pesante in un tempo minore e dal corpo più leggero in un tempo maggiore, anche se lo spazio fosse vuoto. Il risultato sarà dovuto non al maggiore o minore impedimento che il corpo dovrà superare nel suo moto ma alla maggiore o minore tendenza verso il basso, in proporzione al peso naturale dei corpi in questione …
Se infatti un corpo percorre la distanza di uno stadio nell’aria, e non si trova all’inizio e alla fine dello stadio in un unico istante, affinché esso percorra tale distanza dal principio alla fine sarà necessario un tempo ben definito, dipendente dalla natura particolare del corPo in questione (poiché, come ho detto, il corpo non si trova a entrambe le estremità nello stesso istante), e ciò sarebbe vero anche se lo spazio percorso fosse vuoto. Ma un certo tempo addizionale è richiesto a causa dell’impedimento del mezzo, poiché la pressione del mezzo e la necessità di fenderlo rendono più difficile i1 moto attraverso di esso.
Di conseguenza, quanto più rara supponiamo che sia l’aria attraverso cui un moto ha luogo, tanto minore sarà il tempo addizionale consumato nel dividere l’aria …
Se un sasso percorre la distanza di uno stadio nel vuoto, ci sarà necessariamente un tempo, diciamo un’ora, che il corpo impiegherà a percorrere tale distanza. Ma se supponiamo che questa distanza di uno stadio sia riempita d’acqua, il movimento non potrà più esser compiuto in un’ora, ma sarà necessario un certo tempo addizionale a causa della resistenza del mezzo. Supponiamo che per dividere l’acqua sia necessaria un’altra ora, cosicché lo stesso peso copre la distanza nel vuoto in un’ora e nell’acqua in due. Ora, se rarefacciamo l’acqua mutandola in aria, e se l’aria ha una densità pari a metà di quella dell’acqua, il tempo che il corpo ha impiegato a dividere l’acqua sarà ridotto in proporzione. Se nel caso dell’acqua il tempo addizionale era un’ora, il corpo percorrerà la stessa distanza nell’aria in un’ora e mezza. Se, ancora una volta, rendiamo l’aria densa la metà, il movimento verrà compiuto in un’ora e un quarto. E se continuiamo indefinitamente a rarefare il mezzo, si diminuirà indefinitamente il tempo richiesto per la divisione del mezzo, per esempio l’ora addizionale richiesta nel caso dell’acqua, ma non si eliminerà mai completamente questo tempo addizionale, poiché il tempo è indefinitamente divisibile.

     Per quanto riguarda il resto della teoria di Aristotele essa viene sostanzialmente accettata, anche se qua e là occorre fare degli aggiustamenti.

* * *

        Siamo arrivati alla fine di questo periodo tragico per la cultura in generale e la scienza in particolare. Ormai va di moda sostenere che non è vero che il Medioevo sia un’epoca buia, comprendendo in Medioevo anche la Scolastica e l’Umanesimo, periodi che seguirono quello che ho discusso (e che analizzerò in un prossimo lavoro). Il riferimento è a tante cose d’interesse come, ad esempio, Dante, Boccaccio, Petrarca. Vero. Verissimo. Ma la scienza non è presa in considerazione da questi studiosi che mostrano quanto i disastri d’allora continuino ancora oggi. Io dico che dal IV secolo d.C. ad almeno tutto il XV secolo la scienza nell’occidente europeo era morta.

Roberto Renzetti


NOTE

(1) Nel testo dirò alcune cose per non disperdere troppo il discorso ma si deve tener conto di molteplici fattori tra i quali il principale è quello che di seguito indico.

La caduta della civiltà ellenistica fu anche la caduta di quella economia che riguardava una grande massa di popolazione che improvvisamente si trovò povera e nella necessità di emigrare. Come è sempre accaduto nella storia (ed accade anche oggi) l’emigrazione si dirige verso i centri più ricchi dove sembrano esistere maggiori possibilità di sopravvivere. All’epoca ed almeno fino alla metà del III secolo, era Roma il centro del potere politico ed economico del mondo intero. Verso Roma si dirigeva l’emigrazione delle zone precedentemente floride del Vicino e Medio Oriente, zone in cui nasceva la nuova religione con caratteri di varie altre religioni e credenze (come vedremo nella nota seguente). In Roma e nelle zone italiche circostanti questo afflusso di persone povere comportò la necessità per loro di riconoscersi in qualcosa che li legasse e, come oggi, questo qualcosa fu quella religione che metteva insieme almeno due pregi: da una parte aveva in sé qualcosa di ognuna delle religioni in cui precedentemente ci si riconosceva e dall’altra proveniva dalle zone da cui la massa di poveri proveniva. Fu un fattore unificante inizialmente solo per comunità di derelitti e schiavi ma pian piano estendentesi anche a liberti ed a ceti abbienti. In pratica la religione qualificava principalmente gli immigrati che, fino a quando Roma fu potente (II secolo), non creò problemi di sorta all’Impero ma, da quando iniziò la decadenza, fu vista come una minaccia per la stabilità dell’Impero.

(2) Posso fare qualche esempio di parti di altre religioni confluite nel Cristianesimo. Inizio dalla Vergine Maria ed Immacolata Concezione. Qui come in moltissimi altri racconti biblici vi sono moltissime contraddizioni e falsificazioni con aggregazioni successive nei testi di episodi fantastici. Stadi fatto che i testi più antichi non danno alcuna particolare importanza a Maria, madre di Gesù. Sta sempre al margine come donna semplice priva di ogni caratteristica soprannaturale e anche di quella verginità su cui si insite in modo sessuofobico se solo si pensa ai fratelli che pur nei Vangeli sono assegnati a Gesù (su quanto qui ma anche oltre dico, comunque, vi sono testi estremamente qualificati con ogni citazione possibile che consiglio agli interessati, quelli di Deschner e di Peruzzi, ad esempio). Una vergine o divinità femminile è sempre presente in altre religioni del Vicino e Medio Oriente. Si può ricordare Isis in Egitto, Astarte (o Grande Madre) in Fenicia, Canaan e Babilonia, Cibeles in Asia Minore. Io culto della Vergine Maria nacque, quindi, ad imitazione di alcune religioni orientali e particolarmente quella egiziana. A sostegno di ciò ricordo qui solo che Isis era nota come la dea dai mille nomi, analogamente a Maria che anche nelle litanie mariane è ricordata con una imponente quantità di appellativi. Vi è inoltre la rappresentazione di Maria con i piedi posti su un quarto di luna crescente che la rende Signora della luna, proprio come Isis.

Isis gioca anche un suo ruolo nell’altro dogma della Chiesa noto come Trinità, quello imposto da Costantino proprio per non perdere il sostegno delle popolazione dell’ancora potente Egitto che veneravano la triade di Isis, Osiris ed Horus. Qui, nel passaggio dall’Egitto a Nicea, vi furono dei cambiamenti ma non si intaccò il fondo teologico della Trinità. La leggenda egizia racconta di Osiris, il Grande Dio (che come dio del cielo era rappresentato come un falcone), che sposò sua sorella Isis, anch’essa dea del cielo. Osiris aveva come nemico suo fratello Seth (sposo dell’altra sorella Nefti), dio del male, della guerra … (Satana nella Bibbia), il quale, per prendere il suo posto, lo uccise facendolo a pezzi che poi disperse per tutto l’Egitto. Isis, preda di immenso dolore, riuscì a recuperare tutti i pezzi del marito Osiride e rianimatolo miracolosamente ebbe da lui un figlio, Horus (rappresentato come un falco), al quale fu assegnato il compito di vendicare Osiris. La vendetta fu compiuta (e nel combattimento Horus perse un occhio) e gli dei, riuniti, avendo riconosciuto la totale innocenza di Osiris in quanto accaduto,  lo nominarono signore del regno dei morti mentre decisero di concedere ad Horus il posto che era del padre.

Recentemente alcuni studiosi hanno avanzato un parallelismo tra le vicende di questi tre dei egizi e il racconto evangelico e di Horus con Gesù  (Gerald Massey e Alvin Boyd Kuhn). Gli studi e le teorie conseguenti si basano su un bassorilievo con dei geroglifici trovato a Luxor che qui riporto e per la cui interpretazione rimando al sito che lo pubblica.

 Questa leggenda egizia mostra alcune novità rispetto ad altre religioni. Innanzitutto un dio sofferente. Un dio buono verso l’umanità, ingiustamente ammazzato, che alla fine risorge ed assume nuova gloria deve aver avuto un gran fascino e certamente deve essere stato un modello su cui costruire leggende analoghe come quella di Gesù, Unto dal Signore. Vi è poi una trinità legata da vincoli di parentela, anch’essa molto motivante per famiglie di credenti ed alla base dell’altra Trinità. Il punto di partenza è la Sacra Famiglia (Maria, Giuseppe ed il giovane Gesù) di cui si parla nei Vangeli (Luca II, 16) ma era un punto di partenza che era troppo umano e che andava sostituito con l’esempio della Trinità divina (Santissima) dato dalla famiglia egiziana. In questa famiglia scelta per definire la Santissima Trinità sparisce però la figura femminile (e qui la misoginia di Paolo avrebbe da raccontare molte cose) sostituita dallo Spirito Santo, un’entità incorporea né maschile né femminile che il Vangelo situa a lato di Maria in una occasione, quando il suo concepimento viene assegnato allo Spirito Santo (Matteo I, 18). Quindi questa entità è una qualche emanazione di Dio che si ritrova in altre religioni dell’antichità come capacità di poter agire a distanza senza la presenza fisica dell’attore. Questa capacità assunse via via un ruolo autonomo ed in molte religioni divenne la Sapienza, lo Spirito, il Potere, … Gli stessi ebrei avevano, a lato di Dio, la Sapienza divina che eseguiva le sue volontà. E questa indipendenza è tanto vera che la Trinità, secondo il Cristianesimo, è proprio costituita da tre entità indipendenti (e chi non credeva o non crede a questo è un eretico). C’è da osservare che vi è anche una questione linguistica che ha tolto di mezzo la donna nella Trinità. In ebraico la Sapienza è la jokma che è femminile mentre in greco essa è lo Pneuma Hagion che è maschile. Trascrivendo la Trinità in ebraico ritorna in essa il femminile e sembrerebbe più logico leggere il tutto in ebraico che non in greco.

Ritorniamo ora a Maria. Sembra chiaro che siano stati fatti tutti gli sforzi concepibili per inserire Maria nella Trinità ma Maria era troppo caratterizzata nei Vangeli come donna (tra l’altro così la chiama sempre Gesù con una sola volta che la chiama madre) e così si dovette ricorrere allo Spirito Santo. Ed oltre questo la Trinità presenta moltissimi altri problemi teologici sulla natura delle singole persone che in definitiva sono tre in una ma non è qui il caso di insistere. Occorre però dire che l’accordo su cosa dovesse intendersi per unità fu il primo passo per l’unificazione delle diverse chiese cristiane (ekklesia) nella chiesa cattolica, cioè universale (ekklesia katholiké).

Un ultimo aspetto che mostra la confluenza di varie religioni in una è il seguente. Ogni religione aveva i suoi caratteri particolari che la definivano ma tutte trovavano fondamento in idee semplici comuni anche se procedenti da diverse realtà. Dai greci proveniva il misticismo che afferma la possibile identificazione dell’uomo con il Dio o l’avvicinamento a tale entità se si seguono determinate regole e ci si comporta degnamente. A questo punto subentra il rito, la comunicazione di tali cose agli altri con scelte anche individuali che devono tramutarsi in azioni materiali. L’acqua serviva per purificare i fedeli; la scelta morale era necessaria per non cadere in tentazione e commettere peccati; alcuni alimenti o bevande (pane, acqua, vino, …) servivano per avvicinarsi alla divinità. Basta riflettere un poco per capire che la formalizzazione di tali cose originò i sacramenti cristiani (battesimo, penitenza o confessione, eucarestia o comunione) che però rappresentano funzioni in vigore in quasi tutte le religioni. Le operazioni dell’agricoltura, quella alla base della sopravvivenza di intere popolazioni, erano poi un riferimento che proveniva dalle religioni egizie e mediorientali e così la morte dei campi che termina in primavera è la morte di un Dio che però resuscita subito dopo nella vivificatrice primavera. Ed a queste immagini fantastiche si associavano dei traslati alla vita dell’uomo con la massima speranza che gli si può comunicare: la resurrezione dopo la morte. Dai babilonesi, oltre all’avvicinamento all’astronomia per fini agricoli, venne tratto il mito della discesa dell’anima dal cielo, sua sede naturale, alla terra attraverso il passaggio  delle sette sfere planetarie per formarsi delle qualità del Dio a cui corrispondeva quel dato pianeta. A tale mito seguiva quello del ritorno al cielo possibile solo se l’anima si era purificata dalla permanenza sulla terra. Da religioni persiane proveniva l’immagine del salvatore con origini divine, entità con io potere di elevare le anime ed accompagnarle nella loro dimora celeste.

Tutti questi elementi delle antiche religioni si mescolarono, si influenzarono e presero una nuova forma con adottando una serie di elementi di culti locali. Nell’area mediorientale, nell’epoca in cui nacque il cristianesimo, furono elaborate molte religioni differenti chiamate, nel complesso, sincretismo. Molte di esse sparirono presto ma altre, come il cristianesimo, seppero resistere per aver meglio coniugato l’insieme delle tradizioni provenienti da molti altri popoli.

(3) La storia delle prime eresie è una storia straordinaria perché mostra che di fronte a tante possibilità la ragione è di chi vinse risultando tutti gli altri degli eretici. Le prime eresie furono messe in evidenza proprio nel Concilio di Nicea ma l’occupazione di cercare e trovare eresie non è mai finita nella Chiesa. L’ elenco delle eresie primitive del cristianesimo è molto lungo e qui posso solo indicarne qualcuna che ebbe maggior seguito. Ho già accennato all’arianesimo che ebbe grandissima influenza nel IV secolo. Secondo questo movimento vi è un solo vero Dio increato, il Padre. Gesù ha natura umana; egli partecipa solo alla grazia divina ma non è un vero dio. Anche lo Spirito Santo non ha natura divina. Altro movimento è il montanismo (fine II secolo) secondo il quale si attende il ritorno imminente di Cristo ed in tal senso i profeti hanno grande importanza. E’ un movimento ascetico che obbliga ad essere rigorosi nelle norme di vita soprattutto in materia sessuale. Vi è poi il marcionismo (II secolo) secondo cui occorre differenziarsi nettamente dagli ebrei. Il Vecchio Testamento che propone il Dio giusto è in contrapposizione con il Dio sommo e buono del Nuovo Testamento che ha inviato Gesù sulla Terra per redimerci. Il Vecchio Testamento è quindi, in accordo con Paolo di Tarso, da combattere. Altro movimento ancora, va sotto il nome di donatismo (IV secolo). I sacramenti hanno valore solo se amministrati da persone degne e quindi essi non hanno valore di per sé ma solo in connessione con chi li amministra (il riferimento era a quei vescovi che sotto le persecuzioni di Diocleziano avevano ceduto all’Impero e che non avrebbero più avuto la dignità di amministrare sacramenti). Inoltre i fedeli non debbono avere contatti con le autorità civili (con chiara impostazione antiromana) ed il clero che consente tali contratti è traditore. Il donatismo divenne anche movimento rivoluzionario che richiedeva la cancellazione dei debiti e praticava una dura lotta contro i proprietari terrieri. Il manicheismo (III secolo) è una sorta di religione sincretica, che mette insieme vari aspetti di differenti religioni. Vi è dualismo tra bene (luce e Dio) e male (tenebre e Diavolo) che sono sullo stesso piano. Le religioni terrene venerano un Diavolo mentre il vero Dio è un’entità nascosta. Dal punto di vista dell’etica il movimento predica e pratica un rigido ascetismo soprattutto in campo sessuale con regole molto strette che arrivano a proibire il matrimonio e la consumazione di alcuni cibi e bevande. Per quanto da queste eresie se ne svilupperanno altre intorno al XII e XIII secolo (particolarmente i catari), va detto che nel manicheismo si distingue tra perfetti (gli aderenti attivi alla chiesa manichea) ed imperfetti (uditori esterni). Il pelagianesimo (V secolo), eresia sviluppata dal monaco irlandese Pelagio (circa 354 – circa 427) che si diffuse a partire dal 410 in Africa ed in Palestina. Pelagio predicava un’assoluta ascesi e sosteneva l’assenza di peccato originale nell’uomo di modo che la salvezza dipendeva solo da lui. Per Pelagio la grazia proveniente da Dio non è altro che il libero arbitrio, mentre la redenzione di Cristo è un appello a fare del bene.

Riporto solo i nomi delle altre eresie, rinviando al link fornito.

  • 1 Docetismo
  • 2 Cerintianesimo
  • 3 Modalismo
  • 4 Adozionismo
  • 5 Novazianismo
  • 6 Apollinarismo
  • 7 Priscillianesimo
  • 8 Monofisismo
  • 9
  • 10 Monotelismo (o monoteletismo)
  • 11 Abeliani
  • 12 Adelofagi

(4) Riporto un brano di Jonas che definisce la natura della conoscenza gnostica:

«Conoscenza» è un termine puramente formale che non specifica il che cosa debba essere conosciuto; e nemmeno specifica la maniera psicologica e il significato soggettivo del possedere la conoscenza o il modo in cui può essere acquisita. Per quanto riguarda l’oggetto della conoscenza, l’associazione di idee suggerita dal termine ad un lettore di formazione classica indirizza verso oggetti razionali, e di conseguenza alla ragione naturale come all’ organo adatto per acquistare e possedere la conoscenza. Nel contesto gnostico invece «conoscenza» ha un significato decisamente religioso e soprannaturale e si riferisce ad oggetti che noi oggi chiameremmo quelli di fede piuttosto che di ragione. Ora sebbene la relazione tra fede e conoscenza (pistis e gnosis) sia stato il problema più discusso nella Chiesa tra gli eretici gnostici e gli ortodossi, esso è diverso dalla moderna discussione intorno a fede e ragione alla quale siamo abituati; perché la «conoscenza» degli Gnostici con la quale la semplice fede cristiana si trovò in contrasto, non era di tipo razionale. Gnosis significò anzitutto conoscenza di Dio, e da quanto abbiamo detto circa la radicale trascendenza della divinità ne consegue che «conoscenza di Dio» è la conoscenza di qualche cosa di inconoscibile naturalmente e perciò di per sé non una condizione naturale. Oggetto di tale conoscenza è tutto quello che appartiene al regno divino dell’essere, e precisamente l’ordine e la storia dei mondi superiori e ciò che deve provenirne, ossia la salvezza dell’uomo.
Con simile contenuto la conoscenza atto mentale differisce profondamente dalla conoscenza razionale della filosofia. Da una parte è strettamente legata all’esperienza della rivelazione, di modo che la ricezione della verità, sia attraverso la dottrina sacra e segreta o per mezzo di una illuminazione interiore, sostituisce l’argomento razionale e teorico (sebbene questa base extrarazionale possa fornire una prospettiva per una speculazione separata); dall’ altra parte, poiché riguarda i segreti della salvezza, la «conoscenza» non è soltanto un’informazione teoretica su alcune realtà, ma ha essa stessa, in quanto rappresenta una modificazione della condizione umana, la funzione di attuare la salvezza. Per tale motivo la «conoscenza» gnostica ha un aspetto eminentemente pratico. L’oggetto ultimo della gnosi è Dio: il suo avvento nell’anima trasforma lo gnostico facendolo partecipe della divina essenza (il che significa molto di più che l’assimilarlo all’ essenza divina). Perciò nei sistemi gnostici più radicali come quello valentiniano la «conoscenza» non è soltanto strumento di salvezza, ma è la forma stessa in cui si possiede il fine della salvezza, cioè la perfezione ultima. Tali sistemi pretendono che la conoscenza e il possesso da parte dell’anima di Colui che è conosciuto coincidano, pretesa questa di ogni reale misticismo. Tale è anche la pretesa della theoria greca, ma in un senso diverso. In questo caso, l’oggetto della conoscenza è l’universale e la relazione conoscitiva è «ottica », ossia un analogo della relazione visuale con una forma oggettiva che rimane inalterata nonostante la relazione. La «conoscenza» gnostica riguarda il particolare (perché la divinità trascendente è pur sempre un particolare) e la relazione di conoscenza è mutua, cioè un conoscersi allo stesso tempo, e implica un’attiva effusione di sé da parte del «conosciuto». Là la mente è «informata» dalle forme che contempla e mentre le contempla (pensa); qui il soggetto è «trasformato» (da «anima» in «spirito») per l’unione con una realtà che in verità è essa stessa in queste condizioni il soggetto supremo, e strettamente parlando non è mai un oggetto.
Queste brevi osservazioni preliminari sono sufficienti a delimitare il tipo gnostico di «conoscenza» differenziandolo dall’idea di teoria razionale secondo cui il concetto era stato sviluppato nella filosofia greca. Tuttavia i richiami del termine «conoscenza» come tale, rafforzati dal fatto che lo gnosticismo produsse veri pensatori che dispiegarono i contenuti segreti della «conoscenza» in sistemi dottrinali elaborati usando termini astratti, spesso con antecedenti filosofici, nella loro esposizione, hanno fatto sorgbri e storici un’accentuata tendenza a spiegare lo gnosticismo per mezzo dell’influenza dell’ideale greco sulle nuove forze religiose che venivano alla ribalta in quel tempo e più particolarmente sul pensiero cristiano nascente.

(5) E’ interessante osservare che Origene è autore anche di un’opera apologetica, Contra Celsum, in cui controbatte al filosofo greco Celso che aveva attaccato duramente e ridicolizzato il cristianesimo nel suo Il vero discorso contro i cristiani del 178. Una delle cose d’interesse che Celso aveva scritto riguardava il chi era il destinatario del messaggio cristiano. Mentre in tutte le religioni si richiedeva che solo i puri si possono avvicinare ad esse, i cristiani richiedono che i peccatori siano i privilegiati. E, dice Celso, perché Dio non fu inviato anche per chi non pecca ? Che male c’è ad essere privo di peccato ?

(6) Lattanzio (circa 250 – circa 327) fu un rappresentante della Patristica con pensiero poco originale (ammettere più dei è come voler dire che un dio solo non può fare tutte le cose) ma che, suo malgrado, ebbe un ruolo importante nell’accreditare una leggenda che poi fornirà argomenti all’alchimia ed all’ermetismo. Il termine ermetismo deriva da un presunto autore chiamato Hermes Trismegisto i cui scritti, che tendevano a riportare la filosofia greca alla religione egiziana con difesa del paganesimo e delle religioni orientali, furono conosciuti intorno al I secolo d.C.. L’Hermes è il Mercurio latino e Trismegisto vuol dire “tre volte grande”. Chi è ? Alcuni hanno costruito la leggenda che farebbe risalire il personaggio al Dio egiziano Thoth. In ogni caso la leggenda collocherebbe Hermes cronologicamente prima di Mosè. Queste leggende erano già state smontate intorno alla metà del 1600 da Isacco Casaubon al quale fa chiaro riferimento G. Vico circa un secolo dopo, ma il modo con cui le presunte opere di Hermes arrivarono nel dibattito culturale del ‘500 facevano di esse una vera e propria rivelazione. Ed il tutto a seguito di approfondite disquisizioni iniziate proprio dai Padri della Chiesa, come Lattanzio (3º/4º sec.) e Sant’Agostino (9º sec). Cerchiamo di capire i termini della questione.

Come iniziato ad insinuare da Isaac Casaubon (1559-1614) e dimostrato definitivamente nel 1949 da A. J. Festugière, i testi di Hermes Trismegisto (raccolti in due opere principali: “Corpus Hermeticum” e “Asclepius“) risalgono al 1º/3º sec. dopo Cristo e non hanno un qualche contenuto di novità. Essi, realizzati non da uno ma da vari autori, probabilmente greci (i manoscritti di cui dispose Ficino erano in lingua greca), mescolano e sovrappongono vari contributi e consistono in una sorta di compendio della filosofia greca volgarizzata con particolare riferimento al pensiero platonico, neoplatonico e stoico. Naturalmente, data l’epoca in cui si presume siano stati elaborati, tali scritti leggono i contributi originali attraverso la lente di vari secoli trascorsi con intersezioni culturali molto forti tra cui elementi di cultura persiana, ebraica (con il potente influsso di motivi cabalistici) ed addirittura protocristiana. Il periodo in oggetto era del massimo splendore dell’Impero di Roma. La pace regnava ovunque (con scaramucce ai confini). La cultura, che si era alimentata di quanto i greci avevano in sommo grado prodotto ristagnava, risultando la filosofia una ripetizione pedissequa e sempre meno interessante dei temi svolti secoli prima, anche perché non sollecitata da questioni di tipo applicativo a seguito di quella ineluttabilità (riconosciuta sia da Aristotele che da Platone) della schiavitù. Proprio questa situazione di stallo del pensiero poneva i pensatori del tempo alla ricerca di qualcosa che rispondesse a ricerche che non erano tanto di ordine materiale quanto “spirituale”. E così ebbero ampio sviluppo esoterismi, misticismi ed anche arti che oggi chiameremmo magiche ma con un significato da specificare (come vedremo). È una ricerca del posto dell’uomo nel cosmo.

Se ci spostiamo ora nel ‘500 ed osserviamo che vi è una analoga ricerca, che si ha una idea del mondo in cui occorre un ritorno verso le epoche in cui tutto era “meno corrotto” e la vita era più vicina agli ideali di perfezione e “salvezza dell’anima”, scopriamo che vi è una enorme ricettività per scritti di tale genere.

È evidente che la questione della datazione delle opere di Hermes assume somma importanza perché se tali testi sono situati in un’epoca che precede Mosè assumono il ruolo di libri in qualche modo profetici. Se situati nella loro vera epoca sono poveri compendi di fatti noti e mal digeriti.

Fu proprio Lattanzio che volle assegnare a tali testi una sorta di premonizione “pagana” del Cristianesimo ricercando in vari passi episodi accaduti e ritrovando le espressioni chiave del Cristianesimo (il Dio Padre, il Figlio di Dio, il Verbo). Stessa cosa, dal punto di vista della datazione, fece Sant’Agostino che però poneva delle riserve di tipo teologico. Anche qui, tentiamo di capire. Nei testi di Hermes si sviluppano dei dialoghi tra “iniziati” e aspiranti ad entrare nel mondo della sapienza, che non è fine a se stessa ma strumento indispensabile per la salvezza. Il maestro riesce sempre a creare situazioni in cui il discepolo raggiunge una sorta di estasi perché si avvicina a quella conoscenza che facilmente è assimilata da Lattanzio a Dio. Il discepolo, osservando il mondo attraverso il suo spirito, riesce a dominarlo e quindi a vincere le volgari forze terrene per aspirare a congiungersi con la divinità. È facile qui ritrovare la Resurrezione e la salvezza di tutti coloro che credono nel messaggio evangelico ed è altrettanto facile intendere come nell’epoca di Lattanzio servano argomenti a sostegno del Cristianesimo (ed in tal senso niente di meglio che trovare in pretesi profeti l’annuncio di ciò che poi si ritroverà nei Vangeli che, tra l’altro, vedevano la luce poco tempo prima ed alcuni in contemporanea).

La datazione interviene qui a sostenere una tesi di interesse. Tutto ciò che è antico è puro. Il tempo corrompe le cose. Occorre riconquistare la purezza attraverso la saggezza degli antichi che avevano possibilità molto superiori alle nostre di avvicinarsi alla perfezione di Dio. Inoltre tutti gli antichi sapienti greci avevano visitato l’Egitto che viene riconosciuto come fonte di ogni sapere e proprio in quel Paese viene situato Hermes. In questo i testi di Hermes erano perfetti perché, se da una parte parlavano di un Dio che creava l’uomo, dall’altro affermavano la possibilità dell’uomo di creare Dio (e qui nasceva il punto su cui Sant’Agostino mostrava completo disaccordo ma che non turbava Lattanzio che leggeva quei brani con differenti interpretazioni). Sarebbe lungo e complesso spiegare il tutto ma, ai nostri fini, basta osservare che, attraverso pratiche astrologiche, alchemiche ed in generale “magiche”, gli antichi egiziani sarebbero stati in grado di dar vita a delle statue (statue di dei) infondendogli lo spirito attraverso una serie di pratiche che prevedono manipolazioni di erbe, pietre e aromi. Queste pratiche, che anticamente si svolgevano nei sotterranei dei templi, erano le pratiche di pochi, degli eletti, degli iniziati.

Anche Agostino lesse almeno un’opera di Hermes in traduzione latina e, pur rifiutando l’animazione delle statue, accettava pienamente l’idea che Hermes avesse esercitato una forte influenza morale in Egitto dopo Mosè, ma molto prima degli antichi filosofi e saggi della Grecia.

(7) E’ utile ricordare alcune questioni sul tappeto discusse variamente dai vari padri della Chiesa. Iniziamo dal fatto che Gesù, considerato inizialmente come un profeta, piano piano fu divinizzato. La cosa non è però così semplice ed infatti sorsero vari problemi teologici non da poco. Che rapporto c’è tra Gesù e Dio ? Sono due dei ? sono cioè distinti ? sono coesistenti ? e se sono distinti, vi è una gerarchia tra loro ? 

Occorreva risolvere la cosa altrimenti il prezzo sarebbe stata una totale frantumazione delle comunità cristiane che già avevano problemi grossi con l’introduzione del culto dei santi (ad imitazione del culto pagano degli eroi e del politeismo) e del culto della verginità di Maria  (preso di sana pianta da miti pagani. Ad esempio Mitra fu generato da una Vergine che lo partorì il 25 dicembre in una grotta).

Anche nella soluzione dei problemi posti vi era la presenza delle tradizioni pagane che avevano tutte una trinità da venerare (Iside, Osiride e Horus; Zagreo, Fane e Dioniso; Giove, Giunone, Minerva; …).

Sulla divinizzazione di Gesù molto contribuì Paolo anche se non lo considerava identico al padre, iniziando la teoria subordinazionista (il padre è più importante del figlio). Per Paolo solo il padre è Dio (JeoV), mentre il figlio è Signore (kurioV). La cosa si ritrova nel Vangelo di Giovanni, dove Gesù dice: Il Padre è più grande di me (Giovanni 14, 28). E la cosa venne  accettata da tutte le comunità cristiane e da tutti i pensatori (Ireneo, Tertulliano, Origene, …) almeno fino al IV secolo. Fu allora che Ario sostenne le stesse cose di precedenti Padri della Chiesa e venne trattato da idolatra ed eretico. Ciò che era accaduto era solo che il processo di divinizzazione di Gesù era avanzato grandemente.

Fu Teofilo di Alessandria il primo a condannare la posizione subordinazionista e con essa Origene (che verrà condannato definitivamente dal V Concilio della Chiesa nel 553) ed Ario.

Ma vi erano altre complicazioni. Certamente Dio era puro spirito (come si legge in Giovanni) ma la Chiesa operò una divisione ulteriore, introdusse lo Spirito Santo ad imitazione dello Spirito Santo dell’Iran (spenta manju) che dovette aspettare per un adeguato riconoscimento.

Gesù non conosceva la Trinità: l’ordine che in Matteo viene posto sulla bocca del «risorto» di battezzare «in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» è unanimemente considerato un falso dalla ricerca critica. Se Gesù pensò a uno Spirito di Dio, lo fece forse nel senso della concezione veterotestamentaria dello «Spirito di Jahve» (ruach Jahve), menzionato nel Vecchio Testamento ben 378 volte .
Neppure Paolo conosce una dottrina trinitaria o contiene allusioni trinitarie; lo «Spirito» di cui scrive è completamente collegato a Cristo, il che Paolo esprime persino con l’equivalenza: «Ma il Signore è lo Spirito» (2 Cor. 3, 17); anche quando parla dello Spirito di Gesù Cristo, dello Spirito del Figlio e simili, parla insieme dello «Spirito del Signore» e del «Signore dello Spirito».

Nel Nuovo Testamento esiste anche la formula trinitaria o piuttosto la giustapposizione di Dio, Cristo e gli Angeli e in verità assai spesso, dato che nel Giudaismo essa si era già costituita.
Nell’Apocalisse incontriamo la trinità Dio padre, i Sette Spiriti e Gesù Cristo (Apocalisse 1,4 sg.); in seguito si manifestano persino accenni a una quaternità: intorno al 150 Giustino parla della quaternità formata da Dio Padre, il Figlio, le schiere degli Angeli e lo Spirito Santo (Just.Apol. 1,6).
Gli antichi cristiani trovarono il dogma della trinità attestato tanto esiguamente nella Bibbia, che nel IV secolo si pervenne a una delle più celebri interpolazioni neotestamentarie, al Comma Johanneum, un falso insinuato in parecchi Codici. Per l’esattezza il passo della Prima Lettera di Giovanni
«Sono tre che generano: lo spirito, l’acqua e il sangue, e i tre sono uno», venne modificato in : «Sono tre che generano nel ciclo: il Padre e il Verbo e lo Spirito Santo; e i tre sono uno» .
La dottrina della fede nello Spirito Santo sorse gradualmente nel II secolo nella Confessione di fede apostolica. Ma anche in seguito le concezioni intorno allo Spirito Santo tradirono una confusione terribile: spesso lo si equiparò a Cristo o si vide in lui un Angelo o addirittura la madre di Gesù, la quale lo afferrò «a uno dei capelli» e lo portò sul monte Tabor, oppure lo si identificò semplicemente con l’interiorità dell’uomo .
Alla fine del II secolo e nei primi anni del III teologi come Ireneo e Tertulliano ritennero lo Spirito Santo un’entità interna alla divinità; invero Tertulliano lo subordinò al Figlio, come già il Figlio al Padre. Del pari Origene dichiarò lo Spirito Santo come una creatura subordinata al Figlio e proibì, come mima di lui il Padre della Chiesa Clemente, la preghiera alla terza persona divina . Generalmente nelle loro speculazioni sulla trinità divina i Padri della Chiesa di questo periodo spesso si dimenticarono dello Spirito e parlarono solo di due Persone . Lo Spirito Santo ottenne la divinità piena solo nel 381 in occasione del Secondo Sinodo ecumenico di Costantinopoli. 

In un Sinodo, quello di Antiochia, convocato e guidato da Osio di Cordoba nel 324-325, si condannò Ario per sostenere la subordinazione del figlio al padre. A tale Sinodo parteciparono 56 persone e le decisioni furono prese da ben pochi fratelli esperti in faccende di fede ecclesiastica

(8) A proposito dei rapporti di Costantino con il cristianesimo, riporto l’articolo La svolta costantiniana, tratto da homolaicus.

“Costantino (306-337) salì al potere con un colpo di stato militare, poiché, essendo figlio della concubina Elena, non poteva succedere legalmente al trono del padre Costanzo, imperatore d’Occidente.

Pur di diventare unico Augusto dell’impero romano, egli fu disposto a eliminare ogni possibile rivale: Massimiano (già Augusto), Massenzio (proclamato Augusto dal senato e dal popolo romano), Massimino Daia (Cesare dell’Augusto Galerio) e Licinio (nominato Augusto su proposta di Diocleziano). Probabilmente portò al suicidio lo stesso Diocleziano.

Costantino si servì vergognosamente anche della politica matrimoniale per raggiungere i suoi fini di potere, sposando la figlia di Massimiano e dando in moglie la sorella a Licinio. Con l’aiuto di quest’ultimo sterminò tutte le famiglie di Galerio, di Flavio Severo (riconosciuto Augusto da Galerio), di Massimino Daia e di Diocleziano, perché nessuno potesse rivendicare una successione al trono. Lattanzio poi scriverà che non fu un “peccato” massacrare le famiglie dei persecutori anticristiani.

Non solo, ma egli eliminò anche la moglie Fausta e un figlio, Crispo (326), avuto dal primo matrimonio con Minervina. Nonostante questa catena di delitti, ai quali naturalmente bisogna aggiungere quelli, molto più numerosi, ch’egli commise in quanto “imperatore”, la chiesa greca lo venera ancora oggi come “santo”, insieme alla madre Elena, e “Uguale agli Apostoli”, mentre la chiesa romana gli decreterà solo l’appellativo di “Grande”, non quello di “santo”: sia perché egli aveva trasferito la capitale a Bisanzio, sia perché aveva inaugurato la politica cesaropapista (opposta a quella che sorgerà in Occidente: il “papocesarismo”).

Inizialmente Costantino era favorevole al culto di Apollo-Sole, una specie di monoteismo sincretistico: il Sol invictus (in cui il padre Costanzo credeva) nella figura dell’Apollo gallico. La prima manifestazione autonoma di Costantino nel campo religioso è la visita al tempio di Apollo in Autun (308), prima di attaccare i Franchi.

Da notare che secondo la tradizione raccolta dallo storico Eusebio di Cesarea, consigliere e biografo di Costantino, questi, alla vigilia della battaglia decisiva presso Ponte Milvio contro Massenzio, fece mettere i simboli X e P (sovrapposti) sugli scudi dei suoi soldati. Naturalmente Eusebio presentò il gesto come una testimonianza della fede cristiana di Costantino, in quanto X e P sarebbero l’inizio della parola Cristo scritta in greco.

In realtà un monogramma simile lo si ritrova su insegne militari orientali precristiane come simbolo del Sole: è probabile che Costantino l’avesse adottato per accattivarsi le simpatie dei cristiani. E se anche non fosse da escludere una certa superstizione di Costantino a favore di Cristo, è però evidente che nel 312 egli non poteva considerarlo ancora più grande del Sole: il Cristo non era, per lui, che un dio accanto ad altri dèi.

Peraltro l’arco di Trionfo decretatogli dal senato romano dopo la sua vittoria su Massenzio (terminato nel 315), ricevette una decorazione figurata corrispondente alla concezione pagana del senato, che vide nel Sole invitto il dio protettore dell’imperatore. Questo anche se l’iscrizione dell’arco, ascrivendo la vittoria ad una “ispirazione della divinità”, poteva non risultare sgradita al mondo cristiano.

Costantino cominciò ad accettare il culto cristiano solo dopo la vittoria su Massenzio, facendo applicare il suddetto monogramma a una grande insegna di guerra, uno stendardo dell’esercito, al quale si doveva tributare uno speciale culto. Una guardia particolare doveva proteggerlo durante i combattimenti. Da notare che la storiografia cristiana (a partire naturalmente da Eusebio e Lattanzio) ha sempre voluto far vedere che nella battaglia di Ponte Milvio si scontravano due religioni opposte: paganesimo e cristianesimo. In realtà Massenzio non era anticristiano: egli semplicemente era contrario a che il potere governativo fosse concentrato nelle sole mani di Costantino, che voleva abolire ogni divisione territoriale dell’impero.

Insieme a Licinio, Costantino emanò il cosiddetto Editto di Milano nel 313, che in realtà era un mandato circolare per i proconsoli. Ci è stato conservato, in versioni non molto diverse, da Lattanzio (in latino) e da Eusebio (in greco), ma soltanto nella redazione che ricevette nel decreto di Licinio per il governatore della Bitinia e pubblicato a Nicomedia. Esso comunque non fece che estendere a tutto l’impero le disposizioni già prese dall’imperatore Massimino Daia in Asia Minore, poi sconfitto da Licinio. O, se si preferisce, non fece che ampliare le disposizioni già contenute nell’editto di Galerio del 311.

L’Editto di Milano concedeva a tutti, entro i confini dell’impero, e in particolare ai cristiani piena libertà di religione e di culto, senza preferenze statali per alcuna particolare religione. Esso prevedeva anche la restituzione oppure l’indennizzo degli edifici ecclesiastici, dei fondi passati al fisco o in possesso privato e dei cimiteri alle comunità cristiane, ora considerate come enti corporativi dotati di personalità giuridica.

Nel 314 egli convocò il sinodo di Arles, a causa dello scisma donatista che durava in Africa da circa un decennio, in seguito al rifiuto di un folto gruppo d’intransigenti vescovi africani di riconoscere Ceciliano, vescovo di Cartagine, consacrato da Felice, un vescovo presunto “traditore” che nella persecuzione dioclezianea aveva ceduto le Scritture al rogo. Il sinodo condannò i donatisti. (Esso minacciò anche di scomunica tutti i soldati che volevano disertare dalle armate imperiali: il che tornava comodo a  Costantino nella sua lotta contro Licinio). Successive indagini provarono non solo che Felice non era un traditore, ma che lo erano stati alcuni vescovi del movimento donatista. Sicché Costantino, vista la loro ostinazione a rifiutare le decisioni del sinodo, prese a reprimerli con la forza, facendo esiliare molti vescovi “eretici” e confiscare le loro chiese. Ma non riuscì che a creare dei martiri, finché, rassegnato, abbandonò la lotta. Paradossalmente il primo a tradire lo spirito e la lettera dell’Editto di Milano era stato proprio lui.

Sul piano legislativo Costantino emanò, dal 315 al 325, una serie di decreti favorevoli ai cristiani per ottenere il loro appoggio contro Licinio e diventare unico princeps dell’impero. Molte di queste leggi però vanno aldilà dell’uso politico meramente strumentale e si possono considerare un segno del mutare dei tempi.

Facciamo alcuni esempi. Abolì la croce come strumento di morte ed equiparò l’uccisione di uno schiavo ad un assassinio e l’uccisione di un bambino, eseguita in nome dell’autorità paterna, al parricidio. Venne incontro alle necessità dei genitori poveri per dissuaderli dal vendere o abbandonare i propri figli. Vietò di bollare in faccia i condannati ai lavori forzati o ai giochi circensi. Stabilì che i prigionieri potessero vedere ogni giorno la luce del sole. Proibì la tortura. Soppresse la facoltà, data al magistrato, di destinare i colpevoli di gravi delitti alle lotte dei gladiatori. Proibì che si disperdessero i membri di una famiglia di schiavi quando si ponevano in vendita dei beni dello Stato. Abolì le tasse introdotte da Augusto a carico dei celibi e delle coppie senza figli. Favorì la legittimazione dei figli naturali. Punì l’adulterio rendendo più difficile il divorzio. Obbligò lo Stato ad assumere la tutela degli orfani e delle vedove.

Nelle leggi degli anni 319 e 321 riconosce ancora il culto pagano come esistente di diritto, opponendosi solo alla pratica segreta e politicamente pericolosa della magia, delle celebrazioni sacrificali domestiche e dell’aruspicina privata (esame delle viscere degli animali sacrificati), tollerando solo quella pubblica, tenuta sotto controllo. Ammetteva però lo scongiuro della pioggia e della grandine. Proibì inoltre al clero cristiano di partecipare al sacrificio lustrale pagano.

Costantino cercò di privilegiare i cristiani, all’inizio, sul piano giuridico-amministrativo: ad es. perché un piccolo sobborgo o una comunità rurale potesse ottenere lo status di città era sufficiente che i suoi abitanti si dichiarassero tutti cristiani. In un’ordinanza al vescovo Osio di Cordova (suo consigliere) si riconosceva ai cristiani la facoltà di dare, dinanzi al vescovo, la libertà ai propri schiavi (privilegio che fino ad allora avevano avuto solo i governatori provinciali).

Ai vescovi concesse, in un decreto del 318, il diritto di giudicare quelle cause civili in cui anche solo una delle parti in lite, nonostante l’opposizione dell’altra, avesse fatto istanza di deferire il caso al tribunale ecclesiastico. Quanto la lex christiana decideva, aveva poi validità legale, senza possibilità di appello. Altri imperatori, in seguito, pretenderanno la volontà di ambedue le parti, altri ancora invece permetteranno che si formi una giurisdizione esclusiva per le cause sugli ecclesiastici, ovvero che il clero si costituisca in casta speciale (il potere arbitrale del vescovo nei paesi germanici non riuscirà mai ad affermarsi).

Che il clero fosse trasformato in una casta privilegiata è documentato anche dal fatto ch’esso si separò sempre più dal laicato, tant’è che molti decreti imperiali erano rivolti non tanto alla comunità cristiana in senso lato, quanto alla corporazione del clero, che tendeva sempre più a irrigidirsi nella sua struttura gerarchica. Il prete si distinguerà maggiormente dal diacono e il vescovo dal prete.

Persino tra vescovi si formeranno, a seconda dell’importanza della loro città, diverse gradazioni d’influenza: ad es. nelle cariche più alte, i cinque vescovi più importanti diverranno, col tempo, i metropoliti della pentarchia (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme); fra le cariche più basse si abolì quella di “corepiscopo”, cioè il vescovo di quei luoghi di campagna che non avevano titolo di città. Naturalmente la carica di vescovo cominciò a diventare così prestigiosa, per gli onori e le ricchezze che la accompagnavano, ch’era impossibile impedire, in occasione di nuove elezioni, violente lotte (p.es. a Roma, nel 366, in occasione della contesa fra Damaso e Orsino moriranno ben 137 persone!).

Costantino, già nel 313 e poi ancora nel 319, aveva addirittura dispensato gli ecclesiastici dagli oneri municipali (tasse o servizi che lo Stato ordinariamente richiedeva), affinché – questa era la motivazione – non fossero ostacolati nell’esercizio del loro ministero. Ma nel 320 deve opporsi energicamente all’immediato accorrere tra le file del clero di tutti i decurioni o i ricchi, desiderosi di esimersi da tali pesi; e impose che il clero fosse ordinato solo in ragione dei posti vacanti per la morte dei titolari, vietando che una persona, che per nascita o per censo avesse obblighi curiali, potesse prendere gli ordini.

Sempre sul piano economico, Costantino permise che si arrivasse a distribuire annualmente, in ogni città, dei sussidi di grano e di altri generi alimentari alle chiese, a beneficio del clero (il quale avrebbe poi dovuto ridistribuire a poveri, vedove e orfani). Nel 324 egli autorizzò tutti i metropoliti orientali a prelevare, temporaneamente, dai governatori provinciali o dall’ufficio dei prefetti al pretorio, qualsiasi somma che paresse loro necessaria a restaurare o ampliare le chiese delle loro province, o a costruirne di nuove. Ciò al fine di risarcire -questa era la volontà di Costantino- i danni causati dalla persecuzione di Licinio. Lui stesso, a sue spese, fece edificare tantissime chiese, dotandole di vaste proprietà.

Offrì insomma ai vescovi (considerati come senatori) onori e ricchezze, immunità fiscali di ogni tipo (che poi porteranno alla nascita della “manomorta” ecclesiastica) e tutti i privilegi degli ex-sacerdoti pagani. Favorì persino l’esercizio del commercio al clero: misura, questa, che verrà revocata da Valentiniano III (425-55), perché diventata fonte di abusi. Assegnò alla chiesa anche la gestione di tutti gli ospizi dei poveri, gli alberghi, i brefotrofi, gli orfanotrofi, gli ospedali e altre istituzioni assistenziali.

Con una legge del 321 aveva reso la domenica giorno festivo obbligatorio per i lavoratori manuali e per i tribunali, anche se nella legge si precisa che la domenica andava dedicata alla “venerazione del Sole”. Egli d’altro canto continuava ad emettere monete in onore del Sol Invictus. Quanto alla preghiera (una specie di Padre nostro) che i soldati dovevano recitare la domenica, essa non era che una formula neutrale, a sfondo deistico, alla quale avrebbero potuto adattarsi sia i cristiani che i pagani. In ogni caso i soldati cristiani avevano il permesso di partecipare alle funzioni domenicali. (Da notare che ora la domenica subentra alle vecchie feste pagane per segnare il ritmo calendariale).

Con un altro decreto dello stesso anno riconobbe a chiunque il diritto di lasciare per testamento quello che voleva alla chiesa cristiana (non alla chiesa ebraica o ad altre chiese eretiche). Arrivò persino, con altre disposizioni, a considerare il cristianesimo come cultus Dei, in quanto gli ebrei che diventavano cristiani venivano protetti dalla legge in maniera speciale se rischiavano d’essere lapidati. Agli inizi furono vietati il proselitismo e la circoncisione ai loro schiavi pagani o cristiani. Però furono confermate le immunità dai doveri curiali a coloro che svolgevano funzioni nelle sinagoghe.

Costantino fece queste e altre concessioni non solo – come già si è detto – per avere l’appoggio contro Licinio, ma anche perché, una volta vinto Licinio, sperava di tenere la stessa chiesa sottomessa alla sua volontà. Licinio, dal canto suo, era interessato non meno di lui a controllare il potere della chiesa, ma sbagliò a reprimere immediatamente con la forza la resistenza che questa gli oppose e a non cercare il consenso popolare (quello che Costantino appunto otterrà con le sue concessioni). Ancor più sbagliò quando cercò di scaricare sulla chiesa tutto il suo odio per Costantino, che voleva chiaramente detronizzarlo. Quando poi Licinio cercò di tornare a privilegiare il paganesimo, il suo destino era praticamente segnato.

Costantino ne approfittò immediatamente per sconfiggerlo in guerra (a tale scopo fu persino disposto a far entrare i Goti nell’impero), sottraendogli l’impero d’Oriente ed eliminandolo dopo avergli promessa salva la vita (gli ucciderà anche il figlio adolescente). A partire dal 324 (la guerra contro Licinio era durata dal 314 al 323) Costantino s’illuderà di poter realizzare una teocrazia monarchica, cercando di subordinare a sé la chiesa in modo politico e ideologico.

Sempre nel 325 egli (pur non essendo ancora né battezzato né catecumeno, anche se si faceva chiamare “isapostolo”, cioè “pari agli apostoli”, e “vescovo di quanti sono fuori della chiesa”) volle convocare e presiedere a Nicea, nei pressi di Nicomedia, un concilio per prendere le difese dei cristiani ortodossi contro gli ariani, che, subordinando nettamente il Cristo a Dio, erano favorevoli a una subordinazione, anche ideologica, della chiesa allo Stato. Naturalmente la chiesa cristiana si preoccupò di distruggere tutti i testi ariani in cui risultasse esplicita tale teologia politica.

Costantino era contrario a qualunque forma di dissenso religioso nell’ambito del cristianesimo e, per questa ragione, non si faceva scrupolo di servirsi di sinodi e concili (convocati in luoghi e date che solo lui poteva decidere) per eliminare rivalità di potere intraecclesiale o risolvere controversie teologiche. Era sempre lui che, in ultima istanza, decideva di dare o no l’approvazione alle deliberazioni dei sinodi, che, in caso favorevole, potevano diventare leggi imperiali.

Costantino interferiva continuamente nella vita della chiesa, anche nei casi di elezione episcopale. Le stesse comunità cattoliche ed eretiche si rivolgevano a lui perché dirimesse le loro controversie dottrinali o di altro genere, e solo quando una delle due parti si sentiva insoddisfatta delle decisioni ch’egli aveva preso, scattava l’accusa d’ingerenza negli affari ecclesiastici o comunque d’aver fatto ricorso al potere secolare.

In occasione del concilio ecumenico di Nicea (il primo nella storia del cristianesimo), Costantino, pur preferendo, ovviamente, la dottrina di Ario (come anche Eusebio di Cesarea e il vescovo di Nicomedia gli avevano consigliato di fare), si mise dalla parte di quella di Alessandro e Atanasio (rispettivamente vescovo e diacono di Alessandria), poiché le tesi di quest’ultimi avevano ottenuto in concilio la stragrande maggioranza dei voti (solo due vescovi furono contrari).

Ora, siccome la prassi conciliare impediva di poter decretare alcunché se non fosse stata raggiunta l’unanimità, Costantino decise di allontanare i due dissidenti, oltre naturalmente ad Ario (dalla scomunica si passerà poi all’esilio). Gli altri vescovi (quelli dell’Occidente latino, convocati da Costantino, erano stati solo sei) accettarono questo atto di costrizione e intimidazione, ma cominciarono ad opporsi, tranne alcuni, all’idea di introdurre nel Credo, formulato dal concilio, la parola greca homoousios (consustanziale) per contrastare il subordinazionismo di Ario. Essi temevano che con questo termine (non convalidato, peraltro, da alcuna autorità biblica: probabilmente era stato suggerito a Costantino dal vescovo Osio di Cordova) si sarebbe fatto un favore alle teorie dell’eretico Paolo di Samosata, che escludeva ogni distinzione tra il Padre e il Figlio.

Così fu Costantino che tagliò la testa al toro, obbligando i convenuti a formulare un Credo dogmatico e di carattere universale con l’inserimento di quella nuova parola. I vescovi accettarono questa seconda imposizione, ma appena tornati alle loro sedi, molti cominciarono a pentirsi d’averlo fatto e ripresero le proprie professioni di fede locali e tradizionali. Alcuni ripudiarono apertamente la formula di Nicea, ma furono sostituiti da Costantino con uomini più condiscendenti. Questo gesto autoritario scatenò l’inferno. Per evitare lo scisma si cercò un compromesso suggerendo la parola homoiousios (di sostanza simile), ma molti vescovi preferirono l’esilio all’aggiunta di quell’unica vocale.

Per farla in breve, il concilio, voluto per raggiungere l’unanimità dogmatica, provocherà uno scoppio di ostilità teologiche che si trascineranno in Oriente per mezzo secolo e in Occidente per altri due secoli. Lo stesso Costantino ritornò sulla sua decisione e fece richiamare dall’esilio Ario e tutti gli altri ch’erano stati deposti. Lo riabilitò in un nuovo concilio niceano, nel 327. In un altro sinodo, a Tiro, nel 335, la cui presidenza era stata affidata a un dignitario di corte, gli ariani trionfarono. Atanasio fu esiliato a Treviri e Costantino invitò a corte Ario. Ma questi, dopo essere stato nel palazzo imperiale, fu colto da un improvviso malore e morì subito dopo, probabilmente avvelenato.

* * *

Nel 330 Costantino trasferì la capitale a Bisanzio, sulle rive del Bosforo, imitando, in questo, Diocleziano, che l’aveva trasferita a Nicomedia (non molto lontana da Bisanzio). Lo fece per diverse ragioni: militari (andavano difesi meglio i confini orientali, maggiormente minacciati), economiche (l’oriente stava manifestando una grande vivacità commerciale), culturali (egli voleva creare una nuova civiltà, frutto di una sintesi tra cristianesimo e paganesimo), ma soprattutto politiche, affinché egli potesse governare in modo teocratico, in una città quasi completamente cristiana e ben disposta, sotto questo aspetto, a veder realizzato una teocrazia imperiale. Egli sapeva bene che a Roma avrebbe incontrato maggiori resistenze sia da parte del mondo pagano (nel 326, ad es., celebrando a Roma il ventennale della presa del potere, egli si espose allo scherno del Senato e della popolazione pagana, per aver ripreso i suoi soldati che sacrificavano a Giove Capitolino); sia da parte della stessa chiesa cattolica, che ormai pretendeva d’essere “uno Stato nello Stato” e non avrebbe permesso a nessun imperatore di poter governare senza il suo consenso.

Anche dal punto di vista civile la città fu voluta a immagine e somiglianza del basileus: non avendo un prefetto ma un proconsole, né questori, pretori e tribuni della plebe, e avendo un senato più che altro simbolico, essa in realtà non era che una residenza imperiale, al pari di Nicomedia. Quando la si inaugurò, Costantino permise che si celebrassero anche dei misteri pagani. D’altra parte egli non vietò mai che si costruissero templi pagani, neppure nella nuova capitale, la cui dea personificratice era la pagana Tyche (Fortuna), per quanto egli stesso fece porre una croce sulla fronte della statua, al fine di toglierle il suo significato prettamente pagano. Sino alla fine della sua vita Costantino impedì di molestare i cittadini pagani a motivo della loro fede.

Non a caso poco tempo prima di morire egli si era riavvicinato al paganesimo predicato dal neoplatonico Sopatro, discepolo di Giamblico. Qui la tradizione cristiana attribuisce l’uccisione del filosofo alla stessa volontà di Costantino, che non voleva più saperne di paganesimo. Il che però contrasta col fatto ch’egli non rinunciò mai al titolo di “pontefice massimo”, anche se esso, sotto il suo regno, non implicava più alcuna partecipazione al culto pagano. Il fatto ch’egli ricevette il battesimo (ariano!) in punto di morte (se la storia non è leggendaria), non contraddice certo l’atteggiamento strumentale che Costantino ha sempre tenuto nei confronti della religione. Quanto alla rinuncia ad essere considerato un dio, Costantino vi accondiscese solo in teoria, non in pratica. Tanto i pagani quanto i cristiani non misero mai in dubbio la sua particolare “intesa” con la divinità. Ogni opposizione alla sua persona continuò ad essere considerata come un sacrilegio. Perfino dei templi vennero dedicati al suo nome.

La corte imperiale, in mano praticamente ai cristiani, si stava indirizzando verso la realizzazione di un cristianesimo di stato. Stando ad Eusebio, l’ultimo Costantino avrebbe proibito del tutto i sacrifici pagani (interrogare oracoli, erigere simulacri a divinità, celebrare misteri). E -dice sempre tale tradizione- i suoi figli fecero quello che avrebbe dovuto fare lui con maggiore risolutezza (il riferimento è soprattutto alla distruzione materiale dei templi).

Infatti, suo figlio e successore al trono d’Oriente, Costanzo, di religione ariana, arriverà a proibire nel 341 i sacrifici pagani, con la minaccia di morte e il sequestro dei beni, ordinando la chiusura di tutti i templi. Egli anticiperà, di poco, il proclama letterario dell’apologista Firmico Materno che aveva chiesto l’eliminazione di tutti i seguaci del paganesimo. Ma con Costanzo tornarono ad essere perseguitati anche i cristiani ortodossi. “Ciò che io voglio -disse una volta ad alcuni vescovi ortodossi- deve essere tenuto come un canone nella chiesa”.

Infine, con l’Editto di Tessalonica (380) l’imperatore Teodosio (379-395) vieta tassativamente il culto ariano e qualunque altra eresia non conforme alla dottrina del pontefice Damaso e del vescovo Pietro di Alessandria, dando così inizio alla campagna di persecuzioni contro i filosofi e gli scienziati pagani (vedi ad es. l’assassinio di Ipazia nel 415 ad Alessandria d’Egitto) e contro gli eretici (la prima condanna a morte ebbe luogo a Treviri nel 384, contro Priscilliano e i suoi seguaci).

Nel 381, al concilio di Costantinopoli, si ribadisce definitivamente, aggiungendo altri dogmi, il Credo di Nicea. L’anno dopo l’imperatore Graziano farà rimuovere dal Senato l’ara della Vittoria (simbolo delle antiche tradizioni della Roma pagana) e rinuncerà al titolo di “pontefice massimo”. Il paganesimo perdeva ogni connessione ufficiale con lo Stato. Nel 391 l’esercizio pubblico del culto pagano, assimilato al delitto di lesa maestà, fu proibito nelle città di Roma ed Alessandria; l’anno dopo si estese la proibizione a tutto l’impero. Nel 415-16 ai pagani verranno interdette tutte le funzioni pubbliche. Con l’editto di Marciano (451) s’introdurrà la pena di morte e la confisca dei beni contro chi offre sacrifici agli dèi pagani o vi coopera. Nel VI secolo l’imperatore Giustiniano priverà il paganesimo anche di ogni mezzo di espressione culturale”.

(9) Appunto perché difficilissimo da definire, il tempo fu oggetto di studio sia nell’antichità, sia nel Medio Evo, sia nel tempo presente. Pitagora e Platone prima, poi Aristotele, la cui definizione è rimasta celebre anche perché adottata dalla filosofia scolastica: «Il tempo è il numero (misura) del movimento secondo il prima e il poi». Stoici ed Epicurei lo collegano, variamente, al moto; Lucrezio, nella Natura: «Nemmeno il tempo sussiste come entità; son le cose stesse || che creano il senso di ciò che è scorso negli anni». Invece il neoplatonsmo collega il tempo non al mondo fisico, ma all’anima e all’eternità: per Plotino il tempo è «la vita dell’anima, consistente nel movimento per cui essa passa da uno stato di vita ad un altro». Come si vede, il pensiero di Agostino è molto vicino a quello neoplatonico.

(10) Qualcuno ha intravisto negli scritti matematici di Agostino una sorta di discussione sull’infinito. Riporto quanto dice Forti in proposito:

Infinito attuale e infinito potenziale.

In un altro punto molto importante il pensiero di Agostino può essere avvicinato a quello di Leibniz, il quale è convinto assertore dell’infinito attuale, cioè della possibile esistenza di «insiemi» contenenti effettivamente un numero infinito di elementi (l’infinito potenziale, invece, più comunemente accolto dai filosofi, si riferisce alla possibilità di proseguire un’operazione – ad esempio una radice quadrata – tanto a lungo quanto si vuole, cioè oltre ogni limite).
Da Zenone in poi, il problema dell’infinito attuale si era affacciato ai greci. Spinti da saggia diffidenza per gli ineliminabili paradossi, essi avevano cercato di escludere questo concetto dalla dimostrazione matematica, impegnandosi spesso in analisi difficili (metodo di esaustione). Aristotele aveva concluso che esiste solo l’infinito potenziale, non quello attuale. Dallo scorcio del secolo passato [l’Ottocento, ndr], la questione diverrà una delle più decisive per la matematica moderna.
Anche Agostino medita su astronomia e matematica. Sappiamo perfino che egli – forse sotto l’influenza di Diofanto, come osserva Geymonat – aveva già avuto una intuizione moderna, come quella del primato dell’aritmetica rispetto alla geometria: quello che poi sentirà Cartesio. Ma i suoi scrupoli religiosi gli impediscono di trattenersi su queste vanità, ed egli si limita soltanto, in un punto, a combattere Aristotele, asserendo che la nozione di totalità dei numeri interi è effettivamente pensabile, giacché la mente divina, da cui emana il Verbo che ci illumina, non può fermarsi ad un numero finito. Il quasi eretico Guglielmo di Occam (1290-1348) fu uno dei primi a riaprire questa difficile problematica, al rinascere del pensiero moderno.

(11) Benedetto da Norcia (circa 480 – circa 547) fu uno tra i massimi pensatori cristiani che, per la prima volta, non cercò privilegi per sé ma fondò un ordine che, per sua propria regola, doveva autosostenersi attraverso il lavoro dei monaci. Il primo periodo della sua vita da eremita lo trascorse in una grotta nella Valle dell’Aniene presso l’attuale Subiaco. Per far intendere quale fosse già all’epoca la netta divisione tra i preti che godevano dei privilegi del potere e coloro che si richiamavano al Cristo delle origini, come Benedetto, riporto un brano della vita di Benedetto scritto da Gregorio Magno:

[…] la sua fama, per la vita santa che conduceva, ovunque si divulgava. Non lontano [dal suo eremo], vi era un monastero della cui comunità era morto il Padre. E tutta intera la comunità venne al venerabile Benedetto a pregarlo insistentemente di assumere il loro. governo. Egli si rifiutò a lungo di aderire alla richiesta. Giunse persino a predire che i loro costumi non si sarebbero potuti conciliare con le sue convinzioni. Ma, vinto alfine dalle insistenze, acconsentì. In quel monastero egli incominciò a vigilare attentamente sulla vita regolare, e a nessuno era lecito, come prima, scantonare, vagando a destra e a sinistra, dal sentiero dell’osservanza. Ora proprio essi, che erano stati con tanta benevolenza da lui accolti, presero, stolti quali erano, ad indispettirsi e ad accusarsi reciprocamente per aver richiesto Benedetto come superiore. In realtà i loro intrighi cozzavano contro la norma della sua rettitudine. E quando si resero conto che sotto la sua direzione le cose illecite non erano assolutamente permesse, si dispiacquero. molto perché dovevano abbandonare consuetudini ormai inveterate. Si trovarono, dunque, in grande difficoltà, perché furono costretti a meditare sulla riforma dei costumi con la loro incallita mentalità.
Ma la vita dei buoni è sempre intollerabile ai malvagi; ecco perché si accordarono per farlo morire. Dopo comune deliberazione, propinarono veleno nel vino. Quando il recipiente di vetro che conteneva la mortale bevanda fu presentato, come di consueto, al Padre, seduto a tavola, perché lo benedicesse, Benedetto, alzando la mano, tracciò il segno della croce e col segno stesso frantumò il recipiente di vetro che era tenuto distante. Si spezzò come se contro quel vaso di morte avesse lanciata una pietra in luogo della benedizione. L’uomo di Dio comprese che quel recipiente conteneva bevanda di morte perché non aveva sopportato il segno della vita. Subito levatosi da tavola, conservando inalterata la mitezza del volto e la tranquillità della mente, raccolse i monaci e così parlò: «L’onnipotente Dio vi perdoni, fratelli; perché avete voluto macchinare questo contro di me? Non ve lo avevo detto che i miei costumi e i vostri non si sarebbero conciliati? Andate pure a cercarvi un Padre conforme ai vostri costumi, perché, dopo l’accaduto, non potete più avere me».

        Per parte sua Gregorio Magno (540-604), che divenne Papa nel 590 con il nome di Gregorio I, fu un vero delinquente e per questi meriti fatto santo. Fu chiamato l’Attila della letteratura per la sua opera metodica di annientamento dell’antico sapere, che sarebbe culminata con l’aver dato alle fiamme la Biblioteca Palatina a Roma. Papa Gregorio avrebbe messo particolare attenzione anche nel distruggere i monumenti e le statue dell’antica Roma. Uno degli episodi del suo papato merita di essere citato. Poiché imperversava la peste a Roma, per scongiurarla fece intervenire tutti i fedeli a tre giorni di processioni presso la Basilica di Santa Maria Maggiore, con la conseguenza che i contagi si moltiplicarono a dismisura.

(12) Sul monachesimo che nacque intorno al III secolo circolano molte leggende che è utile ridimensionare. La parola monaco, in greco monakes, significa solitario ed infatti i monaci si separavano dalla comunità per cercare una vita solitaria che alle origini era il deserto (per questo si chiamavano anche eremiti, dal greco eremos che vuol dire deserto). Il separarsi dalla comunità fece chiamare i monaci anche anacoreti (dal greco anakhóreis che vuol dire ritirarsi). Il riunirsi dei monaci in piccole comunità originò i monasteri. Quanto detto non deve essere pensato come fenomeno che nasce nel cristianesimo. Esso è noto in comunità essene precedenti a Cristo localizzate nella zona di Qumran, vicino al Mar Morto ma anche in altre comunità ebraiche come quella dei terapeuti. Riguardo alla scelta di ritirarsi non si deve credere che essa discendesse esclusivamente dal desiderio di concentrarsi in tranquillità su qualche Dio o per pregare. La scelta è in gran parte legata al desiderio di allontanarsi dai problemi quotidiani e la parola anacoreta designava anche chi si allontanava da casa per sottrarsi agli obblighi che aveva. Nel III secolo con il cambio continuo di re ed imperatori sostenuti dai relativi eserciti, le tasse aumentavano tanto che alcuni non riuscivano a starvi dietro e se non si era in grado di pagare si rischiava la vita. Così accadeva che molti sceglievano di rinunciare alle poche proprietà che avevano e di ritirarsi verso un qualche eremo lontano e nascosto (ma anche la grande città) tanto che non si fosse più facilmente rintracciabili. Tra i monaci vi era la condanna evidente della società che era al di fuori della loro comunità. Il potere statale però non vedeva con favore questa perdita di contribuenti, lavoratori e spesso soldati tanto che proibì l’anacoretismo. Essi erano ricercati, costretti a tornare se trovati, spesso arruolati di forza nell’esercito. E, proprio per questo questi anacoreti erano i più fieri oppositori dell’Impero e della sua religione, molto spesso utilizzati dai vescovi contro i nemici delle autorità ecclesiastiche sia per la loro organizzazione che per il loro elevato numero. Infatti, tanto più acuta si faceva la crisi economica quanto più cresceva la quantità di coloro che si rinchiudevano in monasteri. Più o meno fu così che nacquero gli ordini e le regole monacali con la scelta di un abate (dalla parola ebraica abbas che vuol dire padre).

(13) Un cronista dell’epoca, Socrate Scolastico, così racconta l’episodio. Mentre Ipazia tornava a casa su di un carro, i cristiani la attaccarono: Tiratala giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario; qui, strappatale la veste, la uccisero usando dei cocci. Dopo che l’ebbero fatta a pezzi membro a membro, trasportati i brani del suo corpo nel cosiddetto Cinerone, cancellarono ogni traccia bruciandoli. Un secolo più tardi Damascio sottolineò le brutalità scrivendo che  uccisero la filosofa […] e mentre ancora respirava appena, le cavarono gli occhi. Damascio si sofferma anche sulle responsabilità del vescovo Cirillo, sostenuto dall’imperatore bizantino Teodosio II, dicendo che costui: si rose a tal punto nell’anima che tramò la sua uccisione, in modo che avvenisse il più presto possibile, un’uccisione che fu tra tutte la più empia.

C’è da ricordare che sotto l’ultimo imperatore che regnò su un impero unificato, lo spagnolo Teodosio I (379-395), il cristianesimo divenne unica religione di Stato ed i cristiani, non a caso, chiamarono questo inutile personaggio decadente come Teodosio il Grande.


BIBLIOGRAFIA

(1) Lucio Russo – La rivoluzione dimenticata – Feltrinelli 2001

(2) Karlheinz Deschner – Storia criminale del cristianesimo – Ariele 2000

(3) Walter Peruzzi – Il cattolicesimo reale – Odradek 2008

(4) Ludovico Geymonat (a cura di) – Storia del pensiero filosofico e scientifico – Garzanti 1970

(5) Umberto Forti – Storia della scienza – Dall’Oglio 1968

(6) René Taton (a cura di) – Storia Generale delle Scienze – Casini 1964

(7) Nicola Abbagnano (coordinata da) – Storia delle Scienze – UTET 1965

(8) John D. Bernal – Storia della scienza – Editori Riuniti 1965

(9) Charles Singer – Breve storia del pensiero scientifico – Einaudi 1961

(10) A.R. Hall, M. Boas Hall – Storia della scienza – il Mulino 1979

(11) Hugo Dingler – Storia filosofica della scienza – Longanesi 1949

(12) William H. Stahl – La scienza dei romani – Laterza 1974

(13) E.J. Dijksterhuis – Il meccanicismo e l’immagine del mondo – Feltrinelli 1971

(14) Edward Grant – La scienza nel Medioevo – il Mulino 1997

(15) AA. VV. – Agostino d’Ippona. Vita e pensiero – Il Sole 24 Ore 2006

(16) Agostino d’Ippona – Le confessioni – BUR 1974

(17) Karlheinz Deschner – Il gallo cantò ancora. Storia critica della Chiesa – Massari 1998

(18) Celso – El discurso verdadero contra los cristianos – Alianza Editorial, Madrid 1989

(19) Hans Jonas – Lo gnosticismo – SEI 1991

(20) Karlheinz Deschner – Il gallo cantò ancora – Massari 1998

(21) Friedrich Klemm – Storia della tecnica – Feltrinelli 1966

(22) Gregorio Magno – Benedetto da Norcia – Tipografia Editrice Santa Scolastica 1980

(23) M. Clagett – La scienza della meccanica nel medioevo – Feltrinelli 1972

(24) Aristotele – Fisica. Del Cielo – Laterza 1973



Categorie:SCIENZA E FEDE

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