LA FISICA NEL NOVECENTO 7: LA NASCITA DEGLI ANELLI DI ACCUMULAZIONE PER ELETTRONI E POSITRONI

CARLO BERNARDINI

Dipartimento di Fisica, Università La Sapienza, Roma

Nell’ormai lontano 1958, i Laboratori di Frascati stavano per mettere in funzione, sia pure in una versione pi˘ moderna e potente, quell’acceleratore di particelle che il gruppo romano di via Panisperna aveva a lungo vagheggiato1 prima di disperdersi nel mondo. In realt‡, il pi˘ forte promotore dell’elettrosincrotrone da 1.100 MeV era stato l’ex fiorentino Gilberto Bernardini, successivamente chiamato a Roma che, con Edoardo Amaldi e i colleghi del neonato INFN (Antonio Rostagni, Piero Caldirola e Gleb Wataghin), appoggiandosi al CNRN di Felice Ippolito, avevano investito l’allora giovanissimo Giorgio Salvini della direzione dei laboratori; e Salvini l’aveva assunta circondandosi di neolaureati ventenni. L’INFN aveva coordinato egregiamente la preparazione degli apparati sperimentali che sarebbero andati sui fasci (di gamma di bremsstrahlung) della macchina, prevaletemente per esperienze di fotoproduzione: finalmente líaffrancamento da raggi cosmici, banco di formazione dei fisici italiani delle particelle elementari. Mentre queste attivit‡ di “ordinaria ricerca programmata” andavano avanti, la temperatura intellettuale dei laboratori veniva perÚ mantenuta alta dal bombardamento delle novit‡ che proveniva senza sosta da tutti i laboratori attivi, particolarmente da quelli americani: voglio ricordare l’antiprotone, la fisica dei K, il fattore di forma del protone e la nonconservazione della parit‡; ma anche l’invenzione del focheggiamento forte nelle macchine circolari e l’idea delle collisioni fascio-fascio. C’erano molti risultati sperimentali e molte idee relative a strumenti, mentre la fisica teorica sembrava un po’ impantanata in rappresentazioni fenomenologiche non molto produttive o in rappresentazioni troppo generali per produrre risultati confrontabili con gli esperimenti. Tutto sommato, mi sembra di poter dire che la fisica sperimentale avesse all’epoca pi˘ forte impatto che non la fisica teorica2 nello sviluppo delle conoscenze sulle particelle elementari (ma in questo convegno abbiamo l’opportunit‡ di ascoltare una relazione di Gianni Jona-Lasinio in proposito). Nei Laboratori di Frascati, il sincrotrone non era ancora entrato in funzione che gi‡ si parlava del passo successivo. Gli elettroni non avevano molto credito presso i “particellari”: c’era gi‡ il CERN all’orizzonte e l’argomento della fisica “abbondante” che si poteva fare con protoni era sbandierato come probante e schiacciante; l’1/137 dei processi elettromagnetici era considerato un grave handicap. Per qualche tempo, ci fu una comunit‡ internazionale di elettrofotonici (che si incontravano nelle electron-photon Conferences), dotati di impianti acceleratori molto simili, che mantenevano rapporti di lavoro assai stretti cercando di fronteggiare la dominanza dei sincrociclotroni e dei sincrotroni per protoni: Glasgow (J.Dee), Caltech (Pasadena; M.Sands, R.Walker), Cornell (Ithaca N.Y.; R.Wilson, B.McDaniel, A.Silverman), Lund (von Dardel), Bonn (W.Paul); a cui vanno affiancati i due Linac: Stanford (R.Hofstadter, W.Panofsky), Orsay (A.Blanc-Lapierre) . Le nuove idee erano ancora imprecise e richiedevano una forte collaborazione tra esperti di acceleratori (detti “macchinisti”) e fisici; i passi erano lenti: l’idea delle collisioni tra fasci stava facendosi strada, negli USA con D. Kerst (Madison) e G.K.O’Neill (Princeton-Stanford), ma risaliva gi‡ a R.Wideroe (ingegnere e costruttore di betatroni presso la Brown Boveri). Alla data del 24 febbraio 1958 trovo sul mio Notebook dell’epoca, sotto il titolo “Storion”: Dispositivo per l’accumulo di beams elettronici circolanti i calcoli per una sorta di trappola magnetica che prefigurava un dispositivo di accumulazione: niente pi˘ che una bottiglia magnetica con ragionevoli condizioni di stabilit‡ (all’epoca, c’era molta attivit‡ di questo tipo nel settore dei plasmi controllati, uno dei pi˘ grandi e costosi aborti della storia della fisica). Si faceva un gran parlare della perfezione della QED e dell’opportunit‡ di verificare che non vi fossero breakdowns oltre quelli prevedibili sopra le soglie per la presenza di adroni. A parte la copiosa messe di calcoli a ordini elevati della costante di struttura fine a sapienti trattamenti delle divergenze ultraviolette e infrarosse, le idee erano ingenue: esiste un elettrone pesante, e*, che decade in e + γ ? Come si modificano i propagatori di elettroni e fotoni ad elevato momento trasferito? E i vertici, cioË i presunti fattori di forma, nel rispetto della gauge invariance e dell’identit‡ di Ward? Un teorico americano di Stanford, molto noto, spesso ospite di Frascati e dell’Universit‡ di Roma, era il leader dei revisionisti della QED: S.D.Drell pubblicÚ nel 1958 un celebre articolo, QED at small distances, nel quale si discutevano le implicazioni dei possibili breakdowns (Annals of Physics, 4 (1958), 75). E intanto stavano spuntando i mesoni vettoriali e si profilavano cambiamenti notevoli nelle rappresentazioni dei processi: c’erano state importanti proposte di Y.Nambu e di S.N. Gupta e la vector dominance di J.J. Sakurai sarebbe arrivata di lÏ a poco. Forse questa insistenza ìcongetturaleî sulla verifica della QED Ë quello che ha spinto Princeton e Stanford verso gli anelli tangenti per collisioni ee – ; e invece un intento pi˘ strumentale avrebbe spinto i russi di Novosibirsk (G.Budker e coll.) verso un analogo strumento (VEPP 1). Nel frattempo, D.Kerst si cimentava nel disegno delle improbabili macchine FFAG3 , per protoni, un buon esempio di come lo specialismo possa a volte prendere la mano e produrre mostri; anche l’anello MURA a Madison fu un mero esercizio tecnico. E’ in questo clima che Bruno Touschek si inserisce come eccellente ibrido tra chi sa quali sono i problemi degli acceleratori e quali quelli della fisica: si era laureato con una tesi sui betatroni per poi dedicarsi alla fisica teorica. Per Bruno, i test della QED4 non erano molto importanti: era invaghito di questa teoria e pensava che i problemi fossero altrove. Nella sua mentalit‡, la vera novit‡ stava nel fatto che bisogna depositare energia nel vuoto, con numeri quantici ragionevoli ma “on the mass shell”. ´Finoraª, diceva, ´abbiamo fatto geometria, diffrazione: i fattori di forma dei nucleoni (il grande successo di R. Hofstadter, a Stanford) a momento trasferito spacelike. Se riuscissimo a produrre momenti trasferiti time-like, appunto on the mass shell, potremmo eccitare il vuoto, per esempio in stati JPC = 1– , che corrispondono a interessanti mesoni vettoriali neutri. Questa Ë, finalmente, dinamicaª. Effettivamente, le idee dell’epoca per ottenere risultati che potevano essere rilevanti consistevano nel cercare di estrapolare ampiezze dalla regione space-like a quella time-like con formule di dispersione (vedi la relazione di Cini); ma il passo era troppo grande: come non riconoscere, allora, che misure dirette avrebbero dato risultati di grande rilevanza? Il 7 marzo 1960 Bruno fece un seminario a Frascati: descrisse un anello di accumulazione per elettroni e positroni che aveva gi‡ discusso con alcuni di noi nei giorni precedenti. Erano presenti Salvini, Fernando Amman, Raoul Gatto oltre a molti altri. L’idea era, in un certo senso, abnorme, sorprendente, eccitante. Bruno calcolÚ alla lavagna il “vantaggio cinematico” derivante dallo stato di riposo del centro di massa, mostrando agli attoniti sperimentatori che si accingevano a fotoprodurre mesoni con il sincrotrone che l’energia disponibile nel CM in un anello e+ e – era, per appena 200 MeV dei fasci, di ben 400 MeV contro i circa 30 MeV di un e+ da 1.000 MeV su un elettrone fermo. SicchÈ diventava possibile produrre adroni da un robusto fotone virtuale on the mass shell! Si incominciÚ a discutere delle difficolt‡. A parte la spesa – che non sembrava astronomica per un piccolo prototipo, gi‡ battezzato AdA (Anello di Accumulazione): con 20 milioni di allora si poteva incominciare, disponendo dei sevizi dei LNF – c’erano numerosi problemi tecnici. Bruno provÚ a convincere Salvini a trasformare il sincrotrone, prima che fosse usato per i programmi previsti, in anello: ne seguÏ un alterco violento ma breve, perchÈ Salvini oppose un netto e saggio rifiuto (questa pazzia di convertire un sincrotrone ñ per elettroni da 3GeV ñ in anello fu fatta a Harvard da Ken Robinson e Karl Strauch allíinizio degli anni í70, ma durÚ poco). Poi si passÚ a progettare e valutare: 1 – Il fattore di sorgente delle reazioni e+ e – , di lÏ in poi chiamato “luminosit‡” 2 – Le vite medie dei fasci e il vuoto necessario 3 – I problemi dell’iniezione di positroni ed elettroni nell’anello 4 – La struttura del magnete e dell’impianto a RF per compensare la perdita per radiazione di sincrotrone Giorgio Ghigo, con l’aiuto del gruppo magneti di Giancarlo Sacerdoti e del gruppo RF di Mario Puglisi, progettÚ immediatamente la macchina (punto 4); l’ordine per il magnete fu piazzato all’Ansaldo appena una settimana dopo grazie a un decisivo intervento di Amaldi presso Ippolito al CNEN. Per l’iniezione (3) fu deciso, provvisoriamente, di ricorrere a una conversione dei gamma del sincrotrone in coppie elettrone-positrone su un bersaglio interno all’anello: l’accettanza sarebbe stata bassa ma, presumibilmente, non nulla, tanto per incominciare. PoichÈ elettroni e positroni (ma non fummo mai díaccordo su quali fossero gli uni e quali gli altri: bella riprova di CP invarianza) avrebbero dovuto correre sulle stesse orbite ma in versi opposti, usando un unico bersaglio convertitore era necessario invertire il campo senza distruggere il fascio gi‡ accumulato: che fare? Ghigo e Gianfranco Corazza, con grande soddisfazione di Touschek, pensarono bene di montare l’anello (poco meno di 10 tonnellate di roba) su uno spiedone rotante che fu subito battezzato “girarrosto”: il campo si ribaltava, senza spegnerlo, ribaltando la macchina! Le perdite dei fasci e le loro vite medie (2) dipendono dal gas residuo nella donut. Gianfranco Corazza stava gi‡ facendo esperienza con le splendide pompe a ionizzazione (che poi avremmo comprato dalla Varian). Da quel momento in poi il problema fu suo e lo risolse nel migliore dei modi: gi‡ nella donut provvisoria avevamo 10-7 torr, che di lÏ a poco divennero 10-10 torr dopo un trattamento di degassamento a caldo delle pareti interne. C’era perfino qualche problema con i vacuometri Alpert, che a quel livello diventavano insensibili: qualche anno dopo, con Corazza, progettammo e costruimmo un vacuometro che funzionava come un microscopio Mueller con campo invertito sulla punta, su cui attirava atomi neutri polarizzati aumentando localmente la densit‡ e quindi la corrente di ionizzazione misurata; ma era troppo delicato: il campo di 5 kV/µm = 5 GeV/m rompeva la punta e ci voleva molto tempo per sostituirla. Touschek era tutto preso dalla luminosit‡ L (1). TrovÚ la formula che mostrava la dipendenza dalla sezione trasversa dei fasci e da numero e frequenza dei bunches, oltre che dalle correnti accumulate (ovvio). Spesso maltrattava i dubbiosi e incerti che facevano domande come: “Chi assicura che i fasci si incontreranno?” e lui rispondeva: “Ovviamente, teorema TCP! Anzi, basta CP!”. Oppure: “Ma le interazioni elettriche con la donut metallica non separeranno i fasci?” e lui: “Sheifle!”. E cosÏ via. Il 27 febbraio 1961, meno di un anno dopo, registrammo i primi elettroni accumulati . Un fotomoltiplicatore osservava la luce di sincrotrone attraverso un oblÚ della donut: era stato calibrato senza problemi, un singolo elettrone era visibile a occhio nudo e noi ne accumulavamo qualcuno per farlo vedere ai visitatori (Amaldi, Dee di Glasgow, un allievo di Rutherford, Paul di Bonn, von Dardel di Uppsala, gli amici di Cornell e di Caltech); si potevano anche scattare foto polaroid di qualche elettrone circolante: in fondo, pur emettendo poca luce per passaggio, passava 75 milioni di volte al secondo! A occhio, si vedeva una puntuta immagine bianco-bluastra di luminosit‡ pari a quella che avrebbe il Sole a 5 a.l. da noi. L’iniezione fu un problema: il duty cycle e la geometria del fascio del sincrotrone erano sfavorevoli. Si dovette avvicinare il pi˘ possibile il girarrosto alla macchina. Ma spesso, ribaltando l’anello, si perdeva il fascio accumulato. Bruno, con Pierre Marin di Orsay, fecero qualche tempo dopo un’osservazione occasionale: minuscoli frammenti metallici diamagnetici provenienti dalle saldature della donut che, al ribatamento, ghigliottinavano occasionalmente il fascio accumulato. Ghigo inventÚ un nuovo schema in cui lo spiedo era sostituito da una rotazione e una traslazione , per “ovvii motivi gruppali” spiegava Bruno. La velocit‡ d’iniezione peggiorÚ ulteriormente perchÈ la torre su cui fu montata AdA la allontanÚ dal sincrotrone. Ben presto si capÏ che, pur migliorando le vite medie – che ormai erano arrivate a 10 ore – i fasci non avrebbero avuto pi˘ di 105 particelle ciascuno in un turno di carica: troppo poco per ogni esperimento di fisica. Pierre Marin, che veniva da Orsay dove disponevano, come a Stanford, di un Linac per elettroni da 1 GeV, chiese se eravamo interessati a trasferire lÏ AdA: il duty-cycle del Linac (corti impulsi da nsec alla frequenza di rete) stavolta non sarebbe stato un inconveniente come lo era invece per le esperienze in coincidenza in cui il sincrotrone era nettamente preferibile; l’intensit‡ (qualche mCoulomb/ora) era formidabile e gli elettroni si potevano convertire a ridosso di AdA trattandosi di un fascio elettronico esterno. Mi venne anche l’idea di modulare in discesa la tensione di RF durante e grazie al corto impulso d’iniezione, il che portÚ a un guadagno di un fattore 25 del rendimento (per inciso: feci un seminario a Cornell durante il quale ebbi un diverbio con Tigner che stava costruendo una copia di AdA con modulazione RF a salire, che sembrava, erroneamente, “naturale”: lo dico perchÈ tutti noi del gruppo avevamo a quel punto una conoscenza quasi simbiotica delle propriet‡ dell’anello). Grazie a Pierre Marin , che Ë morto purtroppo in aprile 2002, e al direttore di Orsay, AndrÈ Blanc-Lapierre (scomparso anch’egli in dicembre 2001) sollecitato autorevolmente da Amaldi, ci trasferimmo a Orsay tra il ’62 e il ’63: con molte peripezie che ho raccontato altrove. Il gruppo ora era formato da Corazza, Ghigo, Touschek e me, cui si erano aggiunti Giuseppe Di Giugno e Ruggero Querzoli, pi˘ i francesi: Jacques HaissÔnski e Pierre Marin. Che l’anello non avesse pi˘ segreti, per noi, lo si vide una notte, nel ’63, quando ci accorgemmo che la vita media di un fascio diminuiva all’aumentare del numero di particelle in esso accumulate. Fu un’osservazione drammatica: sembrava la condanna a morte degli anelli. Bruno si allontanÚ alle 5 del mattino e andÚ al CafÈ de la Gare a bere il suo prediletto RosÈ Sec con gli operai che arrivavano da Parigi. TornÚ eccitatissimo alle 6 e mezza: aveva capito: il trasferimento di momento dai moti trasversali a quello longitudinale per scattering M¯ller tra gli elettroni di uno stesso bunch produceva la catastrofe perchÈ le oscillazioni di betatrone avevano momenti assai pi˘ grandi di quelle di fase e queste ultime, non lineari, avevano anche un momento massimo accettato nella zona di stabilit‡. Bruno era preoccupato e soddisfatto a un tempo: aveva capito, il problema era serio per AdA; ma non avrebbe impedito il funzionamento di una macchina pi˘ grande. Bruno aveva gi‡ una formula5 per la dipendenza dall’energia di quello che si sarebbe subito chiamato “effetto Touschek”. Ricordo che eravamo molto ammirati del fatto che Bruno fosse venuto a capo del problema in uníora. Con la consueta pazienza mi spiegÚ che la dipendenza della vita media dal numero di particelle in un bunch gli aveva suggerito che líequazione di variazione del numero n accumulato in un bunch era del tipo: n › = − 1 τ 0 n −αn 2 + n › 0 dove il primo termine a destra Ë dovuto al gas, il secondo Ë la novit‡ di Touschek/AdA e il terzo Ë il contributo dellíiniezione6 . Il fatto che la novit‡ fosse quadratica denunciava un effetto di densit‡ nel bunch; cosa altro poteva essere se non lo scattering M¯ller? Mentre lui parlava, io capii che pi˘ alta era la densit‡, pi˘ frequenti sarebbero stati gli urti nel bunch; poco tempo prima mi ero accorto che le dimensioni verticali del fascio erano certamente molto pi˘ piccole (10 µm contro 1 mm) di quelle e orizzontali perchÈ, contrariamente alla diffusa opinione che le dimensioni fossero dovute a scattering multiplo, il regime era quello di scattering singoli compensati da un forte damping di radiazione. PerciÚ, accoppiando il modo orizzontale al verticale durante líiniezione, la sezione del beam sarebbe diventata circolare, la densit‡ sarebbe diminuita e líeffetto Touschek pure, consentendo di iniettare pi˘ particelle. Effettivamente, riuscimmo a portare la saturazione a ben 108 particelle per beam: io partii per Frascati dove, preavvertiti telefonicamente, mi prepararono un quadrupolo che inserimmo con gli assi ruotati di 45° appena tre giorni dopo. Racconto líepisodio per sottolineare il clima iperattivo e indimenticabile in cui vivevamo: questo non si Ë forse pi˘ verificato nel lavoro con acceleratori. Comunque, Adone (2×1.500 MeV) a quel punto era gi‡ in costruzione (“Adon che a nullo Amaldi amar perdona”, come dicevamo scherzando, era stato fortemente appoggiato da Edoardo Amaldi). La direzione dei lavori fu affidata a Fernando Amman, che ha poi raccontato le vicende relative a questa impresa; sicchÈ oggi ve le risparmio. Anche il ìlibro dei sogniî era stato fatto: era la celebre ìBibbiaî pubblicata da Nicola Cabibbo e Raoul Gatto7 sul Physical Review gi‡ nel í61, che conteneva il repertorio completo di ogni immaginabile (allíepoca) sezione díurto di annichilazione. A quel punto, la praticabilit‡ degli anelli per elettroni e positroni era dimostrata: facemmo una misura di bremsstrahlung con un contatore di Cerenkov in vetro al piombo e pubblicammo il risultato sul Nuovo Cimento8 gi‡ nel 1964 . Risultati intermedi e vicende sono ormai cancellati: qualche rapporto dei LNF, le note personali di Pierre Marin , che me ne ha mandato copia poco prima di morire, la tesi di Docteur es-Sciences di Jacques HaÔssinski (di cui eravamo ìrelatoriî Bruno e io in una commissione formata da noi, Blanc-Lapierre e NÈel di Grenoble); ce ne sarebbero da raccontare per ore e ore, se si volesse fare un confronto tra il modo di lavorare di oggi e quello di allora. Di sopravvissuti ci siamo solo, oltre me, Corazza, Di Giugno, HaÔssinski: Corazza fa il contadino a Corato, Di Giugno fa musica e modellini a Colleferro e HaÔssinski si occupa di stelle nane brune. La sola cosa che voglio dire Ë che con gruppi di quelle dimensioni si poteva lavorare senza nemmeno il sospetto che qualcuno non facesse tutto quello che doveva: Ë stato un indimenticabile ìuno per tutti, tutti per unoî. I francesi avevano subito messo in cantiere ACO, una macchina un poí pi˘ grande di AdA (2×500 MeV) e molto professionale, soprattutto per líiniezione; i siberiani di Gershon (Andrei Mihailovich) Budker a Novosibirsk avevano in costruzione VEPP 2, con qualche problema per le tecnologie del vuoto (la Varian non esportava in URSS a met‡ degli anni í60: líabbattimento, con un missile, dellíU2 di Powers ancora pesava sui rapporti tra le superpotenze). A Saclay, nel 1966, si tenne un importante convegno dove alcuni di noi che preparavano esperimenti per Adone proposero di usare queste macchine per líosservazione di risonanze vettoriali 1— molto strette a masse pi˘ elevate che non quelle dei tre mesoni gi‡ noti (ρωϕ): la definizione in energia dei fasci era talmente buona che si potevano osservare righe da pochi keV. Il nostro smacco pi˘ grande fu che la J/ψ stava appena 50 MeV sopra líenergia massima di Adone (1.500 MeV), sicchÈ la trovarono Richter a Stanford e Ting a Mit solo nel 1974, in una sfida tra ìgentiluominiî che non auguro a nessuno. Il giorno che arrivÚ la notizia della J/ψ Adone fu ìforzatoî a 1.550 MeV e comparve in poche ore questa meraviglia che ci era stata (involontariamente, beninteso) scippata. Ma qui voglio solo ricordare due cose da lasciare agli atti. Una Ë la misura riportata dai francesi di ACO a Cornell alla electron-photon Conference del 1971. Ci si vede (e Bruno era al settimo cielo) un esempio della parte dispersiva della costante dielettrica del vuoto misurata attraverso líinterferenza γ-ϕ nella sezione díurto e+ e – → µ+ µ- . Eí una misura unica nel suo genere e non solo molto difficile. Líaltra cosa Ë che, alla fine degli anni í60, quando Adone stava entrando in funzione, ero responsabile della sperimentazione con Adone. In quella veste, ho purtroppo assistito a scene di ìbanditismo accademicoî a mio parere inqualificabili che hanno seriamente pregiudicato il lavoro scientifico e un certo primato italiano: ho protestato pubblicamente in passato per i danni derivanti dalla contestazione al lavoro con Adone; ma forse i danni sono stati meno gravi di quelli prodotti dal rampantismo di qualche ìcollegaî. Voglio solo lasciare memoria, qui, del fatto che ho deciso di scrivere un dossier che sar‡ accessibile fra un paio di decenni: a questo siamo ridotti, a causa dei ìsoliti notiî (che perÚ prendono premi dalla nostra comunit‡). Credo che tutti i risvolti di questa storia9 , da cui la storiografia americana ci ha piratescamente cancellati, siano importanti. Dopotutto,ogni laboratorio di alte energie che si rispetti, nel mondo, ha un ìcolliderî. Bibliografia 1 G.Battimelli, I.Gambaro, ìUn laboratorio per le alte energieÖî, Atti Congr. Naz. Storia della Fisica, Udine 1993-Lecce 1994, Edit. A. Rossi, Conte, Lecce 1995, p. 475; G.Battimelli, I.Gambaro, Quad. Storia della Fisica 1 (1997), p. 319 2 Strong Interactions and High Energy Physics, edited by R.G.Moorhouse, Oliver & Boyd, Edinburgh, 1964 3 K.R.Symon, D.W.Kerst, L.W.Jones, L.J.Laslett, K.M.Terwilliger, Fixed-Field Alternating-Gradient particle accelerators, Phys.Rev. 103 ((1956) 1837 4 S.D.Drell, Quantum Electrodynamics at small distances, Annals of Physics, 4 (1958) 75; C.Bernardini, High Energy Experiments in QED, Summer School, Univ.of Colorado, Boulder (1968) 5 C.Bernardini, G.F.Corazza, G.Di Giugno, G.Ghigo, J.HaÔssinski, P.Marin, R.Querzoli, B.Touschek, Lifetime and Beam Size in a Storage Ring, Phys.Rev.Lett. 10 (1963) 407 6 C.Bernardini, Scientia, 113 (1978) 27; Il Nuovo Saggiatore, 6 (1982); From the Frascati Electronsynchrotron to Adone, “Present and Future of Collider Physics”, vol.30 (1990), Ed.: Italian Physical Society; E. Amaldi, The Bruno Touschek Legacy, CERN 81-19, 1981, Geneva; also, L’eredità di Bruno Touschek, Quaderni del Giornale di Fisica, V, n°7, 1982 7 N. Cabibbo, R. Gatto, Electron-Positron Colliding Beam Experiments, Phys. Rev., 124 (1961) 1577 8 C.Bernardini, G.F.Corazza, G.Di Giugno, J.HaÔssinski, P.Marin, R.Querzoli, B.Touschek, Nuovo Cimento, 34 (1964), 147 9 F.Amman, The Early times of electron Coliders, Rivist di Storia della Scienza, n° 2 (1985), 130; History Symposium “Strong Focusing Discovery and Impact. Events and Recollections”, 1985 Summer School on Particle Accelerators, SLAC (1985). As far as physics is concerned, see: G.Salvini, A.Silverman, Physics with Matter-Antimatter collider



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