SANTO BORDELLO VATICANO

Roberto Renzetti

[7] Allora Gesù disse loro: «In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. … [11] Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. …[14] Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, … [16] E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore». [Giovanni 10, 7-16].

INTRODUZIONE

            Mentre mi accingo a scrivere quanto segue, qualcosa di ributtante e vomitevole che a me fa ribrezzo, sono convinto che analogo sentimento non riguarderà i pii e devoti credenti che o non leggeranno mai queste impudicizie giudicate carognesche o le leggeranno pensando a pura invenzione ispirata direttamente da Satana. Sull’ispirazione di Satana io concordo ma avverto che dietro questi racconti non vi sono invenzioni ma vergognose realtà raccontate in gran parte da cattolici praticanti che hanno riguardato per secoli la Chiesa di Roma ed i suoi massimi rappresentanti, i Papi ed i Cardinali. Queste santità ed eminenze sanno invece molto bene di cosa parlo, conoscono i racconti che seguono ma tacciono sornioni aspettando di poter tornare agli antichi fasti che assommano ai loro crimini imprese pecorecce impensabili per, ad esempio, dei Vicari di Cristo in terra.

         A parte qualche povero prete o monaco che ha preso sul serio quanto Gesù si è sforzato inutilmente di insegnare, è risaputo che fin dai tempi più antichi la carriera ecclesiastica è stata una strada che apriva a privilegi, alla non condanna del lavoro, ad una vita degna priva di pensieri e sofferenze, ad impunità per operati scandalosi e spesso osceni. Tutto ciò naturalmente si moltiplicava al crescere della carica fino ad arrivare a sommi crimini, somme violenze, eccessi carnali verso donne e bambini. E questi eccessi, quelli verso le donne, erano spesso condivisi dalle presunte vittime che, capito come funzionava la santa eccitazione papale, l’hanno sfruttata fino al punto da assumere esse stesse il bastone del comando non essendo da meno del presunto carnefice.

         Nel mio La Chiesa dopo Gesù (Tempesta editore, 2012) scrivevo qualcosa che sono in obbligo ora di ripetere:

Nel dire tutto questo so bene che la Chiesa ha un alibi, un alibi molto ma molto importante. Le innumerevoli persone, l’esercito di cristiani che umilmente e senza chiedere nulla in cambio, giorno dopo giorno, lavorano per alleviare pene e sofferenze. A loro va ogni ringraziamento, ogni affetto. Sono tanti, tantissimi, la maggioranza dei cristiani. Ma non contano nulla. La Chiesa non è cosa loro ma delle gerarchie. Solo questo, se ribaltato, dovrebbe far cogliere le profonde deformazioni che una religione origina nel libero sentire degli esseri umani. Liberatevi o credenti in buona fede ! Voi non avete nulla a che fare con una cricca di gerarchi crapuloni, in gonnella e zucchetto. Se vi liberate voi aiutate anche noi a liberarci. Siate, come dite voi, misericordiosi in Cristo con tutti noi che viviamo un’etica forte e vera senza fede. Gli altri, i cristiani felici delle gerarchie, sono nemici vostri e nostri. Anche qui si tratta di moltissime persone che scelgono la Chiesa non già perché portatrice degli insegnamenti di Gesù, ma proprio per la sua posizione autoritaria, reazionaria, al servizio di ogni potere corrotto, violento e dittatoriale. Questi sono il gregge che si merita tanto pastore.

         Quanto leggerete, spero con disgusto, non è stato da me scoperto o inventato. Vi sono stati autori, prima di me, che hanno scritto di queste cose ed al loro lavoro, sempre faticoso e difficile, voglio dare merito, in particolare a Karlheinz Deschner, Ferdinand Gregorovius, Edward Gibbon e Claudio Rendina(1).

         Da ultimo vale purtroppo ancora quanto scriveva Gibbon, cioè che documenti affidabili sui quali poter contare sono pochi, molto pochi. La Chiesa, nei secoli, ha operato distruzioni, falsificazioni e occultamenti che rendono molto difficoltosa una ricostruzione razionale del periodo storico che riguarda, non già le vicende dell’umanità, ma quelle che la riguardano. Ci restano solo testi agiografici, apologetici, esegetici; testi dai quali, con fatica, è possibile capire cosa accadeva, ad esempio, di chi non condivideva le posizioni ufficiali. Ben più autorevole di chi scrive è lo storico inglese Edward Gibbon che alla fine del Settecento affermava nella sua Storia del declino e della caduta dell’Impero romano:

Ma per quanto l’indagine obiettiva e razionale sui progressi e l’affermazione del cristianesimo sia utile o dilettevole, è accompagnata da due peculiari difficoltà. Gli scarsi e sospetti materiali della storia ecclesiastica raramente ci consentono di dissipare la fitta nube che copre i primi secoli della chiesa. La grande legge dell’imparzialità ci costringe troppo spesso a rivelare le imperfezioni dei non ispirati maestri e credenti del vangelo, mentre a un osservatore disattento può sembrare che le loro mancanze gettino un’ombra sulla fede che professarono. Ma lo scandalo dei pii cristiani come il fallace trionfo degl’infedeli dovrebbero cessare, ricordando non solo da chi, ma anche a chi fu fatta la divina rivelazione. Il teologo può abbandonarsi al grato compito di rappresentare la religione quale ci venne dal cielo, ammantata della sua nativa purezza; ma allo storico s’impone l’ingrato dovere di mostrare l’inevitabile miscuglio di corruzione e di errore, che essa contrasse nella sua lunga dimora sulla terra, tra esseri deboli e degenera

PAPI, CARDINALI E VESCOVI

          L’organizzazione delle prime comunità cristiane era, in breve, la seguente: in ogni comunità, che è una ekklesia, una assemblea popolare, vi era una guida costituita da un collegio di presbiteri (come nelle sinagoghe). Le chiese delle varie comunità erano autonome ma con la coscienza di appartenere ad una organizzazione più generale chiamata da Ignazio Chiesa Generale, cioè Cattolica. Più avanti nel tempo fu creata la figura del supervisore o amministratore, che è poi il vescovo (episcopoi) inteso in senso completamente diverso da quello che poi è diventato. Altre funzioni di servizio furono introdotte al crescere delle comunità  ma sempre per competenze specifiche in un qualche ambito e mai con un qualcuno chiamato per essere al di sopra degli altri con una qualche vocazione in più. Clemente Romano (morto nel 97), nella sua Lettera ai corinzi, oltre a quanto già detto, implorava i fedeli di seguire le indicazioni dei preposti a capo della comunità e di provvedere al loro mantenimento. Il vescovo di Antiochia, Ignazio (? – circa 110), scrivendo agli Efesini, faceva sapere che il vescovo era unico, era la massima autorità dell’ekklesia, doveva essere rispettato allo stesso modo di Dio, Colui che aveva abolito la morte [19, 1-3]. A lui si deve una prima suddivisioni di incarichi nell’ekklesia tra vescovi, presbiteri e diaconi e l’uso, per la prima volta, delle parole Chiesa e Cristianesimo [si veda in proposito la nota 5 del mio lavoro citato].

            E’ l’inizio della costruzione di una gerarchia nella Chiesa. Un vescovo rappresenta il luogo in cui opera e dal vescovo dipendono i diaconi ed i presbiteri che venivano nominati con l’imposizione delle mani. In tal modo entravano in un ordo risultando ordinati. E’ d’interesse notare che l’ordo era una istituzione imperiale romana. Vi erano tre ordo che distinguevano i cittadini per importanza. Il primo era quello che raggruppava senatori e governanti, il secondo quello che metteva insieme i vari notabili, il terzo quello che caratterizzava la plebe. La Chiesa distinse in due gli ordo che la riguardavano, quello delle gerarchie (i minus ter o ministri che via via divennero magis ter o maestri, con un passaggio epico e tipico da minus a magis) e quello della plebe (chiaro no ?).  A questo punto fu San Cipriano (200-258) a rendere sacerdoti (persone sacre, consacrate, diverse dal gregge dei fedeli) i ministri, attingendo direttamente dalla tradizione ebraica e costruendo quindi la categoria di chierici contro i quali Gesù si era battuto, dati i risultati, inutilmente. E questo uso divenne generalizzato dopo il Concilio di Nicea (325) perché Costantino voleva un gruppo di persone di riferimento ed affidabili cui assegnare la cura dei sudditi dell’impero. La codifica della figura del sacerdote (prima delegata ai vescovi quindi ai presbiteri) avvenne nel V secolo, quando l’eucarestia che precedentemente ogni fedele poteva officiare divenne sempre più una esclusiva del clero. La Chiesa si era costituita come sistema di potere allo stesso modo di altre religioni non senza qualche insigne personaggio che, fino al IV secolo, rifiutava con fermezza la cosa. E’ il caso, ad esempio, di San Girolamo (347-420) che nel rifiutare i sacerdoti affermava che nei testi sacri si parlava solo di diaconi e di presbiteri e non di vescovi e quindi il diventare vescovo significava essere fuori dall’ekklesia. Girolamo, che era personaggio di rilievo in quanto tradusse la Bibbia in latino (la famosa Vulgata), rifiutò di conseguenza la carica di vescovo e la sua posizione la fece presente anche nella traduzione della Bibbia, quando in luogo del termine che propriamente significa diacono mise quello di minus ter o ministro che vuol dire colui che è sottoposto agli altri. Fu la Chiesa post Girolamo a cambiare quel termine in magis ter, che vuol dire colui che è più su degli altri.

          Dopo le crudeli lotte contro l’eresia che misero al margine, se non fatto fuori, tutti coloro che avevano idee diverse sul messaggio evangelico, si è passati alla gestione del potere con metodi molto più crudeli ed assoluti dei detentori dell’autorità del passato. La religione, che nella Chiesa primitiva era strumento di consolazione per i bisognosi e sofferenti, è stata resa totalizzante con obbligo di accettazione per tutti. Le stesse cariche che venivano assegnate per la gestione della Chiesa nascente cambiarono via via la loro natura. Il culto sembrava essere quello che troviamo descritto nel Nuovo Testamento: tutti i partecipanti dell’assemblea dei cristiani potevano considerarsi e si consideravano capaci di avvicinarsi personalmente a Dio per il loro essersi liberati dal peccato. Col passare degli anni la condizione di purezza raggiunta non sembrò più facile ad essere mantenuta ed i cristiani non si differenziavano molto dai vicini pagani. Fu allora che i cristiani iniziarono a vedere con rispetto sempre maggiore coloro che si comportavano in modo austero, che dominavano gli istinti, che si alimentavano con sobrietà e passavano molto tempo in preghiere e meditazioni. Così, poco a poco, all’interno della comunità cristiana si crearono delle differenziazioni tra i semplici membri considerati terreni e le autorità considerate spirituali. E’ l’inizio del clero come autorità, all’inizio acquisita per meriti spirituali, ma subito dopo conquistata con lotte anche molto dure. Questo cambiamento rese sempre più simili i cristiani ai pagani, ambedue bisognosi di sacerdoti che si separavano sempre più dai semplici fedeli terreni. I sacerdoti si dettero una gerarchia e divennero un gruppo selezionato differenziato dagli altri credenti. Questo gruppo venne chiamato clero, dal greco kleros (parte eletta), ed i suoi integranti ricevettero il nome di chierici. Il resto della comunità era chiamata laòs che in greco significa popolo (dal termine laòs derivò poi quello di laico, con il significato, dapprima, di colui che non riceve insegnamenti teologici specializzati, e quindi di profano, di colui che non si intende).

          Nel II secolo i vescovi ebbero un ruolo importante che, come accennato, trascese quello di amministratori. Queste importanti figure erano elette, in generale, tra i membri più importanti della comunità o del gruppo di comunità (o diocesi) e spesso risultavano chiamati alla funzione i più ricchi, coloro che erano meno colpiti dal ritardo della fine del mondo e che tornarono a dare importanza ai beni accumulati. Per quanto questi vescovi potevano essere scontenti dell’amministrazione politica e dello stato delle cose esistente, non si proponevano di riformare il mondo. Erano le persone che più potevano arrivare ad accordi e reciproca comprensione con i circoli dominanti dell’Impero. E questo fu uno dei motivi che fece aumentare l’insoddisfazione verso la gestione gerarchica delle diocesi con la formazione di differenti sette cristiane che poco a poco furono le nemiche principali di cui sbarazzarsi in ogni modo. Nascevano le eresie(6), credenze di gruppi di cristiani che in linea di principio non erano moralmente inaccettabili o lontane dagli insegnamenti evangelici, delle quali parlerò più oltre.

        Ma i vescovi, divenuti successivamente vicari di  Cristo e successori degli apostoli, ben presto assunsero su di loro anche un altro ruolo, quello di tenere lontane dalle assemblee le persone che portavano nuove idee e tendevano, a loro giudizio, a confondere le acque. Acquisirono presto l’autorità di allontanare dall’assemblea le persone a loro non gradite. Se si guarda questo fenomeno con attenzione si scopre che il cristianesimo riuscì a aprirsi una strada importante nella credibilità popolare perché offriva suoi pensatori, suoi profeti distinti da quelli del giudaismo. Da un dato momento, appena una cinquantina d’anni dopo la scomparsa dei nuovi profeti, coloro che si offrivano come altri profeti erano scacciati come entità perturbatrici di un ordine che ormai si riteneva chiuso in sé. Ma i profeti crescevano e, se non altro, mostravano un malcontento crescente rispetto all’ordine sociale esistente nelle diverse comunità. Il vescovo era diventato un profeta d’ufficio, una persona di potere, anche esecutivo ed arbitrario estendentesi in terra e cielo perché unico derivante da Dio (contrariamente a quello di re e magistrati), che per il ruolo che occupava poteva dettare norme di comportamento alle comunità cristiane. Al vescovo competeva anche l’amministrazione della giustizia che i fedeli richiedevano a lui non volendola affidare a giudici idolatri. A proposito di questo potere pervasivo del pastore sul gregge e dell’obbedienza a lui dovuta vi è il duro giudizio di Gibbon: I governanti ecclesiastici dei cristiani sapevano unire la saggezza del serpente all’innocenza della colomba; ma come la prima si andò raffinando, la seconda si andò man mano corrompendo per l’abitudine del governo.

          Sul come nasce ed evolve la funzione di Papa riporto un brano di Deschner [2]:

L’evoluzione linguistica del titolo papale segue di pari passo quella della Chiesa e mostra altresì come il Vescovo romano divenne una specie di sovrano assoluto da primus inter pares qual era. Il termine Papa (papa = padre)(2), titolo onorifico di tutti i Vescovi a partire dal III secolo, restò in uso sino alla fine del primo millennio. Per distinguere il «Papa» dagli altri «Papi» fin dal V secolo si usò solitamente l’espressione «Papa della città di Roma» oppure «Papa della Città Eterna» o ancora «Papa romano». Poi però si cominciò ad attribuire al «luogotenente di Pietro» – locuzione coniata soltanto nel V secolo – il predicato di Papa senz’altri attributi, che le stesse autorità ecclesiastiche romane, per altro, usarono piuttosto raramente fino al VII secolo. Cominciarono ad autodefinirsi regolarmente così solo dalla fine dell’VIII secolo, e con l’inizio del secondo millennio il termine «Papa» diventò prerogativa esclusiva del Vescovo di Roma: Gregorio VII nel suo Dictatus Papae sostenne con parole altisonanti che il titolo di Papa era unico e che perciò doveva essere esclusivo del Pontefice romano. In realtà esso fu caratteristico dei vescovi per parecchi secoli e il Patriarca di Alessandria ancor oggi si fregia del titolo ufficiale di «Papa».
 La Chiesa Cattolica utilizza la finzione della tradizione apostolica e del primato petrino per poter legittimare la politica imperialistica dei Papi ignorando però che la parola d’ordine di Gesù non fu «dominare», bensì «servire», e che tale concetto caratterizzò tutta la sua predicazione la quale, d’altra parte, è in contrasto stridente con l’intera prassi del Papato. Ma i Papi non si limitarono a giustificare le pretese di primato servendosi del passo spurio di Mt. (16, 18), ma agitarono anche (ci limiteremo qui ad alcuni cenni) tutta una messe sterminata di documenti falsi, come le Decretali pseudocirilliche e pseudoisidoriane, di centinaia di epistole papali fasulle, di decreti conciliari e del Constitutum Silvestri: solo questo libercolo – scrive J. G. Herder – fu per il Papa più utile di dieci diplomi imperiali. Costituisce una delle pagine più oscure della Chiesa cattolica romana il fatto che i Papi non rinunciarono all’accrescimento del loro potere nemmeno quando era diventato chiaro a tutto il mondo – compreso quello cattolico – ch’esso era dovuto in misura non secondaria anche a queste falsificazioni.

          Per ciò che riguarda la degenerazione della carica di Papa, riporto un brano di J.G. Strossmayer, vescovo cattolico di Diakovar in Croazia, tratto dal suo discorso tenuto al Concilio Vaticano I del 1870:

«Quella (di voler comandare su tutte le chiese, ndr) era una tendenza del patriarca di Roma il quale, fin dai primi tempi, per la “preminente principalità” della capitale dell’Impero, cercò di arrogarsi tutta l’autorità… Ammetto senza difficoltà che il patriarca di Roma occupò il posto d’onore. Una delle leggi di Giustiniano dice: “Decretiamo, dopo la definizione dei quattro concili, che il santo papa dell’antica Roma sarà il primo dei vescovi, e che l’altissimo arcivescovo di Costantinopoli, che è la nuova Roma, sarà il secondo”… «L’importanza del vescovo di Roma deriva non da un potere divino, ma dalla nobiltà della città stessa. Ho detto che fin dai primissimi secoli il patriarca di Roma aspirò al governo universale della chiesa. Sfortunatamente, vi riuscì ben presto, ma non raggiunse completamente il suo intento, poiché l’imperatore Teodosio II promulgò una legge con la quale stabilì che il patriarca di Costantinopoli doveva avere la stessa autorità del patriarca di Roma. I padri del Concilio di Calcedonia (451) posero i vescovi della nuova e dell’antica Roma sullo stesso piano per ogni cosa anche ecclesiastica (canone 28). Il VI Concilio di Cartagine (401) proibì a tutti i vescovi di assumere il titolo di principe o di vescovo sovrano, come per il titolo, che noi diamo di vescovo universale. S. Gregorio I, sicuro che i suoi successori non avrebbero mai pensato di adornarsene, scrisse queste memorande parole: “Nessuno dei miei predecessori ha voluto prendere questo nome profano perché, quando un patriarca prende il titolo di universale, ne soffre il titolo di patriarca. Lungi dai cristiani il desiderio di darsi un titolo che apporti discredito sui loro fratelli».

          Vi è ancora da aggiungere che mentre nelle antiche comunità non vi era particolare distinzione tra Clero e Laici, queste iniziarono nel III secolo. I Laici persero ogni potere nella comunità. Furono esclusi dalle elezioni ed il Clero creò una grande frattura con gli ordinari fedeli attraverso l’amministrazione dei Sacramenti. Naturalmente si andava via via perdendo il senso dell’insegnamento di Gesù che mai distinse tra i suoi seguaci e non poteva farlo perché il Clero era totalmente al di fuori di ogni pensiero di Cristo. La separazione creò una sempre maggiore gerarchizzazione nel Clero in parte per necessità reali ed in gran parte per bramosie di potere. Anche il modo con cui si chiamavano tra loro i Chierici è indicativo di una tendenza. Nel III secolo i Chierici si chiamavano tra loro signore mentre si rivolgevano al Vescovo con santo padre e si rivolgevano ai Laici con fratello.  Si iniziarono a schernire i poveri abiti dei sacerdoti di qualche dio pagano, si iniziò a pretendere l’alzarsi in piedi davanti al Vescovo, si reclamarono onori di curriculum costruiti ad hoc e così il Vescovo divenne immagine di Dio onnipotente, re, signore della vita e della morte, … per lui si richiese un trono su cui sedersi con i sacerdoti che facevano corona, come si  immaginava Dio in cielo. Nel IV secolo i Vescovi iniziarono a chiamarsi tra loro Tua Santità, Tua Beatitudine, … fino ad arrivare al Sinodo di Serdica del 343 in cui la cesura con le antiche comunità cristiane diventa clamorosa. La scelta del Vescovo si iniziò a fare in base al censo, più patrimonio uno aveva, più la famiglia di provenienza era potente, maggiore era la possibilità  di accedere all’alta carica (fu ciò che accadde ad esempio ad Ambrogio a Milano che fu fatto vescovo a soli 8 giorni dopo essere stato battezzato per essere il discendente di una importante famiglia di Roma, gli Aureli). Col passare degli anni, siamo nell’VIII secolo, le carriere diventano molto più rapide, se si dispone di soldi e di potere. Accadde a Costantino II, fratello di Totone duca di Nepi, che, da laico, in soli 6 giorni fece l’intera carriera fino a diventare Papa per 13 mesi. Ma il campione assoluto è Leone VIII (963-964) che fece tutto ciò che fece Costantino II in un solo giorno. E sempre in questo IV secolo i Vescovi non si accontentarono più dell’alzata in piedi, pretesero il baciamano e gli inchini. Più oltre il Vescovo sfilava con i portatori di Fasci e nel VII secolo al passaggio del Vescovo venivano fatte incensazioni. Tutto come per le alte autorità del vecchio Impero. Questo sistema di potere, sempre più corrotto iniziò a partire da Costantino il Grande e da Papa Silvestro I.

          Ed a poco più di 50 anni dal suo riconoscimento a Nicea, come si presentava il Cristianesimo a Roma ? Lo racconta Gregorovius (Vol. I, p. 111):

A Roma, nel complesso, prevaleva ormai l’elemento religioso; ma non si creda che esso avesse serbato la sua originaria purezza; qui anzi il cristianesimo era stato più rapidamente corrotto poiché il terreno su cui era caduto il nuovo insegnamento era, meno di qualunque altro, adatto a raccoglierlo. […]
[E lo storico Ammiano Marcellino (circa 330-391)], che pure non era ostile ai cristiani, aveva già riprovato il lusso e l’ambizione dei vescovi romani in un passo riguardante la cruenta lotta tra (i Papi, ndr) Damaso e Ursino per il seggio vescovile di Roma. «Se considero lo sfarzo delle cose cittadine, riconosco che quegli uomini, per desiderio di raggiungere il loro scopo, devono essersi combattuti l’un l’altro con violenza partigiana; infatti se avessero ottenuto il loro scopo, sarebbero stati sicuri di arricchirsi coi regali delle matrone, di viaggiare in carrozza, di vestirsi con sfarzo e di tenere banchetti più sontuosi di quelli dei principi. E invece essi potrebbero essere detti beati se disprezzassero il lusso cittadino, con cui mascherano i loro vizi, e se imitassero i modi di vita di certi preti di campagna. Poiché per la moderazione nel cibo e nel bere, per la modestia degli abiti e per l’umiltà dello sguardo essi sono onorati dai veri credenti del Dio eterno come uomini puri e venerandi».

        Ed Ammiano scriveva queste cose quando ancora non erano operanti i decreti di Teodosio, quando cioè la Chiesa aveva altre religioni con cui confrontarsi. Quando il Cristianesimo divenne unica religione, gli eccessi, gli abusi, le vergogne divennero metodo e consuetudine.

        Ci sono poi i racconti di San Gregorio, segretario di Papa Damaso, che parlano di vizi di ogni genere attecchiti nelle numerose categorie di preti e dell’olimpico scavalcamento della regola monastica della castità sostituita da una vergognosa lascivia di ambedue i sessi. Preti che si accoppiavano con minorenni dimoranti nelle loro case con l’invenzione dell’agapete, le vergini che si mettevano al servizio di questi satiri gaudenti per spirito di carità. Ed i potenti aristocratici convertiti, che si facevano accompagnare a messa in lettiga preceduti e seguiti da stuoli di schiavi ed eunuchi, distribuendo elemosine per poter acquisire meriti. Boria, lussuria e crimine erano semplicemente passati dai pagani ai cristiani aumentando in modo spropositato perché ora non vi era più una qualche opposizione (senato, letterati, filosofi, …), il battesimo era una misera ed inutile cerimonia che serviva anche a mostrare sfarzo. Ogni azione buona doveva essere fatta con un rullar di tamburi prima, durante e dopo. E questa boria di potenti, sempre uguali, sempre penitenti a parole, si era estesa facilmente nelle gerarchie ecclesiastiche di modo ché la povera gente non riuscì mai a capire quali erano gli insegnamenti di Gesù.

          Si può quindi ben capire che, dopo i decreti di Costantino e, soprattutto, Teodosio che riconoscevano il Cristianesimo dapprima come religione dell’Impero e successivamente come unica religione, si era costruito un enorme potere politico e, come visto, economico intorno alla Chiesa, potere che divenne immenso alla caduta dell’Impero Romano (476). La Chiesa romana trasformò lentamente in papato l’organizzazione imperiale in cui essa stessa si era costituita come formazione gerarchica. L’apparato statale si tradusse in un sistema ecclesiastico il cui fulcro era il Papa (Gregorovius).

        Mano a mano che la Chiesa aumentava la sua influenza ed i suoi privilegi, la nobiltà si interessò ad essa ed iniziò ad intravedere la carriera ecclesiastica come una uscita vantaggiosa. Tanto più per chi disponeva del prestigio di una famiglia importante e del denaro della medesima, la carriera era un modo di dire perché in realtà le strade erano apertissime in tempi brevissimi. Il primo Papa candidato dai nobili fu Siricio (384-399), sul finire del IV secolo. E con Siricio la Chiesa iniziò a fare leggi (il Decretale del 385) nella stessa forma in cui erano fatte nell’Impero. Dopo Siricio furono direttamente le famiglie nobili a eleggere propri rampolli. Intanto nel V secolo Papa Leone I, detto Magno (440-461), alzò la soglia per essere ammessi alle cariche ecclesiastiche. Nel 443 criticò aspramente l’ammissione di chierici senza raccomandazioni:

una discendenza adeguata, gente che non avrebbe ottenuto la libertà dai suoi padroni, viene innalzata all’alto rango sacerdotale, quasi che la volgarità di un servo fosse degna di tale onore. Si nutre l’opinione che possa piacere a Dio chi non è stato capace di piacere al suo signore e padrone [Leo, ep., 4]

        Si compiva così uno degli insegnamenti di Gesù: e gli ultimi saranno i primi. Ed iniziato l’andazzo con questo Papa, naturalmente Santo, esso continuò subito con Papa Gelasio I (492-496) che vietò agli schiavi ed addirittura ai dipendenti di diventare chierici. Deschner [2] cita le parole di uno studioso di fine Ottocento, Otto Seeck, come rappresentative di cosa era accaduto nella Chiesa:

«Finché fu limitata al popolino, [la Chiesa] fu democratica e socialisteggiante; a mano a mano che penetrò nei ceti superiori le sue forme istituzionali si trasformarono completamente, riproducendo l’organizzazione statuale del tempo, vale a dire un dispotismo sfrenato, con tutta la sua gerarchia burocratizzata. Questa trasformazione si attuò gradualmente, senza salti improvvisi, tanto da essere impercettibile da parte dei contemporanei. Ciò che si era imposto per motivazioni di ordine pratico, diventò prima usanza ecclesiastica, poi legge spirituale, e ben presto nessuno ricordò più che una volta le cose andavano diversamente. Era quindi assolutamente interno alla mentalità del cristiano nutrire il convincimento che Cristo e i suoi Apostoli avevano fondato la loro Chiesa esattamente come ciascuno la vedeva nel proprio tempo; infatti, nessun mutamento venne introdotto con uno scopo ben preciso, ma tutte le modifiche si erano costituite da sole sotto la spinta delle circostanze. Così anche le forme della costituzione ecclesiastica poterono diventare verità di fede intoccabili ed eterne come l’insegnamento di Cristo. Nessuno sapeva che ciò era in contraddizione con la realtà storica, e se per caso qualcuno lo sospettava, allora si provvedeva mediante falsificazioni innocenti, spesso senza una precisa coscienza dei fatti».

        E questo accadeva mentre andava avanti una continua imitazione in tutto ciò che era stato costume dell’Impero e della corte imperiale, compreso il titolo di Pontifex Maximus per il vescovo di Roma (che beffardamente ci ritroviamo ancora oggi) ed i paramenti dei sacerdoti pagani compresa la Stola. Forse con una differenza: mentre il lusso nell’Impero era giustificato dalle ricchezze che affluivano a Roma da molte parti di un Impero, generalmente florido, dal III secolo la miseria e la fame erano diventate dominanti. Durante i primi tempi in cui vi fu convivenza con l’Impero cadente, la Chiesa ebbe vari scontri con i regnanti ma MAI su questioni di fede, solo su questioni di potere.

          Intanto il suo potere cresceva a dismisura anche per la continua affluenza di denaro e di patrimoni. Ancora Gregorovius scrive (Vol. I, p. 132):

 Alla Chiesa affluivano ricchezze di ogni genere offertele da mani liberali e consistenti specialmente in possedimenti fondiari, chiamati patrimonio. I tesori dei templi pagani, ormai secolarizzati, passarono in gran parte nelle sue mani e costituirono la base della sua potenza terrena, che fu poi accresciuta dalla devozione dei ricchi, ma soprattutto di ricche romane e da vari acquisti fatti dalla Chiesa stessa. Persino lo stato, nei duri tempi di Costantino, riconobbe il clero come casta privilegiata e lo esonerò dalle tasse, mentre inseriva nei ranghi delle gerarchie imperiali quei preti cui era affidata l’amministrazione ecclesiastica delle diocesi e delle province. Con romana coerenza, tuttavia, lo sforzo maggiore dei successori di Pietro era volto a conquistare il primato apostolico per la cattedra vescovile del Laterano, e ad assicurare alla loro Chiesa la preminenza su tutte le altre Chiese della cristianità. Fu perciò molto vantaggioso per questi preti che la loro fosse ritenuta in Occidente l’unica Chiesa apostolica, cosa che le valse ben presto il riconoscimento di tale primato. Il vescovo di Roma, che era il più grande proprietario terriero dell’impero, sebbene i suoi poteri si limitassero all’amministrazione ecclesiastica e quindi egli fosse privo di un riconosciuto potere politico, nel V secolo cominciava già ad esercitare sulla città un forte influsso, che non era di natura esclusivamente spirituale e morale, ma anche civile a pratico per le innumerevoli relazioni che la Chiesa intratteneva con i vari settori della vita cittadina. La lontananza dell’imperatore accresceva la venerazione per gli alti prelati romani, che la fede rendeva sacri nella persona e che la situazione sempre più grave faceva apparire come unici protettori e come padri stessi della città.

LOTTE DI PAPI E VIOLENZE SULLE DONNE

          L’immenso potere che derivava dal diventare Papa, come già accennato, scatenò lotte violente tra famiglie e potentati. Abbiamo le prime notizie di scontri violenti in armi per l’elezione dei Papi Damaso e Ursino. Papa Damaso (366-384) è il primo Papa che viene eletto in mezzo a lotte furibonde tra i seguaci di due candidati, lo stesso Damaso e Ursino (argomento del contendere era l’essere o meno concilianti con gli eretici pentiti e con i seguaci dell’antipapa Felice II, fatto eleggere dall’Imperatore Costanzo che aveva fatto arrestare il Papa Liberio per controversie politiche legate anche all’arianesimo). I due vennero eletti simultaneamente vescovi di Roma in due Basiliche romane: in Santa Maria in Trastevere venne eletto Papa Ursino che: era contrario alla mitezza che era stata mantenuta da Liberio con eretici e seguaci di Felice; rimproverava a Damaso di essere stato un sostenitore di Felice e … di avere il sostegno delle nobildonne romane; in San Lorenzo in Lucina veniva eletto Papa Damaso, un patrizio spagnolo. La maggioranza degli elettori era con Damaso ma Ursino resistette. Per tre giorni vi furono scontri violenti con molti morti, finché non vinse il partito di Damaso. Iniziavano, per la prima volta con tutta evidenza, le brame di potere per esaudire le quali ogni mezzo diventò lecito. Scrive in proposito Rendina [1], citando tra l’altro lo storico pagano Ammiano Marcellino:

«L’ardore di Damaso e Ursino per occupare la sede episcopale», racconta Ammiano Marcellino, «superava qualsiasi ambizione umana. Finirono per affrontarsi come due partiti politici, arrivando ad uno scontro armato con feriti e morti; il prefetto, incapace di impedire o soffocare il tumulto, dovette tenersi fuori dalla mischia. Damaso ebbe la meglio: la vittoria, dopo molti assalti, arrise al suo partito; nella basilica di Sicinnio, dove i cristiani erano riuniti, furono trovati 137 morti, e passò molto tempo prima che gli animi si calmassero. Non c’è comunque da meravigliarsi, considerando lo splendore di Roma, che un premio così ambito accendesse il desiderio di uomini maliziosi e determinasse le lotte più feroci e ostinate. Una volta raggiunto quel posto, si gode in santa pace della fortuna assicurata dalle donazioni delle matrone, si va in giro su un cocchio vestiti elegantemente, si partecipa a banchetti il cui lusso supera quello della tavola imperiale». Del resto questo malcostume ecclesiastico non è denunciato soltanto da uno scrittore pagano come Ammiano Marcellino, portato evidentemente a calcare la mano su certi avvenimenti; San Girolamo, sempre nei confronti di Damaso, di cui era segretario, ricorda che da vescovo aveva tentato di convertire il prefetto di Roma, Pretestato, e si sentì rispondere con una frase che rifletteva una certa mentalità diventata evidentemente un luogo comune: «Senz’altro, però voglio essere eletto vescovo di Roma!». E San Girolamo ancora è fonte di altri particolari che documentano la vasta degenerazione dei costumi ecclesiastici. «Ci sono alcuni che si fanno consacrare diaconi e preti solo per poter fare visita liberamente alle donne», denuncia in un suo scritto. «Pensano solo a vestirsi bene e profumarsi di mille odori. I calzari devono essere perfetti. Si arricciano i capelli col calamistri; le dita sono sfolgoranti di anelli e per timore di sporcarsi le scarpe di fango li vedi camminare come in punta di piedi. A guardarli andare in giro in questo modo li prendi più per vagheggini che per chierici. L’operosità e la scienza di molti consiste esclusivamente nel conoscere nomi, case e tenore di vita delle matrone».

Ed ecco che, oltre ai lussi sfrenati di Papi e gerarchi, inizia a comparire una qualche informazione sull’interesse di costoro per le donne, le belle donne, le matrone di Roma. Se incrociamo questa informazione con quanto predicavano questi primi Papi presi da libidine a proposito di matrimonio del clero, dei rapporti sessuali in famiglia, iniziamo a scoprire l’infinita ipocrisia degli uomini di Chiesa, il loro razzolare e sempre nel fango mentre predicano l’astinenza. E’ Uta Ranke-Heinemann che ci ricorda le esaltanti prediche di questi indegni personaggi:

Furono soprattutto i padri della chiesa a impegnarsi a favore del celibato. Il padre della chiesa Cirillo di Gerusalemme (morto nel 386) pensa che «un buon prete si astiene dalla moglie» (Catecheses 12, 25) e Girolamo scrive contro i vescovi che tollerano «le mogli dei chierici incinte e i bambini che gridano tra le braccia delle madri», nello scritto contro Vigilanzio: «Alla fine non ci distinguiamo più in nulla dai porci» (cap. 2). Dei preti che continuano «ad avere figli», Ambrogio afferma che: «Pregano per gli altri con lo spirito e il corpo impuri» (De officiis ministrorum II, 249). Nel Nordafrica, Agostino diede forma all’idea celibataria. Quando nel 395 divenne vescovo di Ippona, fece costruire subito un monastero e vi fece vivere tutti gli ecclesiastici della città, e ogni prete che veniva ordinato doveva impegnarsi ad abitarci sotto la sua guida [Agostino, vecchio satiro libertino e impenitente fornicatore, sa bene di cosa parla, ndr].

Fu decisivo il fatto che i papi si interessassero della questione. In primo luogo si deve qui nominare Siricio …. Nella sua lettera al vescovo Irnerio di Tarragona dell’anno 385, definisce la condotta dei sacerdoti che hanno rapporti sessuali con le proprie mogli una «vergogna per la veneranda religione» e un «delitto». Questi preti sono per lui «maestri di peccato», e sono tali perché sono «in balìa dei piaceri». In una lettera ai vescovi dell’Africa del 386 parla di «infamia», di «ignominia per il desiderio carnale» e riferisce a tali preti le parole della lettera di Tito: «Per i contaminati e gli infedeli nulla è puro» (Tt. 1,15). Del resto o papa Siricio o il suo predecessore, papa Damaso (l’attribuzione non è così certa), in una lettera ai vescovi delle Gallie che ingiunge ai preti di astenersi dalle loro mogli, li ammonisce con l’esempio di Adamo, che per la violazione del comandamento della castità era stato «cacciato dal paradiso». Papa Damaso, o papa Siricio, era chiaramente sostenitore di una particolare versione dell’idea, di lì a poco superata da Agostino, di un paradiso senza rapporti sessuali. Papa Leone I, detto Magno (morto nel 461), fu il papa che per primo dichiarò l’obbligo di astensione dal matrimonio anche per i suddiaconi. In una lettera ai vescovo Atanasio di Tessalonica dell’anno 446 scrive: «Mentre a chi non appartiene all’ordine clericale è consentito sposarsi e avere figli, per realizzare alla perfezione la più completa castità, non sarà concessa nemmeno ai suddiaconi il matrimonio con rapporti sessuali, così che anche quelli che hanno moglie devono comportarsi coree se non l’avessero» (Epistulae 14, 4).

E così via fino a Pio XI che (1936) non ha vergogna a sostenere la tesi dell’astinenza celibataria citando Cicerone (ci si deve presentare casti agli dei), mettendo quindi sullo stesso piano la purezza come intesa dai romani ed il celibato.

          Ma ormai le lotte per il papato erano all’ordine del giorno e solo per caso qualche Papa che si sospettava vicino alla morte (in caso contrario si ammazzava) era eletto normalmente.  Altri tumulti tra fazioni si ebbero per l’elezione di Papa Bonifacio I (418-422), con molti elettori che elessero Papa l’arcidiacono Eulalio. Ci volle un Concilio che non riuscì a decidere ciò che invece fece l’Imperatore Onorio che si schierò in favore di Bonifacio. Ma intanto si era avuto Papa Innocenzo I (401-417) che era figlio del suo predecessore, l’inutile Papa Anastasio I (399-401). Ed anche qui ci troviamo di fronte allo scandalo di Papi figli di Papi, a proposito di quel che si diceva sulla castità come imperativo (per gli altri). Ma Innocenzo è ricordato perché sotto il suo pontificato vi fu il Sacco di Roma ed il dilagare dei barbari di Alarico per tutta l’Italia: i visigoti invadono e saccheggiano Roma. La popolazione della città passa da 750.000 a 300.000 abitanti, la Chiesa eredita edifici e terreni, costruisce i propri templi sulle rovine di quelli pagani e Roma diventa “la città del papa”.  Ed il pio Papa Innocenzo, fedele all’insegnamento di Gesù, chiese ai nobili romani di fare sacrifici per accattivarsi il favore del Signore mentre si rivolgeva al prefetto della città, Pompeiano, affinché consultasse gli aruspici che avrebbero dovuto leggere ed interpretare le viscere Ma la Chiesa ha un cuore grande e non si scoraggiò perché intravide in queste popolazioni, soprattutto germaniche che continuarono ad invadere e saccheggiare l’Italia, nuove possibilità di estensione ed arricchimento.

          Arriviamo così ad un Papa, Sisto III (432-440) anch’egli fatto santo come tutti i peggiori delinquenti tra Pontefici, che si dilettava a violentare le donne. Il Santo Padre fu accusato di aver violentato una giovane religiosa, Chrysogonie, e aver avuto rapporti incestuosi. Le accuse gli vennero rivolte da un prete, Bassus, in un processo che fece scalpore. Sisto fu assolto e Bassus finì in prigione dove morì avvelenato. Così è la vita colà dove si puote. Non posso però non parlare del predecessore di Sisto III, Celestino I (422-432), un vero e stupido fantoccio in mano al crudele e spietato assassino, vescovo di Alessandria, Cirillo, peraltro nipote dell’altro delinquente che lo precedette in quell’incarico, Teofilo. Nulla ebbe da dire l’indegno Papa contro il suo amichetto criminale. Nel marzo del 415, durante il tumulto di Alessandria, Cirillo acconsentì, o meglio fomentò l’esecuzione di Ipazia, al tempo filosofa pagana molto nota e stimata. Figlia di Teone, matematico e filosofo, ultimo rettore a noi noto del Museion, l’accademia alessandrina, Ipazia fu maestra del padre della chiesa e vescovo Sinesio di Cirene, che in una lettera la definisce “madre, sorella e maestra” e “filosofa amata da Dio”, e che era seguita anche da molti uditori cristiani. Cirillo covò rancore contro Oreste, il praelectus augustalis (che tra l’altro aveva cercato di impedire la deportazione degli ebrei chiedendo l’intervento di Teodosio II, ndr), anche perché questi trovava gradita la compagnia della filosofa. Il patriarca diffuse notizie false su di lei e riuscì, con l’aiuto di prediche che la diffamavano come maga, ad aizzarle contro il popolo. Presa a tradimento dai monaci fedeli a Cirillo e guidati dal chierico Pietro, Ipazia fu trascinata nella chiesa di Kaisarion, dove fu spogliata e letteralmente fatta a pezzi con schegge di vetro; infine, la salma dilaniata fu pubblicamente bruciata, “la prima caccia alle streghe della storia” (Deschner 2).

Ma prima del linciaggio di Ipazia, crimine infinito, Cirillo aggredì violentemente Oreste portando in città 500 monaci straccioni, una vera squadraccia, che lo attaccarono per strada, con un tal Ammonio che colpì il governatore alla testa con una pietra. Oreste si salvò anche se la scorta fuggì. Successivamente fece catturare Ammonio ed ucciderlo pubblicamente, provocando l’ira del sodale Cirillo che scrisse a Teodosio II falsificando i fatti. Teodosio, influenzato dalla sua potente sorella Pulcheria amica e confidente del criminale Cirillo, dette credito ad Oreste e Cirillo fece dimenticare l’episodio che avrebbe dovuto dargli la morte. Questo criminale di Cirillo fu santificato con il massimo titolo di Dottore dalla Chiesa e la cosa potrebbe non sorprendere se storicizzata e fissata in quegli anni. Il fatto è che la santificazione avvenne nel 1882 (Papa Leone XIII) e che anche Papa Benedetto XVI ha recentemente fatto l’esegesi di San Cirillo indicandolo come esempio da seguire.

          Eravamo arrivati alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente a cui seguì un lungo periodo di incertezza di imperatori imbelli imposti da Costantinopoli e di dominatori-razziatori. “Liberatosi dall’Imperatore d’Occidente, il papato cominciò la sua ascesa e la Chiesa di Roma crebbe potentemente sulle rovine, sostituendosi all’impero. Alla caduta di quest’ultimo, essa era già un organismo solido e imponente che la tragica sorte del mondo antico non poté neppure sfiorare; anzi, colmando subito la lacuna creata da quella scomparsa, la Chiesa gettò il ponte che avrebbe unito l’antichità al mondo nuovo. Riconoscendo il diritto di cittadinanza a quei tenaci Germani che avevano distrutto l’impero, la Chiesa romana si procurò gli elementi vitali che le permisero di ergersi a dominatrice finché, attraverso un lungo e memorabile processo, l’impero occidentale poté risorgere come impero romano-germanico”  (Gregorovius).

          E più il papato si imponeva, più diventava appetibile.  Dopo una breve parentesi del vescovo di Roma Anastasio II (496-498) che tentò di conciliarsi con la Chiesa d’Oriente, vi fu di nuovo una elezione con tumulti e scontri violenti in tutta la città. Risultò eletto Vescovo di Roma Simmaco (498-514) dopo che i Papi eletti furono due, uno per ogni fazione in lotta. Una fazione, che non voleva essere conciliante con la Chiesa d’Oriente, elesse Simmaco mentre l’altra, che voleva superare lo scisma, elesse Lorenzo. Come risolvere il problema di due Papi eletti nello stesso giorno in due basiliche diverse ? Ci si rivolge a Teodorico in Ravenna. E Teodorico dice che il primo eletto è quello che ha diritto, conta poi anche il numero di coloro che hanno votato o per l’uno o per l’altro. Simmaco è allora l’eletto ma con il grave sospetto di aver corrotto l’intera corte di Teodorico. L’eletto convoca (499) un Concilio a cui partecipano 72 vescovi italiani. Il Concilio è aperto dalle parole di Simmaco che, spudoratamente, dice: “Vi ho chiamati per cercare un modo di sopprimere i maneggi dei vescovi, gli scandali ed i tumulti popolari, come quelli provocati durante la mia elezione“. Alla fine del concilietto si decise di non fare più campagna per un Papa o un altro quando ancora è in vita il predecessore ed a sua insaputa. Sarà eletto il Papa che avrà i voti di tutto il clero o almeno la maggioranza dei voti. Sarà il Papa regnante che designerà il successore. In queste poche parole vi sono due cambiamenti radicali ed una vergogna rispetto al passato: da una parte vengono esclusi i laici dall’elezione del capo della comunità dei cristiani e dall’altro sparisce l’unanimità dei voti del clero che era stata voluta in precedenza. La vergogna è quell’indicare il successore. Comunque queste norme rimasero lettera morta perché i laici entrarono ancora nelle elezioni dei Papi e la nomina del successore resterà un pio desiderio. Simmaco ed il clero in bell’ordine accolsero come un grande della storia, un novello Traiano, Teodorico che nel 500 visitò la città. Teodorico ricambiò on doni alla Chiesa, con restauri di chiese e monumenti. Sembrava che tutto andasse verso un’epoca di pace e benessere ma Simmaco fu denunciato a Teodorico ufficialmente per una questione di culto (aver celebrato la Pasqua in un giorno sbagliato) in realtà ed in segreto per avere rapporti immorali con varie donne ed aver sperperato i beni della Chiesa. Simmaco fu abbandonato dai suoi sostenitori e dovette rifugiarsi in San Pietro per evitare guai anche fisici. Intervenne Teodorico per processare chi sembrava colpevole, per sequestrare i beni della Chiesa e per richiamare Lorenzo, l’altro Papa, a Roma. A seguito di ciò iniziarono violenti scontri in tutta la città, una vera guerra tra le due fazioni ancora in piedi, che durò ben 4 anni, fin quando si arrivò a sistemare il tutto con Simmaco che tornò Papa operante. Per farsi perdonare e per seguire sulla strada scellerata dei suoi predecessori, a fronte della miseria e fame dilaganti, spese soldi per costruire nuove chiese e rendere fastosi gli edifici del clero.

          Da questo punto parlare di Papi in senso religioso diventa addirittura ridicolo. Seguirà una cronaca criminale in cui la simonia e la corruzione, unite alla vendita di cariche ecclesiastiche ed ai mai cessati nepotismo, crimine e lussuria, iniziò ad essere preponderante per l’elezione di un Papa.

           Una sorta di ristabilimento momentaneo di moralità si ebbe solo con Gregorio I, detto Magno (540-604) della famiglia Anicia, e con i suoi successori. Ma Gregorio, l’inventore del Purgatorio, nel suo affanno di purificazione fece bruciare tutti i libri “pagani” includendo l’intera Biblioteca palatina. E, come tutti i Papi, fece molto di più perché ormai essere Papi significava essere padroni che possono disporre dei sudditi e degli schiavi. Ed infatti Gregorio aveva molti schiavi, in gran parte sardi, e chiedeva al rappresentante imperiale nell’isola che vigilasse perché gli fosse inviata la merce migliore. Schiavi cristiani oltre a quelli pagani ma guai se gli ebrei avessero avuto un solo schiavo cristiano, perché i malvagi avevano ammazzato Gesù ! Così scriveva nel 599 il “santo padre” a Gianuario, vescovo di Cagliari, su alcuni pagani presenti nell’isola: i pagani ed idolatri devono essere convertiti mediante un convincente ammonimento e se tuttavia Voi notate che non sono disposti a modificare la loro condotta, desideriamo che con grande zelo Voi li arrestiate. Se sono schiavi, domateli con botte e torture al fine di ottenerne il miglioramento; ma se sono liberi, devono essere indotti al pentimento con una dura carcerazione, adeguata alle circostanze, affinché coloro che disdegnano d’ascoltare le parole di redenzione, che li salvano dal pericolo della morte, in tutti i casi possano essere ricondotti alla sana fede augurata per mezzo dei tormenti fisici. Sugli schiavi e su come erano considerati da questo Papa, ritenuto saggio e santo, merita citare cosa dice Deschner [1] che dedica un intero capitolo a questo personaggio abietto.

Sappiamo dallo stesso Gregorio che molti vescovi non si prendevano cura né degli oppressi né dei poveri, specificamente quelli della Campania. Ma lui era davvero un padrone moderato? In occasione della nomina a rettore del defensor Romanus [il rappresentante dell’Impero, una sorta di Prefetto, ndr] così scrisse ai coloni di Siracusa: “Vi ordiniamo dunque di obbedire prontamente alle disposizioni ch’egli riterrà giuste per la salvaguardia degli interessi della Chiesa. Gli abbiamo conferito il potere di punire severamente chiunque oserà disobbedire o ribellarsi. Gli abbiamo inoltre ordinato di ricercare tutti gli schiavi fuggitivi appartenenti alla chiesa e di recuperare con cautela, prontezza e energia tutta la terra da qualcuno occupata illegalmente”. Per la gestione dei suoi beni Gregorio aveva ovviamente bisogno di veri eserciti di schiavi e di coloni obbligati alla terra: “I contadini liberi legati alla chiesa erano rari” (Gontard). Va da sé che il papa non scosse l’istituzione schiavistica: da dove avrebbe dovuto prendere altrimenti il denaro pei poveri l’amministratore del patrimonio dei poveri? Per non parlare del mantenimento dei “posti di lavoro”, già allora la preoccupazione di tutti gli imprenditori. Gregorio ricorda certo – da sempre infatti la sua chiesa rende contemporaneamente giustizia ai ricchi e ai poveri, e questo è forse il suo più straordinario miracolo! – anche ai signori che gli schiavi sono uomini, loro eguali per natura; ma benché siano uguali, assolutamente uguali, le condizioni concrete sono pur sempre del tutto differenti. Ergo, secondo Gregorio era necessario esortare gli schiavi “ad osservare in ogni situazione la bassezza della loro condizione” e che “significa oltraggiare Dio rifiutare i Suoi ordinamenti con un comportamento superbo”. Il santo pontefice insegna che gli schiavi devono “considerarsi servitori dei padroni” e i padroni “conservi fra i servi”. Ben detto!
 Non è una religione utile? “Per natura, insegna Gregorio, gli uomini sono tutti uguali”, ma una “misteriosa disposizione” relega “alcuni più in basso di altri”, crea la “diversità delle classi”, e precisamente “come conseguenza del peccato”. Prima conclusione: “Ora, dal momento che gli uomini non procedono nella vita alla medesima maniera, gli uni devono dominare sugli altri”. Seconda conclusione: Dio e la Chiesa – nella prassi per il clero sempre la stessa cosa – erano per il mantenimento della schiavitù. E dalla Britannia alla Gallia e all’Italia ai suoi tempi c’era un florido commercio cristiano degli schiavi. La chiesa romana aveva bisogno di schiavi, i conventi avevano bisogno di schiavi (Gregorio stesso nel 595 sollecitò il rettore della Gallia Candido all’acquisto di fanciulli inglesi schiavi per i chiostri romani), tutti compravano, usavano e usuravano schiavi come il proprio bestiame. E anche a un nemico quale il re longobardo Agilulfo il papa poté assicurare che il lavoro di tali servi tornava ben utile a entrambe le parti! (Di nuovo un concetto straordinariamente moderno, direi globalizzante). Quando poi questi miserabili fuggivano dalla propria miseria, il che accadeva piuttosto sovente, il santo padre si dava naturalmente molto da fare per renderli ai loro padroni: perseguitò gli schiavi fuggiti da un convento di Roma con lo stesso zelo usato con un cuoco del fratello, che aveva tagliato la corda. Ma poiché il papa era anche magnanimo, non puniva le colpe dei “coloni” privandoli delle loro proprietà, ma facendoli picchiare di santa ragione; e agli amici regalava “normalmente degli schiavi” (Richards). Gregorio, che andava predicando con insistenza l’imminente fine del mondo (insieme alle lotte per la fede, addirittura l’idea guida del suo pontificato), intanto concludeva ottimi affari. San Pietro diventò con lui sempre più ricco: elevò notevolmente i profitti del suo patrimonio, fondando definitivamente il dominio territoriale del papato, tanto gravido di conseguenze; rifornì Roma coi cereali dei suoi latifondi siciliani, pagò il soldo alle truppe imperiali delle partes Romanae, provvide alla difesa della città e in tempi di crisi ne comandò la guarnigione. Il “ministro con portafoglio dell’imperatore”, ”l’amministratore della cassa dei poveri”, come si definì egli stesso, il “console di Dio”, come lo decanta l’iscrizione funebre, diede in questo modo la spinta propulsiva alla formazione dello stato della chiesa, con conseguenze pressoché impensabili di faide, guerra e inganni.

E tutto questo, come ogni lettore può facilmente capire, per maggior gloria di Gesù e del messaggio evangelico. 

          Da quest’epoca fino alla metà dell’ VIII secolo, si alternarono molti Papi, alcuni dei quali per un tempo brevissimo ed altri per l’inutilità della loro presenza. Solo pochi ebbero ruoli di rilievo per l’invenzione di miracoli e per la risoluzione di problemi con l’Oriente e con i barbari occupanti. Mentre Costantinopoli premeva sempre di più sulla Chiesa di Roma per toglierle il primato ed anche il potere temporale, la Chiesa non restava inerte e cercava di crearsi spazi di manovra ad Occidente, particolarmente verso il regno dei Franchi. La dinastia Merovingia era praticamente finita con l’ultimo discendente pensante di Clodoveo, Dagoberto II assassinato nel 679. Altri discendenti, quando non erano fanciulli, risultarono totalmente inetti e tarati mentali. Il trono finalmente passò, sotto forma di gerenza e con il sostegno della Chiesa francese, ad un rappresentante della famiglia Heristal, Pipino, un factotum di Palazzo facente parte di quella categoria di funzionari che assunsero sempre più un ruolo decisivo a fronte di un monarchia morente. Alla morte di Pipino gli successe il figlio Pipino II ed a questo Carlo Martello che impose la sua personalità e la sua competenza militare con una impresa rilevante, l’aver bloccato l’avanzata arabo musulmana, che già aveva conquistato con facilità l’Africa del Nord e l’intera penisola iberica dei cattolici Visigoti, a Poitiers (Pirenei) nel 714. La minaccia musulmana era la più grande che la Chiesa avesse mai avuto dai tempi di Costantino. La Chiesa, circondata da musulmani e Longobardi e con problemi continui con l’Impero d’Oriente, aveva bisogno di un esercito che operasse in suo nome a sua difesa ed a tale fine l’esercito dei Franchi sembrava essere quello con le caratteristiche richieste: il più forte sul campo e guidato da un Re condottiero cattolico ortodosso.

          A questo punto compare un documento clamoroso, il Constitutum Constantini più noto come la Donazione di Costantino. Questo documento, suddiviso in due parti, vede nella sua prima parte il racconto della guarigione dell’Imperatore Costantino dalla lebbra grazie a Papa Silvestro I, la sua conversione e la sua professione di fede. Vi è ribadita l’autorità trasmessa, mediante la simbolica consegna delle chiavi, da Dio a Pietro e da questi ai suoi successori «eleggendo il principe degli apostoli e i suoi vicari a nostri protettori presso Dio».  La seconda parte contiene invece l’atto di donazione che Costantino fa alla Chiesa dell’Impero romano d’Occidente. Il documento, come fu dimostrato da Lorenzo Valla (1406-1457) nel 1440, è un falso clamoroso realizzato tra il 714 ed il 750 (Carlo Martello era allora morto da circa 10 anni e esercitava il potere suo figlio Pipino III, detto il Breve). Questo falso documento fu presentato per la prima volta nel 754 da Papa Stefano II (768-772), a Pipino il Breve per chiedergli aiuto contro Astolfo, Re dei Longobardi, che era deciso alla conquista dell’intera Italia avendo iniziato a marciare su Roma (fu fermato per una tregua dietro il solito pagamento di tributi). E Pipino in cambio di titoli ecclesiastici (e con il figlio Carlomagno che divenne Capo del Sacro Romano Impero), promise a Stefano II, per mezzo del suo legato Fulrado, abate di Saint-Denis, le province dell’Esarcato e della Pentapoli, quando fossero state sottratte ad Astolfo. Quelle terre gli spettavano di diritto secondo la donazione di Costantino. Altro falsario di prim’ordine fu Leone IV (847-855) che, tra l’847 e l’852, mise insieme una gigantesca sequela di falsi documenti, le Decretali pseudoisidoriane, con il fine di accreditare sempre maggior potere alla Chiesa. Il lavoro era attribuito ad un  dottore della Chiesa, Isidoro di Siviglia, e fatto quindi risalire ai primi anni del VII secolo con la copertura di un nome prestigioso. Era la messa insieme di vari decretali pontificie del passato e di varie decisioni conciliari, il tutto intercalato con falsi clamorosi inseriti qua e là al fine di accreditare il valore giuridico delle decisioni ecclesiastiche in contrasto con il potere laico e monarchico. Insomma si trattava di una sorta di trattato di diritto canonico costruito ad hoc con tutti i falsi possibili Scrive Gregorovius che le leggi raccolte nei Decretaliponevano il potere imperiale molto al di sotto della dignità dei papi e persino dei vescovi, e innalzavano nello stesso tempo il papato tanto in alto al di sopra di questi ultimi, da renderlo completamente indipendente dalle decisioni dei sinodi provinciali conferendogli anzi facoltà di giudizio supremo nei confronti dei metropoliti e dei vescovi, il cui ufficio e la cui autorità, sottratta all’influsso dell’imperatore, veniva ad essere sottoposta alla volontà del papa. In una parola: esse [le Decretali] conferivano al pontefice la dittatura sul mondo ecclesiastico”. A parte il significato manifesto di questo documento, ve ne era un altro all’interno del medesimo: i vescovi ed ogni ecclesiastico dipendevano solo dal Papa che ne aveva l’assoluta autorità simultaneamente negata ai tribunali civili. Erano le basi per la costruzione di uno Stato clericale.

          A partire dalla falsa donazione iniziò il Sacro Romano Impero che ricostruì un alleato potente per la Chiesa che aveva bisogno di essere difesa da continue invasioni. Allo stesso modo gli imperatori di tale Impero avevano bisogno di un legame con la Chiesa per estendere capillarmente su tutto il territorio la loro influenza attraverso i vescovi che avevano prestigio ed autorità dovunque e non solo sul clero. Da una parte un Re era elevato al trono con l’investitura della Chiesa e dall’altra alla Chiesa veniva il prestigio di aver incoronato un potente del mondo. Carlo Magno iniziò a nominare dei vescovi (in massima parte scelti tra nobili e militari) e ad assegnare loro maggiori poteri in ambito civile e la prassi si consolidò con Ottone I di Germania. Come è evidente non interessava tanto la religiosità di tali personaggi quanto la loro fedeltà ed affidabilità verso l’Impero che affidava loro potere spirituale e temporale insieme. Dopo aver scritto che con gli enormi interessi economici in gioco, si capisce bene come per tutta la prima metà del millennio fosse diffusissima la pratica della simonia, ovvero la vendita e l’acquisto di cariche ecclesiastiche, compresa quella più alta, Giordano Bruno Guerri prosegue così:

Il potere temporale non fece bene alla moralità della Chiesa. Vescovi irreligiosi, ignoranti, avidi, peccatori, allevavano un clero a loro immagine. Basti dire che a metà dell’XI secolo san Pier Damiani scrisse un Liber Gomorrhianus contro la sodomia, assai diffusa nel clero, e trovò una ventina di insulti – tutti riferiti alle femmine di animali – contro le donne che vivevano con gli ecclesiastici. Stupisce che poi Pier Damiani si lamentasse per la crescente tentazione del popolo di leggere la Bibbia senza la mediazione di simili religiosi.

I monasteri avevano mantenuto più a lungo del clero cittadino un impegno che non si limitava alla preghiera ma badava anche alla carità, all’assistenza, all’agricoltura, al commercio. Così però finirono per diventare dei veri feudi, ricchi e ambiti, e la corruzione si diffuse anche tra gli abati e i monaci. Molte famiglie nobili fondarono un monastero di cui mantennero il controllo come un reame, di solito nominando abate il secondogenito.

Al popolo questo clero, oltre che il cattivo esempio, dava pochi consigli. I predicatori migliori andavano nelle cappelle private che i ricchi cominciavano a farsi costruire per non mischiarsi al volgo. Ai poveri venivano rivolte solo «moralistiche esortazioni alla sopportazione dei mali della vita» (Alberigo): divieto di bigamia e di andare con meretrici, obbligo di confessarsi e comunicarsi almeno una volta all’anno, di recitare il Pater e il Credo, di andare a messa la domenica, di fuggire le superstizioni pagane. Il discredito del clero provocò la nascita di qualche movimento di ribellione popolare, come quello dei Patarini («robivecchi»), che nel 1057 scacciarono dal duomo di Milano, con le cattive, gli ecclesiastici indegni. E sarà anche una delle cause delle eresie e degli scismi, ma durò fino al Seicento, quando l’improvviso rigore controriformista rese il clero fastidioso, a molti, per il verso opposto.

Con la nascita dell’Impero che curava i confini e gli interessi materiali della Chiesa, al suo internò poterono dispiegarsi liberamente tutte le fantasie criminali, turpi, lussuriose e peccaminose che ormai non avevano più freni esterni di sorta. La Chiesa tutto comandava e tutto controllava: lascivia e violenza iniziarono ad essere il Nuovo Vangelo della Sodoma Vaticana, della Bestia Trionfante dell’Anticristo dell’Apocalisse.

L’OSSESSIONE DELLA CHIESA PER IL SESSO

          In quanto scritto ho fatto cenno ad una pratica diffusissima nella Chiesa dei primi tempi, l’agapete (parola che deriva dal greco αγαπηται che vuol dire amate, dilette. Vediamo con qualche dettaglio di cosa si tratta. Sappiamo già che i buoni cristiani sono fedeli osservanti delle leggi che la religione gli dice di rispettare. Ma tali buoni cristiani sanno sempre trovare la strada per aggirare la legge che dovrebbero seguire. E qui si aprono infinite possibili discussioni che io voglio limitare alla questione del sesso. Se si leggono con attenzione i Vangeli si scoprirà che Gesù non ha mai imposto ascesi e castità. Anzi ! Gesù era quello che oggi si definirebbe un uomo di mondo, accettava volentieri inviti a feste e volentieri beveva e si intratteneva con donne (è evidente che non sappiamo nulla di suoi rapporti intimi, a parte baci sulla bocca a Maria di Magdala, ma la cosa a me non solo non stupirebbe ma piacerebbe addirittura). L’idea di pensare a Gesù come una sorta di fustigatore dei costumi è balzana e frutto di menti misogine e deviate. Dico questo perché questa rappresentazione del supposto Gesù a me piace, l’altra mi respingerebbe. Purtroppo, come ho tentato di spiegare nel mio Alla ricerca di un uomo chiamato Gesù, gli insegnamenti di costui sono scomparsi da quello che è chiamato Cristianesimo ed è invece restata solo la sua orrenda morte che è stata presa e manipolata da Paolo che ne ha fatto una religione che con Gesù e con i suoi Apostoli non c’entra nulla. Paolo, contrariamente a Gesù, era un misogino che odiava le donne che non potevano neppure parlare nelle assemblee dei credenti. La donna oppressa e messa da parte dalla Chiesa odierna è la donna costruita da Paolo, figlia della donna del Vecchio Testamento. La considerazione di Paolo per la donna la possiamo leggere nella Prima Lettera ai Corinzi, soprattutto in 11, 1-16, dove, tra l’altro, le si fa obbligo di coprirsi i capelli o di tagliarseli. Il deforme Paolo si sarà fatta una pessima opinione delle donne perché più e più volte respinto. E’ stato quindi costretto a fare di necessità virtù e ostentare misoginia. Ma il riferimento a Paolo era per tornare all’origine della giustificazione di fede all’agapete per chi si era votato alla castità. In questa lettera possiamo leggere dapprima che 1… è cosa buona per l’uomo non toccare donna, 2 tuttavia, per il periodo dell’incontinenza, ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito (1 Cor. 7, 1). Questa prima frase va legata a quanto possiamo leggere più oltre: 37 Chi … è fermamente deciso in cuor suo, non avendo nessuna necessità, ma è arbitro della propria volontà, ed ha deliberato in cuor suo di conservare la sua vergine, fa bene. 38 In conclusione, colui che sposa la sua vergine fa bene e chi non la sposa fa meglio (1 Cor. 7, 37-38). Tutto ciò deve valere in generale. Ma vi sono poi coloro che vogliono dedicare la loro vita a raccontare la nuova fede e costoro non debbono essere da meno degli altri rispetto ai diritti elementari. Arriviamo così alle affermazioni cruciali di Paolo: 4 Non abbiamo noi il diritto di mangiare e dibere ? 5 Non abbiamo noi il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa ? (1 Cor. 9, 4-5). Naturalmente questa donna, come si evince da quanto scritto in precedenza deve essere una vergine. E si ripete qui l’ossessione per la verginità che è uno dei fili conduttori del Vecchio Testamento. Ho più volte chiesto in modo retorico: come si fa a capire se una donna è vergine ? E dico questo perché il costume dei lenzuoli stesi e macchiati di sangue sono semmai una prova (?) a posteriori che, una volta avuta, addio verginità. Ma poi la questione della verginità è semmai una richiesta fatta per tentare di garantirsi una vera paternità, un qualcosa che anticamente risultava estremamente importante per questioni, oltreché di prestigio, di eredità. Ma il supposto prete che è celibe per scelta di fede non ha alcun problema di paternità. E qui, semmai, i problemi li crea agli altri. Supposto infatti che tale vergine resti casualmente incinta, cosa credete che nella maggior parte dei casi sia accaduto ? Quella fanciulla con una qualche dote veniva messa sul mercato delle mogli con il prete facente le funzioni di abile ruffiano. In fondo si tratta di una vergine che ha convissuto con la santità e la castità … Una vera donna da scegliere sopra ogni altra. Il prete la cedeva con sommo dispiacere sacrificandosi con altra vergine.

       Il Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica (1840) alla voce Agapetae riporta: Cosi chiamavansi nei primi tempi della Chiesa alcune vergini, le quali conducevano la vita in comune, e si addicevano al servigio di ecclesiastici per sola carità. Quindi ne venne, ch’ebbero anche il nome di Sorelle adottive. Ma siccome queste società col progresso del tempo degenerarono, così furono abolite dal concilio Lateranese tenutosi nel 1139 sotto il Pontificato di Innocenzo II. Questa parola significa inoltre persone che si amano; e si diede in seguito ad un ramo di gnostici, che spargeano i loro errori sul declinare del secolo quarto. Secondo s. Girolamo questa specie di setta era composta principalmente di donne, le quali insegnavano nulla esservi d’impuro per le coscienze pure, e s. Agostino assicura, che queste aveano per costume di giurare e spergiurare, piuttosto che manifestare il secreto della loro setta.

       In definitiva gli ecclesiastici si servivano di questa becera finzione per avere non già vecchie e laide perpetue ma giovani vergini presumibilmente belle ed attraenti. E poiché Paolo indicava l’accompagnatrice dell’ecclesiastico come una necessità paragonabile al bere o al mangiare, viene da sé che la necessità di avere rapporti sessuali doveva essere esaudita. Con Paolo benedicente. Ciò andò avanti fino al 1139 ma, possiamo star sicuri che la cosa continuò tranquillamente nei secoli successivi (nel XV secolo, ad esempio, il chierico Copernico ebbe problemi perché non voleva sbarazzarsi di una domestica piacente che le faceva da perpetua. Ed eravamo già in epoca di Controriforma). Si può aggiungere un qualcosa forse ridondante: se ciò era permesso al misero chierico figuriamoci cosa accadeva ai gradi sempre più alti, tra Vescovi, Cardinali e Papi. Semmai qui il problema era che Paolo non era seguito alla lettera perché costoro, piuttosto che con vergini, si accompagnarono con grandissime prostitute. Ma questo lo vedremo tra poco. A proposito della definizione del Dizionario ora riportata, in essa non figura un altro tipo di agapetae che in definitiva funzionava allo stesso modo. Mentre nel tipo ora descritto le vergini erano tali per aver fatto un voto di castità e quindi erano vergini per scelta di fede, nel secondo tipo le vergini non avevano fatto alcun voto di castità e convivevano di nascosto con un chierico senza aver contratto matrimonio (nel primo caso il matrimonio era impossibile perché teoricamente impossibile consumarlo). Questo secondo tipo di agapetae fu vietato dal Concilio di Nicea del 325 con le seguenti parole:

Questo grande sinodo proibisce assolutamente ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi e in genere a qualsiasi membro del clero di tenere delle donne di nascosto, a meno che non tratti della propria madre, di una sorella, di una zia, o di persone che siano al di sopra di ogni sospetto [citato in Wikipedia]

Sempre nella definizione del Dizionario compare invece un agapetae che sarebbe stata una sorta di setta. In origine si trattava di persone, uomini e donne, che si riconoscevano nel credo comune del libero amore ritenendo che le pratiche sessuali erano prive di ogni indecenza se ad esse ci si accostava con animo puro e schietto e con coscienza pulita. San Girolamo, che era un campione di misoginia, parla di questa come una setta formata in massima parte da donne che in qualche modo irretivano gli uomini per loro osceni fini. Agostino, vecchio ed impenitente fornicatore, sosteneva invece che queste donne (e come no !) avrebbero mentito spudoratamente e non avrebbero mai ammesso la loro adesione alla setta. Nel IV secolo vi fu una comunità eretica gnostica che praticò questo tipo di agapetae.

          Si può immaginare che la grandissima maggioranza dei chierici fosse entusiasta dell’agapetae ma, tra i Padri della Chiesa vi furono severissimi oppositori che si scagliarono con estrema durezza contro questa pratica. Tra gli altri, ad esempio, San Girolamo scriveva:

«Oh vergogna, oh infamia! Cosa orrida, ma vera!
Donde viene alla Chiesa questa peste delle agapete?
Donde queste mogli senza marito?
E donde in fine questa nuova specie di puttaneggio?»
(dalla Lettera a Eustochio, Sofronio Eusebio Girolamo, citato da Wikipedia)

mentre San Cipriano scriveva queste parole indignate soprattutto per il fatto che sarebbe stato impossibile verificare che quella verginità era stata mantenuta (la cosa bella è che il chierico è il maschietto e la verginità deve essere mantenuta dalla femminuccia):

« E non bisogna credere che può essere difesa a motivo del fatto che può essere esaminata per vedere se è, o meno, una vergine, dal momento che la mano e l’occhio delle ostetriche sono spesso ingannate, così che, perfino quando una donna sia trovata incorrotta in quella parte per cui è una donna, ella tuttavia può aver peccato con altre parti del corpo che possono essere corrotte senza che possano essere ispezionate. Già il semplice fatto dello stare insieme, il solo fatto di abbracciarsi, il sussurrarsi e baciarsi e l’indecoroso e folle sonno di due corpi che giacciono insieme, quanta vergogna e accusa tutto questo rivela? Se un marito tornando a casa trova la sua sposa a giacere con un altro, non cade in collera e rabbia fino a che, spinto dalla gelosia, giunge a impugnare la spada? Cosa dire allora di Cristo Nostro Signore, nostro giudice, che vede giacere con un altro uomo la sua vergine, votata a lui e alla sua santità? Quanto potrà incollerirsi, e quali pene potrà minacciare per una impura copulazione di tal sorta! Perché è per lui, per la sua parola spirituale, per il giorno del Giudizio che verrà, che noi dobbiamo lavorare e impegnarci in ogni modo, affinché a ognuno dei nostri fratelli sia permesso di evitarlo. E così, sebbene sia necessario che tutti mantengano la disciplina, in qual misura è più necessario che lo facciano officianti e diaconi, che dovrebbero offrire un esempio e un modello di carattere e contegno? Come possono essi essere presi quali esempi di integrità e continenza, se il vero insegnamento di corruzione e vizio proviene proprio da loro? »

(San Cipriano, Epistulae – A Pomponio, riguardo a certe vergini, LXI.4, citato da Wikipedia).

Ma ritorniamo alle vicende del papato.

ANCORA LOTTE FURIBONDE PER ACCEDERE AL VERTICE DELLA CORRUZIONE E DEL CRIMINE

          Avevamo lasciato i Papi, questa volta falsari, accennando a Stefano II (752-757) che senza neppure vergognarsi presentò al Regno dei Franchi il falso documento della Donazione di Costantino. Rendina [1] introduce il successivo Papa con queste parole: Il senso del potere, l’aspetto prevalentemente politico che viene ad assumere il trono di Pietro, fa affiorare alla morte di Stefano II fazioni in lotta per l’elezione del nuovo pontefice. Da un lato vi era il partito di coloro che volevano rapporti più stretti del Papato con l’Imperatore d’Oriente, il partito bizantino, che sul piatto offriva l’arcidiacono Teofilatto e dall’altro vi era il diacono Paolo, fratello del Papa morente che era un naturale continuatore della politica di Stefano aperta al regno dei carolingi. L’ebbe vinta Paolo che divenne Papa Paolo I (757-767). Ma il peggio iniziava con la morte di Paolo. Continua Rendina: L’ambizione di conquistare il seggio pontificio, simbolo ormai inequivocabile di potere, scatenò fortemente le aspirazioni non solo nei diversi strati del clero, tra presbiteri, diaconi e suddiaconi, ma perfino negli ambienti laici; venne a farsi strada il concetto che potesse diventar papa anche un qualsiasi cittadino. Salirono alla ribalta le correnti aristocratiche e popolari in lotta per la difesa di interessi materiali. I laici avevano capito che accedere a quel soglio avrebbe dato immenso potere ed inestimabili ricchezze. Poiché tutto era ed è corrompibile da parte dei potenti e poiché vi sono sempre potenti che vogliono esserlo di più, la morte di Paolo I generò disordini grandi e vicende che resero di fatto la sede di Roma vacante per oltre un anno. Lo stesso giorno della morte del Papa ve ne fu un altro eletto dalla potente famiglia del duca di Nepi, Totone. Si trattava di Costantino, fratello del duca che neppure era un chierico ma un semplice laico. Fu un’elezione lampo che ebbe anziché alti prelati come contorno, armati fino ai denti che minacciosamente imposero Papa Costantino. Gli eventi divennero torbidi perché alcuni prelati si rivolsero al Re longobardo Desiderio (succeduto dal 757 ad Astolfo) per denunciargli la situazione di illegalità. Desiderio era ben felice di poter mettere il becco su una elezione papale ed intervenne a Roma dove riuscì ad ammazzare Totone (768) e ad imprigionare Costantino. Venne preso un presbitero filolongobardo di nome Filippo ed in un batter d’occhio fu fatto Papa, Papa per un giorno. Dopo questi 13 mesi di Papi a go go, ci si accordò per Stefano III (768-772) come Papa accettabile da tutti, non senza aver cavato gli occhi a Costantino e a tutti coloro che egli aveva eletto a qualche carica (Filippo fu solo rinchiuso in un convento). Un vero giudizio veterotestamentario di Dio.

             Seguì un Papa eletto in modo normale, il nobile Adriano I (772-795) che lavorò per legare il Papato ai Franchi riuscendo a divenire succube di Carlo, figlio di Pipino il Breve. Ma Adriano I è il primo Papa della saga di Tuscolo (una cittadina sulle colline che circondano Roma) che, in breve tempo, darà, con armi e simonia, ben 24 Papi alla Chiesa, tutti timorati di Dio e fedeli interpreti degli insegnamenti di Gesù, come vedremo. Si occupò anche di iniziare ciò che i romani pagano ancora oggi, la corsa alla proprietà terriera della campagna romana da parte di Papi, Cardinali e parenti vari (la nobiltà nera). Ad Adriano seguì il Papa di Carlomagno, Leone III (795-816), che fu ancora eletto in modo normale ed addirittura all’unanimità. Questo Papa si rese subito disponibile con il Regno di Francia il quale però, con Carlomagno, disponibile non era se no a certe condizioni. In pratica Carlomagno si metteva a disposizione della Chiesa per la sua difesa contro ogni nemico e riconosceva alla stessa ogni autorità in fatto di fede ma manteneva per sé ed il suo regno ogni altro potere. Con tale accordo, il Papa arrivò ad incoronare, la notte di Natale dell’800, Carlomagno (il nuovo Costantino, il nuovo Augusto così come Paolo I aveva chiamato Pipino il Breve il nuovo Mosè e David) come Imperatore del Sacro Romano Impero. Da una parte un Re era elevato al trono da una investitura divina e dall’altra alla Chiesa veniva il prestigio di aver incoronato un potente del mondo. La diarchia nacque lì e si fortificò in futuro: da una parte il braccio armato e dall’altra il braccio spirituale. Con l’Oriente che era privo in quel momento di Imperatore le cose si ponevano come se Carlomagno fosse diventato l’analogo occidentale. Con la Chiesa le cose erano meno idilliache di quel che il Papa pensasse perché Carlomagno si considerava padrone di tutto, compresi i territori italiani che cedette come regno a suo figlio Pipino.

            Per quel che riguarda ciò che ora interessa la nostra indagine altri fatti rilevanti non vi furono fino intorno all’anno Mille, quando iniziò la sarabanda della delinquenza e dei Papi porci al potere. Giordano Bruno Guerri, in un articolo per “Il Giornale” del 14 marzo 2013, scriveva: Qualcuno ha definito il X secolo come quello della “pornocrazia papale”, ma in realtà il culmine della corruzione venne raggiunto nel XV. Per cinque secoli, dunque, la Chiesa alternò a papi degni, e anche eccellenti, papi tremendi. E spesso anche quelli di grande capacità politica erano quanto di meno cristiano si possa immaginare. Intorno al 1000, i più erano corrotti, incestuosi, vili, sadici, assassini.

        Prima però di dirigerci all’ultimo secolo del primo millennio occorre dare almeno un cenno alla leggenda della Papessa Giovanna, allo strano racconto che ebbe molto seguito nella vulgata popolare e non solo, anche perché, per un certo periodo, nell’elenco dei Papi, fra Leone IV (847-855) e Benedetto III (855-858), figurò una donna, la famosa di nome ma non nella storia Papessa Giovanna. Ricordo qui che il Papa che successe a Leone IV, o a Giovanna, fu eletto in mezzo a violenti disordini che interessarono tutta la città e dovette attendere molto tempo perché il partito favorevole all’imperatore carolingio Lotario (quello a cui fu assegnata l’Italia, delle tre regioni in cui fu diviso l’Impero di Carlo Magno, morto nell’843. Lotario fu incoronato Imperatore a Roma da Papa Pasquale I nell’823) aveva eletto (anti)papa il cardinale Anastasio che era stato deposto da Leone IV. Costui era arrivato minaccioso a Roma imprigionando, uccidendo e distruggendo ogni immagine sacra essendo un iconoclasta. La popolazione si schierò però con Benedetto ed i delegati di Lotario, vista la mal parata, fecero ritirare l’antipapa Anastasio dal Laterano. Scrive Gregorovius in proposito:

Questi incidenti annunciavano una delle epoche più terribili della storia del papato. Essi avevano svelato le discordie che serpeggiavano nell’interno della città e che si facevano di giorno in giorno più gravi, e avevano inoltre messo in luce le consorterie della nobiltà e del popolo, l’arroganza dei cardinali ribelli, la tensione dei rapporti della Chiesa con l’impero. Oltre a ciò, la inaudita condotta dei legati imperiali, che avevano cercato con la violenza di elevare alla sedia gestatoria un cardinale solennemente condannato per decisione sinodale, insegnava che l’imperatore … mostrava di non gradire affatto la reggenza di un papa della tempra di Leone IV e mirava a consegnare la cattedra di Pietro ad una creatura a lui sottomessa. Questo progetto era però naufragato miseramente contro l’incrollabile fermezza dei Romani, e il suo unico effetto era stato quello di minare pericolosamente l’autorità dell’imperatore.

LA PAPESSA GIOVANNA

          Si può introdurre questo argomento con un sonetto del Belli, citato da Rendina [1], dedicato appunto alla pretesa Papessa:

Fu ppropio donna. Buttò via ‘r zinale

Prima de tutto e ss’ingaggiò ssordato;

Doppo se fece prete, poi prelato,

E ppoi vescovo, e arfine cardinale.

E quanno er Papa maschio stiede male,

E morze, c’è chi dice, avvelenato,

Fu ffatto Papa lei, e straportato

A Ssan Giuvanni su in zedia papale.

Ma qua sse sciorze er nodo a la commedia;

Ché ssanbruto je preseno le doje,

E sficò un pupo li ssopra la ssedia.

D’allora st’antra ssedia ce fu messa

Pe ttastà ssotto ar zito de le voje

Si er Pontecife sii Papa o Ppapessa.

L’origine più probabile della leggenda della “Papessa Giovanna”, una donna, travestita da uomo, che sarebbe ascesa al seggio papale, salvo poi essere scoperta a causa di una gravidanza inopportuna: più semplicemente la leggenda era una metafora di una donna, Marozia (della quale parlerò diffusamente più oltre), che aveva talmente condizionato con sesso ed intrighi più di un Papa da essere lei stessa considerata Papa. La leggenda, ampiamente diffusa a partire del XIII secolo, vuole che per due anni, all’incirca dall’853 all’855 (fin quando non fu scoperta per la nascita di un figlio durante una processione), venne eletta la Papessa, travestita da uomo, con il nome di Papa Giovanni VIII.

          Seguiamo più in dettaglio lo svolgersi dei fatti leggendari cercando anche di cogliere il motivo della nascita di tali fantasie e di come esse siano state credute dalla popolazione perché per nulla inverosimili per un papato che aveva abituato tutti, soprattutto i fedeli, a quanto di peggio si potesse (e possa) pensare.

          Secondo Rendina [6] la prima brevissima notizia della Papessa la troviamo nel Chronicon (1080 circa) del benedettino Mariano Scoto in cui si legge che a Leone IV successe Giovanna, una donna, per due anni, cinque mesi e quattro giorni. Questa notizia la ritroviamo poi in altre cronologie di Papi: quella del benedettino francese Sigeberto di Gembloux (1110 circa) e del benedettino Goffredo da Viterbo (1185 circa). Qualcosa di più possiamo leggere nella Cronica universalis (1225 circa) del domenicano francese Jean de Mailly (senza osare però chiedersi quali fossero le fonti sia qui che in storie successive): vi è la storia, anche se da verificare, su un certo papa o piuttosto papessa, perché era femina, simulando di essere uomo, divnuto notaio di Curia per acutezza d’ingegno, quindi cardinale ed infine papa. Un giorno, mentre saliva a cavallo, partorì un fanciullo e subito la giustizia romana, legatigli i piedi alla coda di un cavallo, lo trascinò e fu lapidato dal popolo per mezza lega e, dove morì, lì fu sepolto e venne scritto Parce Pater Patrum Papissa Pandito Partum (Pietro, Padre dei Padri, Palesa il Parto della Papessa). Sotto di lui fu istituito il digiuno delle Quattro Tempora, detto digiuno della papessa. Altri racconti dicono che durante una processione che riportava il Papa in Laterano, proveniente da San Pietro, il cavallo del Papa si imbizzarrì all’altezza dell’angolo tra Via dei SS. Quattro e Via dei Querceti per lo strepitare della folla in luogo angusto. E fu lì che Giovanna dette alla luce il suo piccolo. In ogni caso quell’iscrizione sulla tomba contenente sei P doveva richiamare qualche strano mistero che spiegò un ignoto francescano tedesco (1260 circa) come una frase detta dal Diavolo (da una persona che assistette agli eventi e la gridò ispirato dal demonio) per far scoprire che quel Papa era una Papessa (ben strano Diavolo quello che collabora con la Chiesa per smascherare un impostore). Da notare che sul luogo in cui fu svelata la natura della papessa, all’angolo tra via dei SS. Quattro e Via dei Querceti, fu eretta una piccola edicola votiva tuttora esistente, buia e in stato d’abbandono, nota come il Sacello. A questo punto abbiamo quasi l’intera storia che sarà completata in qualche dettaglio mancante dal cardinale domenicano boemo Martino Polono (1277 circa), cappellano di diversi pontefici e storico della Curia. Apprendiamo dalla sua Chronica che la Papessa, qui battezzata come Giovanni Anglico con il cognome che richiama il fatto che fosse di origine inglese, cognome che Boccaccio farà diventare Angelica), era di origine inglese ma nata nella città tedesca di Magonza. Da qui, travestita da uomo, anzi da chierico, si reca ad Atene dove diventa una preparatissima teologa. Trasferitasi a Roma, sempre travestita da chierico, viene molto apprezzata per la sua preparazione con la quale riesce a scalare i vari gradi delle gerarchie della Chiesa fino a farsi eleggere Papa. Arrivata a questo sommo incarico, come tutti i Papi, non poteva non dedicarsi a libidine e lussuria ma, mentre i Papi non hanno problemi di verginità e non gli si ingrossa il ventre (nascosto però in questo caso dall’ampio abito papale), una donna in quelle vesti è, anche da questo punto di vista, fregata e Giovanna sembra amoreggiasse con devoto cameriere.

Una piantina dei luoghi interessati alla processione (in spagnolo) tratta da Boureau. Credo si capisca ma alcune parole le traduco: Letran è Laterano; callejon è vicolo; desvio è deviazione; capilla de la papisa è l’edicola votiva nota come Sacello. Aggiungo che la Via Directa (indicata con la freccia in grassetto) era quella che veniva percorsa fino al XII secolo. Solo successivamente si seguì la deviazione verso Via Labicana

Una miniatura francese del 1403 in cui è rappresentato il momento della nascita del bambino della Papessa (Da Rendina 1).

          Questa storia, ripeto, leggendaria ha però dietro qualche fantasia e fatto realmente avvenuto da cui può aver preso spunto (ed ora non parlo di Marozia). Li accenna Rendina [6]. Il primo fatto, quello di fantasia, è il racconto fatto dallo stesso Rendina della tragica storia di una donna che si chiamava Giovanna di nome e Papa di cognome. Per comprendere però da dove nacque la peculiarità equivoca di questa storia occorre riferirsi al Liber Censuum del 1192 (redatto dal Cardinale Savelli, futuro Papa Onorio III), quello che spiegava, tra l’altro, dove erano spesi i soldi della Chiesa. In tale libro vi era segnato quale compenso dare ad una nota famiglia di Roma, la famiglia Papa, per gli adorni che faceva nella strada dove era situata la sua casa, Via dei SS. Quattro, al passaggio obbligato del corteo papale che muoveva dal Laterano verso San Pietro in Vaticano o viceversa (il tragitto da o per Via San Giovanni in Laterano prevedeva tra l’altro il passaggio in una strettoia, Via dei Querceti, che immetteva in Via dei SS. Quattro). Tale compenso era di 8 soldi provisini (il soldo provisino era una moneta battuta dal Senato romano). Nel Liber Censuum era scritto così: Deinde usque ad domum Joannis Pape VIII solidi provesini che vuol dire “Di qui, (per gli arredi) fino alla casa di Giovanni Papa (sono dovuti) VIII soldi provisini”. Vediamo ora la storia e dopo torneremo alla frase suddetta.

          Nel maggio dell’847 i Saraceni, che già nell’840 avevano attaccato i monasteri benedettini di Subiaco, invasero Roma attaccando la città da tre direzioni, dal centro mediante una flotta entrata attraverso il Tevere, da una flotta sbarcata a Civitavecchia, a Nord di Roma, e da una sbarcata a sud. I Saraceni saccheggiarono e devastarono ogni cosa. Entrarono in tre nella casa per le vacanze estive che i Papa avevano a Portus (l’antico porto di Roma, situato sulla riva del Tevere prospiciente Ostia) dove violentarono Giovanna, lì restata senza possibilità di fuga perché non avvertita del pericolo, e uccisero i suoi due bambini. Finita l’invasione saracena a settembre, i servi dei Papa che avevano avuto cura della disgraziata la riportarono da suo marito, Giovanni, nella casa di Roma in Via dei SS. Quattro. Ma Giovanna non era più la stessa: non parlava, non mangiava, strabuzzava gli occhi, emetteva bava.  I medici sentenziarono che era indemoniata ma la vecchia nutrice più semplicemente disse al marito che aspettava un bambino. Il marito che voleva aiutare la moglie a guarire, di fronte a questa notizia pensò solo allo scandalo che ne sarebbe venuto fuori, scandalo che voleva evitare ad ogni costo perché la sua era famiglia di chiesa, di vescovi e cardinali. Lasciò quindi che si diffondesse la voce che Giovanna era indemoniata anche se restava il problema del nascituro. Il pontefice Leone IV che conosceva bene la famiglia Papa, venne a sapere di Giovanna indemoniata e, all’inizio non dette importanza alla cosa ma poi … Tutta una serie di fatti che si susseguirono, un terremoto a febbraio dell’848 con distruzioni di case e crollo di torri seguito da un incendio nel quartiere di Borgo che distrusse tutte le case, fecero collegare l’indemoniata con i disastri avvenuti. Quando poi, a metà maggio, vi fu lo straripamento del Tevere con danni enormi all’agricoltura e vi fu un’invasione di locuste che distrussero ogni raccolto e particolarmente il grano e le riserve di pane delle famiglie, ebbene allora i collegamenti dei disastri con Giovanna crebbero a dismisura. Intanto la poveretta era all’ottavo mese e la nutrice la portò da una fattucchiera per capire cosa fare. L’aborto fu scartato perché vi era il forte rischio che anche la madre morisse. Si pensò allora di far partorire la donna in modo che il diavolo sarebbe stato espulso con il bambino. Meglio questa soluzione anche se restava da capire cosa fare del bambino che mai Giovanni Papa avrebbe accettato. Nell’attesa di una decisione, la fattucchiera sfruttò i fatti dicendo a tutti i clienti che i loro problemi di malocchio non si sarebbero risolti finché Giovanna non avesse espulso il demonio. Questa diceria volò e la gente iniziò a radunarsi sotto la casa dei Papa gridando oscenità verso l’indemoniata. E’ qui che intervenne Leone IV facendo organizzare una processione che passasse sotto la casa dei Papa. La solenne processione sostò sotto la casa che era addobbata per l’occasione con Giovanni affacciato al balcone e con Giovanna dimenticata all’interno della casa, e lì Leone IV in persona scese da cavallo e fece solenni benedizioni al fine di liberare la città dai malanni che si susseguivano. Un gran trambusto sviò l’attenzione di tutti. Giovanna era scesa da casa per partecipare alla cerimonia e la gente, riconosciutala, prende ad inveire contro di lei mentre grida Parce Pater Patrum Papissa Pandito Partum. E’ il demonio che parla ! Molti si scagliano contro la poveretta per linciarla. Lei sta male perché sta avendo le doglie. Arriva un famoso esorcista, il vescovo di Porto, che le spruzza acqua santa e recita le preghiere adeguate. Tutti si aspettano un demone uscire dalla bocca della donna ma esce un bambino dal suo ventre. Giovanna finalmente sorride perché non soffre più. La gente è sollevata dall’eliminazione del demonio con la nascita del bimbo e, alzando lo sguardo verso il balcone dove era Giovanni facendogli gli auguri per quella nascita. Anche Giovanni, a questo punto e benedetto da Leone IV, sorride. Accetterà il bambino che chiameranno Giovanni. La strettoia di Via dei Querceti verrà chiamata Vicolo della Papessa.

          Torniamo ora alla frase del Liber Censuum. Essa, successivamente ai fatti narrati ed in concomitanza di vaghe notizie sulla Papessa Giovanna, venne letta così: “Di qui, fino alla casa di Papa Giovanni VIII soldi provesini” dando ad intendere che quella fosse la casa di Giovanni VIII, Giovanni Anglico, e quindi la Papessa.

          Prima di passare al secondo fatto che Rendina racconta e che avrebbe ispirato la leggenda della Papessa credo di dover fare alcune considerazioni. La Chiesa nega con vigore l’esistenza di questo Papa donna; parla di una campagna antipapista di anticlericali ed atei. Ho già scritto che la prima notizia scritta su Giovanna la troviamo nel 1080 circa ed è di un frate italiano. A quest’epoca non ha senso pensare a complotti contro la Chiesa che riusciva da sola ad essere indegna, indegnità alla quale Giovanna avrebbe aggiunto poco. Insomma la Riforma era lontanissima così come l’Illuminismo o altri movimenti anticlericali. La durata del pontificato di questa donna rientra nella media della durata dei pontificati dell’epoca. E’ citata centinaia di volte in autori non sospetti, frati benedettini, francescani e domenicani ma anche da autori molto seri come il Boccaccio. A chi poi dice che su Giovanna si hanno pochi documenti, si può facilmente rispondere che non sono meno di tutti i Papi dell’epoca. Ma, a mio giudizio, la citazione estesa in un racconto con molti particolari più intrigante è di una persona che aveva accesso ai documenti segreti vaticani essendo stato per lungo tempo Prefetto della Biblioteca Vaticana con Papa Sisto IV, umanista ed uomo di fiducia di vari Papi. Parlo di Bartolomeo Sacchi, detto il Platina (1421-1481), che raccontò della Papessa addirittura nella prima storia dei pontefici da lui scritta, Vitae pontificum romanorum (1474). Come ricorda Rendina, Platina scrive che questa elezione fu un errore da non ripetersi e, a tal fine fu introdotta una sedia speciale, dotata di un ampio foro in basso, in modo che i due più disgraziati dei diaconi, dopo l’elezione del Papa, infilassero la mano per controllare l’esistenza della virilità. Sempre nel Liber Censuum è descritta l’intera cerimonia. Il Papa appena eletto, dopo alcuni preliminari, dai cardinali viene condotto attraverso il portico alla sedia marmorea detta stercoraria. Il Papa era tenuto per le braccia e le gambe in modo che fosse in una posizione comoda sulla stercoraria ma soprattutto in modo che potesse venir sollevato in simultanea al canto corale del Salmo CXII: Suscitans de pulvere egenum et de stercore erigens pauperum. Il salmo stava a significare che Dio poteva elevare alla gloria chiunque a partire anche dallo sterco (da qui il nome della sedia). In questa sedia avveniva il controllo di virilità. In caso positivo i diaconi tastatori gridavano Virgam et Testiculos habet ! mentre un coro di sollievo accompagnava il Deo gratias ! Questa sedia speciale, chiamata porphyreticae (il porfido comunque non c’entra), era anche una sedia da parto, silla obstetricae, cioè per donne, quindi facilmente interpretabile come un qualcosa legato ad un Papa donna (nell’antichità, tra i ricchi, era molto usato il parto seduto). Qui iniziano i giochi intorno al significato di una tale sedia che sarebbe stata usata solo per ricordare che la Chiesa è Mater Ecclesia e, dico io, poiché la Chiesa è estremamente materialista e non dotata di pensiero astratto ma solo di quello concreto non ha trovato di meglio che mimare il suo più alto rappresentante come nell’atto continuo di generare. Ma poi, e lo dice un ateo impenitente, quel Mater non ha più il senso della protettrice piuttosto che della generatrice? Infine in nessun documento ufficiale della Chiesa si fa riferimento a questa presunta Mater Ecclesia (sarà per non far capire qual è la vera professione di questa donna che si definisce Mater). Secondo altre versioni questa sedia, di cui un esemplare si può ammirare nei Musei Vaticani (Museo Pio Clementino Vaticano), uno al Louvre ed uno in marmo nel portico del Laterano, era un accessorio per liberare il ventre senza alzarsi da un comodo sedile, si trattava quindi di una sedia escretoria (non mi azzardo qui a dare spiegazioni possibili). Platina che non voleva rischiare quantomeno il posto si schiera con questa funzione della sedia scrivendo che “Questa sedia è stata così predisposta affinché colui che è investito da un sì grande potere sappia che egli non è Dio, ma un uomo, e pertanto è sottomesso alle necessità della natura”. 

        Ci racconta l’inizio dell’uso di questa sedia, poi ripreso da Platina, Felix Hammerlein, detto il Malleolus, nel suo De nobilitate et rusticitate dialogus del 1447. In questo libro si racconta che l’introduzione di questa sedia fu voluta dal presunto successore della Papessa (o di Leone IV, nel caso la Papessa non fosse esistita), Papa Benedetto III. La cerimonia dell’accertamento del sesso si svolgeva nel Laterano e fu in uso dall’inizio del secondo millennio, con Benedetto III fino al 1560, con l’elezione di Pio IV.

La sedia con il foro sul pianale

La cerimonia dell’accertamento del sesso durante un’elezione papale

          Più interessante è invece il secondo fatto che Rendina [6] cita come possibile equivoco che ha indirizzato a parlare di Papessa Giovanna, che poi sarebbe Papa Giovanni VIII (su questa interpretazione sono d’accordo molti altri storici che, come Alain Boureau, hanno indagato ogni piccola citazione ed ogni storia – moltissime –  relativa alla Papessa). Poco dopo il pontificato di Leone IV, nell’872 venne eletto un Papa (si tratta di un vero Papa) che assunse il nome di Giovanni VIII (872-882). Sotto il suo pontificato, e con egli stesso alla guida di una flotta, furono duramente sconfitti i Saraceni nella battaglia del Circeo dell’877. Ancora per sua iniziativa furono aumentate tutte le fortificazioni per evitare ulteriori attacchi di questa calamità. Altri fatti di rilievo riguardano i rapporti della Chiesa con l’Impero ormai passato nelle mani dell’ultimo erede, Ludovico II, prima del definitivo disfacimento dei carolingi. Alla morte di costui nell’875 l’Impero, o almeno quella parte che amministrava l’Italia, perse ogni sua forza e prestigio divenendo un fantoccio nella mani della Chiesa e quindi di Papa Giovanni VIII che trattò i successori di Ludovico II come dei meri fantocci. Questa caduta dell’Impero rese ostili i nobili verso il Papa e l’Italia, soprattutto Roma, divenne un territorio in cui dominava la completa anarchia. Inoltre la vittoria di cui sopra rese più debole la Chiesa ormai non più sostenuta dalla potenza imperiale. Dal punto di vista più dottrinale (in realtà il Papa, visto dissolversi l’Impero carolingio, cercava di riannodare rapporti con l’Impero d’Oriente), Giovanni VIII riabilitò il Patriarca di Costantinopoli, Fozio (820-893). Quest’ultimo era stato condannato e deposto con solenni anatemi dai due precedenti Papi e Giovanni lo riabilitò a determinate condizioni che però Fozio non rispettò, lanciando nel Concilio di Costantinopoli dell’879-880 pesanti accuse di immoralità a Giovanni VIII (che subito lo scomunicò). Intanto a Roma iniziava a formarsi, tra i nobili, il partito filotedesco che poteva contare su persone molto influenti come generali e ministri, sui nobili di Spoleto, Camerino e Tuscia, e su alcuni prelati tra cui il vescovo di Portus, Formoso (864-876), futuro Papa Formoso (891-896). Tutti costoro, accusati dal Papa di aver congiurato con i Saraceni (accusa falsa), dovettero abbandonare Roma in gran fretta mentre nell’876 i Saraceni attaccarono in massa depredando tutto il depredabile, trucidando, violentando e facendo schiavi in tutta la campagna romana fin alle porte di Roma, fortunatamente difesa da alte mura.

          Tra un susseguirsi di avvenimenti, spesso tragici, il partito tedesco avanzava fino ad affermarsi definitivamente. Roma fu attaccata da truppe al comando di Lamberto di Spoleto (e Camerino) alleato del cognato, il duca Adalberto di Tuscia, ed il Papa, arrestato, riuscì a fuggire in Francia. Tornato in Italia, dopo diverse vicende, si avvicinò al sovrano di Germania, Ludovico, offrendogli la corona del Sacro Romano Impero. Ludovico, in accordo con i suoi due fratelli, decise che l’Italia sarebbe toccata al fratello Carlo il Grosso che fu incoronato a Pavia nell’879 e nell’881 a Roma dallo stesso Papa. Carlo però non apprezzava le posizioni politiche filofrancesi del passato del Papa e lasciò la città a se stessa, senza garantirgli alcuna difesa, operando in modo che decadesse ogni diritto imperiale. In questa situazione di totale sbandamento si trovò Roma quando nell’882 Giovanni VIII morì ma non di morte naturale. Sembra certo che fu avvelenato (pratica, ancora oggi, di uso comune in Vaticano) dai genitori di una donna il cui marito era stato fatto oggetto delle sue voglie sessuali e, poiché il veleno tardava a fare effetto, fu finito a martellate dalle medesime persone, come si legge negli Annales Fuldenses (cronache medioevali dell’VIII e IX secolo) in cui espressamente si dice che costoro lo colpirono così a lungo con un martello che questo gli restò conficcato nel cranio

          Questa è la storia ufficiale che farebbe di Giovanni VIII un Papa degno ma occorre a questo punto raccontare cose che l’ufficialità nasconde (la parte indegna) e che furono invece raccontate dal patriarca di Costantinopoli, Fozio, che riprese cronache anonime che parlavano del Papa. Secondo queste cronache Giovanni VIII era omosessuale e pedofilo (dico qui, una volta per tutte, che per me non vi è alcuna differenza tra l’essere omo o eterosessuale. Allo stesso modo, per un Papa che ha fatto voto di castità, continua a non esservi differenza, a patto che mantenga il voto di castità).  Per tutti i 10 anni del suo pontificato riempì la sua corte di giovanetti, financo di bambini, che fece sacerdoti e vescovi senza alcuna preparazione se non quella di essere giovani prestanti e di bella presenza. A tale criterio rispondevano anche tutti i servitori, paggi e maggiordomi. Scrive Rendina [6]:

Tutti sono in definitiva suoi amanti, compagni di un amore sodomita e pedofilo, che si esprime in forma bestiale, se accade persino che, una notte, un giovane Aiutante di Camera del papa viene aggredito sessualmente da Sua Santità, che lo sodomizza con l’aiuto di due diaconi, anche questi giovanissimi. La notizia di queste azioni si diffonde tra gli stessi cittadini romani, accreditando la voce che sul trono pontificio sieda non un uomo ma una donna, quindi una papessa. Le accuse di Fozio arrivano anche alle orecchie del duca Lamberto di Spoleto e di suo cognato, il duca Adalberto di Tuscia, così che i due nobili feudatari pontifici, istigati da Formoso, vescovo di Porto, si ergono a moralizzatori della sede papale e occupano Roma, minacciando di detronizzare Giovanni. A Lamberto arrivano anche le proteste di una nobile famiglia romana che accusa il papa di aver tentato di sequestrare uno dei suoi figli, un bambino dai bei capelli biondi, con chiare intenzioni sodomitiche. Infatti Formoso gli conferma che, dopo la celebrazione di una messa, Giovanni aveva convocato il bambino nelle sue stanze e il padre del giovane aveva fatto in tempo a seguirli e sorprendere il papa che, con il pene eretto, inseguiva l’impaurito fanciullo. A questo punto i duchi occupano Roma, ma non riescono a impedire la fuga di Giovanni, che scappa in Francia, e da lì lancia la scomunica ai due duchi.

Dalla Francia, come già discusso, Giovanni rientrò in Italia dopo circa un anno. Dopo una nuova fuga da Roma, si trovò a Genova dove, segue Rendina:

a causa dell’impunita brama sessuale, ha termine la sua vita con una fine degna di quella natura così poco cristiana. Si dà il caso che riesca ad appagare le sue voglie con il marito di una giovane nobile; i genitori della donna per evitare uno scandalo pensano di nascondere il fatto uccidendo il papa. Lo invitano a un banchetto il 12 dicembre 882 e il papa mangia un buon numero di pernici avvelenate, che però non sono sufficienti a farlo morire. Va avanti per tre giorni con un forte mal di stomaco e i medici lo mettono a dieta stretta, pensando che si tratti di una indigestione. Allora, la notte del 15 dicembre, il suocero dell’amante del papa entra nella stanza e lo prende a martellate in testa

come abbiamo già scritto.

          Ecco dunque da dove sarebbe sorta, secondo Rendina, la leggenda della Papessa: non sarebbe stata altra persona che questo Papa con voglie femminili distorte e portate all’eccesso. La Chiesa sarebbe stata colpita da imperitura vergogna per questa ferita mai rimarginata. Avrebbe così dato lo stesso nome e numero ad altro Papa proprio per cancellare ogni traccia di quell’altra intrusa.

          Naturalmente sulla vicenda, durante la Riforma, si speculò molto, anche con racconti che ridicolizzavano il Papato (insisto: non serviva proprio la Papessa per dare discredito a quella congrega di criminali). Tra i molti racconti, tutti spacciati per la vera storia della Papessa, che fiorirono uno in particolare merita attenzione ed è quello del luterano italiano Pier Paolo Vergerio che nel 1557 che, nel suo Historia di papa Giovanni VIII che fu meretrice e strega, dimostrò essere la Papessa una negromante, strega e prostituta. I cattolici, dapprima non reagirono ma poi si schierarono all’unisono (senza essere troppo convincenti) sulla storia della papessa come leggenda utile al discredito. In tal senso lavorò Onofrio Panvinio che nel 1563 riprese in mano le Vitae del Platina, ne fece una nuova edizione opportunamente annotata nel senso della leggenda a discredito. Sia il racconto di Vergerio che la parte della riedizione delle Vitae di Panvinio si possono leggere in Rendina [7].

PAPA FORMOSO E LA PRIMA DONNA CHE GUIDERA’ IL VATICANO

          Abbiamo visto che il vescovo di Portus, Formoso, era stato scomunicato nell’876 per aver cospirato contro Papa Giovanni VIII a favore del partito filotedesco. Il Papa, solo due anni dopo, gli tolse la scomunica a patto che restasse lontano da Roma. Poi venne Papa Martino I (882-884) che nell’883 restituì a Formoso la diocesi di Portus. A Martino successe Stefano V (885-891) e, nonostante l’impedimento dovuto a l’essere vescovo di altra diocesi e quindi impossibilitato a diventare vescovo di Roma e grazie ai miracoli della corte pontificia, Formoso fu eletto Papa senza che nessuno avesse nulla da obiettare.

          La situazione politica impose a Formoso di incoronare suo malgrado, nell’892, il giovanissimo figlio di Guido di Spoleto (morto nell’894) e di Ageltrude di Benevento, Lamberto II, ad Imperatore del Sacro Romano Impero. Formoso si rivolse al carolingio Arnolfo di Carinzia (figlio illegittimo di Carlomanno di Baviera, a sua volta figlio di Ludovico II il Germanico – perché dal padre fatto sovrano di Baviera, Carinzia e Boemia – , figlio di Ludovico il Pio e fratello di Lotario I), nel frattempo divenuto Re dei Franchi Orientali e (896) Imperatore del Sacro romano Impero germanico, affinché intervenisse in Italia per togliere di mezzo Lamberto II di Spoleto. Arnolfo si mise in marcia su Roma. E mentre Lamberto II aveva rinunciato alla sua difesa, la stessa cosa non aveva fatto sua madre, l’energica Ageltrude (figlia di Adelchi, duca di Benevento), che sperava di resistere ad Arnolfo. A Roma i filospoletini, i toscani e tutti coloro che osteggiavano l’intervento di uno straniero in Italia iniziarono una vera rivolta molto violenta durante la quale si riuscì a catturare ed imprigionare Formoso. L’anima e l’ispiratrice della rivolta era Ageltrude. Ma vi era una grande sproporzione di forze ed in un sol giorno le truppe di Arnolfo entrarono dentro la città Leonina liberando il Papa dalla prigione di Castel Sant’Angelo.

          Arnolfo restò poco a Roma perché voleva farla finita con gli spoletini. Marciò (896) su questa città ma, durante il tragitto, fu vittima di un colpo apoplettico che lo paralizzò. Fu un bel colpo assestato da Ageltrude che aveva pagato una prostituta perché gli propinasse un veleno. Si dovette rinunciare a Spoleto per tornare in fretta a Ratisbona, dove dopo 4 anni morì (899) divorato dai vermi, come scriverà lo storico Liutprando, vescovo di Cremona, che incontreremo ancora) non prima di aver assistito agli insani, provocanti ed osceni congiungimenti di sua moglie Uta che gli dette vari attacchi di gelosia e vari bastardi. Quella paralisi di Arnolfo ridiede vita agli spoletini che tornarono a dominare a Roma. Ageltrude con suo figlio Lamberto tornarono a Roma riprendendo la città con il piglio ed il carattere di Ageltrude che governò come una papessa la città ed i vasti possedimenti della Chiesa. Qualche settimana dopo la partenza di Arnolfo e poco dopo il ritorno degli spoletini, Formoso morì avvelenato (4 aprile 896). Scrive Gregorovius:

La morte di Formoso fu il segnale che scatenò a Roma una lunga serie di disordini e di tumulti. La fazione tosco-spoletina si impadronì del potere e il soglio di Pietro, divenuto preda dei nobili, fu occupato da papi che si avvicendarono l’uno all’altro con rapidità vertiginosa e, appena elevati, piombarono, grondando sangue, nelle loro tombe. Il papato … precipitò miseramente nell’abisso, travolto dalla generale rovina di tutte le istituzioni politiche. Lo stato ecclesiastico cadde in preda a migliaia di mani rapaci e persino il prestigio spirituale dei papi non fu più che vuota forma priva di effettiva potenza. Tenebre sinistre avvolgono la Roma di allora, rischiarate appena da timidi e incerti barlumi che qua e là si diffondono dalle cronache antiche a illuminare quest’epoca oscura; orrendo scenario sullo sfondo del quale si stagliano potenti i baroni, che ora si fanno chiamare consoli e senatori. i papi scellerati e violenti, che escono dalle file di quelli, donne bellissime, feroci e lascive, e larve imperiali che sorgono e lottano per poi scomparire nel nulla. E tutte queste visioni scorrono rapidissime innanzi allo sguardo e le une mettono in fuga le altre incalzandosi in precipitoso tumulto.

L’avvelenamento di Formoso si realizzòper evidente interessamento di Ageltrude che solo qualche giorno dopo, l’11 aprile, fece eleggere Papa Bonifacio VI, un semplice prete già scomunicato un paio di volte e figlio di un vescovo di nome Adriano. Ed il povero fantoccio durò solo 15 giorni seguito da un’altra creatura di Ageltrude, Stefano VI (896-897), figlio del prete  romano Giovanni, che fu tenuto al guinzaglio ubbidendo ad ogni volere della donna fino al punto di realizzare una delle cose più oscene che si possano ricordare e che possono uscire solo dalla mente contorta di un Papa, soprattutto se ben consigliato. Dopo che Ageltrude ebbe fatto incoronare imperatore in pompa magna suo figlio Lamberto, impose a Stefano di mettere in piedi un processo solenne contro colui che aveva osato mettersi contro di lei, contro il defunto Formoso, per il fatto che, come ho ricordato, fu eletto vescovo di Roma essendo già vescovo di Portus. Scrive Gregorovius:

il morto fu citato di fronte al tribunale di un sinodo. Si era nel febbraio o nel marzo dell’897. … I cardinali, i vescovi e molti altri dignitari ecclesiastici si riunirono [in San Giovanni in Laterano]. Il cadavere del pontefice, strappato al sepolcro in cui riposava già da diversi mesi, fu abbigliato con i paramenti papali e messo a sedere su un trono nella sala del Concilio. L’avvocato di papa Stefano si alzò in piedi e rivolgendosi a quella mummia orrenda, al cui fianco se ne stava tutto tremante un diacono che fungeva da difensore, le notificò i capi d’accusa. Allora il papa vivente chiese al morto con furia dissennata: «Come hai potuto, per la tua folle ambizione, usurpare il seggio apostolico, tu che pure eri già vescovo di Portus?». L’avvocato di Formoso addusse qualcosa in sua difesa, sempre che l’orrore gli abbia permesso di parlare; il cadavere fu riconosciuto colpevole e condannato. il sinodo sottoscrisse l’atto di deposizione, dannò il papa in eterno e decretò che tutti coloro ai quali egli aveva conferito gli ordini sacerdotali, dovessero essere ordinati di nuovo. I paramenti furono strappati di dosso alla mummia; le tre dita della mano destra, con cui i Latini impartiscono la benedizione, furono recise, e con urla selvagge il cadavere fu trascinato via dalla sala, attraverso le strade di Roma e gettato infine nel Tevere tra le grida di una folla immensa. I fulmini celesti, che pure tanto spesso si erano prestati a operare prodigi in favore dei papi, non caddero questa volta sul «sinodo dell’orrore»; né i martiri si levarono sdegnati dai loro avelli …

Rendina [6] aggiunge qualche particolare sul processo al cadavere di Formoso:

È stato tirato fuori dalle grotte del Vaticano a pezzi, ricomposto con le ossa strette l’una all’altra con tratti di corda; questa macabra figura è stata messa a sedere sul trono pontificio, abbigliata con i paramenti papali che si reggono a stento sullo scheletro.

E per tre giorni il Laterano è off limits. Il primo giorno si svolge l’esposizione dei capi di accusa. Tre vescovi fanno da pubblici accusatori, alternandosi nella requisitoria; sono Pietro di Albano, Silvestro di Porto e Pasquale di una sede vescovile ignota. L’indice della mano destra ben teso verso il teschio di quel cadavere, i vescovi rievocano il suo stato di scomunica da parte del papa Giovanni VIII, per una non ben precisata “immoralità”, tanto da essere privato della dignità episcopale, e fino alla sua reintegrazione come vescovo di Porto, sì, ma votato ad appoggiare apertamente il partito filogermanico. E si registra l’intervento diretto del papa Stefano, istigato da Ageltrude. Che si alza in piedi e con furia dissennata gli urla: «Come hai osato, per la tua folle ambizione, usurpare il seggio apostolico, tu che pure eri già vescovo di Porto?». Ovviamente non c’è risposta da parte del cadavere.

Il secondo giorno c’è l’intervento del difensore d’ufficio, nominato da Ageltrude. È un diacono, e questo già lo squalifica di fronte a un cardinale in veste di pubblico accusatore; oltretutto si presenta tutto tremante e la sua arringa difensiva è fin dall’inizio interrotta da interventi, quanto mai illegali, del pubblico accusatore fino a rendere frammentaria la sua requisitoria. Tanto più che l’accusa è ineccepibile: chi è capo di un episcopato, come appunto Formoso, non può essere contemporaneamente eletto vescovo di Roma. Eppure il diacono si fa coraggio a tratti, e prova a dare una giustificazione, adducendo casi analoghi verificatisi in passato e sui quali non si è mai avuto a che dire. Gli viene risposto direttamente da Stefano VI che quelle citazioni sono fuori luogo, perché è noto che costituiscono altri casi illegali.

Il difensore insiste nel sostenere che quelle elezioni sono state comunque riconosciute valide e quindi anche l’elezione di Formoso si era svolta secondo i canoni; e qui piovono risate da parte dei vescovi, che suonano come ostilità belle e buone. Sulle quali si leva di nuovo tonante la voce di Stefano VI: «Era secondo i canoni? Ma adducere inconveniens non est solvere argumentum!». Come a dire: se ci sono stati usurpatori non puniti, questo non giustifica Formoso. Il che suona come una sentenza inconfutabile. Formoso è stato un usurpatore. È stato? Meglio: è.

Il terzo giorno si ha la sentenza, formulata da tutta l’asssemblea e redatta da Stefano VI. Il cadavere viene riconosciuto colpevole e condannato a essere destituito dalla carica di sovrano pontefice, perché illegalmente ricoperta. Un applauso si leva da tutte le scranne. Il sinodo sottoscrive l’atto di deposizione del pontefice, deliberandone la dannazione per l’eternità; tutti i suoi decreti vengono ritenuti nulli e così ogni ordinazione sacerdotale, per cui preti e diaconi dovranno essere riconsacrati.

In conformità con il protocollo del processo, si ha l’applicazione della sentenza sullo scheletro. Alcuni cardinali si alzano e strappano di dosso alla mummia i paramenti pontificali; le tre dita della mano destra, con cui i Latini impartiscono la benedizione, ovvero il pollice, l’indice e il medio, gli vengono recise. E sono altri applausi. Finché il cadavere viene buttato giù dal trono e trascinato fuori della basilica da un gruppo di diaconi. Agli applausi ora subentrano urla selvagge che salgono verso il cielo di Roma, da parte della folla che si accalca attorno al cadavere ormai ridotto in frammenti. Gli stessi diaconi vengono sommersi dalla folla, che s’impossessa dei pezzi di quello scheletro e dei pochi brani di carne.

A questo punto Ageltrude, suo figlio Lamberto, Stefano VI, i cardinali, i vescovi, il clero tutto e i maggiorenti riuniti nella basilica non hanno più voce in capitolo. Ormai la fa da giustiziere il popolo romano, invasato com’è da un odio verso quel cadavere papale, nel vortice di maledizioni e bestemmie che impreca trascinandone i resti. Fino al Tevere, dove vogliono che quel papa odioso sia gettato e sommerso nel fango. Ed è quanto mettono in atto.

Commenta Deschner [1]:

Ma forse non è tanto il fatto in sé, non è tanto l’idea di un Santo Padre divorato da odio difficilmente concepibile ciò che più sbalordisce in una vicenda che fa pensare allo scenario di una clinica psichiatrica, ad un incubo, quanto piuttosto il fatto che a questo “spirituale” consesso degli orrori assistesse per tre giorni un’intera assemblea di vescovi – fosse o non fosse riverente. Come del resto, in questo contesto, è del tutto irrilevante se Formoso fosse stato un furfante, oppure no! All’umanità, questo è certo, si può offrire davvero di tutto, a maggior ragione ai credenti… […]

Purtroppo, il capitolo 7 del sinodo di Ravenna dispose di distruggere col fuoco gli atti del sinodo del cadavere. Sempre, tuttavia, questa Chiesa ha bruciato volentieri persone, templi, scritti; più di tutto, sistematicamente e fin dall’inizio, trattati scritti da “eretici”, ma anche testi di pagani e di ebrei; persino le infamie note e documentate negli atti […] E va da sé che questo dare alle fiamme non fu mai vietato nella comunione dei santi. Al contrario, si proibì ciò che parla per sé e da sé – vietato senz’ambagi nel capitolo I dell’assemblea di Ravenna, e per tutti i tempi futuri – di citare in giudizio i defunti.

Ed iniziano qui le leggende. Vi fu un crollo della vetusta Basilica di San Giovanni che venne interpretato dalla popolazione come una vendetta divina; fu ritrovato tre giorni dopo il cadavere arenatosi intatto su una riva del Tevere a circa 20 miglia di distanza; un monaco lo raccolse per dargli sepoltura; la notizia si diffuse ed il popolo (anche nelle leggende trattato come bue) si pentì di aver sostenuto ed applaudito quel processo; Formoso venne riabilitato da costoro mentre Ageltrude riuscì a non apparire in questa vicenda. La conclusione finale fu l’assassinio di Papa Stefano V. Venne catturato, spogliato degli abiti pontificali e strangolato. Ageltrude non fece nulla per difenderlo e si comportò come se anche lei avesse del rancore verso questo Papa che era meglio morisse perché aveva ormai esaurito il suo compito ed era opportuno che sparisse dalla faccia della Terra. Poteva muoversi con questa disinvoltura perché sapeva di avere in mano le redini della Chiesa tanto è vero che subito fece eleggere il successore di Stefano, Romano che si dilettava sessualmente sia con Ageltrude che omosessualmente con molti giovanetti del suo seguito. Costui durò solo 4 mesi nei quali riabilitò Formoso. Fu forse anche a seguito di questa azione che Romano sparì dalla scena senza lasciare traccia. C’è chi ipotizza sia stato costretto a rinchiudersi in un convento ferma restando l’altra onnipresente ipotesi, l’avvelenamento. Ma Ageltrude aveva infinite risorse e subito impose un altro suo uomo come Papa, Teodoro II. Costui durò solo 20 giorni e sembra sia stato fatto assassinare per strangolamento da una nuova fazione di nobili che impetuosamente si stava facendo strada a Roma, quella dei Conti di Tuscolo che avevano un potente rappresentante nella gerarchia ecclesiastica, il cardinale Sergio.

          Questo assassinio colse di sorpresa Ageltrude ed inizia a mostrare la decadenza del suo potere. Ella non controlla più tutto. Su di lei si abbatte poi, quasi simultaneamente, la più grande disgrazia, la morte misteriosa del figlio Lamberto (898) che sembra sia stato ucciso per vendetta dal figlio di un conte filo germanico che aveva fatto giustiziare qualche tempo prima. In proposito scrive Deschner [1]: il vescovo Liutprando di Cremona rivela ciò che altre fonti antiche confermano, cioè che l’incidente fortuito era stato simulato e che l’imperatore, in realtà, era stato assassinato. Nei pressi di Marengo in un bosco “di insolita grandezza e bellezza, particolarmente adatto alla caccia” lo avrebbe ucciso, durante un breve riposo, il suo accompagnatore Ugo, il figlio del conte milanese Maginfredo ucciso da Lamberto, per vendicare la morte di suo padre; e più tardi l’avrebbe pure confessato. Scrive il vescovo Liutprando: “Ugo non ebbe paura della dannazione eterna, spezzando il collo del dormiente con tutte le sue forze, e con l’aiuto di un grosso ramo. Si guardò bene infatti dal trafiggerlo con la spada, affinché la prova dell’arma non lo tradisse come reo del delitto”. Questa perdita di potere fu resa evidente dal successore di Teodoro, Giovanni IX (898-900), che era filo germanico e quindi non più nell’orbita di toscani e spoletini.

          Ageltrude non aveva più la forza di lottare e si ritirò in convento dove da giovane era stata. E ricca come era divenne badessa. L’ultimo convento dove si trasferì fu quello di una località che oggi è nota come Salsomaggiore. Si hanno sue notizie fino al 923 quando fece donazione dei suoi beni ingentissimi per la costruzione di un altare che ricordasse suo marito Guido. Cosa sia poi accaduto di lei non si sa.

LE DELIZIE DELLA POLITICA

          Facciamo ora il punto della situazione politica che è complessa perché in tempi brevi si hanno cambiamenti repentini di fronte, di schieramenti, di posizioni. Non aiutano a stabilizzare una qualche situazione le morti repentine ed anche violente di vari attori. Ma limitiamoci all’essenziale.

          Con la morte dei Papi Stefano VI, Romano e Teodoro II, sembrava fosse in declino l’influenza spoletina. L’elezione a Papa di Giovanni IX sembrava un segnale in tal senso in quanto il personaggio era di origine germanica e quindi potenzialmente un filo germanico, quindi favorevole all’influenza imperiale esterna all’Italia. Ed  ancora in tal senso andava l’iniziativa della riabilitazione di Formoso con il perdono dei vescovi sinodali che avevano solo sottoscritto gli atti di Stefano ma con la scomunica di tutti coloro che avevano agito materialmente contro il cadavere al seguito del capo di quella banda, il potente cardinale Sergio, vicino ai Conti di Tuscolo e sostenuto dai marchesi di Toscana (dai quali trovò rifugio dopo la scomunica) pronti a trovare una qualsiasi occasione per attaccare Roma. Giovanni IX cercava una protezione per la Chiesa che non fosse momentanea e, nella situazione che si viveva, tutto era incerto. Non ci si poteva affidare alla Germania di Arnolfo che era ancora molto malato (poi morto nel novembre 899), neppure si poteva pensare alla Francia in una situazione di lotte incontrollabili per interminabili problemi di successione e, probabilmente suo malgrado come del resto Formoso aveva fatto, Giovanni dovette affidarsi al giovane Lamberto II di Spoleto, già incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero da Formoso, riconfermandogli l’incoronazione (Lamberto ringraziò restituendo le terre che suo padre Guido aveva sottratto alla Chiesa). Tutto sembrava marciare verso una situazione che tendeva a stabilizzarsi con una gestione italiana dell’Italia. Ma il giovane Lamberto ebbe la cattiva idea di morire cadendo da cavallo. Altro evento destabilizzante fu l’invasione d’Italia dei barbari Ungari che ripeterono le prodezze degli alti barbari invasori distruggendo, rapinando e violentando. In particolare sconfiggendo sul campo un altro nobile italiano, Berengario, marchese del Friuli e in qualche modo di famiglia carolingia in quanto sposo di Elletrud una delle figlie di Lotario, nipote di Ludovico il Pio a sua volta figlio di Carlo Magno ed Ermengarda, ed unico erede legittimo al trono. Regnò dall’814 alla sua morte nell’840 quando iniziarono le faide familiari alle quali dette un gran contributo suo figlio Lotario I. Berengario aveva la pretesa di sostituire al trono imperiale gli spoletini ormai scomparsi. Egli, in passato e per lo stesso fine, aveva lottato con Guido di Spoleto per l’incoronazione e nell’888 era riuscito a farsi incoronare Re dei Lombardi per il tempo necessario a Guido di tornare dalla Francia, cacciarlo e farsi incoronare nell’889 Re d’Italia. Fu in questo periodo di vuoto di potere e, soprattutto, di alleanze certe che discese in Italia (900) il giovane Re di Provenza, Ludovico nipote di Ludovico II (figlio di Lotario, a sua volta figlio di Ludovico il Pio, ed allora pronipote di Carlo Magno) e quindi ancora un discendente della stirpe carolingia, e che a Roma fu accolto come liberatore. Intanto, senza poter assistere a questi eventi, moriva nel gennaio del 900 Giovanni IX. A questo Papa successe Benedetto IV (gennaio o febbraio 900) che come primo atto politico di importanza incoronò Ludovico di Provenza come Imperatore con il nome di Ludovico III. Quest’ultimo nominò subito suoi rappresentanti (iudices) a Roma alcune importanti personalità delle più influenti famiglie della città e dintorni, tra cui Teofilatto e Crescenzio. Purtroppo il nuovo imperatore fu una delusione. A fronte degli Ungari che premevano al Nord, dei Saraceni che dilagavano al Sud, con il sostegno dei potentati di Napoli e Gaeta che commerciavano con loro, e di Berengario che ancora premeva per la corona, Ludovico III agì solo contro Berengario e senza curarsi d’altro se ne ritornò in Provenza. Di nuovo l’Italia era terra di conquista per chiunque e senza difese. In questa situazione morì Benedetto IV (luglio 903) a cui successe Leone V che però durò solo un mese perché deposto dal cardinale Cristoforo che lo fece imprigionare e quindi uccidere in carcere (settembre 903) per farsi nominare Papa (è considerato un antipapa). Il regno di costui durò fino a gennaio del 904 quando il cardinale scomunicato Sergio rientrò dall’esilio trascorso presso i Marchesi di Toscana e fece rinchiudere in convento, dove non si seppe più nulla di lui, il cardinale-papa Cristoforo (sembra sia stato fatto strangolare dal cardinale Sergio).

          Il cardinale Sergio (tra l’altro forse fratello di Papa Adriano III ed ancora forse fratello di Teofilatto), che abbiamo visto legato ai Marchesi di Tuscia e quindi di Toscana e agli spoletini, tornato a Roma con l’aiuto di Alberico I, marchese di Spoleto e Camerino, alla testa di un contingente armato e sostenuto in ogni sua azione da Teofilatto, riuscì a sbarazzarsi via via di tutti i suoi avversari, a far uccidere tutti i cardinali a lui contrari e sgominato tutte le fazioni che gli erano ostili fino a farsi eleggere Papa con il nome di Sergio III (904-911). Prova di quanto detto è proprio l’insolito (per l’epoca) lungo suo periodo di pontificato.

I CONTI DI TUSCOLO  

         Tusculum (Tuscolo) era una cittadina su un colle dei Castelli Romani, sopra l’attuale Rocca Priora. Le sue origini sono remote ed addirittura precedenti alla fondazione di Roma. Chi si reca oggi a Tuscolo trova un parco in una zona archeologica dove si vanno a fare delle passeggiate nei fine settimana. Qualche antico muro sporge qua e là … e basta. Eppure questa fu la roccaforte di una famiglia potentissima che ebbe in mano il Vaticano per parecchi anni, i Conti di Tuscolo. Prima di accennare alla storia di questa come di altre famiglie potenti dei dintorni di Roma, debbo dire che la potenza di tali famiglie era sempre legata a doppio filo a qualche parente che riusciva ad entrare nelle gerarchie ecclesiastiche. Da qui venivano incarichi importanti e ben remunerati, da qui venivano cessioni di terre. Chi conosce Roma sa che ancora oggi paghiamo queste vicende. Infatti l’immensa campagna romana e tutti i paesi limitrofi sono di proprietà degli eredi di Papi, Cardinali e potentati vaticani. Naturalmente sono diventati tutti Conti, Duchi, Principi e così siamo circondati da sporchi arricchiti per grazia divina  (è il caso di dirlo) che ancora oggi condizionano la crescita della città (Torlonia, Massimo, Colonna, Borghese, Barberini, Colonna, Orsini, Sacchetti, Gaetani, Ruspoli, Chigi, Alodobrandini, Pallavicini, Odescalchi; Patrizi, Gabrielli, Altieri, Soderini, …). Costoro sono proprietari di immense tenute e da ricchissimi qual sono, ostentano naturalmente amicizie con politici che contano, o forse è meglio dire che questi politici diventano potenti ed influenti solo se la nobiltà citata (nota, come già detto, con il nome di nobiltà nera) lo permette loro. Queste aree sarebbero agricole ma, all’uopo, quando i politici di cui sopra cambiano i piani regolatori, diventano edificabili. I guadagni diventano infiniti da spartirsi tra nobiltà nera, costruttori fedeli e politici infami. E la nobiltà nera sa anche ben gestire il suo infinito patrimonio infatti non lo mette tutto intero sul mercato in modo, ad esempio, che si possa fare un piano urbanistico su larga scala, ma a piccoli pezzi in cui crescono palazzoni indegni senza servizi ed in particolare utilizzando le vie di comunicazione che utilizzavano gli antichi romani o qualche contadino e pastore. Mi fermo qui e torno ai Conti di Tuscolo con la sola avvertenza che ormai non è individuabile una destra piuttosto che una sinistra al servizio di questa oscena sarabanda perché da molti anni si è originata una rincorsa a chi è più servizievole.

          A Tuscolo arroccata in una inespugnabile fortezza, visse una potente famiglia di signori feudali e di una nobiltà risalente  ad epoca bizantina il cui capostipite fu un tal Teofilatto (morto nel 924) che aveva stretti rapporti con la Chiesa che gli aveva assegnato molti e prestigiosi incarichi. In differenti documenti risulta che egli fosse capo dell’amministrazione papale, sacri palatii vestatarius (tesoriere), duca, magister militum (soprintendente all’esercito), dominus urbis, senator romano rumconsul e dux. Inoltre, abbiamo ora visto che Ludovico III aveva nominato tra gli iudices, oltre a Crescenzio (di cui parlerò più oltre), proprio Teofilatto, capostipite dei Conti di Tuscolo.

TEODORA E MAROZIA

          Questo nobile personaggio, Teofilatto, era sposo di una donna (non so bene come aggettivarla: prostituta di alto rango, lussuriosa, opportunista, virago, arrivista, politica accorta, donna dissoluta, bellissima e rotta a tutti i vizi, certamente molto intelligente, …) chiamata Teodora I (l’ordinale è solo per distinguere costei da altre Teodora che seguiranno) che era vestarissa, condivideva cioè la tesoreria vaticana con il marito. Ebbene questa Teodora, definita da Liutprando scortum impudens (puttana spudorata … che esercitò il suo potere nella città di Roma peggio di un uomo… che chiavava prelati e cardinali per governare e ottenere favori) e Veneris calore succensa (infiammata dal calore di Venere), è colei che inizia un lungo periodo in cui le donne, materialmente con il loro sesso, hanno deciso i destini dei Vicari di Cristo tenendoli appesi alle più lascive voglie in cambio di uno sconfinato potere. Teofilatto e Teodora I ebbero due figlie, Maria (della Mariozza e quindi nota come Marozia) e Teodora II (oltre ad una Sergia che in qualche modo ricorda il forte legame di Teofilatto e Teodora con Papa Sergio III, e due figli, Teofilatto II e Bonifacio) che seguirono gli insegnamenti della madre superandola in ogni lascivia e crimine finalizzato al potere. Dall’insieme di questi personaggi con altri al contorno iniziò quel lungo periodo della Chiesa che va sotto il nome di pornocrazia (oggi ripreso ma in tono infimamente minore dalla mignottocrazia di Berlusconi).

          Siamo nel momento in cui, con il fattivo sostegno di Teofilatto, viene eletto Papa Sergio III che, tra l’altro, era imparentato con i Conti di Tuscolo. Cosa fa come primo atto questo rappresentante di Dio in terra ? Ricondanna di nuovo Formoso, di nuovo lo fa dissotterrare, gli fa strappare altre dita, lo fa decapitare e di nuovo gettare nel Tevere finché ancora di nuovo un pescatore lo ritrova impigliato in una rete e lo riporta in Vaticano. Ma queste sono sciocchezze se confrontate con il fatto che Teofilatto, come racconta il discusso storico Liutprando da Cremona (circa 920 – 972) nel suo Antapodosis (ovvero: Libro delle retribuzione dei re e dei principi d’Europa) da cui derivano tutte le notizie che seguono, spinse la bellissima figlia quattordicenne, Marozia, tra le braccia di Sergio che, amorevolmente e caritativamente, le strinse forte in Laterano in un afflato pedofilo che solo i Papi sanno comunicare. E neanche a dire che Marozia, per ciò che si sa, soffrisse molto perché l’educazione sentimentale ricevuta dalla madre la faceva vittima felice, tanto felice che da Sergio III ebbe un figlio che ritroveremo come Papa Giovanni XI. Il felice incontro lo fu anche per la famiglia e l’abile Teodora iniziò a sfruttarlo facendo fare carriera al suo amante, un diacono emiliano, facendolo prima nominare vescovo di Bologna, quindi, non andando per il sottile con la violenza, Arcivescovo di Ravenna in preparazione del papato a Roma perché la svergognata sgualdrina, infiammata dal calore di Venere, s’innamora della prestanza del sacerdote e con lui non volle solo fornicare ma costringervelo poi sempre di continuo (Liutprando) e quindi lo voleva più vicino per poter dare sfogo alle oscene voglie. Intanto Marozia poteva soddisfare le sue voglie con quell’Alberico I di Spoleto e Camerino che aveva dato una mano al suo amante pedofilo nella presa del potere. I due si sposarono nel 905 (ebbero 4 figli) ed Alberico poté iniziare la sua scalata al potere della città. Intanto quel Ludovico III di Provenza, inutile Imperatore, si ricordò della sua Italia: varcò le Alpi per tornare a Roma ma, questa volta fu sconfitto dal solito ambizioso Berengario che lo fece prigioniero, lo accecò e lo rispedì in Provenza. Ma le aspirazioni di Berengario, anche stavolta, non ebbero successo perché la nobiltà romana non vedeva ormai di buon occhio un Imperatore straniero. Nel 911 Sergio tirò le cuoia e venne sostituito da Anastasio III che, vista la tranquillità del suo papato, non dovette discostarsi di molto dalle direttive di Teofilatto e famiglia. Nel 913 anche Anastasio morì cedendo il posto per soli 6 mesi a Papa Landone che si dovette ancora assuefare ai voleri della potente famiglia dei Conti di Tuscolo. Rendina [6], a proposito di questi ultimi due Papi, riporta la seguente insinuazione: sono morti perché non hanno retto alle fottiture indemoniate di Teodora, così che le sono spirati tra le braccia. Landone lo fa fuori lei stessa, aiutandolo a morire; lo strozza mentre quello gode sdraiato sul letto sotto di lei. Ormai le è d’impaccio, perché Teodora vuole mettere sul trono pontificio il suo giovane amante … con il nome di Giovanni X. Scrive invece Gregorovius: Teofilatto e poi Alberico, o meglio le loro donne, che per molto tempo tennero in loro poter la città, segnarono a Roma l’avvento di una nuova epoca storica. La storia dei papi, nella quale come in un chiostro o in un tempio dovrebbero entrare soltanto sante donne, ricevette a causa di queste femmine intriganti e procaci una impronta nettamente profana. Perciò si è voluto marchiare questo fosco periodo di Roma con un’espressione, forse esagerata, che con gretta malignità alcuni scrittori hanno voluto rendere ancora più caustica; sicché anche per i cattolici, disgustati e indignati, la Chiesa romana di quell’epoca è diventata un “bordello”. E non si creda che bordello sia riferito solo al Vaticano e al Laterano perché moltissime sedi vescovili erano interessate all’uso del sesso per maggiore gloria di Gesù.

          Finalmente era venuto il turno per accedere al soglio pontificio dell’amante di Teodora che, insieme al marito Teofilatto (un gran Lenone ?), riuscì a far eleggere nel 914 quel personaggio come Papa Giovanni X. Non sembra comunque che questo Papa fosse un prono ed ubbidiente Papa ai voleri dei suoi benefattori. Prova ne è che, nel suo lungo pontificato, egli disattese le aspirazioni dell’aristocrazia romana per nominare nel 915, finalmente !, quel Berengario come Imperatore, restaurando così la tanto detestata (dai potenti romani) autorità imperiale, anche se solo di un italiano (mentre Ludovico III, cieco, se ne restava rintanato in Provenza). Berengario fu preferito perché Giovanni non voleva un imprevedibile straniero. Meglio era un debole italiano sul quale poter contare, anche se debole politicamente e militarmente. Uno dei problemi che tentò di risolvere Giovanni era quello delle scorribande saracene nella Campagna romana, nella Tuscia e nella Sabina. Questi banditi avevano già fatto danni terribili alle nostre città. In particolare avevano provocato la distruzione del convento imperiale di Farfa in Sabina; erano poi entrati nella Valle dell’Aniene da Trevi, quindi Jenne e Subiaco attaccando di nuovo i monasteri benedettini; avevano poi proseguito lungo il corso dell’Aniene fino a Tivoli e da lì minacciando Roma; avevano costruito una loro base in cima ad un monte che dominava gran parte della Valle, luogo ancora oggi chiamato Saracinesco. Insomma la minaccia di attacchi saraceni incombeva ovunque in ogni momento mettendo, per quel che riguarda Roma e la Chiesa, a rischio i pellegrinaggi ed in particolare i doni e le offerte che regolarmente venivano sequestrati. Occorreva por fine a ciò con un esercito al quale Berengario fornì truppe che, insieme a quelle toscane del marchese Adalberto, a quelle di Alberico di Spoleto (marito di Marozia) ed al sostegno fondamentale dei bizantini, costituirono una forza imponente in grado di sconfiggere i Saraceni. Insieme all’iniziativa militare vi fu anche quella diplomatica con i duchi di Gaeta, Napoli, Benevento e Salerno che furono convinti a smetterla di commerciare con i Saraceni e di bandirli dal loro territorio in cambio degli ambiti titoli di “patrizio della Chiesa”  e di alcuni territori. I Saraceni dovettero andarsene dalla Campania ammassandosi sul fiume Garigliano dove nel 916 furono duramente sconfitti dalle truppe messe insieme da Giovanni.

          Alberico, che aveva personalmente partecipato alla battaglia contro i Saraceni, divenne a Roma personaggio noto e molto influente. Ma ciò non bastava. Con sua moglie Marozia aspettava il momento di prendere direttamente il potere ma Berengario rappresentava un ostacolo che sembrava insormontabile. Poi accadde qualcosa che cambiò radicalmente le carte in tavola e fece ripiombare Roma e l’Italia nell’incertezza e nel caos. Vi fu una rivolta contro Berengario nata dall’alleanza dei marchesi di Toscana e dei nobili Lombardi. La rivolta era guidata dal Marchese Adalberto d’Ivrea che era sposato con Gisella, la figlia di Berengario. Si trattava quindi di una faida di famiglia. I rivoltosi marciarono in armi contro Berengario chiedendo che se ne andasse lasciando il posto a Rodolfo di Borgogna. Berengario non avrebbe retto a questo scontro e per difendersi chiamò in aiuto i barbari Ungari i quali intervennero depredando, distruggendo, violentando e saccheggiando. Rodolfo si spaventò e tornò in Borgogna mentre Berengario finì assassinato (924). Scrive Gregorovius:

L’Italia precipitò nel caos della più selvaggia anarchia: le città erano date alle fiamme e sulle loro rovine i brutali Ungari celebravano baccanali; gli abitanti fuggivano verso luoghi solitari e selvaggi; re, vassalli e vescovi scatenavano tremendi conflitti per accaparrarsi brandelli di potere; donne avvenenti dai volti atteggiati a insolente esultanza sembravano guidare come menadi quelle ridde feroci. Le cronache del tempo o quelle di poco posteriori sono così oscure che il ricercatore vi si smarrisce come in un labirinto; esse tacciono di Alberico. Se è nella natura delle cose che un uomo dalle mire ambiziose colga ogni occasione favorevole per accrescere la propria potenza, abbiamo ottime ragioni di ritenere che Alberico fosse incitato a perseguire la sua mèta dalla smodata vanità della moglie Marozia e che, dopo la morte dell’imperatore, egli aspirasse al patriziato di Roma, rimasto vacante. Possiamo perciò prestar fede a quanto affermano i cronisti posteriori: staccatesi dal pontefice, Alberico si sarebbe impadronito di Roma e l’avrebbe governata dispoticamente sino a che Giovanni, valendosi abilmente dell’appoggio dei Romani, non fosse riuscito a scacciare lo straniero dalla città. Alberico si sarebbe rifugiato ad Orte, il più importante dei suoi domini e avrebbe chiamato in aiuto le soldatesche ungare; ma infine, assediato nel suo castello dai Romani, sarebbe stato ucciso. L’unica cosa certa, comunque, è che in quel tempo le orde magiare devastarono la Campagna romana e che dopo di allora si spinsero ripetutamente fin sotto le porte della città.

La fine di Alberico è avvolta nell’oscurità; ma un suo figliolo, più fortunato del padre, ne avrebbe ereditato il nome, l’ambizione, l’audacia e l’astuzia e, di lì a poco, si sarebbe realmente impadronito di Roma e dei suoi abitanti.

Intanto nel 926 a Pavia si ebbe l’incoronazione a Re d’Italia di Ugo di Provenza, reclamato dai nobili italiani in luogo dell’incapace Rodolfo. Va qui ricordato che Rodolfo era il fratellastro del Marchese Guido di Toscana il cui padre, il marchese di Toscana Adalberto II il Ricco, era il nipote di Guido di Spoleto e la cui madre, Berta, era la figlia di Lotario II.  La vicenda della cacciata di Rodolfo e della sua sostituzione con Ugo richiede qualche parola in più. Allo stesso modo in cui Rodolfo ottenne la corona d’Italia, tre anni dopo la perse a seguito di un altro complotto, questa volta guidato dalla seconda moglie ed ora vedova, Ermengarda, del Marchese Adalberto d’Ivrea (quello che aveva guidato al complotto contro Berengario ed a favore di Rodolfo). Ermengarda, figlia di Adalberto II di Tuscia e Toscana e della suddetta Berta, si adoperò in ogni modo perché la corona d’Italia andasse al suo fratellastro, Ugo di Provenza, avuto dalla madre Berta e suo figlio prediletto nelle sue prime nozze con il conte Teobaldo di Provenza. Questa donna, altra bellissima ammaliatrice e dominatrice, appena restata vedova del marchese d’Ivrea, riuscì con le sue arti, il suo fascino ed i suoi intrighi a convincere i nobili di Lombardia a lavorare per i suoi interessi e quindi ad invocare il fratellastro Ugo come Re d’Italia (Gregorovius riferendosi ad Ermengarda dice: vescovi, conti e re si prostravano soggiogati ai suoi piedi). Gregorio credette di poter utilizzare questa situazione andando ad incontrare Ugo per offrirgli la corona di Imperatore ma qui si intromise abilmente Marozia che non era il tipo da ritirarsi in buon ordine: per lei il potere era indissolubile dalla lussuria e lottò con tutte le sue forze per ottenerlo. Morto il padre Teofilatto  (intorno al 924) e la madre Teodora (forse nel 928) e suo marito Alberico (in una data posteriore al 917), ella si sentì in pericolo e scappò verso Orte dove si offrì subito (925) come sposa al marchese Guido di Toscana, fratellastro di Alberico, per averlo come alleato al fine di riprendere in mano il potere sulla Chiesa allora gestita appunto da Giovanni X che si muoveva in modo libero da condizionamenti, tanto che sembra sia stato lui a far uccidere sia Teofilatto che Teodora. Il Papa capì che si tramava contro di lui e che a farlo era Marozia, riconosciuta come scaltra e pericolosa. Cercò alleanze per fermarla e riuscì solo a poter contare (a tanto era già arrivata la potenza dei Conti di Tuscolo) sul fratello Pietro a cui aveva affidato il governo di Roma. Guido, incitato dalla moglie, marciò su Roma assediando il Laterano ed in breve tempo sconfisse la resistenza di Pietro (che in un estremo tentativo di difesa si era, anch’egli !, rivolto agli Ungari) uccidendolo. Giovanni X fu arrestato e, per ordine di Marozia figlia della sua amante Teodora, fu incarcerato a Castel Sant’Angelo dove lo stesso Guido lo soffocò con un cuscino (928).

          Era il trionfo di Marozia ormai padrona di Roma e titolata come senatrix et patricia mentre il marito Guido era stato fatto consul. Fu lei che gestì mettendo ai suoi ordini i Papi che seguirono, sbarazzandosi anche con violenza di coloro che non la soddisfacevano. Ma non bastava: la nostra papessa ambiva a diventare Regina della città e lavorò a tal fine.

          Subito dopo la morte di Giovanni X, o forse quando era ancora vivo nelle segrete di Caste Sant’Angelo, non potendo ancora mettere sul Trono di Pietro il proprio figlio perché troppo giovane, venne fatto Papa Leone VI un vero inutile che durò fino a dicembre del 928. Seguì Papa Stefano VII, che durò fino al 931, altro inutile al servizio di Marozia, perché anche di inutili ci si serviva per poter fare i propri comodi senza ostacoli di sorta. Stefano VII fece la stessa fine di Landone: fu strangolato non da lei, come aveva fatto Teodora con Landone, ma da un suo fedele servitore che lo strangolò mentre godeva sul letto sotto di lei. Nello stesso anno della morte di Leone e dell’elezione di Stefano, subito dopo l’assassinio in carcere di Giovanni, moriva Guido (che lasciava il marchesato di Toscana al giovane ed ambizioso fratello Lamberto), il consul marito dell’ambiziosissima ed ormai potentissima Marozia.

          Alla morte di Stefano nel 931 venne finalmente il momento del figlio di Marozia e Papa Sergio III. Questo giovane, dell’età approssimativa di 25 anni, fu fatto Papa con il nome di Giovanni XI. L’infinita ambizione di quella donna, che doveva essere davvero di grandissima intelligenza oltre ad essere dotata di seducente bellezza unita ad una fama di amante impareggiabile, era stata premiata: ai suoi 41 anni suo figlio di 25 anni è Papa ! Un Papa che non lasciò alcuna traccia del suo operato e che, alla fine, risultò un altro fantoccio nella mani della madre. In compenso riprese tutto da mamma sua perché si accompagnò con donne bestiali e lussuriose (Liutprando) facendo del Laterano un vero bordello frequentato da suoi amichetti e da ogni depravazione. Rendina [6] racconta  uno degli infiniti episodi che videro come suino(3) interprete tanto Papa: emblematica è la disavventura di tre nobili donne di Siena, madre e due figlie, venute a Roma per rendere religioso omaggio al sovrano pontefice; Giovanni le fa arrestare e spogliare, così che per quattro giorni subiscono ogni tipo di abuso sessuale da parte del papa e dei suoi cortigiani. Ancora Rendina [1] osserva che il suo errore fu di usare i papi come fantocci; errore in cui non cadde [un altro] suo figlio Alberico II che operò nel solco di una coscienza politica cittadina, relegando i pontefici nello svolgimento dell’attività religiosa, per la quale solo mantenne l’istituzione del papato. Marozia era rimasta vedova ed in questa posizione poteva di nuovo puntare ad un matrimonio di enorme interesse. Sapeva come sedurre e sapeva di essere desiderata da tutti gli uomini. Questa volta mise al centro del suo interesse Ugo di Provenza e Re d’Italia (ed anche suo parente perché Ugo era fratello del secondo marito di Marozia, Guido). Questi aveva delle inclinazioni al potere simili a quelle di Marozia. Era un autentico libertino che passava su ogni cadavere pur di ottenere ciò a cui ambiva. Sulle prime il re Ugo eliminò parecchi grandi a lui sospetti o sgraditi. I quali vennero imprigionati, torturati, accecati, decapitati, alcuni con l’assistenza del vescovo locale Leone di Pavia: cose che “il vescovo fece di buon grado” (Deschner 1). Da Re d’Italia aveva fatto operazioni incredibili di vendita di episcopati, di monasteri e conventi ed aveva sistemato in ogni posto chiave suoi fedeli cortigiani. Era un licenzioso che abbondava in scelleratezze, in concubine ed in amanti per le quali era infiammato da turpe amore (mentre si negava a sua moglie, maledicendola ed insultandola, ma aveva un estimatore nel nostro noto Liutprando, suo cortigiano, che lo descriveva come un dissoluto capace di non darlo a vedere, per i suoi modi che, all’occhio di un superficiale, potevano sembrare cortesi ed addirittura cavallereschi. Ma Ugo aveva ambizioni sfrenate, ed era preoccupato per l’intraprendenza di Lamberto di Toscana, fratello dello scomparso Guido. Le sue mire erano come quelle di Marozia che ambiva al titolo di Regina, e per questo i due misero insieme una sorta di mutuo soccorso. Vi era però una grande difficoltà: quella parentela esistente tra i due, per il diritto canonico, rendeva incestuose le loro eventuali nozze. Marozia pensava che suo figlio Papa avrebbe risolto agilmente il problema mentre Ugo lo risolse davvero falsificando documenti in cui fece risultare che Guido e suo fratello Lamberto di Toscana avevano dei genitori differenti (detto in altre parole: sua madre era una libertina fornicatrice che aveva avuto gli altri figli, Guido e Lamberto, da un amante): Guido ormai non poteva più dire nulla contrariamente a Lamberto che cercò di opporsi.  Ugo lo fece accecare silenziandolo e, fortunatamente (?), in quel frangente morì anche la moglie, per cui la strada era ormai libera. Con il suo esercito Ugo arrivò a Roma nel 932 e Giovanni XI celebrò in pompa magna quelle nozze in Castel Sant’Angelo. Ormai non si aspettava altro che l’incoronazione di Ugo ad Imperatore con Marozia al vertice addirittura di un Impero. Ma quell’ apparentemente raggiunto traguardo fu la rovina dell’intero edificio. E’ Gregorovius che racconta gli accadimenti:

I cronisti non parlano dei festeggiamenti indetti in occasione di questo singolare matrimonio e, cosa quanto mai strana, non dedicano neppure una parola ai preparativi dell’incoronazione imperiale. La cerimonia che, come non c’è ragione di dubitare, era in via di preparazione, in realtà non fu celebrata a causa di un improvviso rivolgimento che cambiò radicalmente la situazione. Ugo, padrone della fortezza [Castel Sant’Angelo] e sicuro dell’imminente elevazione, cominciava a fare l’arrogante trattando con alterigia gli ottimati romani e offendendo a morte il suo giovane figliastro Alberico, che essendone gravemente danneggiato, doveva già aborrire il matrimonio della madre. L’intrigante Ugo aveva concepito il proposito di sbarazzarsi del giovane romano alla prima occasione favorevole, e Alberico ne ebbe sentore. Costretto dalla madre a servire il patrigno come paggio, un giorno il giovinetto con sprezzante goffaggine rovesciò un vaso d’acqua sulle mani del re; questi di rimando lo colpì al viso con uno schiaffo; assetato di vendetta, il giovane si precipitò fuori da castel Sant’Angelo, chiamò a raccolta i Romani e li infiammò con un discorso nel quale dimostrava loro quanto fosse vergognoso obbedire a una femmina e lasciarsi dominare dai Burgundi, barbari incolti, un tempo schiavi di Roma. Dava forza alle sue parole ricordando la grandezza dell’antica Roma; sempre, in simili circostanze, queste reminiscenze, che per la città erano immortali quanto i monumenti del suo passato, sapevano accendere i Romani […]. I Romani, che da lungo tempo meditavano la rivolta, si sollevarono inferociti. Le campane suonarono a stormo; il popolo prese le armi e, sbarrate le porte della città per impedire l’entrata delle truppe di Ugo, diede l’assalto a castel Sant’Angelo. Ugo e Marozia s’erano chiusi nel sepolcro di Adriano. Disperando di poter sostenere a lungo l’assedio, il re decise di fuggire; di notte, come un galeotto che tenta l’evasione, si fece calare giù dalla fortezza con una corda sulle mura della città Leonina e, lieto d’averla scampata, corse all’accampamento dei suoi soldati donde poi prese ignominiosamente la via della Lombardia lasciandosi alle spalle il suo onore, la sua donna e la corona imperiale.

Questa fu l’inattesa conclusione degli sfarzosi sponsali di Marozia a Roma. La città era libera ed esultava: in un colpo solo i Romani s’erano sbarazzati del regno, dell’impero e della potestà temporale del pontefice e avevano conquistato l’indipendenza. Alberico fu nominato principe [e durerà fino alla sua morte, nel 954, ndr]; i primi atti di governo del giovane signore di Roma furono gettare in carcere la propria madre [dove morì, sembra, nel 936. Ma secondo altre versioni sarebbe stata liberata nel 954 dopo la morte di suo figlio Alberico e rinchiusa in un convento dove morì nel 955, ndr] e rinchiudere in Laterano sotto stretta vigilanza il proprio fratello, papa Giovanni XI.

Fu quindi la fine dello strapotere e dell’infinita ambizione di Marozia (qui vi è un’altra solida possibilità nella nascita del mito della Papessa Giovanna) ed anche del Papa che rimase agli arresti mantenendo il potere spirituale ma perdendo quello temporale (morì nel 935). Era la nascita di una sorta di Repubblica di persone laiche di buona volontà che iniziò a costruire uno Stato libero (finanziato dalle donazioni alla Chiesa) che riconosceva un’aristocrazia di Curia, metteva in piedi una dinastia non più dipendente dagli stranieri non sempre affidabili per la sicurezza della città, organizzava la propria difesa a partire da quella contro i Saraceni, si dava un principe, riconosceva una Chiesa che si occupasse solo di questioni religiose. Era un bel sogno che fu ripreso in un altro sogno, anch’esso purtroppo svanito, quello della Repubblica Romana del 1848.

ALBERICO II, PRINCIPE DEI ROMANI

          Il figlio di Marozia ed Alberico, Alberico II, divenne quindi il capo di una situazione che sembrava volgere ad una sorta di moralizzazione del potere politico, religioso ed anche della vita civile. Egli fu riconosciuto come l’iniziatore del cambiamento ed acquisì un titolo nuovo proprio per segnare una cesura con il passato. Fu nominato princeps atque omnium romanorum senator, cioè principe e senatore di tutti i romani, con quel titolo princeps nuovo per Roma ed esprimente il potere politico distinto da quello religioso che era del Papa. Ed il principe Alberico II fu abile a circondarsi delle famiglie nobili più influenti distribuendo incarichi civili e beni ecclesiastici per ottenere consenso e, in assenza di una qualche borghesia, riuscì anche ad attrarre le simpatie di varie associazioni artigiane alle quali concesse alcuni privilegi e ad apparire come il giovane e forte difensore della popolazione più umile contro violenze e soprusi. Divenne, in pratica, bene accetto da tutti gli strati della popolazione di Roma. Nello stesso tempo riorganizzò la milizia, sia ad uso interno (per far fronte ad eventuali congiure del clero) sia a difesa della città, e la giustizia ampliando i tribunali che erano stati della Chiesa.

          Intanto Ugo, patrigno di Alberico II, si organizzava per vendicarsi e riprendere quel potere che gli spettava in quanto sposo di Marozia, con il quale avrebbe potuto continuare ad aspirare a quel titolo di Imperatore che gli era sfuggito per poco. Nel 933 discese su Roma con un esercito. Assaltò più volte le mura ma fu sempre respinto. Fece sfogare la sua soldataglia nella devastazione di villaggi e campagne limitrofe a Roma. Nel 936 provò ancora ad attaccare Roma ma questa volta ci pensò un’epidemia a far strage dei suoi soldati. L’ultimo tentativo di conquistare Roma fu l’offerta in sposa ad Alberico di sua figlia Alda che seguì alla mediazione tra i due fatta dall’abate di Cluny, Oddone. Alberico prese Alda in sposa ma tenne lontano il padre dalla città.

           Nel 936 moriva in prigione il Papa Giovanni XI, figlio di Marozia e fratellastro di Alberico II. Per 5 anni questo Papa non aveva esercitato alcun potere temporale, lasciandolo, suo malgrado, al fratellastro. A Giovanni XI successe Papa Leone VII che rinunciò amabilmente al potere temporale continuando ad elogiare i comportamenti di Alberico. I due insieme rinnovarono, ripristinandola, la decaduta disciplina monastica. Scrive Gregorovius:

la decadenza del monachesimo cominciò con l’arricchimento dei conventi e fu conseguenza delle elevate cariche e degli uffici che i monaci occupavano tanto nello Stato quanto nella Chiesa. Accresciutasi infatti la loro ambizione, essi acquistarono grande importanza alle corti dei re e furono persino innalzati al soglio di Pietro. I conventi, dotati di ricchissimi possedimenti, si trasformarono in principati, gli abati non erano altro che dei conti, e già Carlomagno aveva dato il cattivo esempio affidando alcune abbazie a baroni laici. I beni di quegli istituti vennero elargiti a nipoti, amici e vassalli degli abati e poi tolti loro con la violenza da innumerevoli e insaziabili briganti. L’egoismo, la crescente avidità di piaceri, l’incredibile disordine causato dalla faziosità dei partiti non avevano tuttavia influsso meno dannoso della corruzione e dell’instabilità della situazione politica. Infine, le devastazioni degli Ungari e dei Saraceni diedero ai conventi il colpo di grazia. Parecchie abbazie furono distrutte e i loro monaci dispersi; nei conventi rimasti la regola era decaduta e il monachesimo si dissolveva insieme con la costituzione canonica del clero secolare, cui un tempo Ludovico il Pio aveva rivolto tante cure.

La riforma benedettina nacque in Francia in quel monastero di Cluny di cui l’Oddone, mediatore tra Ugo ed Alberico, non solo era abate ma anche infaticabile divulgatore di quella Regola di San Benedetto, l’Ora et Labora, allora completamente dimenticata. Ma non è questo il luogo per approfondire questo tema che resta comunque di estremo interesse. Mi interessa invece a questo punto sottolineare il triplice utile al quale mirava Alberico nel sostenere la riforma del monachesimo. Da una parte egli poteva aumentare la sua popolarità; dall’altra poteva estendere la sua influenza su territori che non erano in precedenza appartenuti all’influenza di Roma; infine il terzo interesse di Alberico lo leggiamo da Rendina [1]: E’ evidente però che, in quest’opera di riforma monastica e ricostruzione di abbazie e conventi, Alberico non agiva esclusivamente per motivi religiosi; il suo fine era quello di scacciare dalla Campagna romana i baroni, che soggiornavano nei possedimenti conventuali, ed i propri vassalli, che occupavano le proprietà agricole dei conventi, tutta gente che poteva diventare per lui pericolosa, opponendo loro appunto tranquille comunità religiose.

           A Leone VII, che morì nel 939, seguì Stefano VIII di cui si sa molto poco oltre al fatto che seguì la politica del predecessore sulla riforma del monachesimo. Alla sua morte nel 942 seguì Papa Marino II sul quale non si sa nulla a parte il suo seguire la politica di riforma monastica. Alla sua morte nel 946 fu eletto Papa Agapito II in un momento in cui vi erano dei cambiamenti importanti nella politica europea perché in Germania nel 936 era stato eletto imperatore Ottone I di Sassonia, una vera personalità forte e prestigiosa, che dopo aver lottato accanitamente contro Slavi, Ungari, Danesi e contro vari principi di sangue tedesco, aveva restaurato l’impero franco-orientale costituendo un forte stato nazionale (Gregorovius). Ciò che si può notare è che con Alberico II il papato era stato ridotto a poco, tanto è vero che non si parla di violenze, crimini, scandali, simonia, pedofilia ed altre amenità in uso da quelle parti. E con Agapito la Chiesa ricominciò poco a poco a riaprirsi verso i Paesi stranieri. Certo è che Alberico era sottoposto a molte pressioni ed a tentativi di spodestarlo: da una parte il clero non aveva digerito in alcun modo il suo essere tenuto fuori dalla vita politica e quindi dal potere e tutto ciò che da esso proviene (in due parole: bella vita); vi erano poi i nobili che invidiavano questo giovane al potere che li teneva al margine e che avevano le orecchie tese agli agenti di Ugo che mai aveva rinunciato a Roma. E proprio contro questi poteri, clero e nobili, Alberico dovette lottare sconfiggendo una rivolta. Da questo punto nessuno più si azzardò a recriminare per il suo stato, a parte Ugo che, per rafforzarsi, aveva sposato Berta, vedova di Rodolfo II di Borgogna ed aveva fatto fidanzare suo figlio Lotario II, nominato dal 931 co-regente del Regno d’Italia, con Adelaide di Borgogna figlia ancora di quel Rodolfo II (ed amante del suo patrigno Ugo). Ma la popolazione di tutta Italia non lo amava quando lo odiava apertamente. Ma ormai egli viveva solo per prendere Roma e ci riprovò nel 941 ma i romani resistettero alle rapine nelle campagne, alle devastazioni ed ai continui tentativi di corruzione, mostrando di essere legati ad Alberico. Ugo dovette infine desistere dal suo accanimento per gravi problemi politici che si susseguirono al Nord, in Lombardia, problemi che alla fine, nel 946, significarono la sua rinuncia alla politica (con desiderio di vendetta) ed il ritiro in Provenza nel 947, anno in cui morì. La corona di Re d’Italia passò a Berengario II, nipote dell’Imperatore Berengario I, precedentemente seguace di Ugo e sposo nel 930 di una sua nipote, Willa III di Arles, poi di Toscana(4). Fu incoronato, insieme a suo figlio Adalberto, nel 950, subito dopo aver fatto ammazzare con il veleno il giovane Lotario II, figlio di Ugo, che era rimasto il legittimo Re d’Italia. Berengario II si impadronì del tesoro reale, rapinò ogni  avere di Lotario e della moglie Adelaide la quale, fuggitiva, fu arrestata nel 951 e incarcerata per 4 mesi (fu liberata per intermediazione di un chierico, Adelardo di Reggio, una vera banderuola politica). Queste vicende fecero indignare Ottone I che ritenne Berengario II un usurpatore. Inoltre Ottone fu chiamato ad intervenire da Adelaide, rifugiata a Canossa, perché era molestata da Adalberto figlio di Berengario II e co-reggente del Regno quell’Adalberto che suo padre Berengario II avrebbe voluto far sposare con lei. Adelaide era sostenuta nella sua richiesta di aiuto ad Ottone sia dai milanesi che odiavano l’usurpatore Berengario II sia, soprattutto dal Papa Agapito che tentava una riapertura verso la Germania (quest’ultimo era mosso soprattutto dal desiderio di riconquistare il potere temporale che con l’ordinamento nazionale portato avanti da Alberico sembrava impossibile. Meglio un sovrano straniero che, in quanto residente lontano da Roma, lasciava la gestione delle cose italiane al Papa. Ottone scese in Italia, a Pavia, nel 951. Questo solo fatto fece fuggire Berengario II ed il figlio con la conseguenza che Ottone, né eletto né incoronato, divenne Re al posto dei fuggiaschi (che l’anno seguente si arresero ad Ottone divenendo suoi vassalli ed ottenendo in cambio il Regno d’Italia). Ottone, per buon peso, prese subito in sposa Adelaide che aveva 18 anni meno di lui. A questo punto chiese a Roma la corona imperiale, ricevendo però un netto rifiuto da Alberico, sicché, nel febbraio dell’anno successivo, se ne tornò in Germania (Deschner 1).

             Berengario, nella sua posizione riconquistata, si vendicò brutalmente di tutti coloro che avevano contribuito alla sua cacciata spingendosi al punto di far intervenire di nuovo Ottone tramite suo figlio Liudolfo che nel 956 scese a Pavia. Adalberto, figlio di Berengario fu sconfitto in battaglia ma solo un anno dopo Liudolfo morì ufficialmente per una febbre ma in realtà avvelenato. Ciò scatenò di nuovo la vendetta di Berengario contro coloro che avevano appoggiato Liudolfo e permise alle truppe comandate da Adalberto di avanzare verso Roma distruggendo e saccheggiando particolarmente la Sabina oltre a sottrarre alla Chiesa ampi territori che erano di sua proprietà. Questo fatto generò fortissime proteste dei vescovi e del nuovo Papa, Giovanni XII.

IL NIPOTE GIOVANNI XI HA RIPRESO DA NONNA MAROZIA

             Mentre si verificavano gli eventi suddetti, a Roma Alberico sentì vicina la sua fine. Convocò allora i nobili della città e fece loro giurare in San Pietro che, alla morte di Agapito, avrebbero fatto eleggere suo figlio Ottaviano come nuovo Papa. Alberico sentiva che l’importante divisione che aveva imposto tra potere temporale e spirituale non avrebbe retto agli eventi, anche perché aveva capito che le mire imperiali di Ottone non si sarebbero fermate. Sperava quindi di mantenere ancora il potere a Roma affidandolo ad un suo figlio. Nel 954 moriva Alberico, che rappresentò un importante guida per Roma in tempi bui e che purtroppo non ebbe seguito(5), e nel 955 moriva Papa Agapito (nel frattempo Ottaviano aveva sostituito il padre alla guida della città). Mantenendo fede alla promessa fatta ad Alberico, i nobili fecero eleggere (955) Papa suo figlio Ottaviano dei Conti di Tuscolo (non si è certi se la madre fosse Alda, qualcuno parla di una vedova di nome Anna), di 18 o forse 20 anni, con il nome di Giovanni XII. Ottaviano, rampollo di una nobile famiglia (in seguito designata come quella dei Conti di Tuscolo che avevano Teofilatto, come già detto, capostipite), lasciava quindi il potere civile per assumere il ruolo di Papa e con ciò stesso riunificando potere temporale e spirituale. Che dire di questo Papa, digiuno di una qualunque preparazione ecclesiastica ? Lo descrive bene Rendina [6]:

il giovane non ha pensato minimamente di abbandonare le abitudini alle quali è stato educato fin da giovanissimo e ha seguitato a condurre una vita depravata e completamente estranea agli interessi ecclesiastici. Ama i piaceri sfrenati, circondandosi di belle donne e bei ragazzi castrati o meno, persone completamente inappropriate alla corte pontificia, che è quasi un complimento qualificare come papesse, come il popolo le chiama, perché nessuna ha le caratteristiche proprie di una corte papale. In realtà Giovanni XII è solo di nome un sovrano pontefice, perché di fatto è un princeps laico che si abbandona ai piaceri della carne, così che «il palazzo Lateranense diventa un harem, una casa di piaceri», come scriverà il Gregorovius, tanto che «la sua compagnia preferita sono i giovani più in vista di Roma, e se un tempo Caligola aveva nominato senatore il suo cavallo, Giovanni XII in una scuderia, tornando forse ubriaco da un banchetto, dove ha libato con spirito pagano agli antichi dei, ha nominato diacono uno stalliere». La depravazione arrivava a farlo godere nel vedere cani, asini e cavalli assalire le prostitute introdotte in Laterano; oltretutto ha organizzato nel Laterano una scuderia di cavalli che mantiene bene, rimpinzandoli con mandorle e fichi inzuppati nel vino. Inoltre si atteggia a politico e militare, in linea con suo padre, al quale si ispira per affermare una personale autorità indipendente.

Si può aggiungere con Liutprando che: questo indegno personaggio diceva messa senza celebrare l’eucarestia; ordinava i diaconi nelle stalle; faceva pagare le cariche ecclesiastiche; fornicava con Stefania, l’amante di suo padre, con sua sorella e con sua nipote; si accoppiava con la vedova del suo cameriere; si accoppiava regolarmente con le sue sorelle, sempre disponibili nel suo letto; fornicava con la vedova Anna, probabilmente sua madre; usava stuprare pellegrine, fanciulle, vedove e mogli di suo gradimento; aveva fatto accecare il suo consigliere spirituale; aveva fatto castrare un cardinale provocandone la morte; ordinò vescovo di Todi un dodicenne che amava particolarmente; … Ma neppure questo riuscì ad intaccare la fede nel papato dei fedeli, sempre gregge acefalo. Bastava che il Papa facesse un atto mediatico, come visitare i monasteri di Subiaco nel 958, perché ricevesse plausi.

          Il papato diede alla testa del giovanetto che tentò addirittura di estendere i confini dei suoi domini al Sud ed al Nord. Ebbe gravi rovesci inimicandosi, oltretutto la popolazione che avrebbe seguito il padre ma non le imprese di un Papa che si voleva fare erede del padre. Fu così che Ottaviano fu costretto nel 960 a rivolgersi ad Ottone per avere protezione contro i nemici che iniziavano ad organizzarsi e particolarmente contro Berengario e Adalberto che credevano di poter spadroneggiare al Nord tentando l’invasione di territori della Chiesa, come l’Emilia e la Romagna. Ottone non aspettava altro; si mise in marcia con un possente esercito e nel gennaio del 962 giunse a Roma (dopo che Berengario ed Adalberto se l’erano data a gambe). Egli si era impegnato a difendere e consolidare i possedimenti della Chiesa in cambio del riconoscimento di avere i diritti dell’Impero carolingio. I nobili seguaci dello scomparso Alberico covavano un sentimento di odio contro chi di nuovo li rigettava in mano ad un sovrano straniero ridando potere temporale alla Chiesa. Quando si arrivò all’imponente e sfarzosa incoronazione (sua e di Adelaide), il 2 febbraio del 962, Ottone chiese ai suoi di stare all’erta per il pericolo che serpeggiava di una qualche rivolta coronata dal suo assassinio. Grazie ad un debosciato, sciocco, dissoluto, ubriacone, lussurioso, criminale ed  incapace, come Papa Giovanni XII e ad un sovrano di Germania tornava il Sacro Romano Impero che per 37 anni era scomparso.

Qualche giorno dopo, come ricorda Rendina [1]:

All’incoronazione fece seguito un patto, il celebre Privilegium Ottonianum del 13 febbraio 962 [che non esiste in originale, ndr]: in esso Ottone imperatore confermava a Giovanni XII e ai suoi successori tutti i diritti e i patrimoni che la Chiesa aveva acquistato in base ai precedenti trattati; il papa peraltro prestava giuramento di fedeltà all’imperatore, promettendo che non lo avrebbe mai tradito per sposare l’idea nazionalista impersonata in Berengario [ciò voleva dire in pratica che l’Imperatore poteva intervenire sull’elezione di un Papa, si tornava in definitiva alla reciproca dipendenza tra Impero e Chiesa che si era affermata all’epoca di Carlo Magno, ndr]. Anche la nobiltà e il popolo romano fecero il loro giuramento di fedeltà, sottomettendosi nuovamente all’autorità imperiale. Ma era chiaro che un popolo abituato ad una sua autonomia con la signoria di Alberico non avrebbe tollerata una simile sottomissione; e poi la posizione di Giovanni XII appariva quanto mai ambigua.

Ma anche Ottone aveva dei forti dubbi perché aveva firmato un accordo con un personaggio del tutto impresentabile. Con questi dubbi partì da Roma per andare alla caccia di Berengario che doveva essere fatto fuori perché egli fosse riconosciuto vero Imperatore con tutta l’autorità conseguente. Riuscì a sconfiggere i suoi alleati ed anche suo figlio Adalberto che fuggì (per poi arrivare a Roma, come vedremo, nel 963) e sul finire dello stesso 963 a braccare il padre rifugiatosi nella fortezza di San Leo, sull’Appennino vicina a San Marino. Qui Berengario II si arrese, fu fatto prigioniero ed esiliato con la moglie Willa in Germania dove morì nel 966.

          Ed i dubbi di Ottone erano fondati perché, subito dopo la sua partenza, il giovane Giovanni XI, gran delinquente, si rese conto i essersi  messo in una situazione di opprimente dipendenza. Egli credeva di fare il furbo con Ottone, facendosi liberare dalle minacce e pretendendo protezione per il futuro in cambi di nulla. Ma Ottone aveva preteso di diventare Imperatore con tutte le conseguenze in termini di dipendenza che ciò comportava e soprattutto con la richiesta, per lui opprimente, di decoro. Ma Giovanni aveva infinite risorse, tutte convergenti nel “faccio comunque come mi pare” come se non avesse firmato alcun accordo. Per potersi proteggere, l’irresponsabile, con l’accordo degli aristocratici, si mise addirittura in contatto con i suoi vecchi nemici, Berengario ed Alberto; scrisse ai bizantini e perfino agli Ungari chiedendo loro di invadere la Germania. Il partito tedesco a Roma informò subito Ottone di ciò che accadeva nella primavera del 963. I messi descrissero all’imperatore la vita dissoluta del papa, che aveva trasformato il Laterano in un lupanare e sperperava beni e castelli per le sue sgualdrine; gli dissero che nessuna donna onesta osava più recarsi a Roma in pellegrinaggio per timore di capitare tra le mani del pontefice; deplorarono lo stato d’abbandono della città e la rovina delle chiese, dai cui soffitti sventrati la pioggia si rovesciava sugli altari (Gregorovius). Ottone rispose in modo desolante e demoralizzante dicendo che il Papa era ancora giovane e sarebbe maturato con il passare degli anni e la frequentazione di nobili. Ma quando seppe dai suoi, che avevano intercettato varie lettere, delle congiure che preparava Giovanni insieme al fatto che Adalberto (che, lo ricordo, era riuscito a fuggire), nel frattempo aiutato di Saraceni, era arrivato a Roma (giugno 963) sbarcando a Civitavecchia dalla Corsica con truppe saracene, allora decise di ripartire da Pavia, dove si trovava, verso Roma che era ormai divisa nel partito papale (o nazionalista) ed in quello imperiale. Aspettando Ottone, gli imperiali, ancora in minoranza, avevano lasciato la città per asserragliarsi in una fortezza vicino Roma, mentre i papalini con Adalberto e Giovanni alla testa cercarono di attaccare Ottone. Si resero però conto che quella popolazione una volta favorevole al Papa, quella che si era unita per cacciare in armi Ugo, ora non era più dalla parte del Papa. Ottone, senza il sostegno della popolazione al Papa, avrebbe vinto in poco tempo. Il gran lussurioso, bugiardo e delinquente, pensò allora bene con Adalberto di correre in Laterano, depredare tutti i tesori della Chiesa e fuggire a ripararsi prima in una fortezza a Tivoli quindi in Corsica, portandosi dietro donnette e castrati. La “resistenza” di Roma era finita senza iniziare. Il 2 novembre 963 Ottone entrò in Roma ed i Romani, attraverso loro aristocratici rappresentanti, rinnovarono il giuramento di fedeltà ad Ottone, ampliando quanto già affermato nel Privilegium: mai avrebbero eletto un Papa senza l’approvazione e conferma del nobile signore imperatore Ottone e di suo figlio, re Ottone. Con questo forte sostegno, Ottone fece convocare subito in San Pietro un Concilio con il compito di giudicare in contumacia il signor Giovanni Papa. Il 6 novembre si riunì in San Pietro il suddetto Concilio con l’assenza del Papa al quale comunque fu inviata in Corsica una prima richiesta, abbastanza cortese, di comparizione, entro due settimane, per intervenire, difendersi e spiegare le accuse nei termini seguenti riportati da Liutprando, presente al Concilio:

Al Sommo Pontefice e Papa universale, al signore Giovanni,

Ottone, per grazia di Dio imperatore augusto, insieme con gli arcivescovi e i vescovi di Liguria, di Tuscia, di Sassonia e della terra dei Franchi, indirizza il suo saluto in nome del Signore. Venuti a Roma per servire Iddio, abbiamo chiesto ai vescovi romani, ai cardinali e ai diaconi e inoltre a tutto il popolo il motivo della Vostra assenza e della Vostra volontà di non incontrarvi con noi, patrono Vostro e della Vostra Chiesa. Essi ci hanno detto di Voi cose obbrobriose e turpi, tali da farci arrossire di vergogna anche qualora si riferissero ad un istrione. Vogliamo accennare alla Signoria Vostra solo alcune di esse, perché, se le enumerassimo tutte, un solo giorno sarebbe troppo breve. Sappiate dunque che non pochi, ma tutti, laici e religiosi, Vi hanno accusato di omicidio, di spergiuro, di sacrilegio, di incesto con Vostre parenti e con due sorelle. Essi dichiarano anche dell’altro, che l’orecchio rifiuta di sentire, che Voi avete fatto un brindisi al diavolo e, giocando a dadi, avete invocato Zeus, Venere e altri demoni. Preghiamo perciò caldamente la Paternità Vostra di venire a Roma e di scagionarsi. Ma se Voi temete gli eccessi del popolo, Vi promettiamo solennemente che non Vi sarà fatto nulla che contraddica ai canoni.

Addì 6 novembre.

Una settimana dopo arrivò la concisa risposta:

A tutti i vescovi, Giovanni servo dei servi di Dio.

Abbiamo udito che volete fare un altro papa; se fate ciò vi scomunico in nome di Dio onnipotente, in modo che non possiate fare ordinazioni, né celebrare la messa.

Da una parte i vescovi sono tranquilli perché danno quel Papa per detronizzato, dall’altra vi è ulteriore offesa ad Ottone che non viene neppure citato nella lettera. Seguì una seconda richiesta di comparizione, questa volta molto dura. In essa Giovanni era paragonato ad un Giuda, traditore, anzi venditore del nostro Signore Gesù Cristo. Non vi fu risposta ed il Concilio-processo continuò con la sfilata dei testimoni. Alla fine di questa sfilata di orrori, il 4 dicembre, il Papa venne riconosciuto colpevole e reo di alto tradimento e quindi dichiarato deposto dal pontificato dall’unanimità di 17 cardinali e 50 vescovi (all’Assemblea partecipavano anche: tutti i ministri della corte pontificia, i diaconi ed altri notabili del clero ed i notai; vari nobili delle famiglie più importanti di Roma appartenenti al partito imperiale; anche la plebe, come eredità delle riforme di Alberico, era rappresentata con i capitani della milizia tra cui spiccava un tal Pietro che era diventato prefetto di Roma; duchi e conti tedeschi. Occorreva eleggere un nuovo Papa e lo si fece il 6 dicembre 963 nella persona di Papa Leone VIII, un mite laico  dai costumi morigerati al quale venne fatta fare rapidamente tutta la carriera ecclesiastica, per poi eleggerlo a Papa.

          Intanto il deposto Giovanni era diventato oggetto di compassione e di simpatia, ed anche qualcosa di più (Gregorovius) poiché c’era chi ricordava il suo essere figlio del grande Alberico. Iniziò a serpeggiare tra i Romani un grande malcontento diretto contro Ottone e fomentato da Giovanni (che aveva promesso di distribuire tra chi lo appoggiava il tesoro di San Pietro) che sfociò, al segnale concordato del suono delle campane, in un tentativo di assalto al Vaticano dove si trovava Ottone. L’esercito imperiale ebbe ragione della popolazione che iniziò ad ammazzare senza pietà fino ad un quasi completo sterminio (3 gennaio 964). Fu Ottone, per insistente pressione di Leone, che ordinò di mettere fine al massacro quando già era andato troppo avanti. Subito dopo, verso la metà di gennaio, partì da Roma per andare a Spoleto a scontrarsi con Adalberto. Roma restò priva di difese imperiali e la popolazione, sostenuta da molte cortigiane di famiglie aristocratiche che allietavano i baccanali di Papa Giovanni in cambio di ori e fortune, si vendicò della strage del 3 gennaio richiamando, tra l’altro, Giovanni XII che il 26 febbraio riprese possesso del suo trono papale. Papa Leone si trovò privo di ogni protezione e scappò rifugiandosi presso l’Imperatore che si trovava a Camerino decidendo di non marciare subito su Roma. Ciò permise a Giovanni, dopo aver dichiarato nullo il Concilio convocato dall’Imperatore e condannato Leone dichiarato decaduto insieme a tutte le sue ordinazioni sacerdotali, di vendicarsi brutalmente di coloro che si erano schierati con Ottone. Alcuni vescovi vengono incarcerati, i cardinali destituiti, altri rappresentanti del potere ecclesiastico destituiti, ai preti vengono tagliati naso e lingua (e qualcuno ha la mano mozza). Questi provvedimenti eccitano la mente malata di questo Vicario di Cristo che ricomincia con la sua sarabanda di cortigiane lussuriose, di violenze a pie donne, di incesti, di amori pedofili. Ancora per due mesi e mezzo perché questo suo priapismo lo porterà alla rovina: il 14 maggio stava accoppiandosi con Stefanetta in casa di lei; il marito, l’oste della locanda presso cui alloggiava tanto Papa, li sorprese in flagrante adulterio e, semplicemente, prese il Papa e lo scaraventò dalla finestra ammazzandolo (aveva intorno ai 27 anni). Lo spirito di Pasquino ante litteram fece dire ai Romani che Giovanni era stato fortunato nel morire a letto, anche se non era il suo.

          Questa sospirata morte non rimise sul soglio pontificio Leone perché Roma non voleva questo Papa scelto ed imposto da un Imperatore straniero. I Romani presero per buona la deposizione di Leone fatta da Giovanni. Clero e nobiltà di Roma si riunirono e il 22 maggio 964 elessero Papa Benedetto V. E qui ricominciò la sarabanda che vedeva Vicari di Cristo contro Vicari di Cristo (un altro ?). Ottone non riconobbe Papa Benedetto e marciò subito su Roma assediandola fino alla sua resa il 23 giugno giorno in cui, convocato immediatamente un Concilio, veniva deposto Benedetto. Ottone approfittò per emanare un decreto in cui veniva ordinato ai laici Romani di non intervenire più per eleggere un Pontefice. Fine (momentanea, come vedremo) di ogni scelta libera per i Vicari di Cristo. Ormai la Chiesa è una semplice dependance della Germania (e, se si studia un poco di storia, con la Germania le cose vanno sempre e solo a finire così).

          Finalmente Ottone aveva in mano la Chiesa e, senza ulteriori preoccupazioni, lasciò Roma il 1° luglio lasciando Leone VIII come Papa e portandosi in Germania, come trofeo, Benedetto V ridotto a semplice diacono da Leone (ed esiliato ad Amburgo dove morì nel luglio del 965). Quest’ultimo restò solo a Roma e doveva essere terrorizzato; ma la misericordia di Dio ebbe pietà di lui e lo fece morire molto presto, il 1° marzo del 965.

          La scelta del successore, consigliata da qualche influente personaggio del partito imperiale e senza più la partecipazione dell’aristocrazia romana, cadde sul vescovo di Narni (figlio dell’omonimo Giovanni ancora vescovo di Narni) che fu eletto Papa il 1° ottobre del 965 con in nome di Giovanni XIII.

L’ALTRA SAGA, QUELLA DEI CRESCENZI

          Tralasciando ricerche su remoti antenati, soffermiamoci su un Giovanni vescovo (discendente di un tal Crescencius, assistente giuridico in San Pietro dell’Imperatore Ludovico III dal 901 al 905). Ebbene possiamo considerare costui il primo dei Crescenzi, una famiglia imparentata in qualche modo con i Conti di Tuscolo, che dominerà Roma e la Chiesa per moltissimi anni. Giovanni sposò infatti quella Teodora II, che abbiamo lasciato varie pagine indietro, figlia di Teofilatto e Teodora I, nonché sorella di Marozia. Ebbene, passati molti anni ci ritroviamo di nuovo con un Papa che proviene da quelle famiglie. Infatti Giovanni XIII era figlio di Giovanni e Teodora II e, nel suo pontificato ebbe il valido aiuto del suo influente fratello Crescenzio de Theodora. Non era comunque ben accetto al popolo ed al partito filo nazionale dei nobili proprio per il suo essere stato designato dall’Imperatore. Giovanni lo sapeva e per questo cercò in ogni modo di procacciarsi la simpatia dei Crescenzi che era la famiglia a lui più vicina. Non tardò a scoppiare una rivolta capitanata da quel Pietro, prefetto della città, ed alla quale aderirono importanti nobili (il vestiarius Stefano e Roffredo conte della Campagna), patrizi e molti popolani. Il 16 dicembre il Papa fu arrestato e dopo qualche giorno a Castel Sant’Angelo fu rinchiuso in una fortezza della Campagna romana da dove riuscì a fuggire nel 966 ponendosi a capo di una truppa pronta ad entrare in Roma appena Ottone l’avesse liberata. Anche questa rivolta durò poco perché Ottone scese subito in Italia e, dopo aver messo fine alle ribellioni lombarde capitanate ancora da Adalberto che, sconfitto, scappò ancora in Corsica, arrivò in città. Iniziarono un’altra volta dure e violente repressioni contro la popolazione, con l’uccisione di Stefano e Roffredo,  l’impiccagione dei dodici comandanti della milizia, l’accecamento di molti personaggi che si erano esposti  e con un provvedimento sul prefetto Pietro, catturato dopo una breve fuga, che solo la fantasia malata di un Papa avrebbe potuto prendere: fu appeso per i capelli dopo che gli era stata tagliata la barba; fu messo alla berlina appendendolo al cavallo di bronzo di Marco Aurelio (che all’epoca si credeva fosse di Costantino il Grande) che ornava la Piazza del Laterano; fu poi tirato giù da quella posizione, fu denudato, messo seduto al contrario su un asino con la coda, a cui fu legato un campanello, nella mano a mo’ di briglia; gli fu messa sulla testa una mammella di vacca, due otri insieme a molti campanelli gli furono appesi alle gambe ed in tale posizione ed abbigliamento fu fatto girare per tutta la città. Fu, alla fine cacciato dall’Italia e mandato in esilio in Germania. Non basta perché anche i morti dovettero pagare: Stefano e Roffredo furono tirati fuori da sottoterra e gettati fuori dalla mura della città in pasto agli animali selvatici. Inutile dire che l’orrore e l’odio profondo verso i tedeschi ed il suo imperatore crebbero a dismisura arruolando nuovi e convinti nemici contro l’Impero. Odio, ira e rancore per chi veniva a Roma per farsi incoronare e, per ciò solo, diventava padrone della città facendo i suoi porci comodi. Abbiamo la testimonianza di una voce anonima, uno storico dell’epoca noto come monaco del Soratte che sembra sentire dire con voce strozzata dal pianto irato dell’impotente ciò che scrive:

«Guai a te, Roma! Poiché da tanti popoli sei oppressa e calpestata; tu sei prigioniera anche del re dei Sassoni, il tuo popolo è passato a fil di spada e il tuo vigore annientato. Il tuo oro e il tuo argento costoro lo mettono nelle proprie tasche e lo portano via. Tu che eri madre ora sei diventata figlia. Ciò che possedevi lo perdesti; sei defraudata del fiore della tua giovinezza; al tempo di papa Leone fosti calpestata dal primo Giulio. Al culmine della tua potenza, tu trionfasti dei popoli, gettasti il mondo nella polvere e soffocasti i re della terra. Tenesti lo scettro e la signoria; ora sei saccheggiata e vessata dal re dei Sassoni. Come dicono alcuni saggi e come si trova scritto nelle tue storie, un tempo tu vincesti i popoli stranieri e trionfasti in ogni angolo del mondo, da Mezzogiorno a Settentrione. Ora sei preda del popolo delle Gallie: eri troppo bella. Tutte le tue mura avevano torri e merli, come si trova scritto: avevi 381 torri, 46 castelli, 6800 merli e possedevi 15 porte. Guai a te, città Leonina; già da tempo fosti presa, ma ora il re dei Sassoni ti condanna all’eterno oblio» [citato da Gregorovius].

UNA SARABANDA DI VICARI DI CRISTO

          Politica di potere e di potenza quella della casa di Sassonia finalizzata a depredare e saccheggiare ogni bene del Paese, anche con campagne nel Sud d’Italia (ed anche contro gli altrettanto cristiani bizantini) sempre con lo stesso tenore, distruzione saccheggio e rapina. Per Ottone I, incoronato Imperatore da Giovanni XIII il 24 dicembre 967, tutto finì con la sua morte il 7 marzo del 973, per l’Italia l’incubo seguiva con il figlio sedicenne Ottone II che aveva sposato, come suggello della spartizione del Sud d’Italia, nel 972, la quasi coetanea Teofane, figlia del defunto Imperatore di Bisanzio Romano II e “figliastra” del momentaneo usurpatore del trono, Giovanni Tzimiskes. In quello stesso anno, il 972, tirava le cuoia questo Papa della tradizione criminale della Chiesa che distribuiva terre e città ad amici e potenti, in particolare l’antica e gloriosa Praeneste (oggi Palestrina) fu data come feudo alla senatrice Stefania che era sua sorella, come un qualunque re che si creava vassalli.

          Il partito imperiale propose Benedetto VI come Papa che lo divenne solo dopo il via libera di Ottone dalla Germania. Di nuovo il partito nazionalista si infuriò per questo far dipendere la scelta dei Papi, che sono vescovi di Roma, ad un sovrano straniero, per loro doveva essere eletto il diacono Francone, figlio di Ferruccio. Ottone I morì di lì a poco e creando una qualche illusione nei nazionalisti, all’epoca guidati da Crescenzio de Theodora della famiglia dei Crescenzi, probabilmente fratello di Giovanni XIII, per l’oggettiva debolezza in cui si era venuto a trovare l’Impero. Fu proprio Crescenzio che si pose alla testa di una rivolta che riuscì a catturare il Papa, a chiuderlo a Castel Sant’Angelo dove nel luglio 974 fu strangolato. Immediatamente prima era stato eletto Francone con il nome di Papa Bonifacio VII che poco dopo si incaricò di strangolare Benedetto. Di questo furfante, fatto eleggere con il sostegno sotterraneo di Bisanzio che mirava ad espandersi al Sud d’Italia con l’aiuto della Chiesa, sappiamo poco. Certamente produsse ribrezzo verso gran parte della popolazione per essersi fatto eleggere sul cadavere del predecessore. Su questo sentimento poté agire il partito imperiale per produrre la cacciata di Bonifacio. Ciò avvenne solo a poco più di un mese dalla sua elezione: questo altro bandito fece man bassa di tutti i tesori della Chiesa e scappò a Costantinopoli dove ottenne rifugio.

          Non sappiamo invece quasi nulla di Crescenzio, padre con sua moglie Sergia di Giovanni e Crescenzio, a parte il fatto che doveva essere davvero potente se, dopo la vittoria degli avversari, egli poté restarsene tranquillamente a Roma dove morì nel 984. Intanto il partito imperiale cercava il successore di Papa Benedetto VI (neanche si tenne conto di Bonifacio VII) e, dopo il rifiuto ad accettare la carica di Maiolo, un onesto monaco di Cluny, si riuscì a trovare un’altra persona degna nel vescovo di Sutri che, eletto, assunse il nome di Benedetto VII. Costui regnò tranquillo per 9 anni fino a che morì nel 983. Durante il suo pontificato vi fu solo una rivolta che si ebbe subito dopo la sua elezione. Fu l’occasione perché Ottone II scendesse a Roma dove non dette luogo a dure repressioni ma solo a qualche decapitazione. Poi proseguì per le solite guerre al Sud contro Bizantini da una parte e Saraceni dall’altra e qui a Capo di Colonne (vicino Crotone), per la prima volta nella dinastia degli Ottoni, subì una dura sconfitta che vide quasi completamente distrutta l’armata tedesca. Alla morte di Benedetto VII, Ottone II indicò un suo collaboratore, il vescovo Pietro di Pavia, come suo successore che fu eletto (983) con il nome di Giovanni XIV. Costui non ebbe certo fortuna perché il suo protettore, Ottone II, morì improvvisamente a Roma all’età di 28 anni, lasciando come erede Ottone III che era stato incoronato a Verona nel 983 all’età di 3 anni (sic!). Questa morte metteva in pericolo il Papa ma non solo perché anche in Germania, Enrico di Baviera, si era subito autonominato Re di Germania con pretese maggiori. Per parte sua Teofane, la moglie di Ottone II, doveva pensare a salvaguardare con il figlioletto, Ottone III, i suoi diritti e quindi era lungi da lei l’idea di creare una qualche protezione al Papa e, nel 984, se ne andò da Roma con il figlio ed il seguito. La giovane Teofane morì poi giovane nel 991 e da allora fino al 994, data in cui Ottone III compiva i 14 anni richiesti per la successione al padre, fu curato da nonna Adelaide la moglie di Ottone II.

          Di questo momento di totale incertezza approfittarono i filobizantini che da Costantinopoli richiamarono a Roma Bonifacio VII, con l’accordo dei Crescenzi. Giovanni XIV fu preso e portato a Castel Sant’Angelo dove nell’aprile del 984 fu avvelenato. Bonifacio VII durò poco per la sua furia di vendetta (fece cavare gli occhi a chi, nella Curia riconobbe come suo avversario) che lo rese inviso anche alla famiglia dei Crescenzi il cui capo era ora Giovanni, il figlio di Crescenzio de Theodora. Bonifacio VII fu catturato nell’agosto del 985,  ridotto a brandelli e trascinato infine per le strade di Roma.

          Venne subito eletto altro Papa di cui si sa poco, Giovanni XV del partito imperiale quindi nemico dei Crescenzi. E la cosa era rischiosa per la sua sicurezza in un periodo di avvelenamenti, strangolamenti e accoltellamenti. Tanto più che Giovanni Crescenzio (detto Nomentano) aveva preso il potere temporale a Roma facendosi nominare patricius. Il disporre di questo potere risultò sufficiente per tutte le manovre di distribuzione di benefici, terre, feudi e ricchezze che interessavano davvero le varie famiglie aristocratiche e quindi il Papa fu lasciato in pace nel suo campo, quello religioso. Da patricius Giovanni Crescenzio ambiva come Alberico, ad una carica più elevate che lo rendesse supremo rappresentante del senato e del popolo di Roma. In questa ambizione egli era però molto cauto perché sapeva di rischiare lo scontro con l’Impero che era l’unico a disporre del titolo di Re d’Italia e quindi di Roma, in una situazione in cui non si poteva contare, come in passato, sul popolo di Roma. Quando nel 989 Teofane venne in città (ripartì nel 990, qualche mese dopo la sua venuta), fu accolta con ogni riguardo ed onore, anche quando pretese il riconoscimento della successione ad Ottone II per il figlio Ottone III (al quale mancavano 5 anni a poter essere legalmente erede). In cambio non disse nulla sulla divisione dei poteri che a Roma s’era creata: in pratica l’Impero manteneva, con il Papa, il potere spirituale mentre il potere temporale passava ai nobili romani. La cosa non piacque al mondo della cristianità e valse a discredito sia della Chiesa che dell’Impero, anche perché ambedue i poteri, in completo accordo, lavoravano alacremente per l’arricchimento dei propri parenti ed amici (un episodio spiega bene cosa, ad esempio, accadeva: quando qualche ricco e potente veniva in visita dal Papa, non era ricevuto se non portava doni anche a Giovanni Crescenzio e viceversa). Questo stato di profondo degrado era denunciato da uno scritto del vescovo di Orléans, Arnolfo (riportato da Gregorovius):

«O Roma, degna d’essere compianta, tu nel silenzio portasti ai nostri maggiori la luce dei Padri della Chiesa, ma il nostro presente è stato da te oscurato con tenebre così orribili che in futuro non se ne potrà smarrire il ricordo. Un tempo ci giunsero da quella città i magnifici Leoni, i grandi Gregori, per non dire di Gelasio e di Innocenzo, che superarono in eloquenza e saggezza tutti i filosofi della terra. Ma che cosa accade ai nostri giorni? Vedemmo Giovanni, col soprannome di Ottaviano, immergersi nel fango delle passioni e congiurare contro quello stesso Ottone che da lui era stato incoronato. Egli fu cacciato e Leone, un neofita, divenne papa. L’imperatore Ottone lasciò Roma e Ottaviano vi ritornò; ne scacciò Leone, mozzò il naso al diacono Giovanni insieme con le dita della mano destra e la lingua, e avido di sangue trucidò molti ottimati; poco dopo morì. Al suo posto i Romani elevarono il grammatico   Benedetto,   ma   dopo   qualche   tempo Leone, il neofita, mosse con il suo imperatore incontro a quest’ultimo, lo assediò e lo prese;   quindi lo depose e lo mandò in Germania in esilio perpetuo. All’imperatore Ottone successe   il   secondo   imperatore   Ottone, che oggi eccelle fra  tutti i principi per virtù guerresca,  saggezza  e  dottrina.  In Roma, intanto,  alla  cattedra di Pietro saliva Bonifacio, ancora, lordo del sangue del suo predecessore; egli fu un orribile mostro le cui nefandezze superarono quelle di tutti i mortali. Scacciato e condannato da un grande sinodo, tornò a Roma alla morte  di  Ottone  e  violando  il  giuramento  fatto precipitò dalla vetta della città il pontefice Pietro, un personaggio esimio che era stato vescovo  di Pavia:  lo depose e lo uccise dopo averlo tenuto in orribile prigionia.   E  dove  mai  sta   scritto   che   gli   innumerevoli sacerdoti   di   Dio,   sparsi   per   l’orbe   terrestre   e   provvisti di dottrina e di meriti, debbano soggiacere a tali mostri privi  di sapienza  umana e divina e onta dell’umanità? ».

Insomma il trono di Pietro stava diventando l’Anticristo dell’Apocalisse mentre dall’altra parte si proseguiva ingrassandosi allegramente. Finché il Papa non irritò del tutto i Romani per il suo nepotismo e la sua avarizia. Fu allora che Giovanni Crescenzio prese in mano completamente le redini della città e ciò fece sentire il Papa in pericolo, tanto che dovette fuggire a Sutri, in Tuscia, dal Marchese Ugo. Da qui Giovanni XV sollecitò Ottone III, ormai “maggiorenne”, a venire a Roma per essere incoronato. Ottone III partì dalla Germania nel 996 e, subito, il Papa fu fatto tornare in gran fretta. Da Roma Giovanni XV attendeva l’arrivo di Ottone III ma non riuscì mai ad incontrarsi con lui perché morì prima che varcasse le porte della città nel marzo del 996.

          Ottone III, arrivato a Roma, prese atto della scomparsa di Giovanni XV e fece subito eleggere al trono pontificio (3 maggio 996) il suo cugino e cappellano Brunone, di 24 anni, con il nome di Gregorio V. Da questo momento tutti i Papi cambiarono il loro nome dal momento dell’elezione. Precedentemente solo qualcuno lo aveva fatto. Era il primo Papa tedesco e la cosa non andò giù ai nazionalisti che però sopportarono, almeno per il momento, in silenzio. Solo dopo l’elezione di Gregorio V, lo stesso Ottone arrivò a Roma per farsi incoronare e ciò avvenne il 21 maggio 996. Ottone attese solo 4 giorni e poi fece convocare un Concilio al fine di fare giustizia per la fuga da Roma alla quale fu costretto Giovanni XV. Si individuarono i colpevoli che furono condannati. Tra di essi Giovanni Crescenzio fu condannato all’esilio. Ma il Papa, desideroso di creare un buon clima per la sua presenza in Roma, pregò Ottone di graziare tutti. Visto anche lo spirito di sottomissione che tutti i rivoltosi mostrarono ed il giuramento di fedeltà che fecero, Ottone graziò tutti. Occorre, a questo punto, raccontare un evento d’interesse che accadde a Roma nel periodo di tempo in cui Ottone soggiornò nella città. Ottone III ebbe intense conversazioni con il suo amico e maestro Gerberto d’Aurillac, un dottissimo personaggio, soprattutto in ambito scientifico, che influenzò molto l’Imperatore. Ma di Gerberto palerò tra poco.

          Ottone ripartì tranquillo ma, poco dopo essere arrivato in Germania in giugno, seppe di una rivolta, scoppiata in settembre contro il Papa tedesco accusato di corruzione e capeggiata ancora da Giovanni Crescenzio. Il Papa si diede alla fuga mentre Crescenzio, che aveva ripreso il titolo di patricius, cosciente del fatto che Ottone sarebbe presto arrivato, fortificò Castel Sant’Angelo e mise insieme un nutrito gruppo di persone armate per resistere. Ma il trono di Pietro non poteva restare vacante e Giovanni Crescenzio provvide subito facendo eleggere un calabrese, Giovanni Filagato, con il nome di Papa Giovanni XVI, anche se in realtà si trattava di un antipapa (costui era stato un favorito dell’Imperatrice Teofane e quindi del partito imperiale ma, come d’uso quando vi sono importanti interesse, cambiò bandiera visto il successo della rivolta di Giovanni Crescenzio). Di nuovo Ottone III scese in Italia nel febbraio del 998 e fece arrestare l’antipapa che era fuggito nelle campagne ma poi catturato. Gli furono strappati gli occhi, gli tagliarono il naso, la lingua e le orecchie, quindi fu gettato in galera fino a farlo partecipare in queste condizioni ad un Concilio, alla fine del quale fu fatto salire a  cavallo di un asino con il quale lo fecero girare per tutta la città. I suoi sostenitori furono decapitati ed appesi come monito ai merli di Castel Sant’Angelo che cadde alla fine di aprile del 998. Giovanni Crescenzio, il Nomentano,(6) tradito da una promessa d’impunità (Gibbon), fu catturato e, come trattamento speciale, ebbe prima cavati gli occhi, fu poi decapitato, gli furono strappate le membra, quindi quel rimasuglio umano fu gettato dalle mura del Castello, messo dentro una pelle di vacca, portato in giro per Roma, finalmente fu appeso ad una forca ai piedi di Monte Mario). Naturalmente il trono di Pietro fu restituito a Gregorio V. Ma i rimorsi per la violenza assassina che si era scatenata su Roma presero Ottone III. Questi, a novembre del 999, decise di intraprendere una serie di pellegrinaggi in vari monasteri e santuari dell’Italia Centrale e Meridionale. Tra questi monasteri vi furono anche quelli benedettini di Subiaco dove meditò sulla Regola di San Benedetto. Durante uno di questi pellegrinaggi Ottone fu informato della morte di Gregorio V. Il Papa morì giovane, il 18 febbraio del 999, a 27 anni, poco meno di un anno dopo il suo  nuovo insediamento e tutto lasciava supporre che fosse stato avvelenato. Fu a questo punto che Odilone, abate di Cluny, intervenne sull’Imperatore e con tutta la forza morale della sua persona consigliò l’elezione al soglio pontifico di  Gerberto d’Aurillac(7), il monaco di 45 anni che Ottone aveva ben conosciuto a Roma, di eccezionale preparazione in tutti i campi del sapere ispiratosi anche all’esempio di Cluny. Di nuovo, grazie al  Privilegium Othonis del 962 per il quale l’elezione papale doveva avvenire soltanto con il consenso dell’Imperatore del Sacro Romano Impero e alla presenza di suoi rappresentanti, Ottone III fece nominare Gerberto Papa con il nome di Silvestro II (Gerberto cercava di avere un nome meno germanico e più latino ed approfittò anche per farsi successore ideale del Papa dell’epoca di Costantino il Grande). Occorre anche dire che l’elezione di un Papa per bene fu molto favorita dall’imminente fine del Millennio in cui tutti erano convinti della fine del mondo, in corrispondenza della quale occorreva pentirsi, essere buoni per poter accedere al Regno dei cieli (ci vuole poco agli assassini credenti a salvarsi !). Ma poi passò quell’anno fatidico ed il mondo continuava in piedi. Caspita si poteva continuare con ogni crimine, per la conquista del potere, delle donne, del denaro e di tutto ciò che rende felici i potenti. Su Silvestro II, in definitiva, si può dire che fu un Papa molto efficiente e lavorò per cristianizzare l’est e per fare alcune riforme monastiche sulla strada aperta da Cluny. Fu il primo Papa che iniziò a pensare alla liberazione della Terra Santa con crociate. Dopo una prima sollevazione di Roma proprio nell’anno 1000 che fu sedata bonariamente con l’arrivo di Ottone dalla Germania, nel 1001 vi fu una nuova sollevazione, capitanata da Gregorio I dei Conti di Tuscolo, contro l’Imperatore e Gerberto. I due, su consiglio di Enrico di Baviera, lasciarono precipitosamente la città e si rifugiarono a Ravenna (ricordo che Ottone aveva da poco visto distrutto il suo esercito dai Saraceni in Calabria). A questo punto le notizie diventano confuse. Sembra che ormai Ottone avesse perso ogni speranza di normalizzare la città di Roma tornata di nuovo in mano ai nazionalisti e che, dopo aver richiesto nuove truppe in Germania, avesse deciso di dedicarsi alla vendetta, prima al Sud, dove la sconfitta subita gli bruciava ancora, quindi a Roma ma solo, anche qui, per desiderio di vendetta. In ogni spostamento aveva dietro di sé il Papa. Dopo una campagna a Sud con poche truppe e sempre in attesa di rinforzi dalla Germania, Ottone si diresse a Ravenna per passarvi l’inverno del 1001. Mentre era in viaggio e sostava al castello di Paterno (vicino Viterbo), gli giunsero notizie del malcontento dei suoi sudditi tedeschi che si sentivano abbandonati da un sovrano che preferiva passare il tempo in Italia e pensavano di sostituirlo. Fu preso da febbri che sembra fossero malariche ed in breve tempo, all’età di 22 anni, morì. Questa è la versione tedesca ma quella romana è diversa. Stefania, la moglie di Giovanni Crescenzio, avrebbe usato la sua avvenenza e capacità di seduzione per vendicarsi della barbara uccisione del marito: quando era malato lo avrebbe avvelenato. Gerberto tornò a Roma in condizione di totale sottomissione ai vari potentati della città e temendo per la sua sorte. La morte di Ottone III permise al marchese Arduino d’Ivrea (nemico di Ottone III e dei vescovi in gran parte filo imperiali, fu scomunicato da Silvestro II nel 999) di proclamarsi Re d’Italia mentre in Germania la corona passò a Enrico II di Baviera che politicamente era vicino ad Ottone III e che, vista la situazione di disordine creatasi nell’Impero a seguito della repentina ed imprevedibile scomparsa dell’Imperatore, non era in grado al momento di intervenire in Italia.

          A Roma il popolo e l’aristocrazia nonostante riconoscessero il ruolo di Gregorio I dei Conti di Tuscolo come capo della sollevazione preferirono incoronare come patricius Giovanni de Crescenzio(8), figlio dell’eroe di Roma, Giovanni Crescenzio il Nomentano e ciò grazie al ricordo e all’affetto per il padre. Inoltre i parenti della famiglia si suddivisero il potere in tutti i territori che Roma controllava. Gerberto visse questi avvenimenti per poco poiché morì in completa solitudine e molto probabilmente avvelenato nel suo palazzo del Laterano il 12 maggio del 1003. Seguirono due Papi fatti eleggere da Giovanni de Crescenzio, Giovanni XVII (che durò qualche mese nel 1003) e Giovanni XVIII (che durò dal 1004 al 1009) dei quali non si sa nulla perché nulla fecero. Intanto il partito filo tedesco a Roma, a seguito delle voci di una prossima calata in Italia di Enrico II di Baviera, si era fortificato ed aveva messo alla sua guida i Conti di Tuscolo che si erano spacciati per filotedeschi solo per odio ai Crescenzi. Il Papa che venne dopo, Sergio IV (1009-1012) detto Bocca di Porco (Os Porci), fu anch’egli un’inutile creatura dei potentati romani.  Va soloricordato un evento d’interesse non tanto in sé ma per quanto, con il passare del tempo, accadrà: il califfo d’Egitto Hakim ordinò il saccheggio dei Luoghi Santi in Palestina. Ciò spinse Sergio ad inviare una lettera appello a tutti i regnanti cristiani per organizzare una flotta che sbarcasse in Siria, vendicasse l’affronto e liberasse quei Luoghi. L’appello cadde nel vuoto. Da notare invece un fatto che, nell’economia di ciò che discuto ebbe importanti conseguenze: nel 2012 la morte di Sergio IV fu accompagnata da quella di Giovanni de Crescenzio con il quale terminò il dominio su Roma dei Crescenzi per lasciare il passo ai Conti di Tuscolo. Questi ultimi, contrariamente ai Crescenzi che avevano mantenuto una divisione dei poteri con il Papato (il Papa si occupava del potere spirituale mentre il patricius gestiva il potere temporale), concentrarono il governo della città nelle mani del solo pontefice, dando vita a un tipo di istituzione con caratteristiche sempre più vicine ad una monarchia assoluta. Da notare che per una serie di circostanze che riguardarono successioni ed impegni altrove, gli imperatori per una decina d’anni non comparvero a Roma.

          Alla morte di Sergio IV, come accennato, vi fu uno scontro tra i Crescenzi ed i Conti di Tuscolo. I primi, con il sostegno del clero, volevano eleggere Papa un certo Gregorio, mentre i tuscolani volevano che fosse eletto Teofilatto, figlio del Conte Gregorio di Tuscolo e fratello di Romano. Vi furono scontri armati e sanguinosi, alla fine dei quali fu eletto Teofilatto (meglio sarebbe dire: si fece eleggere) con il nome di Papa Benedetto VIII (1012-1024). Va comunque ricordato che i Crescenzi non si arresero così presto. Dopo la morte di Sergio IV fecero ancora eleggere un Papa da loro voluto, Gregorio VI, che tuttavia con la morte di Giovanni di Crescenzio perse i propri sostenitori e fuggi presso Enrico II che lo destituì formalmente nonostante lo stesso Giovanni perorasse la sua causa. Enrico si mostrò dapprima favorevole a Giovanni, quindi a Papa Benedetto che gli aveva promesso l’incoronazione solenne a Imperatore del Sacro Romano Impero. Si costituì un’alleanza tra Enrico II ed i Conti di Tuscolo che, per interessi di famiglia, si convertirono ad un Imperatore straniero che ritornò a dominare in Italia e che, tornato a Roma, mise in piedi un tribunale per fare la sua giustizia. I Crescenzi furono allontanati, il prefetto di città destituito dall’incarico … Tutte le cariche importanti passarono nelle mani del partito tuscolano (Gregorovius). La famiglia rimase comunque al potere in Sabina finché non fu costretta alla sottomissione da truppe pontificie guidate dallo stesso Benedetto VIII. E Benedetto iniziò subito con uno sfrontato nepotismo nominando suo fratello Romano a capo della città di Roma con il titolo di Console e senatore dei romani e suo padre Prefetto navale di Roma.  Ma i Romani non si rassegnarono ad avere di nuovo a che fare con un Imperatore straniero. Accordatisi segretamente con Arduino [d’Ivrea Re d’Italia] e col marchese di Este, i Romani, otto giorni dopo l’incoronazione, davano libero sfogo al loro odio sperando di riuscire a scacciare i tedeschi con un attacco di sorpresa; il ponte Adriano fu teatro di una selvaggia carneficina che si concluse però nel modo consueto. Dal tempo di Ottone I, questi tumulti si ripetevano ormai quasi ad ogni incoronazione, tanto che si poteva dire che essi fossero lo spettacolo conclusivo dei festeggiamenti. Ogni volta che gli imperatori designati entravano a Roma erano salutati da inni ufficiali, ma appena si allontanavano da S. Pietro o dall’altare del Laterano, il popolo si sollevava inferocito per scacciare lo straniero dalla città, e gli imperatori di Roma da Roma ripartivano in tutta fretta, proprio come se fuggissero, dopo aver immerso in un bagno di sangue la porpora appena indossata. Enrico fece condurre in catene i caporioni della rivolta al di là delle Alpi, quindi se ne tornò egli stesso in Germania, carico di maledizioni ma anche di tesori delle città italiche e dei beni confiscati ai suoi nemici. Nel Nord e nel centro dell’Italia, egli prese con sé molti nobili come ostaggi, e molti anche ne aveva fatti arrestare a Roma tra quelli invitati all’incoronazione; appena si fu messo in cammino però, le prigioni si aprirono e i baroni, assetati di vendetta sguainarono di nuovo la spada per combattere insieme con Arduino l’imperatore d’oltr’Alpe. Tuttavia, nonostante gli sforzi compiuti, questo partito italiano non riuscì a liberarsi della tirannia imperiale tedesca; l’Italia settentrionale, suddivisa in grandi e piccoli marchesati, in contee e in episcopati forniti di immunità, non possedeva più la forza dei tempi di re Berengario. L’ultimo re nazionale italiano si vide costretto perciò nei confini del suo angusto dominio, in Piemonte; osteggiato dai conti e dai vescovi del partito filotedesco, abbandonato alla fine dai suoi vassalli e in odio all’imperatore, egli gettò la spada e vestì la tonaca benedettina nel convento di Fructuaria. dove morì nel 1015 (Gregorovius). 

          Benedetto VIII poté spadroneggiare a Roma e nei suoi territori. Aveva il sostegno dell’Imperatore e dei suoi agguerriti Conti di Tuscolo ed aveva sbaragliato i suoi più diretti avversari, i Crescenzi. Solo alla fine della sua carriera fece mostra di voler moralizzare la Chiesa cercando di porre fine a simonia, nepotismo e di affermare definitivamente il celibato del clero. Somma ipocrisia perché, alla sua morte, ricominciò la sarabanda della corruzione e della delinquenza senza alcun ritegno. Seguì Papa Giovanni XIX (1024-1032) che, alla faccia della lotta a simonia e nepotismo sbandierate, era fratello di Benedetto VIII, quel Romano, laico, che era stato messo a capo della città di Roma dallo stesso Benedetto VIII. Questa elezione avvenne con voti comprati ed estorti, con ricatti e minacce. Costui mantenne il titolo di senatore di Roma dividendo il potere civile della città con il fratello Alberico che fu nominato console della città. Riguardo al celibato il problema non toccava chi aveva a disposizione le accondiscendenti cortigiane e matrone di Roma (come sempre al servizio del potere per bassi, molto bassi, interessi personali e di famiglia). Questo schifido personaggio non aveva proprio idea di essere il vicario di Cristo. Quel trono era un affare e basta e, ad un certo punto, cercò di vendere il titolo di Papa al Patriarca Eustazio di Costantinopoli. Vi fu una sollevazione generale dei vescovi del clero occidentale e del Monastero di Cluny. Giovanni XIX, con molta amarezza, dovette rinunciare a lauti guadagni senza rendersi conto di avere iniziato la definitiva separazione tra la Chiesa d’Oriente e d’Occidente.

        Intanto moriva Enrico II a cui succedeva Corrado II detto il Salico (sposo di sua zia, Gisella di Svevia). Per l’occasione iniziarono le manovre politiche dell’Arcivescovo di Milano Ariberto che fu il primo a rendere omaggio al nuovo sovrano, sembra per avere protezione dai nobili lombardi che minacciavano la Chiesa. Per ingraziarsi Corrado, Ariberto sostenne le pretese di Corrado di essere Re d’Italia, come titolo che si sarebbe sempre dovuto accompagnare a quello di Re di Germania, e così lo riconobbe tanto che fu Ariberto ad incoronare Corrado (1026) con la corona ferrea del Sacro Romano Impero. Stessa cerimonia fu ripetuta nel 1027 a Roma da Papa Giovanni. Tanto per cambiare vi furono violenti scontri a Roma tra romani e tedeschi con una orrenda carneficina di romani. Fatto di rilievo del nuovo Imperatore fu che, per mettere fine alle liti su quale diritto applicare tra longobardi e romani, a Roma e nelle terre limitrofe valesse il Diritto Romano.

          Corrado, si volle vendicare dei torti subiti, del fatto che non era ben accetto dai nobili del Nord oltreché da Roma, del fatto che Pavia gli aveva sbattuto le porte in faccia. Gregorovius che, lo ricordo, era tedesco, così commenta queste vicende che si legavano come un rosario alle precedenti: Corrado II … mise a ferro e fuoco tutta la campagna circostante Pavia; quindi si recò a Ravenna dove l’odio popolare contro gli stranieri esplose in una rivolta soffocata in un fiume di sangue. Ai nostri giorni non possiamo dire di contemplare con gaudio e soddisfazione lo spettacolo delle spedizioni romane dei nostri progenitori e non possiamo astenerci dal compiangere l’Italia che, se di quelle imprese fu la principale responsabile, ne fu anche la vittima per più di trecento anni. Quando i sovrani tedeschi calavano giù dalle Alpi coi loro eserciti e il loro splendido seguito, le città erano costrette a fornire loro vitto e alloggio e a mantenere la corte imperiale; persino l’amministrazione ordinaria della giustizia cessava all’apparire del giudice supremo. Nei vuoti forzieri imperiali affluivano, sotto forma di regalie o di estorsioni, i tesori delle città italiane insieme col sudore dei coloni vessati dai vassalli laici e ecclesiastici e coi beni confiscati a centinaia di ribelli. L’esercito imperiale, composto di un’accozzaglia di mercenari nordici e persino slavi, terrorizzava gli Italiani i quali, misurati per carattere e dotati dalla propria natura meridionale di più raffinata sensibilità, hanno sempre superato qualsiasi altro popolo per i loro costumi cortesi. Nessuna meraviglia, dunque, se di fronte agli eccessi di quelle truppe, per le quali l’Italia non era che una provincia di schiavi sottomessi al loro sovrano, gli Italiani si chiedessero con rabbia per quale ragione la loro terra fosse votata ad una eterna dominazione straniera e se ad ogni istante si sollevassero carichi d’odio nelle città per le quali transitavano avanti e indietro le spedizioni dirette a Roma. Ma la ferrea maestà dell’imperatore medievale non degnava di uno sguardo le città fumanti, i campi devastati, le strade coperte di morti, le carceri piene di rei di alto tradimento. Egli infatti riteneva estremamente intonato al clima della sua impresa romana lo spettacolo dei cittadini più in vista dei diversi comuni che si prostravano dinanzi al suo trono scalzi e tremanti, con una spada nuda appesa al collo e i pallidi volti illuminati dalle fiamme delle loro città, dove ancora divampava l’incendio. … Egli entrò in Roma senza incontrare ulteriore resistenza. Il 26 marzo 1027 Giovanni XIX incoronò lui e sua moglie Gisella in S. Pietro, con pompa solenne, alla presenza di due re, Rodolfo III di Borgogna e Canuto d’Inghilterra e Danimarca. La cerimonia, tuttavia, fu turbata dal puntiglio puerile degli arcivescovi di Milano e di Ravenna, ognuno dei quali pretendeva dI avere la precedenza. II litigio tra i due boriosi prelati si estese ai membri dei loro seguiti e le strade di Roma divennero teatro di una vera e propria battaglia tra Milanesi e Ravennati; eppure non si era ancora  arrivati alla solita scena conclusiva delle feste d’incoronazione. La quale peraltro non venne a mancare: un alterco fortuito nato per una miserabile pelle di bue tra un tedesco e un romano bastò a far sollevare la popolazione. Cosi, al termine dell’orrenda carneficina di «innumerevoli romani», i più illustri notabili cittadini stettero ancora una volta in S. Pietro di fronte al trono imperiale, scalzi e tremanti, con una nuda spada pendente dal collo, implorando ai suoi piedi pietà.

          Sulle ripetute violenze tedesche in Italia, aggiunge un’informazione ulteriore l’altro tedesco, Deschner [1], riguardante anche la valutazione intellettuale che i tedeschi davano degli italiani: A questi uomini [gli italiani], naturalmente. non poteva star bene che gli si offrisse di continuo un re o un imperatore dall’altra parte delle Alpi. Tanto più che i Tedeschi – dei quali è interessante il fatto che solo in Italia sentissero e riconoscessero per la prima volta se stessi come Tedeschi – dovevano necessariamente svalutare ed umiliare gli stranieri, per sentirsi superiori: si giunse al punto di definire stupidi in blocco gli stranieri a sud delle Alpi, e i Bavaresi per contro tutti astuti: “Stulti sunt Romani, Sapienti sunt Paioari”.

          La violenza brutale di questo Imperatore tedesco fermò (momentaneamente le rivolte). Corrado se ne tornò in Germania convinto di aver normalizzato per sempre l’Italia. Giovanni XIX poté operare con tranquillità per i propri interessi e quelli della sua potente famiglia, i Conti di Tuscolo.

RIAPRE IL SANTO BORDELLO

          I Conti di Tuscolo, ormai saldamente al potere per ricchezze e uomini in armi oltreché per gli accordi scellerati con Corrado II, imperatore di Germania, continuarono ad eleggere Papi a loro piacimento. E così, alla morte di Giovanni XIX, nel 1032, mentre in Europa infuriavano carestie e pestilenze, elessero Papa un altro futuro delinquente nella persona di un bambino della famiglia dei Conti, Benedetto IX. Ho già detto che le notizie che abbiamo sono poche e provengono da cronisti dell’epoca che trattavano alcuni argomenti ma non tutti. Nel nostro caso le notizie provengono dalle Historiarum libri quinque (1047) di Rodolfo il Glabro, un monaco che passò gli ultimi suoi anni a Cluny e dal monaco San Pier Damiani, teologo, cardinale e Dottore della Chiesa, che nel suo Liber Gomorrhianus (1049), un vero trattato di denuncia di tutte le perverse pratiche sessuali del clero a tutti i livelli(9), definì Benedetto IX un individuo sguazzante nell’immoralità, un diavolo venuto dall’inferno travestito da prete.

          Alberico III, che guidava all’epoca la famiglia dei Conti, impose al soglio pontificio suo figlio Teofilatto. Rodolfo il Glabro scrive nel Libro 4 della sua opera che il santo pontefice era un puer circiter annorum duodecim (un bambino di circa 12 anni)(10). Questo solo dato dovrebbe subito far pensare cosa fosse il Papato. Da una parte era importantissimo perché rappresentava un’infinità di credenti sparsi in varie parti del vecchio mondo. Questo gregge imponente e super ignorante parlava estasiato del papato e niente, allora come ora, era ed è in grado di fargli intravedere una realtà differente o quanto meno di farlo iniziare a ragionare. Da ciò discendeva l’enorme potere di quel Soglio, potere che si accresceva al crescere di donazioni, lasciti, eredità che arrivavano da tutto il mondo conosciuto e che neanche le rapine e le devastazioni barbare e saracene erano state in grado di intaccare sensibilmente. D’altra parte era coscienza radicata in bande di marpioni, delinquenti e crassatori che in quel soglio si sarebbe potuto far sedere chiunque, anche un maiale vero, se con l’accompagnamento di quella stupida e truffaldina frase: Dio lo vuole. In questo senso Alberico III dei Conti di Tuscolo fu rispettoso delle credenze popolari e non fece Papa un maiale ma un bambino di 12 anni. Ed ecco come un gran figlio di puttana può diventare un sant’uomo ! Insomma il Papato ha in sé un potere gigantesco per cui occorre prenderlo ma poi materialmente sopra quel Trono si può far sedere chiunque sia manovrabile. E, andando un poco più a fondo, si capisce che i banditi che manovravano i Papi erano del tutto disinteressati ad affari di fede (cos’è?) per concentrarsi appassionatamente a potere, denaro, beni materiali, lussuria con donne, uomini o bambini. Un gran mondo insomma, giustamente quello predicato da Gesù che neanche si può rivoltare nella tomba perché, dando credito alla becera vulgata è salito in cielo con il suo corpo. Che fa allora il poveretto continuamente abusato ? Saltella, scalcia, schiuma, vorrebbe, … ma non fa nulla e lascia che si compia ogni scelleratezza perché tanto pagano sempre i poveri, i miserabili, gli ultimi, quelli che l’illuso di 1000 anni prima credeva di poter aiutare e proteggere. Ed ora ? Tranquilli fedeli carissimi, che muoiano pure questi disgraziati, questi poveri e sporchi umani, … è Gesù che lo vuole per poterli avere in cielo con lui e consolarli abbracciandoli. Leggiamo in proposito cosa scrive Gregorovius:

A che punto era giunto il mondo, se i popoli sopportavano senza ribellarsi che un bambino governasse la Chiesa, se i re lo riconoscevano e i vescovi non provavano vergogna nel ricevere da lui la consacrazione, le bolle e le insegne della loro dignità! Il papato sembrava definitivamente allontanarsi dalla sua concezione originaria e la cattedra episcopale di Pietro pareva stesse diventando lo scanno di un conte; nulla per lo meno la distingueva più dalla scandalosa amministrazione dei vescovati, ai quali, dappertutto, le grandi famiglie nobili e principesche innalzavano parenti o loro creature, e a volte persino bambini. Fitte tenebre scendevano ad avvolgere la Chiesa e se c’era stato un tempo in cui Cristo aveva dormito nel suo tempio, sembrava ormai che, lasciato per sempre il santuario profanato, egli lo avesse abbandonato alla protervia di Simon Mago.

          Per ora basta con le prediche, seguiamo invece le inclite gesta del Papa bambino o di chi per lui.

          Ho già detto che questo Papa era figlio di Alberico III, il secondogenito, e si chiamava Teofilatto (Alberico III aveva altri due figli più piccoli: Pietro ed Ottaviano). Il primogenito di Alberico si chiamava Gregorio e per lui, il degno padre, aveva scelto il titolo di senatore (per non usare il patricius che avrebbe irritato l’Imperatore considerato cosa significava questo nome) anche se ciò voleva dire che a lui spettava il governo civile di Roma e suoi territori. E perché non fu fatto Papa Gregorio ? Ma perché, come osserva Gregorovius, i Romani preferivano avere un bambino come Papa piuttosto che come amministratore della città. Benedetto IX era nipote sia di Papa Giovanni XIX che di Papa Benedetto VIII (i suoi due predecessori). In ogni caso, continua Gregorovius:

 Allorché il giovane papa sentì fremere, suI soglio di S. Pietro, le energie del proprio giovane corpo. si diede a condurre una vita esecranda. Uno dei suoi successori al pontificato, Vittore III, narra che a Roma Benedetto IX rubava e uccideva, e confessa di avere vergogna nel riferire le scelleratezze e le turpitudini della esistenza di lui. […] Con Benedetto IX il papato toccò il fondo della decadenza morale. Le condizioni di Roma in quel periodo apparirebbero probabilmente peggiori di quelle dell’epoca di Giovanni XII e, forse, supererebbero in orrore quelle del periodo dei Borgia, qualora potessimo paragonare esattamente queste età fra di loro. Ma i tempi in cui vicario di Cristo era un papa fanciullo, più giovane dello stesso Caligola e già vizioso come un Eliogabalo, sono rischiarati appena da incerte notizie. Confusamente intravediamo i capitani tramare l’assassinio di quello scellerato ragazzo durante la festa dell’Apostolo, presso l’altare.

Vi fu infatti una congiura per assassinare questo maiale, congiura molto probabilmente pensata e messa in atto dalla famiglia dei Crescenzi. Ma, purtroppo, la congiura fallì ed il maiale riuscì a fuggire da Roma e a rifugiarsi da qualche parte che non conosciamo. Nel 1037 il fanciullo si recò a Cremona per chiedere a Corrado, che era in Italia per stroncare una rivolta che vedeva alla sua testa l’Arcivescovo di Milano Ariberto, di essere riportato a Roma e quel fanciullo era pur sempre il Papa del quale Corrado aveva bisogno. Corrado lo assecondò, in cambio della scomunica di Ariberto. Benedetto rimise piede a Roma nel 1038 dove continuò a ricoprire ancora di più d’infamia (e davvero ci voleva uno sforzo sovrumano per riuscirci) l’intera Chiesa. Corrado seguì con una campagna al Sud d’Italia dove il suo esercito fu decimato dalla peste. Lo stesso Corrado, tornato in Germania ma infettato dalla peste, vi morì (1039) lasciando il trono a suo figlio Enrico III.

           Benedetto, a detta del presbitero Louis Duchesne studioso di Storia della Chiesa antica (primi anni del XX secolo), portò avanti i dodici anni suo primo pontificato senza alcun limite nei comportamenti criminali dimostrando una certa precocità verso ogni tipo di cattiveria così da apparire un demonio vestito da sacerdote. Un elenco delle nefandezze di questo Papa-maiale comprende: la pratica di stregoneria, negromanzia e satanismo che esercitava sugli altari, le reliquie e le tombe dei martiri; la negromanzia era esercitata anche nei boschi con rituali che invocavano Satana, rituali con i quali anche le donne erano spinte alla più indicibile lussuria, vestite e venerate come papesse (in silvis et montibus mulieres post se currere faciebat come diceva San Bonizone negli Annales Altahenses e, come scriveva Pier Damiani: esche di Satana, scarti del Paraadiso, veleno dello spirito, spade delle anime, lattaiole velenose degli assetati, fonte di peccato, principio di corruzione, civette, allocche, lupe, sanguisughe, meretrici, baldracche, bagasce e pasticcio per porche lardose); era bisessuale alla continua ricerca di giovanetti e giovanette da sodomizzare o giovanetti che lo sodomizzassero; si divertiva s stuprare le pellegrine che fossero state di suo gradimento, meglio se figlie bambine di tali ignare pellegrine; non disdegnava la sodomia su animali; organizzava nelle sacre stanze del Laterano orge indicibili, spesso omosessuali, alle quali erano ammessi vagabondi, parenti, nobili e soldati; aveva rapporti sessuali con la sorella quindicenne che amava vedere posseduta da almeno 9 uomini contemporaneamente; in queste degenerazioni lei è la sua Papessa e lui la benedice; e poi si immagini ciò che si vuole, non si arriverà mai a concepire le scelleratezze di questo Papa. Il già citato Pier Damiani, denigrando un imperatore di Roma che non meritava proprio di meritare un tal paragone, affermò che Benedetto IX fu il Nerone della Chiesa e che era … apostolo dell’Anticristo, saetta scoccata da Satana, verga di Asur, figliolo di Belial, puzza del mondo, vergogna dell’umanità. Le infamie ed i crimini di ogni genere non cessarono con l’ascesa al trono di Germania di Enrico III, almeno fino al 1044. Fu allora che, secondo gli Annales Romani, scoppiò una violenta rivolta dei Romani contro l’Impero rappresentato dal Papa-maiale che, di fronte all’assedio della Città Leonina guidato dal conte Gerardo di Galeria detto de Saxo, scappò in gran fretta da Roma. Tra la fine del 1044 e gli inizi del 1045 vi fu anche un duro scontro tra tutti i Romani e gli abitanti di Trastevere che erano sostenitori dei tuscolani, durante i quali i Romani elessero un nuovo Papa nella persona del vescovo Giovanni della Sabina che, ricordo, era il rifugio dei Crescenzi e, non a caso, era parente di tale famiglia. Silvestro III pagò profumatamente sia i rivoltosi sia al loro condottieroIl nuovo Papa (1045) assunse il nome di Silvestro III ma durò molto poco perché solo 22 giorni dopo (10 febbraio 1045) fu spodestato dal ritorno di Benedetto IX che contrariamente a Silvestro aveva un esercito guidato dai fratelli Gregorio e Pietro e dovette scappare rifugiandosi in qualche castello della Sabina. Il 10 aprile del 1045 Benedetto IX diede vita al suo secondo pontificato che iniziò con la scomunica di Silvestro e seguì con un altro crimine infinito (non certo a mio giudizio ma, spero, a giudizio dei credenti). Solo 21 giorni dopo terminò anche questo secondo pontificato perché Benedetto IX aveva deciso di vendere il suo posto al Soglio di Pietro ad uno che offriva molto denaro ed una cospicua rendita. Il 1° maggio, probabilmente con la mediazione di Gerardo di Galeria, ebbe luogo il trasferimento dei beni: Benedetto IX cedeva il Papato a Giovanni Graziano in cambio di quanto accennato. Ma dietro questa storia vi è dell’altro perché ad un Papa che continua ad esercitare non manca l’arricchimento continuo e quindi sembrerebbe incomprensibile la sua rinuncia a quel trono per denaro tanto più che festini ed orge di tale livello ed ampiezza non sarebbero state così facili e semplici fuori dei sacri palazzi. La storia dovrebbe essere la seguente: a Benedetto venne il desiderio di sposarsi dietro l’offerta di Gerardo di Galeria della sua figliola, in cambio però Benedetto doveva abdicare. Benedetto lo fece, unendo l’utile al dilettevole perché oltre all’auspicata moglie prese i soldi e le rendite da Giovanni Graziano. E’ interessante scoprire che, dato un Papa criminale, vi è sempre qualcuno più criminale e Gerardo di Galeria, dopo le dimissioni di Benedetto, non concesse più sua figlia a tanto maiale. Giovanni Graziano un prete della chiesa di San Giovanni a Porta Latina e discendente della famiglia di banchieri ebraici Pierleoni, che sembra abbia pagato quel trono con 650 chili d’oro (prestati dall’ebreo convertito Baruch parente anch’egli della famiglia Pierleoni)(11) e con la rendita dell’Obolo di San Pietro, fu eletto nel maggio del 1045 al Trono di Pietro con il nome di Gregorio VI. Anche io, ateo impenitente, non posso far altro che esultare perché non abbiamo più un Papa ma ne abbiamo tre ! Evviva, tre vicari di Cristo ! o forse: uno Vicario di Cristo, l’altro Vicario di Dio e l’ultimo Vicario dello Spirito Santo: i Vicari della Trinità !

          Papa Gregorio VI, nonostante la sfacciata simonia e forse perché di essa all’epoca non si ebbe notizia, venne ben rappresentato dai cronisti dell’epoca ed al suo fianco si schierò anche l’abate di Cluny, Odilo. Sembra volesse intraprendere un’opera titanica: riformare la Chiesa e cercare di fermare la delinquenza dilagante. Quest’0ultima viene così descritta da Gregorovius:

Il papato, che fin allora era stato un feudo ereditario dei conti di Tuscolo, versava in condizioni disperate; il Dominium Temporale, fatale dono dei Carolingi che nelle mani dei papi era divenuto un vaso di Pandora dal quale migliaia di mali si sprigionavano devastando Roma e il mondo intero, era svanito e la Chiesa non comandava più che su alcuni castelli nel distretto della città. Cento signorotti – capitani, cioè vassalli del papa – erano pronti a piombare su Roma; le strade erano infestate dai briganti, i pellegrini venivano regolarmente assaliti e derubati; nella città le chiese cadevano in rovina e i preti si davano ai bagordi. Ogni giorno avvenivano assassini che rendevano malsicure le strade; persino in S. Pietro la nobiltà romana osava fare irruzione con la spada in pugno per razziare quei doni che mani pietose deponevano ancora sugli altari. Descrivendo tutto ciò, il cronista loda Gregorio per aver cercato di por fine a questo stato di cose. […] Atroci ed oscuri furono i brevi anni di pontificato di quest’uomo, e a causa della sua severità nei confronti di ogni genere di ruberia egli fu ben presto odiato dai nobili e persino dai cardinali, anch’essi rapaci e avidi di ricchezza.

Proprio per questo, con il fine di cercare di mettere un ordine che sembrava impossibile, un sinodo di vescovi decise di chiedere l’intervento di Enrico III, l’odiato rappresentante dell’Impero. Ed Enrico, che aveva fama di riformatore, non si fece pregare: nell’autunno del 1046 attraversò le Alpi con un possente esercito. Arrivato in Lombardia si fece incoronare Re d’Italia e quindi convocò un Concilio di vescovi (20 dicembre 1046) a Sutri per decidere cosa fare. Al Concilio furono convocati i tre Papi ma solo due si presentarono, Silvestro III e Gregorio VI. Il primo fu deposto ed il secondo, accusato di simonia, fu invitato a dimettersi, cosa che fece.

          Enrico proseguì verso Roma dove convocò un altro Concilio a Roma che si tenne a partire dal 23 dicembre. Nell’arco di due soli giorni fu eletto un Papa tedesco (un sassone), voluto da Enrico, che assunse il nome di Clemente II ed in pochi giorni incoronò Imperatore Enrico il quale assunse anche il titolo di patricius. L’Imperatore pretese ed ottenne di indicare in futuro il nome del Papa da eleggere.

          Clemente si sentiva del tutto insicuro a Roma e non muoveva passo se non al seguito dell’Imperatore che era superprotetto. L’impresa in cui si cimentò Enrico fu il tentativo, non riuscito, di mettere a tacere o comunque ridurre all’obbedienza i Conti di Tuscolo. E quando, dopo una breve escursione al Sud, Enrico, nella primavera del 1047 se ne tornò in Germania ebbe al seguito lo stesso Papa. Quest’ultimo in autunno provò a far ritorno a Roma ma fu avvelenato a Piacenza, probabilmente da emissari di Benedetto IX.

          Ed il Papa-maiale poté riprendere possesso del Trono di Pietro nel novembre del 1047 ed era la terza volta ! Un valido sostegno a Benedetto lo dette Bonifacio II signore di Canossa e marchese di Toscana, imparentato con una importante casa tedesca (i duchi di Lotaringia) e quindi in qualche modo legato all’Impero ma più ancora al suo potere personale, infatti aspirava a diventare patricius Romanorum. Dalla Germania Enrico III non accettò il ritorno di Benedetto IX e fece eleggere in Germania un nuovo Papa, l’altro vescovo tedesco (Baviera) Poppone che il 25 dicembre 1047 assunse il nome di Damaso II (sarà poi consacrato il 17 luglio 1048). Costui fu inviato in Italia da Bonifacio di Toscana che avrebbe dovuto accompagnarlo a Roma contestualmente alla cacciata di Benedetto IX. Bonifacio rifiutò e Damaso II se ne tornò in Germania. Ma Enrico minacciò Bonifacio il quale, alla fine, accompagnò Damaso a Roma e cacciò definitivamente il Papa-maiale dalla città (17 luglio 1048). E di lui non si sa più nulla. Lo stesso Bonifacio morirà colpito a tradimento da frecce avvelenate nel 1052). Comunque il nuovo Papa decise di non risiedere a Roma, che continuava a ritenere pericolosa, si trasferì perciò a Palestrina, feudo dei Crescenzi, nemici dei Conti di Tuscolo(12), dove morì di malaria (o avvelenato da emissari di Benedetto IX) solo 23 giorni dopo la sua consacrazione.

GUERRE DI PAPI: UNA PAUSA NEI CRIMINI E BORDELLI

          Il successore fu ancora scelto da Enrico III che impiegò però tempo poiché non si trovava una persona all’altezza del tanto promesso rinnovamento. Fu scelto un alsaziano, Brunone che pose la condizione per l’elezione che questa fosse accettata dal clero e dal popolo romano. Questa posizione di umiltà gli dette un grande credito e Brunone, presentatosi senza seguito e scalzo, fu accolto a Roma con entusiasmo da tutti. Finalmente fu eletto Papa nel 1049 con il nome di Papa Leone IX (1049-1054). Il suo lavoro fu encomiabile (il rigido vento del Nord, come scrive Gregorovius) perché non lavorò da solo ma richiese intorno a sé i più eminenti pensatori cristiani che, naturalmente, erano fuori dall’area criminale. Tra questi chiamò ancora Ildebrando che si era formato a Cluny. Iniziò a fare pulizia di ogni carica ecclesiastica acquistata con la simonia. Emanò durissimi decreti contro il concubinato ecclesiastico. Dovette però subire una cocente sconfitta sul piano temporale. Tentò di contrastare con le armi i normanni, sostituitisi nel Sud d’Italia ai bizantini, che si aggiravano intorno a Benevento. Intanto li scomunicò. I normanni non volevano combattere con il Papa e tentarono di trattare ma Leone non volle cercando lo scontro e confidando di vincerlo. Fu però duramente sconfitto nel 1053 a Civitate sul Gargano e passò in una prigione a Benevento per circa sei mesi. Fu questo un errore clamoroso di Leone perché gli fu rinfacciato il suo essere andato in armi contro dei cristiani di fede ortodossa, i normanni. La voce che si diffuse era relativa ad una punizione di Dio. Fu rilasciato a marzo del 1054 dopo aver tolto la scomunica ai normanni ed aver riconosciuto il loro dominio in varie terre del Sud. Giunto a Roma vi morì subito.

          Ildebrando era in missione in Francia dove seppe della morte del Papa Leone. Si affrettò verso la Germania per l’elezione del nuovo Papa che fu ancora un uomo fortemente voluto da Enrico III e raccomandato da Ildebrando. Il nuovo Papa, un valente ed intelligente politico anche se di giovane età: Gebardo dei conti di Calw, fu eletto nel 1055 con il nome di Papa Vittore II (1055-1057) ed ebbe da Enrico III l’incarico di curare gli interessi dell’Impero in Italia. Solo un anno dopo, a 39 anni, morì Enrico III che lasciò l’Impero, ed in esso l’Italia, nell’anarchia (aveva un figlio, Enrico IV, di soli 6 anni e quindi fu necessario che la madre Agnese assumesse la reggenza), con la conseguenza che la Chiesa si liberava dal controllo dell’Impero. Ma anche il giovane Vittore durò poco, nel 1057, anche lui a 39 anni, morì.

        Per qualche tempo non vi fu più il rigido ed importante controllo tedesco sul Papato e le famiglie italiane rialzarono la testa cercando i grandi affari permessi dal Papato. Questa fu la volta di Goffredo, duca di Lotaringia, che si era impadronito dei beni di Bonifacio di Toscana, assassinato nel 1052, attraverso il matrimonio con la sua vedova Beatrice di Lorena, divenendo, in tal modo, anche marchese di Toscana. Goffredo ebbe il riconoscimento delle proprietà dal reggente dell’Impero e quindi poté iniziare le sue scorribande in Italia. Papa Vittore, nel 1057, poco prima di morire, avendo capito la potenza della famiglia di Goffredo aveva nominato suo fratello Federico prima abate di Montecassino quindi prete-cardinale di una chiesa in Trastevere a Roma. E’ d’interesse sapere che aveva consigliato tale legame lo stesso Ildebrando che, anche lui, aveva da una parte capito la potenza di quella famiglia e dall’altro sperava che la Chiesa riuscisse ad emanciparsi dall’ Impero attraverso una famiglia devota ma non succube e comunque l’unica che permettesse lo sganciamento auspicato. Fu ancora Ildebrando che indicò Federico come successore di Vittore che venne eletto da lì a poco con il nome di Papa Stefano IX (1057-1058). Si trattava di una elezione naturale in un periodo di debolezza della corona germanica, l’unico Papa sostenuto da una famiglia in grado di essere antagonista all’Impero. Ebbe i voti del clero e dei Romani che dopo tanto tempo potevano tornare arbitri di una libera elezione. La famiglia dei Lotaringi riuscì con questa elezione ad espandere il suo potere in tutta Italia. E Stefano fu molto abile perché nominò subito lo stesso Ildebrando come ambasciatore pontificio presso la corte del piccolo Enrico IV, con il compito di placare le acque, molto agitate a seguito della violazione del diritto tedesco di indicare il pontefice, e mostrarsi amico dell’Impero. Nel frattempo maturò il progetto, portato avanti anche dal Papa, di costruire un Regno d’Italia per Goffredo, magari anche ai danni dei Normanni. Stefano, al fine di mettere su un esercito, si fece portare a Roma i tesori conservati a Montecassino. Ogni progetto però fini a seguito della sua morte.

        Questa morte fu vista dai Conti di Tuscolo come un’opportunità di riprendere in mano il potere nella Chiesa. Il fratello di Benedetto IX, Gregorio di Tuscolo, con un manipolo di soldati entrò in Roma e sistemò al soglio pontificio Giovanni detto il Mincio, cioè il minchione, con il nome di Papa Benedetto X. I chierici romani non vollero riconoscere questa elezione perché irregolare ma dovettero abbandonare il tutta fretta la città per le ritorsioni aspettate. La speranza era Ildebrando con il quale, quando fosse tornato dalla Germania, scegliere un candidato Papa.

        Goffredo di Toscana ospitò a Siena l’assemblea di coloro che non accettavano Benedetto X e costoro indicarono, come candidato Papa, il vescovo di Firenze Gerardo di Borgogna. Richiesta del sostegno, la reggente Imperatrice Agnese, lo dette ed incaricò Goffredo di scortare a Roma, per essere incoronato, il nuovo Papa, che assunse il nome di Niccolò II (1059-1061). La marcia su Roma era molto difficile perché le famiglie nobili la tenevano in pugno. Si decise di usare tutti i mezzi per farlo, arrivando a corrompere le persone giuste perché il sostegno a tali famiglie venisse meno. Bendetto X fu quindi cacciato da un’insurrezione  popolare.

        Il ripetersi di queste situazioni che non permettevano di sapere mai bene chi era il Papa legittimo, se eletto o meno con l’uso di denaro e/o armati, richiese l’immediato intervento del nuovo Papa. Egli convocò subito un Concilio in Laterano (1059)  e fece emanare una Costituzione Apostolica, la In nomine Domini, che fissava il modo di eleggere un Papa: il corpo elettorale sarebbe stato solo dei cardinali-vescovi con i cardinali non vescovi(13) che avrebbero solo potuto fornire la loro adesione ad elezione avvenuta mentre popolo e clero inferiore avrebbero solo potuto dare un consenso, sempre ad elezione avvenuta (nel 1179 Papa Alessandro III, con la Costituzione Apostolica Licet de vitanda discordia,estese l’elezione del Papa a tutti i cardinali). Inoltre l’elezione del Papa poteva avvenire anche fuori Roma. Con questo documento di fatto veniva tolta ogni potestà al popolo di Roma ma anche all’Imperatore. Poiché ci si attendevano ritorsioni imperiali, si pensò di avvicinare i Normanni che sarebbero potuti diventare i difensori della Chiesa e comunque in grado di essere un contraltare all’Impero. Per stringere questa alleanza Niccolò si recò nel Meridione e trattò con i capi normanni (Riccardo d’Aversa e Roberto il Guiscardo). Cedette alcune terre nelle disponibilità papali ed altre che invece non lo erano ed ebbe in cambio il vassallaggio normanno al pontefice con l’impegno di aiuto militare contro ogni minaccia. Qui si posero problemi per gli storici perché il Papa donava terre che erano di altri potentati. Si è addivenuti alla conclusione che la punta di diritto era la falsa donazione di Costantino che, all’epoca, era ritenuta vera da tutti. Osserva Rendina che “i riformisti, che tanto si battevano per la legalità e la purezza degli ideali, finivano per appoggiarsi anche loro ad istituzioni illegali e storicamente false”. Altro colpo che mise a segno Niccolò II fu l’alleanza con un vasto movimento di basso clero e popolo al Nord d’Italia, la Pataria (guidata dal diacono Arialdo e dal suddiacono Landolfo), che rivendicava con forza la riforma della Chiesa contro il malcostume di vescovi e nobili milanesi (il movimento nacque intorno al 1045 e si sviluppò moltissimo diventando successivamente un movimento pauperista ed eretico, quello dei patarini). Il fine era riuscire gradualmente a mettere insieme tutta l’Italia e, contemporaneamente, quello di riconquistare un minimo dello spirito originario del Cristianesimo corrotto violentemente ed indegnamente dalla nobiltà e dal clero simoniaco.

        Niccolò invio messi alla corte tedesca, per spiegare le sue scelte politiche, ma non furono ricevuti. Anzi vi fu l’inizio di uno scisma da parte dei vescovi tedeschi che non riconobbero nessuna decisione di Niccolò. Il tutto restò in sospeso per la morte del Papa nel 1061.

        Tale morte spinse subito i nobili romani guidati da Gerardo di Galerìa, con i vescovi lombardi che volevano eleggere un tal Guiberto, alla corte imperiale tedesca per chiedere un Papa a loro gradito al di fuori delle assurde regole di Niccolò. Ildebrando sfidò tutti e organizzò a Roma l’elezione del nuovo Papa con le regole introdotte da Niccolò. Risultò eletto Anselmo da Lucca con il nome di Papa Alessandro II (1061-1073) che aveva anche il pregio di essere accetto alla corte imperiale. I tentativi dei nobili romani di creare disordini furono stroncati dai normanni prontamente intervenuti al comando di Riccardo d’Aversa, promosso nel frattempo, da Papa Niccolò II, Principe di Capua. Ma i nobili romani, i vescovi lombardi e tedeschi reagirono e in un Concilio convocato a Basilea elessero un altro Papa: il vescovo di Parma, Cadalo, che assunse il nome di Onorio II. Nel far questo riconobbero l’autorità dell’Imperatore Enrico IV che aveva 10 anni e lo nominarono patricius Romanorum. E’ d’interesse notare che gli elettori di Onorio avevano rifiutato le deliberazioni del Concilio Laterano del 1059 (tra cui quella che permetteva l’elezione del Papa fuori di Roma) e ciò li obbligava a tornare a Roma per rendere ufficiale l’elezione di Onorio. Venne messo insieme un esercito di lombardi che sconfisse gli armati messi insieme a Roma da Ildebrando. Ciò permise ad Onorio di entrare in città e di tentare di aumentare i suoi armati in attesa dell’arrivo dei Normanni che avrebbero ripristinato Alessandro II sul trono papale. Prima che ciò avvenisse si inserì nella contesa Goffredo di Toscana tentando la mediazione che consisteva nel far recedere ambedue i Papi in attesa che la decisione venisse presa nella capitale Augusta dell’Impero. Sarebbe stata una marcia indietro per i tentativi di riforma che avrebbero visto con grande favore lo sganciamento dal potere imperiale … ma un importante avvenimento alla corte di Augusta cambiò radicalmente le cose. Vi fu un colpo di Stato (1062) guidato da un vescovo, Annone di Colonia, che tolse la reggenza alla madre Agnese di Enrico IV e l’assunse per sé (dividendola l’anno seguente con l’altro vescovo, Adalberto di Amburgo e Brema). Annone divenne arbitro della contesa tra Papi e decise che il Papa legittimo era Alessandro II in cambio di importanti cariche ecclesiastiche per Annone e per altri suoi sostenitori.

        Alessandro scomunicò Onorio e questi scomunicò Alessandro. Onorio con i finanziamenti dei nobili romani rimise su un esercito con il quale riprese Roma, dove Alessandro era asserragliato in Laterano difeso dai Normanni. La contesa violenta fu risolta da Annone che non volle in alcun modo riconoscere Onorio e, in un Concilio di vescovi italiani e tedeschi a Mantova nel 1064, fece definitivamente accettare Alessandro II (ma, fino al 1072, Onorio continuò a professarsi Papa). Alessandro II tentò di continuare l’opera di riforma ma fu impelagato in una serie innumerevole di problemi sia internazionali che interni (tra l’altro era morto nel 1069 un suo sostegno, Goffredo di Toscana. A costui era succeduto il figlio Goffredo il Gobbo che era sposato con Matilde che diventerà più oltre Matilde di Canossa, figlia di Beatrice di Toscana). Morì nel 1073 senza che nulla di effettivamente nuovo fosse realizzato. Durante la cerimonia funebre in Laterano il popolo di Roma, incitato dal cardinale Ugo Candido, acclamò Ildebrando Papa e quasi lo trasse in trionfo. Ildebrando non voleva un’elezione così perché credeva nelle regole fissate da Niccolò. Ma non vi fu nulla da fare perché fu trascinato a San Pietro in Vincoli per essere incornato Papa con il nome di Gregorio VII (1073-1085).

        Gregorio intraprese un’azione ad ampio raggio scrivendo a tutte le persone che avevano importanti responsabilità in Europa al fine di avere sostegno per l’opera di riforma che si riprometteva di avviare affiancata da quella di riconquista alla Chiesa dei possedimenti che riteneva di sua proprietà. Ebbe il sostegno ufficiale di Enrico IV, anche se da quelle parti non avevano gradito un’elezione nella quale non avevano potuto dare indicazione i tedeschi. In un Concilio del 1074 vi fu una dura offensiva contro chi aveva venduto e chi aveva acquistato cariche ecclesiastiche. I chierici ordinati per simonia dovevano considerarsi fuori dalla Chiesa mentre i vescovi che avessero ottenuto incarichi di prestigio, sempre per denaro, dovevano immediatamente lasciarli. Sul piano dottrinale vi fu una durissima condanna degli ecclesiastici che non rispettavano il celibato essendo sposati (venivano chiamati nicolaiti) o vivendo in concubinaggio ed avendo prole (si trattava di una evoluzione meno ipocrita dell’agapete che veniva praticata nei primi secoli della Chiesa). Inoltre si richiedeva ai Re o Signori che avessero beni ecclesiastici di restituirli alla Chiesa. E Gregorio esternava la sua indignazione per una Chiesa sempre più corrotta in ogni suo ganglio a chiunque in essa avesse una qualche responsabilità. Come esempio si può leggere una lettera che il 24 gennaio 1074 egli inviò al Vescovo Sicardo d’Aquitania in cui in cui descrive una Chiesa prossima alla fine:

Crediamo non ignori la tua prudenza da quanti flutti di perturbamenti sia sbattuta per ogni verso la Chiesa, e come sia quasi sul punto di far naufragio e rimaner sommersa nelle calamità della sua desolazione. Reggitori e principi di questo mondo cercano ognuno gli interessi propri, non ciò che è di Gesù Cristo; e, messo sotto i piedi ogni senso di reverenza, quasi serva spregevole la opprimono e, pur di soddisfare alle proprie cupidità, non hanno il minimo ritegno a coprirla di confusione. I sacerdoti e coloro che sembrano aver in mano il governo della Chiesa si mettono, quasi completamente, dietro le spalle la legge di Dio, defraudando Dio e il gregge ad essi affidato di ciò che è il dovere del loro ufficio, così che si fanno delle dignità ecclesiastiche nient’altro che uno strumento di gloria mondana, e quello che dovrebbe essere un servizio tutto dedicato a utilità e salvezza di molti, o lo trascurano o deplorevolmente lo esauriscono in ostentazione di superbia e sfarzosa superficialità. Intanto il popolo, non guidato per la via della giustizia da nessuna direzione di superiori, da nessun freno di precetti; e ammaestrato, anzi, dall’esempio di chi è a capo di ogni male e di ciò che è opposto alla religione cristiana. Piegano verso tutte quasi le scelleratezze, vi si gettano a precipizio, portano il nome cristiano non dico soltanto senza adempiere le opere, ma quasi senza più alcun sentimento di fede.

          Dalla Germania vi fu una generale ed irata sollevazione dei chierici con moglie che arrivarono a minacciare di morte il Papa. Gregorio fu molto duro e sospese 5 vescovi che avevano protestato e che erano tra i consiglieri di Enrico IV, inoltre tolse all’Imperatore la possibilità di investire vescovi, pena la scomunica. Naturalmente ciò comportò una rottura definitiva tra Impero e Papato e Gregorio emanò un suo documento, il Dictatus Papae, nel quale elencava dei canoni, cioè le condizioni per la riconciliazione. Il Dictatus era in pratica la rivendicazione della supremazia del Papa su qualsiasi autorità terrena. Il pontefice rivendicava il potere di deporre o reintegrare vescovi, principi ed imperatori. Gregorio sapeva che questo avrebbe provocato un duro scontro e così fu perché niente di quanto annunciato dal Dictatus fu preso in considerazione. Anzi, Enrico IV concesse da subito nuove investiture, nominò il nuovo arcivescovo di Milano, nella persona di Tedaldo, suo cappellano, ed interferì in vario modo nello stesso clero italiano tentando di costruire un nucleo di avversari di Gregorio. Si arrivò alla congiura guidata proprio dal cardinale Candido. Nel 1075 Gregorio fu pugnalato mentre diceva messa in Santa Maria Maggiore e condotto in prigione da una banda di armati. I fedeli, superato lo sbandamento iniziale, riuscirono a liberarlo il giorno seguente mettendo in fuga i congiurati che ripareranno in Germania.
        Gregorio convocò a Roma Enrico IV perché si discolpasse (1076). Se non lo avesse fatto sarebbe stato scomunicato. Fu ancora Candido ad alimentare lo scontro, raccontando ad Enrico IV che Gregorio tramava con Matilde di Canossa (con stregonerie e rapporti indicibili), diventata una potente feudataria che in pratica aveva in mano l’intera Italia Settentrionale, per sottrargli i suoi possedimenti in Italia. Enrico IV inviò a Gregorio una dichiarazione di disobbedienza, sottoscritta da quasi tutti i vescovi tedeschi e lombardi, ritenendolo non più degno di occupare quel posto. Gregorio rispose con la solenne scomunica di Enrico IV e di tutti coloro che avevano firmato la disobbedienza. Enrico IV si adirò violentemente ma si rese conto che il popolo sosteneva il Papa anche perché sembrò che l’ira divina si abbattesse su di lui attraverso i suoi sostenitori che in breve tempo morirono in quantità. Ciò provocò la diffusione di una paura superstiziosa che fece levare contro Enrico IV vari principi tedeschi che già non lo apprezzavano. In questi casi si ricorreva al perdono papale e la cosa fu proposta ad Enrico IV: se otterrà il perdono papale non si correrà il rischio di una guerra civile e tutti i principi ribelli lo avrebbero riconosciuto come Imperatore. Ci furono momenti di indecisione che si conclusero in un viaggio di Enrico in Italia ma con un esercito al seguito. Gregorio, che viaggiava nel Nord Italia, saputo che Enrico aveva attraversato le Alpi e non conoscendone le intenzioni, si rifugiò nel castello di Matilde di Canossa, a Canossa sull’Appennino Emiliano. Enrico, arrivato fin qui, chiese di essere ricevuto ed il  Papa negò ogni contatto. Matilde ed altri dignitari pregarono il Papa di recedere ma egli fu irremovibile: Enrico dovrà stare tre giorni e tre notti al freddo ed al gelo prima di essere ricevuto ! Passato questo tempo lo ricevette, lo ascoltò nella cappella del castello, prese atto della richiesta di perdono, dopodiché lo riammise tra i fedeli e gli dette la comunione. Sembrava completamente sottomesso Enrico IV ma macinava rancore e vendetta che avrebbe scatenato appena riconquistato il trono. Ma né popolo né principi erano più con lui. Lo cacciarono ed elessero Imperatore Rodolfo Duca di Svevia, cognato di Enrico. Dopo varie vicende che vedranno anche uno scontro armato tra partigiani di Enrico e di Rodolfo, nel 1080 il Papa consacrò Imperatore Rodolfo e scomunicò di nuovo Enrico per non aver rispettato gli accordi di Canossa. L’ex Imperatore, per tutta risposta, convocò una dieta di vescovi, in maggioranza nicolaiti e simoniaci, a Worms (1080), che dichiarò deposto il Papa ed eletto come nuovo pontefice l’arcivescovo di Ravenna Guiberto (uno dei capi della congiura di Santa Maria Maggiore) con il nome di Clemente III che, come primo atto, scomunicò Gregorio. Vi furono frenetici tentativi di Gregorio per la sua difesa e quella del Papato in un momento in cui Enrico IV si era riorganizzato (sconfiggendo ed uccidendo Rodolfo) ed in Italia non aveva grossi sostegni oltre Matilde di Canossa al Nord (che si scontrò nel 1080 con l’esercito dei vescovi che sostenevano Enrico IV subendo una dura sconfitta). Riallacciò i legami con i Normanni e particolarmente con Roberto il Guiscardo che, scomunicato per aver toccato terre della Chiesa a Benevento, fu riammesso tra i fedeli a patto di difendere la Chiesa (l’altro re normanno, Giordano di Capua, figlio di Riccardo, prima accettò la difesa del Papa poi fece dietrofront). In definitiva Enrico IV arrivò alle porte di Roma per cacciare Gregorio ed imporre Clemente. Furono i medesimi romani che riuscirono a respingere Enrico che per almeno due anni non tentò nulla contro Roma. Passati questi due anni Enrico tornò e riuscì ad entrare in città con Gregorio asserragliato a Castel Sant’Angelo. Tutto era perso perché i nobili romani, che avevano organizzato la sconfitta di Roma, si schierarono con lui; perché i vescovi lombardi riconobbero Clemente come Papa; perché Enrico si fece incoronare come Imperatore da Clemente III in Laterano nel 1083: un’eterna vergogna per Enrico IV l’essere incoronato Imperatore ds un’antipapa. Il normanno Roberto il Guiscardo che avrebbe dovuto difendere Roma ed il Papa, si presentò a Roma nel 1084 con due anni di ritardo dalla richiesta e con un grande esercito, tale da far scappare Enrico IV e far rifugiare Clemente III in luogo sicuro a Tivoli (in questa occasione Matilde passò al contrattacco contro i vescovi del Nord riprendendo quanto gli era stato sottratto nella precedente sconfitta). Per questo aiuto il prode normanno volle mettere a sacco Roma, con massacri inauditi e provocando violenti incendi che distrussero quasi due terzi di essa.                                                                               Gregorio verrà preso ostaggio da Roberto che non avrà il coraggio di restare Roma per la violenta ostilità di tutti nei suoi riguardi. Ma anche Gregorio aveva perso il sostegno popolare tanto che fu accettato addirittura Clemente III, risorto da Tivoli, come Papa, mentre Gregorio moriva a Salerno (1085) dove era stato portato da Roberto il Guiscardo. Si chiudeva qui la vicenda di un riformatore che fece cose importanti contro simonia ed immoralità del clero e che aprì la strada, in modo del tutto inconsapevole alle grandi eresie della Chiesa dei secoli futuri. Capito cosa significava la moralità il popolo la continuò a pretendere anche dai successori di Gregorio.
        Se si dà un’occhiata all’elenco dei Papi, alla morte di Gregorio ricominciò una sarabanda di delinquenti al potere. Vi furono certamente delle brave persone o delle persone che in buona fede credevano di poter ambiare qualcosa. Il fatto è che era la Chiesa marcia, marcia fino al midollo, nell’ipotesi che lo avesse, avendo perso ogni rapporto con i Vangeli e quindi con il messaggio del presunto Gesù. Solo potere, con orge sfrenate, con denaro vagante, con prostitute, con pedofilia, con omicidi, guerre ed ogni altra indegnità. Gregorio VII risulta essere, nel Liber Pontificalis, il Papa n° 157. Dopo di lui vi furono ben 18 antipapi, ed il costume si placò solo nella metà del XV secolo a partire da Papa Niccolò V (1447-1455), il Papa n° 208. 
        Dopo Gregorio VII fu eletto Papa un benedettino da tutti riconosciuto come un sant’uomo (Gregorio aveva indicato tre possibili successori ma la corte pontificia conoscendo il forte carattere di questi, per non ripetere l’esperienza di un Papa che faceva tutto lui con serietà e senza corruzioni, decisero per un candidato diverso). Il momento era delicato e solo in questo modo sarebbe stato possibile avere una tregua intorno al trono pontificio e rimettere in moto ogni imbroglio. Anche qui, per acclamazione e per l’intervento decisivo in suo favore di Matilde, fu eletto Desiderio di Montecassino che assunse il nome di Papa Vittore III (1086-1087). L’eletto però non voleva saperne di fare il Papa perché preferiva una vita ritirata di preghiera e lavoro piuttosto che entrare nelle sarabande criminal–lussuriose pontificali. Quindi Vittore si allontanò da Roma convocando un Sinodo a Montecassino (nel Sinodo Clemente III fu scomunicato, fu rinnovato il divieto all’investitura laica), dove ricomparve l’antipapa Clemente III che resterà come una presenza ineliminabile fino al 1100. Matilde intuì che l’intransigenza non serviva e si schierò col nuovo pontefice. Raggiunse Roma e vi si insediò; mandò quindi degli ambasciatori a Montecassino per organizzare il ritorno del pontefice che ella stessa successivamente accompagnò a Roma. Nonostante la malattia, Vittore III arrivò fino a Roma dove restò per poco tempo anche per i violenti scontri dei suoi sostenitori con quelli di Clemente III. Alla fine i suoi ebbero il sopravvento e Vittore si insediò in San Pietro (risiedendo però nell’Isola Tiberina in luogo di cura) ma, di fatto, fu Papa per soli 4 mesi preferendo ritirarsi ancora nel suo eremo di Montecassino dove morì nel 1087. Nel suddetto Sinodo di Montecassino, oltre a quanto accennato, si iniziò ad impostare la campagna contro i Saraceni in Africa e proprio su questa importante questione vi furono avvenimenti che accaddero sotto il suo Papato che meritano di essere ricordati. Quella corte pontificia, che si era in gran parte sostituita alla prepotenza nobiliare (ma in realtà era la medesima cosa perché tra quei vescovi e cardinali vi erano i rappresentanti dei nobili), decise, così sembra, all’insaputa del Papa una spedizione contro i musulmani, una pre crociata. Già sotto Gregorio vi era stata una pre-crociata (1081) guidata dal normanno Roberto il Guiscardo che, per la prima volta nella storia, ebbe il permesso dal Papa di issare la croce come simbolo di un esercito. Altra pre-crociata fu appunto quella che maturò sotto Papa Vittore III (1086) e fu realizzata da una coalizione di Repubbliche Marinare: Genova, Pisa, Amalfi (mancava Venezia, per suoi interessi commerciali). In realtà queste Repubbliche cercavano di difendersi dalle continue incursioni dei Saraceni africani in territori europei che, tra l’altro, rendevano insicure tutte le rotte con grave danno per i loro commerci. Inizialmente si riuscì a liberare la Sardegna e la Corsica fino ad una incursione in territorio tunisino dove fu conquistata e saccheggiata la roccaforte della flotta saracena di Mehdia. Con il bottino di guerra fu costruita la cattedrale di Pisa.              Alla morte di Vittore nel settembre 1087 seguirono scontri violenti tra le famiglie nobili a Roma, scontri che interessarono anche i Normanni, i Lombardi e l’Impero di Augusta. Era tutto tornato come prima con attori che via via cambiavano sulla scena recitando sempre la stessa parte. La novità era quella della lotta contro i musulmani contro i quali la Chiesa tentò di riconquistare l’unità dei cristiani. L’operazione inizierà con Papa Urbano II (1088-1099), successore di Vittore ed anch’esso eletto con il sostegno di Matilde.

           Con Urbano II furono lanciate le Crociate. Non è mio scopo raccontare le vicende di questa vergogna ma solo ricercarne la visione d’indirizzo politico utilizzata dalla Chiesa per risolvere i suoi problemi ed acquistare il primato in Occidente. Seguirò quindi più che le imprese degli eserciti combattenti quelle dei Papi che stavano dietro queste mattanze e che per la prima volta avevano fatto un uso indegno della croce sovrapponendola ad un esercito combattente la Militia Christi. Urbano morì nel 1099 senza che avesse potuto sapere del successo della sua Prima Crociata.

UN’ALTRA PAPESSA (FORSE CALUNNIATA): MATILDE DI CANOSSA

          Chi non ha sentito nominare questapia donna?Il suo nome è entrato anche nel linguaggio comune con quell’andare a Canossa. Ed io ho riportato quanto la storia per i poveri ci racconta, l’umiliazione dell’Imperatore Enrico IV, costretto al fredo ad aspettare di essere ricevuto. Ma vi è anche un’altra storia, più nascosta, ma altrettanto importante che merita di essere conosciuta.

          Chi era Matilde di Canossa (1046-1115)?

          Nacque a Mantova nel 1046, figlia del potente Bonifacio, marchese di Toscana e signore di Canossa, e della contessa Beatrice di Lorena (che, dopo l’assassinio di Bonifacio, sposò il duca Goffredo di Lotaringia divenendo Beatrice di Lotaringia). Sposò dapprima Goffredo il Gobbo (1069), duca di Lorena. Ma questo matrimonio risultò non gradito a Matilde che evitò lo sposo in ogni modo rifiutandogli la «maritalem gratiam» (come scrisse il cronista dell’epoca St-Hubert nel Chronicon). Nel 1076, dopo un lungo periodo in cui Matilde e la sorella Beatrice fecero da intermediarie tra il Papa ed i vescovi feudatari locali con il sostegno dichiarato in armi di Goffredo alla politica di Gregorio VII, vi fu un voltafaccia di Goffredo che alla dieta di Worms votò secondo il volere di Enrico IV per la deposizione di Gregorio VII. In questa occasione Goffredo insinuò l’esistenza di rapporti amorosi tra il pontefice e Matilde. Nello stesso anno Goffredo fu assassinato e molti coltivarono il sospetto che Matilde avesse ordito ogni cosa. Seguirono molte lettere tra Matilde e Gregorio che mostravano grande affinità e quasi intimità tra i due tanto che nacquero voci sempre più insistenti su loro rapporti indicibili. Sta di fatto che, dopo la morte del marito ed anche della sorella Beatrice (1076), Matilde si trovò proprietaria di vastissimi territori. Lo stesso Papa dovette intervenire invitando il vescovo di Reims a sostenere Matilde con milizie per consentirle di entrare in possesso di tutti i feudi della Chiesa romana assegnati a suo tempo a Goffredo il Gobbo e delle terre provenienti dall’eredità della madre e del marito. Finalmente nel 1077 vi fu l’episodio di Enrico IV costretto alla penitenza per tre giorni davanti al Castello di Canossa. Dopo questi eventi, seguiti da un incontro tra Papa, Matilde ed Enrico IV che doveva avvenire a Mantova ma saltato perché Matilde scoprì che era una trappola, il Papa e Matilde si recarono insieme a Roma. Prima però sembra che Matilde abbia espresso la volontà di rendere la Chiesa erede di tutti i suoi immensi beni. Dico sembra perché la Chiesa è esperta in false donazioni. Seguirono gli eventi ai quali ho accennato nel capitolo precedente fino all’elezione, anche da lei sostenuta, di Papa Urbano II. Prima però vi fu la sua pressione su Vittore III perché venisse a Roma a fare il Papa. Ella stessa lo accompagnò da Montecassino e, visto il suo stato di salute, lo fece dimorare in una sorta di ospedale che si trovava sull’Isola Tiberina (1087). Qui vi fu assegnata una stanza che ella condivise con il Papa per tutto il periodo della sua degenza. E’ facile immaginare che anche qui si scatenarono le chiacchiere ingiuriose sui suoi rapporti con il Papa vecchio e malato. Subito dopo l’elezione di Urbano II vi fu un’altra incursione di Enrico IV in Italia, a seguito della quale fu Urbano II a consigliare Matilde di risposarsi e la scelta cadde nel 1089 sul giovanissimo duca Guelfo V di Baviera, della stirpe più avversa a Enrico IV in Germania (il padre di Guelfo V, Guelfo IV, sperava in un sostegno della potente Matilde alla sua ascesa nella lotta per le investiture in Toscana). A questo punto la speranza era in un erede ma Matilde aveva già 43 anni mentre Guelfo ne aveva 17 e sembra fosse impotente. E quando il giovane Guelfo scoprì del lascito dei beni di Matilde alla Chiesa, nel 1095, la lasciò (nello stesso anno in cui Matilde in persona scortò Urbano II al Concilio di Clermont dove furono lanciate le Crociate). In ogni caso a nulla valse il sostegno di Guelfo contro l’invasore Enrico che, in poco tempo, si impadronì di tutti i territori di Matilde. Ma la donna non cedette e riconquistò tutti i suoi possedimenti diventando il suo castello meta di vari importanti ed influenti personaggi in cerca di protezione (mentre Enrico pur restando in Italia non riusciva più a vincere; nel 1097 si ritirò definitivamente in Germania dove morì nel 1106, imprigionato da suo figlio, Enrico V, che gli succedette). Matilde, che passò con Urbano II gli ultimi anni del suo pontificato, sempre con le chiacchiere ingiuriose che la seguivano, ebbe ancora un ruolo importante nella politica di sostegno al Papato anche con il successore, Pasquale II di Urbano II; si accordò con Enrico V in tal senso e costui scese in Italia nel 1110 per essere incoronato Imperatore a Roma dal nuovo Papa Pasquale II che avvenne nel 1111 dopo varie vicende di patti non rispettati e di arresti e liberazione dello stesso Papa per intervento ancora di Matilde. Costei prese accordi con Enrico V cedendogli alcuni beni e lasciandolo erede di altri, potendo in cambio riconquistarne altri con le armi (tra cui Mantova), senza l’intromissione imperiale. Dopodiché Enrico ritornò in Germania e Matilde, ormai stanca, nel 1114 si ritirò presso la corte rurale di Bondeno di Roncore, presso Gonzaga dove morì nel luglio del 1115. 

          Come ho provato a riassumere Matilde fu una donna molto potente ed ebbe un grandissimo potere risultando molto legata al Papato ed agli interessi della Chiesa. Ebbene questa donna ebbe dei nemici alla sua altezza e tra questi vi fu il vescovo di Alba, Benzone (1010-1090). Costui, allontanato da Matilde dalla sua diocesi nel 1077, perché grande sostenitore di Enrico IV e perciò nemico di Gregorio VII, la definì Os vulvae cioè Bocca di fica nel suo Ad Henricum imperatorem libri VII (Gregorio VII meritò invece il titolo di Merdiprandus). Insomma si riteneva che Matilde avesse rapporti anche carnali con Gregorio VII ma, occorre dire che i due si conobbero quando Gregorio era ancora Ildebrando ed era addirittura ancora un laico (infatti fu eletto Papa nell’aprile del 1073 ed ordinato sacerdote nel maggio). Quindi è probabile che tale rapporto vi fosse ma tra due laici e diventasse poi tra un laico ed un Papa ordinato sacerdote. E, se così fosse, io non avrei nulla da obiettare se solo confronto questa eventualità con i maiali che abbiamo da poco lasciati. Quando nel 1075 Gregorio VII subì un attentato (fu accoltellato) da parte del Prefetto della città, Cencio, fu chiamata Matilde a curarlo e, a tal fine restò vario tempo in Laterano scatenando chiacchiere ingiuriose relative al fatto che Matilde e Gregorio fossero amanti. Analoghe chiacchiere ingiuriose vi furono quando nel 1077 Gregorio risiedette a Canossa in occasione dell’umiliazione di Enrico IV. Altro elemento che più delle chiacchiere ingiuriose testimonia un grande amore è il contenuto delle lettere di Gregorio a Matilde riportate da Rendina [6]:

«Soltanto Dio che penetra il segreto dei cuori e mi conosce meglio di me stesso, sa qual è la mia continua sollecitudine per te e la tua salute».

«Se io sono amato come amo, sono obbligato a credere che nessun mortale al mondo tu mi preferisca, così come io non ti antepongo nessuna donna al mondo».

Un poco più compromettente è l’imposizione papale della castità coniugale a Matilde con Goffredo il Gobbo. E nella motivazione non ufficiale ma epistolare si dice che ciò avviene perché è impossibile rompere o indebolire l’affetto con il quale Dio ha voluto unirci. Ed alla dieta di Worms che lo rifiuta come Papa vi è una chiara eco dei supposti rapporti tra Papa e Matilde quando nelle motivazioni della deposizione del Papa si dice tra l’altro:

«Ildebrando, che si dà il nome di Gregorio … separa i mariti dalle mogli, antepone le donne impudiche alle caste spose, e preferisce le orge, gli incesti e gli adulteri alle caste unioni … Inganna il popolo con una religione finta, che egli fabbrica nel suo senato di femminelle»

che poi sarebbero Matilde e sua madre che quando risiedevano in Laterano era ascoltate consigliere del Papa.

          Insomma Matilde fu vicina a quattro Papi. Probabilmente ebbe una relazione d’amore solo con Gregorio VII ma niente di scandaloso. Tutto il resto mi par di capire era una sorta di invettiva contro un valido sostegno ai Papi riformatori contro coloro che sostenevano l’Impero con il degrado completo della Chiesa.

RICOMINCIAMO

          Scrive Gregorovius:

La storia temporale dei Papi da Gregorio VII in poi è una specie di rappresentazione caotica e al tempo stesso altamente tragica in cui si avvicendano continuamente gli scoppi di ribellione popolare, le fughe e gli esili dei papi, i loro ritorni trionfanti, le loro tragiche nuove cadute e, ancora una volta, le loro immancabili ascese.

E durò così per centinaia di anni di modo che non farò la storia dettagliata ed intricatissima di questi banditi invischiati in sporche e complicate parentele con nobili (sic!) o tedeschi o italiani o francesi. Con matrimoni tra parenti stretti, tra fratelli, con bambini, con bambine, … Sempre e solo per il potere invocato in nome di Cristo. Quindi, a parte qualche episodio particolare di qualche campione tra i criminali, tralascio la cronologia per andare a ricercare il ruolo delle donne nella gestione del potere di Papi e Cardinali. Negli anni successivi a quelli che ho tentato di raccontare c’è solo da ricordare che con Innocenzo III (1198-1216), nipote di Papa Clemente III, il Papa iniziò ad essere eletto con una prima parvenza di Conclave. Per quanto fino ad allora indegnamente portate avanti, ora sparivano le motivazioni religiose e liturgiche e l’elezione diventava espressamente un atto politico con programmi politici. Con questo Papa si definì l’immagine dei Papi del futuro. Autoritarismo fino all’assassinio non certo per la gloria di Gesù ma per il mantenimento indiscusso del potere. Il crimine diventerà pratica quotidiana per le gerarchie ecclesiastiche che si sbarazzarono anche della giustizia, ossessione di ogni delinquente allora ed oggi: i giudici del Campidoglio vennero sostituiti da impiegati del Pontefice. Restava solo il Prefetto che Innocenzo obbligò a prestargli giuramento di obbedienza. Naturalmente negli anni che tralascio accaddero moltissime cose di estrema importanza e gravità. Fornisco solo dei titoli: iniziano numerose e successive Crociate, delle quali solo la Prima segnò il successo della Cristianità, che semineranno morte e distruzione; da sottolineare la Quarta Crociata che alla fine si scatenò contro Costantinopoli città che fu depredata e privata delle sue difese tanto che subito dopo cadrà sotto i colpi dei Turchi che via via potranno avanzare fino a Vienna; la criminale Crociata europea contro l’Eresia che fece orrendi massacri nel Sud della Francia, nel Nord d’Italia in alcuni Paesi del Nord; la nascita dell’Inquisizione che via via si perfezionerà divenendo una macchina criminale di morte; …  Insomma la Chiesa individuava fuori di sé i nemici, i peccatori e, distraendo le povere coscienze dei fedeli (il gregge), ammazzava inesorabilmente, uccideva ogni spirito libero e pensante, continuando con le sue gerarchie a condurre vite indegne, licenziose, lussuriose e assassine.

UNA STRANA PAPESSA: MAIFREDA DA PIROVANO

          E’ una storia complessa e poco nota quella di una suora, Maifreda da Pirovano, che sappiamo essere morta nel 1300 e quindi aver concluso drammaticamente la sua vita, come vedremo, quando era Papa Bonifacio VIII (1294-1303) e aver iniziato la sua vicenda nel 1281 sotto il papato di Niccolò IV (1288-1292) con il breve intermezzo di Celestino V (1294). Inizio dalle prime notizie che riguardano questa suora.
        Maifreda, cugina di Matteo Visconti, signore di Milano, era una monaca (forse badessa) dell’Ordine delle Umiliate presso il Convento di Biassono, una località vicino a Monza, fondato da alcune nobili matrone milanesi e che fu uno primi monasteri di monache separati da quelli degli uomini. Di lei non sappiamo nulla né sulle origini né sull’età. La incontriamo per la prima volta nel 1281 in occasione di una scelta che fece e che segnò la sua intera vita.

          Intorno al 1270 era venuta a Milano con un figlioletto una donna, quindi non vergine di grande bellezza ed eloquenza, di nome Guglielma che alcuni ritengono fosse la figlia del Re boemo Ottocaro I con la seconda moglie Costanza d’Ungheria (non è banale notare che qui si costruisce una storia di santità intorno ad una donna non vergine ed il fatto è davvero sensazionale: è possibile una via alla santità per una donna, a prescindere dalla verginità! E neanche a dire che fosse una prostituta, l’altra possibilità per una donna in una storia di Chiesa). All’inizio avrebbe dimorato in Bregogna e nella Pusterla Nuova, prima di stabilirsi definitivamente in una camera presso la parrocchia di San Pietro all’Orto, di proprietà del monastero di Santa Maria di Chiaravalle a Milano e che sembra sia stata comprata proprio per lei perché lì vivesse come laica. Con il passare degli anni Guglielma, divenuta un’oblata, acquistò un’aura di santità e la stima, la fiducia e la venerazione di molti uomini e soprattutto donne che usavano radunarsi intorno a lei in preghiera e per dare aiuto ai poveri, malati, deboli e bisognosi. Tutti costoro furono chiamati Guglielmiti(14). Ebbene Maifreda, insieme ad altre monache del Convento di Biassono, si legò a Guglielma condividendo le sue preghiere ed azioni, divenendo quindi una guglielmita. Se fosse tutto qui ci sarebbe solo da ammirare tante volenterose e volenterosi e, probabilmente non vi sarebbe altro da aggiungere. Per comprendere quanto si andava realizzando intorno a Guglielma occorre fare riferimento al monaco cistercense calabrese Gioacchino da Fiore (1130-1202), un grande pensatore cristiano che ispirò molti movimenti ereticali del XII e XIII secolo. A quest’ultimo si erano ispirati i francescani Spirituali o Minori, quella fazione di francescani dichiarata eretica, e dalla quale discesero appunto gli Apostolici (così chiamati proprio per distinguersi dai Minori), un «ordine» di militanti – analoghi ai «perfetti» del Catarismo. Più tardi, nel XIV secolo furono seguaci di Gioacchino sia Gerardo Segalelli che Dolcino da Novara e Margherita di Trento tutti vittime della violenta e brutale repressione della Chiesa. Il pensiero di Gioacchino è centrato sulla Trinità, sul Dio cristiano uno e trino ma in una sorta di visione dinamica che vede esplicarsi sulla Terra le tre persone costituenti la Trinità in epoche storiche diverse. Prima di Cristo era stata l’epoca del solo Dio Padre, con l’avvento di Cristo abbiamo avuto l’epoca del Figlio di Dio, ed ora siamo in attesa dell’epoca dello Spirito Santo che dovrà venire tra gli uomini e riempire di sé il mondo intero. Durante la prima età con il solo Dio, non vi era Chiesa, a partire da Cristo abbiamo avuto la Chiesa che conosciamo, ora sta maturando l’epoca di una nuova Chiesa che avvierà tutti i fedeli (monaci, clero, gerarchie, laici, … ma anche ebrei e musulmani o saraceni) alla perfezione cristiana. A questo punto l’umanità non dovrà più avere timori di nessun tipo di fronte al Giudizio Universale e l’Anticristo non potrà più presentarsi. Il genere umano per avviarsi alla terza età avrà bisogno di essere guidato da un ordine religioso perfetto che assorbirà in sé tutti i fedeli. Inutile dire che vari ordini, particolarmente i francescani, cedettero di essere l’ordine perfetto. Allo stesso modo gli ormai numerosissimi guglielmiti (nobili, borghesi, popolani, medici, avvocati, commercianti, artigiani e, soprattutto, le loro mogli, madri e figlie oltre agli stessi monaci di Chiaravalle) erano affascinati da Guglielma arrivando, dopo la morte (24 agosto 1281), a venerarla come una santa. In particolare era stato lo stesso abate di Chiaravalle a fornire “pane, vino e ceci” per i convivi dei devoti e ad ordinare ad affidare a un monaco, Ubertino, il sepolcro della “santa”. I monaci prendevano parte alle feste in suo onore, e predicavano in sua lode. Abbiamo addirittura notizia di una contesa tra l’abbazia e la parrocchia di San Pietro all’Orto su dove dovesse venir conservata la cassa in cui originariamente era stata sepolta Guglielma. […] 
Inizialmente tumulata nella stessa chiesa di San Pietro, circa un mese dopo la morte viene traslata (con una processione solenne che ha tutti i caratteri dell’ufficialità) nell’abbazia cistercense di Chiaravalle, dove il suo corpo viene lavato con acqua e vino, vestito con abiti fatti per l’occasione, e nuovamente sepolto (Coccoli). Alla sua aura di santità aveva contribuito a ciò la possibilità che Guglielma aveva sostenuto, anche se non apertamente in alcune conversazioni, di essere l’incarnazione dello Spirito Santo. Fu dopo la morte di Guglielma che Maifreda si occupò di mantenere viva la sua fede fortificandola sia attraverso opportune rielaborazioni di pensiero, sia attraverso la diffusione delle sue idee (e per questo, per il suo impegno devozionale nei riguardi di Guglielma, fu allontanata dal monastero delle oblate). Prendendo per buone le teorie di Gioacchino da Fiore sull’età dello Spirito Santo e quanto aveva udito dalla viva voce di Guglielma a proposito della sua incarnazione, intersecò radicalizzandolo il pensiero di queste due persone arrivando a teorizzare Guglielma come lo Spirito Santo incarnato per la redenzione delle donne (come si può leggere negli Annales de Colmar), un Dio femminile del quale lei si proclamò Vicaria in Terra dopo un’apparizione di Guglielma che la indicò per quella funzione. Veniva rifiutata l’accusa di inferiorità della donna che fin dai primi secoli del Cristianesimo la Chiesa sosteneva. Il corpo femminile, accettato e tollerato solo in quanto mezzo insostituibile per la procreazione, diveniva un mezzo di salvezza e di redenzione. E, in quanto tale, poteva incarnare lo Spirito Santo, perché Dio ha creato l’uomo e la donna come due esseri di pari dignità, pur nella differenza sessuale. Si trattava in definitiva di sostituire con donne la gerarchia maschile della Chiesa. E nella sua funzione di Vicaria in Terra di Guglielma, Maifreda divenne di fatto una sacerdotessa che assunse le facoltà dei sacerdoti, distribuendo l’eucarestia e celebrando (almeno una volta) la messa. In alcune delle riunioni che Maifreda convocava, quelle di Biassono, erano ammesse solo donne. La fama di Maifreda cresceva insieme alla sua venerazione che addirittura la faceva definire più influente ed autorevole di Pietro l’Apostolo. Alcune chiese di Milano (tra cui Santa Eufemia e Santa Maria Minore) saranno riempite da Maifreda di immagini della santa Guglielma (facendo credere che fossero quelle di Santa Caterina); in suo onore comporrà inni, canti e litanie; farà circolare la voce che Guglielma sarebbe presto resuscitata.

          Tutto filava liscio ma nel clima di oppressione ecclesiastica di quegli anni (e non solo) non c’era che da aspettare l’intervento delle autorità della Chiesa. E nel 1284 accadde quanto temuto a seguito della denuncia all’Inquisizione di Milano della madre di un frate di vari Guglielmiti, tra cui, oltre Maifreda, il loro teologo, il laico Andrea Saramita, con tutta la sua famiglia. L’accusa era di credere nell’incarnazione dello Spirito Santo in Guglielma. Il Tribunale, dopo un rapido processo, non tenne conto delle accuse ed assolse tutti gli accusati dopo una loro abiura.

          La vita della Congregazione riprese solo con maggiore riservatezza e tutto continuò con un seguito crescente fino al 1295 quando Maifreda ebbe una nuova apparizione di Guglielma in sogno. Questa volta Guglielma designò Maifreda come Papessa di Santa Romana Chiesa con l’incarico di destituire il Papa regnante, Bonifacio VIII (1294-1303), per essere assurto al Trono di Pietro quando vi era già un altro Papa, Celestino V (1294), che fu imprigionato da Bonifacio in un suo castello a Fumone, tra Anagni ed Alatri, quando non era ancora Papa costringendolo a dimettersi. L’accusa non era campata in aria se, pur per altre ragioni, venne mossa al Papa anche da due cardinali dell’altra famiglia criminale, i Colonna, e da Jacopone da Todi che lo definì novello anticristo. I due cardinali, come racconta Rendina [1], vennero subito “destituiti con un’apposita Bolla che sottolineava gli oltraggi della loro dannata stirpe e del loro dannato sangue, che avrebbe voluto sterminare perché essa sollevava in ogni tempo il suo capo pieno di superbia e di disprezzo”. Dopodiché gli fece confiscare tutti i loro beni, suddivisi tra la sua famiglia Caetani e quella degli Orsini, e fece distruggere i loro possedimenti e castelli abbondantemente distribuiti intorno a Roma. Questo laido Papa, Bonifacio VIII, come ricorda Dante, aveva comprato il pontificato nel quale operò come un sovrano di altri tempi pensando che il potere della Chiesa esaurisse ogni potere (emanò una bolla, la Clericis laicos, nella quale vietava ad ogni laico al potere di imporre tasse agli ecclesiastici). Ebbene, Maifreda, seguendo la sua visione, si proclamò Papessa anche se riconosciuta solo dai Guglielmiti per svariati motivi, primo tra tutti il fatto che fosse donna (e ciò non permise neppure una sua menzione tra gli antipapi). Subito dopo aver destituito Bonifacio VIII, nominò assistente al suo soglio pontificio Andrea Saramita, che aveva elaborato l’intera teologia dell’incarnazione dello Spirito Santo in Guglielma e della rifondazione della Chiesa fatta da una donna, scrivendo un Nuovo Testamento.

          Abbiamo notizia della prima reazione di Bonifacio il 1° agosto del 1296 quando pubblicò la Bolla Saepe Sanctam Ecclesiam. In essa vi è un riferimento molto chiaro a Maifreda. Si dice infatti: Accepimus namque, quod nonnullae personae se contra sanctam catholicam Ecclesiam erigentes, etiam sexus feminei, dogmatizant se ligandi et solvendi claves habere, paenitentias audiunt et a peccatis absolvunt, conventicula non solum diurna faciunt, sed nocturna, in quibus de suis pravitatibus conferunt, … et praedicare praesumunt; tonsura clericali contra ritum Ecclesiae abutentes, Spiritum Sanctum se dare per impositionem manuum mentiuntur; et exhibendam (supple: reverentiam ? oboedientiam ? ) soli Deo et non alteri cuiuscumque fuerit condicionis, dignitatis et status. Efficaciores etiam illas orationes affirmant, quae a nudatis toto corpore offeruntur; … et in dicta sancta Ecclesia ligandi atque solvendi fore abnegant potestatem … Quapropter huiusmodi sectam … damnatam et haereticam nuntiamus. Che, liberamente tradotta, dice: “siamo venuti a sapere che vi sono alcune persone, tra le quali vi sono anche delle donne, che erigono se stesse contro la santa Chiesa cattolica, insegnano che avrebbero il potere di legare e sciogliere; che praticano la confessione; che assolvono dai peccati; che amministrano i sacramenti; che tengono delle assemblee non solo di giorno ma anche di notte, nelle quali si intrattengono con le loro assurdità … avendo l’audacia di predicare; abusano della tonsura clericale contro il rito della Chiesa; pretendono di trasmettere lo Spirito Santo attraverso l’imposizione delle mani affermando che bisognerebbe ubbidire solo a Dio e non ad altri, qualunque sia il loro status, dignità e condizione. Allo stesso modo costoro affermano che sono più efficaci le preghiere elevate da persone con il corpo completamente nudo; negano che la Chiesa abbia il potere di legare e sciogliere. Per tutti questi motivi condanniamo questa setta annunziando che è eretica”.

          Sembra di riconoscere qui i Guglielmiti ma evidentemente il Papa faceva riferimento anche a qualche altra setta che non conosco la quale avrebbe avuto comportamenti non riscontrabili tra i Guglielmiti come il predicare nudi e come avere comportamenti sessuali peccaminosi (vi è poi la possibilità che il Papa desse credito alle dicerie di coloro che avversavano quella congregazione, dicerie abbondantemente sostenute per i diffamatori dal fatto che le principali protagoniste della Congregazione fossero donne). In ogni caso, in concomitanza di questa Bolla, si mosse l’Inquisitore di Milano, Tommaso da Como, che riesumò la vecchia denuncia al Tribunale finita con abiura ed assoluzione. Questa volta l’Inquisitore fece arrestare lo sposo di una guglielmita, il frate terziario Gerardo da Novazzano. Ma anche qui, dopo un pentimento ed una abiura il frate viene rilasciato e tutto sembra finire lì. Ma l’Inquisitore che aveva condotto questo processo venne subito convocato a Roma e sospeso dal suo incarico perché qualcuno era restato insoddisfatto del processo e lo aveva denunciato al Tribunale superiore. I guglielmiti erano di nuovo fuori pericolo ma iniziarono a temere che l’attenzione fosse sempre più puntata su di loro. Maifreda ed i suoi decisero di spostare la loro sede da Biassono a Milano, in una residenza che affittarono vicino Piazza Sant’Eustorgio e, fatto più interessante, vicino alla sede del Tribunale dell’Inquisizione. Lo spirito ed i caratteri della Congregazione si radicalizzano sempre più e, pur in un operare discreto, Maifreda inizia a nominare diaconesse e sud diaconesse, assumendo con ciò caratteri sempre più simili a quelli del Papa tradizionale. Celebra messe, amministra sacramenti, lei medesima consacra ostie per l’eucarestia, si fa baciare mani e piedi nel corso delle funzioni religiose mentre Andrea Saramita si fa apostolo del pensiero di Maifreda, diffondendolo tra persone importanti e nobili, tra i quali la famiglia Visconti, in cene ed incontri. Tutta questa attività non passa inosservata ed al centro dell’attenzione entra Mifreda e le sue frequentazioni. Il frate agostiniano Pezzolo nota che un visitatore affezionato di Maifreda è il figlio del Vicario imperiale, Galeazzo Visconti il quale si comporta con deferenza con la sua parente, allo stesso modo di qualunque guglielmita.

          Arriviamo così all’anno 1300 che rappresenterà un anno molto importante per i guglielmiti. L’anno assumeva per i cristiani un’importanza incredibile: Bonifacio VIII aveva indetto il primo Anno Santo ma nessuno creda che in questo entri la fede, il fatto è che le finanze vaticane erano asciutte dalla vita libertina del Papa e famiglia e l’astutissimo Papa aveva inventato il modo di riempire le sante arche della Chiesa: l’Anno Santo con un afflusso incredibile di pietosi e ricchi pellegrini, ognuno con il bisogni impellente di farsi perdonare dei peccati che solo i cristiani sanno fare perché solo i cristiani hanno l’indegna confessione che li libera da ogni peccato (la cosa sarà sempre meglio capita tanto che avvierà quel vergognoso mercato delle indulgenze che sarà uno dei motivi della Riforma). Ebbene, Maifreda si sentì investita della responsabilità di quell’ anno che doveva essere santo anche per i guglielmiti.  E’ allora che la nostra Papessa annuncia per la Pentecoste la resurrezione di Guglelma che avverrà annunciando l’avvento della terza età, della nuova era, quella dello Spirito Santo incarnato in una donna. Il 10 aprile, giorno di Pasqua, celebrerà una messa solenne vestita con i paramenti papali, circondata dalle sue diaconesse e sud diaconesse, per affermare la Chiesa dei sacramenti contro quella appariscente del Giubileo di Bonifacio.

          Questa messa ed il clamore che comportò portarono inevitabilmente all’Inquisizione: il nuovo Inquisitore, fra Guido Cocconato, avvertito da una spiata, il 19 aprile convocò Maifreda per sottoporla ad interrogatorio. Stranamente non fu argomento inquisitorio la celebrazione della messa, ma l’Inquisitore fece sembrare che la comparizione di Maifreda fosse per il Tribunale una prosecuzione del processo del 1296 conclusosi con abiure e perdoni. In realtà il suo scopo era parlare con Maifreda per conoscere sia la sua persona che la Congregazione dei Guglielmiti senza spaventarla al fine di farla parlare più liberamente. Maifreda ammise alcune cose ma non tutto, però l’Inquisitore aveva raccolto ciò che gli serviva per istruire il processo definitivo che inizierà tre mesi dopo l’arresto del 20 luglio di Maifreda e delle sue principali collaboratrici e collaboratori. A condurre gli interrogatori sono due frati dell’Ordine dei Predicatori: Rainerio da Pirovano e Guido da Cocconato. A questi si affianca l’inquisitore di Pavia, il frate domenicano Lanfranco de Amiziis da Bergamo, ed è lui che riceve la deposizione di Gerardo da Novazzano che risulterà decisiva per la condanna (Circa quindici anni prima, Gerardo avrebbe sentito dire da Andrea Saramita che “santa Guglielma avrebbe dovuto risorgere” e che “della stessa credenza sono molte persone”; che “santa Guglielma aveva le cinque piaghe nel suo corpo simili alle piaghe di Gesù Cristo”; che “Guglielma è lo Spirito santo e che lo Spirito santo sarebbe risorto in lei” – Coccoli). Da notare che l’Inquisitore pavese aveva collaborato in quello stesso anno al processo che aveva portato alla condanna per eresia di Gherardo Segarelli, bruciato a Parma proprio nello stesso giorno (il 18 luglio) in cui Gerardo veniva interrogato a Milano.  Il processo durò cinque mesi con tutti i guglielmiti condannati come eretici al rogo (l’ultima deposizione presente nei 4 quaderni, che riportano gli atti del processo inquisitoriale, del notaio Beltramo Salvagno, quella di Marchisio Secco, è però datata al febbraio del 1302). Di Saramita si sa solo che fu affidato al braccio secolare (formula ipocrita per dire che la Chiesa non ammazza nessuno, ma sono i civili a farlo) mentre di Maifreda sappiamo qualcosa in più: che fu giudicata eretica, relapsa e recidiva e come tale doveva essere affidata al seculare iuditium per l’esecuzione della pena capitale (insieme ad Andrea era arrivata a dire all’Inquisitore che Guglielma, in quanto incarnazione dello Spirito Santo, è di maggiore perfezione della Vergine Maria). Uno dei capi d’accusa che pendeva su Maifreda così recitava:

«(10). Che la suora Maifreda sarebbe vera papessa ed avrebbe la piena e vera autorità di vero papa; ch’essa sarebbe in terra la vera vicaria dello Spirito Santo, perchè siccome lo Spirito Santo in forma di donna era nella Guglielma, cosi la Maifreda dovea assere la vicaria della Guglielma in forma di donna; che il papa e il papato della Chiesa romana ch’era allora e i riti e l’autorità d’essa e la curia dei cardinali dovea cessare; che la suora Maifreda avrebbe la predetta autorità del papa e del papato Della Chiesa romana; che a un tempo eziandio avea a battezare i giudei, i saraceni e tutte l’altre nazioni che son fuori del grembo della Chiesa romana e non ancora battezzate»

Maifreda e Saramita avranno la precedenza nell’infame e criminale rogo: saranno bruciati in Piazza Vetra, adiacente la Basilica di Sant’Eustorgio, tra il 2 ed il 9 settembre. Viene qui riportata in auge una pratica che abbiamo conosciuto, quella della riesumazione di un cadavere: viene riesumata la salma di Guglielma mentre la sua tomba nell’Abbazia di Chiaravalle distrutta. Anche Guglielma fu ritenuta eretica. Brucerà sul rogo anche quel misero cadavere per una gloria maggiore di Gesù. Sembra si adombri qui il dramma vergognoso e criminale della Caccia alle streghe che ben presto desolerà l’Europa.

I PAPI GAUDENTI, CRIMINALI E SCIOVINISTI FRANCESI

          Dopo Bonifacio VIII vi furono le solite battaglie, pian piano divenute guerre, per l’elezione del successore. Ora che il Sacro Romano Impero, non ancora uscito dalle conseguenze dall’Interregno seguito all’uscita di scena di Federico II di Svevia nel 1250, soffriva di autorità per la perdita momentanea del forte potere centrale (che sarà riacquistato, dopo la breve parentesi di Enrico VII, solo con Ludovico IV il Bavaro nel 1328), si erano accentuate le spinte centrifughe ed in particolare era potuta emergere la Corona di Francia con Filippo il Bello che aveva spadroneggiato da 1286 al 1314, nuovi aspiranti a fare i Vicari di Gesù si presentarono con esose pretese. Un primo tentativo di resistere alle imposizioni francesi finì con l’avvelenamento con fichi del golosone Benedetto XI. Finalmente fu eletto un servo docile di Filippo il Bello, il simoniaco e fornicatore pubblico Clemente V (1305-1314), che si faceva portare regolarmente al guinzaglio in cambio di smodate ricchezze e lussi. Della corte di Avignone al tempo di Clemente V, così scrisse Matteo Villani nelle sue Istorie Fiorentine:

Delle femine essendo arcivescovo non si guardò, ma trapassò il modo de’ secolari giovani baroni e nel papato non se ne seppe contenere né occultare, ma alle sue camere andavano le grandi dame come i prelati; e fra l’altro con la contessa di Turenne fu tanto il suo piacere, che per lei faceva gran parte delle grazie sue. Quando era infermo, le dame il servivano e governavano come congiunte o parenti gli altri secolari

Era chiamato magnaccia questo santo Vicario di Cristo perché riscuoteva dalle puttane di Avignone, arrivate in massa al seguito di Papi e gerarchi vari, la percentuale sul loro sudato lavoro. Mentre si faceva accompagnare alle cerimonie dalla sua cortigiana preferita, la contessa Blanche, trasferiva il trono di Pietro da Roma ad Avignone in Francia dove vi rimase per 70 anni. E, come racconta Rendina [6], mentre ogni petizione a lui rivolta doveva essere deposta tra i seni di Blanche con un’offerta, Quindi abrogava ogni norma e scomunica che riguardasse il Re di Francia ed i suoi collaboratori. Creò gran quantità di cardinali francesi in modo da avere sempre la maggioranza nel collegio dei Cardinali. Riuscì a permettere al suo padrone, Filippo, di impadronirsi di tutti gli immensi beni dei Templari facendo sterminare questo Ordine cavalleresco una volta utile allo sterminio degli infedeli musulmani. Questo fatto va sottolineato perché, nella storia, Filippo il Bello sarà l’unico a fregare la Chiesa. Seguì un altro delinquente francese(15), Giovanni XXII (1315-1344), che ai suoi 70 anni fu eletto perché si sperava in una sua celere dipartita. Ma anche in questo tradì chi aveva avuto fiducia in tale evento perché visse fino a 90 anni. L’osceno personaggio mandò al rogo i francescani spirituali salvando quelli che diventeranno criminali ed iniziò la denigrazione delle donne dando enfasi alla stregoneria fatta diventare un’eresia con l’introduzione della tortura per i sospettati. Rogo alle streghe ma benefici per le puttane che erano protette dal novello magnaccia in cambio del solito pizzo. Ed il pizzo era dovuto anche dal sacerdote che desiderasse avere una concubina. Straricco era il Vicario di quel disgraziato di Gesù; e viveva nel lusso più sfrenato circondato da donne nel medesimo palazzo apostolico che rallegravano la sua santa solitudine potendo il suo letto gigante rivestito di ermellini ospitarne diverse tutte insieme. In definitiva Giovanni XXII risultò un Papa indegno sotto ogni profilo. Anche in quello alimentare come vedremo quando accennerò alla Teologia culinaria. Si rifletta un attimo sulle bestialità papali ma soprattutto sul fatto che queste cose erano idiozie in libertà senza alcun riferimento a testi sacri o a qualunque teologia per i poveri di spirito. E, tanto per non perdere di vista Roma, nella città era guerra per bande tra le due famiglie nobili del momento, gli Orsini ed i Colonna, con assassinii degli Orsini in agguati e sgozzamenti di bambini dei Colonna per vendetta. Ed eccoci a Benedetto XII (1334-1342), un avvinazzato timoniere della barca della Chiesa (Petrarca), un perfido delinquente che era riuscito ad avere a sua disposizione l’avvenente sorella di Francesco Petrarca, che concupiva da tempo come un vecchio libidinoso attraverso la corruzione con molto denaro dell’altro fratello Gherardo; l’aveva richiesta prima a lui in cambio della nomina a cardinale ma il nostro aveva orgogliosamente e decisamente rifiutato. E’ ancora Francesco Petrarca che commenta amareggiato ed irato verso questo porco: al Papa non piacciono le legittime spose, ma le illegittime prostitute. E verso l’intera corte di Avignone: E’ la vergogna dell’umanità, un pozzo di vizi, una fogna che raccoglie tutta la sporcizia del mondo. Lì si disprezza Dio, si venera solo il denaro, si calpestano le leggi di Dio e degli uomini. Tutto ciò che lì si respira è menzogna: l’aria, la terra, le abitazioni e, soprattutto, i letti papali. Sarebbe bello che i nostri professori di lettere, quando raccontano del grande Petrarca aggiungessero il suo epitaffio della Chiesa ora riportato.

          L’andazzo seguì uguale tra sfarzi e prostitute (che lo scaldavano con i loro continui baci) con Clemente VI (1342-1352) e quindi è inutile annoiare il paziente lettore. E’ come la nostra classe politica fatta di persone incapaci ed incompetenti che devono correre molto ed essere servizievoli per avere il potere. Poi … lussi, crapula, prostitute, gigolò e noi … da prendere a calci. Con Clemente VI abbiamo anche notizie di banchetti pantagruelici, a livelli superiori di quelli di Giovanni XXII, di 27 portate di cibi esotici presentati in modo che Trimalcione non avrebbe potuto che arrossire di vergogna per la sua misera tavola, e qualche dettaglio lo fornirò quando parlerò dell’annunciata Teologia culinaria. Ma finalmente anche Clemente corona il sogno della sua vita: avere a lato una Papessa che si materializza nella persona di Giovanna I d’Angiò, detta anche Giovanna di Napoli.

LA REGINA FRANCO-NAPOLETANA PUTTANA PER NECESSITA’ E PER PIACERE

          Giovanna I d’Angiò, chi era costei ? In breve si può dire: una nobile puttana francese della quale è difficoltoso contare il numero dei mariti.

          Vediamo più in dettaglio. Giovanna nacque nel 1325 ed era figlia di Carlo d’Angiò, duca di Calabria e di Maria di Valois. Poiché suo fratello morì subito dopo la nascita e suo padre nel 1328, la giovinetta vista l’estinzione della linea dinastica maschile dei duchi di Calabria, a neppure tre anni, era già erede di un enorme potere che riguardava il napoletano e la Provenza (e ciò a seguito di accordi complessi tra case regnanti, riguardanti anche la Corona d’Ungheria, avvenuti sul finire del XIII secolo). Nel 1333 Carlo Roberto d’Angiò sovrano d’Ungheria, che aveva anch’egli dei diritti dinastici sul Regno di Napoli, che sarebbe dovuto passare a Giovanna, sistemò la situazione firmando un contratto di matrimonio tra il suo secondogenito Andrea (di sei anni) e la stessa Giovanna (di 8 anni) che prevedeva per i futuri sposi la cessione feudale del Ducato di Calabria. Per altri versi poiché per la contea di Provenza, feudo dei duchi di Calabria, era prevista una successione maschile, anche qui vi fu un altro pretendente, Filippo I principe di Taranto, quartogenito del bisnonno di Giovanna, Carlo II d’Angiò o di Napoli (conte di Provenza e principe di Taranto, eccetera). Riguardo a questa rivendicazione, Filippo se ne disinteressò ma non la sua seconda moglie, Caterina di Valois, che aspirava alla contea per uno dei suoi due figli, Roberto o Luigi. Le cose si complicarono e semplificarono alla morte nel gennaio 1343  del Re di Napoli, Roberto d’Angiò, figlio di Carlo II d’Angiò e quindi anch’egli conte di Provenza e principe di Taranto, eccetera. Il Re Roberto lasciò un testamento nel quale la successione al Regno di Napoli e alla Contea di Provenza doveva essere o di Giovanna o di sua sorella minore Maria. Il testamento liberava i lasciti suddetti da ogni influenza della Chiesa, della corona d’Ungheria, dei rami locali di Taranto e Durazzo. Su Napoli e Provenza avrebbe gestito il potere un Consiglio di Reggenza fino al raggiungimento del 25-esimo anno di età di Giovanna (che al momento del testamento aveva 18 anni). Poco prima che morisse Re Roberto, probabilmente ad agosto 1342, si era celebrato il matrimonio tra Giovanna ed Andrea e quindi, a parte l’età, era tutto in ordine perché Giovanna diventasse Regina di Napoli e Contessa di Provenza. Si può immaginare l’impreparazione al ruolo che aveva acquisito, gli scontri con l’ancora funzionante Consiglio di Reggenza, le invidie e tensioni con gli altri pretendenti fatti fuori dal testamento. In particolare Agnese di Périgord, moglie di Giovanni Duca di Durazzo, secondogenito di Carlo II intervenne pesantemente organizzando (con l’appoggio di suo fratello cardinale Talleyrand) il matrimonio di suo figlio primogenito Carlo con Maria la sorella minore di Giovanna (aprile 1343). Era evidente la pressione insita in questo matrimonio: se Giovanna moriva era Maria con Carlo che ereditavano tutto. Ma qui vi sarebbe stata una violazione delle volontà testamentarie di Re Roberto che aveva richiesto che Maria sposasse il Re Luigi I d’Ungheria, fratello maggiore di Andrea, oppure sposasse un principe di Francia. Per parte sua Giovanna, che aveva in precedenza sostenuto la richiesta al Papa Clemente VI di incoronare Andrea come Re di Napoli, viste le interferenze continue e petulanti in tal senso della madre di Andrea, Elisabetta, trasferitasi allo scopo dall’Ungheria, ruppe i rapporti con suo marito Andrea. Resosi conto di queste difficoltà sempre più gravi per Giovanna, il Papa esonerò il Consiglio di Reggenza ed inviò un suo legato per sostituirlo mettendo ordine; dopo un anno la missione finì con pochi risultati riguardanti alcune rendite e feudi concessi in modo superficiale. Intanto un concistoro pontificio aveva concesso il titolo di Re ad Andrea, anche se non gli aveva ancora concesso il potere politico, mentre aveva dato l’investitura feudale a Giovanna quale Regina di Napoli. I complotti non erano però finiti. Caterina di Valois voleva aprire la strada al Regno di Napoli ad uno dei suoi figli, Roberto o Luigi, e per farlo doveva sbarazzarsi di un paio di ingombri: il primo era Agnese, la madre di Carlo di Durazzo (sposo di Maria); il secondo era Andrea, sposo di Giovanna. Il piano prevedeva il matrimonio di uno dei suoi figli con Giovanna. Ebbene, Agnese fu fatta avvelenare e Andrea fu fatto strangolare (settembre 1345). La morte di Andrea non dispiacque a Giovanna e sembra che alcuni suoi sostenitori, suoi amanti, facessero parte del complotto che portò allo strangolamento di Andrea. Giovanna dette alla luce un figlio, riconosciuto come figlio di Andrea (?), il 25 dicembre 1345.

          Clemente VI, su pressione del cardinale Talleyrand, volle vederci chiaro ma questa sua iniziativa irritò i napoletani che richiesero la punizione dei responsabili degli assassini ed a tal fine insorsero (marzo 1346) sotto la guida di Carlo di Durazzo e Roberto di Taranto (fratello di Luigi). Ma, aldilà di questioni politiche, vi erano anche questioni di letto perché Roberto, che ambiva al trono di Napoli, voleva far fuori il fratello Luigi che lo aveva sostituito come amante di Giovanna (sembra che in quella corte nessun giovane di bella presenza e prestante scampasse dalle voglie della giovane Regina). Giovanna, per tacitare la rivolta, consegnò alla giustizia alcuni colpevoli e questo successo fece crescere il potere di Roberto di Taranto che si installò nello stesso palazzo di Giovanna ottenendo l’incarico di Capitano generale del Regno e tesoriere, pressandola affinché richiedesse la dispensa papale per potersi unire in matrimonio con lui (il fratello Luigi che era stato messo momentaneamente da parte pur avendo sue truppe, fu tacitato con una buona rendita in denaro). Si aggiungeva a ciò il fatto che Luigi I d’Ungheria stava per marciare su Napoli per vendicare la morte di Andrea. Vi furono congiure di palazzo, intrighi, tradimenti, … altre rivolte popolari tanto da dare occasione al Papa di intervenne di nuovo. Giovanna fu costretta a cacciare Roberto di Taranto (ottobre 1346) dalla sua residenza (ed a lei ciò non dispiaceva perché preferiva il fratello Luigi e non dispiaceva neppure al sovrano d’Ungheria) perché incapace di reprimere la rivolta. La Regina poté riprendere i rapporti con Luigi che sposò senza la necessaria dispensa papale nell’agosto del 1347. Ma Luigi I d’Ungheria non si accontentò dei provvedimenti presi contro i colpevoli dell’assassinio di Andrea e marciò su Napoli avanzando senza incontrare resistenza. Ciò provocò un’altra rivolta contro Giovanna che era incapace di reagire mentre sperperava il denaro del Regno portandolo alla quasi bancarotta. Ormai isolata e minacciata nel Regno, Giovanna fuggì da Napoli verso la Provenza senza il marito (gennaio 1348) e senza suo figlio Carlo Martello. Luigi I entrò finalmente ad Aversa (gennaio 1348) e lì ebbe l’atto di sottomissione di tutti i nobili (Roberto di Taranto e suo Fratello Filippo II, Carlo di Durazzo ed i fratelli Roberto e Luigi) che gli chiesero di prendere la reggenza del Regno finché Carlo Martello non avesse raggiunto la maggiore età. Luigi I fece ammazzare l’intero seguito di questi nobili, fece decapitare Carlo di Durazzo perché lo riteneva responsabile dell’assassinio di Andrea e fece arrestare tutti gli altri.

          Giovanna, intanto era arrivata in Francia con lo scopo di arrivare ad Avignone per scagionarsi dall’accusa di aver partecipato all’assassinio di Andrea, per ottenere la dispensa del suo già celebrato matrimonio con Luigi di Taranto e, soprattutto, per avere il sostegno papale nella riconquista del Regno. Quando anche Andrea fu arrivato ad Avignone il Papa li ricevette. Riguardo all’essere scagionata, fu nominata una commissione che tardò a decidere, la dispensa per il matrimonio fu concessa ma il sostegno economico alla riconquista di Napoli, che richiedeva molti soldi, non fu sufficiente. Fu allora che, nonostante le promesse a coloro che gestivano in suo nome la Provenza, Giovanna decise di vendere per una cifra irrisoria, da saldi, Avignone ed il suo territorio al Papa (giugno 1348). Per buon peso fu pure scagionata. Ed a questo punto, a parte il denaro che è sempre il bene supremo per i Papi, Giovanna poteva chiedere tutto al papa Clemente del quel era diventata amante. Si amavano Giovanna e Clemente e tubavano anche in cerimonie ufficiali come due tortorelle. Giovanna metteva sulla buona strada Clemente e lo facva rinunciare al via vai di puttane: basto io ! Clemente accettò provvisoriamente di buon grado ma da quelle puttane che dovevano guadagnarsi da vivere altrimenti pretese ora anche lui il pizzo. Rendina acutamente fa notare che Clemente fece acquistare una grande casa che diventasse bordello e nel documento che certifica l’acquisto conservato in Vaticano si dice espressamente che l’operazione è stata fatta per il Bene di Nostro Signore Gesù Cristo (a questo punto erano arrivati pensando chissà cosa fosse il citato Gesù!). Speravamo comunque che la foia del Papa fosse esaudita dalla sola Giovanna ma, ancora come ricorda Rendina, vi erano anche altre donne che riceveva regolarmente due volte a settimana lontano da occhi indiscreti (tra di esse sua nipote, la libidinosa contessa Cécile de Turenne, già puttana di Clementer V, della quale, come racconta Deschner, egli era così intimo che assai spesso si otteneva il suo favore attraverso di lei – il Petrarca la definisce la “sua Semiramide, macchiata di incestuosi abbracci”. Al punto che nelle 18 Epistole “Sine titulo” ne rende conto precisando: “Io parlo di ciò che ho visto, non di quanto si sente dire”) e che lo allietavano, come si ricava dalle Istorie Fiorentine di Matteo Villani che aggiunge: delle femine essendo arcivescovo non si guardò, ma trapassò il modo de’ secolari giovani baroni e nel papato non se ne seppe contenere né occultare, ma alle sue camere andavano le grandi dame come i prelati. Ma Dio guardava dall’alto scandalizzato per cose che Egli stesso non aveva mai fatto e pensato, pur nei suoi trascorsi criminali del Vecchio Testamento. Decise quindi di vendicarsi inviando su Avignone la peste che nel 1348 ammazzerà 62 mila persone. Come il Dio del Vecchio Testamento sbaglia però mira: non muoiono i delinquenti dei palazzi pontifici o reali o lo stesso Papa ma la povera gente.

          Giovanna dovette comunque tornare a riprendere possesso del suo Regno. Subito dopo aver dato alla luce sua figlia Caterina (che morirà prestissimo), e Luigi si imbarcarono per tornare a Napoli facilitati dal fatto che Luigi I aveva lasciato la città per sottrarsi al pericolo di una peste e per altri impegni internazionali sopravvenuti (guerra con Venezia) e dal fatto che la popolazione si era sollevata contro i suoi vicari a causa della dura repressione di Luigi I contro i sospettati dell’assassinio di Andrea e per il fatto che il sovrano d’Ungheria si era portato dietro oltre ai prigionieri anche l’erede, il piccolissimo Carlo Martello (che morirà presto). Nella città dove arrivò a metà agosto 1348.

          Le vicende di Giovanna seguirono, mentre ancora seguiva la guerra con i rappresentanti del sovrano d’Ungheria che detenevano il potere in alcuni territori, tra amanti ed un marito, Luigi (che Petrarca e Boccaccio detestarono di cuore), divenuto violento con lei per ragioni non di corna ma di potere. La privò di ogni suo fidato consigliere e la malmenò privandola di ogni potere. Di fronte a queste difficoltà, l’amato Clemente inviò un suo rappresentante per risolvere i problemi che erano nati. Non si riuscirono però a risolvere i gravi problemi tra coniugi e Giovanna pensò di tornare in Provenza da Clemente. Ma il piano di fuga fu scoperto e vi furono altri problemi prima della riappacificazione della coppia che durò fino al 1362 quando morì Luigi. Intanto nel 1352 era morto il protettore di Giovanna, Clemente VI, ed il successore Innocenzo VI entrò in conflitto con i sovrani di Napoli per ragioni d’interesse economico (e per cos’altro?). Giovanna e Luigi furono scomunicati. Giovanna visse per quasi 10 anni impossibilitata a qualunque azione e quasi reclusa e, quando suo marito morì, nello stesso anno di Innocenzo VI, non è difficile pensare che ne fu felice. Iniziarono però di nuovo varie mire sul Regno di Napoli ed in particolare vi fu quella del Re Giovanni II di Francia che voleva far sposare Giovanna con suo figlio Filippo di Turenne al fine di annettere Provenza e Napoli alla corona di Francia. Questa offerta fu respinta e Giovanna scelse di sposare il Re Giacomo III di Mallorca, che era stato a lungo prigioniero in una gabbia del Re Pietro IV d’Aragona ed era riuscito a fuggire nel maggio 1362, perché ciò avrebbe significato mantenere l’autonomia del Regno di Napoli e della Provenza insieme ad un minimo di sostegno e protezione in situazioni molto difficili. Le nozze furono celebrate prima per procura, al fine di attendere la dispensa del nuovo Papa, Urbano V, eletto in settembre, e poi direttamente, ottenuta la dispensa, nel 1363. Giovanna si rese subito conto che il suo nuovo marito era malato di mente a seguito della dura prigionia e delle torture subite (ed anche per la sifilide che aveva contratto) e dovette subire una situazione ancora più dura di quella che aveva lasciato, ancora con violenze fisiche di ogni genere tanto che fu costretta ad avere delle guardie che la proteggessero. Fortuna che era stato eletto un Papa molto attratto dalle sue grazie con il quale riuscì a consolarsi mentre lo consolava nel suo letto con i suoi caldi baci. Anche la morte della sorella Maria (1366) la tranquillizzava su un altro fronte. Passarono vari anni e, dopo la morte di Giacomo di Maiorca (1375), Giovanna, con l’immediata approvazione dl nuovo Papa Gregorio XI, convolò a nuove nozze con il principe Ottone di Brunswick che sembrava l’ideale amministratore delle sorti del Regno di Napoli (1376) e che effettivamente riuscì nell’impresa. Le sorti di Giovanna erano comunque appese ad un filo con l’avanzare degli anni non poteva più utilizzare l’arma del suo fascino con Papi protettori. Dopo altre vicende ed intrighi di ogni genere, lei stessa finì strangolata per incarico di suo cognato, Carlo III d’Angiò-Durazzo (1382), Re di Napoli, che, tanto per cambiare i modi della politica, fu strangolato a sua volta quattro anni dopo.

          Ma torniamo alla morte di Clemente VI.

DUE SANTE DONNE FACENTI FUNZIONI

          E’ con la morte di Clemente VI, questo peccatore, ringraziato dal Diavolo per aver riempito l’Inferno, che si iniziò a pensare al ritorno della Santa Sede a Roma con l’aiuto, questa volta spirituale, di due Sante, Brigida e Caterina.

          Brigida Birgersdotter nasce nel 1303 in Svezia da famiglia benestante. Viene fatta sposare a 14 anni con un senatore benestante anch’egli. Il matrimonio, a giudicare dal numero dei figli (otto) fu felice finché durò. Nel 1344 suo marito morì e lei, ai suoi 40 anni restò vedova. La vita della famiglia si svolse all’interno di una grande fede cristiana che portò i due a divenire terziari francescani ed a fare vari pellegrinaggi, che Brigida seguitò a fare dopo la morte del marito accompagnando il suo sincero impegno cristiano con la fondazione di un monastero, quello di Vadstena, e dell’Ordine delle Brigidine. Quando nel 1350 Papa Clemente VI bandì il nuovo Anno Santo dopo quello del 1300 (cambiando la regola introdotta da Bonifacio VIII che lo voleva ogni 100 anni), Brigida, insieme a sua figlia Caterina di 18 anni, venne a Roma (1349) spinta da quell’ondata di misticismo che diffuse in Europa nella prima metà del XIV secolo. Occorre dire che Roma era stata abbandonata da circa 40 anni; era in balìa delle solite famiglie criminali con qualche aggiunta (gli Orsini) che si facevano guerre senza esclusione di colpi; di briganti e malfattori di ogni risma che nottetempo ti ammazzavano per depredarti di nulla. In questa situazione i pellegrini si erano ridotti moltissimo e quel turismo religioso che aveva arricchito i commercianti, gli albergatori e gli artigiani della città era praticamente finito. Si trovavano in gravi difficoltà tutti coloro che avevano vissuto con questo turismo, cioè, oltre ai citati, vetturini, locandieri, ristoratori, venditori ambulanti, spacciatori di reliquie. Visse praticamente da mendicante infliggendosi digiuni e cilici per un lungo periodo, tra l’altro difendendo dalle insane voglie dei giovinastri la sua figliola. Fece anche qui molti pellegrinaggi raccogliendo intorno a sé molti devoti svedesi e non vivendo in ristrettezze che si impose. Nel 1354 le fu donato da una generosa amica e compagna di pellegrinaggi, Francesca Papazzurri un piccolo appartamento, con annessi giardino ed orto in Piazza Farnese. Qui aprì una specie di ospizio per i suoi connazionali nel nome del suo Ordine che Papa Urbano V aveva riconosciuto. Qui ebbe le sue visioni di Gesù con annesse conversazioni che, in pratica la facevano sua rappresentante in Terra, quindi sua Vicaria, quindi Papessa nella sede che la cristianità s’era data da secoli, con Pietro, Roma. Nascono da qui e seguiranno insistenti le sue invocazioni al nuovo Papa, Innocenzo VI (1352-1362), che risiedeva ad Avignone (sede bollata da Brigida come bordello cha aggiungeva per Clemente V lo splendido appellativo di amator carnis), di tornare a Roma. Da sottolineare che Brigida fece conoscere a questo Papa (ed anche al successore), criminale tra i criminali inquisitori, la forte riprovazione per il continuo massacro da parte della Chiesa dei francescani spirituali, di quelli che seguivano la Regola di Francesco senza le modifiche indegne e lassiste fatte dai suoi successori.

          La situazione politica della città sembrava ora più tranquilla. Roma era tornata sotto il controllo papale ma senza la presenza del Papa. Carlo IV di Lussemburgo, successore di Ludovico il Bavaro (morto nel 1347) fu addirittura incoronato Imperatore da un Cardinale facente funzioni nel 1355 lasciando, come ormai d’abitudine, la città indifesa subito dopo. Innocenzo VI ancora non si sentiva sicuro e continuava a sperare nel Cardinale guerriero Gil de Albornoz che faceva campagne di pulizia e di nobili e di banditi intorno a Roma riconquistando via via tutti i territori che erano stati della Chiesa (a parte Bologna e territori limitrofi sotto la Signoria di Bernabò Visconti, odiato sia dal Papa Innocenzo VI che lo dichiarò eretico scomunicandolo – mentre Urbano V lo scomunicò di nuovo – che da Carlo IV che lo condannò in contumacia). In ogni caso non riuscì a venire a Roma perché morì nel 1362 ad Avignone. Seguì un altro francese, Urbano V (1362-1370) che, come il predecessore fu tempestato da richieste di ritorno a Roma, sia da Brigida che dal Petrarca. Ed Urbano sembrava disposto a tornare in Italia, a Roma, anche perché conosceva i territori essendo stato legato pontificio a Napoli. Mancava però Bologna che fu ripresa nel 1364 solo pagando un’enorme cifra (500 mila fiorini) a Bernabò Visconti. Ma il Papa ancora non si decise. Perché? ecco qui vengono fuori delle motivazioni che non compaiono in documenti ufficiali ma che descrivono bene i nostri avignonesi: Papa e cardinali temevano, nel venire a Roma, di doversi privare degli eccellenti vini francesi come il Borgogna ed il Beaune. Inoltre vi erano le cortigiane di Avignone che facevano grandi pressioni perché quelle eccellenti fonti di ingresso, Papa e cardinali, non si trasferissero altrove. Fu Petrarca che, a completamento di una supplica al livello del suo essere immenso poeta che sembra fosse suggerita indirettamente da Brigida per le espressioni che si leggono simili a quelle utilizzate da Brigida nelle sue ripetute suppliche(16), spiegò che il Tevere era navigabile e che con delle chiatte si sarebbero potute trasportare tutte le botti di vino necessarie alla bisogna, anche se i vini italiani erano non solo all’altezza ma superavano quelli francesi.

          Ma Urbano era pressato dai cardinali francesi, dal Re di Francia Carlo V (dal 1364 al 1380) che aveva inviato come suo ambasciatore il vescovo Nicolas Oresme, matematico, seguace di Guglielmo di Occam ed allievo di Buridano. Quest’ultimo riuscì a fare un sermone con delle imbecillità degne di molto migliore causa: sostenne che il Papa doveva restare ad Avignone perché questa città era il centro della Terra. Comunque il Papa era deciso, mise in moto un trasferimento imponente via nave da Marsiglia ad un porto nei pressi dell’odierna Tarquinia, con sosta a Viterbo per una epidemia che infestava Roma e terre limitrofe, ed arrivo a Roma il 16 ottobre del 1367.

          Entrata trionfale ed accoglienza strepitosa. Il Papa sembrava star bene in un ambiente da sistemare e restaurare dato l’abbandono da moltissimi anni. Erano i cardinali francesi che avevano da ridire su tutto, sul vino che fecero subito arrivare dalla Francia, sulla musica italiana, sul canto in Chiesa (un belato di capre), …, sulla compagnia di raffinate cortigiane che a Roma non si trovavano (solo puttane da quadrivio). Il Papa si consolò con le tenerezze di Giovanna I d’Angiò, quella stessa che tubava con Clemente VI, ma gli altri dovettero adattarsi per un poco di tempo prima di trovare puttane alla loro altezza. Si può ben capire che di fronte a tali argomenti, Brigida non poté che stare zitta. Intanto ricominciarono le violenze, gli agguati e le rapine nella campagna romana. Il Papa si spaventò e, dopo aver cambiato residenza per Montefiascone, viste le rivolte nelle terre di Viterbo e Perugia, nell’estate del 1370 decise di tornare in Francia. Ecco allora che tornò lo spirito che all’inizio aveva mosso Brigida. Insisté invano con Urbano ma si allontanò da lui ritirandosi in convento perché non voleva avere a che fare con quella masnada diabolica di cardinali francesi. Una nuova visione la sosteneva nelle sue insistenze: se il Papa fosse tornato ad Avignone sarebbe morto. Brigida disse ciò ad un cardinale perché lo riferisse al Papa ma il cardinale non lo fece. Fu lei stessa allora a recarsi a Montefiascone ma Urbano non dette credito alle visioni di Brigida. Partì da Montefiascone il 5 settembre 1370, se ne andò percorrendo a ritroso la stessa strada che aveva fatto nel venire a Roma. Arrivò ad Avignone il 24 settembre ed il 19 dicembre morì.

          Brigida continuò a chiedere al nuovo Papa, Gregorio XI (1370-1378), di tornare a Roma ma con poche speranze perché quel Papa era quel cardinale che Brigida aveva criticato duramente nella corte di Urbano (era nipote di Clemente VI che gli aveva dato la porpora cardinalizia quando aveva solo 18 anni, costume che egli seguì con un nepotismo ed una simonia sfrenate). Brigida era ormai avanti negli anni ed era spossata. Nonostante ciò intraprese il suo ultimo pellegrinaggio a Gerusalemme: partì nel 1371 e tornò un anno dopo, in tempo per salutare le persone che la circondavano e morire (1373). Fu in seguito fatta santa e la cosa merita attenzione perché è una delle pochissime sante anomale: santa non vergine!

          Il suo ruolo di pungolatrice del Papa, di inascoltata Papessa, fu preso da un’altra mistica che, all’epoca, ebbe un certo seguito, Santa Caterina da Siena (1347-1380), nota perché non sapeva né leggere né scrivere (ma vi è la leggenda secondo cui in una delle sue estasi aveva pregato con tanta intensità Dio da svegliarsi con la capacità di scrivere correttamente). Caterina, venticinquesima figlia (o ventiseiesima poiché gemella), proveniva da una modesta famiglia di tintori di Siena e dall’età di 12 anni espresse il desiderio di entrare nel convento delle domenicane (tra le Mantellate, per il mantello che portavano). La famiglia non era d’accordo anche perché non era possibile entrare in qualunque convento senza una dote. Dopo varie vicende, all’età di 16 anni ed a seguito di una malattia, Caterina fu ammessa al convento. Dopo un anno di prova prese i voti, dedicando il suo tempo ad assistere i malati anche di lebbra ed i bisognosi, naturalmente entrando continuamente in estasi. Per queste sue doti si costruì un seguito di devoti. Nella sua condizione di illetterata dettò molte lettere (380) da inviare ad ogni persona che lei ritenesse di dover contattare, anche quelle più in vista e più potenti. Tra le sue visioni, anche lei ebbe quella che affermava essere Roma la residenza del Papa e quella che chiedeva imperativamente la moralizzazione del clero. Il contenuto di queste visioni sarà riferito al rappresentante del Papa in Italia Per questa sua attività ebbe dei problemi con i suoi superiori domenicani (1374) che però la riconobbero in buona fede e le affidarono un prestigioso confessore, il teologo Fra’ Raimondo di Capua. A questo confessore Caterina affidò una lettera per il Papa nel quale chiedeva al Papa di seguire più da vicino le vicende della Chiesa e di bandire una nuova Crociata per sostenere l’Impero bizantino attaccato dai Turchi Selghiucidi. Evidentemente Caterina si muoveva ad imitazione di San Francesco, anche nel sostegno alle Crociate contro gli infedeli musulmani e, non a caso, ebbe le stimmate (1375) che però, a sua richiesta (sic!), furono rese invisibili.

          Il Papa approfittò di questa lettera per chiedere a Caterina di intervenire su Pisa perché partecipasse alla eventuale Crociata. Ma questa nuova avventura non avrà luogo, tra l’altro, perché Firenze non era d’accordo e si era alleata con i Visconti di Milano, nemici acerrimi della Chiesa. A seguito di ciò e vista la sua fama e credibilità presso il Papa, nello stesso 1375, ebbe dalla Repubblica di Firenze l’incarico di farsi mediatrice per far togliere alla Repubblica l’interdetto papale che la danneggiava economicamente e per ottenere il perdono. Caterina provò ad inviare il suo confessore come ambasciatore ma vista l’assenza di risultati fu lei stessa l’anno seguente a recarsi ad Avignone con un seguito di 22 pellegrini vestiti da penitenti, nella città dove l’attendeva il suo confessore il Papa Gregorio XI la ricevette.  Il Re di Francia intravide il pericolo e da Parigi inviò suo fratello, il duca d’Angiò, con il compito di rendere inoffensiva Caterina. Questi discusse con lei a lungo senza riuscire nel suo intento di rispedirla in Italia. Fu invece lei a conquistare il duca alla causa della Crociata. E qui il ruolo di Caterina divenne di consigliere del Papa, una nuova Papessa in una sorta di continuità ideale con Brigida. E Gregorio aveva un gran bisogno di qualcuno che lo consigliasse. Si era bellamente fatto prendere in giro dall’Imperatore Carlo IV che aveva incoronato suo figlio Venceslao di 15 anni a Re di Germania senza consultarlo (in base ad una Costituzione, chiamata Bolla d’Oro, emanata dallo stesso Carlo IV nel 1356 che regolava l’elezione dell’Imperatore e le elezioni che poteva fare l’Imperatore con l’eliminazione delle ingerenze papali). Carlo IV per non rompere i rapporti con il Papa gli inviò una lettera retrodatata in cui chiedeva la ratifica della futura (ma già avvenuta, come il Papa sapeva) incoronazione. Il Papa ratificò con grande discredito perché tutti conoscevano la vicenda. Forse anche per questo Gregorio pensò che forse era il caso di tornare a Roma e le esortazioni di Caterina amorevoli ma anche durissime, tradotte dal senese stretto poverissimo ed incomprensibile dal fido confessore, lo aiutarono a decidere tanto che, nello stesso 1376, lasciò la Sede di Avignone nonostante l’arroganza della delegazione fiorentina che inasprì quasi annullando gli sforzi di Caterina, le fortissime pressioni del Re e della sua famiglia perché restasse. Arrivato via mare a Genova, dove l’attendeva Caterina, Gregorio ripensò alla sua scelta e stava decidendo di imbarcarsi per il ritorno ad Avignone ma fu proprio Caterina a convincerlo in modo contundente a proseguire per Roma. Il Papa si imbarcò di nuovo e, dopo attese, accertamenti sulla sicurezza di Roma ed altre vicende burocratiche, il 17 gennaio 1377 arrivò a Roma. Dopo i festeggiamenti di rito, stabilì nel Vaticano la sua residenza (da questo momento sarà la residenza papale in sostituzione del Laterano). Questa scelta, comunque irritò in modo che diventerà drammatico alcune frange della Chiesa, inutile dire che si trattava di quella francese ed una eco importante di ciò si ebbe anche a Roma, come vedremo. Intanto le trattative di pace con Firenze, con il conseguente perdono della città dall’interdetto andavano avanti ed il Papa inviò a Firenze la sua papessa Caterina della quale ormai aveva grande fiducia. In attesa di un qualche risultato la situazione a Roma divenne molto pericolosa per la persona del Papa perché le bande che avevano spadroneggiato per molti anni non volevano rinunciare ai loro benefici conquistati con rapine, assalti, assassini, corruzione ed ogni tipo di violenza. Si susseguirono scontri mortali tra varie famiglie con le truppe pontificie che iniziarono a punire alcune città rivoltose con orrendi massacri. Non si capiva più chi stava con o contro chi. Uno spiraglio si aprì quando la Chiesa raggiunse una pace con Bernabò Visconti sul contenzioso di Bologna e quando il capitano delle truppe di Firenze passò a sostenere il Papa che, per ragioni di sicurezza, aveva deciso di trasferirsi ad Anagni. Data la situazione fu convocato (1378) una specie di Congresso di tutte le città pontificie in causa e di rappresentanti della Chiesa per porre fine ad ogni ostilità e riconoscere un ordine a cui attenersi. Sembrava un buon inizio che però finì subito per la morte di Gregorio (1378). Ma Gregorio era stato previdente perché sapeva che con la maggioranza di cardinali francesi alla sua morte sarebbe seguito un Papa che avrebbe riportato la Sede papale ad Avignone. Aveva emanato una bolla in cui si stabiliva che il suo successore sarebbe stato eletto con i cardinali presenti a Roma, senza attendere gli assenti. Ed anche se la maggioranza dei cardinali che si trovavano a Roma fosse ancora francese, i moti popolari che gridavano e manifestavano a sostegno di un Papa romano o italiano convinsero il Conclave, anche con irruzioni nella sede delle riunioni, ad eleggere l’arcivescovo di Bari che assunse il nome di Urbano VI (1378-1389).

          I cardinali francesi restati ad Avignone, con l’accordo anche di quelli che erano a Roma, richiesero che Urbano VI rientrasse immediatamente ad Avignone. Il Papa rifiutò ed i francesi a Roma per protesta si ritirarono ad Anagni. Qui Caterina, profondamente addolorata per quanto accadeva, fu prodiga di consigli al Papa sul modo migliore di convincere i dissidenti a rinunciare alla loro protesta. I francesi , per nulla intimoriti, minacciarono di rendere nulla l’elezione del Papa perché fatta in stato di costrizione popolare e, vista l’impossibilità di ogni accordo, ad agosto del 1378, dichiararono Roma come sede vacante perché il Papa era decaduto. Anche a livello internazionale si crearono divisioni e, mentre l’Imperatore Carlo IV si schierò con il Papa, il Re di Francia Carlo V e la regina Giovanna I d’Angiò (quella che riscaldava i letti dei Papi francesi) presero le parti dei francesi ribelli. In questa situazione di tensione i cardinali francesi cercarono maggior protezione a Fondi dove la ebbero da un parente di Bonifacio VIII, il conte Onorato Caetani. Nella cattedrale di questa città elessero il Papa che secondo loro era quello legittimo, il francese Robert di Ginevra responsabile della mattanze in alcune città pontificie, Clemente VII. E’ lo scisma d’Occidente (che si risanerà solo nel 1415 con il Concilio di Costanza) che provocherà come conseguenza due filoni di Papi, quella di Roma e quella di Avignone (gli antipapi). Caterina viene convocata in Vaticano dal Papa proprio per dargli forza in questo momento in cui sembra tutto crollare. Il Papa permetterà a Caterina di partecipare al Concistoro convocato per il 28 novembre 1378 con i quattro cardinali italiani. La santa di Siena parlerà nel suo quasi incomprensibile linguaggio ma si capisce che il suo è uno stimolo ai presenti a non demordere e a portare avanti la causa della Chiesa di Roma contro quei francesi che non sono altro che demoni incarnati. Poi pregherà. Per parte sua Clemente VII memore del suo essere un combattente macellaio non abbandonò subito l’Italia per Avignone ma tentò con la forza di prendere Roma. Fu duramente sconfitto a Marino (28 aprile 1379) e costretto a scappare. Urbano VI era abbastanza sicuro a Roma, anche per la pace che aveva firmato con Firenze, ma cercò ulteriore protezione coniugandola con la vendetta contro Giovanna I d’Angiò. Strinse un patto con Carlo III d’Angiò- Durazzo, Re d’Ungheria e Re di Napoli, secondo il quale costui aveva campo libero a conquistare il Regno di Napoli in cambio della protezione al papato. Carlo, nominato da Urbano senatore di Roma ed incoronato con il nome di Carlo III, conquistò facilmente il Regno di Napoli e, nell’occasione, strangolò la Regina Giovanna dai caldi baci. Ma anche qui le cose non fileranno lisce perché Carlo III vorrà staccarsi dalla dipendenza feudale dallo Stato pontificio, dipendenza che il Papa non vorrà abolire e per questo anche Carlo III finì assassinato nel 1386. Urbano nominò ben 29 cardinali per assicurare la permanenza della Sede pontificia a Roma ma lo fece da monarca assoluto tanto da scontentare molti che erano stati suoi sostenitori tanto da farli passare dalla parte avversa.

          Su altro fronte, Roma irrequieta si rivolta ancora nel 1380. I Romani fecero irruzione in Vaticano e la sicurezza con cui Urbano li fronteggiò fece da freno al peggio. Fu Caterina che in modo pacato riuscì a placare le ire sia del popolo che del Papa. E’ l’ultima impresa di Caterina che unì sofferenza a sofferenza: era ormai avanti negli anni e di salute malferma con unica consolazione la preghiera. Ad aprile del 1380 morirà avendo ottenuto che la Sede Apostolica tornasse a Roma insieme ad una sfilza di Papi che seguiranno con crimini, lussi, lussuria e crapula. La Chiesa la ringrazierà elevandola agli altari e facendola a pezzi per quel barbaro uso delle reliquie che ognuno vuole e che tanto arricchiscono chi le ha. Il Papa Urbano, divenuto violento e vendicativo contro ogni oppositore ed anche paranoico con il terrore di essere ucciso (motivo per il quale cambierà continuamente la città in cui dimorava), le sopravviverà di 9 anni, morendo nel 1379 un anno prima del suo inventato nuovo Anno Santo che secondo la numerologia sempre dominante (ma soprattutto ed ancora secondo l’avidità di denaro) che si sarebbe dovuto celebrare ogni 33 anni perché questi erano gli anni di Cristo.

          Di Caterina scrive Gregorovius una pagina ispirata di grande rispetto ed ammirazione:

Pari ad un cherubino la sua persona rifulse nelle tenebre di quell’età che il suo genio e la sua gentilezza irradiarono di un mite chiarore. La sua vita è per la storia oggetto più degno e certo più virile di quella dei papi suoi contemporanei. Né il suo nome si scrive soltanto nel breve registro dove si annoverano le vere virtù; Caterina appartiene alla storia perché incarnò in sé la forza morale del tempo suo, e così fu per Matilde di Canossa e quarant’anni dopo per la fanciulla d’Orléans. Ma se la grande protettrice di Ildebrando aveva tratto potenza e prestigio dalla propria condizione principesca, ancor più straordinaria è l’influenza esercitata nel mondo dalla povera figlia del tintore. La sua forza derivava da un geniale e profetico sentimento squisitamente femminile. In ogni epoca arreca grande meraviglia vedere persone che vincono la propria natura, sicché l’umanità, senza giungere a comprendere il mistero dell’opera loro la considera soluzione del massimo fra i problemi morali. E veramente è straordinario immaginare quella santa accanto a una regina Giovanna, alla quale scrisse diverse volte, o di fronte ad un papa avignonese, a Urbano VI o a Clemente VII. Viaggiò avanti e indietro tra la Francia e l’Italia, tra Roma e Avignone come mediatrice. Fu ambasciatrice di papi, di principi e di repubbliche, che nelle sue mani di ragazza inesperta posero importantissimi affari riguardanti la pace; eppure la sua lingua non era che il grazioso dialetto del popolo di Siena. Alla poetica fantasia di san Francesco, Caterina unì un ingegno pratico che questi non possedeva. I suoi rapporti con la patria furono vasti e di natura eminentemente politica. Le sue lettere, belle e melodiose come il linguaggio dei bambini, è come se fossero pensate e dette in una sfera diversa dello spirito ma al tempo stesso ci mostrano una creatura enigmatica che, come prima di lei Pier Damiani, intrattiene relazioni d’affari con le persone più eminenti del tempo. Scrisse a cardinali, vescovi e tiranni, a capitani di ventura, capi di repubbliche, sovrani e pontefici con ammaliante franchezza. Con il fervido zelo di una sacerdotessa ammonì Gregorio XI e Urbano a purificare la Chiesa, e quasi su ogni pagina delle sue lettere stava scritta la parola sublime: riforma. Dei due grandi obiettivi dell’animo suo, l’uno, il ritorno del pontefice a Roma, era quasi divenuto realtà, l’altro, la riforma del clero degenere non era che un desiderio disperato. Ella morì con l’angoscia nel cuore per il terribile scisma che spaccava la Chiesa.

LA TEOLOGIA CULINARIA

          Prima di passare ad altri Papi e Cardinali infoiati e a sante o puttane donne, due parole occorre dirle sui bagordi dei Vicari di Cristo o in attesa di diventarlo. L’orgia, per certo, concludeva la serata ma prima dell’orgia vi erano dei banchetti lucullian trimalcionici. Fin qui non servirebbe scomodare la parola teologia, perché basterebbe parlare di crapula. Invece ho parlato di teologia a ragione. Vediamo.

          Nella Regola di San Benedetto (VI secolo) si dice che il monaco ha diritto a due pasti al giorno affinché egli, ove non mangiasse il primo, potesse godere del secondo. In più Benedetto consentiva come terza portata del cibo crudo (Deschner 1). Con la scomparsa del santo i benedettini si concessero più di due portate, anche se non definite (l’indeterminatezza è la madre di ogni corruzione). Finalmente i benedettini del grande e prestigioso monastero di Farfa (una potenza interposta tra il Ducato di Spoleto e la Santa Sede) nelle loro cosiddette Consuetudines Farfenses della seconda metà del secolo XI, prescrissero per i benedettini tre portate per ogni pasto (si noti il passaggio da pasti nell’originale Regola a portate) anche se, nella pratica, i benedettini riformati ne consumavano sempre … parecchie di più (Deschner 1). Prosegue Deschner:

In molti conventi, tuttavia, si servì presto una terza, una quarta, una quinta portata anche nei giorni di quaresima. Perfino il santo cluniacense Pietro il Venerabile difese le tre, anzi le quattro portate – richiamandosi proprio al fondatore Benedetto, in quanto (come argomentava Pietro, sviluppando i  pensieri del fondatore) un monaco non avrebbe goduto nemmeno il secondo piatto se non poteva avere a disposizione il terzo o il quarto [per questo divenne Venerabile, ndr].

Gli asceti trovavano diverse specie di pane: di frumento, d’orzo, di avena, oltre a parecchie sorte di pane speciale. Tra gli uni e gli altri, ostie, cialde, tortine e simili confezioni. Per dessert c’erano insalate e frutta. Benedetto aveva vietato la carne, è vero, ma solo carne di animali a quattro zampe. Così ci si accontentava preferibilmente di pesce, anche nei giorni di digiuno. E non di rado si consentiva il pollame, che era anche più saporito della carne dei quadrupedi. Vero è che Rabano Mauro, richiamandosi alla Bibbia, metteva sullo stesso piano pollame e pesce, dato che gli uccelli erano stati creati nello stesso giorno dei pesci, eppoi, come questi, traevano origine dalle acque. In seguito Pietro Abelardo chiarirà che neanche la Bibbia pretende la rinunzia alla carne. Talché nella maggioranza dei monasteri, tra il XII e il XIII secolo, anche il divieto della carne venne di fatto ignorato.

Come si potrà osservare il problema dei pasti era diventato teologico e ad una Chiesa povera corrispondeva una povera teologia ma quando la Chiesa si riempì di ogni bene e ricchezza, anche la teologia dovette adattarsi. Arriviamo così alla teologia dei pasti lucullian trimalcionici annunziati. E nessuno si scandalizzi perché la teologia non è falsificabile (Popper).

          Rendina [1] racconta che il 22 novembre del 1324, quando il popolo moriva di fame, Giovanni XXII organizzò un banchetto di nozze per sua nipote Giovanna di Trian, in cui vennero mangiati: 8 buoi, 55 montoni, 8 maiali, 4 cinghiali, 22 capponi, 690 polli, 580 pernici, 270 conigli, 40 pivieri, 37 anatre, 4 gru, 2 fagiani, 2 pavoni, 292 uccellini, quintali di pesci, 3 quintali e 2 libbre di formaggio,  3000 uova, 2000 frutti e 4012 pani, il tutto innaffiato con vino di Bordeaux.

          Deschner [1] ci descrive un altro banchetto, quello del 1343 offerto dal cardinale Annibale di Ceccano a Clemente VI ad Avignone:

splendide pareti ricoperte di tappeti e il sontuoso letto papale avviluppato da velluti, sete, broccati d’oro. Copiose schiere di paggi servivano ai tavoli lepri e cervi, cinghiali e capretti, pavoni, fagiani, pernici, cicogne, insomma 27 portate diverse. (Ma che dire! Quando, in quel medesimo secolo, già un semplice vescovo di Zeitz, per la consacrazione della parrocchiale di Weissenfels, si vedeva servire come primo “brodo d’uova con zafferano, grani di pepe e miele, carni di pecora con cipolla, pollo arrosto con prugne. Seconda portata: stoccafisso con olio e uveite, abramidi fritti in olio, anguilla lessa con pepe, aringa affumicata con senape. Terza portata: pesce lesso, barbi arrosto, uccellini in grasso con rafano, cosciotto di maiale con cetrioli”).

           L’uomo non vive di solo pane. Tanto a Weissenfels quanto ad Avignone.

Da una sopraelevata fontana zampillante, adorna di colonne, scorrevano cinque tipi di vino, provenienti dal Reno, dalla Provenza e da altre regioni benedette da Dio. Un albero fatto d’argento offriva pere, fichi, pesche, uve dorate; un altro faceva sfoggio di variopinti frutti canditi. Di tanto in tanto vi erano intermezzi, canti, un torneo. Il capocuoco coi suoi assistenti allietava i commensali con danze. Quasi tutto era elargito con generosità, dalla nobiltà laica fino a venti prelati, da sedici cardinali fino al santo padre, che riceveva preziosi anelli del valore di 150 fiorini, un cavallo bianco del prezzo di 400 fiorini: il tutto pagato col denaro ecclesiastico.

Rendina [6] aggiunge a questo racconto alcuni particolari. La 27 portate sono servite in nove fasi, intervallate da gradite sorprese per gli ospiti.

Così in una quarta pausa viene offerto al papa un cavallo bianco del valore di 400 fiorini d’oro, un anello con zaffiro e uno con topazio del valore di 150 fiorini, e un nappo del valore di 100 fiorini; ai sedici cardinali e ai venti prelati presenti viene regalato un anello con pietre preziose, mentre ai 12 chierici della casa pontificia vanno una borsa e una cintura del valore di 25 fiorini d’oro. La settima pausa è occupata da un torneo, mentre in chiusura viene eseguito un concerto, al quale fanno seguito un dessert e quindi danze frenetiche di ballerine e recita di una farsa burlesca.

Deschner, per parte sua, conclude il racconto di questo pasto frugale così:

Alla fine, per concludere questa giornata della storia della salvezza (“Beati gli occhi – per dirla con Luca 10,23 – che vedono ciò che voi vedete…”), ecco rappresentata una scenetta piccante con annessa, stando al Petrarca, “l’immancabile orgia”.

Con un po’ più d’intimità le cose si svolgevano in quella piccola alcova nella torre, addobbata con un doppio divano – orlato ovviamente di ermellino – in cui Clemente VI se la spassava “nudo con le sue numerose amanti” …. Fatto sta che i suoi costumi … “non si accordavano sempre con la santità del suo stato e dell’eccelsa dignità che ricopriva”. Ma in fondo il contrasto appare proprio così brutto? Santo e ipocrita nella medesima persona?

Insomma credo che San Benedetto avesse aperto una strada che via via è diventata lastricata d’oro. Rasi, ermellini, oro, anelli, diamanti, cavalli di gran pregio ed infine, voilà, mignotte a volontà! Ed ancora Deschner prosegue:

Ma certo anche alla santità professionale si addiceva il fatto che, mentre il papa, definito dal cardinale Hergenröther “affabile” e “bonario”, andava brancolando fra tante nudità, nei piani inferiori, nella “salle de torture” si “interrogavano” le vittime anch’esse ignude dell’Inquisizione, “interrogate” talvolta fino alla morte. In tale contiguità si agitavano paradiso e inferno. Peccato soltanto che la cristianità non potesse farsene nemmeno una lontana idea! In certe occasioni, esortato seriamente dal suo confessore alla castità, il papa replicava di essere abituato fin da giovane a giacersi con le donne e che ormai seguitava a farlo per consiglio dei suoi medici curanti. Che spirito d’immedesimazione, quei dottori! Eppure Clemente VI “fu pur sempre così generoso da riconoscere tutti i suoi figli” (Cawthorne).

Lo scialo del Padre Santo e della sua corte ingoiava somme colossali; in misura particolare anche il dignitoso tenore di vita dei cardinali, i quali pure costruivano splendidi palazzi e, forniti di numerose prebende, sommersi da doni di grande pregio, seguendo l’esempio del loro supremo pastore puntavano anch’essi, tra dignità e diete, al traguardo paradisiaco – uno con dieci stalle per i cavalli, un altro con 51 case affittate per il suo seguito. Col denaro, in realtà, si sapeva sempre cavarsela, in siffatti ambienti, tanto nell’incassare quanto nello spendere.

Veramente agghiacciante osservare che mentre le nudità dei torturati dall’Inquisizione soffrivano disperatamente nei sotterranei, le nudità oscene del Vicario di Cristo e dei suoi camerati si sollazzavano su letti di ermellino ai piani alti. Davvero Inferno e Paradiso, ovvero come spiegare a noi ignoranti impenitenti di teologia le segrete cose di Dio.

          Anticipandoci un poco, raccontiamo un altro tavolo in cui la cucina trionfava in attesa delle orge consuete. Siamo con Sisto IV ed il pranzo che il nipote, cardinale Pietro Riario, offrì in onore della principessa Eleonora di Napoli, così raccontato da Gregorovius:

[Il cardinale Pietro Riario] diede un banchetto che per l’abbondanza e il fasto con cui fu allestito suscitò lo stupore di tutti i commensali. Valletti in seriche vesti servirono a tavola con abilità magistrale e il siniscalco mutò quattro volte il suo preziosissimo abito. Persino Vitellio avrebbe dovuto inchinarsi ammirato di fronte alla tavola di frate Riario. Su di essa comparve tutto quanto la terra poteva produrre, ammannito con gusto squisito. Prima di sedersi, i convitati assaggiarono aranci dorati e zuccherati alla malvasia e si lavarono le mani in acqua di rose. Poi il cardinale prese posto a fianco della principessa e allora, al suono delle trombe e dei flauti, entrarono innumerevoli portate i cui nomi e la cui preparazione avrebbero confuso anche la più succulenta cucina asiatica. Se le sette persone che sedevano alla mensa maggiore avessero soltanto assaggiato tutti i piatti che furono serviti, sarebbero morte senza dubbio d’indigestione. Innanzi a loro sfilarono interi cinghiali arrostiti coperti ancora delle loro pelli, daini interi, capre, lepri, conigli, pesci inargentati, pavoni con le loro penne, fagiani, cicogne, gru, perfino un orso coperto della sua pelle con un bastone in bocca; e torte innumerevoli, gelatine, frutti canditi e confetti. Fu portata anche una montagna artificiale e ne uscì un uomo in carne ed ossa che, fingendo di essere sbigottito di fronte a tanta magnificenza, recitò alcuni versi e scomparve. Figure mitologiche servivano di coperchio alle vivande e su piatti di argento erano istoriate le favole di Atlante, di Perseo e di Andromeda, delle fatiche d’Ercole, tutte in dimensioni naturali. Castelli di confetti, ripieni di cibo, furono saccheggiati e poi gettati al popolo che stava sotto la loggia della sala schiamazzando: navi a vela, frattanto versavano il loro carico di mandorle zuccherate. Alla fine del pranzo si rappresentarono scene mitologiche e si assisté a giochi di buffoni e a sinfonie musicali. Quando partì da Roma, madonna Leonora era convinta che non vi fosse altra corte al mondo degna di accostarsi per prodigalità e splendore a quella di un nipote di papi romani.

A Sisto IV seguì Innocenzo VIII che non voleva essere da meno e, nel 1492, in occasione delle nozze di sua nipote Battistina Usodimare con Luigi d’Aragona, offrì un pranzo così riassunto da Chastenet:

Sulla tavola del festino, in mezzo a una vera e propria arca di Noè – cicogne, gru, fagiani, storioni, anguille – si pavoneggiava Amore, un bambino nudo, dorato, con un paio d’ali, che spruzzava i convi­tati con l’acqua di un bacile d’argento. Fra una portata e l’altra com­pariva Orfeo che pizzicava la sua lira, mentre la sala era attraversata dal carro di Cerere, tirato da tigri, e Perseo liberava Andromeda. A ogni intermezzo questi personaggi dell’antichità classica declama­vano versi infiorati da frequenti allusioni ai novelli sposi.

UNA FASE DI TRANSIZIONE CON I SOLITI CRIMINALI AL POTERE

          Ai nostri fini e per mancanza di documentazione dobbiamo fare un salto temporale di quasi 100 anni, riprendendo con Papa Niccolò V (1447-1453) solo per dire che fu un Papa degno per alcuni aspetti (fu uno studioso umanista appassionato di libri (fu lui a raccogliere e comprare manoscritti in tutto il mondo dando vita al primo embrione della Biblioteca Vaticana) ed un poco preoccupante per altri (durante l’Anno Santo del 1450, scoppiò una pestilenza a seguito della quale Papa e curia scapparono da Roma. Pessima figura denunciata da tutti i rappresentanti di Paesi stranieri che non riuscivano a parlare né con un cardinale né con una qualche autorità pontificia. Il Papa arrivò a minacciare di scomunica chiunque, proveniente da Roma, tentasse di mettersi in contatto con lui. Altra questione di indegnità crescenti tra i vari Papi, era quello delle indulgenze. Niccolò aveva fatto un listino prezzi per varie indulgenze richieste e aveva permesso l’ottenimento delle indulgenze anche senza la venuta a Roma. Si valutava il costo del viaggio da un dato Paese a Roma e si aggiungeva al costo dell’indulgenza la metà del costo del viaggio. In tal modo neppure serviva la presenza di Papa e cardinali). Mentre si depredavano i fedeli con queste imposizioni, un dramma di grande portata stava avvenendo nell’Impero d’Oriente. Il 9 maggio 1453 Costantinopoli cadeva in mano dei Turchi guidati da Maometto II. Cadeva definitivamente l’Impero d’Oriente e terminava l’ultima traccia dell’Impero Romano. Inoltre il 19 marzo 1452, ebbe luogo l’ultima incoronazione papale di un Imperatore del Sacro Romano Impero nella persona di Federico III d’Asburgo. Da questo momento iniziò la decadenza dell’Impero. Serviva questo breve aggancio per introdurre il successore, Papa Callisto III (1455-1458). Ci sarebbe poco da dire dei suoi crimini non superiori a quelli di altri suoi colleghi, particolarmente il suo nepotismo sfrenato (debbo ricordare che in massima parte questi nipoti di Papi erano loro figli avuti da cortigiane o vere e proprie puttane), ma questo Papa riveste un ruolo importante perché è il primo Borja (italianizzato in Borgia), uno spagnolo di Valencia(17), a mettere piede sul Trono di Pietro e dintorni. I cardinali che lo elessero lo fecero per il solito motivo reclamato in momenti d’incertezza sul candidato: era vecchio di 77 anni e sarebbe quindi durato poco. Questa volta il suo pontificato fu davvero breve e, per un certo periodo, vi fu pace a Roma, città in cui la gestione del potere era affidata a senatori che duravano in carica sei mesi e dico questo solo per ricordare che nel maggio 1455 fu eletto senatore il genovese Arano Cybo che ritroveremo. Callisto ebbe due grosse fissazioni: la prima era la guerra contro i Turchi che non portò a nulla, la seconda che creò danni infiniti duraturi nel tempo era l’amore eccessivo che portava ai propri parenti (Gregorovius). Il nepotismo continuò quindi con sempre maggiore assenza di vergogna, un vero modo di depredare i beni della Chiesa che all’epoca erano beni del popolo, a favore di nipoti (leggi: figli) e parenti vari (a volte addirittura a favore di tutti gli abitanti del paese d’origine). Callisto aveva 4 nipoti che diceva essere figli delle sue quattro sorelle e le loro fortune, insieme a quelle dei Borgia, risalgono tutte a questo Papa. Appena eletto fece cardinali due dei suoi nipoti, l’inetto Luis Juan de Mila ed il furbastro Rodrigo de Lançol, ambedue giovanissimi e privi di ogni esperienza. Non si sa bene perché, se non accettando che fossero suoi figli, egli adottò i due dandogli il nome Borgia e riempiendoli di benefici ed incarichi (Luis Juan de Mila rappresentante pontificio a Bologna e Rodrigo Borgia vicecancelliere della Chiesa, capitano dell’esercito pontificio e vescovo di Valencia). Un terzo nipote, fratello di Rodrigo, rimase invece laico ed ebbe incarichi laici di enorme prestigio e potere come la nomina a Prefetto delle città (con tutte le incombenze della polizia). Ed a tale prefetto diede la gestione di ampi territori come il ducato di Spoleto ed una gran quantità di castelli diffusi in tutti i territori della Chiesa. In breve tempo questa accozzaglia di banditi si rese padrona di Roma e, dove non arrivavano i rigori della “fede”, gestita dai due cardinali, arrivava il duro braccio della legge con il Prefetto. Scrive Gregorovius:

Sotto il regime dei Borgia Roma subì una vera e propria invasione spagnola; a frotte parenti e partigiani dì questo casato, avventurieri spagnoli in cerca di fortuna, affluivano nella città. E’ ad allora che risalgono le mode e i costumi spagnoli e persino l’accento del dialetto romano. L’intera fazione dei Borgia fu chiamata dei «Catalani» e poiché nelle sue mani risiedeva tutto il potere militare e l’organizzazione di polizia, essa esercitava un vero e proprio dispotismo. L’amministrazione della giustizia era arbitraria; si rubava e si uccideva impunemente. Il papa aveva affidato a don Pedro Castel S. Angelo e molte altre fortezze …

E Pasquino che faceva le prime uscite ebbe a dire:

Ai poveri suoi apostoli la chiesa

avea lasciato Cristo;
preda dei ricchi suoi nipoti è resa
oggi dal buon Calisto
.

Per fortuna che questo primo Borgia morì presto ponendo fine allo strapotere ed arroganza dei Borgia ed il nipote Pedro Luis scampò per miracolo al linciaggio ma non alla malaria che lo ammazzò durante la fuga a Civitavecchia. La città tornò in mano agli Orsini e le case dei Borgia furono saccheggiate.

          Seguì un Papa neopagano Pio II (1458-1464) che nella sua autobiografia disse di se stesso di essere un vero e proprio idolo, di essere la sua vera e propria divinità. Insomma un vero Gesù tornato in Terra per alleviare le sofferenze e strare vicino ai diseredati. Fu uno svergognato libertino che tracciò tracce del suo osceno passaggio in giro per l’Europa. Da collaboratore del cardinale Albergati si recò in Scozia e, nella missione che egli definì di astinenza, ebbe due figli, uno con una scozzese ed uno con una bretone, figli che accreditò a suo padre. Seguì un altro delinquente megalomane Paolo II (1464-1471) che va ricordato solo per aver sostenuto che Io sono il Papa e posso, secondo che più mi piace, fare e disfare e per avere, nella sua infinita modestia, cambiato la semplice tiara in un copricapo d’oro tempestato di pietre preziose. Essendo egli persona colta, capiva bene quale potenzialità aveva il conoscere ed agì di conseguenza creando ogni possibile ostacolo all’educazione elementare dei ragazzi, arrivando anche a proibire a tutti i maestri di leggere poeti latini poiché tali letture portavano a diventare eretici. In cambio offrì divertimenti e feste al popolo addirittura permettendo il festeggiamento del Carnevale, prima proibito e facendo rivivere a Roma il carattere pagano dei ludi carnascialeschi. La parte culminante delle feste doveva svolgersi sotto il suo palazzo dove egli osservava seduto nel suo balcone. Offriva poi lauti pasti e gettava monete ai convenuti. Un signore? No, un vero porco che utilizzava il vecchio imbroglio del panem et circenses che oggi conosciamo a menadito. Tutti i letterati ed umanisti che si rivoltarono contro questo modo di agire, vennero accusati di complotto e rinchiusi nella fortezza di Castel Sant’Angelo. L’Accademia Romana, diretta da Pomponio Leto, fu chiusa. Fine di ogni possibilità di critica. Il potere assoluto era ormai davvero assoluto anche con il sostegno di gendarmi ed inquisitori. E’ l’antipasto del Papa Re contro il quale fu ordito un complotto internazionale attraverso l’invenzione della stampa a carattere mobili che fu importata in Italia tra il 1464 ed il 1465. Peggio che diventare colti, si apriva la possibilità di leggere la Bibbia senza più l’ipocrita e bugiarda mediazione del prete. Si apriva il cammino alla Riforma.

          Questo Papa chiuse la sua indegna vita decidendo che il Giubileo si dovesse fare ogni 25 anni sperando di realizzarlo nel 1475. Ma Dio intervenne prima eliminando il suo tanfo dalla faccia della Terra ma non essendo in grado di impedire l’elezione di Sisto IV.

I “NIPOTI” DI SISTO IV ED INNOCENZO VIII CON LE LORO PROSTITUTE

          Un primo campione da citare per le sue nefandezze nepotistiche fu Papa Sisto IV (1471-1484). In quanto racconterò il Papa entra solo perché fu un nepotista sfrontato. In tal senso non meriterebbe citazione perché il nepotismo è stato un qualcosa di endemico nelle decine di Papi che si sono susseguiti. Qui come con Callisto III, siamo di fronte ai “nipoti” che diventano Cardinali e continuano le sarabande orgiastiche che avevamo lasciato ai tempi dei Conti di Tuscolo. A questi figli di Papi, ordinariamente spacciati per nipoti andavano benefici e rendite infinite che, alla fin fine, erano pagate dai fedeli che pagavano tasse, donavano, lasciavano eredità, pagavano indulgenze, si dissanguavano in nome di Cristo. E questi debosciati dilapidavano senza ritegno pagando profumatamente ogni depravazione.

         Sisto IV fu addirittura sfrontato come nepotista a favore di due suoi due fratelli, quattro sorelle e quindici nipoti. Osserva Gregorovius che se sotto Callisto III era stata spagnola e sotto Pio II senese, Roma diventò ligure con Sisto IV. Alcuni dei suoi protetti, in verità emeriti ignoranti educati in conventi francescani e giovanissimi privi di ogni ingegno, furono fatti cardinali (Giuliano della Rovere che diventerà Papa Giulio II ed il citato gran delinquente Pietro Riario(18) che, secondo molti studiosi, era il preferito fanciullo da sodomizzare ed altri quattro, oltre a questi due) ed altri conti (il citato Girolamo Riario che, nella sua totale ignoranza in politica, creò numerosissimi e grandissimi problemi, appunto, politici allo Stato Pontificio trascinandolo in numerose guerre). In questa sua smania di elargizioni, sperperò molte ricchezze della Chiesa solo in parte recuperate con una sfrenata simonia, con la speculazione sui titoli finanziari, con la vendita di notariati, protonotariati, procuratori, con le solite indulgenze, con le indulgenze estese ai defunti, con l’indizione di un nuovo Anno Santo ogni 25 anni e quindi nel 1475, con il permesso che alcuni ricchi avevano di consolare le altolocate signore quando si assentavano i mariti e, ahimé !, con le immonde tasse sui ceti più deboli. Ma per far cassa servì anche qualcosa che non si dice mai: la Roma con un via vai di preti aveva circa 50 mila abitanti ed era allietata da un numero spropositato di prostitute, 7 mila censite, che operavano in svariati bordelli allietando la città in gran parte abitata da preti che se non importanti dovevano servirsi in questi luoghi di quell’amor profano che avvicina, quello sì, a Dio. Il numero di queste prostitute, e parlo sempre solo di quelle censite, crescerà sempre fino all’aurea epoca di Pio V quando volendo cacciarle da Roma si rende conto che la città si svuoterebbe: tra le praticanti sul campo (o sul letto) ed i loro protettori andrebbero via da Roma, capitale mondiale del Cristianesimo e delle Puttane, ben 25 mila persone, circa la metà dei suoi abitanti. Un vero esodo biblico, anche di denari dalle casse vaticane però. E Sisto IV prendeva tangenti sotto forma di tasse dai tenutari dei bordelli per una quantità calcolata in circa 30 mila ducati ogni anno. Era un grande pappone, un magnaccia di prima forza. A ciò va aggiunto il pizzo che i preti pagavano alla Chiesa per poter avere in casa una concubina. Infine una vera carognata: nel 1481 emanò una direttiva, l’Ordo Camarae, in cui le finanze della Chiesa requisivano, per la loro gestione e la crapula papale, quasi tutte le finanze del Comune di Roma. E per mostrare l’ipocrisia e l’ignoranza dei cattolici, valga quanto diceva lo storico Seppelt, secondo il quale, poiché Sisto proveniva dall’ordine francescano, non aveva il senso del valore del denaro e quindi sperperava senza capire davvero cosa faceva. Ed i poveri della città si fecero consolare da feste di tipo pagano che il Papa fece organizzare (ma non pagava la Chiesa perché il conto era per la comunità ebraica). Un cronista dell’epoca, Stefano Infessura, nel suo Diario della città di Roma (1303-1494) ci racconta qualcosa di più sui costumi sessuali di questo porco:

“Costui, come è tramandato dal popolo, e i fatti dimostrarono, fu amante dei ragazzi e sodomita, infatti cosa abbia fatto per i ragazzi che lo servivano in camera lo insegna l’esperienza; a loro non solo donò un reddito di molte migliaia di ducati, ma osò addirittura elargire il cardinalato e importanti vescovati.

Infatti fu forse per altro motivo, come dicono certi, che abbia prediletto il conte Girolamoe Pietro [Riario], suo fratello e poi cardinale di san Sisto, se non per via della sodomia?

E che dire del figlio del barbiere? Costui, fanciullo di nemmeno dodici anni, stava di continuo con lui, e lo dotò di tali e tante ricchezze, buone rendite e, come dicono, di un importante vescovato; costui, si dice, voleva elevarlo al cardinalato, contro ogni giustizia, anche se era bambino, ma Dio vanificò il suo desiderio.

Era un pedofilo sodomita che metteva sommo impegno con i suoi giovani camerieri. E’ notevole il fatto che uno di questi, Giovanni Sclafenato fatto anche cardinale, fu ricordato dallo stesso Sisto addirittura nell’epitaffio del giovane cardinale in cui si diceva che l’aveva elevato alla porpora cardinalizia per l’ingegno, la fedeltà, la solerzia e le altri sue doti dell’animo e del corpo. Insomma si tratta dell’unico cardinale ricordato per il suo corpo. Ma vi è dell’altro, anche se vi sono dei dubbi sulla realtà di queste storie. Si raccontava che Sisto IV avrebbe accontentato il cardinale di Santa Lucia che avrebbe richiesto, a nome di tutti i cardinali, il permesso di praticare la sodomia nei tre mesi più caldi dell’anno  perché sarebbe una pratica meno faticosa. La sua fama sessual libertina da porco doc era ben nota. Dice Deschner [1]: Promuoveva feste animate da cortigiane ufficiali, si dava da fare anche con sua sorella e coi suoi bambini, compensava i suoi amanti ragazzini con ricche diocesi e arcidiocesi, fondava a Roma delle case di piacere (a quanto pare perfino un lupanare aristocratico “per entrambi i sessi”) che affittava a cardinali, mentre egli incassava annualmente tra i 20 mila e gli 80 mila ducati dalle sue meretrici, tenendo conto che una romana su sette era una prostituta (e, in completa sintonia con se stesso, Sisto IV era devotissimo della Santa Vergine alla quale dedicò chiese ed in nome della quale nel 1476 istituì la festa dell’Immacolata Concezione).

Un esempio poi delle scellerate spese di questo Papa ce lo fornisce Gregorovius:

Alleandosi con Napoli Sisto sperava di garantire il successo alla propria politica nepotesca anche al di là degli Appennini; ne fece infatti pomposa ostentazione allorché, nel giugno 1473, passò a Roma Leonora, altra figlia naturale del re [di Napoli, Ferdinando I d’Aragona], per andare sposa a Ercole di Ferrara. Le feste indette dal Riario in onore della sua ospite superarono in lusso e prodigalità tutto ciò che fin allora si era veduto in materia di cerimonie e spettacoli. La giovane principessa giunse a Roma la vigilia di Pentecoste con un magnifico seguito. Il cardinale nipote [Riario], che poco prima aveva ospitato con lusso sardanapalesco gli ambasciatori di Francia, le diede alloggio nel proprio palazzo situato presso la chiesa dei SS. Apostoli. La piazza antistante era stata coperta con un immenso tendaggio formato di vele di nave cucite insieme e sembrava un teatro parato a festa; nell’interno erano stati nascosti numerosi ventilatori che servivano a rinnovare l’aria e a renderla fresca. Inoltre i migliori artisti di Roma avevano lavorato a decorare le camere. Bellissimi arazzi fiamminghi, fra cui quello celebre di Niccolò V, che rappresentava la Creazione, erano appesi alle cinque porte della sala maggiore. Le stanze attigue, addobbate tutte in porpora e oro, contenevano vasi preziosi e i sedili coperti di cuscini finissimi, poggiavano su piedi d’argento. Forse, coricandosi nel suo delizioso giaciglio, la giovane donna avrà sognato di essere Cleopatra e al mattino, svegliandosi, avrà riso delle fantasie notturne che le avevano fatto scambiare per Antonio un francescano porporato. Le procaci dame di corte, a loro volta, ritirandosi nelle proprie stanze da letto avranno battute le mani per la meraviglia e sogghignando avranno notato che persino gli arnesi destinati alle più vili necessità erano d’argento dorato. Paganesimo e cristianesimo si intrecciavano insieme in un’orgia di magnificenza che superava ogni misura: e il primo lo vedevi dovunque rappresentato in ogni sorta di figure mitologiche, persino sugli altari da messa ricoperti di velluto, sugli stemmi pontifici, sugli arazzi raffiguranti grandiose scene bibliche. Il giorno di Pentecoste la principessa entrò in S. Pietro, dove il papa celebrò la messa. A mezzogiorno il cardinale fece rappresentare la storia di Susanna da alcuni comici fiorentini; il lunedì seguente diede un banchetto che per l’abbondanza e il fasto con cui fu allestito suscitò lo stupore di tutti i commensali. E di esso ho già parlato nella Teologia culinaria.

Nelle folli spese di questo Sardanapalo si sarà notato che era profondamente ispirato da Gesù. Così si espresse su di lui Pasquino:

Requie il diavolo accordi a papa Sisto,

Al diavolo fedele, ostile a Cristo.

Sisto, sei morto alfine: ingiusto, infido giace

chi la pace odir tanto in sempiterna pace.

Sisto sei morto alfine: e Roma ecco in Letizia,

che te regnante, fame soffrì, stragi e nequizia.

Sisto sei morto alfine: tu di discordia eterno

motor fin Dio, scendi nel cupo inferno.

Sisto sei morto alfine: in ogni inganno destro,

in frodi, in tradimenti altissimo maestro.

Sisto sei morto alfine; orgia di sozzi pianti

ti dan ruffian, cinedi, meretrici e baccanti.

Sisto sei morto alfine: obbrobrio e vituperio

del papato, sei morto alfine: Sisto, è vero?

Sisto sei morto alfine: su, su, gettate a brani

le scellerate membra in pasto ai lupi e ai cani!

Di usure, d’omicidi e di rapine

Roma, regnando Sisto, è stata scena,

di stragi e di ruine.

Ogni delitto alfine oggi è sparito:

Sisto, feroce e insaziata iena,

con sé l’ha seppellito.

Perché tanto onorevoli funerali, Sisto?

Ogni preghiera è vana per uom sì infame e tristo!

Irrise, mentr’ei visse, uomini, Santi e Dio,

e bestemmiò imprecando, allor che si morìo.

Or giace: al cielo e al diavolo in egual modo inviso

Oh, se alcun di sua madre l’avesse in grembo ucciso!

          Del figlio-nipote-amante eccellente di Sisto IV, cardinale Riario, a parte le infinite spese e la vita godereccia e lussuriosa che condusse (le dame che invitava per i suoi festini potevano orinare in vasi da notte d’argento dorato mentre di solo oro erano i vasi che accompagnavano il loro congedarsi e la sua amante preferita, Ciresia, era sua convivente, accompagnatrice, puttana, baldracca e sempre ricoperta di gioielli), ho poco altro da dire perché tornato a Roma da un viaggio in nord Italia, allietato da molte cortigiane al seguito, morì a soli 28 anni dopo una notte di lussuria sfrenata mentre  godeva in un amplesso multiplo (qualcuno, per pudicizia cattolica, parla di avvelenamento e qualcun altro, per dissimulare lo schifo di un tale rappresentante di Cristo in Terra, di indigestione). Ho già detto dei pranzi del cardinale da far invidia a Lucullo e Trimalcione messi insieme ma non ho detto che in uno di questi festini la sua puttana favorita, Ciresia, comparve vestita interamente di perle, quella stessa puttana che, appena morto il cardinale fu sbattuta fuori dal suo palazzo in Piazza Santi Apostoli dove risiedeva. Ed uno così (o serva Italia!) era amato dal popolo e, per motivi di sodomia acuta era amato dai cardinali.

          Alla morte del porco Sisto IV, visto che ormai ci si era convinti che fare il Papa era il massimo affare pensabile, iniziò uno scambio simoniaco da paura gestito dai due massimi candidati, Rodrigo Borgia e Giuliano della Rovere, che avrebbero anche accettato un loro candidato. Ma nottetempo vi fu un cardinale che promise di più, il già incontrato genovese Giovanni Battista Cybo, poi eletto con il nome di Papa Innocenzo VIII (1484-1492). Il personaggio aveva corrotto tutti con promesse strabilianti ed aveva soddisfatto i piaceri sessuali del potente cardinale Filippo di Bologna e famiglia, di Papa Paolo II, di Papa Sisto IV. Rendina [6] ricorda quanto scriveva il cerimoniere di Corte Giovanni Burcardo(19). Egli passò una notte a firmare delle suppliche (richieste di denaro) dei 17 cardinali che avevano votato per lui, cardinali che in abiti succinti uscivano correndo dalle loro stanze per prendere la supllica firmata. Le firmava, in ginocchio, appoggiandosi su una specie di forziere che aveva davanti a sé, mentre i cardinali, tutti intorno, avanzavano richieste ed attendevano. Davanti a tale scena il cardinale postulante di Siena, Francesco Todeschini Piccolomini, commentò: Questo va reverso; el papa segnando sta in ginocchione, et noi che domandiamo stiamo ritti. L’indegno personaggio (e se non si è di tal fatta non si diventa Papi) era stato eletto nonostante la sua vita ben nota di libertino che aveva già ben otto figli (secondo il cronista Stefano Infessura e sedici secondo i poeta umanista Michele Marullo)(19), due dei quali riconosciuti (Franceschetto e Teodorina), uno, Lorenzo, spacciato come figlio di suo fratello Maurizio (quindi nipote), otto figlie ed altri che passarono (questa volta è certo) come nipoti alla corte pontificia (l’età d’oro dei bastardi !). Franceschetto era un degno figlio del padre. Abitava in Vaticano dove entrava in ogni luogo usando stuprare ogni donna che incontrasse e fosse di suo gusto con il padre felice della virilità di tanto figlio. E quando non aveva da stuprare qualche bella donna giocava d’azzardo perdendo fortune che andavano a pesare sulle spalle del popolo (sembra non cambi mai nulla). Per far soldi Innocenzo e degno figlio aprirono una sorta di banca della grazia temporale: chi aveva avuto una condanna qualunque dalla giustizia poteva ottenere l’impunità pagando 150 ducati di diritti fissi alla Camera pontificia ed un 10% a Franceschetto. Esistono bolle firmate dal Papa che lo dimostrano e dalle quali si desume che un’altra tangente andava a chi riempiva e piombava tali bolle (casualmente il responsabile di quest’altro affare era il marito di Teodorina, fatto da Innocenzo Tesoriere della Chiesa). Secondo alcuni cronisti i figli li avrebbe avuti con una ignota donna napoletana, secondo altri con più donne. Ma il personaggio, dal bel fisico attraente e dalle strane (per un ecclesiastico, diamine !) voglie, era anche un noto sodomita esercitatosi a lungo in quel di Napoli.  Passato a Roma fu egli stesso a dover soddisfare i piaceri del cardinale Filippo di Bologna che lo adorava. Inutile dire che il prestigio della Santa Sede precipitò il prestigio della Santa Sede ma, nonostante figlie nipoti, il vero discredito venne dalla sua persona che dette prove pubbliche di crapula partecipando a banchetti in compagnia di belle dame. Commenta amareggiato Rendina:

D’altronde lo stesso collegio dei cardinali era un’accozzaglia di porporati che perlopiù tutto erano fuorché preti o vescovi, nel senso religioso della parola; e non poteva essere diversamente, se il papa nominava cardinale un figlio illegittimo di suo fratello e, ridicolizzando il collegio, su pressione di Lorenzo il Magnifico, assegnava la porpora al tredicenne Giovanni de’ Medici, già all’età di sette anni protonotaro apostolico con il corrispettivo di ricchi benefici e commende. Quest’ultima nomina cardinalizia rientrava peraltro nelle trattative che avevano portato al matrimonio di Maddalena de’ Medici [figlia di Lorenzo de’ Medici detto il Magnifico e Clarice Orsini, ndr] con il figlio [Franceschetto, ndr] del papa [la coppia ebbe sei figli, ndr].

Completo con una notazione. Per ricompensare il Magnifico di questo importante matrimonio, Innocenzo fece cardinale suo figlio tredicenne, Giovanni de’ Medici che tragicamente diventerà Papa Leone X, quello della Taxa Camarae, il prezzario delle indulgenze che sarà il detonatore della Riforma. Un anonimo così ridicolizzava queste nozze:

Per congiungere la Medici

al figlio Franceschetto,

la porpora donava ad un ragazzetto.

Se è ver che il Santo Spirito

fa il papa sovrumano,

in questa il Santo Spirito

l’ha fatta da mezzano.

          Durante il suo pontificato vi fu un evento di importanza fondamentale che cambierà la storia: nel gennaio 1492 la Spagna cristiana era riuscita nella Reconquista del territorio della Penisola Iberica occupato da 750 anni dai musulmani. Iniziava da questo momento l’annullamento del pluricentenario sincretismo etnico tra le tre religioni monoteiste ed iniziava la limpieza de sangre (pulizia etnica) e l’intolleranza dei cristiani contro musulmani ed ebrei (ed anche contro la cultura, il sapere, con l’incendio, tra l’altro, della enorme e prestigiosissima Biblioteca di Granada qualche anno dopo). Inoltre, nel maggio dello stesso 1492 partiva la spedizione di Colombo verso le ipotizzate Indie, spedizione che si concluderà in ottobre con la scoperta dell’America, quando già era morto Innocenzo (luglio) ed era divenuto Papa Alessandro VI (agosto). Infine, poco prima di morire, lanciò, con la bolla Summis desiderantibus affectibus, quell’altra vergogna criminale della Chiesa nota come Caccia alle Streghe. Non si può sottacere di questo campione la sua sfacciata attrazione per pratiche considerate vergognose testimoniata da Franceco Guicciardini nel 1525 (credettesi per molti, nel primo tempo del pontificato, che e’ fusse castissimo; ma si scoperse poi dedito eccessivamente, e ogni dí piú senza vergogna, in quegli piaceri che con onestà non si possono nominare).

          Alla morte di questo degno Papa ne arrivò uno ancora più degno ma non si può tacere proprio ciò che accadeva al suo capezzale. Lo scrive Gregorovius: circondato dai suoi avidi nipoti, Innocenzo moriva in Vaticano. Il suo stomaco indebolito non tollerava più altro nutrimento che latte di donna e se la storia di Lorenzo morente che il suo medico cerca di salvare facendogli bere una pozione di polvere di diamanti pare un arguto apologo sul valore reale delle ricchezze terrene, qual nome meriteranno invece le turpitudini che si commisero al capezzale del papa? Il suo medico ebreo credette di potergli ridare le forze iniettandogli il sangue di fanciulli vivi: tre ragazzi decenni furono comprati a questo scopo e morirono vittime dell’atroce esperimento! Non ho parole per commentare se non dire che Bram Stoker non ha inventato nulla.

          Seguiva a questo mucchio di feci un altro campione di fogna. Ritornavano gli spagnoli a Roma con il cardinale Rodrigo Borgia, il nipote (o figlio ?) di Callisto III che quel Papa rese potente, eletto con il nome di Papa Alessandro VI (1492-1503). Un cronista dell’epoca segretario apostolico, Jacopo da Volterra, nel suo Diarium Romanum descrive così il cardinale Borgia:

È un uomo il cui ingegno è capace di tutto e di una grande intelligenza; parla abilmente e nei suoi. discorsi sa valersi molto bene di conoscenze letterarie mediocri; conduce gli affari con una maestria meravigliosa. E’ ricchissimo e la protezione di diversi re e principi gli dà lustro. Abita in un bel palazzo che ha fatto costruire tra ponte Sant’ Angelo e Campo de’ Fiori. Ricava immense rendite dalle sue funzioni ecclesiastiche, da diverse abbazie che possiede in Italia e dai tre vescovati di Valenza, Porto e Cartagine; la sola carica di vicecancelliere gli frutta ottomila fiorini d’oro l’anno. La quantità di vasellame d’argento, di perle, di stoffe ricamate d’oro e di seta, e di libri scientifici di ogni genere che egli possiede è notevole, e di un lusso degno di un re o di un papa.

Vi fu una corruzione imponente per portare questo uomo (già assassino di un coetaneo all’età di 12 anni)  al pontificato ma contò anche il prestigio della Spagna che si era unificata con l’espulsione dei moriscos e della Spagna che implacabilmente lottava contro l’eresia (che diventava lotta politica contro gli avversari), contro ebrei e musulmani, con l’Inquisizione spagnola  autonoma da Roma (1478, con l’entusiasta Sisto IV) e sotto la guida del Grande Inquisitore, quel criminale di Tomas de Torquemada (1487), nipote di Juan che aveva in commenda l’Abbazia di Subiaco e che più oltre incontreremo (a questo proposito, nel 1494, Alessandro concesse ai Re di Spagna, Fernando ed Isabella, il titolo di Re Cattolici, titolo che solo questi sovrani di Spagna ebbero). Questo terrore per l’intera popolazione durerà oltre 300 anni con l’eliminazione nota di oltre 300 mila persone.         

          Come scrive Deschner, Rodrigo divenne molto presto uno “sciupafemmine” seducendo una vedova spagnola e le sue due figlie insegnando loro le perversioni più disgustose e facendo fare alla più giovane tre bambini che lui riconobbe come suoi: Pedro Luis, Geronima e Isabella. Un pro-pronipote di quest’ultima sarebbe poi divenuto Papa: Innocenzo X”. La parte simoniaca previde come pagamento ai cardinali più potenti (grandi elettori) che: al cardinale Ascanio Sforza andasse il suo palazzo e il vicecancellierato dello Stato Pontificio; al cardinale Orsini i suoi possedimenti di Monticelli e la cittadina di Soriano; al cardinale Colonna la cittadina di Subiaco con i castelli circostanti; al cardinale Savelli la città di Civitavecchia. Era già noto come cardinale libertino, attività iniziata a 25 anni, e approfittò del papato per incrementare vita dissoluta, lussi e libertinaggio. Da Cardinale non aveva nemmeno lo scrupolo di nascondere i suoi fasti amorosi. Aveva una relazione con una romana, Vannozza de’ Cattanei, dalla quale aveva avuto quattro figli (prima di Vannozza aveva giaciuto con la mamma e la sorella); da altre relazioni i figli noti erano altri tre. Anche da Papa continuò senza pudore avendo ancora almeno due figli, uno dei quali prima di morire o forse appena dopo morto. Ebbe un’amante ufficiale, la moglie di Orsino Orsini (begli ambienti, eh?), la Bella Giulia Farnese nota ai Romani come la sposa di Cristo o la Venere del Papa. Naturalmente il fratello di Giulia, Alessandro, fu fatto cardinale. Molti storici e psicologi hanno tentato di capire la smodata lussuria di questa sagra dell’erotismo con la ricerca spasmodica di amori profani da parte di Alessandro, non dissimile da un personaggio oggi noto nella politica italiana, ed hanno concluso che si è trattato di forme patologiche che hanno avuto come conseguenza una tiara portata dal più indegno vicario di Cristo che si sia mai avuto (frase molto impegnativa perché dalle parti delle gerarchie della Chiesa, dato un delinquente, vi è sempre un delinquente più grande).

VANNOZZA DE’ CATTANEI

          Papa Callisto III, che prima di diventare Papa era Alonso Borgia, aveva una sorella che si chiamava Isabella. Isabella ebbe un figlio di nome Rodrigo che, quindi era nipote del Papa (secondo vari storici, Rodrigo era nato da un rapporto incestuoso con sua sorella). La carriera ecclesiastica, per tutto ciò che abbiamo visto, era la migliore possibile tanto più se si aveva uno zio Papa. Fu così che un giovanetto, che tutto aveva nella mente meno che essere un pio estimatore di Gesù, si imbarcò in quella carriera con la nomina ai suoi 25 anni (nel 1456) a cardinale. Seguirono i soliti benefici accordati ai cardinali come l’affidamento di vescovati, monasteri conventi e basiliche (italiane e spagnole). A lui, tra il molto altro, toccò la gestione della ricca abbazia di Subiaco (1471) dove fece ricostruire, ampliare e potenziare la Fortezza, realizzata nel 1068 ad opera dei benedettini, e dove fu nominato cardinale commendatario. Queste gestioni ed amministrazioni, insieme a quanto ereditato dallo zio Papa e dal fratello Pedro Luis, unite alle rendite principesche dei suoi incarichi nella Chiesa, lo arricchirono spropositatamente e secondo Iacopo Gherardi da Volterra, nel suo Diario Romano del 1479, era il più ricco cardinale, dopo il francese Estouteville. Nel 1458 fu eletto Papa Pio II che ebbe modo di riprenderlo duramente più volte per la sua vita poco morigerata di cui dava mostra dovunque si recasse in Italia. Rendina [6] ricorda che una delle sue liberti nate ebbe luogo a Siena nel Palazzo delle Papesse (così chiamato dai senesi) che proprio Pio II aveva fatto costruire. Le Papesse erano le sorelle di Pio II, Laudomia e Costanza, così battezzate dallo stesso Papa. E qui, anche se non sembra vi fossero coinvolgimenti libertini di Pio II e delle sue sorelle, va registrato il fatto che la città di Siena diventò un centro ben noto di libertinaggio nella villa di un nobile della città.  Uno dei festini, che vide la partecipazione del cardinale Rodrigo Borgia si tenne il 10 giugno 1460, richiamò la pubblica attenzione e fu qui che il Papa indirizzò al cardinale una lettera in cui lo rimproverava facendo riferimento alla presenza di “parecchie donne dedite alla vanità mondana” con le quali “si ballò dissolutamente e non una delle attrattive d’amore fu risparmiata” (Rendina 6). Non vi era rimprovero che tenesse con un individuo che Francesco Guicciardini descrive così:

In lui fu solerzia e sagacità singolare, consiglio eccellente, efficacia a persuadere maravigliosa, e a tutte le faccende gravi sollecitudine e destrezza incredibile; ma erano queste virtù avanzate di grande intervallo da’ vizi: costumi oscenissimi, non sincerità non vergogna non verità non fede non religione, avarizia insaziabile, ambizione immoderata, crudeltà più che barbara e ardentissima cupidità di esaltare in qualunque modo i figliuoli i quali erano molti; e tra questi qualcuno, acciocché a eseguire i pravi consigli non mancassino pravi instrumenti, non meno detestabile in parte alcuna del padre.

E così continuarono festini, orge e dissolutezze finché Rodrigo, cardinale, non decise di mettere la testa a posto legandosi ad una donna, Giovanna de Candia de’ Cattanei che era chiamata Vanna e quindi Vannozza. Della gioventù di costei si sa poco. Era nata a Roma ma originaria di Mantova nel 1442. I suoi genitori erano dei mercanti che avevano avviato a Roma un’attività di ristorazione aprendo varie locande (che erano anche bordelli in cui si affittavano camere ad ore) che acquistarono fama e quindi ebbero molti clienti anche tra persone altolocate, nobili, prelati, ricconi. Una di esse era la Locanda del Leone e si trovava vicina al Vaticano, nel rione Borgo; un’altra era la Locanda della Vacca e si trovava a Campo de’ Fiori(20). Questa seconda Locanda le era stata affidata da quando aveva all’incirca 20 anni. Giovanna è avvenente, con capelli biondi molto lunghi che raccoglie a ciocca, dotata di una figura che rispecchia i canoni dell’epoca, è opulenta e generosa, è provvista di quella sfrontatezza che la rende schietta e conturbante. È disposta a tutto, è volitiva e intraprendente, sveglia e intelligente, se la sa cavare in molte situazioni ed è dotata anche di fascino. E’ anche diventata molto ricca e ciò non dispiace ai suoi clienti che cercano sicurezza. Sa stare tra le persone colte anche se lei non lo è. Sa intrattenere le persone giuste offrendo loro il meglio della locanda ma sapendo garbatamente ritrarsi alle avances di persone non di suo gradimento e sapendo ritrosamente cedere a personaggi di altissimo rango come a Roma lo erano i cardinali. Divenne quindi l’amante di Giuliano della Rovere, nipote di Sisto IV che lo nominò cardinale nel 1471 e che divenne nel 1503 Papa Giulio II (anche noto sodomita). Forse è questo il motivo per il quale Giuliano della Rovere divenne un acerrimo nemico di Rodrigo Borgia che lo sostituì nel cuore di Vannozza. L’incontro di Rodrigo con Vannozza avvenne intorno al 1463, quando lei aveva un’età intorno ai 20 mentre Rodrigo, che già si era intrattenuto a letto con la madre e con la sorella, intorno ai 32. La folgorazione fu così grande che Vannozza divenne la concubina di Rodrigo anche se, all’inizio, non la fece più dimorare nella Locanda e, perché non si avesse scandalo, neppure nel suo palazzo (anche se Papa Paolo II avrebbe facilmente tollerato ciò che tollerava in altri pii rappresentanti di Gesù in terra). In compenso le comprò un palazzetto in Via del Pellegrino n° 58, il loro nido discreto d’amore (anche se mai Rodrigo rinunciò ad altre donne magari solo per pura libidine) che si manterrà fino al 1486 quando Vannozza si trasferì in un palazzetto dell’ormai scomparsa Piazza Branca (con il suo terzo marito) e quando le sue voglie iniziarono a cercare altrove tra le fanciulle più giovani offerte dalla città. La riservatezza che Rodrigo cercava di mantenere con Vannozza è dimostrata da una lettera che le inviò in un momento in cui, essendo Papa Sisto IV ed avendo già avuto dei figli con lei, era fuori Roma per i suoi impegni di legato pontificio:

amore mio, segui il mio esempio e rimani casta fino al giorno in cui mi sarà consentito di venire da te e potremo sciogliere la nostra profonda devozione con infinita sensualità. Fino ad allora non permettere a nessun labbro di sconsacrare le tue grazie, non lasciare che nessuna mano sollevi quei veli che coprono la mia suprema beatitudine. Ancora un po’ di pazienza ed io otterrò ciò che colui, che si usava chiamare mio zio, mi ha lasciato in eredità: il seggio di Pietro. Tu, intanto, occupati con grande cura dell’educazione dei nostri figli, giacché sono destinati a regnare su nazioni e sovrani.

Il forte legame di Rodrigo con Vannozza si ricava facilmente dai quattro figli che ebbero, figli amatissimi dai due e particolarmente da Rodrigo che, non per questo, trascurò o tolse affetto ai primi tre avuti con la sua amante spagnola. Ma anche i figli andavano in qualche modo fatti apparire di qualcun altro, anche se tutti sapevano l’ipocrisia è sempre stata sovrana in Vaticano e Laterano. La prima gravidanza di Vannozza si ebbe nel 1474 quando aveva 32 anni e l’evento venne nascosto con l’organizzazione del suo matrimonio con un capitano dei soldati di ventura pontifici, Domenico Giannozzo di Arignano, di stanza vicino Roma, ben ricompensato con una buona sistemazione nell’amministrazione pontificia, per la sua disponibilità che prevedeva il sommo rispetto per l’amante del Papa. Giannozzo morì quasi subito e ciò costrinse ad una seconda trattativa per un secondo matrimonio che si ebbe con Antonio da Brescia del quale non si sa nulla. Vannozza  abiterà poco con i suoi due primi mariti in quanto Rodrigo era divenuto nel frattempo commendatario della basilica come successore di Juan de Torquemada (zio del famoso Tomas) morto nel 1467, dei conventi e della fortezza di Subiaco (che, come già detto, era stata ristrutturata) nella quale portò a vivere per lunghi periodi la sua amata. Il paese di Subiaco, prestigioso per aver in quel luogo San Benedetto fondato il suo primo monastero e dove si era realizzato il primo libro stampato in Italia, era quanto di più comodo si potesse desiderare per un cardinale aspirante Papa: era relativamente vicino a Roma pur risultando difficilmente raggiungibile e quindi luogo di infinita discrezione. Inoltre la fortezza, chiamata Rocca Abbaziale, è costruita su un monte piramidale ed impervio che domina la Valle dell’Aniene, sulle pendici del quale si trova Subiaco, in un luogo che nel tempo si è riempito di monasteri di differenti ordini monastici(21). A Subiaco nacquero tre figli della coppia: nel 1474 Juan (Giovanni), l’anno successivo Cesare (il famoso Valentino di cui racconterà Machiavelli e così chiamato perché suo padre Papa lo nominò cardinale di Valencia e successivamente ebbe la carica di duce di Valentinois), nel 1480 Lucrezia. In questo anno o qualche anno prima morì Giannozzo(22) il marito di Vannozza, che intanto nel 1481 aveva avuto il quarto figlio con Rodrigo, Jofrè (Goffredo), che creò sospetti in Rodrigo a proposito della paternità, e si provvide ad un nuovo matrimonio. Venne scelto Giorgio della Croce, opportunamente premiato da Rodrigo con il posto di scrittore apostolico nella cancelleria da lui diretta. Con il della Croce, Vannozza andò ad abitare a Via del Pellegrino e con lui, nel 1482, ebbe un figlio, Ottaviano. Comunque questo secondo marito visse molto meno del primo. Solo pochi anni dopo il secondo matrimonio, la nostra Vannozza si ritrovò ancora una volta nell’imbarazzo di una vedovanza: nel 1486 morirono sia il marito che il figlio. Rodrigo però era ricco e potente, in grado perciò di trovare un terzo marito, il mantovana Carlo Canale, con ambizioni letterarie. L’8 giugno 1486 fu stipulato il contratto nuziale. Poco prima il Canale aveva ricevuto in dono l’ufficio di sollecitatore apostolico, assicurato dal cardinale vicecancelliere al terzo e ultimo marito della madre dei suoi figli. Rodrigo organizzò anche la vendita della casa di Via del Pellegrino e l’acquisto del palazzo citato a Piazza Branca. Per conto suo, insieme al marito Canale, Vannozza acquistò poi nel 1493 una casa con vigna in San Pietro in  Vincoli. In quest’epoca Rodrigo aveva rarefatto i suoi incontri con Vannozza, anche se l’attaccamento e la stima verso la madre dei suoi quattro figli non verrà mai meno. Il matrimonio con Canale, che nel 1488 fu allietato da un figlio, durò fino a circa la fine dell’anno 1500. A questo punto Vannozza aveva circa 60 anni e, da qualche tempo, le voglie di Rodrigo, ormai diventato dal 1492 Papa Alessandro VI (con quattro muli carichi d’oro da consegnare al cardinale Ascanio Sforza fratello di Ludovico il Moro signore di Milano),  erano dirette sempre più verso le giovanette. E, nel 1489, il voglioso Papa cinquantottenne (e decisamente brutto) aveva conosciuto la non ancora quindicenne e bellissima Giulia Farnese di cui mi occuperò nel prossimo capitolo. Riguardo alla fine dei rapporti amorosi tra Vannozza e Rodrigo, scrive Roberto Zapperi nel Dizionario Biografico degli italiani (Treccani):

La Cattanei seppe accettare il suo ineluttabile destino con quel senso spiccato dell’opportunità che contraddistingue ogni sua azione. La sua posizione di madre di ben quattro figli del Borgia le garantiva sempre del resto vantaggi che lei non era abituata a disprezzare. Ritiratasi discretamente in disparte, la Cattanei, che neanche ai tempi del più acceso divampare della passione borgiana aveva osato ostentare la sua condizione invidiabile di favorita, si preoccupò di mantenere un atteggiamento di riservata devozione, del tutto alieno da ogni forma di molesta esibizione. Tanto maggior riserbo le impose l’elezione al pontificato del suo ex amante, che continuò a conservare i migliori rapporti con la madre dei suoi figli.

          Rendina [6] ci fa conoscere delle lettere di Vannozza indirizzate al suo ex amante ed ora Papa. Sono molto interessanti perché raccontano di una donna illetterata che ha sentimenti autentici. Nella prima (probabilmente del 1494), che fu recapitata al Papa dal marito Carlo Canale, Vannozza raccontava di essere stata molto ammalata e che avrebbe voluto fargli visita:

Beatissime pater, de poi lo basar delle soi pedi santissimi. Credo che venendo misser Carlo da V.S.ta li commisi me recommandassse a Sua Beatitudine et che li domandasse de grati a che io potessi venir avisitar quella, como sono certa lui fece secundo la risposta me disse li haveva facta la V.S .ta che como era ben guarita che era contenta venisse molto volentieri. Rora che me sento meglio suplico a V. Beatitudine che sia contenta che domenica proxima o quando aquella serra commodo se degni mandarmele avisare che veramente, beatissimo patre, credo sera la liberatione de lo mio male, lo quale in vero beatissimo patre non è stato pocho et perche anchora o a dire cosa che a mi importa assai; non altro alli piedi de v.S.ta me recomando pregando Dio li conservi in felice stato. La vostra humile serva et schiava Vannoza de Catanj.

Nella seconda mostrava di essere molto preoccupata per la sorte di suo nipote (forse) l’illegittimo Girolamo nato nel 1503, figlio di Cesare, e pregava il pontefice, poco prima della sua morte, perché lo aiutasse:

Beatissime pater, de poi basando li pedi de V.S.A. questi dì passsati scripsi una polisa alla V.S., nonso se la habuta, per tanto tomo a supplicar la V.S. me facia gratia della mia venuta qua per che haveva di dire molte cose delle quale san certa V.S. ne haveria pigliato piacere et maximamente adesso venirme ad alegrare della bona nova dello signor duca del bello figliolo che liè nato. Dio sia pregato sempre ne habiamo bone nove con vita et sanita et felice stato della v. Beatitudine; più, pater sancte, sto mal contenta la S.V. me fa lo bene et altri seI gode siche suplico alla V.S. voglia provedere con monsìgnor de Capaccio per che me pare che se infraschi et perlonga questa cosa che tanto me sa pegio dello affanno che do alla v. Beatitudine che dello danno mio; non altri si non che humilemente me raccomando alli pedi de V.S.

E.S.V. Vannozza de Cataneis. Così passò Vannozza gli ultimi anni della sua vita, preoccupandosi intensamente per le sorti dei suoi figli e dei suoi nipoti, anche se questi ultimi non conosceva. E questo perché era tenuta lontana dalla vita pubblica che riguardava il suo ex amante (un Papa, diamine !) anche dalle ripetute nozze della sua amata figlia Lucrezia alle quali, come ogni mamma italiana sa, avrebbe voluto partecipare. Niente. Solo radi rapporti con i suoi amati figli e qualcuno con il loro padre che mostrava non aver tempo per riceverla. Infatti i figli di Vannozza non vissero con lei se non nei primissimi tempi perché affidati alle cure ed all’educazione aristocratica di Adriana de Mila, cugina di Rodrigo e sposata con Ludovico Orsini di Vasanello (una località dell’alto Lazio vicina a Viterbo), che risiedeva a Monte Giordano nel Rione Ponte. Inoltre la nostra Vannozza avrà la grande sventura di vedere morire i suoi tre figli maschi avuti con Rodrigo (ma anche altri) in modo violento. Il primogenito Juan fu ucciso nel 1497 dal secondogenito Cesare per questioni di potere (von Ranke che cita il Diario romano dal 1497 al 1517 di Sebastiano Branca de’ Tellini); Cesare morì in battaglia quando operava come soldato di ventura nel 1507; Jofrè; morto nel 1517 a Napoli in modo mai chiarito dove si era rifugiato dopo la morte del padre.

          Altre lettere furono scritte per differenti motivi: una verso la fine del 1494 a seguito del saccheggio della sua casa da parte delle truppe di Carlo VIII, Re di Francia, che occuparono e derubarono l’intera città. Vannozza si mostrava molto spaventata. Un’altra lettera ancora era per rallegrarsi della nascita del figlio del loro primogenito, Juan. Era sua nonna e si rallegrava con chi era il nonno senza poter vedere il nipotino. Il citato Roberto Zapperi racconta dei rari incontri tra Vannozza e la sua famiglia con Rodrigo, con i suoi figli e nipoti, fino alla fine dei suoi giorni:

 Ancor più intensi e frequenti dovettero essere i suoi contatti con i figli, che pure restano scarsamente attestati. Di una famosa cena che precedette la notte del 15 giugno 1497, fatale [a suo figlio Juan] duca di Gandia, si ha notizia sicura: la Cattanei, che la imbandì in una sua casa con vigna presso la chiesa di S. Pietro in Vincoli, vi invitò oltre a Giovanni anche Cesare Borgia. Alla morte del papa, nell’agosto del 1503, quando i numerosi nemici dei Borgia minacciavano violenze e rappresaglie, la Cattanei poté godere della protezione del figlio Cesare che le assicurò un rifugio, prima in Castel Sant’Angelo e poi, con le altre donne di casa Borgia, nella fortezza di Civita Castellana. Ritornò a Roma, al seguito dei figli Cesare e Goffredo, ai primi di ottobre, con il favore del nuovo pontefice Pio III. La morte improvvisa del quale e l’elezione di Giulio II, nemico giurato dei Borgia, fecero temere però nuovi pericoli alla Cattanei, che nel dicembre si dispose a una nuova fuga. Poco prima Cesare Borgia era stato trattenuto agli arresti nel palazzo apostolico, da dove nel febbraio dell’anno successivo fu trasferito a Ostia. Recuperò la libertà solo con la fuga il 19 aprile 1504. Il 1º di quello stesso mese la Cattanei aveva provveduto a stipulare un atto per simulare la vendita di certe sue proprietà a un Giuliano dei Leni che le rilasciò atto di retrocessione. A questa misura l’aveva indotta la paura di una confisca che tuttavia si dimostrò del tutto infondata. Giulio II infatti si limitò solo a fare perquisire una volta, nell’estate del 1504, la sua casa, ma senza che a lei fosse arrecato danno od offesa alcuna.

La morte di Cesare Borgia, sopraggiunta nel 1507, segnò il tramonto definitivo delle fortune della potente famiglia spagnola. Ma alla Cattanei, che continuò a vivere indisturbata a Roma, restò la protezione della figlia Lucrezia, duchessa di Ferrara, e del figlio Goffredo ritiratosi nel suo feudo di Squillace. I rapporti con i due figli rimastile sono attestati, solo per gli ultimi anni della sua vita, da un gruppetto di lettere a Lucrezia (ma una anche al cardinale Ippolito d’Este) del 1515. In esse sollecitava sempre la concessione di grazie e favori per sé e per altri. In una chiedeva in particolare di sistemare presso la corte ferrarese un suo nipote, figlio illegittimo di Goffredo, allogato dal padre presso di lei.

Vissuta per tanti anni all’ombra di un ricchissimo e potente cardinale, poi papa, la Cattanei si garantì un’esistenza assai agiata con la costituzione di un vasto patrimonio immobiliare che seppe valorizzare e incrementare accortamente, con operazioni economiche di varia natura, spesso poco scrupolose. […]

L’assillo continuo della roba che scopre lo squallore di un’esistenza dominata da un avaro, esoso calcolare rischiava di compromettere quella divisa di assoluto decoro formale alla quale la Cattanei si era voluta sempre attenere. L’infittirsi degli affari si accompagnò così negli anni della vecchiaia ad una vigile pratica religiosa, sostenuta dal solido avallo di un vero e proprio flusso di donazioni pie. Numerose furono le chiese, le confraternite e le istituzioni pie di Roma che beneficiarono delle sue elargizioni. La chiesa di S. Maria del Popolo, dove riposavano il marito Giorgio della Croce e il figlio Juan di Gandia e dove ella vorrà essere seppellita, fu tra le prime. Vi acquistò una cappella e nel 1500 incaricò Andrea Bregno e Giovanni de Laugo di costruirvi un tabernacolo di marmi preziosi. Alla chiesa donò le case che possedeva in Pizzo di Merlo e un’acquasantiera. Il 15 genn. 1517 donò la metà della Locanda della Vacca all’ospedale del Salvatore e l’altra metà all’ospedale della Consolazione, all’Annunziata della Minerva e alla Concezione di S. Lorenzo in Damaso. All’ospedale della Consolazione donò anche un busto d’argento del figlio Cesare e al famoso orafo Ambrogio Foppa, detto il Caradosso, commissionò un tabernacolo d’argento per l’ospedale del Salvatore. Il passato dell’ex concubina del cardinal Rodrigo era racchiuso così in una doverosa cornice di peccato alla quale la penitenza della vecchiaia offriva il tributo necessario di una volenterosa espiazione, secondo il paradigma di una classica parabola rinascimentale.

Confortata dalle confraternite che non dimenticarono “il pientissimo et devoto animo suo”, la C. concluse la sua vicenda mondana il 26 nov.embre 1518. Ai funerali, che Leone X volle onorati da una rappresentanza della corte pontificia, partecipò la nobiltà romana che si raccoglieva nella Confraternita del Gonfalone, alla quale si era associata. Furono funerali degni di un cardinale, commentò un osservatore veneziano. Fu sepolta nella sua cappella di S. Maria del Popolo, dove vennero celebrate messe in suffragio della sua anima fino al 1760, quando fu deciso di soprassedere. Successivamente sparì anche la lapide con un famoso epitaffio ritrovata solo di recente nella chiesa di S. Marco.

Da quel che si può capire Vannozza era una donna dl suo tempo. Una popolana molto brava negli affari che fu in grado di mettere su con le proprie forze un’impresa alberghiera (con stanze per i piaceri che i molti chierici presenti a Roma richiedevano per i loro incontri lussuriosi) e di ristorazione. Ebbe la ventura di essere una bella donna e la cosa da una parte le permise un successo clamoroso in un mondo non suo, dall’altra, non essendo persona colta, non le permise la carriera che era di molte, quella di cortigiana. E, come una donna del suo tempo, finita l’epoca degli amori e delle passioni iniziò per lei quella di mamma e di nonna che via via cedette il passo, per la perdita di tutti i suoi cari (meno Lucrezia che morirà nel 1519), a quella di pia donna che la Chiesa adora per i beni che certamente le lascerà.

          Nel raccontare la vicenda umana di Vannozza, il lettore avrà notato che abbiamo attraversato un gran pezzo della storia di Roma e d’Italia che riprenderò, dove utile, più avanti. Ma, prima di soffermarci sulla bellissima amante del Papa Alessandro VI, Giulia Farnese, la Venere del Papa, la Papessa moglie di Cristo (uxor Christi, concubina papae), almeno un cenno occorre fare ad uno dei figli di Vannozza ed il cardinale Rodrigo Borgia, Cesare, che insieme all’altra figlia, Lucrezia, hanno riempito parte della storia della Chiesa e non solo degli anni a cavallo tra XV e XVI secolo. Di Lucrezia mi occuperò diffusamente in un capitolo a parte mentre, per l’economia di questo lavoro, non mi occuperò di Cesare che almeno un cenno merita. Un cenno e solo un cenno ad un uomo speciale in qualunque senso si voglia vedere, una persona i cui aggettivi sono tutti al superlativo, un uomo estremo del suo tempo, uno che Machiavelli assunse come ideale rinascimentale, il suo Principe. Poiché fare la storia di Cesare, anche solo riassunta, richiederebbe troppo spazio preferisco riportare solo i giudizi che su di lui hanno scritto tre grandi storici: Gregorovius, von Ranke e Deschner.

Gregorovius scrive:

Cesare Borgia era stato dotato dalla natura di splendide qualità: come nell’antichità Tiberio, anch’egli era il più bell’uomo del suo tempo e aveva una corporatura atletica. La sua insaziabile sensualità era però al servizio di un intelletto freddo e penetrante. Possedeva una magnetica forza di attrazione sulle donne e una ben più terribile forza di volontà che disarmava gli uomini. Nell’arte politica Cesare Borgia attuò così perfettamente quel gesuitismo che è un tipico prodotto della nazione romana, da poter diventare un modello per signori del genere. E mostrò di possedere pienamente tutte le qualità proprie d’uno statista siffatto: capacità di tacere a lungo, astuzia e ipocrisia, rigorosa sistematicità, rapidità e tempestività nell’azione, crudeltà spietata, conoscenza degli uomini e abilità nell’usare virtù e vizi per raggiungere uno stesso scopo. Per calcolo, mai per natura, poteva essere giusto e liberale fino allo sperpero, e con il suo operato attuò il principio secondo cui ad uno spirito superiore è lecito usare qualsiasi mezzo per raggiungere i propri fini. Un bastardo dotato di tali inclinazioni, educato alla scuola dell’intrigo dinastico d’Italia, non poteva che disprezzare gli uomini e il mondo per servirsene come di strumenti del proprio egoismo. Nei giorni che videro il decadere dell’antica repubblica romana Cesare Borgia sarebbe diventato un personaggio di primissimo piano. Ma nell’epoca in cui visse, lo spettacolo della sua ambizione assassina rimase limitato entro i confini dello Stato ecclesiastico. Uno spirito superiore avrebbe certamente rovesciato queste barriere, ma egli non poté farlo perché gli mancava qualsiasi idea creatrice e qualsiasi forma di grandezza morale. Il Valetino, perciò, rimase saldamente legato al pontificato di suo padre e salì e cadde con lui perché non era altro che un mostruoso parto del nepotismo papale. La sua carriera o meglio lo sviluppo della virulenza di una velenosa pianta esotica abbraccia il breve periodo di tre anni e offre lo spaventoso spettacolo di una eruzione morale di Roma in cui si ordì un inferno di delitti. L’umanità può stimarsi felice del fatto che le sue concezioni politiche o ecclesiastiche non possano più partorire tali demoni o del fatto che, se ancora la natura li produce, essi non trovino più spazio nella storia.

Per parte sua von Ranke scrive:

Per un momento Cesare ebbe in suo potere Roma e lo stato della Chiesa. l’uomo era bellissimo: tanto forte, che, combattendo con i tori, staccava con un colpo la testa dell’animale; liberale; non senza tratti di grandezza; lussurioso; macchiato di sangue. Come tremava Roma a sentire il suo nome! Cesare aveva bisogno di denaro ed aveva nemici; tutte le notti si trovavano corpi di assassinati. E tutti tacevano; non c’era nessuno che non temesse che sarebbe venuto il suo turno. Chi non poteva essere raggiunto con la violenza, veniva avvelenato.

C’era un solo luogo sulla terra ove fossero possibili simili cose. Ed era soltanto là ove insieme si aveva la pienezza del potere civile e si dominava la suprema corte ecclesiastica. Cesare occupava questa posizione. Anche la degenerazione ha una perfezione. Tanti nipoti di papi hanno tentato le stesse cose; ma mai un altro si è spinto tanto avanti. Cesare è un virtuoso del delitto.

Non era una delle più originarie ed essenziali tendenze del Cristianesimo quella di rendere impossibile un simile tipo di potere? Ed ora il Cristianesimo stesso, la posizione del capo della Chiesa doveva servire a produrlo.

In realtà non bisognò aspettare l’arrivo di Lutero perché si additasse, in questo comportamento, la diretta opposizione al Cristianesimo. Subito allora si protestò che il papa apriva la strada all’Anticristo, e che egli si dava cura di realizzare non il regno celeste, ma quello di Satana.

Infine Deschner dà questi giudizi:

Cesare, dopo aver fatto fuori suo fratello perché gli era di ostacolo col papa, divenne anche assassino di suo cognato, cioè del napoletano Alfonso duca di Bisceglie, il terzo marito di Lucrezia, da lei molto amato. Siccome questi non era morto ammazzato nell’attentato a lui destinato in piazza san Pietro, il boia privato di Cesare, Micheletto Coreglia, lo soffocò nel letto dove giaceva ferito, amorevolmente assistito – e anche alimentato per paura del veleno – dalla moglie e dalla sorella, la principessa di Squillace.

Sotto spergiuro, nel giugno 1502, Cesare Borgia fece liquidare, nel carcere di Castel sant’ Angelo, anche il sedicenne Astorre Manfredi, signore di Faenza assai amato dal popolo, insieme a suo fratello. Il 18 gennaio 1503 fece soffocare Paolo Orsini e il 9 giugno in Trastevere il segretario pontificio Troche, catturato durante la fuga, di nuovo per mano di Micheletto, mentre lui, Cesare, stava segretamente a guardare.

Lo strumento letale preferito dai Borgia (come più generalmente dai preti) fu in realtà il veleno. Col quale essi eliminarono principalmente prelati, vescovi, cardinali, avvelenando però anche un generale papalino, un ambasciatore francese, diversi membri delle famiglie Orsini e Caetani, nonché altri personaggi importanti o comunque facoltosi. In certe occasioni, Cesare Borgia prendeva meticolose informazioni dal suo mastro artigiano Lorenz Beheim, futuro canonico a Bamberga, circa la preparazione dei veleni che vengono mescolati a porzioni di cibi e vivande e che, a seconda dei desideri, fanno effetto solo in un mese, in quattro o sei mesi.

Furono allora avvelenati, evidentemente in accordo col pontefice (ammesso che non fosse lui in prima persona, come corse voce, l’autore dell’ avvelenamento), il cardinale Orsini, che aveva contribuito in maniera determinante all’elezione di Alessandro. Pure con la sua approvazione venne avvelenato anche il nipote di Paolo II, il cardinale Michiel sulle cui ricchezze Cesare aveva messo gli occhi. E fu probabilmente nell’estate 1503 che egli avvelenò anche il cardinale di Monreale Juan Borgia. 

Non tutti questi e altri assassinii del figlio del papa sono accertati al di là di ogni possibile dubbio. Non c’è nessuno, tuttavia, che dubiti del fatto che Cesare Borgia sarebbe stato senz’altro capace di uno o dell’altro dei delitti contestati: un uomo capace di pugnalare perfino il segretario particolare del papa, il beniamino di Alessandro accoltellandolo sotto il mantello, tanto che il sangue schizzò in faccia al santo padre.

Credo si sia capito con chi si aveva a che fare, con un personaggio che, una volta diventato beniamino del padre dopo l’assassinio del fratello Juan (sic!), ebbe campo libero in tutto ciò che la sua mente criminale intendeva fare.

          Torniamo ora a Giulia Farnese.

GIULIA FARNESE

            Ho scritto nel capitolo precedente che, nel 1489, il voglioso cardinale Rodrigo Borgia (Papa Alessandro VI dal 1492) allora cinquantottenne aveva conosciuto la non ancora quindicenne e bellissima Giulia Farnese. La ragazza era figlia di Giovannella Caetani (discendente della famiglia che aveva dato alla Chiesa Papa Bonifacio VIII) e di Pier Luigi Farnese, quindi nasceva da genitori di due famiglie note e tra le più potenti del Lazio (non è ozioso ricordare che nei feudi dei Farnese era in vigore lo jus primae noctis). Era terza di cinque figli, tre maschi (Angelo, Bartolomeo, Alessandro) e due femmine (Girolama e lei) il cui fratello Alessandro nel 1534 sarà Papa Paolo III. Nacque nel 1474 nell’alto Lazio, probabilmente a Capodimonte sul Lago di Bolsena (dove la famiglia possedeva un importante castello-fortezza che aveva ospitato vari Papi e personalità importanti), ed ebbe un’educazione molto buona, in convento a Roma, anche attraverso una governante che si curò molto di lei. Ai suoi 10 anni morì il padre e da quel momento fu la madre a farsi carico della famiglia. Nel 1488, quando appunto Giulia, magnifica et onesta, non aveva ancora 14 anni, la madre giudicò essere arrivato il momento di rendere operativo il contratto fatto tempo addietro dal marito e dal cardinale Rodrigo Borgia, far unire in matrimonio Giulia con Orsino Orsini, ma prima doveva offrire il fiore di sua figlia Giulia al vecchio e laido cardinale. Occorre ora collegare alcune cose già dette con altre che dirò ora. Orsino Orsini era il figlio di Adriana de Mila, la cugina di Rodrigo sposata con Ludovico Orsini di Vasanello (a quei tempi Bassanello), un borgo tra i monti Cimini nel viterbese, che abbiamo già incontrato; era infatti colei che educava i figli del cardinale Rodrigo. In qualche modo era il cardinale che aveva organizzato questo matrimonio, promesso in epoca in cui Giulia era ancora una bambina magari bellina ma non appariscente sessualmente. Ma Giulia era cresciuta e diventata bellissima già ai suoi 14 anni: aveva occhi scuri e vivaci incorniciati da ciglia folte ed arcuate, aveva capelli lunghi e neri in un corpo snello e perfettamente proporzionato. Il cardinale mantenne fede alla promessa di matrimonio che, a questo punto, più che mai interessava a lui stesso che già da un anno godeva di tanto eccellente frutto proibito. Per parte sua Adriana, la madre di Orsino, aveva altri piani. Conoscendo i desideri sessuali lussuriosi ed insani del cugino cardinale, fu lei a spingere la futura moglie di suo figlio, Giulia, tra le sue braccia. Naturalmente vi era un secondo fine, quello di garantire al figlio una vita agiata con i tanti benefici che un cardinale può elargire. Stessi intenti di Giovannella, madre di Giulia, per suo figlio Alessandro. E nel 1488, un anno prima del matrimonio, il cardinale Rodrigo e Giulia diverranno amanti. Il lettore attento avrà capito che tutto questo puttanaio è filiazione diretta dei Santi Vangeli e non è altro che la realizzazione dell’amore predicato da Gesù. Il matrimonio fu celebrato il 21 maggio 1489, o qualche mese prima, con accordi tra il cardinale e sua madre a proposito della disponibilità necessaria a tutti gli incontri con la bella Giulia ogni volta che il cardinale li avesse ritenuti opportuni. Prima però di seguire gli accadimenti successivi a questo matrimonio, vediamo come lo stesso si svolse, nel racconto di Chastenet:

Il secondo giorno, nel quale ebbero luogo gli sponsali, il fasto del­la cerimonia superò ogni aspettativa. Rodrigo attese l’arrivo del cor­teo sulla soglia del palazzo, con accanto i figli – tranne Cesare, impe­gnato negli studi – e tenendo per mano Orso. Spettava infatti al capo della famiglia Borgia di accogliere Adriana e Giulia. La sposa, nella veste di un bianco immacolato disseminata di gemme, scese dalla giumenta e si inginocchiò per baciare l’anello vescovile. Rodrigo la fece alzare e le porse la mano di Orso, guidando la processione degli invitati verso la «sala delle Stelle», sul cui soffitto era raffigurato un cielo notturno. Qui Juan Borgia benedisse le nozze, e poi i tre figli del cardinale Rodrigo precedettero i convitati nelle sale da ricevi­mento dove si trovavano le tavole del banchetto. … Il banchetto nuziale fu, come si conviene, interminabile, ma per fortuna rallegrato da intermezzi: Lucrezia recitò un poema sulle sventure di Orfeo; sulle tavole, tra i vassoi di maiale dorato, pavone arrosto e piccioni confettati, si aggiravano prestigiatori, mimi, gioco­lieri. Il quindicesimo e ultimo servito era accompagnato da una for­ma di spettacolo più ricercato e assai bizzarro, detto «il cavaliere e la gatta»: si trattava di rinchiudere in una gabbia un uomo e una gat­ta; l’uomo, nudo fino alla vita, doveva aizzare e far infuriare l’ani­male, e poi ucciderla senza servirsi né delle mani né dei denti. S’intende che il divertimento del pubblico era tanto maggiore quanto più il cavaliere usciva malconcio dal duello. L’ingresso dei nani segnò la fine del banchetto, secondo l’uso. La tavola sgomberata di cristalli, maioliche e ori, diventava il palco più sontuoso per accogliere i lazzi dei buffoni, che vestendo panni di cortigiani, condottieri, prelati, strigliavano allegramente la buona società. Il loro specchio deformante non disturbava nessuno, tanto il loro spirito era sottile e divertente. «Sarebbero capaci di far ridere i santi e gli angeli del paradiso, e davanti a loro perfino Cerbero nel suo inferno si dimenticherebbe di abbaiare» riferisce Guido Torelli. 

Dopo il matrimonio il sedicenne Orsino, descritto da tutti come repellente per avere un viso pieno di foruncoli e guercio tanto da avere un occhio coperto da una benda (per questo chiamato Monoculus Orsinus), inizierà una carriera da soldato di ventura al servizio della Chiesa. Per i suoi supposti meriti sia di condottiero che di marito ignorante di quanto accadeva alle sue spalle, Alessandro VI lo ricompensò nel 1494 in natura, come spesso avveniva, con il feudo di Carbognano e Giulianello (al di là di questa agiografia sembra che Orsino, assunto nel 1491 al soldo del Re di Napoli per combattere, si dileguò dandosi alla fuga. Fu ritrovato a Firenze dove si giustificò in modo infantile dicendo che stava male e progettava un viaggio in Terrasanta per soddisfare un voto che aveva fatto in occasione della malattia che lo aveva privato dell’occhio e dalla quale era venuto fuori. Secondo un’altra versione, Orsino dovette avere sentore della tresca tra sua moglie ed il cardinale Borgia nell’aprile del 1491, quando abbandonò Roma sconvolto con il proposito di un pellegrinaggio in Terrasanta). Per parte sua Alessandro Farnese, il fratello di Giulia, poté iniziare a riscuotere la sua mercede per le prestazioni della sorella solo quando Rodrigo divenne Papa, quando cominciò cioè la sua carriera con la nomina a cardinale avvenuta, assieme a Cesare Borgia ne1 1493 (Alessandro, dopo la nomina a cardinale, ebbe anche la Legazione di Viterbo e delle Marche)(23). Per la sua nomina l’intercessione di Giulia presso Alessandro VI fu fondamentale, tanto che costò al fratello il diffamante e popolare titolo di Cardinale della gonnella o Cardinale Fregnese, con il nome Farnese storpiato. Ed i Farnese iniziarono la loro potenza da qui, dalle grazie profuse a letto da Giulia, soprattutto con Alessandro VI. Eh si, perché la giovanetta doveva essere ubbidiente e remissiva alle volontà di un vecchio lascivo e godereccio, ma con il fine di promuovere in ogni modo suo fratello Alessandro. E le sue abilità in amore, anche alla sua giovane età (quindi Giulia mostrava di avere una sorta di predisposizione amatoria), riuscirono ad imporsi ed a farla diventare un elemento decisivo nella politica della Chiesa, anche se la cosa la pagò con i limiti che furono imposti alla sua libertà personale. Ma forse a lei piaceva così.

          Comunque, appena sposa, Giulia andò ad abitare con suo marito Orsino, marito che non doveva apprezzare troppo, nel suo castello di Vasanello. Spesso e comunque ogni volta che le voglie del vecchio cardinale poi Papa lo richiedevano (almeno fino ad un certo momento) Giulia lasciava la sua residenza per motivi familiari, recandosi a Roma nella residenza di Monte Giordano della suocera Adriana Orsini, una località di Roma vicina a Ponte Sant’Angelo che bastava attraversare per trovarsi in Vaticano. E le voglie del vecchio porco per le infinite grazie di quella fanciulla in fiore erano frenetiche e ripetute. I viaggi tra Vasanello e Roma si fecero sempre più intensi finché il cardinale poi Papa non volle Giulia stabilmente dimorante a casa di Adriana a Roma, casa nella quale, come sappiamo, vi erano anche Juan, Cesare e Lucrezia all’educazione dei quali provvedeva Adriana medesima. Ma quella breve distanza doveva sembrare ancora enorme al voglioso Papa che dovette organizzare la cessione ad Adriana ed ospiti di un palazzo che egli stesso, come usava, aveva rapinato al cardinale Zeno di Santa Maria in Portico, trasferitosi a Padova (dove morì nel 1501) perché non si sentiva sicuro a Roma. Questo edificio era adiacente al Vaticano (quod est de alio latere scalarum Sancti Petri),a sinistra  del portone che portava agli appartamenti papali, ed era quindi possibile passare da un luogo ad un altro agevolmente, tanto più che lo si poteva fare in gran segreto, attraverso la cappella privata del palazzo di Zeno che immetteva direttamente in San Pietro da dove si accedeva alla cappella Sistina. Fu a questo punto che Orsino dovette rendersi conto della dedizione corporea della moglie al vecchio ma, a parte l’eventuale sua probabile disperazione iniziale che lo avrebbe spinto ad andare in Terrasanta, alla fine dovette accettare la tresca aspettando però una qualche importante ricompensa che arrivò quando Rodrigo divenne Papa Alessandro VI l’11 agosto 1492(24). Da questo momento, se vi era stata prima dell’evento una qualche riserva per una situazione che avrebbe potuto danneggiare le sue aspirazioni al soglio pontificio, il Papa pretese che Giulia abitasse direttamente in Vaticano nella torre annessa agli appartamenti papali (oggi noti come appartamenti Borgia). In questo luogo il 30 novembre la diciottenne Giulia darà alla luce Laura, la sua unica figlia, fatta riconoscere da Orsino ma evidentemente figlia del Papa che, da questo momento avrà ogni desiderio di avere vicine Giulia e figliola (che, dopo la morte di Orsino, avrà in eredità il castello di Vasanello Laura e di lì a poco si unirà in matrimonio con Niccolò della Rovere, nipote prediletto di papa Giulio II, occasione per Giulia di ritornare alla mondanità della curia, prima di ritirarsi definitivamente nella rocca di Carbognano). Ormai tutti sapevano che Giulia era l’amante del Papa il quale non faceva molto per nascondere il suo amore per una (ormai) donna, la bella Giulia, che aveva una bellezza folgorante che tutti esaltavano. Tanto era il legame del Papa per questo splendida donna che venne chiamata sposa di Cristo (uxor Christi), essendo il Papa Vicario di Cristo (con il corpo di Cristo, in cielo, esultante per la gioia). Ed il Papa si esaltava dall’alto, ormai, del suo infinito potere: dispensava favori, ricchezze, feudi, cariche a tutti i suoi parenti, a quelli di Giulia, agli amici, … Sfoggiava la sua donna, che creava profonde invidie, in ogni festa a cui partecipava, ai grandi banchetti che si tenevano in Vaticano. Giulia era la prima donna e non se ne restava certamente in ombra. Come già detto nel 1493 ottenne la porpora cardinalizia per suo fratello Alessandro. In quello stesso anno anche Cesare Borgia, il figlio del Papa, ebbe quella porpora (che abbandonerà 5 anni dopo preferendo i crimini di guerra a quelli di Curia)(25) e, sempre nello stesso anno quel Papa che mirava al potere, a trasformare i beni della Chiesa nei suoi beni, iniziò con l’uso di sua figlia, anche lei bella ma di una bellezza più selvaggia, più aggressiva, Lucrezia di 13 anni a fini di potere. Di Lucrezia parlerò più oltre, ora debbo fare riferimento alle sue nozze con Giovanni Sforza, signore di Pesaro, che furono celebrate nell’appartamento del Papa il 12 giugno 1493, perché a tali nozze partecipò da grande protagonista anche Giulia. Lo sfarzo di quell’evento fece parlare per molto tempo e i festeggiamenti raccolsero il fior fiore della nobiltà non solo romana, del clero tutto, degli ambasciatori e naturalmente tutti i figli del Papa. Naturalmente fu servito un altro pasto da sogno con duecento portate alla fine del quale, dopo danze sempre più sfrenate e licenziose, iniziarono intrattenimenti lascivi ed osceni. Come racconta Burcardo:

Alcuni scudieri del cardinale Colonna, vestiti di tuniche e pelli come gli antichi pagani hanno recitato una loro composizione sull’amore; poi è stata la volta di due figli del maestro Andrea capocomico che insieme ai loro compagni, vestiti anche loro alla maniera dei pagani, hanno rappresentato una commedia

Il già citato Infessura nei suoi Diaria rerum romanarum dice di più offrendoci un cenno di quanto accadeva: et post desponsationem papa CL cuppas argenteas cum confectionibus ad faciendam collationem praesentavit; ibique in signum magnae letitiae in sinu multarum mulierum, potissime pulchrarum, proiectae fuerunt. et hoc ad honorem et laudem omnipotentis Dei et Ecclesiae Romanaee cioè:

il papa presentò centocinquanta coppe d’argento piene di confetti, che in segno di grande letizia vennero versati nel seno di molte donne, per la maggior parte bellissime e ciò per onorare e lodare il Dio onnipotente e la Chiesa di Roma Rendina [2] entra in maggiori dettagli:Nell’atmosfera sfrenata che ne segue, arriva la proposta del duca di Gandia [il primogenito del Papa, Juan, ndr]; invita le donne a prendere con il seno quei confetti da una coppa e quella che riuscirà a prenderne di più avrà in premio un bacile d’argento. Ecco allora Giulia tirar fuori il seno dalla scollatura del vestito e immergerlo divaricato in una coppa, per stringerlo poi raccogliendo quanti confetti può e facendoli quindi cadere su un tavolo. Per la cronaca sono 18 confetti, e nessu­na fa meglio di lei. La festa finisce con Alessandro VI che segue gli sposi fino al talamo nuziale, dove presenzia al denudamento della figlia.Questo racconto è anche in Burcardo che conclude: Si raccontano molte altre cose che non scrivo; potrebbero essere vere, e se lo sono, le ritengo incredibili. E’ una pesante allusione alle voci che circolavano ed alle quali ho fatto riferimento all’inizio di questo capitolo: si tratta di un qualcosa che avrebbe a che fare con rapporti sessuali o consimili tra il Papa e sua figlia ? E’ Infessura che commenta la frase di Burcardo  alimentando questa voce. Egli dice che, secondo le usanze dell’epoca, il padre della sposa seguiva la sposa ed il marito in camera da letto aspettando che gli sposi si fossero coricati aggiungendo: dove finalmente lo sposo si congiunse alla sua donna,  facendo così intendere che il Papa volle assistere all’unione carnale della figlia. C’è però chi commenta che nei matrimoni altolocati dell’epoca era costume che i genitori o loro rappresentanti si accertassero che il matrimonio fosse consumato anche se, nel caso specifico, vi sono molti dubbi su matrimonio consumato o simulato. Sembra infatti che Giovanni, reduce da un matrimonio annullato con una donna prosperosa, non avesse trovato per nulla attraente la bambina Lucrezia che non doveva neppure essere sessualmente matura. Ciò è mostrato da fatto che lo stesso Giovanni andò via da Roma appena due mesi dopo il matrimonio e che fu richiamato dal Papa con la lettera che segue, datata 15 settembre 1493:Stipuliamo che a partire dal 10 o 15 del prossimo ottobre, quando l’aria sarà più fresca e sana, tu venga presso di noi per la piena consumazione del matrimonio con detta moglie tua.Giovanni tornò ma mostrò di non gradire la vita a Roma e qualche tempo dopo fu Lucrezia, che sembrava essere sempre più legata al marito, ad andare a Pesaro per vivere con il marito. L’accompagnava Giulia che, probabilmente, approfittò di questa occasione per allontanarsi sempre più dal suo amante ormai non più in grado di mantenere i desideri sessuali di una giovane, supposto che abbia mai goduto della libidine di quel vecchio. In ogni caso, poiché non aveva ancora ottenuto tutto ciò che madre e suocera volevano, è probabile che Giulia scaltramente sfruttasse le sue grazie facendole mancare al pontefice. Sta di fatto che nel marzo del 1494 arrivò la sospirata cessione ad Orsino del feudo di Carbognano. Il Papa credette di aver comprato ancora Giulia ma la giovane aveva capito che i suoi amplessi erano così desiderati da spingersi ancora a farli reclamare oppure, anche qui, era davvero stufa del vecchio e pensava ormai di vivere con suo marito e sua figlia lontana dal lupanare Vaticano. L’invasione dell’Italia da parte del Re di Francia, Carlo VIII, cambiò la situazione. Angelo Farnese, uno dei fratelli di Giulia, cadde gravemente ammalato nella sua residenza di Capodimonte e Giulia informata di ciò corse al suo capezzale anche se non riuscì a rivederlo vivo. Il Papa ebbe paura che qualcosa accadesse alla sua amata e le ordinò di tornare subito in Vaticano ma Giulia non ubbidì, anzi approfittò della tragica situazione per restarsene l’intera estate nei possedimenti dove aveva passato la sua breve gioventù. Tra l’altro occorre dire che da quando il fratello di Giulia, Alessandro, era stato fatto cardinale, non aveva più le rendite che gli derivavano da essere tesoriere pontificio (questa carica era passata al cugino del Papa). Ed  Alessandro insisteva presso Giulia perché il Papa gli assegnasse qualche ufficio che rendesse denaro. Giulia scrisse al Papa in proposito facendo capire che le sue alzate di gonna non erano gratuite e che insieme ai gioielli che le regalava doveva anche pensare a suo fratello. Il Papa era fuori di sé anche perché non disponeva al momento di incarichi e ciò durò fin quando non vi fu una rottura con i Medici che gli permise di assegnare nel novembre 1493 ad Alessandro Farnese il posto di Legato al Patrimonio sottratto al cardinale Giovanni de’ Medici (a ciò si aggiungerà il vescovato di Corneto a Montefiascone e le sue rendite nel 1501, e, nel 1502, la Legazione della ricca Marca di Ancona). L’esser Legato assicurava ad Alessandro una rendita di 100 ducati al mese oltre al controllo del territorio del viterbese (il vescovato renderà moolto di più). Prima di tale nomina, sempre in autunno, si verificarono due fatti coincidenti: da una parte il Papa che insisteva per avere Giulia a Roma, dall’altra suo marito che faceva altrettanto per riaverla a Vasanello. Il povero marito, come un magnaccia di secondo ordine che aveva riscosso già per aver ceduto sua moglie eppur la pretendeva ancora. Pasquino aveva ben capito la situazione e così scriveva:Ursino non sapea ciò che ti tornaUtile l’avesse in capo un Orso,però qui tutti  fanno un gran discorsodi una bestia tua pari con le corna.Pasquino utilizzava qui una metafora della parola che fino ad ora non ho mai usato perché mi sembrava irrispettosa del lettore che ha già subito molto turpiloquio. La parola in oggetto è cornuto ed è parola che doveva colpire a fondo se Orsino era infuriato e voleva la sua moglie, per di più bellissima e desiderabilissima, vicina a sé. Anche Alessandro, fratello di Giulia, fu richiesto dal Papa di intervento verso la sorella ed anche qui Pasquino commentò adeguatamente:Alessandro tu devi a tua sorella Giulia il cardinalato che la gonna alzò …          Il Papa, in particolare e per parte sua, era fuori di sé tanto da arrivare ad utilizzare i suoi metafisici poteri per poter fornicare: minacciava di scomunica sua cugina Adriana se non gli avesse riportato Giulia e minacciava anche Giulia di scomunica se, e qui un ateo ride ed un credente non so cosa fa, avesse continuato a fornicare con il marito e non con lui. Debbo dire che la lettura del Vangelo da parte di Alessandro VI era quanto meno stravagante. Dico questo confessando che di volta in volta apprendo cose di quel mondo che a me, da ateo, sembrano incredibili. E mi viene in mente quanto sosteneva Ratzinger a proposito dell’impossibilità di avere un’etica senza Dio. Con Lecaldano debbo dire che questi oltre ad essere dei maestri del crimine, sono anche degli infiniti bugiardi o stanno davvero male con la testa. E neanche a dire che sono cose del passato perché lo stesso Ratzinger ci ha spiegato che il relativismo è un peccato, più che grave, intollerabile. Comunque il Papa scrisse una lettera a Giulia che sgrammaticata com’è in quanto mescola italiano con spagnolo riporto riprendendola da Rendina [9]: 

Julia ingrata et perfida. Una tua lettera havemo receputa per Navarico per la quale se signifiqui como la intention tua non è de venir qui sensa vol unta de Ursino et benche fin qui asai comprendessemo lanimo tuo cativo et de chi te conseglia pero considerando le  tue finte et simulate parole non sel possevemo in tutto persuadere che usaste tanta ingratitudine et perfidia verso de noi havendosi tante volte iurato et data la fede de star al comando nostro et non acostare a Ursino che adesso vogli far el contrario et andar ad Basanello con expresso pericolo de la vita tua, nel podero credere lo fachi peraltro si non per enprenyar te unaltra volta da quella equia de Basanello et speramo in brevi tu et la ingratissima madama Adriana ve acorgerite del vostro errore et ne portarite la penitentia condigna. Et nientedemeno per tenor dela presente sub pena excomunicationis late sententie et maledictionis eterne te comandamo che non te debi partire de Capo de Monte o de Marta, ni manco andar a Basanello per cose concernente lo stato nostro.

Più di ogni altra cosa, insieme alla nomina di Legato al Patrimonio per il fratello Alessandro, ebbe successo la minaccia di scomunica verso puttane o meno ma timorate di Dio. Adriana, Giulia e sua sorella Girolama si misero in marcia verso Roma con una scorta pontificia, ma il convoglio fu fermato da un contingente dell’esercito francese e le preziose dame furono fatte prigioniere nel castello di Montefiascone. Per somma sfortuna, non tanto sua ma di chi paga oboli per maggior gloria di Gesù, il Papa dovette pagare un ingente riscatto per riavere la sua amata e desideratissima (non credo proprio che si interessasse delle altre). Arrivate a Roma con scorta francese, Giulia fu rapidamente condotta in Vaticano dove dovette subire lascivia, lussuria e libidine del Vicario di Cristo per un’intera notte. Giulia non ne poteva proprio più, anche per la minaccia dell’arrivo dei francesi e la paura per la figlia, ed insieme al fratello Alessandro fuggì da Roma verso un luogo dove il Papa porco non sapeva come richiamarla o raggiungerla. Era finita definitivamente tra i due e Giulia non farà sapere più nulla di sé per molto tempo. Si può ipotizzare che sia andata a vivere con la figlia da qualche parte, forse a Carbognano, e non certo dal marito che non doveva essere molto contento del suo essere stata amante del Papa. In ogni caso Orsino morì nel 1500 e da quel momento, con il castello di Vasanello ereditato da Laura, Giulia con sua figlia presero lì dimora.

          Mentre il Papa soffriva queste pene d’amore la situazione italiana, nel 1495, era divenuta sempre più grave con la citata invasione del Re di Francia Carlo VIII e varie guerre al Nord ed al Sud, soprattutto con Napoli. La gravità degli accadimenti discendevano anche da quell’orrenda infezione importata dai francesi, il mal francese, la sifilide. Questa infezione venerea fu subito interpretata e certamente facilitata dalla completa amoralità che riguardava alcuni strati, quelli ricchi, della popolazione e diffondeva in strati più  bassi attraverso le donne che i potenti potevano concupire a piacere. Sembrava un segno di Dio, una maledizione che si accompagnava a molti altri segni che provenivano dalla natura e che erano appunto interpretati come collera divina soprattutto per i lussuriosi ed osceni comportamenti delle gerarchie della Chiesa guidate dai Borgia (non  caso questo male tremendo fu contratto da Giulio II, Papa eletto nel 1503) . Questi eventi erano presi molto sul serio se Guicciardini ne dà conto nella sua Storia d‘Italia e Gregorovius nella sua Storia di Roma. Leggiamo questi passi iniziando da Guicciardini:

E gia non solo le preparazioni fatte per terra e per mare ma il consentimento de’ cieli e degli uomini, pronunziavano a Italia le future calamità. Perché quegli che fanno professione d’avere, o per scienza o per afflatto divino, notizia delle cose future, affermavano con una voce medesima apparecchiarsi mag­giori e più spesse mutazioni, accidenti più strani e più orrendi che già per molti secoli si fussino veduti in parte alcuna del mondo. Né con minore terrore degli uomini risonava per tutto la fama essere apparite, in varie parti d’Italia, cose aliene dall’uso della natura e de’ cieli. In Puglia, di notte, tre soli in mezzo ‘l cielo ma nubiloso all’intorno e con orribili folgori e tuoni; nel territorio di Arezzo, passati visibilmente molti dì par l’aria infiniti uomini armati in su grossisimi cavalli, e con terribile strepito di suoni di trombe e di tamburi; avere in molti luoghi d’Italia su­dato manifestamente le immagini e le statue sacre; nati per tutto molti mostri d’uomini e d’altri animali; molte altre cose sopra l’ordine della natura essere accadute in diverse parti: onde di in­credibile timore si riempivano i popoli, spaventati già prima per la fama della potenza de’ franzesi, della ferocia di quella nazione, con la quale (come erano piene l’istorie) aveva gia corso e depre­dato quasi tutta Italia, saccheggiata e desolata con ferro e con fuoco la città di Roma, soggiogato nell’ Asia molte provincie; né essere quasi parte alcuna del mondo che in diversi tempi non fusse stata percossa dall’armi loro. Dava solamente agli uomini ammirazione che in tanti prodigi non si dimostrasse la stella cometa, la quale gli antichi reputavano certissimo messaggiere della mutazione de’ regni e degli stati.

A questi prodigi che racconta Guiccirdini si aggiungono i veri disastri che il Tevere provocava a Roma, come racconta Gregorovius:

Anche in una delle più terribili inondazioni del Tevere che Roma abbia mai subito, si volle scorgere un segno della collera celeste. Il dicembre 1495 il fiume straripò con tanta violenza da coprire con le sue acque le parti più basse della città. A stento i cardinali che uscivano dal concistoro poterono mettersi in salvo oltre Castel S. Angelo; il cardinale di Parma non poté raggiungere la propria casa. Le acque danneggiarono i palazzi, penetrarono nelle chiese e fluttuarono nelle strade, che furono percorse in barca come a Venezia. Molti furono gli annegati e i prigionieri rinchiusi a Tor di Nona non poterono essere sal vati. I danni ammontarono a trecentomila ducati e in alcune lettere scritte da veneziani che furono testimoni oculari di quella catastrofe si leggeva che sarebbero occorsi venticinque anni perché Roma potesse riaversi. Ancor oggi sull’angolo di una casa situata presso S. Eustachio un’iscrizione di marmo infissa nel muro ricorda il livello toccato dalle acque in quella inondazione.

E lo scandalo dei Borgia fu anche oggetto di prediche feroci dal pulpito del Duomo di Firenze.. Sei peggio delle bestie, sei un mostro ed un luridume. Vergognosa meretrice. Bordello. Così predicava il domenicano Girolamo Savonarola dirigendosi alla Chiesa, alla Curia (meretrice di Babilonia) ed ai costumi corrotti dilaganti anche tra i tiranni laici come i Medici. E durante la Repubblica, instauratasi con l’esilio di quest’ultima famiglia, pretese per chiunque l’avesse voluta far ritornare al potere la pena di morte perché i tiranni meritano di essere fatti a pezzi, senza fare peccato. Invocò inoltre l’alleanza con la Francia di Carlo VIII per estirpare la corruzione. Fu oggetto di tentativi di corruzione da parte dei Medici che gli offrirono molto denaro e da parte del Papa Alessandro VI che gli offrì la porpora cardinalizia ancora nel 1497, dopo che nel 1495 gli aveva intimato di sospendere le predicazioni. Egli rifiutò la porpora perché ciò si inseriva nello sporco commercio della compravendita delle cariche ecclesiastiche alla quale il Papa partecipava, ed il rifiuto comportò la sua scomunica sempre nel 1497.

        Era amato ed odiato a Firenze dove perse il suo ascendente tra la popolazione nel 1498 quando il Papa minacciò di sospendere tutte le manifestazioni pubbliche di culto e di ritirare i sacramenti della Chiesa da Firenze e tutto il Granducato (interdetto), con gravi ripercussioni economiche per l’intera popolazione. Fu facile da questo punto di forza aizzare la gente contro Savonarola. Il suo convento (San Marco) fu attaccato e Savonarola finì in catene, torturato con estrema durezza, condannato per eresia e scisma, impiccato e subito dopo bruciato con due confratelli(23 maggio 1498).

          Nel 1503 morì il Papa e ciò, oltre a ridare fiducia alla popolazione, comportò la progressiva e rapida rovina dei Borgia, gli odiati catalani. Anche Giulia aveva un qualcosa da temere, soprattutto per sua figlia che avrebbe perso ogni sostegno e protezione. Fu allora, ai suoi 30 anni,che Giulia tornò a Roma al fine di trovare una degna sistemazione per l’amata figlia Laura. Fu eletto Papa Pio III che morì subito. Fu quindi eletto Giuliano della Rovere con il nome di Giulio II e Giulia, grazie alle conoscenze che aveva per i suoi precedenti in Vaticano, riuscì ad avvicinarlo e a combinare il proficuo matrimonio di sua figlia con un rampollo di quella potente ed ascendente famiglia, Niccolò della Rovere, matrimonio che fu celebrato il 15 novembre del 1505, quando Laura aveva 13 anni (da questo matrimonio nacquero tre figli), e dopo aver annullato un precedente contratto matrimoniale del 1499, molto meno vantaggioso, con Federico Farnese. Il fatto che Giulia ai suoi 30 anni, da tutti i contemporanei ritenuta ancora splendida, raffinata e di fine eloquenza, addirittura più desiderabile di sua figlia ritenuta un poco rozza e simile in questo al padre, non pensasse a sé stessa come amante di un altro Papa mostra almeno due cose: che Giulia non era in fondo un puttana spudorata o che i gusti delle gerarchie ecclesiastiche tendevano più alla pedofilia che alle belle donne. Nel 1506 Giulia ottenne per sé il feudo di Carbognano del quale divenne signora molto abile nella sua gestione che durò fino al 1522. E la bella Giulia era ancora molto giovane per rinunciare così ad una vita completa ed infatti nel 1509 sposò Giovanni Capece Bozzuto, esponente della piccola nobiltà napoletana. Secondo La Bella e Mecarolo il Bozzuto era famoso in Vaticano e nei salotti bene della Roma borgiana per il suo attributo virile fuori misura, addirittura spropositato ed anche il suo nome derivava dall’esagerata sporgenza che ostentava sul cavallo dei pantaloni, ottenuta però con appropriati rigonfiamenti artificiali. Secondo molti, probabilmente invidiosi, questo fatto aveva convinto Giulia a risposarsi ed il fatto che a nozze avvenute la diceria sul Bozzuto superdotato venisse meno la convinse ad allontanarsi dal marito. In ogni caso il matrimonio durò poco perché nell’ottobre 1517 Giulia, a 43 anni, restò vedova per la seconda volta. Nel 1522, lasciata la residenza di Carbognano Giulia tornò a Roma ospite del palazzo del fratello, cardinale Alessandro Farnese. Non farà però in tempo a vederlo come Papa Paolo III, cosa che accadrà nel 1534, perché nel 1524, all’età di 50 anni, Giulia morì non si sa bene come.

          La storia di Giulia Farnese, la bella Giulia, finisce qui e davvero credo che sia stata una degna persona se confrontata con gli usi ed i costumi delle cortigiane del suo tempo. E’ ora il momento di Lucrezia Borgia che fu grande amica di Giulia. Prima però ancora uno scampolo della vita sessuale di Cesare Borgia.

FIAMMETTA E CESARE, LOLA ED ALESSANDRO

          Nel rione Ponte, tra Piazza Navona ed il Tevere, vi è Piazza Fiammetta una sorta di slargo sull’ attuale via Zanardelli, ad angolo con via degli Acquasparta, in prossimità di via dei Coronari così chiamata perché qui passavano i pellegrini e qui si vendevano corone ed immagini sacre. Sembrerebbe una cosa del tutto ordinaria ma a Roma (non so altrove) non lo è. Occorrerebbe fare uno studio molto serio sulla toponomastica cittadina per capire molte cose, anche indegne, della storia della città. Questo pistolotto serve ad anticipare una domanda: è possibile che la città simbolo della cristianità dedichi una sua piazza ad una grande mignotta ? Se si è arrivati fin qui si capisce perché ciò sia accaduto ed accada ancora. Diciamoci la verità, le mignotte sono state il motore del Cristianesimo soprattutto nella Roma popolata di preti laidi e vogliosi che ambivano donne che dessero loro ciò che i normali desideri richiedevano. Senza figli però, con donne che o davano alla luce bastardi o utilizzavano metodi contraccettivi primitivi con mammane che si arricchivano.  La mignotta è il vero ed unico simbolo di Roma, simbolo sul quale è nata e prosperata la città. Cosa sarebbe stata Roma, il Cristianesimo importato nell’Impero Romano decadente e decaduto, senza i pagliericci riscaldati da donne che per denaro ti avvicinavano al Paradiso. Ed è questa in realtà l’ambizione dell’uomo che, dopo aver ricercato ovunque, scopre che il Paradiso è solo lì, nell’amplesso di una donna … finché dura per l’età, per il denaro, per la condizione fisica. Poi l’Inferno. Ebbene è quindi giusto che le mignotte abbiano ogni riconoscimento dispiacendomi solo che la cultura dominante prevede mignotte e non gigolò (che pur vi sono a frotte). In passato erano meno ipocriti di noi, erano infatti allora capaci di intitolare almeno piazze a tante dispensatrici di Paradiso. E’ il caso di Piazza Fiammetta che ricorda Fiammetta de Michaelis (così chiamata perché figlia di un tal Michele), una della più ricercate e valide prostitute della Roma degli inizi del XVI secolo. Poteva mancare a Cesare Borgia tanta grazia ? Certamente no e da lei si recò proprio la sera della sua nomina a cardinale. La casa di Fiammetta, meglio dire il palazzo, era quello che le aveva lasciato un suo amante, il (come no ?) cardinale Jacopo Ammannati Piccolomini scomparso vari anni prima nel 1479 ma in tempo per frequentare Fiammetta trasferitasi tredicenne a Roma da Firenze un anno prima (con la madre esperta prostituta che voleva lanciare la figlia), solo i cardinali infatti potevano permettersi tanta grazia lussuriosa. Il nostro vecchio e pedofilo cardinale lasciò tutto in eredità a quella bambina che gli dette le ultime gioie della sua vita ma una tale eredità faceva gola ad altri preti e fu Sisto IV a bloccare tutto per poi lasciare a Fiammetta, che si era sudato il tutto con il sudore della sua … fronte, solo una parte: quattro importanti proprietà immobiliari tra le quali il palazzo di Piazza Fiammetta (ed il testamento di Fiammetta testimonierà i grandi patrimoni che il suo onesto lavoro le avevano procurato). Ed è in una delle proprietà avute in eredità, la Vigna con casino vicina alla Porta Viridaria delle Mura Vaticane vicina alla dimora di Cesare in Borgo  Pio, che si diresse Cesare Borgia dopo la sua nomina a cardinale e lo fece con cappa e spada perché le strade di Roma erano piene, oltreché di prostitute in attesa del chierico di passaggio, di banditi disposti a tagliare le gole per pochi ducati. Anche Alessandro Farnese, appena fatto cardinale festeggiò ma senza spostarsi da casa dove alloggiava la sua puttana, Lola, con la quale aveva iniziato rapporti ad Ancona dove era Legato pontificio.

          Leggendo che Fiammetta, come del resto Giulia, Vannozza ed altre che abbiamo incontrato, lasciò ogni suo avere alla Chiesa mi veniva da fare una considerazione. Queste donne avevano accumulato incredibili ricchezze, in gran parte avute per meriti amatori proprio da alti prelati, vescovi, cardinali e Papi. Prima di morire diventavano pie donne, tutte casa e chiesa lasciando appunto alla Chiesa, per quella cosa ignobile che cresceva sempre più chiamata indulgenze, ogni avere al fine di ottenere da Dio il perdono per la loro vita quantomeno dissoluta. Tutti quei beni che tornavano alla Chiesa erano depredati da alti prelati, vescovi, cardinali e Papi e quindi, di fatto, tornavano, magari con un piccolo sfasamento di tempo, a chi li aveva elargiti in cambio di sesso, lussuria e libidine. In economia questa si chiama partita di giro, con la Chiesa ed i suoi miserabili uomini sempre vincenti. Così era, è e sarà perché Dio così vuole, cioè Dio è una sorta d’intermediario tra mignatte d’ogni genere e condizione e benessere sessuale dei suoi Vicari a tutti i livelli. Non c’è che dire è una sublime costruzione secondo la quale loro sono loro ed io non sono un … bel nulla.

LUCREZIA BORGIA

          Prima di raccontare della vita di questa donna, che farà davvero le veci del Papa, occorre dire che chi scrive si è trovato in grosse difficoltà. Di Lucrezia esistono almeno due versioni contrastanti: una la vedrebbe come persona priva di ogni scrupolo che con gioia assecondava i crimini del padre Papa e del fratello Cesare; l’altra la vedrebbe invece come succube sofferente dei voleri dei due suddetti. Vi sono vari episodi della sua vita che sono o leggendari o veri ma non provati e tali episodi descriverebbero Lucrezia in un modo o in un altro. Tanto per capirci vi sono storie che parlano di Lucrezia come amante, da quando era bambina fino ai suoi matrimoni, di suo padre. E’ mai accaduto ciò ? Se i fatti sono veri si tratta di violenza pedofila o di rapporti accondiscendenti con una figlia corrotta quanto il padre ? Insomma, quando avrò versioni diverse le riporterò e quando avrò dei dubbi li esprimerò. Cercherò solo di raccontare gli episodi salienti della sua vita in modo storico-critico.

          Alcune cose riguardanti Lucrezia le ho già raccontate e non le ripeto. Ero arrivato alla sua amicizia con Giulia Farnese, l’amante del padre, ed alle sue nozze sfarzosissime e peccaminose (almeno così sembra) con Giovanni Sforza, signore di Pesaro ma soprattutto nipote di Ascanio Sforza fratello di Ludovico il Moro signore di Milano (alleanza che serviva al Papa contro le mire espansioniste del Regno di Napoli), celebrate nell’appartamento del Papa il 12 giugno 1493. Fino ad allora vi è molto mistero e Sarah Bradford, nel suo Lucrezia Borgia (Mondatori 2005) sostiene che “Lucrezia crebbe del tutto soggetta al «potere e predominio sessuale maschile» di suo padre Rodrigo Borgia avendo la stessa sensualità e l’indifferenza alla morale sessuale del padre e dei fratelli”. Come si vede cominciamo con giudizi pesanti. E’ comunque indubbio l’uso di Lucrezia a fini politici da parte del padre quando ancora era cardinale. Questi prevedeva per sua figlia un futuro luminoso con un grande di Spagna e già all’età di meno di 11 anni la promise in sposa, con regolare contratto, al quindicenne Cherubino de Centelles, fratello del conte d’Oliva, signore di Val d’Ayora. Ma poiché Rodrigo ebbe poco dopo un’offerta migliore da un altro grande di Spagna ma più ricco e con possedimenti terrieri in Italia, don Gaspare conte d’Aversa, figlio del cavaliere don Juan Francisco di Procida legato alla potente casa d’Aragona e con possedimenti terrieri nel regno di Napoli, il primo contratto fu fatto annullare, con pagamento di cariche ecclesiastiche, per questa seconda promessa. Poi, quando il cardinale Borgia divenne Papa, le sue ambizioni crebbero ancora ed il grande di Spagna don Gaspare apparve un piccolo d’Italia dove servivano matrimoni più altolocati con famiglie potenti che garantissero alla Chiesa potere ed una qualche protezione. Fu così che Lucrezia sposò (o dovette sposare) Giovanni Sforza, come già raccontato, con Giovanni insoddisfatto che va via da Roma e con, alla fine, Lucrezia che lo raggiunge a Pesaro. Ma poi anche Lucrezia cominciò a non amare più Giovanni e cercò svago e consolazione recandosi dalla sua cara amica Giulia Farnese quando si trovava a Capodimonte. Passò qui momenti felici tentando di dimenticare il suo matrimonio che sembrava ancora on consumato o che, come qualcuno sostiene, era stato consumato con lo stupro di Giovanni su di lei, stupro ripetuto più volte su una bambina inesperta ed indifesa che forse conosceva il sesso in questo modo indegno ed infame.

          Nella sua politica di matrimoni utili alla sua causa, Alessandro VI era anche riuscito a far sposare il suo primogenito da Vannozza, Juan, con la nipote del Re di Spagna, Maria Enriquez. Juan, che per l’occasione aveva ottenuto il ducato di Gandia, era il figlio preferito dal Papa ma non sembrava che seguisse quanto desiderava. In particolare, recatosi in Spagna per vivere a Gandia con la moglie, dette prova di essere un degno figlio di suo padre. Trascurava la moglie per andarsene a caccia e soprattutto sperperava prestigio e denaro in sale da gioco e Bordelli, passando il suo tempo nelle notti di Barcellona ammazzando cani e gatti. Gli scrisse in proposito il Papa ma anche Cesare per incarico del Papa che lo criticò molto per la sua vita dissoluta. Ma Juan non fece caso a tutto ciò negando che le informazioni che arrivavano a Roma fossero vere.

          Nel 1494 la situazione politica cambiava radicalmente. La morte del Re di Napoli fece schierare Alessandro VI con il nuovo sovrano Alfonso II d’Aragona contro il Re di Francia Carlo VIII che rivendicava per sé quel regno in quanto erede d’Angiò. Ludovico il Moro Sforza, sovrano di Milano, non apprezzava questo nuovo legame della Chiesa con Napoli schierandosi con Carlo VIII. Questa situazione creava gravi problemi, oltre a quelli detti, al matrimonio tra Lucrezia e Giovanni Sforza. Per buon peso Alessandro VI organizzò il matrimonio del suo ultimogenito con Vannozza, il dodicenne Jofrè, con Sancha (o italianizzato in Sancia) d’Aragona, inviò Juan a Napoli come suo legato per incoronare il nuovo Re e chiese a Lucrezia e marito di accompagnare il suo giovane fratello alle nozze che Juan avrebbe celebrato.

          Questi eventi resero Giovanni sospettoso e preoccupato per il suo futuro, anche perché Carlo VIII aveva iniziato l’invasione dell’Italia e fu proprio in questa occasione che alcune avanguardie riuscirono a catturare ed imprigionare nel castello di Montefiascone Adriana, Giulia e sua sorella Girolama mentre tornavano da un soggiorno a Pesaro presso Lucrezia, come già raccontato. Lucrezia restata a Pesaro continuava a maturare la separazione con il marito. Intanto Alfonso II d’Aragona era morto e Carlo VIII era entrato trionfalmente a Napoli. Ciò comportò un rivolgimento di fronte per la paura che Carlo VIII imponesse il suo dominio anche sugli alleati. Fu allora che i Gonzaga di Milano con altri si rivoltarono contro Carlo VIII che dopo la battaglia di Fornovo si ritirò definitivamente in Francia. Siamo al 1495 quando vi furono quelle calamità naturali e quei segni nefasti di cui ho parlato che turbarono tutti e quando, dopo un lungo periodo d’incertezza, Alessandro VI riprese pieni poteri a Roma e lo poté fare, in mezzo alla riprovazione, scontento ed odio popolare verso i catalani, solo perché difeso e protetto da tremila mercenari spagnoli. Giovanni fiutando il pericolo si allontanò da Roma anche perché aveva intuito che Alessandro VI voleva finirla con quel matrimonio. Come scrive Gregorovius, fu in queste circostanze che cominciarono gli intrighi, i delitti ed i tradimenti di casa Borgia concepiti e portati a compimento da un uomo solo, da Cesare, che agì dapprima segretamente, per poi levarsi in primo piano operando alla luce del sole. A questa data Lucrezia aveva 16 anni e suo padre, viste le sue abilità nel ricevere personaggi importanti, la sua grazia, il suo garbo, la sua cultura, il suo modo chiaro e dolce di interloquire, pensò di iniziare ad utilizzarla come suo sostituto, come un vero e proprio vice Papa che pian piano arriverà a prendere decisioni di grandissimo rilievo per le vicende politiche italiane. Il primo incarico che ebbe  fu quello di ricevere in Vaticano suo fratello Jofrè, ormai principe di Squillace, e sua moglie Sancha d’Aragona in visita a Roma. Era evidente che all’inizio un qualche imbarazzo vi sarebbe stato, anche perché Sancha aveva fama di essere molto bella, ma Lucrezia superò ogni remora ed imbarazzo ed accolse sua cognata, andandole incontro alla Porta del Laterano, con il massimo dello sfarzo e della cortesia a maggio del 1496. Ce lo racconta Chastenet:

  Attorniata da venti damigelle d’onore, con due paggi montati su cavalli bardati l’uno di broccato d’oro, l’altro di velluto cremisi, Lu­crezia era alla testa del corteo, scortata da duecento armati della guardia pontificia. Li seguivano senatori, cappellani, araldi, l’amba­sciatore dei re cattolici, l’inviato del re di Napoli e quello dell’impe­ratore, i due delegati di Venezia e il rappresentante del duca di Mila­no; poi venivano i governatori della città, i cancellieri e infine una folla di cittadini che ci tenevano a rendere omaggio alla principessa d’Aragona e al marito. Verso le dieci il seguito regale, preceduto da una scorta di sei dame rallegrate da sei buffoni, fece il suo ingresso nella città. Lucrezia, pallida di un pallore che le donava molto, osservò con interesse la nuova parente, che era montata su una bella ginetta gri­gia con gualdrappa di velluto e di raso nero. Sancha vestiva alla mo­da napoletana, con un abito scuro ornato da ampie maniche ricama­te a punto di Spagna; era una bellezza bruna dall’incarnato di sole, con capelli di giaietto e occhi di zaffiro, una figura di grande elegan­za. Le loro cavalcature si affiancarono, e le due giovani donne si scambiarono un bacio di cerimonia. Accanto alla sposa il figlio del papa, nonostante il viso abbronzato e i lunghi capelli dai riflessi di rame sciolti sulle spalle, sembrava piuttosto un paggio uscito dalle pagine di un romanzo galante, anziché il marito di una principessa d’Aragona.

Il Papa, per parte sua, era impegnato a dare al suo Juan il massimo dei benefici, delle terre e delle onorificenze. Ciò aumentava l’invidia di Cesare che vedeva in Juan un ostacolo insormontabile alla sua ambizione. E’ in questo momento, siamo al 14 giugno 1497, che Cesare e Juan si incontrarono a cena con amici dalla madre Vannozza nella vigna di San Pietro in Vincoli. A partire da questo momento Juan sparì, assassinato da Cesare che naturalmente mascherò la cosa, per essere qualche giorno dopo ripescato nel Tevere. Il Papa sapeva chi era stato, come tutti, ma nessuno osava formulare una qualche accusa perché ne andava della vita. Lo stesso Burcardo interruppe il suo Diario proprio quel 14 giugno e solo tre anni dopo l’ambasciatore di Venezia dirà che Juan era stato assassinato da Cesare. Il Papa fu per molto tempo sconvolto dal dolore ma, sul finire dell’anno, arrivò a perdonare il figlio che in cuor suo sapeva colpevole. Ed il Vicario di Cristo era in contemporanea occupato anche da quel matrimonio di Lucrezia con Giovanni Sforza che doveva essere annullato. Inviò un suo messo al marito in cui richiedeva che rinunciasse al matrimonio con la figlia o adducendo motivi di non consumazione o il precedente contratto con Gaspare di Procida non mantenuto da Lucrezia. Ascanio Sforza decise per Giovanni la seconda ipotesi e si arrivò così all’annullamento del matrimonio. Purtroppo le autorità clericali preposte a questo annullamento dichiararono non sufficiente il motivo addotto e fu quindi indispensabile ricorrere all’impotenza di Giovanni. E questa eventualità era sostenuta da una diceria che era stata fatta circolare e cioè che la prima moglie di Giovanni era stata ingravidata da un altro … e Giovanni si vendicò facendo circolare la voce di un annullamento voluto dal padre della sposa per continuare ad averla in rapporti incestuosi solo per sé ed al massimo per i fratelli … Con queste dicerie, vere o meno, fu facile far circolare una nomea infamante su Lucrezia ed il cronista veneziano dell’epoca, Girolamo Priuli, scriverà che Lucrezia è la più grande puttana che fosse in Roma mentre l’altro cronista di Perugina, Francesco Matarazo, potrà affermare che costei porta il gonfalone delle puttane.

A proposito della supposta diffamazione di Lucrezia, Deschner solleva qualche dubbio:

L’intera dimensione dell’affetto [del Papa per sua figlia] rimane controversa e le fonti si contraddicono, in maniera peraltro comprensibile. Tant’è vero che, secondo il cattolico storico dei papi Seppelt, “il fatto che suo padre e suo fratello Cesare avessero commesso incesto con lei non può valere come fatto certo e incontrovertibile” – e va bene. Però, però! L’affermazione di Giovanni Sforza, suo primo marito, silurato a causa di una presunta impotenza, secondo cui il papa avrebbe voluto “sua figlia solo per se stesso” e ancora che “in numerose occasio­ni ha avuto rapporti sessuali con lei”, può senz’altro essere generata dalla rabbia e frutto della menzogna, anche se l’intimità dei due fu e rimase “la colpa più accanita”; e anche se Juan de Borgia, il duca di Nepi, forse non fu affatto il figlio del padre e di sua figlia. Ma sono fantasiose invenzioni anche i “tornei”, le giostre e i caroselli descritti da Johannes Burkard [Burcardo, ndr], il maestro delle cerimonie di curia, nel suo diario? Si tratta soltanto di “leggende propagandistiche”? Sono forse inventate di sana pianta la monta delle giumente da parte degli stalloni, quando padre e figlia si mostravano eccitati dalla fregola tra gli applausi, prima di appartarsi insieme nell’ alcova del palazzo per un’ oretta? Oppure è inventata la “giostra delle puttane”, conosciuta anche come il “ballo delle 327 castagne”, quando il 31 ottobre 1501 in Vaticano cinquanta delle più belle meretrici di Roma (ce n’erano allora 50.000 nella Città Santa), riunite a gara tutte nude, si muovevano a quattro zampe sulle castagne sparse sul pavimento prima che “a edificazione di tutti gli ospiti” le meretrici stesse fossero “assalite carnalmente”; “quella volta fu la gentil­donna Lucrezia, che da un podio presiedeva l’ assemblea a fianco del papa, a consegnare i premi ai visitatori”.

         Giovanni, comunque, sottoscrisse per convenienza la sua impotenza davanti ad un Tribunale nel novembre 1497 mentre Lucrezia, che nel frattempo si era rifugiata nel monastero di San Sisto restando in contatto con il padre attraverso un messo, dichiarò la sua verginità nel dicembre. Con la motivazione dell’impotenza di Giovanni, Lucrezia era pronta ad un nuovo matrimonio e, per di più, vergine. Era però accaduta una cosa disdicevole: il messo papale, il biondo ventiduenne di bell’aspetto di nome Pedro Calderón (detto Perotto), amante anche del padre Papa, aveva fatto conoscere (a quanto sembra) il piacere dell’amore per la prima volta a Lucrezia. Tanto fu il piacere della giovanetta che rimase incinta e la cosa poté essere mantenuta nascosta grazie all’abbigliamento dell’epoca.

          Cesare che aveva gioito nel sapere della fine del matrimonio della sorella perché poteva usarla ai suoi fini politici, si infuriò quando seppe della gravidanza della sorella, tanto che, incontratolo per i corridoi del Vaticano lo pugnalò davanti al padre Papa. Qualche giorno dopo fu ritrovato il suo cadavere nel Tevere legato a quello della governante fedelissima di Lucrezia, Pentesilea, che evidentemente sapeva della tresca. Lucrezia ebbe il figlio in gran segreto (marzo 1498), figlio che le fu subito sottratto. Il figlio ricomparve nel settembre 1501 quando il Papa lo citerà in due bolle scritte una dopo l’altra nel medesimo giorno. Nella prima dichiarerà che il piccolo, chiamato Giovanni, era figlio di Cesare e di madre ignota perché sposata; nella seconda (che doveva rimanere segreta) che era figlio suo e di madre separata dal marito.

          Nonostante lo svilupparsi di tutte queste notizie in maldicenze, iniziò la fila dei pretendenti alla mano della giovane figlia del Papa. Come ho accennato le alleanze e gli interessi dei Borgia erano cambiati: ora l’alleanza era con Napoli contro Milano e conseguentemente fu scelto, come sposo di Lucrezia, il diciassettenne Alfonso di Risceglie(26) di Napoli (nipote di Re Federico I d’Aragona, al momento Re di Napoli), fratello di Sancha. Le nozze furono celebrate il 21 luglio 1498 in Vaticano con il consenso di Federico avuto solo per paura. Lo stesso Federico però si rifiutò drasticamente di cedere in matrimonio la propria figlia illegittima Carlotta a Cesare. Federico, secondo Gregorovius, riteneva l’amicizia con i Borgia più pericolosa della loro ostilità mentre la stessa Carlotta si mostrò addirittura disgustata dall’idea di sposare un prete figlio di prete. Ma Cesare non perse tempo perché subito dopo, sbarazzatosi della porpora cardinalizia nell’agosto 1498, recatosi alla corte di Luigi XII di Francia, sposò Charlotte d’Albret, sorella del re di Navarra (si racconta che la prima notte di nozze, lungi dalle vanterie di Cesare che si vantava di aver spezzato otto lance mentre Luigi XII ne aveva infranteselo quattro, il novello sposo l’abbia passata su una sedia stercoraria per aver scambiato delle pillole che dovevano renderlo molto macho con pillole lassative, e la cosa rese davvero sofferente il povero servo costretto a vuotare più volte il vaso d’argento che accoglieva tali feci principesche). Invece Lucrezia mostrò di gradire il suo matrimonio e fu subito presa da vero amore per il suo giovane sposo che, a detta di tutti, le somigliava fisicamente. L’amore tra i due avrebbe dato subito un figlio che però Lucrezia perse il 9 febbraio 1499 a seguito di una caduta restando però incinta di nuovo quasi subito. Conoscendo gli umori cambianti dei Borgia, il matrimonio di Cesare con Charlotte d’Albret preoccupò molto Alfonso e Sancha ma anche Lucrezia e Jofrè, i due discendenti della casa d’Aragona andati in matrimonio con i due figli Borgia. Il matrimonio e le azioni militari che seguirono, con alleanze tra francesi e papalini al comando di Cesare e Luigi XII di Francia per conquistare sia il milanese che il napoletano, mostrarono chiaramente un nuovo cambiamento di alleanze di Cesare al quale non fu difficile portare dalla sua parte il Papa che sognava sempre di assoggettare ai Borgia l’intero Stato della Chiesa. Alfonso, temendo per la sua vita, si allontanò da Roma verso Napoli mentre Lucrezia fu inviata dal padre a Spoleto, terra della quale fu fatta duchessa e reggente (cosa assolutamente inaudita commenta Gregorovius). L’8 agosto 1499 Lucrezia partì con un gran seguito ed una scorta verso Spoleto facendosi accompagnare da Jofrè mentre il Papa si liberava di Sancha esiliandola a Napoli. Poco dopo il Papa riconquistò la fiducia di Alfonso facendolo duca di Nepi e pregandolo di raggiungere Lucrezia, che lo desiderava, a Spoleto. Ciò avvenne sul finire d’agosto. Il 14 ottobre Lucrezia tornò a Roma insieme ad Alfonso e Jofrè ed il 31 ottobre vide la luce il desiderato figlio di Lucrezia ed Alfonso, Rodrigo d’Aragona. Anche Sancha arrivò a Roma per salutare questa nascita.

          A Roma, in festa per il Giubileo, il 29 giugno 1500 si scatenò un violento nubifragio che, a seguito del crollo del tetto di una stanza del Vaticano, ferì il Papa alla testa. Si sparse la voce che il Papa era morto e già ci si preparava ai saccheggi ed al giubilo finché Cesare, preoccupato per cosa poteva accadere, non fece dare la notizia con dei colpi di cannone che il Papa era vivo. Al suo capezzale, per visitarlo e curarlo accorsero Lucrezia, Alfonso, Jofrè, Sancha e Cesare. Il Papa appena si riprese chiese subito di Lucrezia e ciò fece imbufalire Cesare che, ancora una volta, trovava il cuore di suo padre impegnato verso un altro figlio. Quella coppia, Lucrezia e Alfonso, per di più con un figlio chiamato con il vecchio nome del Papa, preoccupavano molto Cesare per il suo progetto di futuro. Tanto più che Alfonso sarebbe stato il probabile Re di Napoli in caso di morte di Federico con la conseguenza che il Regno di Napoli si sarebbe sovrapposto ai domini della Chiesa mandando in fumo i piani da tempo elaborati da Cesare e dal Papa. 

          Il Papa era ancora degente ed assistito dai suoi cari il 15 luglio. A tarda ora Alfonso si accomiatò da Lucrezia che restò a vegliare il padre per tornare alla sua dimora di Santa Maria in Portico accompagnato dal suo scudiero e dal suo cameriere Tomaso Albanese. Mentre i tre camminavano tra i pellegrini che dormivano sul selciato, cinque persone, che si erano finte pellegrini, armate di coltelli li aggredirono. Dopo una furibonda lotta Alfonso fu ferito gravemente e salvato dai suoi accompagnatori che lo portarono ferito negli appartamenti papali. Gli aggressori, convinti di averlo ucciso, si dileguarono con una specie di scorta di quaranta cavalieri. Questa eventualità fece subito capire che non si era trattato di normali malviventi in cerca di denaro ma di un qualcosa di più grosso che solo Cesare avrebbe potuto organizzare. Lucrezia e Sancha si occuparono del ferito curandolo in ogni modo, preparando personalmente il suo cibo per timore di avvelenamenti e chiedendo una scorta speciale al Papa temendo altri attacchi. I medici fatti venire dissero che anche se le ferite erano gravi, un giovane di appena 19 anni aveva la tempra  per cavarsela e ciò tranquillizzò le due donne. Qualche settimana dopo andarono a far visita ad Alfonso, ormai ripresosi abbastanza tanto da stare in piedi e camminare, sia il Papa che Cesare. Lucrezia, pur sospettando il peggio, confidò nel fatto che era presente anche l’Ambasciatore di Venezia e quindi non ebbe obiezioni. In questo colloquio Alfonso era ironico perché sapeva che aveva a che fare con il mandante del suo ferimento mentre Cesare fu sferzante dicendo, tra l’altro, che “Quello che non è fatto a pranzo, si farà a cena”. Ed uscendo dalla stanza dell’infermo fece pubblicare un editto in cui si vietava di portare armi all’interno del Vaticano.

          Era la premessa per quando sarebbe accaduto a cena, quando, il 18 agosto all’una di notte, Alfonso fu strangolato nel suo letto (come anticipato, senza armi) dal fido sicario di Cesare, Micheletto. Con Cesare che rivendicava l’assassinio affermando che aveva dovuto farlo per difendersi. A questo punto il Papa diveniva completamente succube del figlio che amava ma del quale aveva paura. Ed anche Lucrezia che, morto Alfonso, aveva perso il favore del padre, dovette assoggettarsi al fratello che l’aveva resa vedova di un giovane che ella amava davvero, altrimenti … E poi la giovane, ormai sganciata da interessi napoletani, era ancora preda ambita dal fratello per un altro matrimonio d’interesse, questa volta a Ferrara, in Romagna, dove Cesare aveva conquistato vari territori e doveva continuare per stabilizzare il suo potere.

          Intanto i francesi con Luigi XII avevano conquistato Napoli e questa fu l’occasione per il Papa di sbarazzarsi delle famiglie nobili del Lazio che avevano tanto potere e tante terre, una volta protette dall’Impero, che potevano ora essere incamerate dalla sua famiglia. Già si era sbarazzato in precedenza dei Caetani, era ora la volta dei Colonna alleati della casa d’Aragona. Ordinò quindi l’occupazione dei castelli dei Colonna e, dopo la caduta di Capua, fu egli stesso a recarsi di persona a Sermoneta. E qui assistiamo di nuovo ad un fatto sconcertante. Visto il successo e l’abilità con cui Lucrezia aveva amministrato il potere del Vaticano in una precedente circostanza che ho raccontato, ancora una volta il Papa delegò la reggenza, i suoi poteri, quelli di Vicario di Cristo, a Lucrezia, nominandola Vicariessa e lasciandola sola in Vaticano ad amministrare le sorti della Chiesa (vengono subito in mente Teodora e Marozia). Così racconta questo evento Gregorovius:

Accadde allora che per tutto il tempo della sua assenza affidò alla propria figlia tanto il palazzo Vaticano quanto il compito di occuparsi di questioni che erano di competenza del pontefice, dandole la facoltà di aprire le lettere che gli fossero indirizzate; nei casi difficili ella si sarebbe rivolta per consiglio al cardinale di Lisbona. Nella storia dei papi, a dire il vero, non c’é nulla che possa rivelare come questo episodio un grado tanto profondo della spudorata mondanizzazione del papato. Non sappiamo che impressione ne ricevessero i Romani, ma è probabile che si accontentassero di scrivere pasquinate e di applaudire i motti di spirito che il cardinale diceva sul più bel segretario che avesse mai trattato questioni politiche. Madonna Lucrezia tenne il suo incarico per poco tempo perché all’inizio di agosto il papa era già di ritorno.

Per immedesimarsi nel suo ruolo la ventunenne Lucrezia prese alloggio in Vaticano, nell’appartamento del Papa suo padre. A parte il sigillo pontificio del quale non disponeva ma che non sarebbe servito visto che il suo uso era riservato ai soli affari di fede, Lucrezia aveva pieni poteri in affari di giustizia civile, in questioni temporali, il disbrigo di tutti gli affari correnti comprese le suppliche. I suoi documenti dovevano essere scritti in latino ma ciò non preoccupava la giovane molto preparata non solo in latino ma in varie altre lingue. Se poi vi fosse stato qualche problema di non facile soluzione Lucrezia si sarebbe potuta rivolgere a quel galantuomo saggio che era il cardinale di Lisbona con il quale Lucrezia divenne amica nonostante i suoi ottantacinque anni. Anzi vi fu anche qualche licenzioso scherzo che Burcardo così racconta tanto per mostrare, tra l’altro, la scioltezza ed abilità di Lucrezia nel trattare come capo di un insieme di autorevoli cardinali:

Avendo fatto ricorso madonna Lucrezia all’aiuto del cardinale di Lisbo­na, questi le rispose: «Ogni volta che il Santo padre, che voi sostituite, sotto­pone una questione al concistoro, il vicecancelliere prende nota delle opi­nioni dei consulenti; giudico perciò necessario che qualcuno trascriva il dibattito». Madonna Lucrezia rispose che sapeva scrivere benissimo, e allo­ra l’ottuagenario cardinale, non sapendo resistere a un motto di spirito, le chiese: «Ubi est penna vestra?» [in questo caso penna stava per «membro viri­le»]. Lucrezia colse l’allusione ardita, e la sua ilarità contagiò i cardinali, rie­cheggiando nel palazzo apostolico.

Anche questa operazione era servita al Papa per le sue mire di potere. Voleva mostrare che sua figlia era in grado di governare uno stato e quindi degna dei più alti incarichi a fianco di un principe regnante. E nelle mire del Papa e di Cesare c’era già Alfonso di Ferrara della casa d’Este (figlio di Ercole d’Este ed Eleonora d’Aragona, vedovo di Anna Maria Sforza che era sorella di Gian Galeazzo che aveva sposato Isabella d’Aragona sorella di Sancha ed Alfonso, il marito di Lucrezia ammazzato da Cesare). Ebbene, ogni ambasciatore scrisse ammirato dell’abilità e sagacia di Lucrezia, doti così rare in una giovane, e tutte queste informazioni arrivavano al padre del suo eventuale sposo, Ercole d’Este, che si mostrò particolarmente soddisfatto. Vi furono solo delle obiezioni del figlio, eventuale sposo, che si era fatto condizionare dai trascorsi noti e malevolmente romanzati. Fu allora lo stesso Ercole che si propose di sposare Lucrezia mentre le vere e proprie trattative politiche andavano avanti tra gli emissari delle due parti e quelli del Re di Francia interessato ai problemi che venivano posti dagli Stati italiani che vedevano con preoccupazione l’unione della Casa d’Este con il Vaticano. Finalmente fu firmato il contratto di matrimonio a cui seguì la promessa di matrimonio (ad verba) fatta a Ferrara. Il matri­monio fu annunciato a Roma il 4 settembre 1501, e l’annuncio fu motivo di grandi festeggiamenti, ai quali partecipò anche Giulia Farnese, accompagnati da colpi di cannone e luminarie in tutta la città. Per l’occasione il Papa emanò un decreto che faceva durare il carnevale quattro mesi autorizzando tutti a mascherarsi a piacere da ottobre a martedì grasso. Il matrimonio per procura (con Alfonso fattosi rappresentare da suo fratello don Ferrante d’Este, infine, fu celebrato a San Pietro il 30 dicembre 1501.

          Erano passati quattro mesi dall’annuncio di matrimonio perché Ercole non lo avrebbe permesso se prima non gli fosse stata versata l’enorme dote promessa che tardava. Nell’intervallo di tempo vi era un via vai di messaggeri tra Ferrara e Roma e viceversa che mettevano a punto ogni dettaglio e che ottenevano qualche terra, castello o vescovato non previsti dal contratto iniziale. Il Papa e Lucrezia intrattenevano poi gli ospiti con feste che fecero molto parlare e che ancora oggi lasciano interdetti. Ogni sera il Santo Padre dava queste feste e, a quanto si vociferava, il suo massimo diletto era assistere a ciò che faceva sua figlia Lucrezia in esse: ballava, ballava senza sosta fino ad accasciarsi spossata. Riporto qualche racconto di tali feste alle quali accennava una citazione di Deschner da me riportata. Burcardo, pur non avendo partecipato ad una di queste feste, quella del 31 ottobre, la più famosa, così la racconta:

Vi presero parte cinquanta meretrici oneste, di quelle che si chiamano cortigiane e non sono della feccia del popolo. Dopo la cena esse danzarono con i servi e con altri che vi erano, da principio con i loro abiti indosso, poi nude. Terminata la cena, i candelieri accesi che erano sulla mensa furono posati a terra, e tra i candelieri furono gettate delle castagne che le cortigia­ne nude raccoglievano muovendosi carponi, a quattro zampe. Il papa, il du­ca [Cesare, ndr] e Lucrezia erano presenti e osservavano. Infine furono esposti mantelli di seta, calzature, berrette e altri oggetti, da assegnare in premio a coloro che avrebbero conosciuto carnalmente più volte le dette cortigiane, ed esse, nella medesima sala, furono pubblicamente godute. I premi furono distribuiti a quanti furono giudicati vincitori dai presenti.

Qualche giorno dopo, padre e figlia, per distrarsi un poco dalla noia, vollero partecipare ad una saga i cui interpreti erano cavalli. Ancora Burcardo così racconta:

Giovedì 11 novembre, un contadino entrò in città dalla porta dell’Orto, portando alla cavezza due giumente cariche di legname. Quando le bestie arrivarono su piazza San Pietro, accorsero i domestici del papa, tagliarono i finimenti, gettarono a terra i basti e condussero le giumente nella piazzetta che si trova all’interno del palazzo. Furono poi lasciati liberi quattro stalloni, senza finimenti, che corsero verso le giumente, e dopo essersi battuti a mor­si e a calci, con altissimi nitriti, si misero a montarle, calpestandole e feren­dole. Il papa era alla finestra della sua camera, al di sopra della porta del pa­lazzo, e madonna Lucrezia gli stava accanto. Tutti e due videro quanto descritto sopra con grandi risa e divertimento

Ed anche grande eccitazione tanto che padre e figlia dovettero concedersi un’ora di letto prima di potersi ripresentare in pubblico.

Tra feste, balli, danze, commedie licenziose e scollacciate passò il tempo che portò al matrimonio per procura del 30 dicembre. Il 6 gennaio 1502, dopo che i messi di Ercole ebbero contato e ricontato la dote e dopo che Lucrezia ebbe abbracciato per l’ultima volta suo figlio Rodrigo, un fastoso corteo di circa 1500 tra persone, armati, dame di compagnia e buffoni prese le mosse dalla scalinata di San Pietro per accompagnare Lucrezia dal suo sposo a Ferrara, dove arriverà il 2 febbraio. Riporto quanto dice Gregorovius sulle ultime cose da raccontare su Lucrezia:

Il 2 febbraio entrando a Ferrara come una regina, Lucre­zia non veniva a mani vuote. Oltre alla sua dote di centomi­la ducati d’oro, ella portava allo sposo come dono del pa­dre le città di Cento e di Castel della Pieve e soprattutto la sicurezza per i suoi Stati. Ferrara celebrò feste nuziali di una favolosa magnificenza per le quali fu messo in moto tutto l’Olimpo della paganità. Ma lo spirito con cui si fe­cero quelle feste aveva un che di forzato e di freddo. La figlia del Borgia recava con sé il fardello di un penoso passato e la precedeva una fama che, sebbene fosse anche infondata, avrebbe rattristato e persino stravolto qualsiasi nobile dama. Ella poté rallegrarsi di aver scambiato Roma con la meno viziosa Ferrara, dove sopravvisse alla caduta dei Borgia. Pochi personaggi femminili della storia hanno esercitato un fascino tanto profondo sulla fantasia dei contemporanei e dei posteri quanto questa giovane donna, alla quale mancarono soltanto le circostanze favorevoli per diventare una seconda Cleopatra. La figura di questa figlia di un papa vissuta tra un padre e un fratello terribili, ora loro tragica vittima, degna di commiserazione, ora sirena ammaliatrice e infine Maddalena penitente, ha sempre affascinato !’immaginazione degli uomini per i misteri che circondano la sua vita e nella cui oscurità lottano colpa e sventura, mentre sullo sfondo di questa eccitante apparizio­ne si erge il Vaticano di Roma. Divenuta duchessa di Fer­rara, Lucrezia Borgia rinunciò ai piaceri della sua vita precedente e si dedicò come sua madre Vanozza a pensieri cristiani e ad opere di pietà. Così visse tranquillamente vicino ad Alfonso, cui generò numerosa prole. Ma durante tutti questi anni nessuno scrutò la sua anima dove i tremendi fantasmi del­la sua memoria non trovarono quiete.

Lucrezia, la duchessa di Ferrara, con questo matrimonio aveva finito il suo pellegrinare e sposarsi a comando del padre e del fratello (che nel 1502 erano riusciti a trasformare quasi tutti i beni della Chiesa in possedimenti di Casa Borgia, con Cesare che continuava le sue conquiste al Nord). La sua vita a Roma iniziò ad essere un ricordo. Divenne sposa felice (fino ad un certo punto)(27) di Alfonso d’Este dal quale avrà ben quattro figli in qualche modo aiutata dalla morte del padre, Papa Alessandro VI, che lasciò questa valle di lagrime (per noi e non per lui) il 18 agosto del 1503. Si disse malaria ma dicerie informate parlarono del solito veleno. Lucrezia, come del resto altre libertine o proprio puttane, a partire dal 1512 diventò terziaria francescana ed indossò il cilicio per una penitenza che si dette o voto che fece al fine di scongiurare le continue calamità che si abbatterono sulla sua famiglia, quella d’Este. La morte la colse il 24 giugno del 1519 a seguito di un aborto per una figlia settimina che visse solo 5 mesi. Aveva solo 39 anni. Ma, come accennato, nel 1503 era già morto suo padre all’età di 73 anni e nel 1507 suo fratello Cesare che, perso l’appoggio del padre, vide sgretolarsi tutto il piccolo impero che aveva costruito. Resse ancora nel breve pontificato di Pio III (Papa per soli 26 giorni) a lui favorevole ma l’elezione di Giuliano della Rovere (Papa Giulio II), di una famiglia acerrima nemica dei Borgia, gli fu fatale. Gli tolse il regno della Romagna, lo fece arrestare e condurre a Castel Sant’Angelo. Poi fuggì, cercò rifugio a Napoli, fu di nuovo arrestato, fuggì di nuovo rompendosi le ossa per la caduta, finì a combattere per suo cognato il Re di Navarra, Giovanni III d’Albret, morendo in battaglia l’11 marzo del 1507. Sulla sua tomba fu scritto il seguente epitaffio del poeta spagnolo Soria: Qui giace in poca terra quel che tutta lo temeva, quel che la pace e la guerra nella sua mano teneva. O tu che intendi cercare cose degne di lodare, se vuoi lodare il più degno qui ferma il tuo cammino, non ti curar d’andare oltre.

Gregorovius riassume brevemente l’operato di padre e figlio Borgia:

Riesaminando la loro opera i Borgia constatarono che la fortuna aveva concesso loro l’incredibile: le due grandi fazioni nobiliari di Roma che nessuno era riuscito a do­mare erano state schiacciate; tutti gli altri baroni, tutti i tiranni dello Stato ecclesiastico erano stati sterminati o cacciati; Roma sopportava pazientemente il giogo della schiavitù; il collegio dei cardinali non era più che un pa­vido senato sempre pronto all’obbedienza; la curia era uno strumento corruttibile disposto a tutto; avevano conquista­to potenti alleati e altri ancora potevano procurarsene con la loro abilità. In quei giorni Alessandro VI pensava al modo di dare a suo figlio il titolo di re della Romagna e delle Marche; ancora però temeva il veto della Francia che non avrebbe tollerato una monarchia borgiana. Essa poteva diventare veramente temibile unendo in sé la potestà spi­rituale e quella temporale. Il papato sarebbe rimasto il suo centro e la cristianità la sua fonte di ricchezza. Dei due perfetti maestri d’arte diplomatica, il padre e il figlio, l’uno era in grado di coprire i delitti dell’altro con lo scudo della religione.

Soffermandosi poi in particolare sulla figura di Alessandro VI:

Ad esprimere un giudizio su Alessandro VI bastano le sue stesse azioni. E’ vero che l’indole degli uomini è in gran parte frutto delle condizioni storiche in cui vivono, ma se la smisurata corruzione delle cose pubbliche e mo­rali che caratterizzava la vita italiana di quel tempo atte­nua la colpa di molti, un papa, che è depositario del Van­gelo, è pur sempre l’ultimo dei suoi contemporanei che abbia diritto a tale clemenza di giudizio. In quanto papa, Alessandro VI appare più abominevole di suo figlio. La terribile audacia del delitto con cui il Valentino sfidò il mondo ha persino una parvenza di grandezza, mentre il padre, proprio in virtù della sua posizione, faceva compiere o permetteva che si compissero azioni criminose precedentemente concordate senza apparirne come il diretto re­sponsabile perché il più delle volte agiva come celato da un sipario. La figura di Alessandro è stata valutata con criteri ina­deguati cioè troppo grandi, perché in realtà egli fu un pic­colo uomo. E’ assolutamente errato credere che la natura lo avesse dotato di un’indole diabolica, sempre ammesso che tali indoli esistano, perché la genesi dei delitti com­piuti da quest’uomo vigoroso e frivolo procede di pari passo con la storia della sua vita. Essi scaturirono dalla sua sen­sualità prima che dal suo spirito, che era assolutamente mediocre. E anche la sua dissolutezza non avrebbe fatto tanto scalpore se, come altri uomini della sua specie, egli l’avesse tenuta segreta. Solo la sua impudenza non ha precedenti nella storia. Se la religione è qualcosa di più del formale servizio ecclesiastico o delle credenze nei mi­racoli dei santi, si dovrà ammettere che Alessandro fu un papa irreligioso. Le buone qualità che pure non gli mancavano, giacché in natura non esistono né il male né il bene assoluto, o le doti che alcuni esaltarono per spirito di contraddizione, sono ben poca cosa di fronte alla natura di quest’uomo considerata nel suo insieme. E un giudice celeste che non le gettasse con disprezzo dalla bilancia le troverebbe sempre troppo leggere. […] Un testimone del governo di Alessandro, Egidio di Viterbo, divenuto in seguito famoso cardinale, ha così ritratto quell’epoca: “Tutto era avvolto da tenebre e da notte tempestosa. Tacerò delle cose domestiche e delle tragedie tiestee; mai nelle città dello Stato ecclesiastico si ebbero insurrezioni più spaventose, saccheggi tanto nu­merosi e delitti più cruenti. Mai si rapinò per le strade così impunemente, mai si commisero a Roma tanti delitti, mai tanti delatori e predoni la fecero da padroni con tale sfrontatezza. Non si poteva uscire dalle porte della città né abitarvi. Possedere denaro o oggetti preziosi equivaleva ad essere rei di lesa maestà. Non c’era niente, né casa, né letto, né torre in cui ci si sentisse al sicuro. Il diritto era cosa morta, imperavano il denaro, la violenza e l’appetito dei sensi. L’Italia era stata libera dalla dominazione degli stranieri fino a quando era riuscita a sottrarsi alla loro tirannide. Benché aragonese, infatti, per cultura, liberalità e magnanimità, re Alfonso non era stato inferiore a nessun italiano. Ora, invece, alla libertà subentrava la servitù e da una condizione di indipendenza gli Italiani precipitava­no sotto il più oscuro giogo straniero”.

Amen. Sic transit gloria mundi e di un altro Vicario di Cristo, per chi ancora crede a queste boiate pazzesche che, per fortuna, non riguardano la fede in Gesù la cui persona, se mai esistita, era ben altro. Purtroppo siamo tutti noi che in nome di un preteso Gesù dobbiamo sopportarci la tirannia di una Chiesa violenta, malvagia ed autoritaria che non permette il dispiegarsi delle più elementari libertà civili.

          Da ultimo vale la pena ricordare che sotto questo Papa iniziò la colonizzazione cristiana delle Americhe che, in breve tempo, produsse il più grande genocidio che la storia ricordi, novanta mioni di indios persero la vita sotto l’avanzata ingorda dei cristiani.

UN SODOMITA PEDOFILO DI PASSAGGIO

          Il successore di Papa Borgia fu Pio III, nipote di Pio II, Papa per soli 10 giorni dalla sua incoronazione (26 dall’elezione). Il pover’uomo, per di più spacciato per onesto e probo, era padre felice di ben 12 figli tra maschi e femmine. Era appagato da una vita lussuriosa ed il suo pontificato, comunque pagato molto caro ai cardinali elettori, fu tanto pacifico quanto breve. La brevità del pontificato è probabilmente il motivo della morigeratezza di questo Papa (aveva già predisposta la nomina di suo nipote a cardinale ma non fece in tempo a firmare il decreto); i primi giorni sono quasi sempre giorni fausti per ogni Papa Finché non si accorge del potere che ha, dei danni che può fare e della lussuria che può mettere in campo sia con donne che con uomini che con bambini.

          Al Pio seguì un Papa di ferro, guerriero, eletto il 1º novembre 1503 nella persona del cardinale Giuliano della Rovere, nipote di Sisto IV che lo aveva fatto cardinale, che assunse il nome di Giulio II. E’ interessante notare che l’elezione avvenne, oltreché con il solito uso smodato della simonia, per l’intercessione di Cesare Borgia presso i numerosi cardinali spagnoli e Cesare lo faceva per continuare ad avere favori ma le cose, come accennato nel capitolo precedente, non andarono così.

          Anche Giulio II fu affetto da smodato nepotismo che è inutile indagare per non annoiare il lettore. Ed anche Giulio II fu un volgare lussurioso dedito alla sodomia ed alla pederastia (nota come vizio greco), oltre ad essere un incarnito ubriacone. Lo attesta il cronista veneziano Girolamo Priuli nei suoi Diarii (1509): Conduzeva cum lui li sui ganimedi, id est [cioè] alchuni bellissimi giovani, cum li quali se diceva publice [pubblicamente]che l’havea acto carnale cum loro, ymmo [ed anche]che lui hera patiente [passivo]et se dilectava molto di questo vitio sogomoreo, cossa veramente abhorenda in chadauno. Ma anche lo storico Marino Sanudo che nel 1506 scrisse un sonetto in cui “schernendo avvisa il papa che non riuscirà a vincere con lance di carne e bottiglie di vino, che per arrivare non gli servirà farsi spingere da dietro e che quindi è meno biasimevole per lui starsene in Vaticano trincando Malvasia o Trebbiano e praticando la sodomia coi suoi compari” (Dall’Orto). Anch’egli, avido come i predecessori, aprì un bordello a Roma dove erano ammesse puttane purché pagassero alla Chiesa un quarto dei loro introiti. Ma di Giulio è interessante iniziare a raccontare qualcosa di quando era cardinale, quando aveva le sue fedeli cortigiane e quando si prese il mal francese, la sifilide. Ebbe tre figlie: Giulia, Clarice e Fenicia. La prima la ebbe con una puttana ignota, la seconda da quella gran puttana che era Masina che tentava di assurgere al primo posto a Roma dominata dalla Fiammetta di Cesare Borgia, la terza è figlia di una non meglio specificata Lucrezia. Dopo questa mostra di amori eterosessuali, cambiò verso e iniziò a prediligere quelli omosessuali. Ne abbiamo costanza dalla cronaca che ne fa il veneziano Girolamo Priuli: Conduceva con lui li sui ganimedi, id est alcuni bellissimi giovani, cum li quali se diceva publice che l’havea acto carnale cum loro, ymmo che lui hera patiente et se dilectava molto di questo vitio sogomoreo, cosa veramente abhorenda in cadauno. E Rendina [2] riporta un sonetto che gli fu dedicato dal diplomatico veneziano Marin Sanudo:

Ritorna o padre santo al tuo San Pietro, 
e stringi el freno al tuo caldo desire, 
che, per dar in segno e poi fallire, 
reca altrui più disonor che starsi adietro.   

Per strali e lanze di carne e di vetro,
el Bentivojo non vorrà partire, 
possa che intenda, che non poi finire,
benché sia chi te spinge ognor da retro.   

Bastiti esser provisto 
de Corso, de Tribian, de Malvasia, 
e de’ bei modi assai de sodomia;    

et meno biasmo te fia 
col Squarzia e Curzio nel sacro palazzo 
tenir a bocha il fiasco, e in culo il cazzo.

Così che apprendiamo che il cardinale della Rovere era anche amante del vino, naturalmente di quello di gran qualità, diamine ! Ma non basta, questo degno gerarca della Chiesa sembra che fosse anche un pedofilo quando, divenuto Papa, per una certa operazione pretese un bambino di 10 anni, Federico Gonzaga figlio di Isabella d’Este, come ostaggio. Sia Luigi XII che Massimiliano d’Asburgo sollevarono seri dubbi su cosa volesse fare con quel bambino il Santo Padre. Scrive Rendina [2] in proposito:

Così il bambino vive a Roma alla corte del papa, che gli manifesta pubbli­camente la sua tenerezza, ricoprendolo di attenzioni come suo piccolo favo­rito: lo fa mangiare alla sua tavola, lo porta con sé alle partite di caccia e, af­finché non manchi mai di denaro chissà per quali spese, gli versa una rendita mensile di cento ducati d’oro. Il bambino; dotato di un grazioso fisico, an­che invitato alle feste dei cardinali; così viene condotto alla rappresentazio­ne di una commedia spagnola in casa del cardinale Luigi d’Aragona, alla quale assistono però alcune cortigiane, e la cosa certo non è edificante per i suoi dieci anni. Tant’ è; viene invitato anche dallo zio, il cardinale Sigismon­do Gonzaga, ad un pranzo, al quale sono presenti i cardinali Luigi d’Arago­na, Marco Cornaro e Bibbiena, nonché la cortigiana Albina, i cui amori sono contesi da quei porporati. Povero bambino! Perché è probabile che si senta veramente frastornato da certe manifestazioni d’affetto papaline e da quelle congreghe non certo troppo adatte alla sua età, tanto che arriva a dire al papa di soffrire per la lontananza della madre, ottenendo così il permesso di farla venire a Roma, dove Giulio II l’accoglie con gli onori propri di una sovrana. E allora è presumibile che il papa rinunci alla persecuzione da pedofilo.

Perso questo bambino egli restava a consolarsi con il suo grande amore, Francesco Alidosi fatto cardinale a premio delle sue stupende prestazioni sessuali che dovevano essere davvero superbe se si misurano con gli infiniti favori materiali che ebbe. Fino a quando non pesterà i piedi al nipote del Papa che lo ammazzò.

Per il resto, fino alla sua morte nel 1513, questo Papa dedicò il suo pontificato a fare guerre a tutti (a Perugia, a Bologna, ai veneziani con l’aiuto dei francesi ed ai francesi con l’aiuto dei veneziani).

Seguì un Papa toscano che con il suo operato aiutò in modo decisivo la Riforma di Lutero. E’ suo quell’orrendo tariffario delle indulgenze che va sotto il nome di Taxa Camarae(28) che scandalizzò il mondo intero e che consiglio di leggere in nota. Per parte sua, dal punto di vista dei rapporti sessuali più o meno osceni, non vi è molto da dire. Questo Papa non ebbe nulla da invidiare ai suoi predecessori in termini di simonia e di comportamenti scandalosi, anche se più raffinati rispetto ai Borgia. Soprattutto va sottolineato il suo nepotismo che vide Roma riempirsi di fiorentini con in mano tutto il potere, un qualcosa che somiglia da vicino, fatte le debite differenze, alla gestione del potere dell’orrido toscano Renzi. Non entro nei dettagli della gestione del potere di questo rampollo della casa Medici, basti ciò che dice Gregorovius:

Lontani parenti, clienti suoi vecchi e nuovi gli tende­vano la mano a centinaia per ricevere benefici e quattrini. L’uno ricordava a Leone pretesi servigi resigli durante il suo esilio, l’altro pretendeva di averlo condotto a Firenze, quell’altro ancora di avergli procurato la tiara. L’Ariosto mise in berlina nelle sue satire tutto questo scompiglio e un ambasciatore veneto scrisse: « I Fiorentini non lo la­sciano mai avere un soldo: e i detti Fiorentini sono in gran­de odio alla corte, perché in ogni cosa son Fiorentini». E veramente Roma poteva dirsi ormai una città tosca­na. Gli impieghi più importanti della corte papale erano prerogativa dei Pucci, dei Tornabuoni, dei Gatti, degli Acciaiuoli, dei Salviati, dei Ridolfi, dei Rossi, degli Accolti, degli Strozzi, dei Rucellai e di molti altri. […] I piaceri sensuali dei Borgia non si confacevano alla sua natura: egli voleva che intorno a sé spirasse un’aura tiepida di arguzia, di felicità e di magnificenza. Prodigò ai suoi favoriti somme incalco­labili di denaro; in soli regali e nel giuoco della «primiera» spendeva 8.000 ducati al mese, cioè la somma netta che ri­cavava di rendita dalle sedi vacanti. Altrettanto – la metà delle entrate delle Marche e della Romagna – veniva con­sumata per le sue mense sontuosamente imbandite. Amava i conviti e, come dice un suo biografo, ne traeva un im­menso piacere; rimaneva di proposito per molte ore alla mensa fornita di delicate vivande e di vini squisiti per pro­lungare il suo divertimento tra gli scherzi dei buontempo­ni. Quindi, specialmente nei banchetti notturni, si dilettava di canti e del suono di strumenti a corda. Allora l’intero palazzo echeggiava di armonie musicali. Gli antichi baccanali romani si svolgevano grazie al do­minio esercitato da Roma sul mondo intero; ora si dilapi­davano le rendite ecclesiastiche estorte ai paesi dell’intera cristianità. In un solo banchetto, i cardinali buttavano via migliaia di ducati, e senza alcuna vergogna prendevano po­sto accanto alle più celebri cortigiane di Roma. Ago­stino Chigi fece parlare di sé tutta l’Italia una volta che, per festeggiare il battesimo di un suo figlio bastardo, ospi­tò nella sua villa il pontefice; basti dire che vi furono ser­vite come pietanze lingue di pappagallo e pesci fatti arri­vare vivi da Bisanzio; i piatti e la posateria di oro fino do­po ogni portata furono gettati con puerile ostentazione nel Tevere, dove erano tese di nascosto delle reti per racco­glierli. Roma era tutta un grande teatro e il papa sembrava il tribunus voluptatum dei Romani quando si mostrava in Vaticano attorniato da una torma di musicanti, attori, ciar­latani, poeti, artisti, cortigiani e parassiti. Faceva rap­presentare commedie antiche e nuove, in cui comparivano le più svergognate oscenità. […] Banchetti, commedie, opere scientifi­che e artistiche, concistori, affari della Chiesa, diplomazia, finissimi intrighi, guerra e pace, nepotismo mediceo, tutto questo trovava il suo posto conveniente in Vaticano; di tutto questo il papa trovava l’ora e il luogo per occuparsi. Leone butta  via il denaro a piene mani, eppure il ri­flusso era più abbondante del flusso, il datario Pucci e il cardinale Medici avevano il loro da fare per risanare le fi­nanze; venduti i cappelli cardinalizi, furono inventate nuo­ve cariche e nuove imposte; per cavare quattrini istituirono persino un nuovo ordine dei cavalieri di S. Pietro, del quale furono insignite quattrocento persone. Nessuna arte sarebbe stata tenuta dal papa in onore maggiore di quella dell’alchimista che gli avesse trovato la pietra filosofale. Il poeta Augurelli gli scrisse in versi una ricetta per fab­bricare l’oro, ma disgraziatamente non serviva allo scopo e Leone lo ricompensò con una borsa vuota. Nel 1523 gli am­basciatori veneti conclusero che il metallo giallo-verdogno­lo di cui era rivestito il Pantheon non doveva essere oro, altrimenti «Papa Leone non ve lo avria lasciato».

INTERMEZZO SU CORTIGIANE, PUTTANE E CARDINALI

          Mentre i Papi si dilettavano con puttane, cortigiane, efebi, bambini, maschioni, … i cardinali non erano da meno, anzi per essere accreditati tra i potenti ed i più potenti occorreva avere corti ben fornite di ogni divertimento sessuale da poter offrire a chi lo desiderasse tra quei personaggi corrotti e sessualmente degradati che rappresentavano la cupola insieme del potere e della Chiesa. Naturalmente occorreva la materia prima, essenzialmente donne che fossero disponibili certamente in modo non gratuito. Ormai lo si sapeva che a Roma era possibile costruirsi carriere di gran puttane che, opportunamente acculturat ed agghindate, potevano diventare cortigiane e financo nobildonne. Vi era quindi un proliferare di offerte tra cui scegliere le migliori. Anche Gregorovius descrive questo mondo nel Rinascimento romano, ma in quel Rinascimento di puttane e sodomiti:

Il posto delle donne nobili fu preso, nella società ro­mana, da concubine e cortigiane. Il Bembo convisse senza alcun timore, prima di diventare cardinale, con la bella ve­neziana Morosina e lo stesso Leone X non ebbe alcuna diffi­coltà e celebrare con sfarzo il matrimonio di Agostino Chi­gi con la sua concubina, la bella veneziana Francesca. La raffinatezza della vita provocò anche una Rinascenza del mondo delle etere [cortigiane, ndr]. Aretino ammirò un’etera romana, che recitava cento passi di classici e sapeva a memoria ogni poe­sia del Petrarca, ogni novella del Boccaccio. Imperia da Ferrara splende esaltata al tempo di Giulio II come una stella dei cui raggi s’inebriava tutto il mondo dei monsi­gnori. La sua abitazione nei Banchi, che Matteo Bandello ha descritto, poteva valere come un salotto in cui si affollavano gli uomini spiritualmente più elevati. La sua abitazione nei Banchi, che Matteo Bandello ha descritto, poteva valere come un salotto in cui si affollavano gli uomini spiritualmente più elevati. Tappeti, quadri, vasi e piccoli oggetti ornamentali, cibi scelti, bei mobili rinasci­mentali, diffondevano nelle sue stanze un tale fasto, che il nobile ambasciatore spagnolo un giorno sputò in viso a un servitore poiché non poteva scoprire alcun altro posto adatto al bisogno [tutto era così bello ed ordinato !  ndr]. […] La sentenza del Deccadelli, che le donne leggere sono più utili al mondo del1e monache più pie, aveva acquistato a Roma il suo valore. Come già al tempo di Eugenio IV si dette all’ultima santa romana, Francesca, l’appellativo di Romana, così si riparlava con uguale orgoglio nazionale di una cortigiana Romana. Si ce­lebrava nella donna con sentimento antico lo spirito in una bella figura corporea.

Come chiosa a quanto dice Gregorovius posso solo osservae che il gusto del bello in questioni di sesso mi pare stravagante. Sempre si è cercato il piacere, per definizione, con chi piace. Probabilmente cambiava ora, nella Rinascenza, il problema della cornice. La bella figura corporea, sia essa maschile che femminile, è sempre stata apprezzata in sommo grado.

          Sull’argomento prostitute, nel senso di cortigiane, si sofferma anche Rendina [2] che fornisce dati ed informazioni sul loro triomfo a Roma, nell’età della Rinascenza. Come ho già avuto modo di dire Roma era infestata (o allietata) da puttane. Erano tante perché la richiesta era enorme. Da ogni parte d’Europa si partiva verso Roma, la Mecca della lussuria e della libidine in grado di soddisfare ogni gusto, per orrendo che fosse. E perché Roma ? Ma perché qui vi erano migliaia di scapoli vestiti da preti, da chierici di ogni ordine e grado che, non potendo sposarsi (o preferendo questa situazione), ricercavano ciò che il deisderio richiedeva a pagamento. Naturalmente più si era donna bella, più si era desiderata e quindi più pagata. Ma non bastava perché la fama si costuiva sull’essere brave, sul saper soddisfare con grazia ogni desiderio. E non basta ancora perché a tutto questo occorreva accompagnare anche una conversazione né volgare né superficiale; occoreva, in definitiva, aver avuto un’educazione. Questo era compito di madri avvedute che preparavano le loro figliole al grande balzo verso il successo tra le braccia di cardinali e Papi. Occorre però fare attenzione perché solo poche di queste puttane arrivavano alla ricchezza ed al successo. Molte riuscivano a vivere degnamente e la gran parte erano destinate ad una vita miserabile in mezzo a luridi bassifondi in mezzo alle bassezze più degradate e perverse che si possano immaginare. Per parte loro i prelati pagavano con quanto depredavano dalle offerte di pii fedeli tra i quali, anche qui come detto, vi erano proprio le puttane che invecchiate donavano i loro beni alla Chiesa per farsi perdonare da Dio in infami indulgenze che di nuovo riportavano i soldi ai chierici ed ai prelati fedeli alla sola religione di libidine e lussuria.

Ma entriamo in qualche dettaglio su quanto anticipavo, accennando a qualche nome di puttana (che la noblesse eleva a cortigiana) che allietò non già da amor sacro ma da quello più prosaico e, diciamoci la verità, più ricercato dell’amor profano

la faticosa vita di vari prelati

          Nella ipocrita Roma dei Papi rinascimentali alle cortigiane che sfoggiavano pacchiani lussi in trucchi ed abiti era stata riservata la chiesa di Sant’Agostino per ascoltare le funzioni e le prediche contro l’immoralità dilagante (ahimé !): Dentro la chiesa tali prosperose fanciulle avevano riservati per loro i banchi di prima fila al fine di non distrarre i fedeli guardandole ed immaginando durante le funzioni. La santa ipocrisia ! Rendina dice che queste sante donne nel recarsi alle funzioni non facevano nulla per nascondere le loro professioni, anzi !, era quella un’occasione in più per farsi conoscere poiché tutti sapevano di queste sfilate domenicali in cui si metteva in mostra la migliore merce sul meracato. E tutti si mettevano in fila per assistere al corteo delle puttane di rango che arrivavano con le loro dame di compagnia, i loro servi, i loro paggi e quant’altro potesse dar loro il massimo lustro come ad esempio carrozze e ricchi paramenti con tiri di più cavalli. Perché maggiore era il lustro, il lusso, la ricchezza mostrata (anche se pacchiana) più voleva dire di avere successo nel mercato ed essere pagate da più persone. Rendina riporta un brano della lettera a Lorenzo de’ Medici di una di queste venditrici di amore, Beatrice Ferrarese, bellissima e rinomata puttana di Roma, ritratta anche da Raffaello nel famoso quadro della Fornarina (che, osserva acutamente Rendina, non aveva nulla a che fare con forni per il pane ma di ben altri forni, come si usava dire a Roma):

«Così, meza contrita, me confessai dal predicatore nostro di Sant’ Augustino, dico nostro, perché quante puttane sono in Roma tutte veniamo alla sua predica. Unde esso, vedendose sì notabile audienza, ad altro non attende                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         a se non in volerne convertire tutte. Oh, oh, oh, dura impresa!»

Povera Beatrice, tanto bella e desiderata quanto ricca ! Nel 1526 con il Sacco di Roma, i lanzichenecchi le deprederanno ogni avere anche la fonte di tanti beni e cioè se stessa: viene infatti brutalmente violentata da più persone che le lasceranno il supremo dono d’amore, la sifilide. Ed ecco una invidiata ricca e potente che si riduce nella più nera miseria a fare i più umili lavori con il volto sfigurato non desiderando altro che mettere insieme i denari per comprarsi il veleno che la potesse uccidere.

          Una vicenda a parte è quella che riguarda Imperia. Una delle più ricercate puttane degli inizi del XVI secolo (della quale ha anticipato alcune cose Gregorovius), nata nel 1481 da un padre maestro di cerimonie in Vaticano, che, come ad un Papa, cambiarono il suo nome dall’originale Lucrezia, per sottolineare il suo essere l’Imperatrice dell’amore. Avviata dalla madre, iniziò la sua redditizia professione nel 1497, a 16 anni (età già avanzata per i libidinosi gusti di molte eminenze) con madre e patrigno che da bravi magnaccia si arricchivano. Già nel 1498 la neoputtana ebbe una figlia da padre ignoto e cercarlo è davvero impossibile visto il carnet degli appuntamenti della desideratissima (tanto che un futuro cliente, Filippo Beroaldo, dovrà chiedere la raccomandazione del cardinale Giulio de’ Medici, futuro Papa Clemente VII, per poter giacere finalmente con lei). Ma non è a noi d’interesse spulciare (è la parola) tra nobili, ricconi e prelati che richiedevano le grazie di Imperia perché furono tanti come ci racconta il poeta Siciliano che scrisse un sonetto a sua lode subito dopo la sua prematura morte:

De’ Cardinali n’ebbi numero assai,
presi da me col ventibondo velo,                                                                                          
et tal ci fu che nol crederesti mai.  

Non è di tante stelle adorno il cielo,
a quanti Prelati, Vescovi et Mercanti
feci d’oro costar ogni mio pelo,
Marchesi, Duchi, Ambasciatori tanti …

Ma questa puttana aveva una sua dignità. Si legherà infatti ad un ricco senese finanziatore di Papi, Agostino Chigi, pur continuando nella sua professione con nobili e prelati vari. Dal Chigi Imperia nel 1510 avrà una figlia, Margherita (che poi sposerà un Carafa). Ma il suo vero e grande amore sarà Angelo del Bufalo delquale fu amante per molti anni.  L’amore verso questo uomo, sposato, crebbe al punto che, quando Angelo le dirà che voleva porre fine alla relazione, si suiciderà avvelenandosi a soli 31 anni, nell’agosto del 1512.

          Altra storia, anche divertente, è di quella puttana, amante del cardinale Lorenzo Campeggi di Bologna, che si faceva chiamare Matrema non vole (Mamma non vuole). Il nome deriva da quanto lei diceva ai suoi clienti, con il Mamma non vuole lei gradiva scegliere il suo cliente e non prostituirsi con chiunque. Poi però si prostituiva proprio con tutti con il vezzo di educarli ad un liguaggio forbito sul quale aveva insistito il suo protettore noto come Zoppino («si ha da dire balcone e non finestra, porta e non uscio, tosto e non vaccio, viso e non faccia, cuore e non core, miete e non mete, percuote e non picchia, ciancia e non burla»).

          Altra ragguardevole puttana dell’epoca, nacque intorno al 1508, fu Tullia d’Aragona, figlia d’arte, figlia cioè di un’altra puttana, Giulia Campana, e del cardinale Luigi d’Aragona (che l’ha riconosciuta ma ha fatto risultare che fosse figlia di un suo parente, Costanzo Palmieri d’Aragona). Date le conoscenze di partenza e l’elevata cultura unita ad uno stile raffinatissimo, Tullia avrà una clientela sceltissima tra cui il carinale Ippolito de’ Medici. Avrà pittori, scuoltori, letterati poeti, finanzieri e nobili ma dovrà pagare uno scotto durissimo per colpa di sua madre che le faceva da ruffiana.  Era avida la madre ed aveva venduto la figlia ad un tedesco di basso rango e repellente perché pagava moltissimo. Una settimana per 100 ducati a notte, una vera fortuna. Tullia è costretta ad accettare ma, dopo la prima notte proprio non ce la fa e lascia il laido e repellente tedesco. Ma lo scandalo che ne segue fa conoscere a tutta la bella gente della sua cerchia che razza di gente frequenta la bella Tullia. Viene rifiutata da tutti e dileggiata tanto che, con la madre, dovrà abbandonare Roma per seguire la professione a Firenze. Ma ormai è bollata come la più abbietta delle puttane e nessuno vuole più sapere nulla di lei. Tornerà a Roma nel 1548 quando sarà stata dimenticata ed avrà tanti risparmi da vivere di rendita, ma con ristrettezze sempre maggiori, finché non morirà completamente dimenticata da tutti nel 1556.

          Un ultimo cenno alle puttane note di Roma della prima metà del ‘500 lo merita Angela Greca. Viene descritta come una baldracca con la rogna trasportata a Roma da alcuni magnaccia. E’ anche qui il protettore Zoppiuno a ripulirla ed educarla fino a farla diventare puttana registrata e richiesta a partire dal 1517. Inizia ad essere apprezzata e via via sempre più ricercata da ricconi e da poeti tra cui uno, Il Coppetta, che si inamora di lei. Ma lei è una puttana e non può perdere tempo in amori, infatti appena si presenta l’occasione, lascia il poeta per il ricco nobile, il conte Ercole Rangone che la sposa. La famiglia del conte ritiene insopportabile tale matrimonio e, con l’aiuto di Pietro Aretino, insulta quella donna (piena di rogna) ed il suo sposo. Ma più di questo matrimonio poté la paura dei lanzichenecchi che arrivavano. Angela scappò in Francia con i soldi ricevuti dal banchiere Bonvisi di Lucca  in cambio di sesso, incurante del marito ritenuto, con la famiglia, un gran vigliacco ed incapace di combattere. Per due anni restò in Francia facendosi mantenere da un ricco frncese poi tornò a Roma e, nel 1536, era ancora sulla cresta dell’onda finché … non decise di farsi suora.

          Credo basti ad avere un minimo di sguardo sul mondo delle puttane note. E ho solo citato le romane quando, come potrete leggere su Rendina, ve ne furono di agguerrite e bellissime anche a Venezia (ed in realtà in ogni luogo d’Italia).

Chiudo questo capitolo con un ricordo di un sodomita eccellente: il cardinale Scipione Caffarelli Borghese (1576-1633).

Il personaggio era figlio di una sorella del cardinale Camillo Borghese, Ortensia, che fu eletto Papa con il nome di Paolo V (1605-1621), noto per aver finanziato la Lega cattolica nella guerra dei trent’anni e per aver nominato quella commissione, di idioti e criminali teologi che stabilì (caspita!) essere la teoria copernicana eretica. Ortensia sposò Marcantonio Caffarelli e da questa coppia nacque il pargolo Scipione. Poteva questo virgulto della nobiltà romana, quello che si dotò di quella Villa Borghese, grande come mezza Roma, poteva non essere nominato cardinale dallo zio? No, non poteva ed infatti fu fatto cardinale all’età di 29 anni 10 giorni dopo che lo zio fu elevato al Trono di Pietro con la condizione che assuma il nome Borghese in luogo del Caffarelli. Lo zio Paolo lo indirizzò subito verso la strada che èera da molto tempo di tutti i Papi: la famiglia soprattutto (poi dice la mafia!) e perché la famiglia prosperasse occorreva rendere inoffensivi i Colonna, gli Orsini ed i neo arrivati Peretti (Sisto V) e Aldobrandini (Clemente VIII) che dominavano la città di Roma e le terre limitrofe. Iniziò con un numero molto elevato di benefici e rendite (legazioni, prefetture, biblioteche, penitenziere, camerlengo protettore di principati all’estero, coordinatore di ordini religiosi, arcivescovo, …) che solo la gestione degli affari del Vaticano erano in grado di dare. Guadagna un’enormità e, per buon peso, una legge ad hoc lo esentò dal pagamento di ogni tassa. Questa fortuna in denaro, Scipione la trasformerà in investimenti terrieri ed immobiliari tali da acquistare la supremazia sulle famiglie precedentemente citate (notevole l’uso spregiudicato della giustizia, con l’invenzione di processi, per impadronirsi dei beni, soprattutto opere d’arte, di tutti coloro che ne avessero in quantità e qualità).

Scipione si legherà ad un suo compagno di studi che diventerà suo uomo di fiducia ed amante, Stefano Pignatelli. Il cardinale Camillo, venuto a conoscenza di tali rapporti, fece cacciare Stefano dal collegio in cui studiava insieme a Scipione. Ma l’amore era troppo appassionato ed i due continuavano a vedersi anche fuori. Camillo allora desistette dal suo sotracismo ed in pratica aiutò Scipione a prendere Stefano come cameriere segreto. Ma siamo già al 1605, quando Camillo era diventato Paolo V e quando Scipione era stato elevato alla porpora cardinalizia. In tale posizione necessitava di un segretario che fu scelto nella persona dell’avvocato Pietro Campora (che sarà fatto cardinale nel 1616).

I tre, per necessità di lavoro e di letto, vivevano nella stessa villa. Scriveva Gaetano Moroni nel suo Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica del 1861, come riportato da Rendina [2]:

 Scipione, «ricordevole dell’affetto di Stefano, l’invitò a Roma e l’ammise nella propria corte, dove si acquistò tale ascendente sul cardinale, che questi in tutto si regolò co’ suoi consigli. Tanto bastò perché l’invidia e la gelosia de’ cortigiani lanciassero contro di lui maligne e velenose calunnie, e provocarono cardinali e ambasciatori per rappresentare al Papa essere Stefano pieno di detestabili vizi, e per l’onore del nipote doversi onninamente [completamente] allontanare. Paolo v lo fece sloggiare dalla casa del cardinal Scipione. Questi però, conoscendone l’innocenza, raddoppiò il suo amore per l’oppresso, anzi soggiacque a grave malinconia per la sua disgrazia, e si produsse lunga e pericolosa malattia».

Stefano venne allora richiamato a Roma e Scipione guarì. A questo punto il Papa dovette arrendersi e per mantenerlo a lato del diletto nipote, lo fece chierico assegnato alle cure di tanto nipote. E da qui, poco prima di morire nel 1621, lo fece cardinale. Proprio in quell’anno il cardinale Campora si ritira nei suoi possedimenti lasciando solo Scipone con Stefano. Ed a questo punto le maldicenze, le ironie e i lazzi si moltiplicano con una situazione ben descritta dal solito Pasquino:

Mira, Piegaio, il tuo gran Pignatello, 
di pivial Cardinalitio ornato, 
quanto ogni benemerito prelato, 
che portasse giamai mitra, ò cappello [cardinalizio].

E se ben [benché] molti son, che n’han martello, [dispiacere] 
non è da tutti il suo valor notato, 
e quanto dottamente s’è portato, [comportato] 
ogni volta ch’andò nuntio [ambasciatore del papa] in bordello.

Mà che Spagna per un, Francia procura 
per l’altro, e in somma ogni Signor cortese, 
di qualche suo partial [protetto] si prende cura.

Dunque perché a stupore il Mondo prese, 
se nel collegio volse [volle] una Creatura, 
il cazzo ancor del Cardinal Borghese?

PAPA PAOLO III, FRATELLO DELLA BELLA GIULIA, E LE SUE PUTTANE

          Le prestazioni della bella Giulia Farnese con il Papa Alessandro VI Borgia permisero a suo fratello Alessando, più grande di 6 anni, di essere elevato all porpora cardinalizia. Arrivati a questo punto nessuno dovrebbe più turbarsi per queste vergogne perché erano comunissime a tutti i Vicari di Cristo, noti puttanieri corroti, quando non proprio criminali incalliti. Alessandro Farnese fece la su parte di porco lussurioso con onore non sfigurando rispetto ad altri suoi colleghi. Purtroppo la Bella Giulia che aveva dovuto essere la pecorella sacrificale, pur restando persona a mio giudizio degna, perché tanto lieto evento si verificasse, morì qualche anno prima. Ed ecco che nel 1534 i cardinali in conclave, memori delle infinite grazie di Giulia (ma anche abbondantemente pagati), votarono per questo cardinale che prometteva bene avendo già avuto varie puttane al suo seguito. E così Alessandro Farnese divenne Papa con il nome di Paolo III il 13 ottobre del 1534.

          Questo Papa, si era mimetizzato abbastanza nel periodo precedente l’elezione ma, una volta eletto, riprese la consuetudine godereccia e pecoreccia della massima parte dei suoi predecessori. Inoltre Paolo III aveva come immediato esempio colui che lo aveva fatto cardinale per meriti di letto della sorella, Alessandro VI, e con tanto maestro era impossibile per lui non fare il porco. Iniziò con un nepotismo esagerato e con non proprio l’ambizione Borgia di fare dei beni della Chiesa i beni di casa Borgia ma con quella più modesta di arricchire a più non posso casa Farnese prelevando anche qualche territorio della Chiesa da assegnare a familiari.

          Ma la storia di questo bandito padre di banditi e  fratello di puttana, degna ma puttana, inizia da lontano, quando ancora era un fanciullo. Nacque nel 1468 nel viterbese da Pierluigi Farnese e Giovannella Caetani, legata alla famiglia che aveva dato Papa Bonifacio VIII. Era terzogenito dopo Angelo e Girolama e prima di Beatrice e Giulia. Mentre Angelo fu avviato alla carriera militare che aveva visto suo padre e suo nonno Ranuccio affermarsi, per Alessandro l’energica madre decise di avviarlo alla carriera ecclesiastica. Ebbe un’aducazione classica notevole, avendo come precettore un letterato come Pomponio Leto. Il giovane brillante riuscì subito, nel 1482, ad essere nominato scrittore apostolico con Papa Sisto IV. Con il Papa che  seguì, Innocenzo VIII, nacquero dei problemi con la famiglia Farnese a causa di Angelo che, in una delle tante guerre che martoriavano l’Italia per conquistare pezzi di territorio, si schierò a lato di Ferrante di Aragona, con gli Orsini, contro le truppe pontificie nell’attacco a Viterbo. Intanto il padre di Alessandro morì nel 1485 e, vista la situazione familiare e gli schieramenti accennati, anche se Angelo proprio in quel periodo rinunciò alle alleanze che aveva fatto per riacquistare il favore papale, Alessandro non ebbe alcuna protezione dalla sua carica apostolica e venne fatto rinchiudere a Castel Sant’Angelo anche se non si sa con precisione per quale motivo. Vi sono varie ipotesi non si sa quanto fondate. La più probabile è che l’arresto sia stato effetturato per far pressione sul fratello Angelo perché lasciasse l’alleanza con gli Orsini. In tal senso va anche il fatto che il Papa avesse operato per tenere quasi reclusa Giovannella nella sua dimora di Viterbo. Altra versione vuole che sia stata la stessa Giovnnella a pregare il papa di far arrestare suo figlio percheé lasciasse perdere la sua vita di scavezzacollo. Vi è poi la versione di Benvenuto Cellini, compagno di galera di Alessandro che assegna quella carcerazione alla falsificazione fatta da Alessandro di un documento pontificio. Un’altra versione è quella data da una famiglia nemica dei Farnese, quella dei Cybo discendenti di Innocenzo VIII: Alessandro sarebbe stato arrestato perché avrebbe tentato di avvelenare la madre ed un altro familiare. Infine un’altra versione la leggiamo in un libello dell’epoca Origini delle grandezze della famiglia Farnese, scoperto da Stendhal nel 1835: [Alessandro] fece un giorno rapire una giovane gentildonna che andava in carrozza fuori della città di Roma in una sua villa, tenendola seco molti giorni. Del quale delitto essendone stato querelato, fu per ordine del sommo pontefice Innocentio VIII preso e posto dentro il Castello S. Angelo strettissimamente, dove stette molti mesi, e non ostante il favore del cardinale e con l’opera d’un suo parente, chiamato Pietro Margano, ne fu fatto fuggire dal castello, calato in strada con una fune (su quest’ultimo fatto Cellini aveva detto che era stao lui a calarlo con una fune dall’alto del castello). In ogni caso, con un qualche aiuto esterno e dopo vari mesi di carcerazkione, Alessandro riuscì a fuggire (1486) rifugiandosi a Firenze dalla sorella Girolama che tre anni prima si era sposata con Puccio Pucci, appartenente ad una famiglia della città vicina a Lorenzo de’ Medici. Quest’ultimo prese in simpatia Alessandro e scrisse una supplica al Papa per perdonarlo e raccomandarlo anche perché le rivalità del passato tra Lorenzo de’ Medici e Innocenzo VIII si erano avviate ad una riappacificazione anche attraverso le nozze (1487) di Franceschetto Cybo, figlio naturale di Innocenzo, con Maddalena, figlia di Lorenzo. La riappacificazione divenne poi stretta alleanza quando, nel 1489, Innocenzo elevò alla porpora cardinalizia il secondogenito di Lorenzo, Giovanni de’ Medici che diventerà poi Papa Leone X. Il soggiorno fiorentino, in quella raffinata corte, servì molto ad Alessandro per la sua preparazione culturale e per la conoscenza che fece di vari ed importanti ingegni. Nel 1489 Lorenzo scrisse ancora al papa per raccomandare Alessandro. Questa volta il consuocero di Lorenzo non aveva motivo per rifiutare una tanto calda raccomandazione che, a lato, conteneva una richiesta arrogante: la dispensa dal portar la tonaca. Così nel 1490 Alessandro può liberamente muoversi senza più pericolo e recarsi al castello della famiglia a Capodimonte. Subito dopo sarà nominato segretario pontificio. Suo scopo principale sarà quello di favorire in ogni modo la famiglia, anche se, dal suo impiego non ha molto potere. Una serie di eventi però facilitano la sua di carriera: nel 1488 suo fratello maggiore Angelo aveva sposato Lella Orsini mentre la sua giovane ed affascinante sorella, Giulia, si era sposata con Orsino Orsini in una situazione che ho descritto quando ho parlato di Giulia Farnese. E’ proprio la passione infinita del cardinale Rodrigo Borgia per Giulia che promuoverà Alessandro ad incarichi superiori (protonotario apostolico) finché, come già detto, Rodrigo non diventerà Papa Alessandro VI e la conseguente nomina di Alessandro Farnese a cardinale (1493). E da questo momento il cardinal Farnese diventerà popolamente noto come cardinal Fregnese.

          Questa la cronaca della vita del Farnese fino al cardinalato ma qui non risulta la parte puttaniera del personaggio che spopolò per l’Italia. Notizie relative a questo argomento, piuttosto fmiliare tra Papi, cardinali e figli di Papi o cardinali, provengono, tra l’altro, da una lettera di un tal fra Bernardino che il 4 agosto 1549 venne recapitata alla corte pontificia. Lo apprendiamo da Rendina [6] che riassume quanto scriveva fra Bernardino insieme ad altre notizie.

Si tratta di una «invettiva contra Sua Santità la più sporca et venenosa che fusse mai vista», una malefica pasquinata, della quale si suppone autore l’ex vescovo di Pavia, Gian Girolamo de’ Rossi, cortigiano di Paolo III, caduto in disgrazia nel 1539, rinchiuso a Castel Sant’ Angelo e quindi privato del vescovato. Gliel’avrebbe commissionata Ferrante Gonzaga, governatore di Milano, che nel 1547 ha fatto assassinare il figlio del papa, Pier Luigi Farnese, e si è impossessato del ducato di Parma e Piacenza.

Il libello contiene una serie di accuse sulla gioventù scapestrata di Alessandro Farnese, al quale si ricorda che «non è oggi mai rimasto in Italia luoco, arbore, città, villa che tu non abbi contaminato colla immensa tua lussuria et pessima vita»; senza contare che ha poi continuato a condurre una vita peccaminosa «perciò che tu scellerato, così pubblicamente hai in gioventù et vecchiezza peccato che molti per il tuo errore, anzi tutta Italia ne rimane scandalizzata».
E in particolare il libello milanese fa riferimento all’avventura libertina del cardinale Alessandro con una signora di Ancona, quando è legato della Marca dal 1502 al 1506; e questa amante è indicata anche in un’altra pasquinata di
quell’epoca, come appartenente alla famiglia Accolti e madre dei due figli del legato Pier Luigi e Costanza. Infine il libello del De Rossi fa riferimento a una «pubblica concubina che in Frascati hai sempre tenuta, da cui ne hai avuto nel tuo indegno papato figli, come è noto a ciascuno»; ma sembrerebbe che questa concubina sia in sostanza l’amante di Ancona, trasferitasi a Frascati.
In ogni caso Alessandro ha avuto da lei dei figli e si è dato da fare per riconoscere i maschi, in modo da poterli nominare eredi di tutti i suoi beni; nel luglio 1505 ha ottenuto da Giulio II la legittimazione di Pier Luigi e Paolo. Nel 1513 Leone X ha confermato la legittimazione di Pier Luigi e del terzo nato Ranuccio, ma non di Paolo, che nel frattempo è morto. Ma se esiste una documentazione precisa sui figli di Alessandro, non è così per la loro madre, proprio perché il cardinale Farnese non vuole che si riveli la sua identità, e così neanche il papa Paolo III. Fino a darle un soprannome che nasconda più che mai quella identità: Lola.

Ma chi era questa Lola lo scoprì Rabelais in un suo viaggio a Roma per andare appunto a trovare Paolo III tra il 1535 ed il 1536 e lo comunicò al vescovo di Maillezais Geoffroy d’Estissac in una lettera da Roma del 15 febbraio 1536. Si trattava di Silvia Ruffini. Scrive Gino Benzoni nell’Enciclopedia dei papi l’intricatissima storia che segue:

Stabile, dal 1499, la sua relazione con una dama romana, Silvia Ruffini, moglie, al più tardi dal 1496, di Giovanni Battista Crispo e questo, entro l’aprile del 1501, vedova. Da lei, ancor maritata, Farnese ha avuto, nel 1500 circa, la figlia Costanza. E da lei ormai vedova ha poi tre figli: Pierluigi nel 1503; Paolo nel 1504; Ranuccio nel 1509. E legittimati i primi due, l’8 luglio 1505, da Giulio II. Una gioia per il cardinal Farnese, così assecondato dal pontefice, col quale poi s’imparenta ché Laura – sua nipote: è figlia, ufficialmente (ma le chiacchiere attribuiscono la paternità a papa Borja), di Orsino Orsini e di Giulia – si sposa il 16 novembre (a pochi giorni dalla tragica morte della zia Girolama Farnese; assassinata questa, che, vedova di Puccio Pucci, s’era risposata col conte Giuliano Anguillara, dal figliastro Giovan Battista Anguillara il 1° novembre), con Nicola Franciotti della Rovere. Figlio questi di Giovanfrancesco e di Luchina della Rovere, sorella del papa, è nipote di Giulio II e da lui adottato. Ancora una volta Giulia torna utile a Farnese. In fin dei conti è grazie a sua figlia Laura che il fratello cardinale consolida i propri legami col papa in carica. E condiscendente, d’altronde, Giulio II colla stessa Giulia – la quale, vedova dell’Orsini morto ancora il 1° luglio 1500, si risposa, il 20 febbraio 1509, col gentiluomo napoletano Giovanni Maria Capece Bozzato -, allorché, il 2 maggio 1512, concederà al suo secondo marito il Governatorato d’Orvieto. Quanto a Farnese – che nel 1507 ha ereditato i possedimenti di Federico Farnese, figlio del cugino Ranuccio -, Giulio II, il 28 marzo 1509, gli conferisce il vescovato di Parma. E poco cale al cardinal diacono che il suo indugiare negli ordini minori gli impedisca il pieno esercizio dell’autorità episcopale. Provvedendo il vicario alla vita religiosa, all’amministratore apostolico vanno le rendite. Meglio, per Farnese, se abbondano le sedi vacanti. Così può sommare amministrazioni o, quanto meno, può correre dall’una all’altra. Così sotto Giulio II, così anche dopo. Singolare, comunque, il suo stazionare a Roma da qui proiettando fuori il proprio profilo vescovil-amministrativo: dal 1501 al 1519 a Corneto e Montefiascone; dal 1509 per una decina d’anni a Parma; dal 1514 al 1522 a Benevento; dal 1508 al 1511 a Vence, in Francia; dal 1514 sino al 1534 a St-Pons, sempre in Francia; nel 1530-1532 a Bitonto; nel 1521 a Valva e Sulmona; nel 1532 a Soana; nel 1525 ad Anagni. E poco cambia che dal 1519 sia consacrabile vescovo. Non è mai un pastore d’anime; è sempre un indaffarato cacciatore e percettore di rendite. Ciò per sé, ciò perché ha da pensare alla figlia Costanza, ai tre figli maschi. Amatissima quella, epperò illegittimabile, ché nata da donna ad altri maritata. Legittimati invece i nati dalla stessa rimasta vedova, l’ultimo, Ranuccio, l’11 aprile 1518, da Leone X.

A parte tutte le altre notizie, veniamo a sapere che il cardinale Alessandro Farnese aveva avuto da Silvia Ruffini, laa stessa che era stata sua mante ad Ancona, ben quattro figli. Ora questa donna era sposata con un tal Giovanni Battista Crispo più o meno dal 1496 con il quale nel 1498 ebbe un figlio, Tiberio, mentre la relazione con il cardinale divenne stabile nel 1499. Secondo il libello del De Rossi citato, il cardinale Alessandro avrebbe conquistato la fanciulla con dargli ad intendere essere un sentiluomo mundano et parente al legato [egli stesso, in realtà, ndr], fingendo di sposarla, travestito. Talché secretamente la notte poi, essendo caduta la cuffia di capo et ella avendo tocco la chierica cardinalesca, rimase tutta sconsolata con infiniti stridi. Nel 1500 nacque la prima figlia, Costanza, che non potrà essere riconosciuta dal cardinale perché la sua amante era regolarmente maritata con altra persona che morirà nel 1501. Da questo punto la convivenza tra i due divenne stabile e, anche se mantenuta nascosta con la conseguenza accennata relativa alla madre che non si sapeva chi fosse, fu allietata da altri pargoli: Pierluigi nel 1503, Paolo nel 1504 e Ranuccio nel 1509. Silvia fu sistemata a Frascati (anche se ebbe anche una casa a Roma, che le aveva comprato il figlio Tiberio, fatto cardinale dal suo amante Paolo III), dove comodamente e lontano da occhi indiscreti potevano convivere. E proprio a Frascati il cardinale Alessandro, una volta divenuto Paolo III, farà costruire nel 1537 una splendida villa. Da notare che Silvia non si occuperà di affari di Stato e quindi non fu mai Papessa ma, mi si scusi se è poco, solo amante del cardinale prima e del Papa poi. In compenso una donna della famiglia assumerà il ruolo di Papessa e questa sarà Costanza, la figlia dei due amanti. Sposò Bosio Sforza, conte di Santa Fiora, dal quale ebbe ben 10 figli (quando si dice che gli eccessi sessuali vengono tramandati … e con la considerazione di questo uso delle donne che spesso, all’epoca, morivano di parto). Il primo, Guido Ascanio, nacque nel 1518, seguirono poi, cinque maschi (Sforza, Carlo, Mario, Alessandro, Paolo) e quattro femmine (Francesca, Giulia, Camilla, Faustina). Questa florida famiglia andò a vivere nel Palazzo Farnese a Roma fino all’elezione a Papa del padre di Costanza, quindi quest’ultima si trasferì in un palazzo che si era fatto costruire in Via Giulia. Costanza fu un’avida figlia protesa ad ottenere il massimo dal padre, sia cardinale che Papa, oltre ad una ricchissima pensione mensile (300 ducati) ottenne moltissime rendite: una tenuta enorme nel perugino, il governo di Bolsena e quelli di Acquapendente, Montefiascone e San Lorenzo a cui occorre aggiungere altri svariati castelli ed innumerevoli terre della Chiesa. Ottenne la porpora cardinalizia per il suo primogenito sedicenne Ascanio appena due mesi dopo l’elezione del padre al soglio pontificio (1534) ed a questa porpora come accennato seguì quella per il figlio Tiberio della sua amante (a Costanza si deve anche la nomina di altri tre cardinali che avevano pagato grandi quantità di denaro per questo). Poiché Paolo III stravedeva per i suoi, accompagnò alla elargizione di porpore una quantità di vescovati, abbazie e benefici ecclesiastici. Naturalmente non dimenticò gli altri figli di Costanza (nel frattempo restata vedova nel 1535 e trasferitasi direttamente nel palazzo Apostolico): il secondogenito, Sforza, oltre ad ereditare la contea di Santa Fiora, fu avviato alla carriera delle armi e gli fu organizzato un matrimonio con una famiglia, la Pallavicino, ricca in modo esagerato; l’altro figlio, Carlo, fu nnominato a 12 anni priore di Lombardia; Mario fu fatto abate di una chiesa presso Pavia; gli ultimi due, Alessandro e Paolo, furono nominati scrittori apostolici quando non erano ancora capaci di scrivere; tutte le figlie furono accasate con famiglie famose e ricchissime. Sulla potenza di Costanza nell’influenzare il padre, scrive Roberto Zapperi nel suo Dizionario Biografico degli italiani (Treccani 1995):

Secondo il Massarelli [un vescovo che scrisse gli Atti del Concilio di Trento, ndr], la nomina di questi candidati [i tre suddetti, ndr], tutt’altro che meritevoli di entrare nel S. Collegio, fruttò a Costanza. un bel mucchio di quattrini. Ma a sentir lui, questi tre erano solo i casi più noti e scandalosi, “molto più sono quelli, li quali avendo sborsati molti denari et presenti, sono ascesi quasi per forza di doni al cardinalato”. Per non parlare degli innumerevoli prelati che, per suo intervento, ottennero “chiese et dignità et honori”. La fama della onnipotenza della sua intercessione si diffuse rapidamente negli ambienti della Curia romana e non c’era inviato, accreditato presso la corte pontificia per trattarvi ogni sorta di affari, che non venisse a sapere subito qual era la strada migliore per trarsi d’impaccio. A Costanza “della quale nissuna persona dicono potere più disporre di Sua Santità” raccomandava di rivolgersi l’agente senese Aurelio Manni Ugolini nel 1544. A lei si rivolgevano abitualmente i diplomatici urbinati, i rappresentanti di Orvieto, di Bologna, di Parma e di chi sa quante altre città e Stati d’Italia e d’Europa [anche Ignazio di Loyola si rivolse a lei perché intercedesse a suo favore con il Papa, ndr]. Il 14 aprile 1539 l’ambasciatore imperiale a Roma marchese A. de Aguilar scrisse a Carlo V che non si poteva rifiutare a Costanza il vescovato di Astorga, richiesto per il figlio Guido Ascanio. La sua devozione alla causa imperiale era nota e un rifiuto poteva costare caro. “Avarissima et molto cupida di denari” (è sempre il Massarelli che lo dice), Costanza prendeva di tutto e non andava tanto per il sottile quando si trattava di incassare: ai Parmigiani che una volta le offrirono con inusitata. tirchieria solo due tazze d’argento non disse di no.

La condiscendenza del vecchio pontefice per la figlia, che ancora in età matura “di bellissimo et giovenile aspetto appareva”, sembrò eccessiva e provocò accuse di incesto del tutto fantasiose. Cominciò, come sempre in questi casi, Pietro Aretino, il maestro ineguagliato di ogni velenosa maldicenza, e la maligna insinupier kuiguazione passò, come oro colato, nelle pagine dello storico protestante Johannes Sleidan.

Vi è qui un’allusione ad incesti tra Paolo III e Costanza. Non ho elementi per dire se la diceria è o meno vera, quel che è certo è che il degrado era tale che si poteva sostenere tutto ed il contrario di tutto. Ogni illazione era ritenuta veritiera perché poteva esserlo. Pasquino, Marforio [un altro Pasquino, ndr] e soprattutto la propaganda protestante, luterana, si scatenarono contro la corruzione ed il libertinaggio dominanti a Roma. Le accuse erano le più infamanti: di foia incontinente, di sodomia, di pratiche incestuose. Non sembra che tali accuse siano adeguate al cardinale Farnese o a Paolo III che Lutero chiamavaa “vescovo degli ermafroditi” e “papa dei sodomiti”, sembra infatti che il personaggio non sia tanto un libidinoso, assatanato, sessualmente deviato, sodomita, incestuoso, …, quanto una specie di padre di famiglia (certamente corrotto, ladro e simoniaco) con una stabile situazione familiare, allietata da figli, connotata da stabilità, con la sua amata Silvia Ruffini. Abbiamo visto che Paolo III aveva delegato molti dei suoi poteri alla Papessa Costanza, sua figlia. Che ne è del suo rapporto con il primogenito Pierluigi ? Qui le cose si complicano e vanno raccontate come fatti di cronaca criminale.

          Pierlugi, come tutti gli altri parenti ed amici, ebbe il ducato di Castro (1537) e successivamente ebbe in grazioso omaggio dal padre una vera e propria gioia da lui stesso creata nel 1545, il ducato di Parma e Piacenza, letteralmente sottratto ai beni ecclesiastici. Fin da pargolo Pierluigi si distinse per essere un immorale ed un violento ma soprsttutto un sodomita che, forte della sua posizione sociale, si divertiva a sodomizzare ragazzi. Suo padre lo sapeva molto bene e, come scrive Dall’Orto, già Papa, nel 1535, gli fece scrivere una lettera in cui lo rimproverava aspramente delle sue abitudini sessuali:

[Il papa] havendo adunque ritrovato che ha menato seco [portato con sé] quelli giovanetti, delli quali li parlò alla partita [partenza] sua per Perugia, n’ha preso tanto fastidio che non lo potrei mai esprimere, dolendosene per tre cause, l’uno per servitio di Dio, che parendoli che fino che persevera in simile error sia impossibile che li [le] possa succeder ben cosa che lo voglia; l’altra per honor della casa [Farnese], e la terza per il poco conto che quello[lei] mostra far delli comandamenti di Sua Beatitudine, havendoglilo detto tante volte et in diversi propositi proibito.

 Vorrà adunque rimandarli indietro, perché andando in corte dell’Imperator che tanto aborrisce simil vitio, è certissimo che non li potrà portar se non grandissima infamia et dishonore, non sol appresso a Sua Maestà, ma etiam [anche] delli altri grandi.

Naturalmente Pierluigi non fece alcun caso alla reprimenda del padre ed appena due anni dopo fu artefice di una bestialità che portò alla morte del giovane vescovo di Fano, Girolamo Gheri (1513-1537). La cronaca di ciò che avvenne la fornì Benedetto Varchi (1503-1565):

In quell’anno medesimo nacque un caso, del quale io non mi ricordo aver udito né letto (…) il più esecrabile. (…) 

 Era messer Cosimo Gheri da Pistoia vescovo di Fano d’età d’anni ventiquattro (…) quando il signor Pier Luigi da Farnese (il quale eb<b>ro della sua fortuna, e sicuro per l’indulgenza del padre di non dover esser non che gastigato, ripreso [non castigato, ma neppure sgridato, NdR], andava per le terre della Chiesa stuprando, o per amore o per forza, quanti giovani gli venivano veduti, che gli piacessero) si partì dalla città d’Ancona per andare a Fano, dove era governatore un frate (…).

Costui, sentita la venuta di Pier Luigi, e volendo incontrarlo, richiese il vescovo, che volesse andare di compagnia a onorare il figliuolo del pontefice, e gonfaloniere di santa Chiesa; il che egli fece, ancoraché mal volentieri il facesse.

La prima cosa della quale domandò Pier Luigi il [al] vescovo, fu, ma con parole proprie e oscenissime secondo l’usanza sua, il quale era scostumatissimo, “come egli si sollazzasse e desse buon tempo con quelle belle donne di Fano”. Il vescovo, il qual non era meno accorto che buono, essendogli paruta questa domanda quello ch’ella era, e da chi fatta l’aveva, rispose modestamente, benché alquanto sdegnato, “ciò non essere uficio suo” [la cosa non era il suo compito], e per cavarlo di quel ragionamento soggiunse: “Vostra eccellenza farebbe un gran benefizio a questa sua città, la quale è tutta in parte [divisa in fazioni], s’ella mediante la prudenza e autorità sua la riunisse e pacificasse”.

Pier Luigi il giorno di poi, avendo dato l’ordine di quello che fare intendeva, mandò (quasi volesse riconciliare i fanesi) a chiamar prima il governatore, e poi il vescovo. Il governatore, tosto che vedde arrivato il vescovo, uscì di camera, e Pier Luigi cominciò, palpando e stazzonando il vescovo, a voler fare i più disonesti atti che con femmine far si possano; e perché il vescovo, tutto che fosse di poca e debolissima complessione (…) si difendeva gagliardamente non pur [solo] da lui, il quale, essendo pieno di malfranzese [sifilide], non si reggeva a pena in piè, ma da altri suoi satelliti [dipendenti], i quali brigavano di tenerlo fermo, lo fece legare (…).

Non solo li tennero i pugnali ignudi alla gola, minacciandolo continuamente, se si muoveva, di scannarlo, ma anco gli diedero [lo colpirono] parte colle punte e parte co’ pomi, di maniera che vi rimasero i segni.

Il povero vescovo, come conseguenza della brutale e criminale violenza di Pierluigi, morì un mese e mezzo dopo. 

Qualcuno ha sollevato dubbi sulle conseguenze delle violenze senza però mettere in dubbio lo stupro. Quasi che, se non si muore, lo stupro è cosa accettabile e persino gradevole. Gli stessi innocentisti riconoscono però che Pierluigi era un violento irreprimibile capace di ogni delitto. Continua Dall’Orto riportando un documento privato, una lettera inviata da Marco Bracci (sec. XV-1551), cancelliere dell’ambasciatore fiorentino a Roma, a Pier Francesco Del Riccio (segretario mediceo), in data 14/1/1540:

Venendo triumfante il Rev. Ferrara [il cardinale Ippolito II d’Este] qua, et essendo d’un paese che produce assai belli figlioli, fra li altri sua servitori ne menò con seco uno, che alli occhi del nostro Ill.mo S.r Duca di Castro, li era et è piaciuto extremamente, di modo ch’el povero servitore non trovava posa, [avendo] diliberato Sua Ex<cellen>tia sfogare questo suo appetito disiderato.

Provò con imbasciate e mezzani di vedere se e’ poteva ridurre [piegare] il giovane alla sua voglia, e veduta l’obstinatione del giovane, [il] quale non dubitando intervenissi [accadesse] a lui com’è intervenuto a molti e quasi alla più parte, et forse informato et advertito del tutto, non ha volsuto consentire, di modo che intrata sua Ex.tia (spinto dal furore di Cupido) in gran collera, si diliberò in ogni evento [decise ad ogni costo] di haverlo, et a<p>postato [pedinato] chi il praticava [lo frequentava] in casa di non so chi servitore, insieme con certi sua fidati, li dette la battaglia alla casa [assaltò la casa], et così entrato, il buon giovane, veduto non haveva rimedio, si lassò calare da una fenestra, et così scampò la furia per quella volta.

Veduto il buon duca che e’ non li venia fatta quella volta né alchuna fiata se l’havesse dicto [non ci sarebbe mai riuscito se lo avesse raccontato], et così dandoli la caccia, si fuggì il povero figliolo in casa di certi merchanti genovesi, dove che havendo ancora la caccia drieto, prese per expediente [decisione] più presto voler morire di cascata, che come il povero vescovo di Fano, e così di nuovo eripuit fugam[si diede alla fuga], e si gettò a terra di [da] un’alta finestra, e scampato il pericolo tornò a casa mezzo morto.

Et di nuovo sapendo il comandamento, che haveva ordinato a circa 40 persone che lo pigliassino, et li fusse condotto per forza, lo conferì [rivelò] al cardinale suo, [il] quale lho ha mandato in Lombardia per le poste; e certo n’è stato biasimato, che [perché] doveva pur far compiacere un tanto Signore, se Cupido lho haveva preso, e non far che sia ito allo stato per [da] disperato.

Nonostante la sua vocazione sodomitica, Pierluigi con sua moglie, Gerolama Orsini, ebbe vari figli: Alessandro, Vittoria, Ottavio, Ranuccio, Orazio. Alla morte violenta del padre Pierluigi nel 1547, assassinato per una congiura di Don Ferrante Gonzaga signore di Milano e Carlo V per loro mire sul ducato di Parma e Piacenza, fu ad Ottavio che andò in eredità il ducato conteso. Costui, nipote del Papa ancora quattordicenne, era andato in sposo a Margherita d’Austria, figlia di Carlo V e vedova sedicenne di Alessandro de’ Medici duca di Firenze, con una dote impressionante di 300 mila scudi d’oro) e la cosa fu oggetto di molte e ridanciane critiche che inesorabilmente arrivarono a Pasquino. Passava il tempo e da quel matrimonio non nascevano figli. Si cominciò a spettegolare sull’impotenza di Ottavio ed anche sulle supposte dimensioni del suo organo sessuale, non adatte a un rapporto perché troppo piccole (sembra invece che la fanciulla non volesse saperne di giacere con Ottavio risultando recalcitrante come una mula, soprannome che le fu dato). La verità potrebbe anche stare altrove perché mentre Ottavio era un bel giovanetto, Margherita era orrendamente mascolina, grossa e grossolana oltreché piena di peluria, tanto che girava la voce che fosse lesbica. In ogni caso quella prima notte d’amore non fu seguita da altri slanci ed i due vissero abbastanza distanziati. Paolo III che aveva sentito il dovere d’intervenire curando i suoi rapporti con Margherita fu male interpretato perché si pensò che volesse sodomizzare la fanciulla ed interprete di ciò fu Pasquino che fece partecipe dell’operazione anche Pierluigi che avrebbe invece voluto sodomizzare Ottavio. Le prima pasquinata è rivolta al Papa chiedendogli chi preferisce tra Ottavio e Margherita:

A chi ‘l serviziale [clistere, chiara metafora della sodomia, ndr],

faresti delli dua più volentero,

a Ottavio o Margarita ? Dite il vero.

La seconda è invece diretta al papa e a Pierluigi che dovrebbero suddividersi il compito di usare i due giovani sposi, ambedue rigorosamente passivi, a seconda delle loro voglie:

La parte anteriore niuno adopra,

di drieto l’un e l’altro empionsi forte,
che fan targa del culo ad ogni cazzo.

Quel de l’avolo pruova la sant’opra,
quella del socer suo, che per sua sorte
la fott’in culo a guisa di ragazzo

per prendersi sollazzo.

Per prendersi sollazzo.

Qual abbi meglio culo, il papa solo
vel potria dir, col suo mulo figliuolo.

Or dunque, a pieno volo,

andateli a trovar, ché s’ ei vorrano
dirvelo, in dubio non vi lassarano.

E già che siamo in argomento pasquinate, vediamone altre relative alle vicende descritte riguardanti Pierluigi, Ottavio e Paolo III. La seguente è relativa al confronto tra il sodomita Pierluigi ed il poco dotato Ottavio:

Duo cazi, padre Santo il biasimo sono
e la ruina de la casa vostra:
un picolino, che non è ancor buono
da comparir ne la morosa giostra;
e uno grosso, di cui va la voce e il suono
che gli è l’infamia della etade nostra.
Questi duo cazi vi faranno un giorno
morir fallito con vergogna e scorno.

Quest’altra è un istruttivo riassunto del pontificato di Paolo III:

Cristo disse: il mio regno non è di questo mondo

Il papa conquista la città con la forza;

Cristo aveva una corona di spine

Il papa porta il triplo diadema;

Cristo lavò i piedi ai suoi discepoli

Il papa se li fa baciare dai re;

Cristo pagava i tributi

Il papa li riscuote;

Cristo nutriva le sue pecorelle

Il papa le tosa a suo profitto;

Cristo era povero

Il papa vuole impadronirsi del mondo;

Cristo portò sulle spalle la croce

Il papa si fa portare a spalla dai servitori in livrea dorata;

Cristo disprezzò le ricchezze

Il papa non ha altra passione che quella dell’oro;

Cristo espulse i mercanti dal tempio

Il papa ce li accoglie;

Cristo predicò la pace

Il papa è la fiaccola della guerra;

Cristo era la mansuetudine

Il papa è l’orgoglio in persona;

Le leggi che Cristo promulgò,

Il suo vicario se le mette sotto i piedi.

          Cristo ascese al cielo

Il suo vicario scenderà nell’inferno.

La cattiva fama di Ottavio venne comunque meno il 7 giugno 1543 (di questi personaggi riusciamo anche a sapere le date degli amplessi) quando, a seguito delle reprimende dell’Imperatore Carlo V su Margherita (erano arrivati tantissimi soldi, diamine!) e delle attenzioni di Paolo III su Ottavio, i due si accoppiarono per ben 4 volte in una notte in Pavia. Notte fortunata perché portò alla nascita di due gemelli

          Paolo III merita anche un cenno alla sua attività criminale come Papa. Egli, da perfetto ipocrita convocò il Concilio di Trento con il quale intendeva, udite udite, moralizzare la Chiesa avviando la Controriforma che avrebbe dovuto rispondere alla Riforma di Lutero ed alla scissione dei protestanti dalla chiesa cattolica (intanto nel 1534 con Clemente VII vi era stata lo scisma della Chiesa d’Inghilterra). Il Concilio iniziò i suoi lavori il 13 dicembre 1545 che, attraverso i Papi Paolo III, Giulio III, Marcello II, Paolo IV, Pio IV, terminarono il 4 dicembre 1563. Come accennerò più oltre fu il trionfo della criminalità che con Inquisizione Romana ed Indice dei Libri Proibiti volle mettere la museruola ad ogni voce che criticava e si opponeva, ad ogni ingegno che tentava di far avanzare il nostro Paese. Ma anche le gerarchie si moralizzarono ? Macché ! Da quelle parti si continuava a vivere da luridi nababbi, libidinosi, lussuriosi e pecorecci, alla faccia di Gesù che, arrivati a questo punto, va davvero esaltato, ed in barba di Bruno e Galileo che cadranno sotto la mannaia delle bestie incontrate con l’unica colpa di aver aperto al mondo la via della libertà di pensiero e del sapere. Inutile pianto il mio: i pii e bigotti fedeli neppure sanno di cosa sto parlando!

PAOLO IV E SUO NIPOTE

          E, dopo Paolo III, venne Giulio III della poco nota famiglia del Monte, altro Papa figlio di uno smodato mercimonio che, venendo meno alle sue promesse, gestì il papato per divertirsi con banchetti luculliani e raffinati allietati da teatranti e buffoni come avrebbe fatto Gesù nei suoi panni. Per fare bella figura organizzò anche delle corride che vedevano molti tori in piazza via via cacciati ed ammazzati per il suo divertimento che godeva dalle sue terrazze. Inutile dire che il suo nepotismo si fermò solo dove finirono i nipoti ma continuò con altri parenti ed amici. Fece miracoli nominando degli incapaci in posti di prestigio ma pretendendo da questi inutili servizi utilissimi. Suo fratello Baldovino, ad esempio, dovette adottare Fabiano, un quindicenne malvagio e depravato, che custodiva le scimmie in Vaticano e che ebbe cambiato il nome in Innocenzo del Monte. Gli storici cattolici, in questo caso, insistono nel dire che era suo figlio. In realtà Innocenzo era il suo amore ed amante, ed era tanto repellente quanto degno di essere fatto cardinale (1550), ai suoi 17 anni, con la carica di Segretario di Stato, compito del tutto al di fuori della sua portata, davvero scimmiesca ed in accordo con il suo soprannome, Scimmia. In realtà la relazione amorosa era iniziata quando Innocenzo aveva 13 anni e lo aveva scoperto in casa sua, figlio di un suo servo. Praticamente Fabiano fu comprato al padre con un lungo elenco di favori e benefici ecclesiastici che furono anche per il giovanetto. La nomina a cardinale di questa Scimmia sollevò critiche molto dure in tutti i Paesi cattolici. Appena 5 anni dopo dell’oscenità detta, lo storico dell’Olanda spagnola che partecipò al Concilio di Trento e ne documentò la storia, Johann Sleidan, nei suoi Commentarii, ò vero historie scrisse:

Papa Giulio nel tempo ch’era Legato [rappresentante del papa] in Bologna haveva appresso di sé un certo giovanetto per nome Innocentio: il qual lo fece Cardinale contra ‘l volere & opinion di tutti; e di nuovo [oltre a ciò] lo ricevè per suo famigliare [lo adottò], e gli dette ‘l suo cognome e le sue insegne.

In Roma si diceva, e fu ancora scritto in alcuni cartelli, che Giove intratteneva Ganimede, ancor che brutto [nonostante fosse indecente].

In oltre il Papa stesso non ricopriva [nascondeva] questo à gli altri Cardinali: e si dice che à le volte per motteggio [per scherzare] raccontava quanto quel giovanetto fusse lascivo & importuno.

Mentre ch’erano nel Conclave furono prese [intercettate] certe lettere, che si diceva, che l’haveva scritte à XXVI. de Gennaro un certo Camillo Oliva, famigliare [servitore] del Cardinal di Mantova, ad Annibal Contino suo amico: ne le quali lettere si ritrovò un Sonetto in lingua volgare; nel quale parlando de la sua affettione e del desiderio, che havea di lui; usava parole tanto disho<ne>ste, che non si potrebbono raccontare [non si potrebbero riferire] senza sceleratezza.

Di quì ne venne il motto [la battuta] di quelli, che dicevano, che cio significava che doveva essere qualche Papa infame, che uscirebbe del Conclave, d’onde sono uscite simili lettere [era un presagio del fatto che sarebbe uscito un papa infame, da un conclave da cui erano già uscite simili lettere].

E non solo in ambito ecclesiastico ma anche in quello delle varie corti europee montò l’indignazione e la squalifica vergognosa del Vaticano:

[La nomina] destò scandalo in tutta Roma. Non mancò chi disse, e la voce fu accolta da tutta la città, che il papa aveva voluto creare cardinale il suo amante. (…)

L’ambasciatore veneto Matteo Dandolo scriveva che il Dal Monte “era un piccolo furfantello“, e che il cardinal Del Monte “se lo prese in camera e nel proprio letto, come se gli fosse stato figliuolo o nipote”(…) [P. Messina in Dizionario biografico degli italiani, che cita da: Matteo Dandolo, Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato 16/3/1550].  

Onofrio Panvinio [De vita Iulii III ante pontificatum,1557], riferendosi alla vicenda del Del Monte, scriveva di Giulio III che era “nimie vitae luxuriae et libidinibus intemperanter deditus” [eccessivamente dedito con intemperanza alla vita di lussuria e alle libidini](…) e, ancora più esplicitamente, lo definì “puerorum amoribus implicitus” [invischiato in amori per ragazzini]Tutte le citazioni provengono da Dall’Orto).

Per parte sua il cardinale Innocenzo del Monte fu coinvolto in una catena di stupri, violenze ed omicidii da degno delinquente qual era.

Lasciamo questo degno Papa e passiamo al suo successore, Marcello II, che fu un degno Papa perché fece ciò che tutti i Papi dovrebbero fare: morire subito. Infatti egli durò l’eternità di 20 giorni.

          Poi venne Paolo IV (1555-1559), Giovanni Pietro Carafa della famiglia Carafa di Avellino, tra i fondatori dell’Inquisizione Romana del quale i romani dicevano che se sua madre avesse previsto il suo futuro lo avrebbe strangolato nella culla. Chi non conosce il nome Carafa non può capire il ribrezzo che fa a chi scrive, repulsione che vorrei condividere con il lettore. Poiché un Carafa sembrava poco, questo Papa pensò bene, tra lo smodato nepotismo, di elevare suo nipote (?), Carlo Carafa, uno sregolato capitano di ventura che seguì per 17 anni la carriera militare, spregiudicato e di malaffare, alla porpora cardinalizia (arcivescovato di Napoli, una sorta di feudo ereditario stabile per i Carafa) e di passarlo poi a Segretario di Stato del Vaticano. Per poter agire così con un vero bandito di strada, Paolo IV dovette prima ssolverlo dai suoi peccati e ciò fece con un motu proprio in cui si diceva che l’angioletto era assolto per ogni sorta di rapine, sacrilegi, furti, depredazioni, ferimenti, mutilazioni di membra, percosse, omicidi e qualunque altro delitto anche maggiore dei nominati che ha potuto commettere. Tanto sarà commosso il Carlo che abuserà di sodomia, pedofilia, assassinio, legandosi addirittura ai modi di operare della camorra. Ma di questo campione dirò più oltre. Giovanni Pietro Carafa, lo zio o padre di tale campione, fece carriera soprattutto attraverso il suo lavoro meticoloso e criminale da inquisitore che con il suo lavoro al Sant’Uffizio seppe ricattare e selezionare ogni chierico dai più bassi ai più alti gradi. Il suo lavoro fu di spia, di creatore di dossier sulle più segrete attività e passioni di ogni chierico, vescovi e cardinali inclusi. Con la nuova arma da usare contro i supposti avversari: l’essere simpatizzanti della Riforma luterana. In tal modo si selezionavano tutte le persone che in seguito gli sarebbero state utili per accedere al soglio pontifico. Un esempio fu l’inchiesta aperta nel 1552 e la successiva messa a processo inquisitorio (1557-1559) del cardinale Giovanni Morone, persona che cercava una riconciliazione con gli scismatici luterani, per simpatie verso Lutero. Il poveretto fu incarcerato e dovette passare due lunghi anni sotto processo prima di essere assolto da ogni accusa.

          Appena eletto Papa con i metodi accennati, il Carafa si scatenò in lussi, riti pieni di sfarzo, di ori e di argenti. Ma l’infame giustificava tutto ciò affermando che faceva il sacrificio di questi lussi solo per impressionare i sovrani in visita che dovevano avere timore della Chiesa ed ascoltarlo restando incantati ed in ginocchio. Grato all’Inquisizione che lo aveva portato tanto in alto, la potenziò a livelli di crimine industriale facendola diventare il vero governo della Chiesa, un governo che amava i roghi, le torture, il sangue e, tra l’altro, odiava gli ebrei, gli assassini di Gesù, che fece rinchiudere nel Ghetto da lui istituito nel 1555, da oculato anticipatore delle leggi razziali. Pensava il criminale che il modo più corretto di combattere i protestanti era ucciderli: Gli eretici vanno trattati da eretici, sosteneva. Ed aggiungeva all’ambasciatore di Venezia: Se si appartano, si abbrugiano, si consumano li lochi et robbe appestate, perché non si dee, con l’istessa severità, estirpar, annichilar et allontanar l’heresia, morbo dell’anima che val senza comparatione più del corpo ?  Nello stesso anno il figlio-nipote Carlo Carafa fu fatto cardinale con incarichi politici che pregiudicarono non solo la Chiesa ma l’Italia intera iniziando guerre, inimicandosi l’Impero e con esso gli spagnoli per schierarsi con i francesi e provocando la completa rottura con gli inglesi. L’altro Carafa figlio-nipote, Giovanni, fu nominaato Capitano generale della Chiesa. Mentre l’ultimo, il giovane Antonio venne chiamato alla corte pontificia all’età di 15 anni, col titolo di cameriere segreto (nel 1557 diventerà coppiere e nel 1558 canonico di San Pietro); qui Antonio si legò in modo particolare al parente Alfonso Carafa, prediletto di Paolo IV, elevato alla porpora cardinalizia nel 1557 (aveva 17 anni) e riempito di incarichi e rendite. Il fine del lurido Carlo Carafa era quello di ottenere per i Carafa una signoria in terre toscane della Chiesa. Un vero disastro che mise la Chiesa alla berlina più di quanto non lo fosse. E mentre il presunto austero Papa blaterava di riformare i costumi, tollerava quelli osceni di suo figlio-nipote. Solo nel 1558 il Papa sembrò accorgersi delle vergogne della sua famiglia a seguito di una lettera del 1558 di Charles de Guise, cardinale di Lorena, fatta recapitare dall’ambasciatore di Francia. In essa si parlava dello scandalo che i nipoti (oltre a Carlo anche Giovanni) del Papa davano tanto che chi tornava da Roma era sconvolto da ciò che aveva visto e sentito anche in relazione alla sodomia degli stretti parenti del Papa. Leggiamo un passo della lettera, che riprendo da Dell’Orto, con le denunce del cardinale di Lorena:

la cosa peggiore che vedevo era una mormorazione e una fama pubblica tanto divulgata che l’aria e tutti gli elementi ne erano infettati per ciò che si diceva che si fa a Roma durante questo pontificato; ed avendo su questo voluto esaminare ed ascoltare privatamente i personaggi autorevoli che sono tornati dall’Italia (…) oltre alla voce pubblica da quelli che sono stati a Roma (…) ho notato che si sentivano scandalizzati d’avere visto e saputo manifestamente ciò che si era presentato ai loro occhi. (…)

 Ed oltre ai principali erano nominati pubblicamente con mio assai gran dispiacere coloro che erano più vicini per consanguineità al nostro Santo Padre il papa, non risparmiando (…)quel peccato così abominevole nel quale non esiste più distinzione fra sesso maschile e femminile.

E Carlo Carafa non era il solo a praticare tali oscenità, suoi complici erano:

il vescovo d’Osimo e quello di Calvi, persone abhorrite dal papa, riputate da lui instromenti di tutte le dissolutezze e fragilità della carne, delle quali era il cardinale incolpato.

E magari Carlo si fosse limitato alla sodomia. Anche le donne, soprattutto se giovani e maritate gli piacevano. Lo apprendiamo da un Avviso di Roma del 20 giugno 1558:

«Si è detto questa mattina che il cardinal Carafa havendo havuto a
che fare con una gentildonna di casa Massimi et datole anche luogo che se
ne sia fuggita per sua causa et che havendolo saputo li familiari della donna,
hanno assaltato in strada il Cardinale essendo solo in suo cocchio per darli
delle pugnalate, non so ancora se sia stato offeso».

La gentildonna era una giovane diciassettenne, Plautilla, sposata con un Lante e figlia di un Massimi (padre) e di una Colonna (madre). Insomma la ragazza era imparentata con tre importanti famiglie nobili di Roma e la cosa non sarebbe passata nel dimenticatoio. A casa di Plautilla corse un fratello che trovando dei soldi accusò la sorella di aver trovato il motivo dell’adulterio (forse non si rese conto di dare a Palutilla della puttana). Di fronte al fratello che sta per pugnalarla Plautilla lo implora di attendere il ritorno del marito che spiegherà tutto. Ed il primo fratello accetta la condizione. Arriva però da Napoli un secondo fratello che, senza fare complimenti, accoltella la sorella che fortunatamente non muore. Lo scandalo monta e dentro lo scandalo vi è Carlo Carafa che viene attaccato duramente da Pasquino. Il Papa chiede consiglio ad un anziano e saggio frate del suo vecchio ordine monastico. Costui rincara la dose su Carlo parlando di orge continue con fior di puttane ed ogni libidine e lussuria.

Alle denunce del cardinale di Lorena e a quanto veniva via via a sapere da altre fonti, il Papa prima svenne e poi sembrò reagire … ma alla fine non fece nulla dando credito alle giustificazioni del figlio-nipote che accollò tutto ad un suo compagno di sodomia, Vitellozzo Vitelli, vescovo di Osimo (costui verrà cacciato dalla Segreteria di Carlo e vaticana per essere sostituito con un altro compagno di sodomia e bagordi di Carlo, Nicolò Sermoneta). E quindi il debosciato Carlo continuò con orge e bagordi, con puttane e giovanetti accompagnandosi ad un altro porco, il cardinale Ippolito Del Monte, detto Montino. Orge dietro orge finiranno in un altro scandalo con una nota e contesa puttana di Roma, Martuccia. Il nipote di Giovanni Carafa, Marcello Capece, ed il Montino si sfideranno a duello in strada con gran fragore di spade e con intervento della polizia papale che arresterà tutti. Saranno poi liberati (come faremmo a capire cosa accade oggi senza questi elevati insegnamenti della Chiesa ?) ma un cardinale si rivolgerà al Papa denunciando i continui scandali che affossavano la reputazione della Chiesa. Altre denunce arriveranno al Papa che, finalmente, esilierà i suoi nipoti da Roma nelle loro ricche e floride tenute mentre egli dedicherà molto tempo a spruzzare acqua santa negli appartamenti che occupavano in Vaticano mentre condannava al rogo maghi e fattucchiere.

Altre malefatte però seguiranno. Giovanni Carafa venne a sapere di essere cornuto. Sua moglie Violante, la duchessa di Paliano, avrebbe fornicato con suo nipote, Marcello Capece.  La cosa non è vera perché Marcello è solo un amico che fa compagnia alla giovane sposa lasciata quasi sempre sola nel suo castello, ma sotto l’intimazione e le minacce di Giovanni, Marcello confessa un fatto inesistente con la speranza di essere perdonato. Appena ha confessato però Giovanni gli strappa la uancia con un morso e poi lo ammazza con 27 pugnalate, lo squarta disperdendo i pezzi. Ma l’altra presunta colpevole, Violante, è ancora viva e deve pagare con la morte. Le regole della camorra impongono che quel delitto sia operato dai suoi parenti e così lo zio ed il fratello di Violante, su intimazione di Carlo con accordo di Giovaanni, si incaricano di ammazzare la povera sventurata. Lo farà il fratello con un sistema simile alla garrota (un laccio intorno al collo che viene stretto sempre più mediante un pezzeto di legno fatto ruotare). Menre accadeva questo Paolo III moriva.

Alla sua morte nel 1559 Carlo e Giovanni Carafa furono banditi da Roma fu poi Pio IV nel 1561 a farli condannare a morte: Carlo fu strangolato (godeva del privilegio di essere cardinale) e Giovanni, insieme a due sue compari, fu decapitato.  Antonio cadde in disgrazia e lasciò precipitosamente Roma ma fu colpito da interdetto, privato dei suoi beni e delle sue cariche; tutto questo perché fu accusato di essere stato complice di Alfonso nel nascondere alcuni oggetti preziosi e di aver falsificato un documento che lo faceva erede dei beni di Paolo IV; dovette passare anni nascondendosi finché non ebbe il perdono di papa Pio V. Alfonso fu invece arrestato con l’accusa di furto di gioielli ed incarcerato a Castel Sant’Angelo da dove riuscì ad ottenere la libertà in cambio della promessa di restiruire il maltolto. Non riuscì a mettere insieme quanto doveva ed allora fuggì chiedendo protezione al vicerè di Napoli. Poco dopo morì giovane con sospetto di avvelenamento ordinato da Pio IV.

            Prima di chiudere questa pagina criminale debbo denunciare il massimo crimine di Paolo IV: la creazione dell’Index librorum prohibitorum (l’Indice dei libri proibiti) in cui ogni opera che una certa commissione riteneva non adatta alle povere menti dei credenti, veniva condannata e proibita con pene che potevano andare fino al rogo. E’ notevole osservare che i decreti che definivano l’Index contenevano, tra le altre cose, il divieto di stampare, leggere e possedere versioni della Bibbia (Vecchio e Nuovo Testamento) in lingua volgare senza previa autorizzazione personale e scritta del vescovo, dell’inquisitore o addirittura dell’autorità papale. Psquino seppe scrivergli un degno epitaffio:

Carafa in odio al diavolo e al cielo è qui sepolto

col putrido cadavere; lo spirto Erebo ha accolto.

Odiò la pace in terra, la prece ci contese,

ruinò la chiesa e il popolo, uomini e cielo offese;

infido amico, supplice ver l’oste a lui nefasta.

Di più vuoi tu saperne? Fu papa e tanto basta.

DONNA OLIMPIA, UNA GRANDE PAPESSA, ED INNOCENZO X

          Donna Olimpia Pamphili è una vera leggenda a Roma e merita attenzione. Ma prima un cenno lo debbo dare a Papa Sisto V (1585-1590) il ferreo ed integerrimo difensore della rettitudine, che utilizzò la forca come un giochino da ragazzi, per ruffiani, mignotte e loro madri, che confinò tutte le puttane in un luogo definito ed isolato che dettò norme stringenti per ogni laico (forca per chi portava armi) e per ogni chierico, compresi cardinali e Papi che non dovevano più nominare cardinali dei giovanetti, soprattutto se figli o nipoti. Un uomo di una coerenza infinita che, mentre dettava queste norme, elevava alla porpora cardinalizia suo nipote Alesssandro di 14 anni   dispensava favori e rendite pontificie ad ogni suo familiare. Ma quanto ho scritto è un noioso ripetere fatti che conosciamo. Anche Papa Urbano VIII (1623-1644), della potente fsamiglia Barberini, è degno di nota, se non altro per come fu bollato, insieme alla sua famiglia, da Pasquino: Quod non fecerunt Barbari, fecerunt Barberini. Purtroppo c’è molto altro ed io debbo almeno dire che questo Papa fu una bestia che creò danni infiniti alla cultura, alla scienza ed all’Italia: sotto il suo pontificato e per sua espressa volontà il Tribunale dell’Inquisizione fece abiurare Galileo, lo condannò al carcere a vita, tentò di umiliarlo fino alla sua morte. Ma è inutile insistere sulle capre che, notoriamente, non hanno storia.

          Veniamo a quanto annunciato, cioè a Donna Olimpia, che emerse con il successore di Urbano VIII, Innocenzo X (1644-1655). La storia è solo marginalmente di puttane. Qui viene fuori una donna non tanto bella ma certamente intelligente, dal forte carattere, scaltra, determinata, arrivista ed avida che si farà odiare dal popolo di Roma perché per ottenere ciò che voleva passò sopra a tutto e tutti.

          Iniziò subito, ancora giovanetta, a far capire quale forte carattere avesse e come fosse determinata in ciò che voleva. Olimpia nacque nel 1592 a Viterbo da un impiegato alla Dogana dei pascoli del Patrimonio di San Pietro, Sforza Maidalchini e da Vittoria, figlia del suo dirigente alla Dogana, Giulio Gualtieri, un nobile di medio rango di origini orvietane, discreto benestante. Sforza era vedovo di Ortensia Febei che, prima di morire, gli aveva lasciato un figlio, Andrea, nel quale aveva riposto speranze ed affetti. Dopo breve tempo riuscì a conquistare Vittoria, un buon partito, dalla quale ebbe in sequenza rapida e non troppo volentieri tre figlie, Olimpia, Ortensia e Vittoria. Le tre sorelline furono subito affidate ad un convento, quello di San Domenico, per la loro educazione anche se parlare di educazione per una ragazza in quell’epoca di Controriforma è parola troppo impegnativa. Si trattava in realtà di apprendere nozioni di vita cristiana, insegnamenti casalinghi (cucito, ricamo, cucina), di rispetto per i genitori ed il futuro marito, di essere sempre e comunque ubbidienti ai voleri degli uomini della famiglia, di mettere a tacere intelligenza, curiosità e ragione. Il fatto è che il destino segnato per una fanciulla come Olimpia, non troppo ricca e con altre due sorelle, era di finire per sempre in quel convento con un abito da suora e, per di più, convinte che quella fosse la vera strada, la più conveniente per i loro inculcati ristrettissimi orizzonti. E questo destino fu delle due sorelle di Olimpia, di Ortensia che divenne suor Orsola e di Vittoria che divenne suor Virginia. Ma, e qui inizia la sua determinazione caparbia legata ad una forte ambizione, non di Olimpia che uscì da quel convento decisa e convinta a non rimettervi più piede. Il padre era decisamente contrario a questa scelta di Olimpia ed insieme alla badessa del convento, sua zia, fecero del tutto per farla tornnare. Ma non ci fu niente da fare. Fu allora che padre, madre e zia decisero di mettere alle costole della ragazza un frate agostiniano di buona fama che doveva parlarle con dolcezza e continuità al fine di riportarla in convento. Olimpia fu molto infastidita dalle prediche del frate e scrisse al vescovo denuunciandolo di attenzioni illecite nei suoi riguardi (non si sa se la cosa fosse o meno vera). Il frate fu portato davanti al Tribunale dell’Inquisizione perché, vera o meno, quella denuncia era di una ragazza giovane, abbastanza avvenente, appena uscita dal convento e certamente ingenua, e quindi credibile. Il frate fu condannato a sei mesi di carcere, fu allontanato da Roma e gli fu impedito per il futuro di avere una qualche carica religiosa. A riprova dell’innocenza del frate vi sarà il comportamento futuro di Olimpia che evidentemente aveva un qualche rimorso. Quando avrà il potere lo ripagherà abbbondantemente di tutto ciò che aveva dovuto patire.

          Per Olimpia si poneva ora il problema del futuro perché il matrimonio era un qualcosa che aveva uno stretto legame con le disponibilità economiche di una dote e, data la situazione che lei stessa aveva creato, con i genitori indispettiti, la speranza di disporre di una importante dote era esclusa. Inoltre le mire di Olimpia erano per un qualcuno che fosse chiaramente benestante. Fortuna che i genitori fecero buon viso a cattiva sorte e decisero di aiutare la figlia per il miglior matrimonio compatibile con le loro finanze. Le ricerche si concentrarono su un giovane ricco proprietario terriero e di due palazzi a Viterbo, Paolo Nini, ultimo rampollo della sua famiglia che sposò Olimpia, con solo 13 mila scudi di dote, il 28 settembre 1608, quando la giovane aveva 16 anni ed era, a seconda   delle opinioni, di ragguardevole bellezza oppure non bella ma bionda e snella, piacevole, vivacissima e sempre sorridente. Ma il pregio maggiore di tale marito era la sua parentela, sembra fratello di un alto prelato della Chiesa del quale sappiamo solo che si chiamava Nino, e la cosa era importantissima per qualsiasi ambizione si avesse di arricchirsi e/o fare carriera.

            Paolo Nitti morì il 6 giugno 1611, dopo solo tre anni di matrimonio, lasciando Olimpia vedova ma in condizioni economiche agiate. Meno di un anno dopo morì anche il figlio Nino che aveva avuto con Paolo, al quale era stato dato il nome dello zio vescovo. A venti anni Olimpia era di nuovo sola e perfettamente in grado di affrontare un nuovo matrimonio. Ora poi la sua condizione di ricca giovane vedova rendeva più attenta la sua famiglia nei suoi riguardi ed infatti si interessò del futuro di Olimpia lo zio materno Paolo Gualtieri, anch’egli funzionario del Vaticano in qualità di Tesoriere provinciale del Patrimonio. E qui si salda una seconda fortunata eventualità per Olimpia perché suo zio si era sposato con una donna della famiglia Pamphili, Antonia, che era la sorella di Giovanni Battista Pamphili (nato nel 1572) che, all’epoca, dopo essersi laureato in giurisprudenza, era dal 1601 Avvocato concistoriale, dal 1604 Uditore della Sacra Rota e Canonico della Sacra Penitenzieria Apostolica (con Papa Clemente VIII), cioè in piena ascesa in cariche di prestigio nella Chiesa ed a tutto questo l’aveva avviato lo zio di Antonia, fatto cardinale nel 1604 (e morto nel 1610 quando era Cardinale Vicario di Roma), Girolamo Pamphili. Altro fratello di Antonia, e quindi di Giovanni Battista, era il marchese Pamphilio che nel 1512 aveva 49 anni. I due fratelli, Pamphilio e Giovanni Battista, vivevano a Roma in un palazzotto di Piazza Navona restaurato ed arricchito dallo zio cardinale che ne era il proprietario. Da quando il cardinale era morto erano finite le molteplici e laute rendite ed i due nipoti misuravano una costante decadenza, appena attenuata dal lavoro di avvocato di Giovanni Battista, che si sommava a quella del palazzotto in cui continuavano ad abitare. Questa non più floridissima situazione economica fu la causa che spinse il cognato, Paolo Gualtieri, a pensare e favorire il matrimonio di Pamphilio con Olimpia, matrimonio che avvenne sul finire del 1612 con una reciproca convenienza e con circa 30 anni di differenza tra i due. In particolare Olimpia entrava in una famiglia potenzialmente importante di Roma e non più della provincia, famiglia nobile che aveva avuto un cardinale importante e che aveva un prelato come Giovanni Battista con un promettente avvenire in Curia. Anche il padre di Olimpia convenne sugli eccellenti risultati conseguiti dalla caprbietà della figlia e, questa volta, stava per concedere una dote molto più abbondante alla quale però Olimpia rinunciò per una questione di orgoglio: per del denaro, per garantire il massimo al figlio di primo letto Andrea, suo padre l’avrebbe costretta ad una miserabile vita in convento.

          Nella famiglia Pamphili mancava una donna abile ed intelligente come Olimpia che gestisse la casa di Piazza Navona, che intessesse rapporti sociali, che fungesse da consigliera per l’ambizioso ma non troppo politicamente abile prelato Giovanni Battista. Ben presto accadde che Olimpia e Giovanni Battista passassero insieme molto più tempo di quanto Olimpia non ne passasse con il marito. Neppure il letto sembra che attirasse Pamphilio tanto è vero che una figlia con Olimpia, Maria Flaminia, detta Mariuccia, nacque solo nel 1619. Pamphilio era richiamato da innumerevoli occupazioni e Giovanni Battista sopperiva alla noia di Olimpia conversando con lei, intrattenendosi nel suo studio su vicende politiche, accompagnandola in carrozza a fare escursioni culturali per la città. Tanto ormai erano visti insieme che non poté mancare il pettegolezzo che li voleeva amanti più che amici e confidenti. In ogni caso, qualunque fossero le intenzioni oltreché i desideri di lui, sembra che Olimpia puntasse soprattutto a conoscere a fondo l’’ambiente romano nel quale ambiva crescere ancora rispetto alla sua già importante condizione. E’ poi ragionevole supporre che Olimpia avesse intravisto in suo cognato la possibilità di avanzamenti cui ambiva, l’unica al momento, insieme al denaro, visto che il marito era in altre faccende occupato. Ed allora occorreva fare la promozione del cognato, farlo conoscere di più alle famiglie che contavano, occorreva abbellire, modernizzare, arredare meglio la casa per farla diventare un salotto, un cenacolo aperto a cultura, conversazioni su temi avanzati, di interesse particolare e generale. Insomma occorreva proprio ciò che Olimpia mostrò di saper fare con somma maestria: tessere rapporti tra gente che conta e che, al momento opportuno, avrebbe potuto ricordare ed essere molto utile.

          Nel 1621 arrivò una prima carica di prestigio per Giovanni Battista da parte di Papa Gregorio XV: fu nominato Nunzio Apostolico, cioè Ambasciatore, presso il Viceregno di Napoli, un incarico che, soprattutto in quel momento, era affidato solo a persone di stretta fiducia del pontefice, persone che quasi sempre da quell’incarico passavano a diventare cardinali. Occorreva però pagare in gran parte in proprio le ingenti spese di rappresentanza (pranzi, viaggi, personale, …) che l’incarico prevedeva e questa incombenza avrebbe fatto rinunciare chiunque non avesse grosse disponibilità economiche. Non fu così per Giovanni Battista che aveva alle spalle le generose disponibilità di Olimpia che vedeva nell’operazione un vero e proprio investimento. Iniziava qui il debito di riconoscenza che legò per sempre Giovanni Battista ad Olimpia.

          Il nuovo Nunzio a Napoli vi si trasferì, oltreché con il personale al suo diretto servizio, con tutti i suoi familiari, con il fratello, Olimpia e Mariuccia. Nel 1622 nacque l’erede maschio tanto atteso, Camillo, non senza una quantità di pettegolezzi che lo volevano figlio di Giovanni Battista. Ma d’altra parte come prendersela con i pettegoli data la storia manifesta a tutti, ed in massima parte lussuriosa quando non libidinosa, se non pedofila, di prelati, vescovi, cardinali e Papi? Per altri versi, questi davvero di malaffare, Napoli era, se possibile, più corrotta di Roma. Tutto era in vendita, particolarmente le cariche pubbliche che venivano concesse solo al miglior offerente, bastava quindi pagare e non importa cosa si sapesse fare e che qualifica si avesse, si arrivava a posti importanti con la conseguenza che l’amministrazione non funzionava perché non poteva proprio farlo. Ed anche il Vaticano lo sapeva tanto è vero che mandava in quella nunziatura cardinali che non fossero ricchi in modo che potessero pagarsi tutte le spese attraverso la legale corruzione lì prevista. Commenta in proposito Alfio Cavoli:

Olimpìa, incline com’era alla grandezza, desiderosa, come sempre si mostrava di accrescere il proprio cospicuo patrimonio, apprese dalla “pedagogia” del peculato e della malversazione imperante a Napoli tutte le arti più sottili per trasformare una carica pubblica in un colossale affare privato.

Avendo una particolare vocazione per questo genere di apprendimento, e ben sapendo, del resto, come a Roma e altrove le più alte personalità clericali rubassero a man salva, trasse dalle lezioni partenopee il maggior profitto che poteva e quell’attitudine, serenamente utilizzata, all’appropriazione indebita che si manifesterà, poi, nelle forme più esose, e per certi versi intollerabili, allorché suo cognato raggiungerà il vertice della piramide ecclesiastica.

Nel 1623 si ebbe notizia della morte del Papa Gregorio XV alla quale, come sempre, seguirono disordini a Roma ai quali si accompagnavno saccheggi particolarmente ai beni del defunto pontefice. I Pamphili non si mossero da Napoli dove dopo pochi giorni ebbero notizia dell’elezione di Papa Urbano VIII, colui che, come detto, fu il persecutore di Galileo ed un Barberini, tanto basta.

          La politica di nepotismo ed arricchimento sfrenato di questo Papa fu un’altra lezione per Olimpia sul modo di utilizzarre i beni pubblici a fini privati e sulla possibilità per la Chiesa di fare e disfare qualunque cosa e la giovane donna incamerava conoscenze. E, nel periodo napoletano, Olimpia perfezionò i suoi modi di intrattenimento delle importanti personalità, si inserì in conversazioni di alto livello con nobili e loro dame mostrando sempre di essere all’altezza di ogni situazione con personalità forte e decisa.

          Nel 1626 Giovanni Battista, insieme ad Olimpia, marito e figli, fu richiamato a Roma da Urbano VIII e tornò a sistemarsi nella casa di Piazza Navona dove si svolgevano le fastose feste che la famiglia Barberini (Papa e nipoti fatti cardinali pochi giorni dopo la sua elezione, Francesco ed Antonio) organizzava per stupire tutti, suscitare timore reverenziale e mostrare di essere superiore ad ogni altra famiglia. Il fine di Urbano era affiancare una persona preparata e di grande fiducia al suo giovane ed inesperto nipote Francesco che aveva fatto cardinale ed al quale aveva assegnato una mole di incarichi importanti ed impegnativi e particolarmente quello di Prefetto del Tribunale della Signatura Apostolica. Ed infatti accompagnò Francesco nella sua importante missione di Nunzio a latere con l’incarico di Datario, cioè tesoriere, ed il chiaro compito di consigliarlo. Dopo qualche mese, ancora nel 1626, Giovanni Battista fu inviato come Nunzio Apostolico in Spagna, creando per questa invidia e rancore in Francesco costretto a tornare a Roma, dove ricevette la notizia della sua nomina a cardinale in pectore. Intanto, nel 1629, nasceva Costanza, la terza figlia di Olimpia, creando la disperazione per chi sperava il secondo maschio cche aveva già un nome, Girolamo, come l’avo cardinale. Vi era già un maschio ma ne servivano due per garantire la definitiva scesa della famiglia: infatti uno doveva essere indirizzato alla Chiesa per aavere tutti i favori che l’altro avrebbe profuso all’intera famiglia. A parte questo dramma, particolarmente sentito da Olimpia, Giovanni Battista non si dimenticava mai dei suoi cari scrivendo spesso ad Olimpia con qualche dono. Sappiamo che, da Parigi, le inviò un libbricino di preghiere credendo di appagarla nel suo spirito che credeva relligioso. Ma Olimpia non gradì poiché sperava in qualcosa di più consistenete e se ne lamentò con il marito. Ingenuamente Pamphilio scrisse a suo fratello delle delusione di Olimpia e costui rimediò subito inviandole un altro regalo, due anelli, questa volta di valore.  

          Nel 1630 Giovanni Battista tornò a Roma dove nel luglio ebbe da Urbano VIII la porpora cardinalizia con l’esultanza comprensibile di Olimpia che iniziava ad intravedere la strada verso il successo ed il benessere assoluto. Al cardinalato si accopiava poi il ritorno a Roma del Nunzio in Spagna, in uno dei Paesi più ricchi d’Europa grazie alle rapine d’oro ed argento fatte nelle Americhe. Come ricorda Alfio Cavoli, il ritorno da una nunziatura era sempre per il prelato un evento in cui il denaro correva a fiumi. Il nunzio da un Paese qualunque, figuriamoci dalla Spagna, si portaavaa dietro miloni di monete d’oro, tonnellate d’oro ed ogni pensabile bene obile (quadri, statue, anfore, …) e tutti questi beni passavano alla dogana senza controlli perché così si usava con gli ambasciatori ed alti prelati. Quindi tutto esentasse versato a casa Pamphili a Roma con Olimpia che iniziava a vedere i profitti dei suoininvestimenti su Giovaanni Battista.

          Ed Olimpia continuava ad essere lungimirante e ad investire: occorreva un qualche evento clamoroso per far sapere a Roma che il suo cardinale era tornato e che contava molto nella città. Organizzò quaindi una cavalcata fastosa per le vie della città, cavalcata che fece dimenticare per un poco ai romani la paura serpeggiante per la peste che dal Nord marciava verso Roma.

          Un poco per questa messa stto i riflettori ed un poco per il prestigio che accompagnava il nuovo cardinale, furono molti li incarichi pubblici che ebbe ed ognuno di essi portava soldi in quantità, denari che Olimpia sapeva ben amministrare. Troppo lungo sarebbe elencare tutti gli incarichi che ebbe ma alcuni debbono essere ricordati: Prefetto della Congregazione del Concilio (doveva elaborare la giurisprudenza che seguiva le decisioni del Concilio di Trento), Prefetto della Congregazione delle Immunità (per dirimere problemi di proprietà in ambito ecclesiastico), Segretario del Sant’Uffizio, Protettore del Regno di Polonia, Consigliere privilegiato del cardinale Francesco Barberini sugli affari di Spagna, associato alla Congregazione di Propaganda fide, … I molti denari accumulati vennero investiti in proprietà terriere ed immobiliari con Olimpia che si sentiva sempre più importante, sempre più di una altro mondo risppetto a tutti gli altri, con una condizione che le avrebbe permesso di fare qualunque cosa senza preoccuparsi di nulla.

          Nel 1639 morì a settantasei anni Pamhilio lasciando Olimpia di quarantasette con Giovanni Battista di modo che il legame tra i due si strinse di più.  Anche qui le malelingue ebbero molto da discutere a cominciare dal presunto avvelenamento del marito per poter essere più libera con il cognato. D’altra parte si diceva che non poteva da alcuno immaginarsi che una donna come la cognata, di corpo non trascurabile, di faccia bella, viva e rilucente, si desse ad amare un uomo più difforme di volto che fosse mai nato tea gli uomini. Al di là dei pettegolezzi, ciò che accadde per certo fu l’impadronirsi completo di Olimpia della casa di Piazza Navona con una sorta di despotismo esercitato sul cardinale che però ne era contento perché la cognata aveva grandi abilità nell’amministrare, nell’intrattenere e nell’organizzare con ingegno ed inventiva in grado di stupire gli ospiti e di far intendere loro daa che parte stava il potere e la ricchezza. Ma Olimpia non riposava mai ed in quel periodo era indaffaratissima a trovare un marito per la sua primogenita Maria che aveva già 20 anni. La scelta fu fatta nella persona di un giovane con buona fama anche se non troppo ricco, Andrea (nipote di un banchiere e di un prelato che il futuro Papa Pamphili farà cardinale nel 1645) di una importantissima e rinomata famiglia in ascesa sociale, i marchesi Giustiniani, ed il matrimonio tra i due, che si erano sposati per amore al di là degli interessi, fu celebrato nel 1640 con piena soddisfazione di Olimpia per il futuro assicurato alla primogenita. Appena un anno dopo nacque una figlia che, al solito, non era proprio ciò che ci si augurava e che fu chiamata Olimpia, che divenne colloquialmente Olimpiuccia (e due anni dopo moriva Galileo Galilei senza che nessuno di questi debosciati dicesse una sola parola). La nonna fu felicissima tanto che la prese con sé per educarla fin da piccola lasciando che i genitori andassero a vivere a Palazzo Giustiniani. Iniziò quindi a dedicare a lei ogni attenzione, come aveva fatto e faceva con il cardinale, distogliendola dall’altro figlio, Camillo. Inutile dire che Olimpia plagiò Olimpiuccia inculcandole l’idea che non vi era altro valore che il denaro con il quale si poteva comprare tutto. Ed addirittura a soli 12 anni la offrì sposa al più ricco romano dell’epoca, il principe di Palestrina, Maffeo Brberini pronipote di Urbano VIII e figlio di un Barberini ed una Colonna. Da questo momento Olimpia entrò nell’odio popolare che riuscì a far estendere all’intera famiglia Pamphili. Fu disprezzata ed insultata per il suo modo disumano di trattare una bambina ed il suo nome passò da Pimpa a quello dispregiativo di Pimpaccia di Piazza Navona coniato da Pasquino. Appena sposa (1653) la bambina scappò spaventata nella casa di Piazza Navona anziché recarsi nel Palazzo Barberini di Via Quattro fiontane. Si nascose e non volle uscire per oltre 5 mesi quando fu la madre a prenderla e letteralmente trascinarla tra le braccia del marito.

          Riprendendo il filo del discorso lasciato, Urbano VIII tirò finalmente le cuoia nel 1644, ed il finalmente è relativo a tutti i cardinali speranzosi di succedergli. Ma, soprattutto, di tutti i cittadini e sudditi che non sopportavano proprio più potere, nepotismo, spocchia, tasse, prepotenze e crudeltà inquisitoriali dei Barberini tanto che, all’annuncio della morte, vi fu uno scatenarsi di violenze, devastazioni e saccheggi a Roma, contro tutto ciò che portasse il segno di Barberini così importante che non se ne conservava memoria recente.

          A tutto questo non pensava Olimpia, tutta presa dal mettere in piedi la strategia che avrebbe dovuto portare al pontificato suo cognato Giovanni Battista. Contro di lui vi erano inimicizie e rancori, soprattutto da parte del cardinale camerlengo Antonio Barberini, nipote del defunto Papa, per le differenti posizioni politiche. I più ritenevano che la sua preparazione in diritto avrebbe contrastato con le aperture culturali nelle lettere che quasi tutti avevano. Olimpia aveva però capito il nocciolo del problema e si adoperò per far sapere ai Barberini che non sarebbero stai perseguiti per tutti i furti e le ruberie garantendo ciò con il matrimonio di suo figlio Camillo con la figlia Lucrezia di Taddeo Barberini (padre anche di Maffeo che sposerà Olimpiuccia). Inoltre si adoperò in modo sotterraneo per promettere benefici e prebende in denaro. Certamente il suo operato influì sull’elezione di Giovanni Battista Pamphili a Papa con il nome di Innocenzo X, elezione che avvenne nel settembre 1644, un mese e mezzo dopo l’apertura del conclave mediante il decisivo sostegno dei Barberini che tradivano così la loro politica filofrancese. Olimpia si sentì subito Papessa, ormai ogni sua aspirazione di successo era al culmine, restando ancora fuori l’arricchimento sfrenato. La gioia all’annuncio fu tale che aprì le porte della sua casa a Piazza Navona permettendo l’ingresso del popolo che fu autorizzato a fare man bassa di ogni cosa potesse arraffare. Ed una cosa del genere pensata da Olimpia mostra quanto fosse felice e quanto sperava di riprendere perché la sua tirchieria era diventata ormai leggendaria. Ormai Olimpia, che da ora sarà popolarmente la Pimpa o la Pimpaccia, era salita addirittura più in alto del Papa perché su quel Papa aveva autorità e sapeva di poterlo guidare a piacimento. Come scrive Alfio Cavoli, Olimpia era ora nella condizione di “guardare il mondo e gli uomini – sia i potenti, sia gli umili – dal sommo di una superbia e di una arroganza che, da quel momento, nessun argine etico, civile, religioso, sarebbe stato in grado di contenere”. Ed ella entrò subito in Vaticano per far sapere chi era e come doveva essere rispettata e tenuta in considerazione. Si infilò dovunque, volle sapere tutto, si occupò del cognato Papa dando ordini sulla cucina, sui suoi gusti, su come doveva essere rifatto il letto, su quali fiori sistemare, su cosa mettere e cosa togliere negli arredi privati. Insomma era diventata in breve tempo la padrona di casa, con il piccolo inconveniente che quella non era una casa ma il Vaticano. E si ebbe subito pubblico sentore del potere di questa donna quando il corteo papale che seguì l’elezione fu fatto deviare in modo di passare sotto palazzo Pamphili in Piazza Navona, al fine di permettere al novello Papa di dare la benedizione alla cara Olimpiuccia che lo salutava affacciataa alla finestra.

          Del potere di Olimpia su Innocenzo non si erano accorti solo a Roma ma anche tutti gli ambasciatori che ne fecero relazioni ai loro ssovrani. Tutti capirono che occorreva passare da lei per ottenere qualunque cosa e fu così che tutti i sovrani inviarono doni a questa Papessa, doni di valore veramente inestimabile. Poiché il Papa era notoriamente un filospagnolo, la ricca Spagna non poteva esimersi dall’essere la più munifica ed i sovrani di questo Paese inviarono a Palazzo Pamphili, come dono ad Olimpia, cinquanta quintali (sic!) di oggetti preziosi in argento. Altri sovrani inviarono altri doni, non così impressionanti, ma certamente tutti di enorme valore. Il potere di questa donna diverrà enorme (mostruoso come dirà qualcuno). Un Maschio vestito da Donna per la città di Roma, ed una Donna vestita da Maschio per la Chiesa Romana come leggiamo in un manoscritto vaticano (il 9720). E da qui a poco tutti i funzionari pubblici esposero vicino ai loro tavoli da lavoro l’immagine della Pimpa più sepsso che quella del Papa.

          Ma veniamo ai primi atti di governo di Innocenzo. La prima cosa che fece, immediatamente dopo l’elezione, fu stilare un testamento in cui faceva erede universale di tutti i suoi beni Olimpia Maidalchini Pamphili. Nel mese di novembre Olimpia realizzò, con il sostegno silente ma operoso del Papa, l’altro matrimonio che le stava a cuore, quello della figlia terzogenita e diciassettenne Costanza con una delle persone con più titoli tra i nobili romani, il trentunenne principe Niccolò Ludovisi, nipote di Gregorio XV e già vedovo due volte ma senza figli.  Sempre nello stesso novembre il Papa cognato elevò alla porpora cardinalizia il ventiduenne Camillo, secondogenito di Olimpia, senza che fosse passato attraverso il sacerdozio. Su questo la madre non fu d’accordo ma non con il cognato bensì con il figlio che avrebbe voluto sposo di Lucrezia Barberini. Fu Camillo a non volere e la cosa fu facilitata da ragioni di opportunità politica in un momento in cui da più parti si chiedeva la messa in stato d’accusa per illeciti arricchimenti la famiglia Barberini. Nello stesso frangente assegnò ogni carica possibile a tutti i generi di Olimpia ed in particolare tutte le cariche militari disponibili. Al marito di Mariuccia, Andrea Giustinianì, padre di Olimpiuccia, concesse il titolo di principe di Bassano e assegnò l’incarico onorifico di castellano di Castel Sant’Angelo.

          Quando Olimpia seppe che alla Segreteria di Stato era stato nominato un fedele e fidato amico di Innocenzo, il cardinale Gian Giacomo Pancirolo, Olimpia si infuriò perché pretendeva quella carica per Camillo. Ma, anche se tutti sapevano che Camillo era incapace, incompetente ed inaffidabile, il Papa lo nominò comunque Cardinale Nipote (che in passato era sempre stata una nomina che portava automaticamente alla Segreteria di Stato) con il compito di occuparsi dei generici affari maggiori, in pratica Soprintendente dello Stato Pontificio (ed è inutile dire che di tali affari si occuperà la madre). Nel 1645 il caro Papa cognato cedette ad Olimpia tutte le terre appartenute alla ormai chiusa abbazia cistercense di San Martino al Cimino, con ogni pertinenza ed edificio aggiungendo il titolo di Principessa di San Martino al Cimino e di Feudataria di Montecalvello, Grotte Santo Stefano e Vallebona. Inoltre le assegnò una rilevante pensione mensile.

          Dal punto di vista politico Innocenzo e Olimpia furono da subito occupati con i gravi problemi di rapporti con la Francia, il cui Primo Ministro era il cardinale Mazzarino (già al servizio del cardinale Antonio Barberini e fatto cardinale daa Urbano VIII Barberini) e, quelli connessi, con la famiglia Barberini. All’inizio si tergiversò sul mettere in stato d’accusa i Barberini proprio per non dispiacere la Francia che invece era legata a questi filofrancesi ma finalmente, a partire dalla primavera del 1645, dopo aver rifiutato la nomina a cardinale di Michele fratello di Mazzarino, si iniziano una serie di azioni contro i Barberini che cercheranno rifugio in Francia temendo la galera (Antonio, già anziano, morì per l’apprensione dovuta a questi eventi). Si tolse ai Barberini il privilegio di non avere coontrolli finanziari, si fecero delle perquisizioni nei loro palazzi. Preso atto con profondo dispiacere della fuga dei cardinali all’estero, Innocenzo emise (febbraio 1646) un breve in cui decretò il sequestro dei beni di tutti i cardinali che si fossro allontanati dala loro sede senza autorizzazione del pontefice. Furono controllati tutti i documenti di spesa da una Commissione che trovò gravi irregolarità, tali da autorizzare sequestri dei depositi bancari dei Barberini. A questo punto fuggirono anche i Barberini non ecclesiastici come Taddeo, il marito di Anna Colonna e padre di Lucrezia con cui si sarebbe dovuto celebrare il matrimonio auspicato da Olimpia con Camillo. Questa fuga fu intesa come ammissione di colpevolezza e si passò quindi ad estromettere i Barberini da ogni incarico ricoperto, a sequestrare i loro beni e palazzi. La moglie di addeo, Anna, rimasta in Italia, riuscì aa salvagguardare i suoi beni e queli di Taddeo. Fu a questo punto che intervennero le diplomazie segrete. Mazzarino aveva capito che la strada migliore per intervenire sul Papa era farlo attraverso Olimpia e la sua brama di arricchimento. Con lei, nel giugno 1653, si arrivò ad organizzare quel matrimonio di cui ho già parlato, quello tra la bambina Olimpiuccia con Maffeo Barberini, altro figlio di Taddeo ed Anna Colonna. Questo matrimonio fece il miracolo (gennaio 1654) di estinguere debiti e colpe dei Barberini i quali potranno tornare in Italia tranquillamente ed ai quali saranno restitutiti tutti i loro beni mobili ed immobili. Naturalmente Olimpia era estremamente soddisfatta: il sacrificio della sua nipotina era valso tutto questo che le aveva dato altre ricchezze, altro prestigio ed altro potere.

          Per seguire questa storia ne ho lasciata indietro un’altra, quella del debosciato figlio Camillo. Costui si era andato arricchendo con le ricche rendite che gli derivavano dai molteplici incarichi avuti dopo la nomina a cardinale e non aveva mai mostrato interesse nel portare avanti almeno degnamente la sua alta carica, piuttosto passava il tempo in ozi e divertimenti di vario genere. La sua incapacità in tutto ciò che fosse imoegno o almeno desiderio di apprendere lo fece spesso sgridare dal Papa zio. Con il tempo egli stesso si rese conto di non poter continuare così e, soprattutto perché attratto dal fascino prorompente di una ricca, colta e nobile vedova, pensò di lasciare la carrriera di ecclesiastico. Questa donna richiamava l’attenzione per le sue doti intellettuali e quelle di Camillo perché si chiamava Olimpia Aldobrandini, figlia di Giovanni Giorgio (nipote del cardinale Ippolito a sua volta pronipote di papa Clemente VIII) ed Ippolita Ludovisi e principessa di Rossano. Aveva 23 anni, si era sposata nel 1638 (un anno dopo la morte del padre e poco dopo la morte del cardinale) ed era restata vedova nel 1647 del principe Paolo Borghese di un anno più giovane di lei con il quale aveva avuto 5 figli (Giovanni Giorgio, Francesco e Camillo che morirono in fasce, Giovanni Battista e Maria Virginia). Ma, soprattutto, era ricchissima e con parenti molto influenti tra i quali il cugino Ranuccio II Farnese, duca di Parma. Vi era poi il testamento del cardinale Ippolito su eredii futuri (testamento fedecommesso) che assegnava al secondogenito di Olimpia tutti i suoi beni ed il nome del casato. Poiché gli altri figli maschi di Olimpia erano morti appena nati, se ora fosse venuto un maschio sarebbe stato secomdogenito e quindi erede delle ingenti fortune del cardinale Ippolito. Camillo, degno figlio di tanta madre, era eccitato da questa prospettiva. Innocenzo ed Olimpia furono all’inizio ccontrariati dall’abbandono della porpora ma poi fecero bene i loro conti e cpirono che forse quella del matrimonio era la migliore strada per l’inutile Camillo tanto più che quel matrimonio li avrebbe imparentati con una delle più prestigiose famiglie d’Italia con prospettive di aumenti vertiginosi di ricchezza. Olimpia aveva qualche remora legata al suo ruolo che, con una donna con quella bellezza e quella capacità, che entrava in famiglia vi era il rischio la soppiantasse. Innocenzo pensava invece alla difficoltà che gli creava il far decadere Camillo da cardinale perché in Vaticano si sarebbe trovato solo senza un oarente a fianco che in qualche modo gli guardasse le spalle. I dubbi comunque furono fugati dalla ferma volontà di Camillo. Nel gennaio 1647 Innocenzo tolse il cardinalato al nipote che poté così, subito dopo, sposare Olimpia Borghese. Alle nozze non parteciparono né lo zio né la madre e dopo la cerimonia gli sposi si recarono per il viaggio di nozze e per la residenza a Villa Aldobrandini a Frascati, poiché il Papa li aveva voluti lontani da Roma per prevenire qualunque pettegolezzo e, soprattutto, qualunque litigio tra suocera e nuora.

          Il problema che aveva il Papa, di poter disporre di un suo familiare alla corte pontificia fu poi risolto da Olimpia che propose (leggasi: impose) il figlio Francesco del suo fratellastro Andrea, figlio di primo letto di suo padre Sforza Maidalchini, a cui andavano tutte le sue attenzioni. Fu così che il diciassettenne Francesco ebbe la porpora cardinalizia e fu subito elevato a rango di cardinale nipote. Dietro questa nomina vi erano i raffinati calcoli di Olimpia. Avrebbe certamente lei preso il posto di cardinale nipote ma ciò appariva davvero impossibile. La nomina di suo nipote, un giovanetto di 17 anni più imbecille che brutto e sgraziato, che avvenne nell’ottobre del 1647, sgomberava il campo da qualunque insinuazione e cattiveria riuscendo aanche a rispondere agli scopi di Olimpia: la giovinezza e l’ingenuità del fanciullo rendevano lei la vera cardinale nipote che era in realtà la vera Papessa. Nello stesso concistoro il Papa iniziò un avvicinamento alla Francia nominando cardinale anche Michele, il fratello del cardinale Mazzarino noto come frate scemo, il quale era da molto tempo che inviava costosi doni alla Papessa. Con la nomina di Francesco da parte di Innocenzo e con il divieto fattogli da Olimpia di risiedere nel palazzo apostolico, il Vaticano ed i suoi uffici si erano ormai trasferiti a Piazza Navona dove tutti i postulanti, ambasciatori e prelati si recavano per fare una qualche supplica, per essere ricevuti dal Papa, per avanzare lamentele, per trattare affari, … E con il passare el tempo questa consuetudine iniziò a provocare malumori e dicerie sempre più malevole dalle quali la reputazione del Papa risultava fortemente danneggiata. Ma Olimpia non faceva caso a questo sentendosi ancora onnipotente aanche per i grandiosi lavori che promosse e finanziò a Piazza Navona e nel quartiere circostante. Per sua iniziativa il Palazzo Pamphili fu ingrandito ed abbellito, la Piazza fu sistemata come oggi la conosciamo con la costruzione della chiesa di Sant’Agnese, con la realizzazione della fontana dei fiumi affidata a Bernini e della fontana del Moro(29). A ciò occorre aggiungere la costruzione di una gigantesca villa fuori Porta San Pancrazio e la sistemazione completa di San Martino al Cimino, feudo di cui era principessa (anche qui però l’avida Olimpia era riuscita a guadagnare un mare di soldi perché aveva ottenuto da Innocenzo che chi si recava a Viterbo avrebbe dovuto percorrere la strada che passava per il suo feudo e non la Cassia. Naturalmente ciò al fine di avere il pedaggio da ogni passante). Proprio alla fine di questa sistemazione, nel 1649, la Pimpa volle essere grandiosa con quella sua terra facendo trafugare una spalla della salma di Santa Francesca Romana durante la traslazione del suo corpo in Santa Maria Nuova per la sua sistmazione nell’urna scolpita da Bernini. Furono le suore del convento di Tor de’ Specchi che si accorsero del furto, ma intanto la prode Olimpia aveva sistemato la reliquia nella chiesa del suo feudo di San Martino. E cosa fece Innocenzo? Qualche tempo dopo fece dono della spalla rubata alla ladra.

          Intanto sorgevano problemi politici molto gravi almeno su due fronti: a Napoli vi fu una rivolta, quella di Masaniello, contro le infinite tasse imposte dai vicerè spagnoli, mentre tra Spagna e Portogallo nacquero profonde ostilità per la rivendicazione d’indipendenza del Portogallo dalla Spagna. Nel primo caso vi furono ambigue posizioni della Chiesa che da una parte si schierava con gli alleati spagnoli che soffocarono nel sangue la rivolta e dall’altra chiudeva un occhio sugli aiuti francesi agli insorti. La disputa tra Spagna e Portogallo era invece un terreno fertilissimo di doni e di arricchimento per Olimpia che operò tentando di far accettare al Papa le rivendicazioni portoghesi che la avevano pagata profumatamente. Ma, con sua somma incredulità, per la prima volta il Papa rifiutò di accettare i suoi consigli. Ad amareggiarla ulteriormente vi fu la violazione del divieto papale al figlio Camillo ed alla nuora Olimpia di mettere piedi a Roma. La coppia si trasferì a Roma insediandosi a Palazzo Farnese (qualcuno dice con un segreto accordo con Innocenzo) violando i divieti, con la Papessa infuriata al punto di far circolare la voce che il figlio che aspettava sua nuora non era di suo figlio. Era una vera guerra con truppe schierate in un campo ed in quello avverso, e già questo rendeva furiosa la Papessa che mai si era trovata a dover contendere qualcosa con qualcuno. Vi fu una sola tregua, quando nel giugno del 1648 nacque il figlio della coppia, un maschio chiamato Giovanni Battista proprio come il Papa e quindi un erede già designato del cardinale Ippolito. Lo stesso Papa dovette dissimulare per non irritare ulteriormente Olimpia ma era molto felice di quella nascita e di quel nome dato al pargoletto. A ciò iniziò ad unire simpatia ed apprezzamento per quella sua giovane nipote acquisita, Olimpia Borghese Pamphili, e la Pimpa, che era fine osservatrice, se ne rese conto aumentando se possibile il suo rancore verso la nuora. Ma ancora era lei la Papessa e lo dimostrò in occasione del Giubileo del 1650 quando non vi fu cerimonia importante, compresa quella dell’apertura della Porta Santa, in cui non si fosse fatta trovare in primo piiano a fianco del Papa. Anche qui però vi fu occasione per lucrare a fondo. In quell’Anno Santo vennero a Roma oltre 700 mila pellegrini e l’oculata Olimpia si era procurati un numero innumerevole di alloggi che affittò mediamente per due settimane per ricavarne una fortuna. Ma quello fu appunto il suo ultimo momento di grande gloria perché era ormai invisa a troppa gente ed il cardinale Segretario di Stato, Panciroli, non la sopportava più per il suo essere estremamente invasiva su ogni, anche piccola, questione. Nel giugno 1650 il Papa revocò alla cognata la possibilità di disporre dei suoi beni ed avviò un’indagine sui suoi servitori (ciò avvniva in simultanea al ritorno di Camillo e sua moglie Olimpia a Roma). Nel settembre del 1650 poi nominò un nuovo cardinale nipote in luogo di Francesco Maidalchini che era davvero incapace di fare qualunque cosa. Anche questo era un nipote ma per vie traverse. Si trattava infatti di Camillo Astalli che era parente alla lontana della Pimpa poiché il fratello di Camillo, Tiberio, aveva sposato una delle figlie di Andrea Maidalchini che, lo ricordo, era il fratellastro della Pimpa. La Papessa era furibonda e fece una tale scenata al Papa che questi per la prima volta si inalberò e la cacciò dal sacro Palazzo imponendole la residenza nel suo feudo di San Martino. In ogni caso la Pimpa non aveva altra possibilità che ritirarsi in silenzio all’interno del suo feudo. Ma non resistette troppo perché Piazza Navona le mancava ma quel palazzo, per buon peso, il Papa lo aveva destinato ad abitazione del suo cardinale nipote Astalli il quale però capì subito che non era il caso di restare lì con quella compagnia e pensò bene di trasferisi al palazzo del Quirinale. Ma vi era uno scandalo che camminava sotterraneo e stava esplodendo per maggior discredito della Pimpa. Nel 1647 Innocenzo X, dopo aver innalzato alla porpora cardinalizia due incapaci, Francesco Maidalchini e Michele Mazzarino, nominò Francesco Canonici detto il Mascambruno sottodatario, il vice cioè del datario, una persona onesta e di grande fiducia, il cardinale Domenico Cecchini che era stato in grado di mantenere a distanza Olimpia dalle entrate che quella funzione comportava. Compito del datario era la riscossione a nome del Papa di ogni obolo, donazione o tassa a lui dovuta, e dal momento della sua nomina era vicedatario un personaggio ambiguo e losco, poi rivelatosi ladro, falsario e truffatore. La nomina era avvenuta su raccomandazione di Olimpia per aver gestito alcuni affari legati all’eredità di Andrea Giustiniani, marito di Mariuccia in modo che era stato ritenuto apprezzabile. Il personaggio, per la fiducia di cui godeva, aveva libero accesso a casa Pamphili tanto da far pensare alcuni malevoli pettegoli ad una relazione sentimentale con Olimpia. E la Papesa aveva puntato sul Mascambruno per riuscire a mettere le mani sulle entrate papali che erano molto ingenti, aveva tentato in tutti i modo di insinuare nel Papa dubbi sull’onestà del cardinale Cecchini ma il pontefice non la ascoltava. Cedette però nella nomina del sottodatario che avrebbe dovuto controllare la correttezza dell’attività del datario. Fu un altro errore di Innocenzo che metteva di fatto in dubbio l’onestà del datario con il mettergli alle calcagna un ladro al fine di smascherare un supposto ladro. Il cardinale Cecchini credette alla fiducia che il Papa dava al Mascambruno ed egli stesso non poteva far altro che assegnasrgliela. Di fatto delegò a lui la gestione della Dataria. Da questo punto cominciarono le ruberie, le truffe e la falsificazione delle bolle nel delicato ufficio che funzionava da cassa per il Papa. L’avida Olimpia che aveva fatto fuoco e fiamme contro l’onesto Cecchini, non riuscì a dire nulla contro questo bandito del Mascambruno che pure, a fronte di un modesto stipendio mensile, riusciva a mettere insieme delle vere fortune ogni anno. Sembra evidente che parte del maltolto andava nelle sue avide casse e si calcola che, in tutte le sue attività accaparratrici più o meno disoneste, abbia messo insieme, oltre ad innumerevoli proprietà immobiliari e terre, una cifra enorme in contanti che si aggirava sul milione di scudi. Finalmente nel 1652 fu scoperto per la denuncia del futuro cardinale Fabio Chigi, furono trovate oltre settanta bolle false nella sua casa (ma non si sa quante ne avesse falsificate), fu processato e condannato al taglio della testa nel cortile delle carceri di Tor di Nona. Il tutto era partito da una lettera proveniente dal Portogallo in cui si chiedevano spiegazioni su una bolla firmata da Innocenzo X in cui si autorizzava un procedimento per sodomia dal Tribunale dell’Inquisizione a cui spettava alle decisioni di un vescovo che era parente ed amico degli accusati (un omosessuale, travestito da donna si era sposato con altro omosessuale). Nel processo Mascambruno andò altezzoso denunciando per quelle frodi sia Olimpia che Francesco Maidalchini ma non ci fu nulla da fare perché non risultò nessun ordine scritto in tal senso. Ma qui sorsero differenti questioni che da una parte mettevano in dubbio le cose come apparivano e dall’altra rendevano manifesto al popolo tartassato come sempre da tasse insostenibili quanto si rubava alle sue spalle e come vivevano da nababbi i potenti. Intanto vi era la combinazione della cacciata da Roma di Olimpia proprio poco prima che questo clamoroso scandalo scoppiasse, mentre anche suo figlio Camillo si trovava nella tenuta di Valmontone in attesa che il suo palazzo fosse finito di restaurare. Cioè ambedue erano fuori Roma al momento del processo con la difficoltà di sentirli (molto eventualmente) come testimoni. Si trattava di una finta lite che serviva per non coinvolgere il Papa in quel losco traffico? Non lo sappiamo ma il dubbio resta. Sul fronte dello sperpero del denaro che i poveracci si sudavano per pagare tasse occorre dire che non vi fu mai alcun risppetto, nemmeno un qualche tentatico di nascondere le apparenze se, come racconta Alfio Cavoli, in occasione del conferimento di una delle innumerevoli cariche a Camillo, da parte di Innocenzo, costui “comparve con un abito al più sublime segno arricchito e l’arnese del cavallo tutto d’oro massiccio con più di 200 mila scudi di diamanti attorno”. Mentre venti paggi e sessanta palafrenieri circondavano le sue otto carrozze così fiammanti e ricche da declassare a barrocci quelle del patriziato romano che si era presentato a fare della propria umiliazione il rispettoso ossequio. Ed è triste, anzi proprio deprimente, osservare che a 400 anni di distanza continuiamo allo stesso modo senza quel sano sussulto che durante la Rivoluzione Francese fece oliare le ghigliottine.

          Tornando a quanto avevo lasciato, oltre agli introiti leciti e quelli illeciti, attraverso la Dataria vi era un’altra fonte di guadagno poco limpida per la Pimpa, lo sfruttamento della prostituzione che non poteva mancare in una città come Roma piena di prostitute perché piena di preti vogliosi di quelle gioie che erano loro negate ma che si potevano ottenere a pagamento. Questa attività, con alterne vicende, aveva sempre rimpinguato le casse vaticane e, visti i notevolissimi introiti che ne derivavano, non poteva mancare l’interessamento della Pimpa. Fregandosene altamente di una qualche presunta morale, Olimpia puntò ad incamerare gli incassi dei bordelli che abbondavano in città e che erano l’unica attività mai in crisi e, semmai, con prospettive di crescita. Negli anni della rivolta napoletana con la carestia che affamava la popolazione, nacque un moto di rigetto della prostituzione che allignava in ogni strada di Roma. Fu allora che Innocnzo emanò un decreto in cui la prostituzione era autorizzata solo dentro le abitazioni. E ad Olimpia venne data la possibilità di gestire questo provvedimento con il suo accertarsi che il decreto papale fosse rispettato. Le puttane erano costrette ad esporre fuori delle loro abitazioni lo stemma della Maidalchini in modo che i controllori sapessero dove dirigersi e dove, eventualmente, fosse violato il decreto. Vi fu un Avviso di Roma, reso pubblico il 30 agosto 1645, nel quale si leggeva che le prostitute compariscono in carrozza nelle solennità maggiori, perché la signora Donna Olimpia, dopo esser stata regalata dalle medesime, si è contentata di prenderle sotto la sua protezione, le ha permesso che mettano l’arme di Sua Eccellenza sopra la sua porta et le ha conceduto che vadino in carrozza senza riguardo alcuno, come se fossero honorate. In definitiva Donna Olimpia (che Pasquino descrisse così: Olim pia, nunc impia e cioè: Una volta religiosa, adesso empia) risultò essere una vera santa per le prostitute, una specie di Santa Mignotta che però santa non fu quando si trattò di derubare il bene pubblico. E, come si sarà facilmente compreso, il controllo per Olimpia significava una cosa sola: paga questa puttana le tasse che deve? E, se non pagava, c’erano sequestri ed arresti. Questa attività di magnaccia, estesa nel tempo, in un periodo come il 1647-1648 di profonda crisi anche alimentare, quando la sua cresta arrivava financo alle derrate alimentari raccolte per la carestia, quando si vedevano le ricchezze ed i fasti della Pimpa crescere a dismisura, fece inferocire la popolazione e questa volta non più contro le generiche puttane ma contro la Pimpaccia sotto la casa della quale si riunivano continuamente molte persone per gridare insulti feroci contro la sua persona. Fu necessario dare scorte ad Olimpia perché rischiava davvero di essere aggredita e, nel contempo, fu disposta la sorveglianza sotto Palazzo Pamphili con il divieto di sostare nei pressi.

          Ma in quest’epoca Innocenzo aveva ben altro a cui pensare, particolarmente alla sua sconfitta politica a livello internazionale. La pace di Westfalia del 1648 metteva fine alla Guerra dei Trent’anni ed in questo consesso lo Stato Pontificio non fu preso in alcuna considerazione anche su questioni religiose delle quali furono investiti i singoli Stati. Le clausole della pace regolarono la legislazione religiosa europea: ogni confessione avrebbe avuto libertà di culto; cattolici e protestanti furono parificati di fronte alla legge; ogni principe avrebbe potuto scegliere la sua religione, mentre i suoi sudditi lo avrebbero dovuto seguire; i beni della Chiesa passavano agli Stati in cui si trovavano.  La Chiesa iniziava a contare molto poco sullo scenario internazionale. La ragion di Stato vedeva Paesi cattolici accordarsi con paesi protestanti secondo il principio della separazione tra la ragion politica e quella della fede. Per la prima volta la ragione si faceva strada nella gestione della politica, ragione che poteva intervenire nelle cose di fede accettandole o meno secondo un parametro diverso dalla politica, quello della libertà di coscienza.  Una vera rivoluzione che metteva semi dappertutto annunciando cambiamenti epocali che esploderanno nella Rivoluzione Francese.

          Siamo qui alla vigilia del 1650 quando Innocenzo X allentò i suoi rapporti con Olimpia ed approfittò per riprenderli con sua sorella, suor Agata, che non si era più fatta vedere da quando era stato nominato cardinale il nipote della Pimpa, Francesco, ed anche per stringerli con Camillo ed Olimpia Aldobrandini Pamphili arrivando ad apprezzare questa giovane donna per la sua bellezza ed intelligenza. La famiglia di Camillo che andò a vivere in Vaticano, forse per l’acquisita tranquillità, iniziò ad avere bambini uno l’anno anche se sembra che tra i due non vi fosse un vero amore per la differenza totale di carattere e preparazione. Dopo il primogenito Giovanni Battista: nel 1651 nacque Flaminia, seguì Anna nel 1652, quindi venne Benedetto nel 1653, ed infine Teresa nel 1654. Tutti questi figli, con il disordine che comportavano, convinsero la famiglia a lasciare libero il loro appartamento nel palazzo apostolico ma la giovane Olimpia andava spesso a trovare il pontefice con il suo primogenito e non solom per affetto ma anche perché sapeva dall’esperienza della Pimpa quanto denaro e benefici potevano venire da oculati rapporti con il Papa. Ed anche questa Olimpia ottenne non meno di quanto era stato ottenuto dalla Papessa e, tra l’altro, ebbe la nomina a cardinale di suo cugino Baccio Aldobrandini e di un altro personaggio francese (non ho capito quali fossero i rapporti tra i due), Jean François-Paul de Gondì, che poi finirà in galera per la sua profonda inimicizia con Mazzarino, poi recluso e quindi riabilitato da Luigi XIV. C’è però da dire che agli occhi del Papa ed alla lunga questa Olimpia risultava essere invadente come la Pimpa con in più una goffaggine particolare che la rendeva maldestra nel trattare con ospiti e personalità di rilievo. E questo giudizio peserà nel desiderio di riavere vicino la Pimpa.

L’allontanemento della Papessa da Innocenzo durerà fino al 1653 quando sarà celebrato il matrimonio tra la bambina Olimpiuccia Pamphili e Maffeo Barberini che da un lato renderà ancora di più invisa alla popolazione la Papessa Olimpia per quella bambina mandata al sacrificio a soli 12 anni ma che, d’altra parte, riappacificherà il Papa con i Barberini e quindi con la Francia. Alla riappacificazione con Olimpia contribuì molto la delusione del Papa per il nuovo cardinale nipote, l’Astalli. La carica gli aveva dato alla testa e diventò supponente e sgarbato soprattutto con chi avrebbe dovuto rispettare per l’età e la competenza come il cardinale Segretario di Stato, Panciroli. Anzi l’Astalli tentò di denigrare il Panciroli agli occhi del Papa e di tenerlo all’oscuro di alcune questioni che comunicava direttamente al Papa; inoltre gli impediva in vario modo ogni comunicazione diretta con il pontefice. Questo comportamento dispiacque molto al Segretario di Stato tanto da ammalarsi gravemente e quindi morire nel settembre del 1651. Alla gioia della Pimpa che godeva anche di vendette, si accompagnò la preoccupazione di Innocenzo per aver subito un sostituto all’altezza di Panciroli e questo non era certamente l’Astalli del quale si era fatto una opinione molto scadente (se avessi potuto dargli con la beretta anche del cervello sarei stato felice, scrivev più o meno così ad un suo corrispondente). L’Astalli tentò di proporre nomi diversi con il continuo diniego del Papa finché un suo cardinale di fiducia, Bernardino Spada, noto come uomo saggio, non gli consigliò il nome del Nunzio in Germania, Fabio Chigi, che trovò subito la sua approvazione. Costui, uomo di grande onestà e moralità che mantenne fino a quando non fu eletto Papa nel 1655 con il nome di Alessandro VII, divenne Segretario di Stato sul finire del 1651 ed ebbe la porpora cardinalizia nel 1652.

Insomma molte vicende si erano susseguite da quando Olimpia era stata scacciata ed il Papa era invecchiato molto e si sentiva privo di appoggi fidati al suo intorno. Nonostante Chigi invitasse il Papa a diffidare di quella donna, fu sua sorella suor Agata, anche se ancora offesa per il furto della spalla di Santa Francesca Romana e per quell’indegna nomina dell’Astalli, che fece da intermediaria organizzando il ritorno di Olimpia che, come no!, si presentò in lacrime. Per l’occasione si organizzò un lauto banchetto ed il Papa pregò Olimpia di starle vicino perché temeva sempre più che qualcuno lo avvelenasse. Il banchetto fu allestito nel palazzo Aldobrandini a Via del Corso nel marzo del 1653 e, per massima offesa comunque sopportata dalla Pimpa, si ritrovò di fronte a quella rivale sempre odiata di Olimpia Aldobrandini Borghese Pamphili. Nel giugno seguirono le indegne nozze di Olimpiuccia con Maffeo Barberini concordate con i Barberini e con il Papa. Tutto era fatto ed Olimpia tornava trionfalmente al potere al fianco di un Papa ottantatreenne continuando come se nulla fosse accaduto i suoi intrighi e trame al solito fine: l’arricchimento suo e della sua famiglia. Fu proprio la riappacificazione con i Barberini che fece spostare l’asse della Chiesa dalla Spagna alla Francia con la conseguenza che l’Astalli risultò completamente spiazzato. Il Papa era già mal disposto verso di lui ma aveva le resistenze di molti prelati ed anche del Segretario di Stato Fabio Chigi. Furono le insistenze della Pimpa che riuscirono a far cacciare definitivamente l’Astalli dai palazzi vaticani nel febbraio del 1654 al fine di avere completa mano libera. Ritornavamo all’origine e di nuovo ogni supplica, ogni problema, ogni affare passava per le mani della Pimpa che non aveva più neanche qualche osservazione del Papa al suo operato perché era ormai troppo vecchio ed ossessionato, come accennatto, dal suo possibile avvelenamento da parte spagnola. Tanto era proccupato di questo il Papa che a metà del 1654 corresse il suo testamento, nominando di nuovo la Pimpa sua erede e, come segno di una ritrovata armonia, anche lei nominò Innocenzo suo erede. Andò avanti così con Innocenzo che durante il 1654 stette spesso infermo fino al dicembre del 1654 quando la malattia divenne grave. Si mise a letto e la Pimpa capì che ormai la fine del Papa era vicina. Nesuna pietà per chi non è più in grado di far nulla perché gli affari di Olimpia subirono un’accelerazione, vi era un via vai di persone che chiedevano pagando e che Olimpia soddisfaceva. Aveva capito la Pimpaccia che con la morte del Papa anche lei sarebbe finita ed allora si organizzò rapidamente. Scrive Lura Marino che, da quel momento ogni notte si poteva scorgere una carrozza che attraversava Ponte Sisto, procedendo a fatica: era la Pimpaccia che trasportava dal Vaticano al suo palazzo quanto valore riusciva quotidianamente a sottrarre alla Corte Pontificia.

Per poter fare i suoi comodi la Pimpaccia aveva recluso Innocenzo X nella sua stanza dove solo lei poteva entrare. Dopo qualche tempo di questo andazzo furono alti prelati, Fabio Chigi, Decio Azzolini ed il generale dei gesuiti Padre Oliva, a prendere l’iniziativa e a scacciarla dal palazzo apostolico. Ed il Papa, il 7 gennaio 1655, morì. Il suo corpo fu traslato in San Pietro e per tre giorni attese che qualcuno si facesse vivo per la sepoltura che comunque costava e sarebbe stata a carico dei familiari. Ma i Pamphili ed ogni altro parente acquisito sparirono. Ilk corpo fu trslato nei magazzini e solo il sesto giorno dalla morte, visto che nessuno si era fatto vivo, fu ordinata ad un falegname della Fabbrica vaticana una semplice cassa di legno per poterlo seppellire prima che i topi lo attaccassero. Dalla Curia vennero convocati i parenti ma tutti sollevarono miserabili scuse, tutte all’altezza dei loro miserabili titoli nobiliari che sono gli stesssi che circolano ancora oggi, non presi universalmente a calci solo perché non si conoscono le loro povere, truffaldine e criminali storie. Quella donna che si chiamava Olimpia, la Pimpaccia, disse che era una povera vedova che non disponeva di quei soldi che erano una vera miseria non arrivando ai 100 scudi. Camillo il figlio di una donna così importante e degna rimasta una povera vedova mise in ballo questioni giuridiche: il funerale di un pontefice deve essere a carico della Chiesa e non della famiglia.

Nell’aprile fu eletto Fabio Chigi con il nome di Alessandro VII e la Pimpaccia tentò di adescarlo ma Chigi fu irremovibile e le impose di tenersi lontana dal Vaticano ed alontanarsi da Roma disponendo una pubblica inchiesta sulla liceità delle gigantesche fortune che quella donna aveva realizzato.

Iniziarono le indagini ma il processo non si avviò mai. Fabio Chigi leggedo le carte aveva capito che i Pamphili, rispetto ai Barberini, avevano rubato sciocchezze, vere inezie. Inoltre il novello Papa aveva già iniziato ad assaporare la stessa possibilità di arricchimento per sé e la sua famiglia. Meglio lasciar perdere.

Intanto nel 1656 scoppiò la peste che da Napoli saliva verso il Nord. Fece stragi ovunque ed arrivò anche a Viterbo nell’estate del 1657 dove Olimpia risiedeva nella sua vecchia casa natale. Per sentirsi più al sicuro dal contagio si recò nella sua dimora di San Martino ma non vi fu nulla dafare, nel settembre anche quella donna, che fu per 10 anni una vera potenza, tirò le cuoia, lasciando oltre ai beni mobili ed immobili una somma favolosa, superiore ai due milioni di scudi d’oro. Questa eredità andò dispersa perché si estinse la discendenza Pamphili. Vi fu in seguito una Anna Pamphili che sposò Giovanni Doria dando origine alla dinastia Doria-Pamphili che riuscì a mettere le mani su un pezzo di eredità mentre un’altra pezzo andò ad altra dinastia, quella dei Borghese-Aldobrandini.

ED ECCONE UN’ALTRA MA BISEX: CRISTINA DI SVEZIA

          Sembra proprio che la Chiesa non possa andare avanti, nonostante la sua conclamata misoginia, senza Papesse. Tolta infatti dai piedi la Pimpaccia ecco avanzarsi un’altra Papessa, questa volta proveniente dal freddo Nord, Cristina di Svezia.

          Era il 20 dicembre del 1655 quando la regina Cristina di Svezia, anzi la ex regina, entrava a Roma quasi in incognito per essere ricevuta in Vaticano. Dopo un paio di giorni, il 23, fu organizzato il suo ingresso trionfale nrlla città, accolta con tutti gli onori da Papa Alessandro VII. La giovane ventinovenne (era nata nel 1626) aveva lasciato la Svezia ed il trono al fine di stabilirsi a Roma, la città dei vicari di Cristo.

          Seguiamo sommariamente la storia di questa donna, che descrivono brutta, mascolina, prepotente, trasgressiva ed insolente, prima del suo arrivo a Roma.

          Figlia dei reali di Svezia, si trovò sul trono nel 1632, a soli 6 anni. Suo padre, Gustavo Adolfo che alla nascita della piccina esultò vedendo un corpicino tutto pieno di peli e quindi ritenendo fosse nato un maschio, si consolò poi affermando che sarebbe stata una brava regina perché già alla nascita aveva ingannato tutti. Gustavo Adolfo era morto in battaglia e lei era restata in balìa di una madre, Eleonora Hohenzollern, sciocca ed isterica prussiana con punte di pazzia se è vero come si racconta che aveva conservato il cuore del marito in una bacheca. Fino al raggiungimento del diciottesimo anno di età, una reggenza guidò il Paese. Salì al trono nel 1644 (ma incoronata ufficialmente nel 1650 a causa della guerra con la Danimarca in corso) in una Svezia che usciva da importanti successi militari e dall’annessione di varie terre strappate alla Danimarca ed ala Norvegia. Il suo primo atto fu la firma della pace in contrasto con l’aristocrazia dominante che invece gradiva la guerra. Un suo atto di gran rilievo fu quello di designare suo cugino Gustavo Adolfo, fuori dalla linea dinastica, come suo eventuale successore.

          Durante il suo regno la Svezia divenne un luogo in cui tutti i maggiori pensatori dell’epoca, tra cui Descartes da cui Cristina prese molte lezioni di filosofia e di religione, vennero chiamati per costituire una sorta di cenacolo tra i più avanzati d’Europa. Cristina aveva avuto un’istruzione eccellente ed era conoscitrice, oltreché dei classici greci e latini, di molte lingue con le quale intrttenne corrispondenze con altri saggi europei, tra cui Blaise Pascal e Pierre Gassendi.

          Nella sua corte molti consiglieri, come anche il Senato, cercavano di convincerla al matrimonio ma lei fu inflessibile affermando che mai si sarebbe sposata e dando anche una spiegazione di questa sua posizione: quel regno era il suo regno ed il matrimonio avrebbe significato essere moglie di un re che, inesorabilmente, avrebbbe assunto il ruolo dominante. Ancora nel 1649, di fronte all’ennesima insistenza del Senato, rispondeva: ... il matrimonio implica delle soggezioni alle quali io non mi sento in grado di sottostare, e non posso prevedere quando sarò in grado di vincere questa ripugnanza. E Cristina sapeva bene di cosa parlava perché già da molto tempo si era scoperta omosessuale dopo una relazione amorosa con il suo cugino Carlo che era durata fino al 1642. Vi era a corte una donna che tutti descrivono come bellissima, la contessa Ebba Sparre. Fu il vero grande amoore di Cristina, amore che non dimenticò neppure dopo la sua venuta in Italia quando nel 1657 scrisse al suo amore con queste parole: se voi non avete dimenticato la facoltà che avete su di me, vi ricorderete che sono già dodici anni che sono posseduta dall’essere amata da voi. Infine, io sono vostra in una maniera per cui è impossibile che voi mi possiate perdere, e non sarà altro che con la fine della vita che io cesserò di amarvi. Si intuisce da qui che l’amore di Cristina non era corrisposto e questa potrebbe essere una delle chiavi per comprendere la sua volontà di allontanarsi dalla Svezia. L’altra chiave è certamente quella religiosa. La Svezia eraa un Paese luterano e Cristina provò iniziali sbandamenti nel sostenere o meno alcune leggi riguardanti la religione. Subiva pressione da parte cattolica che avrebbe visto molto bene un sovrano del Nord abbracciare il cattolicesimo. Fu un gesuita, António Macedo, aggregato all’ambasciata portoghese, che conversò spesso con lei di alcuni fondamenti del cattolicesimo che lo distinguevano dal luteranesimo: la concezione del peccato, l’immortalità dell’anima e, soprattutto, il libero arbitrio. Visti i promettenti risultati Macedo fece venire nel 1652 altri due gesuiti, vestiti da borghesi in modo da essere intrattenuti in conversazione dalla regina, al fine di completare l’opera di convincimento. Sembra che fossero le questioni sessuali che più la intrigaavano. Aveva ancora 9 anni quando, sentendo dire che nella Chiesa cattolica il celibato era considerato una virtù, esclamò che quella Chiesa era una bellezza: Io voglio seguire questa religione! In età più matura affermò: Quando si è cattolici si ha la consolazione di credere ciò che per sedici secoli hanno creduto tanti nobili spiriti; essere cattolici vuol dire appartenere ad una religione la cui verità è confermata da milioni di miracoli, da milioni di martiri, e che infine haa prodotto tante meravigliose vergini che hanno vinto le debolezze del loro sesso esi sono dedicate a Dio (citato da von Ranke). Aiutarono molto anche le conversazioni e lezioni avute con Descartes. Sta di fatto che Cristina, intorno alla metà del 1652, decise di convertirsi al cattolicesimo. Questa conversione in un Paese luterano avrebbe suonato molto male e per questo fu mantenuta segreta, ma non fu l’unico motivo dell’abdicazione di Cristina. La regina aveva creato in vario modo moltissimi debiti (aveva creato molti nobili che consumavano molte delle rendite di corte che, per altri versi aveva dovuto vendere molte terre rinuncando così alle loro rendite) e la sua gestione dello Stato negli ultimi tempi lasciava a desiderare per la sua assenza e contemporaneo impegno in rappresentazioni teatrali ed in feste danzanti. L’insieme di queste cose la convinse ad abdicare in favore di suo cugino Carlo Gustavo che divenne Carlo X. Dal momento della sua decisione alla sua abdicazione passò del tempo per pefezionare gli accordi connessi con il lasciare il trono. Cristina voleva mantenere il suo tenore di vita e per farlo chiese, oltre all’estinzione di ogni suo debito da parte dello Stato, una cifra enorme che non era però disponibile e che fu sostituita con le rendite di molte terre, con l’affidamento di un feudo, di varie isole e di alcune residenze reali. Sistemata la questione economica Cristina abdicò ufficialmente nel febbraio del 1654.

          Lasciò la Svezia in incognito vestita da uomo. Passò nei Paesi Bassi dove si trattenne del tempo passato in teatri, feste ed intrattenimenti vari taanto da spendere molto di più di quanto non le entrasse. Passò quindi a Bruxelles nel dicembre del 1654 e qui fece la sua prima professione di fede cattolica al suo ospite, l’Arciduca Leopoldo Guglielmo d’Austria, pregandolo però di mantenere il segreto ad evitare che il governo svedese le togliesse le sue rendite. Il 3 settembre 1655 partì da Bruxelles diretta in Italia con un seguito di 255 persone e 247 cavalli. Passò ad Innsbruck dove il 3 novembre fece conoscere ufficialmente la sua conversione scrivendo sia a suo cugino Carlo X sia al Papa Alessandro VII (per l’occasione aggiunse al suo nome quello di Alessandra). L’8 novembre l’ex regina partì da Innsbruck diretta a Roma con sommo sollievo dell’Arciduca Fernando Carlo d’Austria che nei pochi giorni di permanenza di Cristina sua ospite stava per andare in rovina per le spese che fu costretto ad affrontare.

          E Cristina arrivò trionfalmente a Roma il 23 dicembre 1655, accolta dal Papa in persona che la ospitò in Vaticano. Il giorno di Natale prese la comunione dalle mani del Papa con il quale si fermò a pranzo (fatto straordinario che le dava il ruolo di Papessa perché il Papa usava mangiare sempre da solo). In quel giorno fu incensata da tutta la corte ed ebbe inviti da tutti i nobili romani. Lei accettò l’offerta del duca di Parma, andando ad abitare a palazzo Farnese. Accettò poi, e come no!, di essere spesata, come promise il Papa, per tre mesi che poi divennero molti di più.

            Ma quella nobildonna mise subito tutti in imbarazzo con il suo comportamento da carrettiere. Scrive in proposito Laura Marino:

Cristina non parve ricambiare tutte quelle attenzioni con pari cortesia e cominciò subito con lo scandalizzare la corte pontificia, cavalcando come un uomo, vestita con un corsetto e un paio di braghe anziché con una lunga gonna.

Durante il banchetto che il pontefice offrì in suo onore in Quirinale.mise tutti in imbarazzo con le sue sguaiataggini e non si fece scrupolo di disturbare le funzioni sacre con risate e battute ad alta voce, che per di più aveva di timbro baritonale.

A palazzo Farnese installò la sua corte, e fu un susseguirsi di feste e banchetti. Da Bologna si era portata dietro due gentiluomini, i Santinelli, che presto si rivelarono arraffoni e taglieggiatori. Al suo seguito chiamò anche Giovanni Rinaldo Monaldeschi per farne il suo uomo di fiducia. Il palazzo divenne in breve tempo un covo di ladruncoli e biscazzieri: oro, quadri, gioielli, pezzi da collezione che Cristina si era portata dalla Svezia sparirono, venduti o barattati.

          La neoconversa si era scelto come padre spirituale il cardinale Azzolini, persona mondana, di bell’aspetto elegante, colta e di appena 33 anni quando lo conosce nel 1656. Il cardinale era richiesto dalle donne ed all’epoca era l’amante di Olimpia Aldobrandini, la moglie del figlio Camillo della Papessa Olimpia (che famiglie queste famiglie cattoliche!). Costei era gelosissima ed era pazza per le morbosità, accettò quindi il menage quando il focoso amante fu attratto da Cristina e si lasciò sedurre da lei. Questo secondo grande amore esplose perché Cristina, lavandosi poco, puzzava di una puzza che piaceva molto al cardinale. L’ex regina si innamorò perdutamente di lui, amore che durò per tutta la vita e sembra che tra i due vi fossero intimità morbose (di lì a poco cessarono i rapporti con la Aldobrandini perché era diventata troppo obesa). A questo amore eterosessuale, Cristina aggiunse molti amori con le sue innumerevoli donne di servizio che sceglieva sempre accuratamente per la loro avvenenza e completa dedizione. Fece anche innamorare perdutamente un vecchio cardinale Girolamo Colonna che la riempì di doni preziosi: gioielli e pietre preziose. Ebbe rapporti eterosessuali con il marchese spagnolo Antonio de la Cueva y Silva mentre ebbe rapporti saffici con sua moglie Clelia ed il marchese ebbe a definirla la più grande puttana del mondo.

          Passava il tempo in letture, ballando, in teatri, con artisti, a caccia, … insomma aveva trasferito il suo ruolo di regina a quello di Papessa, diversa da quelle che abbiamo incontrato ma sempre egualmente ingombrante, possessiva, al centro dell’attenzione, in grado di scandalizzare tutti. Ogni tanto faceva respirare il Papa e chi la sopportava; lo faceva quando partiva per lunghi viaggi in Europa nelle varie corti dove seguiva con la sua vita sguaiata ed esagerata appena mitigata dal suo amore per la cultura e per il mecenatismo.

          Appena tornata da uno dei suoi viaggi decise di trasferirsi da Palazzo Farnese a Palazzo Riario (oggi Palazzo Corsini) che si trova in Via della Lungara dove oggi è il carcere di Regina Coeli. Qui riunisce una corte di letterati ed artisti che alla cultura associavano l’essere libertini.

Da un certo momento Cristina ebbe nostalgia di quel passato ruolo di sovrana anche perché i soldi li sperperava e le mancavano continuamente visto anche che dalla Svezia vi erano continui disguidi che sistemava l’amato Azzolini, anche con collette tra cardinali. Cercò di capire dove poteva proporsi come novella regina o dove provocare una qualche rivolta che la sistemasse sul trono. L’attenzione si rivolse alla Francia gestita dal cardinale Mazzarino con il re Luigi XIV ancora bambino ed anche al regno di Napoli gestito dagli spagnoli. Per portare avanti quanto sperava si realizzasse si recò due volte in Francia (1656 e 1657) da Mazzarino che fece subito capire che con la Francia non c’era neppure da pensare a qualsiasi rivolgimento. Sembrò invece disponibile, ma solo a parole, a dare una mano per cacciare gli spagnoli da Napoli. A proposito delle conversazioni che si ripetevano sull’argomento, Cristina mostrò un lato del suo carattere che ancora non abbiamo preso in considerazione: allo stesso modo in cui si fidava del primo scavezzacolo che gli passava davanti, era in grado di divenire feroce e crudele con quella persona se mostrava non aver meritato quella fiducia. Quando si accorse che il suo fido ed amante Rinaldo Monaldeschi riferiva agli spagnoli alcune sue conversazioni con i francesi, relative al suo progetto di divenire regina di Napoli, Cristina dette mostra di una ferocia inaudita. Data l’epoca probabilmente sarebbe bastato dargli alcune frustate e cacciarlo definitivamente. La cattolica Cristina fu invece implacabile e tirò fuori una crudeltà che ancora oggi spaventa. Dette ordine di giustiziare il traditore seduta stante e lo fece fare con modalità giudicate barbare da tutti gli osservatori del tempo. Si levò ovunque un’ondata di vero e proprio raccapriccio per quella bestialità. Subito dopo l’esecuzione che avvenne nel 1657 a Fontainebleau, dove si trovava, Cristina decise di tornare definitivamente a Roma nella sua Villa Riario, con grande soddisfazione liberatoria per i francesi. Il progetto di invadere Napoli non era però tramontato e, sulla via del ritorno Cristina incontrò a Sassuolo il duca di Modena con il quale progettò l’invasione di quel regno. Riprese poi la strada di Roma (1658) ma anche qui si era diffusa la notizia della sua crudeltà ed il suo ritorno non fu salutato con gioia. Anche perché il Papa era venuto a sapere di sue iniziative per procurarsi armi a Roma da poter utilizzare contro Napoli, di altri suoi intrighi e comunque del suo comportamento che denigrava profondamente il supposto spirito cattolico. Alessandro ebbe a dire che Cristina erauna barbara e per di più intrattabile per il suo orgoglio. Fu l’amante di Cristina, il cardinale Azzolino, che con pazienza riappacificò Cristina con il Papa e la cosa fu facilitata dalla morte del duca di Modena, col quale tramontava il disegno su Napoli.

  Da questo momento Cristina capì che doveva abbandonare i suoi toni alteri e spocchiosi e condurre vita più morigerata accanto al suo cardinale. Si dedicò completamente al teatro, ne fece costruire uno a Tor di Nona (1670), assunse corpi di ballo ed attori, fece rappresentare opere teatrali e spettacoli di vario genere. Si dette anche all’archeologia finanziando scavi ed opere di sitemazione e salvaguardia di alcuni resti antichi che andavano in rovina.

Nel 1660 tornò in Svezia in occasione della morte di suo cugino Carlo X. Anche qui però fu accolta con fastidio e con taante di quelle scortesie che Cristina capì che doveva andarsene al più presto, tanto più che ora era una cattolica in un Paese rigidamente protestante. Di nuovo tornò a Roma che capì essere ormai la sua città (tutti ma proprio tutti gli spostati, ancora oggi, trovano sempre Roma di loro gradimento alla faccia di noi che ci viviamo e che con questi dobbiamo convivere).

Nella primavera del 1667 morì Papa Alessandro VII a cui seguì Papa Clemente IX Rospigliosi che durò poco. Nel suo breve pontificato avviò però alcune cose di grande interesse per Cristina, attraverso il suo amante, il cardinale Azzolini che fu fatto Segretario di Stato. Intanto il Papa chiese ad Azzolini di ripetere l’ingresso trionfale in Roma di Cristina. La cosa si fece con grande sfarzo e permise a Cristina di sentirsi ancora amata, se non dal popolo, certamente dal pontefice. L’ex regina poté continuare con tutte le sue passioni: teatro, danza, musica, … Lo stesso Azzolini dovette rassegnarsi ad assistere agli abbandoni lesbici della sua amata verso Angelica Maddalena Voglia detta la Giorgina, bellissima cantante, danzatrice e suonatrice di clavicembalo, e curandola anche quando sta poco bene. Quindi Clemente IX tentò di proporre Cristina quale regina di Polonia. Ma i polacchi non volevano in alcun modo una donna come sovrano. Questa delusione a lato della proibizione che gli venne dalla Svezia di mettere più piede in quella terra, resero Cristina triste e depressa. Si consolò ancora con le sue passioni alle quale aggiunse un interesse per l’alchimia. Nel suo Palazzo Riario aveva realizzato un laboratorio alchemico molto attrezzato ed alternava pratiche alchemiche con l’impegno nella fondazione dell’Accademia Reale (1674) che ospitò prelati, scrittori, filosofi, poeti e scienziati.

Intanto nel 1669 era morto Clemente IX ed a lui era succeduto Clemente X Altieri (1669-1676). Questo Papa non mostrò alcuna simpatia verso Cristina. Occore dire che ormai quella donna aveva fatto il suo dovere ed ora non serviva più: era stata un simbolo eccellente da esporre nel mercato religioso, una regina luterana convertita al cattolicesimo, ed ora poteeva pure ritirarsi perché era solo in grado di essere un impresentabile trofeo. E Clemente X in un eccesso di puritanesimo vietò anche le rappresentazioni teatrali colpendo con questo duramente Cristina. Non fu da meno Innocenzo XI (1676-1689), un vero stupido bigotto. Fece chiudere i teatri di Roma, vietando alle donne di esibirsi in pubblico e lasciando solo quelli dove si eseguiva musica sacra. Nel 1679 condannò pubblicamente sessantacinque proposizioni, prese dagli scritti di vari letterati, come propositiones laxorum moralistarum e vietò a chiunque di insegnarle, pena la scomunica. Da non dimenticare infine che anche Innocenzo non riuscì a fare a meno dell’Inquisizione scagliandola soprattutto contro i valdesi, come del resto aveva fatto Alessandro VII. Per ciò che riguarda Cristina addirittura sequestrò il suo teatro di Tor di Nona per farne un granaio. Cristina ne fu addoloratissima tra l’altro perché voleva molto bene alle sue attrici e danzatrici che aveva assunto in una specie di compagnia per il suo teatro. Non volle lasciarle senza lavoro e si accollò le loro spese fino alla sua morte.

Ma Cristina aveva Angelica come sua grande consolazione tanto che, quando venne a sapere che l’abate Vannini aveva tentato di violentarla, si sentì male e dovette essere portata a letto senza che riuscisse più a riprendersi. Quell’autentica palla, con baffi e guance cadenti, così era diventata e descritta, morì il 19 aprile 1689 assistita dal cardinale Azzolini, con l’ulteriore sgarbo che le fece Innocenzo XI che le permise di morire prima di lui, andato a ricongiungersi a Dio il 12 agosto 1689. Due mesi dopo morirà anche il cardinale amante che era stato fatto erede unico di Cristina.

L’eredità passerà al nipote Pompeo e sarà dilapidata in pochissimo tempo.

UNA PUBBLICA SIMONIA REGNA OGGI A ROMA …

          In occasione del Giubileo del 1725 Montesquieu venne in pellegrinaggio a Roma e da osservatore attento e distaccato qual era dette un giudizio lapidario su questa città capitale del Cristianesimo e sede della Chiesa: Una pubblica simonia regna oggi a Roma; non si è mai visto, nel governo della Chiesa, regnare il delitto così apertamente. Uomini vili sono preposti da ogni parte alle cariche (Voyage d’Italie, 1728).

          Inutile dire che, pur essendo in clima di Controriforma, con l’Inquisizione che ammazzava in libertà, continuava corruzione, simonia, nepotismo tra quella genìa di cardinali e Papi che abbiamo fin qui imparato a conoscere. Qui siamo con l’ennesimo Papa indegno e ladro, Benedetto XIII Orsini (1724-1730), colui che non aveva la minima idea di ciò che è governare. E poiché era incapace di ogni azione di governo, il poveretto si era fidato di un bandito, l’arcivescovo di Benevento Niccolò Coscia, al quale aveva affidato il governo delle finanze e della politica. Coscia portò la gestione dello Stato Pontificio al disastro finanziario con un traffico indecente di favoritismi e malaffare, arricchendosi spudoratamente e con tutto il denaro di Roma che va a finire a Benevento (Montesquieu). Inoltre, poiché il Papa è un debole ed incapace, che ritiene calunnie quelle rivolte contro Coscia, sono i Beneventani che dirigono la sua debolezza, e siccome è gente da nulla, manda avanti gente da nulla (Montesquieu). Tutto ciò fece odiare Benedetto dai Romani che vedevano spogliata la città da estranei ignobili e pure da nulla. E questo non è che l’ennesimo esempio delle cause che portavano alla completa decadenza soprattutto della credibilità dello Stato Pontifico ormai trattato a pesci in faccia tanto che, per una delle infinite guerre, l’esercito spagnolo venne a fare arruolamenti forzati a Roma con ribellione dei cittadini che assaltarono le sedi spagnole a Roma e a Velletri gettando i soldati di quel Paese dalle mura.

          Questo andazzo continuava come se nulla fosse anche quando, alla fine del secolo precedente, si era affermata la rivoluzione liberale inglese con il potere del Re che veniva definitivamente e completamente sottomesso al Parlamento, rivoluzione ispiratrice di tutte le rivoluzioni liberali europee e non solo, con John Locke che nel 1690  pubblicò i suoi Due Trattati sul Governo nei quali si enunciava il diritto di resistenza che ciascun individuo può e deve esercitare quando lo Stato agisce in contrasto con la volontà popolare od in contraddizione con i principi costituzionali (si confronti con la situazione italiana di fine 2014). Ma non basta perché quella rivoluzione era stata alla base dello sviluppo, all’epoca in piena esplosione, del movimento culturale che più incise sull’uscita dell’Europa dalla sua minorità culturale, l’Illuminismo. Senza entrare in troppi dettagli, riporto la succinta e chiarissima illustrazione di cos’è l’Illuminismo, l’uscita da ogni metafisica, data da Kant:

L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! – è dunque il motto dell’illuminismo. Sennonché a questo illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma io odo da tutte le parti gridare: — Non ragionate! — L’ufficiale dice: — Non ragionate, ma fate esercitazioni militari. — L’impiegato di finanza: — Non ragionate, ma pagate! — L’uomo di chiesa: — Non ragionate, ma credete. 

Fu Voltaire che nel 1734 pubblicò le sue Lettere inglesi in cui raccontava di essere andato a Londra e di aver visto un mondo radicalmente diverso da quello conosciuto nell’Europa continentale e fu da lì che partirono gli studi ed i contributi che portarono all’Enciclopédie che fu subito messa all’Indice da quella montagna di ignoranza che era ed è la Chiesa. Ci avvicinavamo rapidamente alla Rivoluzione Francese, quella che sanzionò deinitivamente la fine della superbia, della prepotenza, dell’impunità (ma non dell’immoralità) della Chiesa. In Francia venivano aboliti i privilegi del clero, nazionalizzati i beni della Chiesa, introdotta la libertà di culto, redatta una Costituzione del clero, riportati i vescovi ed i parroci ad un’elezione popolare, … e tutto ciò senza consultare minimamente il Papa. Tutto diventava un brutto incubo. Pio VI scrisse subito un breve di condanna delle leggi approvate dall’Assemblea Costituente che inviò a Parigi. Nel maggio del 1791 questo documento fu bruciato pubblicamente tra gli applausi dei rivoluzionari.

Vi furono degli sconquassi anche in Italia ed addirittura in Vaticano dove, a parte qualche caso di persona mite ed onesta ai vertici della Chiesa, nel secolo in esame, si era passati dai criminali duri e puri dei secoli precedenti a degli assoluti incapaci. In mezzo a questo disastro non potevano mancare prostitute, festini, gigolò e bambini, anche se in modo più prudente, meno appariscente e sempre meno visibile, almeno nelle sue maggiori depravazioni, ma pur sempre criminale. Solo qualche esempio, sempre più breve, solo per mostrare i livelli di depravazione dei gerarchi della Chiesa e delle infinite corti di nobili e ricchi. E tutto questo accadeva quando la miseria avanzava e l’Illuminismo iniziava ad aprire qualche porta nelle corti europee.   

Alla storia della ex regina Cristina di Svezia, convertitasi e sentitasi in diritto di puttaneggiare a Roma, seguì subito quella di un’altra ex regina che, con ragione, riteneva che ogni bestialità fosse possibile nella corte del Papa. Non mi dilungherò nei dettagli (che chi è interessato può trovare in Rendina 2) perché sono squallidi e degni di un misero e semipornaografico romanzetto d’appendice, ma un cenno a questa e ad altre vicende occorre darlo.

La ex regina, questa volta, è francese ma proviene dalla Polonia cristiana. Parlo di Maria Casimira de Arquien che, unitasi in matrimonio con Giovanni III Sobieski, divenne regina di Polonia. Dopo la morte del marito, sapendo bene che in Polonia il sovrano era elettivo e che la sua famiglia non era amata dai nobili elettori, intrigò e complottò in ogni modo per far eleggere uno dei suoi due figli, Costantino ed Alessandro. Non ci riuscì e fu cacciata in malo modo dalla Polonia. Dove può trovare rifugio un tale sqallido personaggio ricco, intrigante, corrotto nonché cattolico? Ma a Roma che era la vera patria di costoro! Maria Casimira, nel 1699, arrivò a Roma dove chiese protezione a Papa Innocenzo XII Pignatelli (e nell’anno successivo al nuovo Papa, Clemente XI Albani) e si installò a palazzo Chigi (poi divenuto Odescalchi) di iazza Santi Apostoli poiché i Chigi lo avevano lasciato per l’altro, il più imponente, di Piazzza Colonna. Al suo seguito vi erano, oltre ai figli, una numerosa corte e tante guardie del corpo come si conviene ad una persona ricca e d’altissimo rango.

Anche i figli di Maria Casimira erano dei debosciati che gradivano molto la dolce vita romana che, nonostante guerre, miseria e rivolgimenti politici, seguiva senza sosta con feste, festini, pranzi e ricevimenti fastosi. Sperperavano il denaro e questo li rese in un primo tempo accetti alla nobiltà romana. Ma con il passare del tempo la loro sguaiattezza, arroganza e superbia li rese invisi. Tali sentimenti erano anche di mamma Casimira nei loro riguardi, forse memore del rifiuto nei suoi riguardi da parte della nobiltà polacca. Inoltre, contrariamente a Cristina, Casimira non apprezzava la cultura, il teatro, le lettere ma il suo pensiero fisso era la scalata sociale accompagnata da un’ambizione smisurata.

A Roma, in quell’epoca, spopolava una puttana giovanissima e bellissima di nome Vittoria ma nota come Tolla Bocca di Leone. Il Tolla era certamente un diminutivo ma Bocca di Leone indicava la strada dove la fanciulla esercitava la sua professione. Di questa splendida puttana, che già aveva avuto rapporti con il figlio Alessandro, si innamorò il figlio più piccolo di Casimira, Costantino. La madre fu d’accordo con la pazza follia del giovane per Vittoria. Ma questa giovane ed attraente fanciulla era la puttana favorita di un nobile, Gaetano Sforza Cesarini. Tra Gaetano e Costantino nacque una contesa sulla proprietà della puttana che sfociò anche in atti violenti. Mamma Casimira volle aiutare suo figlio e spese una montagna di denaro per vestire alla moda Vittoria, per dotarla di una carrozza, per farla una vera signora. Fin qui nulla di male solo che questa madre cattolica credeva di poter tutto e si rivolse addirittura a Papa Clemente XI perché intervenisse presso la famiglia Cesarini Sforza al fine di far desistere Gaetano in favore di Costantino. Che i Papi siano dei veri banditi e debosciati è ormai noto ma chiedere al Vicario di Cristo di fare da ruffiano non tanto per una fanciulla morlmente irreprensibile quanto per una puttana, sembra davvero il colmo. E’ molto probabile comunque che nelle intenzioni di Casimira, oltre al volere fare contento il giovane Costantino, vi fosse quella di arrecare un dispiacere ad un rampollo di quella nobiltà romana che disprezzava perché non alla sua altezza. Ma Casimira non si fermò qui. Rivestita e resa appariscente, in abiti comunemente utilizzati da persone altolocate, con una carrozza elegante accompagnò Tolla come compagna di suo figlio ad una festa frequentata dalle famiglie più in vista di Roma con molte donne note in quegli ambienti. Tolla fu ben accolta e conversò amabilmente con tutti. Si seppe poi chi era quella bella ed invidiata donna, del suo aborto del figlio con Casimiro, ed a pagarne le spese fu lei stessa: fu presa da gendarmi e portata in un convento dove restò il tempo necessario per organizzare il suo esilio a Napoli con una grossa quantità di denaro come risarcimento per i mancati guaadagni a Roma. E pensare che giustizia avrebbe voluto che in convento fosse portata Casimira. Andando poi ad una migliore indagine, visto il livello morale del puttanaio delle famiglie nobili romane, sarebbe d’interesse capire quante persone dovevano andare in convento.

Questi comportamenti di Casimira la resero non più accetta a Roma. Lo capì l’ex regina di Polonia e, ai suoi 60 anni, se ne andò dalla città recandosi nel suo Paese natale, la Francia, dove il re le regalò il castello di Blois nel quale morì nel 1716.

Solo un cenno al cardinale Alessandro Albani (1692-1779) detto don Pasquale, nipote di Clemente XI, perché riportò alla ribalta un vecchio mitico nome, quello di Olimpia Pamphili. Infatti fu amante della pronipote di Innocenzo X che appunto si chiamava Olimpia Pamphili e, per maggior sfizio, era detta la Pimpa. Questa Pimpa era sposata con il duca e principe di Paliano, Filippo II Colonna, pronipote del cardinale Mazzarino, gran cornuto e per questo ricco e potente.

Un altro cenno all’allegra corte di Clemente XIV (1705-1774) che amava fare da ruffiano, tra donne apparentemente per bene (ma grandi puttane) e monsignori e cardinali, e che ogni tanto si concedeva anch’egli ad amori libertini. La donna che all’epoca regnava nei suoi salotti vaticani era la contessa Vittoria Sabucci Bischi, detta Vittoria Tiburtina. Questa nobildonna, parente stretta del Papa, era moglie di Nicola Bischi, un pubblico truffatore che imbrogliava gli agricoltori su prezzi e dogane del grano anche in epoca di carestia, ma proprio per questa sua abilità fu promosso dal Papa ad incarichi superiori come quello di amministratore generale delle provviste di grani (fu punito nel 1778, solo dopo la morte del Papa che lo proteggeva). Portò avanti questo suo impegno, che lo metteva in condizione di rubare ancora di più, insieme al francescano monsignor Bontempi, confessore del Papa. I due riuscirono in breve tempo a diventare molto influenti sull’operato di Papa Clemente. Naturalmente è la moglie di Nicola, Vittoria, che utilizza queste entrature per diventare la regina dei salotti del Papa dove si organizzano feste e festini insieme a segreti incontri d’amore. E’ lo stesso Papa che aiuta il suo confessore alla fornicazione con Vittoria e, visto che c’era, anch’egli beve da quella fonte promuovendola Papessa ed uxor Christi. Anche qui, come già visto, Nicola era un gran cornuto e per questo ricco e potente. Fu Pasquino che, appena il buon Dio si riprese uno dei tanti balordi suoi Vicari, raccontò in due versi la storia di Vittoria:

Al triste suon della feral campana

Regina più non sei, resti puttana.

          Resta solo da dare un fugace sguardo a quel pupazzetto ben vestito e smorfioso di Pio VI Braschi (1775-1799) che, mentre infuriava la Rivoluzione Francese e già rotolavano allegramente teste di nobili e cardinali, si comportava come il nobil signore descritto da Parini nel Giorno (Rendina) e che a me ne ricorda un Papa emerito che saltellava con una gonna corta da civettuolo, con un ricciolo sbarazzino e con scarpette rosse di morbida pelle fatte a mano da un disegnatore di gran moda, un vero Gastone alla Petrolini che oltre ad essere un personaggio da poco era anche un incosciente che viveva tra balli e feste e, soprattutto, un nepotista da quattro soldi.

          Mi fermo perché c’è ormai poco da aggiungere. I Papi iniziano ad essere schiaffeggiati da Napoleone, dalla Repubblica Romana, dal Risorgimento ed Unità d’Italia. Si riprenderanno con Mussolini ed i governi della Repubblica, sempre servili verso la Chiesa che chi ha letto fin qui ha imparato a conoscere, prima dei quali un solo cenno al Papa Porco, Pio IX, è necessario e durante i quali altre due storie meritano attenzione, quella di Pio XII e quella di Giovanni Paolo II.

UN PAPA ED UNA PAPESSA FILONAZISTI

E veniamo dalle parti nostre dove la Chiesa ha le unghie taagliate ma non demorde nelle sue posizioni di privilegio che si sposano con le più fetide alleanze, quelle che secondo loro sarebbero grdite a Gesù. Ce lo vedete Gesù sottobraccio ad Hitler? Magari solo a cinguettare con lui? Magari solo silenzioso riguardo ai crimini del carnefice tedesco? Non so voi credenti ma io ateo ho una visione del supposto Gesù molto ma molto più civile (almeno!). Dopo il Papa Porco venne un Papa che bastonava gli operai. Leone XIII (1878-1903) nel 1891 scrisse un’enciclica, la Rerum Novarum, nella quale è enunciata la cosiddetta Dottrina Sociale della Chiesa. In somma sintesi le condizioni bestiali di vita operaia, soprattutto quelle di fine Ottocento con le 16 ore di lavoro e con i bambini anche di 9 anni utilizzati nelle fabbriche (in quelle tessili erano insostituibili per le loro piccole dita in grado di entrare nei macchinari per sbrogliare i fili, macchine che spesso quelle dita tranciavano), non si possono risolvere senza ricorrere alla religione ed alla Chiesa. La proprietà privata è intoccabile perché è un sostegno alla libertà della persona e della famiglia (anche perché un comandamento vieta di desiderare la roba d’altri – sic!) e le differenze di classe sono volute da Dio (Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell’umanità: togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l’impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità dello stato) L’operaio, che ha diritto di associarsi in sindacati, deve servire fedelmente il padrone ed il padrone deve essere giusto con l’operaio che rivendica giustamente migliori condizioni di vita. Se tali condizioni non vi sono ed il salario non è sufficiente a sopravvivere è lo Stato che deve intervenire con il sostegno pietoso ai bisognosi. In questa visione padronale, liberista e demenziale che schierava la Chiesa con il capitalismo, vi è un attacco violento al socialismo per quella lotta di classe che non può essere considerata cristiana come lo sciopero al quale non si deve ricorrere (Il troppo lungo e gravoso lavoro e la mercede giudicata scarsa porgono non di rado agli operai motivo di sciopero. A questo disordine grave e frequente occorre che ripari lo Stato, perché tali scioperi non recano danno solamente ai padroni e agli operai medesimi, ma al commercio e ai comuni interessi e, per le violenze e i tumulti a cui d’ordinario danno occasione, mettono spesso a rischio la pubblica tranquillità. Il rimedio, poi, in questa parte, più efficace e salutare, si é prevenire il male con l’autorità delle leggi e impedire lo scoppio, rimovendo a tempo le cause da cui si prevede che possa nascere il conflitto tra operai e padroni). Non vado oltre su questo protofascista ma mi viene in mente un pensiero che non riesco a mandare via: ma non era meglio che questo infame si sfogasse con una postribolo e puttanaio qualunque invece di sfogare le sue repressioni sulla povera gente che in fabbrica ci moriva? E neanche a dire che questo fosse l’unico reazionario al servizio padronale. Nella galleria criminale dei Vicari (ahimé!) di Cristo mi occupo ora di uno che è un vero campione, Pio XII (1939-1958), un Papa amico di Franchismo, Nazismo e Fascismo, uno che all’esaltazione dei regimi più crudeli del mondo associava la lotta più intransigente contro ogni politica di emancipazione popolare ed operaia. Ma di questo infame ho scritto nel mio La Chiesa contro Gesù II (Tempesta Editore 2013), ora aggiungo solo delle considerazioni riguardanti la sua badante, suor Pascalina (nata Josephine Lehnert e più tardi suor Pasqualina). Questa futura badante conobbe il nunzio in Baviera, il quarantunenne arcivescovo Eugenio Pacelli, nel 1917. Soffriva di stomaco il pover’uomo ed andava a riprenderrsi a Einsedein dove si trovava la ventitreenne Pascalina, suora della Congregazione delle Insegnanti della Croce (ma che nomi hanno questi ordini religiosi?) ed infermiera. Gli consigliò dei medicinali ed una dieta ed Eugenio si riprese. Felice per il miracolo, Eugenio chiese alla madre superiora di Pascalina di averla solo per sé alla nunziatura di Monaco e la ottenne a partire dal 1918. Da questo momento, praticamente, suor Pascalina sarà legata a doppio filo per tutta la vita ad Eugenio Pacelli come segretaria e governante, fino al 1958. Nel 1920, quando Pacelli passò alla Nunziatura dell’intera Germania a Berlino, anche Pascalina ottenne il trasferimento al monastero di Altotting su richiesta di Pacelli. Qui iniziò lo scandalo della supposta relazione tra i due, come da svariate denunce anonime arrivate alla superiora. Pascalina fu richiamata al convento e la superiora scrisse una lettera molto adirata a Pacelli. Era la prima di una lunga corrispondenza che Pacelli intrattenne con la superiora al fine di riavere la cara Pascalina in Nunziatura. Subdolamente Pacelli fece scrivere alla superiora anche dai suoi preti-dipendenti in Nunziatura, con lettere tutte tese a testimoniare la correttezza di rapporti del nunzio con suor Pascalina. Ma Pacelli andò oltre: per riavere Pascalina scrisse anche alla superiora generale dell’Ordine e, naturalmente riottenne l’insostituibile cara collaboratrice. Quando Pascalina rimise piede in Nunziatura tal suor Theodosia la abbandonò mostrando fastidio per tale fatto ritenuto uno sfregio al comportamento di religiosi. Finalmente, nel dicembre 1929, quando Pacelli fu nominato cardinale e richiamato a Roma dove, appena un paio di mesi dopo, fu promosso a Segretario di Stato, salutò ambilmente i suoi ospiti ed anche suor Pascalina perché, come disse la sorella del cardinale Elisabetta, suo fratello si era fatto una povera opinione della suora, descritta da Elisabetta come una prepotente autoritaria ed estremamente astuta (Cornwell). Vi è qui un’altra versione (Rendina 9) secondo la quale Pascalina seguì Pacelli a Roma appena trasferito ed Elisabetta fece del tutto per tenerla lontana dal fratello, anche facendo circolare voci diffamatorie nei confronti della suora. Seguo comunque con Cornwell che dopo qualche passaggio differente, riportando i racconti degli attori nelle indagini su Pio XII da beatificare, torna a coincidere con la storia diversa alla quale accennavo. Arrivato a Roma, dicevo, Pacelli chiese alla sorella di occuparsi della casa ma lei disse che ciò non era possibile perché aveva famiglia e due figli da educare. A questo punto si presentò Pascalina che era venuta dalla Germania senza chiedere il permesso alla sua congregazione. Si sistemò a pagamento in un convento e si presentò ad Elisabetta offrendo i suoi servizi di addetta alla cura della casa. Fu accettata soprattutto con il fine di tenerla sotto controllo e lontana dal fratello.  A questo punto sorge naturale la domanda: perché tutto questo? in fondo Pascalina si mostrava molto attenta al benessere e cura del cardinale Pacelli, perché tenerla lontana da lui? giravano voci particolari sulla relazione esistente tra i due? Non ho risposte e seguo con il racconto anche se mancano molti passaggi logici come ad esempio non sia intervenuto l’ordine di Pascalina per richiamarla. Elisabetta non capiva perché suo fratello non aveva il coraggio di allontaanre definitivmente questa donna autoritaria ed insistente. Fu finalmente Elisabetta a licenziare Pascalina, con la scusa che dovevano chiudere l’appartamento per trasferirsi a Lourdes, credendo di essere riuscita con questa misura ad allontanarla anche da Roma. Ma Pascalina, appena lasciata la casa di Elisabetta si trasferì immediatamente in Vaticano negli appartamenti del cardinale con il pretesto di doverli mobiliare ed arredare di nuovo. Cornwell conclude questa vicenda affermando che Pacelli era di nuovo nelle mani di Pascalina e ci restò fino alla sua morte. Ancora Elisabetta raccontava, siamo intorno alla fine degli anni Trenta del Novecento, poco prima che il cardinale fosse elettto Papa, che l’influenza di Pascalina sul fratello era diventata una vera croce, una croce che egli aveva ricevuto dalle mani di Dio come strumento di ssantificazione. Inoltre Pascalina era riuscita a controllare tutte le vie di accesso, comprese quelle della famiglia, al cardinale Pacelli. Ancora Cornwell riporta un storia relativa a Pascalina raccontata da Elisabetta e definita strana. Si tratta di un incidente che testimonia le tensioni, le gelosie e gli intrighi che si muovevano in quella piccola corte che circondava il cardinale (Pascalina; altre due suore; il medico personale Riccado Galeazzi-Lisi; il fratello del medico, l’ingegnere Enrico, consigliere sugli investimenti immobiliari vaticani; il nipote Carlo, figlio del fratello Francesco, nominato gestore civile del Vaticano; i due gesuiti Leiber e Guglielmo Hentrich che insieme a monsignor Kaas, facevano i segretari). La duchessa Brady, conosciuta da Pacelli nel suo viaggio negli USA, aveva affidato all’ingegnere conte Galeazzi l’amministrazione di una sua villa situata nei dintorni di Roma e che voleva mettere a disposizione del cardinale. Elisabetta dichiarò che Suor Pascalina si installò lì ed invitò varie persone. In una occassione mio nipote Carlo riuscì, senza che ci si accorgesse della cosa, a prendere una fotografia nella quale appariva suor Pascalina in un atteggiamento troppo confidenziale con il Conte Galeazzi.  Carlo consegnò la foto a suo padre che a sua volta la passò a don Eugenio. Nessuno seppe quali furono le conseguenze di questa scoperta si sa solo che il risutato fu un ulteriore allontanamento di don Eugenio dalla famiglia, probabilmente per la forte personalità di Pascalina che operò in tal senso essendo riuscita ad insinuare il dubbio nel cardinalle. E siamo arrivati al 1939, quando Pacelli salì al soglio pontificio con il nome di Pio XII. Da questo momento abbiamo racconti di interferenze di Pascalina nell’operato del Papa come quando interveniva entrando nel luogo dove si svolgevano colloqui riservati con capi di Stato per dire al papa che la sua minestra si raffreddava. Non c’è dubbio che questo rapporto durato 30 anni doveva avere dietro una qualche dipendenza di Pio XII da suor Pascalina. Si può pensare ciò che si vuole sulla natura di tale rapporto che certamente vedeva Paascalina quantomeno come consigliera silenziosa ma autorevole del Papa in molte questioni. Ci si è anche chiesti se vi fossero rapporti intimi di un qualche tipo ed in questo senso ci si chiede come era fatta fisicamente Pascalina. La risposta la fornì il principe di Baviera Konstantin Bayern e la riporta Rendina [9]:

Pascalina, così come la vedevo in piedi davanti a me, era di corporatura minuta anche se non lo sembrava; era graziosa e vivace, nonostante desse impressione di essere robusta. I suoi passi, che non si riuscivano a vedere sotto l’ampia tonaca nera lunga fino al suolo, ma che si potevano leggere nei suoi movimenti, la radicavano a terra in modo stabile e deciso. La pelle, nelle poche parti in cui era visibile, cioè sulle guance, era bianca e liscia; mani e viso erano parti di un pezzo unico. Gli occhi che scrutavano in modo vivace erano incorruttibili. E ciò nonostante, quando lei scrutava una persona, questa percepiva il bene e la disponibilità all’aiuto. Le labbra erano abbastanza incolori e non evidenti. Ma quando parlava, anche le labbra prendevano colore ed espressione, e nei suoi cenni si delineava quello che in modo umoristico potrei chiamare «capacità di capire». Per me non c’era nulla da scoprire in lei. Le chiacchiere e le ipotesi che molti romani facevano su questa Francescana che non uscì mai fuori dalle mura del palazzo papale, si spiegano con il fatto che qui c’era una donna tra ottocento uomini (questi erano gli abitanti che si potevano contare in Vaticano).

Ogni cosa, ogni questione che riguardasse la gestione della politica della Chiesa, passava nelle mani di questa donna o aveva lei come persona informata autorizzata poi a commentare ogni cosa con il Vicario di Cristo. I segreti venivano fermati sulla porta del Papa, era lei che introduceva i cardinali alle riunioni e lei li accompagnava fuori degli appartamenti papali, era lei che si occupava di scegliere i menù, le cure ed i medici, ancora lei aveva regolato i rapporti con la famiglia che vedeva una volta l’anno a Natale. Insomma era, più che assistente e segretaria particolare, una vera factotum che disponeva completamente della vita di questo Papa. Una Papessa silennziosa e poco appariscente ma presente con il suo autoritarismo intransigente.

IL PAPA SANTO POLACCO ED I SUOI AMORI VIRTUALI O MENO

E nel 1978 venne un polacco sul soglio di Pietro. Si fece chiamare Giovanni Paolo II e regnò fino al 2005. Nonostante la giovane età, aveva 58 anni, e le apparenze che egli seppe vendere mediaticamente molto bene, fu un pontefice che lavorò per la restaurazione, per far fuori molte parti delle conquiste del Concilio Ecumenico Vaticano II, per risolvere i guai finanziari del Vaticano con il sostegno dell’Opus Dei (con Wojtyla divenuta una potenza all’interno della Chiesa, divenuta nel 1982 prelatura personale del Papa, ed ormai addentro in ogni ganglio vitale della Chiesa), per sostenere la causa anticomunista soprattutto nella sua Polonia. E per buon peso dette ampio credito ad un’altra setta come i Legionari di Cristo, fondati dal messicano pedofilo Maciel.

Alla liberazione della Polonia corrispose l’abbraccio di Giovanni Paolo II al feroce dittatore Pinochet e la messa la bando della Teologia della Liberazione di Boff, Cardenal e molti altri che condannò al silenzio.

Il Papa polacco visse avvenimenti importanti e gravi per la Chiesa. Fu implicato nello scandalo IOR, la Banca Vaticana. Di conseguenza nel fallimento del Banco Ambrosiano e nell’assassinio del suo Presidente, Calvi. Nel premio ad un rappresentante della Banda della Magliana (probabilmente implicato nel caso Calvi) che ottenne sepoltura nella Basilica extraterritoriale di Sant’Apollinare. Nei finanziamenti a Solidarnosc con sottrazione di fondi allo IOR. In nuove gravi interferenze con lo Stato italiano in occasione del Referendum sull’Aborto (Legge 194).

Niente di nuovo. Questo Papa è un Papa nella tradizione peggiore della Chiesa, un Papa che incitò alla guerra dei Balcani, che santificò i peggiori pendgli da forca del mondo intero, che perese in giro il mondo con la falsa riabilitazione di Galileo. Di lui ho già parlato diffusamente ne La Chiesa contro Gesù II (Tempesta Editore 2013), e non aggiungo altro. Resta invece scoperta la vita segreta di questo personaggio, vita vissuta a fianco di una stretta consigliera che qualcuno vuole esere stata una Papessa (ma vi sarà mai una Papessa aperta e progressista?).

Il Papa polacco, Karol Wojtyla, che confidenzialmente chiamerò anche Gianpiero, ebbe una vita privata molto attiva negli amori ed amicizie. Dei suoi rapporti prima di diventare prete non ho evidentemente nulla da dire salvo una cosa sul suo ultimom rapporto prima di abbracciare il sacerdozio.

Iniziò ad avere rapporti sentimentli nel 1937 con una vicina di casa di nome Ginka Beer. Ebbe poi un’altra relazione nel 1941 con Irka Dabrowska, figlia del direttore della fabbrica Solvay nella quale egli lavorava. Quando, negli anni dal 1942 al 1943, farà l’attore di teatro, avrà una controversa relazione con Karol Halina Krolikiewiez, interrotta dall’altra relazione con una giovane ebre a della quale non si conosce il nome. Vi sono alcuni storici che affermano essersi Gianpiero sposato con questa donna nel 1943 e di avere avuto con lei una figlia che nacque nel luglio del 1944. Nel mese successivo i nazisti cattureranno e deporteranno sua moglie che poi morirà in un campo di sterminio. Gianpiero resterà solo con la figlia che affiderà ad un convento-orfanatrofio e della quale, per quanto se ne sa, non volle più saperne. Egli si rifugiò invece nell’Arcivescovato dove resterà essendo ordinato sacerdote nel 1946. Ecco, Gianpiero avrà certmante avuti altre donne prima del 1946 e meno male per lui. Naturalmente niente da dire. Non condivido invece l’abbandono di sua figlia che giudico nel modo in cui gli ecclesiastici usano condannare gli eventi che a loro non garbano: è un fatto del tutto innaturale.

Ma veniamo al prete Wojtyla. Da quando abbracciò la vita sacerdotale non si può più parlare di fidanzate o amanti. Da questo momento la buona educazione e la fede vogliono che si parli di sincere amicizie.

Di queste amicizie con donne se ne contano tre. Le prime due, anche se influirono molto in Wojtyla, non hanno il carattere di Papesse, mentre la terza può a buon diritto essere considerata tale.

La prima di queste amicizie inizia nel 1972 quando Wojtyla era cardinale ed aveva 52 anni. La donna era la nobile quarantatreenne polacca Anna Teresa Tymieniecka sposata. Si conobbero per via di una traduzione in inglese di un libro del cardinale polacco e quindi si frequentarono strettamente tatno che le solite malelingue ebbero molto da ridire. Alcuni affermano che vederli insieme era vedere un’energia erotica non praticata. Sembra che lei fosse innamoratissima e che lui la rifiutasse tanto che lei piccata smentiva ogni ppossibile relazione.

La seconda è un personaggio che a me fa paura e del quale ho parlato nel libro or ora citato, Chiara Lubich, la fondatrice di quella setta nota come Società dei Focolari o Focolarini. I due si incontrarono a Cracovia nel 1978, poco prima dell’elezione al pontificato di Wojtyla. Si instaurò tra loro uno stretto rapporto con scambi di lettere molto affettuose e con incontri sempre più frequenti, anche negli apppartamenti del Papa in Vaticano. La Lubich influenzò molto Giovanni Paolo II tanto che questi riconobbe la setta dei Focolarini come Società apostolica e sostenne tutte le loro inziative che erano presuntamente a sostegno della famiglia. Inoltre nel 1985 nominò la Lubich Consultore del Pontificio Consiglio per i Laici e con tale carica la invitò a svariati Sinodi. Insomma un vero pezzo da Novanta.

Ma l’amicizia del cuore di Papa Gianpaolo fu un’altra polacca, Wanda Poltawska, donna che, contrariamente alle altre, stette sempre vicina prima al chierico, poi al cardinale e quindi al Papa, fino alla sua morte nel 2005.

La donna nacque nel 1921 ed a 20 anni, nel 1941, fu arrestata dalla Gestapo per la sua attività di resistente e internata nel campo di concentramento di Ravensbruk. Su di lei i nazisti fecero esperimenti di medicina criminale (interventi chirurgici alle gambe che si succedono a periodi fissi con le ferite praticate trattate con medicinali particolari che producono infezioni, cancrene…, iniezioni di batteri nelle ferite)tanto che, nel 1945, alla fine della guerra, era in uno stato pietoso per il trattamento ricevuto. Lei ed il marito conobbero Gianpiero quando questi era cappellano all’Università di Cracovia. Fu Wojtyla a dare animo alla giovane, ad incitarla a studiare medicina, finché, nel 1955, non arrivò, da medico psichiatra, ad occuparsi di Teologia della Famiglia ed a dirigere l’apposito Istituto presso L’Accademia di Cracovia (1957). Da allora, anche per questioni di lavoro, i due si legarono in modo quasi indissolubile e restarono così uniti in un sodalizio affettivo e spirituale per circa 50 anni. Quando erano lontani si scrivevano continuamente con lettere appassionatamente affettuose (Karol la chiamava Dusia, cioè Sorellina), anche scambiandosi opinioni sulla comune simpatia per Solidarnosc, e questa corrispondenza è durata per 55 anni. Anticipo che, quando si discuteva della beatificazione del Papa polacco, Wanda pubblicò un libro in cui era raccolta questa corrispondenza. Come commentare? Con le parole del cardinale di Cracovia, Stanisław Dziwisz, segretario particolare dell’allora Papa: Doveva stare zitta.

In occasione dell’elezione a Papa del cardinale Wojtyla, Wanda si trasferì a Roma prendendo alloggio in un appartamento del Vaticano situato in Borgo Pio. Ottenne subito dal Papa prestigiose nomine che, tra l’altro, servivano a tenerla sempre a Roma: membro del Pontificio Consiglio per la Famiglia; membro della Pontificia Accademia per la Vita; consultore del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari.

I due si frequentavano sempre più assiduamente non facendo alcun caso al ruolo di Papa ormai assunto dal vecchio amico(30). Wanda usava ascoltare la messa detta tutte le mattine da Karol entrando nei suoi appartamenti dei quali aveva tutte le chiavi. Rendina [9] racconta che una mattina si presentò a messa con ciabatte e vestaglia, senza sentirsi minimamente obbligata, neppure ad uno sguardo, ai pochi presenti (Galeazzi, riportando il commento del padre mariano Adam Boniecki, dal 1964 stretto collaboratore di Karol Wojtyla a Cracovia e a Roma, scrive che creava imbarazzi e malumori in Curia quella strettissima amica del Papa che talvolta stupiva per l’anticonformismo e l’informale familiarità con il Pontefice). Wanda arrivò anche a lamentarsi con il Papa perché le guardie svizzere non la salutavano ma, a richiesta del Papa, risposero che il regolamento non prevedeva il saluto ad una donna.

Il ruolo di Papessa emerge dai continui consigli su questioni religiose che il Papa le chiedeva anche quando egli scriveva i suoi libri che servivano a dare indicazioni teologiche ai fedeli. Quando il Papa sarà degente in ospedale come conseguenza dell’attentato del 1981, sarà Wanda che come medico si occuperà strettamente di lui e, soprattutto, che riorganizzerà la sua piccola corte, allontanando alcuni ed ammettendo degli altri. Ed ecco che si ripete l’operazione: la persona più addentro alle questioni della Chiesa, che può dare consigli teologici, che può decidere chi deve frequentare il Papa è la Papessa Wanda, ancora una donna.

PERCHÉ QUESTO INSISTERE SU PAPI E CARDINALI PUTTANIERI?

          Voglio chiudereil racconto fin qui fatto rispondendo alla domanda del titolo del capitolo. Se mi fossi riferito ad una comunità di personeche vivono la loro vita senza intromettersi in quella degli altri le parole che seguono sarebbero state del tutto inutili ma, purtroppo, Papi, cardinali, vescovi e consimili hanno una enorme influenza nella vita degli altri e la giudicano tentando di modificarla intervenendo giorno per giorno su di essa. La Chiesa, come modificazione criminale del pensiero del supposto Gesù, ha sempre avuto una sola ossessione, una vera e propria fissazione: la vita sessuale dei fedeli. Se non si fa attenzione ci si ritrova un prete a letto sistemato con la lente d’ingrandimento tra i due partners. Quel prete, lui sì, è in cielo in terra ed in ogni luogo controllandoci, secondo lui a fin di bene, perché noi non si pecchi con il peggior peccato: utilizzare il sesso per puro piacere. E quel prete non è un singolo matto ma espressione di tutta la Chiesa che ha una sua piramide di potere al cui vertice ci è appunto il Papa, seguito da cardinali, vescovi, eccetera. Tutti costoro ci impongono regole di comportamento, soprattutto sessuale, e ci additano come pubblici peccatori se non le seguiamo. Ad un visitatore da un altro mondo sembrerebbe che da quelle parti regni la prudenza, la morigeratezza e l’astinenza sessuale, come del resto lor signori accettano volontariamente nei loro voti.
          A me sembra che un uomo possa avere un qualunque desiderio sessuale (escludendo i bambini!) allo stesso modo di una donna. Se vi è condivisione reciproca tra uomo e donna o uomo ed uomo o donna e donna, non ho proprio argomenti su cui intervenire. Posso anche aggiungere che se un uomo desidera avere rapporti con due donne insieme ed una donna con due uomini o cambiate a piacere le combinazioni, non ho ancoraa nulla da dire perché basta la condivisione. La prostituzione si pone già su un piano diverso. Qui vi è una mercificazione del sesso che resta accettabile solo se è operazione del tutto volontaria della donna prostituta o dell’uomo gigolò, senza, per caapirci, costrizione alcuna da parte di altri che da quella prostituzione ci guadagnano. Certo che a volte la prostituzione risponde più che ad un atto di volontà ad una costrizione dovuta alla miseria, alla fame. Ma come si fa, in questi casi, a condannare chi si prostituisce? E poi su quali basi, rispetto a quale Dio? A quello che mi ha affamato? Si può capire che il discorso è complesso e richiederebbe molte pagine per tentare di dare una qualche risposta convincente. In ogni caso non è certo la condanna di una qualche persona che si spaccia per uno che parla a nome di Dio ad avere un qualche valore morale. Perché di questo si tratta: un miserabile umano se vi dicesse qualcosa sui vostri comportamenti sessuali andrebbe compatito. Dovreste dargli una carezza sul viso dicendogli: “dai, non fare così …”. Come fa questo miserabile a fasi sentire da voi? Il mezzo più potente per lui è dire a voi che gliel’ha detto Dio. Va bene che vi sia un matto di tale portata ma il grave è che vi sono molti più matti che gli credono. Ed alla fine è colpa nostra se vi sono personaggi che scaricano su di voi le proprie repressioni sessuali.

          Ed in questi ultimi passaggi il riferimento è a matti in buona fede. Poi vi sono quelli di cui parlavo prima, quelli che occupano le gerarchie della Chiesa e che fanno professione di ascetismo quando vivono in luoghi che lasciano invidiare le porcilaie per il lusso e la lussuria che ostentano.

          E’ forse utile cercare di confrontare le pratiche di vita di questi banditi, pratiche che ho sommariamente raccontato, con le prediche al non peccare, al non fornicare, che è il nostro problema in queste pagine.

          Un discorso generale su sesso e donne in realazione al pensiero cristiano l’ho fatto in La Chiesa contro Gesù I (Tempesta 2013) pagg. 319-381. Sono risalito al pensiero di Platone e di Aristotele per poi passare alla denigrazione della donna nella Bibbia ed in San Paolo, alla posizione di Sant’Agostino, fino alle becere posizioni di San Tommaso e di Sant’Afonso Maria de’Liguori. Tutto molto educativo. Qui vorrei riprendere solo qualche frase ed aggiungere qualcosa sul sesso nella Chiesa.

        Riprendo dal fatto che la Chiesa considera la donna come un difetto di nascita, un uomo nato male, mancante di qualcosa (Scrive San Tommaso nella Summa Theologiae che la femmina è un essere difettoso e manchevole. Infatti la virtù attiva racchiusa nel seme del maschio tende a produrre un essere perfetto, simile a sé, di sesso maschile. Il fatto che ne derivi una femmina può dipendere dalla debolezza della virtù attiva, o da una indisposizione della materia, o da una trasmutazione causata dal di fuori per esempio dai venti australi che sono umidi). Uta Ranke-Heinemann, che è la studiosa più autorevole di queste elaborazioni, ricostruisce le bestialità della Chiesa, in gran parte dovute a San Tommaso, sulle donne, esseri prive di ragione, inclini molto più dell’uomo all’incontinenza ed alla lussuria, utili solo per fare sesso del quale però devono vergognarsi. Come creatura difettosa, in un certo senso ancora allo stadio infantile, la donna è in grado di partorire, ma non di educare i figli. L’educazione spirituale dei bambini può avvenire solo attraverso il padre, poiché è lui la guida spirituale. Fin qui la donna risponde in pieno all’uso che Papi e cardinali porci ne hanno fatto nei secoli: esseri buoni per il piacere, senza anima e capacità di pensare.

Vi è poi l’atto sessuale in sé, dal quale deriva una nascita. Esso corrompe i coniugi che perdono facoltà intellettive e creano un essere in cui istillano il peccato originale. E’ l’atto sessuale che va duramente condannato. Quell’atto sessuale è proprio l’ossessione della Chiesa e Tommaso ne elenca tutti i pregi riassunti da Uta Ranke-Heinemann: “sozzura” (immunditia), “macchia” (macula), “vergogna” (foeditas), “turpitudine” (turpitudo), “disonore” (ignominia), “deformità” (deformitas), “malattia” (morbus), “corruzione della integrità” (corruptio integritatis), motivo di “avversione” e “ribrezzo” (repugnantia). E naturalmente il rapporto sessuale è tra le cose più vili. E qui non ci siamo più perché con quelle donne (quando non erano uomini o, dannati loro, bambini) quei Papi e cardinali facevano atti sessuali. Questi comportamenti che da una parte prevedono la più sfrenata lussuria e dall’altra la più ferma condanna di tale lussuria negli altri è il trionfo dell’ipocrisia e dà origine a comportamenti criminali quando si dispone del potere per far pagare con pene quel preteso peccato.

          Tralasciando le norme della Chiesa sui comportamenti sessuali dei credenti precedenti al Concilio di Trento (1545-1563), delle vere bestialità con i trionfi di Paolo, Agostino, Alberto Magno e Tommaso, diamo un’occhiata al Catechismo romano che fu edito per ordine del Concilio nel 1566.

          Secondo gli insegnamenti della Chiesa il sesso è sempre una cosa indegna che può essere praticata solo nel matrimonio con molte specificazioni. In cima alla piramide della perfezione morale vi sono i celibi e le vergini (riguardo ai celibi non si dice se devono essere vergini). Nel Catechismo citato si dice: I pastori devono prospettare per il popolo cristiano una vita beata e perfetta, perché potrebbero anch’essi auspicare quel che l’Apostolo diceva di desiderare, scrivendo ai Corinzi: “Voglio che siate tutti come me” (1 Cor 7,7), cioè che tutti seguissero la perfetta castità. Che cosa infatti di più alto ci può essere, per i fedeli quaggiù, di un riposo permanente dello spirito che non sia distratto da nessuna cura con ogni carnale libidine debellata nell’amore della devozione e nella meditazione delle celesti verità? Ma poiché vi è in circolo il Demonio che incita alla libidine ed alla lussuria attraverso quello strumento di perdizione che è la donna, allora l’unico rimedio è il matrimonio. Dice il Catechismo: La terza causa del Matrimonio sopravvenne dopo il peccato originale che fece perdere la giustizia in cui l’uomo era stato creato e suscitò il conflitto fra l’appetito sessuale e la ragione: chi, consapevole della propria fragilità, non vuole affrontare la dura lotta carnale, può perciò ricorrere al rimedio del Matrimonio per evitare le colpe della libidine. E nel marimonio la donna deve sottostare ai voleri dell’uomo e qundi esaudire le sue voglie. Veniamo alle specificazioni che vengono fatte esplicitamente. Il rapporto non deve avvenire per il piacere ma solo per la procreazione. “La moglie si deve amare raionevolmente e non con la passione. L’uomo deve dominare gli impulsi del piacere e non si deve lasciare trascinare impetuosamente al coito. Non vi è nulla di più vergognoso che amare la propria moglie come un’adultera” (San Girolamo). Ed ancora, nel Catechismo: “Matrimonio” è una denominazione che deriva dal fatto che lo scopo principale per cui la donna deve andare a nozze è quello di divenire madre.

            Altra indicazione riguarda l’astenersi periodicamente dai rapporti sessuali con la propria moglie (non “con il proprio marito” perché, come detto, è il marito che prende l’iniziativa). Dice il Catechismo: Poiché ogni bene deve essere umilmente chiesto a Dio, il secondo ammaestramento da impartire ai fedeli riguarda l’astensione saltuaria dall’atto coniugale, per pregare Dio. E neanche a dire che questa astensione saltuaria la potesse decidere la coppia. La Chiesa ebbe anche cura di fissare i giorni in cui una coppia doveva fare astinenza. Elenchiamoli: tutte le domeniche ed i giorni festivi (in alcune regioni si avevano circa 100 giorni l’anno di festa religiosa); tutti i mercoledì e venerdì (oppure tutti i venerdì ed i sabati); secondo altre diocesi tutti i giorni della settimana meno i mercoledì e giovedì; tutti i giorni di penitenza, di suppliche, nell’Ottava dopo Pasqua e Pentecoste, durante la Quaresima e l’Avvento; (in alcune epoche) durante la gravidanza ed almeno negli ultimi tre mesi; (in alcune epoche) dopo il parto per 36 giorni se il neonato era maschio e per 56 giorni se femmina; (in alcune epoche) tre o sette giorni prima e dopo la comunione, che diventavano trenta giorni prima e dopo la comunione per i novelli sposi (la cosa fu confermata dal Concilio di Trento e si è mantenuta fino al XX secolo: il problema era la contaminazione seguente all’atto sessuale che richiedeva ampie abluzioni ed appunto del tempo per essere purificati). Se ci si accoppiava con donna che aveva le mestruazioni si rischiava la pena di morte (sic!). Oltre alle condanne materiali, non da poco, vi erano quelle psicologiche, durissime per un popolo di credenti in massima parte ignorante e superstizioso: i Santi Cesario di Arles e Gregorio di Tours facevano terribili profezie a coloro che non rispettavano i giorni di astinenza, profezie che prevedevano nascite di figli lebbrosi, epilettici, deformi, indemoniati (se il rapporto era con una donna in stato mestruale sarebbero nati figli gravemente malati e deformi).

            Vi è poi la norma che regola come accoppiarsi: solo con la posizione del missionario (la donna supina e l’uomo che la sovrasta). Posizioni diverse sono ammesse solo per particolari difetti fisici. Ogni deviazione è proibita ed il Catechismo abbonda in citazioni bibliche: Sant’Ambrogio e sant’Agostino confermano che con tale divieto dell’adulterio è proibito ogni atto disonesto e impudico. Ciò risulta direttamente dalla Scrittura del Vecchio come del Nuovo Testamento. Nei libri mosaici vediamo puniti altri generi di libidine carnale, oltre l’adulterio. Leggiamo nella Genesi la sentenza pronunciata da Giuda contro la nuora (38,24); nel Deuteronomio è formulato questo precetto: “Tra le figlie d’Israele nessuna sia cortigiana” (23,17). Tobia così esorta il figliolo: “Guardati, figlio mio, da ogni atto impudico” (Tb 4,13). E il Siracide dice: “Vergognatevi di guardare la donna peccatrice” (41,25). Nel Vangelo Gesù Cristo dichiara che dal cuore emanano gli adulteri e le azioni disoneste che macchiano l’uomo (Mt 15,19). L’Apostolo Paolo bolla di frequente, con parole roventi, questo vizio: “Dio vuole la vostra santificazione; vuole che vi asteniate dalle impurità” (1 Ts 4,3). E altrove: “Evitate ogni fornicazione” (1 Cor 6,18); “Non vi mescolate agli impudichi” (1 Cor 5,9); “In mezzo a voi, non siano neppur nominate l’incontinenza, l’impurità di ogni genere e l’avarizia” (Ef 5,3); “Disonesti e adulteri, effeminati e pederasti non possederanno il regno di Dio” (1 Cor 6,9). Naturalmente i rapporti con le puttane sono vietatissimi (ricordate quante mignotte c’erano a Roma, chi andava con loro e quanto ci guadagnava la Chiesa). Dice il Catechismo: E cosa ben più ripugnante, se è un cristiano colui che si unisce turpemente a una meretrice, perché rende membra di meretrice le membra di Gesù Cristo, come appunto dice san Paolo: “Non sapete che i vostri corpi sono membra di Gesù Cristo? Sottraendo le membra a Gesù Cristo, le farò membra della meretrice? Non sia mai. Ignorate forse che aderendo alla meretrice, ne risulta un solo corpo?” (2 Cor 6,15). Come si possono evitare le tentazioni sessuali? Il Catechismo ce lo spiega: Veniamo ai rimedi che riguardano l’azione da svolgere. Il primo consiste nel fuggire con ogni cura l’ozio. Impoltronendo nell’ozio, come dice Ezechiele (Ez 16,49), gli abitanti di Sodoma precipitarono nel più vergognoso crimine di concupiscenza. Sono poi da evitarsi con grande vigilanza gli eccessi nel mangiare e nel bere. “Li satollai” dice il Profeta “ed essi fornicarono” (Ger 5,7). Il ventre ripieno provoca la libidine, come accennò il Signore con le parole: “Badate che i vostri cuori non si appesantiscano nella crapula e nell’ebrietà” (Lc 21,34) e l’Apostolo: “Non vogliate ubriacarvi, poiché il vino nasconde la lussuria” (Ef 5,18). (…) Insieme all’incentivo libidinoso che è dato dalla raffinata ricercatezza delle vesti, occorre aggiungere quello che emana dai discorsi turpi e osceni. L’oscenità delle parole, quasi fiaccola ardente, accende l’animo dei giovani: “Le perverse conversazioni” dice l’Apostolo “corrompono i buoni costumi” (1 Cor 15,33). E poiché il medesimo effetto producono, in misura anche più notevole, i balli e i canti sdolcinati, occorre tenersi lontani anche da questi.

E poiché nell’ambito di libidine e lussuria va annoverato anche il bacio in bocca, quello in cui le lingue penetrano nella bocca del coniuge, la Chiesa, con Alessandro VII nel 1666, vietava anche questo tipo di bacio. Sembrava però che qui si fosse esagerato ed allora il tutto venne attenuato con il definire come ammesso il bacio con lingua che non penetrasse nella bocca dell’altro più di tanti millimetri(31).

Dalla proibizione del bacio si passò a quella della visione della moglie nuda ed in un certo periodo i preti raccomandavano alla coppia la cosiddetta chemise cagoule, un indumento per accoppiarsi che copriva l’intero corpo della donna meno, strettamente, il sesso (una sorta di preservativo per tutto il corpo meno dove occorreva davvero).

Attenzione queste direttive non devono essere intese come consigli, ma come ingiunzioni. Se non si fa così si fa peccato mortale (qualche volta veniale) ed occor confessarsi e fare le penitenze che il parroco richiede. Naturalmente è vietatissima ogni pratica contraccettiva e l’aborto, comunque e per qualunque motivo realizzato, è molto più condannabile dell’omicidio (l’esenzione della pena per aborto vi era se esso avveniva entro 40 giorni dal concepimento per un feto maschio ed ottanta giorni per un feto femmina). Altra proibizione ferma era per l’incesto con successive norme che vietavano rapporti sessuali fino a svariati gradi di parentela, tanto che ad un certo punto era diventato molto difficile ottenere la licenza matrimoniale percjhé non si riusciva bene a documentare l’inesistenza di un rapporto di parentela (si pensi a piccoli paesi). Queste norme furono tutte inasprite da Sisto V (1585-1590) che fu un vero criminale tra le lenzuola. Se si pensa che fu proibito il matrimonio ai castrati che si erano fatti castrare da bambini per poter cantare nei cori delle chiese si capisce quali drammi si crearono.

Un solo cenno alle norme sul sesso per i chierici tutti lo posso riprendere dalle eliberazioni del Concilio di Trento, alla Sessione 24 dove troviamo scritto:

Concilio Tridentino Sessione 24

9. Se qualcuno dirà che i chierici costituiti negli ordini sacri o i religiosi che hanno emesso solennemente il voto di castità, possono contrarre matrimonio, e che questo, una volta contratto, sia valido, non ostante la legge ecclesiastica o il voto, e che sostenere l’opposto non sia altro che condannare il matrimonio; e che tutti quelli che sentono di non avere il dono della castità (anche se ne hanno fatto il voto) possono contrarre matrimonio, sia anatema. Dio, infatti, non nega questo dono a chi lo prega con retta intenzione e non permette che noi siamo tentati al di sopra di quello che possiamo.

10. Se qualcuno dirà che lo stato coniugale è da preferirsi alla verginità o al celibato che non è cosa migliore e più beata rimanere nella verginità e nel celibato, che unirsi in matrimonio, sia anatema.

         Se qualcuno spera che negli anni le invereconde ipocrisie della Chiesa si siano attenuate sbaglia di grosso(32). Faccio un solo esempio perché clamoroso, quello di un santo come il povero represso e forse impotente Alfonso Maria de’Liguori (1696-1787) con il quale l’indagine sul peccato sessuale assurse alle sue massime vette nel XVIII. Il nostro santo nella sua Theologia Moralis estese le attenzioni: al peccato dei baci matrimoniali o con o senza eiaculazione; al guardare le parti indegne (sesso e vicinanze) di un altro corpo sia da vicino che da lontano (poveretto!); al guardare le parti poco degne (petto, braccia e gambe); ai medici che dovessero eiaculare nel toccare i genitali di una donna inferma. Indagò poi su quale fosse la migliore posizione che una coppia deve assumere per una migliore fertilizzazione. Indagò tutte le posizioni possibili, in piedi, seduti, distesi, di fianco, di dietro, con scambi reciproci uomo-donna con eiaculazione extra vas naturale. Approfondì la relazione sessuale con il cadavere di una donna (coire cum femina mortua). Si pose il problema serio se fosse peccato o meno il rifiutare il quarto rapporto sessuale dopo i primi tre nella stessa notte; se fosse peccato negarsi una volta a chi richiede cinque atti sessuali al mese. Una vera e propria Imitazione di Cristo in trattati che in negativo possono essere considerati enciclopedie dell’uso del sesso, anche bassamente pornografiche con il tipico cattivo gusto curiale. E questi sono i santi che la Chiesa ci propone.

        Poiché, come ho detto e ripeto, le questioni di sesso sono state e restano l’ossessione della Chiesa, si può ben capire che qui si potrebbe proseguire all’infinito. Ma è già possibile trarre delle facili conclusioni realtive al confronto tra quanto abbiamo letto ed i comportamenti della maggior parte dei chierici della gerarchia ecclesiastica.

          La conclusione più importante è che alcuni porci infami si sono impadroniti del nome di Gesù per fare bellamente i loro comodi alla faccia delle proibizioni e degli anatemi che loro stessi imponevano ai fedeli. Crapula, donne e neanche mogli, prostitute, orge, sesso con donne, con uomini, con uomini e donne, libidine, eccessi, anche bambini sacrificati sull’altare del Grande Porco(33). Costoro parlavano in nome della fede in Dio, ci imponevano penitenze e castighi. Bruciavano i migliori ingegni perché non erano buoni credenti. Si intrattenevaano con crimiinali della peggiore specie che assoldavano anche per i loro assassinii privati. Insomma l’apoteosi di ogni male nelle mani di chi diceva di volerlo estirpare. Davvero consolante per i fedeli che non sembrano far caso a tutto questo, che accettano di essere frustati pur di avere qualcosa a cui aggrapparsi, anche se questo qualcosa è indicibile ed osceno.

NOTE

(1) Mi servirò abbondantemente degli autori citati avvertendo il lettore che io ho già trattato quanto discuterò qui, oltre che nel testo citato La Chiesa dopo Gesù, in La Chiesa contro Gesù I e La Chiesa contro Gesù II. In questi lavori trattavo i temi ora in oggetto non nei dettagli nei quali entrerò ora ma solo per delineare la natura corrotta e sessualmente depravata dei Papi criminali. Si tratta qui di far capire meglio il livello della corruzione morale e depravazione dei Vicari di Cristo ed altri importanti gerarchi. Non sembri esagerato quanto dico perché, per quanto potessi sospettare e malevolmente credere, vi assicuro che anche io sono rimasto profondamente colpito e scandalizzato da quanto questi signori sono riusciti a fare. Quando comunque lo riterrò utile riporterò qualche pagina già pubblicata nei miei altri lavori senza citazione di sorta.

(2) La storia del nome scelto, Papa, è davvero ridicola perché va addirittura contro quel Matteo che aveva introdotto il “tu sei Pietro eccetera …” nel versetto 16, 18. Se i teologi avessero letto anche oltre lo stesso Vangelo di Matteo avrebbero trovato il versetto 23, 8-10 che stronca ogni velleità di Papi o altre autorità che si pongano spiritualmente al di sopra dei fedeli:

8 Ma voi non vi fate chiamare ‘Maestro’; perché uno solo è il vostro Maestro, e voi siete tutti fratelli. 9 Non chiamate nessuno sulla terra vostro padre, perché uno solo è il Padre vostro, quello che è nei cieli. 10 Non vi fate chiamare guide, perché una sola è la vostra Guida, il Cristo.

Il fatto è che lo hanno letto, come hanno letto quanto Matteo dice subito dopo il tu sei Pietro … in 16, 23:

23 Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!

Ma non c’è nulla da fare, di fronte ad un teologo non si vincerà mai perché è impossibile confrontare la ragione con il nulla. D’altra parte gli insegnamenti di San Paolo e di Origene di Alessandria (185-254) sono diventati fondanti per la Chiesa. Scriveva San Paolo nella Lettera ai Romani (3, 7): “Ma se per la mia menzogna la verità di Dio risplende per sua gloria, perché dunque sono ancora giudicato come peccatore?” ed aggiungeva Origene la sua teoria della menzogna economica basata sul disegno divino della salvezza. Secondo Origene l’inganno ha un’importante funzione nel Cristianesimo. La menzogna è necessaria (necessitas mentiendi) come condimento e medicina (condimentum atque medicamen).

          Ad ulteriore informazione va detto che mentre in Oriente era comune chiamare i vescovi “papi” cioè appunto padri (ma lo erano tutti), la prima volta che compare a Roma questo nome è su una lapide del periodo di Liberio che va dal 352 al 366. Il termine fu poi usato anche in Occidente ma non come esclusiva del vescovo di Roma, ma, come in Oriente, per tutti i vescovi. Solo a partire dai primi anni del II millennio iniziò l’uso di attribuire al solo vescovo di Roma il titolo di papa, anche se ci volle del tempo prima che ciò fosse accettato da tutti. Ancora nel XII secolo dei vescovi non romani si facevano chiamare vicarius Petri ed il titolo di Summus Pontifex sarà utilizzato da tutti i vescovi fino al XIV secolo.

(3) Debbo dire una cosa che mi sta particolarmente a cuore. Ho qui usato ed userò ancora come dispregiativo il termine suino e ciò mi accade anche conversando ordinariamente con amici o meno. Altro termine che vuole sottolineare massimo disprezzo è bestia. Ebbene questi termini derivano solo da un uso, sbagliato lo ammetto, disinvolto del linguaggio comune. Ma non riesco a trovarne altri che raccontino ad altri quel disprezzo che ormai viene comunicato con termini come quelli che ho detto o consimili. E’ qui che affermo quanto io penso dal profondo: gli animali, tutti, e particolarmente i mammiferi, sono degli esseri meravigliosi che io amo particolarmente proprio da quando ho conosciuto certi uomini e donne. Sono proprio questi ultimi i termini che si dovrebbero usare per indicare il massimo di crudeltà, depravazione ed immoralità.

(4) Willa III di Arles era figlia del fratello di Ugo, Bosone di Arles e di Willa II di Borgogna, a  sua volta figlia di Rodolfo I di Borgogna e Willa di Provenza che, in seconde nozze, sposò Ugo. Da qui la parentela con Ugo. Debbo confessare che la ricerca di parentele tra ognuno di questi infoiati personaggi, tutti rigorosamente cattolici e penitenti seguaci di Gesù, che scambiavano mogli con figlie e con amanti di differente natura e ceto, meglio se chierici, che facevano professione di incesti, è stata cosa per me difficilissima (nell’ipotesi che sia riuscito a non scambiare qualche figlio per padre e qualche madre per amante di figli, o zii o vescovi o nipoti ….). 

Per rendere poi conto degli elevati livelli di discussione e di cosa si discuteva è utile riportare un episodio raccontato da Deschner [1]: Berengario II non fu molto compiacente con tutti i religiosi. Fece per esempio evirare il prete Domenico. Non perché se la facesse con le sue figlie affidate a lui perché le educasse, ma perché, sebbene fosse di persona estremamente poco attraente, tarchiato, irsuto e sudicio, tampinava anche la loro madre, la sua sposa Willa, nipote del re Ugo. Nell’impietoso procedimento fu anche spiattellato che cosa aveva attratto talmente la nobile principessa in questo “pretuncolo” così rozzo, ispido, arruffato, incolto, eccetera. In effetti, i suoi eviratori poterono testimoniare “che la signora lo amava con ragione, essendo egli, per giudizio unanime, dotato al pari di Priapo”.

(5) Scrive Gregorovius che, lo ricordo, era tedesco: L’idea dell’impero, che continuava a sopravvivere anche dopo il crollo del regime di Carlo [Magno], trovò in Ottone I, salito sul trono germanico nel 936, l’eroe capace di tradurla in atto. L’Italia era lacerata e aveva esaurito le sue forze; se nella metà del X secolo questo paese, che di tanto sopravanzava la Germania per costumi e cultura, avesse saputo elevare alla dignità di re un grande principe locale quale era Alberico, l’impresa di Ottone di Germania non avrebbe certamente avuto luogo.

(6) Scrive Gregorovius: A lungo i Romani lamentarono la perdita dello sventurato Crescenzio e non senza ragione da allora sino all’XI secolo il nome di quel romano compare con straordinaria frequenza nei documenti della città; esso infatti fu imposto ai rampolli di molte famiglie per onorare la memoria di quell’audace campione della libertà di Roma. Sulla sua tomba fu posta un’iscrizione, tuttora leggibile, che è tra le più belle e le più interessanti di tutto il Medioevo romano; in essa palpita quel malinconico spirito del passato che si diffonde dai ruderi della città eterna:

« Vermis, homo, putredo, cinis laquearia quaeris,

His aptandus eris sed brevibus gyaris.

Qui tenuit totam feliciter ordine Romam

His latebris tegitur pauper et exiguus.

Pulcher in aspectu dominus Crescentius et dux

Inclyta progenies quem peperit sobolem.

Tempore sub cuius valuit Tyberinaque tellus

Ius ad apostolici valde quieta steti.

Nam fortuna suos convertit lusibus annos

Et dedit extremus finis habere tetrum.

Sorte sub hac quisquis vitae spiramina corpus

Da vei gemitum, te recolens socium». 

 [Che tradotta recita:] «Uomo, verme, marciume, cenere, cerchi gli alti soffitti ma dovrai adattarti all’angusto spazio di un reliquiario. Colui che resse felicemente tutta Roma ora, povero e meschino, è nascosto in quest’urna. Com’erano belle le sembianze del signore e duca Crescenzio, rampollo germogliato da una schiatta illustre ! Finché egli visse la Iena tiberina fu potente e se ne stette in pace sotto l’autorità del pontefice. La sorte volle che la sua vita trascorresse in un gaio volgere di anni, e da ultimo gli impose una fine orrenda. Chiunque sia tu che passi, corpo alitante il soffio vitale, soggetto alla stessa legge, effondi un lamento (dinanzi a questa tomba), conscio della sorte comune ».

(7) Gerberto d’Aurillac, che fu anche eccellente matematico ed astronomo, merita un minimo di attenzione. Gerberto nasceva nel 950 ad Aurillac nell’Aquitania francese. Era di umili origini e per poter studiare, come tutti facevano, a soli 13 anni entrò nel convento nella sua città. Nel 967 un nobile di Barcellona (che faceva allora parte del regno carolingio trovandosi al confine con la Spagna araba), il conte Borrell, fece visita al monastero di Aurillac e l’abate gli chiese di portare con sé il fanciullo per farlo studiare in modo più adeguato a Barcellona. Borrell portò il ragazzo con sé e lo affidò prima al monastero di Santa Maria di Ripoll (in cui si erano fatte traduzioni dall’arabo al latino di testi classici di geometria e di trattati arabi su alcuni strumenti) e quindi lo fece studiare proprio a Barcellona. Fu qui che Gerberto, non disdegnando il diritto e la politica, ebbe importantissimi contatti con il mondo islamico confinante e fu qui che, contrariamente a tutti i suoi contemporanei, maturò vivi interessi per la matematica e l’astronomia. Vi sono documenti che attestano una sua richiesta da Ripoll ad un amico di Barcellona di un certo trattato di astrologia ed anche successivamente (984) di una sua richiesta al vescovo Mirone di Gerona del trattato De multiplicatione et divisione numerorum di un certo Giuseppe Ispano. Nel 969 il conte Borrell fece un viaggio a Roma e si fece accompagnare da Gerberto. Vi fu un incontro tra Borrell, Papa Giovanni XIII e Ottone I nel quale il Papa convinse Ottone I a prendersi Gerberto come istitutore di suo figlio, il futuro Ottone II. Fu l’inizio di una folgorante carriera che vide prima Gerberto fare da insegnante al giovane Ottone II, quindi Gerberto che Ottone invia a studiare alla scuola della Cattedrale di Reims dove divenne prestissimo insegnante. Intanto Ottone II era diventato Imperatore fatto che gli permise di nominare Gerberto abate del monastero-abbazia benedettino di San Colombano (a Bobbio, vicino Piacenza), fondato dall’irlandese Colombano nel 614, che era andato in rovina per la cattiva precedente gestione. Questo monastero si dedicava alla trascrizione dei manoscritti ed in esso vi era una ottima biblioteca, in gran parte costituita da manoscritti portati dall’Irlanda da Colombano, contenente 700 codici anche in greco e tra i più antichi della letteratura latina; ma, ed è questo un vero miracolo, vi era anche un certo numero di monaci che sapeva anche leggere il greco. Da queste preziose miniere egli estrasse il materiale per realizzare i suoi studi di geometria. Nel 984 moriva Ottone II e Gerberto si trovò invischiato nelle lotte politiche per la successione. In tale occasione si trovò in contrasto (985) con Ugo Capeto che da lì a poco sarebbe diventato Re di Francia ponendo fine alla dinastia carolingia. Ugo Capeto nominò vescovo di Reims Arnolfo, un suo protetto, anziché il naturale successore Gerberto. Nel 991, quando Arnolfo fu deposto perché sospettato di aver tramato contro il Re, Gerberto fu nominato vescovo. Ma a Reims vi fu opposizione a tale nomina tanto che dovette intervenire un sinodo di vescovi che nel 985 dichiarò Arnolfo non decaduto e quindi Gerberto non nominabile vescovo. A questo punto fu la famiglia degli Ottoni ad intervenire. Ottone II era morto nel 983 ed all’età di soli 3 anni era stato incoronato imperatore suo figlio Ottone III. Gerberto fu chiamato per fare il precettore di Ottone III. Intanto saliva al trono pontificio Gregorio V, cugino di Ottone III, che nominò subito (998) Gerberto arcivescovo di Ravenna.

(8) Scrive Tommaso Di Carpegna Falconieri alla voce Giovanni de Crescenzio in Treccani.it (2001):

Il ripetersi dei medesimi nomi in seno all’aristocrazia romana del X secolo ha creato difficoltà nelle ricostruzioni genealogiche, che ancora non sono state del tutto risolte, specialmente per quanto riguarda il gruppo individuato per comodità con il cognome “Crescenzi”. Le ricerche più recenti hanno tuttavia mostrato che non è corretto concepire la struttura di queste famiglie come informata a criteri propriamente dinastici o patrilineari. Molto più che di lignaggi, si trattava di gruppi parentali estesi, che possedevano un incerto grado di coesione interna e che attribuivano un peso rilevante alla discendenza per via femminile.

Si possono aggiungere alcune notizie tratte da wikipedia:

Fino ad Alberico II, le informazioni sui Conti di Tuscolo sono incerte e frammentarie; da Gregorio I in poi, diventano più sicure.

Alberico II ebbe due figli certi: Gregorio I ed Ottaviano I, quest’ultimo poi papa Giovanni XII (955-964).

Da Gregorio, primo a portare tra i conosciuti il titolo comitale de Tusculana, nacquero tre figli: Alberico III, Teofilatto II e Romano. Teofilatto II nel 1012 divenne Papa Benedetto VIII. Romano (Consul et duxsenator) nel 1024 divenne papa Giovanni XIX. Teofilatto II, prima di divenire papa, ebbe un figlio: Giovanni I.

(9) Pier Damiani, come molti di coloro che sono stati santificati dalla Chiesa, era un vero esperto di tutte le pratiche sessuali che sono ritenute fuori dagli ordinari canoni. Questa sua sapienza, certamente acquisita sul campo, lo rendeva talmente saggio da meritare il titolo di Dottore della Chiesa. Il suo Liber Gomorrianhus inizia con la classificazione di ciò che debba ritenersi sodomia:

Dei diversi comportamenti sodomitici

Quattro tipi di questo comportamento vergognoso possono essere distinti nello sforzo di svelarvi tutto il problema in modo ordinato.

Alcuni si macchiano da soli, altri si contaminano a vicenda toccandosi con le mani i membri virili, altri fornicano fra le cosce e, infine, altri [fornicano] di dietro. Fra questi c’è una progressione graduale tale che l’ultimo È ritenuto più grave rispetto ai precedenti. Perciò viene imposta, a quelli che peccano con altri, una penitenza maggiore rispetto a quella prevista per chi si macchia da solo con il contatto del seme emesso, e quelli che si contaminano da dietro sono giudicati più severamente di quelli che si uniscono fra le cosce. Quindi, l’abile macchinazione del diavolo ha escogitato questi gradi di dissolutezza in modo che, quanto più in alto l’anima infelice prosegue fra questi, tanto più in basso è gettata nella profonda fossa dell’inferno.

Più oltre troviamo quali pene spettino ai chierici sodomiti (evidentemente mai applicate per il pericolo di trovarsi con una Chiesa senza chierici):

Dei chierici o dei monaci che importunano i maschi

Un chierico o un monaco che molesta gli adolescenti o i giovani, o chi è stato sorpreso a baciare o in un altro turpe atteggiamento, venga sferzato pubblicamente e perda la sua tonsura. Dopo essere stato rasato, venga ricoperto di sputi e stretto con catene di ferro, venga lasciato marcire nell’angustia del carcere per sei mesi. Al vespro, per tre giorni la settimana mangi pane d’orzo. Dopo, per altri sei mesi, sotto la custodia di un padre spirituale, vivendo segregato in un piccolo cortile, venga occupato con lavori manuali e con la preghiera. Sia sottoposto a digiuni, e cammini sempre sotto la custodia di due fratelli spirituali, senza alcuna frase perversa, o venga unito in concilio con i più giovani. Questo sodomita valuti a fondo se abbia amministrato bene i suoi uffici ecclesiastici, poiché la sacra autorità giudica questi oltraggi tanto ignominiosi e tanto turpi. Né si lasci tentare affinché non abbia a corrompere nessuno di dietro, né ad unirsi con nessuno fra le cosce, perché […] sarà sottoposto, e giustamente, a tutti quei turbamenti provocati dal comportamento vergognoso.

Alla fine del suo libro in cui si scagliava particolarmente contro la pedofilia del clero, egli propose al Papa Leone IX di allontanare definitivamente dal sacerdozio, e dal clero stesso, coloro che si fossero macchiati di peccati sessuali come sodomia, pedofilia, omosessualità e matrimonio pubblico. Il Papa naturalmente non condivise i provvedimenti disciplinari: la censura, secondo la proposta di Pier Damiani sarà applicata soltanto in caso di recidiva o di permanenza nelle stessa condotta. Pier Damiani si scagliava anche contro i vescovi che, a conoscenza di fatti gravi del tipo accennato, avevano lasciato correre chiedendo la loro rimozione. Anche su questo il Papa non fu d’accordo. Si potrà notare che, mille anni dopo (a parte il fuoco di paglia di Papa Francesco), nulla è cambiato.

(10) Quest’età è discussa e sembrerebbe derivare da un errore del copista. La frase originale sarebbe stata papa Benedictus per annos XII Sedem apostolicam obsidisset mentre il copista avrebbe scritto la frase riportata nel testo, cioè papa Benedictus puer circiter annorum XII. Secondo questa versione la sua età al momento dell’elezione sarebbe stata superiore ai 25 anni. In tal caso quel XII starebbe per il numero degli anni passati da quando Benedetto VIII, lo zio, lo fece Cardinale o, secondo un’altra versione, quel XII conterebbe gli anni che trascorsero nel pontificato prima della sua cacciata). Ciò significherebbe che era preordinata da 12 anni la sua elezione a Papa. In ogni caso tanto Papa era privo di qualunque curriculum ecclesiastico effettivo.  

(11) Osserva Staffa che per ironia della sorte Gregorio VI diventa Vicario di Cristo con i soldi di coloro che La Chiesa ha sempre indicato come gli assassini di Cristo.

(12) Riprendo da Wikipedia e di seguito riporto i discendenti delle due famiglie, Tuscolo e Crescenzi che abbiamo seguito fino qui:

CONTI DI TUSCOLO

Alberico II ebbe due figli certi: Gregorio I ed Ottaviano I, quest’ultimo poi papa Giovanni XII (955-964).

Da Gregorio, primo a portare tra i conosciuti il titolo comitale de Tusculana, nacquero tre figli: Alberico III, Teofilatto II e Romano. Teofilatto II nel 1012 divenne Papa Benedetto VIII. Romano (Consul et duxsenator) nel 1024 divenne papa Giovanni XIX. Teofilatto II, prima di divenire papa, ebbe un figlio: Giovanni I.

Alberico III (Imperialis palatii magisterConsul et duxComes sacri palatii Lateranensis) ebbe cinque figli: Teofilatto III divenuto poi papa Benedetto IX, Guido, Pietro, Ottaviano II e Gregorio II.

Nel settembre 1055, quando l’ex-papa Benedetto IX fece una donazione, dei fratelli risultavano vivi Guido, Pietro e Gregorio II, non Ottaviano II.

Guido ebbe un figlio, Giovanni II dei Conti di Tuscolo, che nel 1058 divenne l’antipapa Benedetto X.

Gregorio II (Consulnobilis virsenatorComes Tusculanensis) ebbe un figlio che gli succedette alla guida della famiglia nel 1058: Gregorio III, cugino di primo grado dell’antipapa Benedetto X.

A Gregorio III (Comes TusculanensisConsulillustris) nel 1108 succedette il figlio Tolomeo I. Gregorio avrebbe avuto un altro figlio, Pietro, capostipite della famiglia Colonna, che si definì suo figlio in una donazione all’abbazia di Montecassino.

A Tolomeo I (IllustrissimusdominusConsul et dux) nel 1126 succedette il figlio Tolomeo II.

Tolomeo II ebbe due figli: Gionata (Comes de Tusculano) e Raino (Nobilis virdominus) che, alla sua morte nel 1153, guidarono insieme la famiglia fino al 1167, quando Gionata morì e rimase solo Raino, morto nel 1179.

Tralasciando le leggende sul’origine, sembra accertato che un’altra grande famiglia romana che ebbe ruoli importantissimi nella storia della città, i Colonna, discenda in qualche modo dai Conti di Tuscolo. L’origine della famiglia è individuata in Teofilatto e successivamente in Alberico di Spoleto marito di Marozia dei Conti di Tuscolo. Un certo Petrus, figlio di Gregorio II conte di Tuscolo, sarebbe il primo Colonna conosciuto come tale. Nel 1064 Petrus assunse l’appellativo de Columna conferendo tale nome alla propria discendenza. A partire da questo momento la famiglia crebbe in potenza a seguito, soprattutto, di alcuni suoi membri divenuti cardinali.

CRESCENZI

Nel 1045 i Crescenzi Ottaviani riuscirono ancora a far eleggere al papato un loro membro, il vescovo di Sabina Giovanni, col nome di papa Silvestro III.

Divisi in più rami, mantennero ancora per molti decenni la prefettura di Roma e le più cospicue cariche cittadine, possedendo inoltre vasti feudi, specialmente in Sabina (ove tennero il rettorato fino al 1106), che ressero con potere praticamente indipendente dalla Santa Sede fino a tutto il XIV secolo.

Ottaviano de’ Crescenzi Ottaviani signori di Monticelli, cardinale del titolo di Santa Cecilia, fu antipapa nel 1159 col nome di Vittore IV, avendo l’appoggio dell’imperatore Federico Barbarossa che nel concilio di Pavia lo fece riconoscere come legittimo papa. Ancora nel Cinquecento, sulla base di un elenco redatto dal Tomasetti, figurano fra le famiglie del baronaggio romano; a Roma risultano presenti nei rioni di Sant’Eustachio e Colonna.

 (13) La parola cardinale deriva dalla parola cardine. Come il cardine di una porta, vi erano delle persone che erano chiamate ad aiutare i pontefici e quindi erano il cardine della Chiesa. Fin dall’antichità erano chiamati a fare i cardini, o dei diaconi o dei presbiteri o dei vescovi. Si poteva quindi essere cardinali-vescovi o cardinali-non vescovi.

(14) Questi Guglielmiti non sono da confondersi con altri Guglielmiti che si originarono poco tempo prima al seguito del (futuro) Santo Guglielmo di Malavalle, un cavaliere francese che aveva praticato ogni dissolutezza nella vita e che, pentito, si ritirò come eremita in Toscana dove, secondo la leggenda, fu convertito da Bernardo di Chiaravalle. Guglielmo non fondò alcun ordine al quale dette vita però un suo discepolo, Alberto (1157), scrivendone la regola Consuetudines e Regula sancti Guillelmi ad imitazione di quella cistercense di San Benedetto. La regola fu approvata da Papa Innocenzo III nel 1211. Da quel momento l’Ordine ebbe ampia diffusione in Italia ed all’estero.

(15) Viene in mente ciò che diceva il Tassinaro Alberto Sordi ai turisti americani che parlavano del tormentone televisivo Dallas: Ma co tutte le mignotte che c’havemo a Valmontone c’era bisogno de quest’artre ? Basta cambiare mignotte con delinquenti per avere la frase appropriata all’avvento dei Papi francesi.

(16) Riporto, tratto da Rendina [1], un passo della lettera del 28 giugno 1366 (Seniles IX, 11) di Petrarca ad Urbano V:

«Considerate che la Chiesa di Roma è Vostra sposa. Qualcuno potrà obiettarmi che la sposa del romano pontefice non è una chiesa sola e particolare, ma la Chiesa universale. Lo so, Santissimo Padre, e mi tenga il cielo dal restringere la Vostra sede, laddove io la distenderei maggiormente se potessi e non le darei altri confini che quelli dell’oceano. Confesso che la Vostra sede è dovunque Gesù Cristo ha adoratori, ma ciò non toglie che Roma abbia con Voi relazioni particolari; ciascuna delle altre città ha il suo vescovo, Voi solo siete il Vescovo di Roma»

(17) Premesso che la storia di Spagna, con famiglie, matrimoni, conquiste, occupazioni, cessioni è  altrettanto complessa quanto quella italiana, la terra di Valencia, un’importante regione della Spagna, fu conquistata ai musulmani nel 1238 da Giacomo I della Corona di Aragon corona che comprendeva già la Catalogna (dal 1137, attraverso un matrimonio) che godeva di una certa autonomia attraverso i Conti di Barcellona. All’epoca di Callisto III il sovrano della Corona di Aragon era Alfonso V il Magnanimo (1416-1458) a cui seguì Giovanni II (1458-1479). Osservo, per ciò che seguirà, che la regione di Valencia, in quanto area storica in cui si parla la lingua catalana fa parte di quelli che sono chiamati Paesi Catalani. 

(18) Secondo lo storico Theodor Griesinger Pietro Riario sarebbe stato figlio del Papa avuto da un amore incestuoso con una delle sue 5 sorelle. Altre fonti raccontano che il personaggio era figlio del Papa e di una monaca.

(19) Johannes Burckardt, in italiano Giovanni Burcardo (circa 1445-1506), fu vescovo tedesco che svolse il ruolo di protonotaro pontificio scrivendo il Liber notarum dove raccolse molti episodi della vita di Corte papalina.

Stefano Infessura (1435-1500), professore di diritto alla Sapienza e giudice, era schierato con la famiglia Colonna ed era un antipapalino: per questo alcuni lo giudicano non affidabile. Sta di fatto che egli raccontava tutto ciò che circolava come notizia o pettegolezzo in Roma vista la sua posizione privilegiata di Segretario del Senato della Città. Michele Marullo (1453-1500) nacque a Costantinopoli durante l’assedio dei Turchi. Dopo la conquista della città divenne un poeta in lingua latina vagante per l’Italia (Napoli, Firenze, Roma). A Papa Innocenzo VIII dedicò questi versi:
          Otto bastardi e otto fanciulle Nocente ha generato

e giustamente Roma può chiamarlo padre della patria.

(20) La Locanda delle Vacca era situata più precisamente quasi all’angolo tra Piazza Campo de’ Fiori e Vicolo del Gallo, in un punto in cui affacciavano palazzetti di personaggi importanti (particolarmente Orsini), di mercanti, di prelati, che era centro di affari e commerci, con alberghi, osterie e locande dai nome più disparati (della Nave, della Luna, dell’Angelo, della Scala), che era  passaggio obbligato delle processioni papali dirette a S. Giovanni e a S. Maria Maggiore, oltre che dei cortei degli ambasciatori e dei principi che si recavano ai palazzi vaticani. Vannozza possedeva anche altre locande: quella del biscione, del leone piccolo, del leone grande, … Nella Roma di quegli anni, sulla porta della locanda c’era sempre un’insegna dipinta, generalmente con un animale: “al leone rampante”, “all’orso”, “ai due galli”, ecc. era necessario che la figura fosse immediatamente individuabile, perché la maggior parte dei pellegrini non sapeva leggere. Molto spesso una frasca di verdura appoggiata allo stipite della porta distingueva una locanda “cucinante”: il termine “frasca” è rimasto ancor oggi ad indicare un’osteria romana.

(21) Subiaco si specializzerà negli anni a ricevere i figli di cardinali e Papi e ciò durerà almeno fino al 1870, con l’Unità d’Italia. Fu fatto costruire nel paese un orfanatrofio gestito compiacentemente da suore benedettine che accoglievano i figli di tanto altolocate persone, quelli che non diventavano nipoti, per poi darli in adozione a famiglie del luogo o dei paesi vicini. Così come a Napoli abbondano gli Esposito (ex posito) cioè sistemati fuori dalle chiese in quelle ruote girevoli (Rota Proiecti conosciuta come Ruota dei proietti o Ruota degli esposti), a Subiaco, con altra lingua, abbondano i Proietti (projectus) cioè gli abbandonati con nome derivante direttamente da quella ruota girevole. Al nome di battesimo seguiva, nel nostro caso il Proietti ed a quest’ultimo cognome si univa il cognome della famiglia che eventualmente adottava il bambino. Questa pratica dell’adozione era comune in paesi e località povere dove i contadini che adottavano quello che era il figlio di un potente avevano qualche pezzo di terra o altro beneficio in dono.

(22) Queste ed altre notizie sono molto vaghe. Libri diversi danno date e situazioni diverse. Qui mi interessa dire che, dopo Giannozzo, alcuni storici situano un altro matrimonio avvenuto quasi subito dopo il primo, quello con un certo Antonio da Brescia, di cui non si hanno molte notizie. Anche questo matrimonio finirà presto e, come detto nel testo, fu seguito da quello con Giorgio della Croce.

(23) Alessandro Farnese, come vedremo nel testo, era un chierico e poi cardinale ugule a tutti gli altri, lussuriosi, libidinosi e criminali. Aveva avuto molti figli qua e là ma ne aveva riconosciuti solo tre: Pierluigi, Paolo e Costanza. Anche quando divenne Papa con il nome di Paolo III, secondo me a maggior ragione, non smise mai con la sua vita dissoluta e frivola con grande giubilo della Curia che, ad ogni cambiamento di Papa, temeva un moralizzatore. Continuarono infatti le feste sempre più ricche con pasti pantagruelici, i balli anche licenziosi ed in maschera, spettacoli di ogni genere in cui si esibiva ogni tipo di buffone insieme ai cantanti più di moda, commedie che dir licenziose è dolce eufemismo, … e tutto ciò per maggior gloria del Papa, cioè del Vicario di Cristo che si divertiva e godeva da matto.

(24) Alessandro VI era un Borgia ed i romani ricordavano l’altro Borgia eletto Papa, Callisto III, un vero bandito alla cui morte i suoi familiari dovettero fuggire da Roma e dintorni. Ebbene un interprete dei sentimenti del popolo di Roma, Pasquino, ebbe a scrivere le cose seguenti su questo nuovo Papa:

Son questi i Borgia in ver sul buon cammino,

oprando gesta gloriose e degne

del serpente, di Giuda e di Caino.

Vistolo poi operare, Pasquino aggiunse altre considerazioni:

Vende Alessandro altari e Chiavi e Cristo

e ben lo può, ché pria ne fece acquisto.

D’uomini pescator noi ti crediamo

papa fra tutti i preti,

poiché il figliol pescare ti vediamo

con le tue stesse reti.

E quando morì vi furono vari scritti esultanti nella rabbia, tra cui:

La causa della morte? Velen, perdio, veleno,

che per l’umano genere vita e salvezza fu.

Furie, perché del sangue e dell’eccidio l’orgia

cessò d’un tratto e pace e gioia ne arride?

E’ morto Borgia!

(25) In un concistoro segreto del 17 agosto 1498 il cardinale Cesare Borgia rinunciò alla porpora. Burcardo racconta così questo evento:

il reverendo cardinale Va­lentino dichiara di aver compreso fin dalla più tenera età di essere portato alla vita secolare. Era stata Sua Santità che aveva inteso indirizzarlo allo sta­to ecclesiastico e per questo, non appena si erano resi disponibili, gli aveva donato dignità e benefici ecclesiastici, e l’aveva promosso al diaconato; e lui non aveva ritenuto opportuno opporsi al suo volere. Tuttavia poiché il suo animo, il suo desiderio e la sua inclinazione sono ancora diretti, come è sem­pre stato, verso la vita secolare, egli supplica Sua Santità di degnarsi di avere nei suoi confronti una clemenza del tutto particolare e di dargli dispensa di abbandonare l’abito e la dignità ecclesiastica, di autorizzarlo a tornare al se­colo e a contrarre matrimonio.

(26) Alfonso di Bisceglie era figlio illegittimo di Alfonso II d’Aragona Re di Napoli dal 1494 al 1495 quando, in concomitanza con l’arrivo di Carlo VIII di Francia, abdicò in favore di suo figlio Ferdinando II. Costui, a sua volta fu Re di Napoli solo fino al 1496 quando morì precocemente. Il trono di Napoli passò allora allo zio, fratello di suo padre Alfonso II, Federico I di Napoli che regnerà fino al 1503 e sarà l’ultimo Re di Napoli della casa Aragona.

(27) Lucrezia non poteva far tacere definitivamente le dicerie sui suoi costumi sessuali e tali dicerie si poterono alimentare per il fatto che  il suo terzo marito, Alfonso d’Este, era spesso lontano da Lucrezia perché impegnato in campagne  militari (alcune delle quali, più avanti nel tempo, contro la Chiesa motivo per il quale sarà scomunicato da tre Papi, Giulio II, Leone X e Clemente VII. Il primo uomo che ebbe come amante, con il quale scambiò lettere di vero amore, fu il poeta  veneziano Pietro Bembo che diventerà poi cardinale. Il personaggio è di rilievo perché a lui si deve la prima sistemazione del volgare in lingua italiana. Egli fece parte della corte di Ferrara per due anni, il 1502 ed il 1503 ed in onore di Lucrezia scrisse un poema d’amore, gli Asolani.

          Appena Bembo ebbe lasciato Ferrara per consolarsi con la bella veneziana Morosina, Lucrezia ebbe un nuovo amante del quale era innamorata, Francesco Gonzaga, marchese di Mantova e marito di Isabella d’Este.

(28) La Taxa Camarae è un elenco tariffario divulgato nel 1517 da papa Leone X (1513-1521) allo scopo di vendere indulgenze, cioè perdonare le colpe a tutti coloro in grado di pagare le alte somme richieste dal pontefice. Come si vedrà nella trascrizione che segue, non ci sarà alcun delitto, nemmeno il più orrendo, che non possa ricevere il perdono in cambio di denaro. Leone X dichiarò aperto il cielo a clerici o laici, non importa se avessero violentato bambini e adulti, assassinato uno o più, truffato creditori, abortito… se avevano l’accortezza d’essere generosi con l’arca papale. Vediamo i suoi trentacinque articoli:

1. L’ecclesiastico che incorresse in peccato carnale, sia con suore, sia con cugine, nipoti o figliocce, sia, infine, con un’altra qualsiasi donna, sarà assolto, mediante il pagamento di 67 libbre, 12 soldi.

2. Se l’ecclesiastico, oltre al peccato di fornicazione chiedesse d’essere assolto dal peccato contro natura o di bestialità, dovrà pagare 219 libbre, 15 soldi. Ma se avesse commesso peccato contro natura con bambini o bestie e non con una donna, pagherà solamente 131 libbre, 15 soldi.

3. Il sacerdote che deflorasse una vergine, pagherà 2 libbre, 8 soldi.

4. La religiosa che ambisse la dignità di abbadessa dopo essersi data a uno o più uomini simultaneamente o successivamente, all’interno o fuori del convento, pagherà 131 libre, 15 soldi.

5. I sacerdoti che volessero vivere in concubinato con i loro parenti, pagheranno 76 libbre, 1 soldo.

6. Per ogni peccato di lussuria commesso da un laico, l’assoluzione costerà 27 libbre, 1 soldo; per gli incesti si aggiungerà a coscienza 4 libbre.

7. La donna adultera che chieda l’assoluzione per restare libera da ogni processo e avere ampie dispense per proseguire i propri rapporti illeciti, pagherà al Papa 87 libbre, 3 soldi. In un caso analogo, il marito pagherà uguale somma; se avessero commesso incesto con i propri figli aggiungeranno a coscienza 6 libbre.

8. L’assoluzione e la sicurezza di non essere perseguiti per i crimini di rapina, furto o incendio, costerà ai colpevoli 131 libbre, 7 soldi.

9. L’assoluzione dell’assassinio semplice commesso sulla persona di un laico si stabilisce in 15 libbre, 4 soldi, 3 denari.

10. Se l’assassino avesse dato la morte a due o più uomini in uno stesso giorno, pagherà come se ne avesse assassinato uno solo.

11. Il marito che infliggesse maltrattamenti a sua moglie, pagherà alle casse della cancelleria 3 libbre, 4 soldi; se fosse uccisa, pagherà 17 libbre, 15 soldi, e se le avesse dato morte per sposarsi con un’altra, pagherà, inoltre, 32 libbre, 9 soldi. Coloro che avessero aiutato il marito a perpetrare il crimine saranno assolti mediante il pagamento di 2 libbre a testa.

12. Chi affogasse suo figlio, pagherà 17 libbre, 15 soldi (o sia 2 libbre in più che per uccidere uno sconosciuto), e se a uccidere fossero il padre e la madre di comune accordo, pagheranno 27 libbre, 1 soldo per l’assoluzione.

13. La donna che distruggesse il figlio che porta nel suo ventre, e il padre che avesse contribuito alla realizzazione del crimine, pagheranno 17 libbre, 15 soldi ognuno. Colui che facilitasse l’aborto di una creatura che non fosse suo figlio, pagherà 1 libbra di meno.

14. Per l’assassinio di un fratello, una sorella, una madre o un padre, si pagherà 17 libbre, 5 soldi.

15. Colui che uccidesse un vescovo o un prelato di gerarchia superiore, pagherà 131 libbre, 14 soldi, 6 denari.

16. Se l’assassino avesse dato morte a più sacerdoti in varie occasioni, pagherà 137 libbre, 6 soldi, per la prima uccisione, e la metà per quelle successive.

17. Il vescovo o abate che commettesse omicidio per imboscata, incidente o per necessità, pagherà, per raggiungere l’assoluzione, 179 libbre, 14 soldi.

18. Colui che in anticipo volesse comperare l’assoluzione di ogni omicidio incidentale che potesse perpetrare in futuro, pagherà 168 libbre, 15 soldi.

19. L’eretico che si convertisse, pagherà per l’assoluzione 269 libbre. Il figlio dell’eretico arso, impiccato o giustiziato in qualsiasi altra forma potrà essere riabilitato solo mediante il pagamento di 218 libbre, 16 soldi, 9 denari.

20. L’ecclesiastico che non potendo pagare i propri debiti volesse liberarsi dall’essere processato dai creditori, consegnerà al Pontefice 17 libbre, 8 soldi, 6 denari, e gli sarà perdonato il debito.

21. Sarà concessa la licenza per installare posti di vendita di vari generi sotto i portici delle chiese, sarà concesso mediante il pagamento di 45 libbre, 19 soldi, 3 denari.

22. Il delitto di contrabbando e frode ai diritti del principe costerà 87 libbre, 3 denari.

23. La città che ambisse per i suoi abitanti o per i suoi sacerdoti, frati o monache, la licenza di mangiare carne e latticini in epoche in cui è proibito, pagherà 781 libbre, 10 soldi.

24. Il monastero che volesse variare la regola e vivere con minore astinenza di quella prescritta, pagherà 146 libbre, 5 soldi.

25. Il frate che per migliore convenienza o gusto volesse passare la vita in un eremo con una donna, consegnerà al tesoro pontificio 45 libbre, 19 soldi.

26. L’apostata vagabondo che volesse vivere senza ostacoli, pagherà uguale quantità per l’assoluzione.

27. Uguale quantità pagheranno i religiosi, siano questi secolari o regolari, che volessero viaggiare in abiti da laico.

28. Il figlio bastardo di un sacerdote che volesse essere preferito per succedere nella cura al padre, pagherà 27 libbre, 1 soldo.

29. Il bastardo che volesse ricevere ordini sacri e goderne i benefici, pagherà 15 libbre, 18 soldi, 6 denari.

30. Il figlio di genitori sconosciuti che voglia entrare negli ordini, pagherà al tesoro pontificio 27 libbre, 1 soldo.

31.1 laici contraffatti o deformi che vogliano ricevere ordini sacri e possedere benefici, pagheranno alla cancelleria apostolica 58 libbre, 2 soldi.

32. Uguale somma pagherà il guercio dell’occhio destro, mentre il guercio dell’occhio sinistro pagherà al Papa 10 libbre, 7 soldi. Gli strabici pagheranno 45 libbre, 3 soldi.

33. Gli eunuchi che volessero entrare negli ordini, pagheranno la quantità di 310 libbre, 15 soldi.

34. Colui che per simonia volesse acquistare uno o molti benefici, s’indirizzerà ai tesorieri del Papa, che gli venderanno il diritto a un prezzo modico.

35. Colui che per avere mancato un giuramento volesse evitare ogni persecuzione e liberarsi di ogni tipo d’infamia, pagherà al Papa 131 libbre, 15 soldi. Inoltre consegnerà 3 libbre per ognuno di coloro che erano stati garantiti.

(29) Un breve resoconto del come venne sistemata Piazza Navona si trova in Laura Marino. Lo riporto:

La piazza aveva sempre avuto quella gradevole forma ellittica dovuta al fatto che le case medioevali, per risparmiare le spese delle fondamenta, erano state erette sulle antiche scalinate dello stadio di Domiziano. Al centro figuravano le tre semplici vasche fatte costruire da papa Boncompagni, mentre alla destra della chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli, proprio di fronte a palazzo Pamphili, sorgeva un edificio così sporgente da coprire il quattrocentesco palazzetto De Torres. L’edificio che, a dire di un cronista dell’epoca, era stato fatto erigere dagli Aldobrandini per far dispetto ai De Torres, guastava l’armonia della piazza. Olimpia lo fece rapidamente demolire. Si trattava ora di
trasformare le vasche in fontane con artistiche mostre.

Tutti i progetti presentati non erano piaciuti al pontefice. C’era sì il
Bemini, che aveva acquistato fama con papa Barberini realizzando statue e fontane tra cui le Api e il celebre Tritone. Ma per sua sventura aveva messo mano anche ai campaniletti di S. Pietro i quali, appena iniziatane la costruzione, mostrarono subito alcune crepe pericolose per la loro stabilità. Del che papa Urbano VIII chiese conto all’artista. Questi per il gran dispiacere si ammalò gravemente. Nel frattempo papa Urbano moriva e il nuovo pontefice sembrò subito preferire al Bernini il Borromini, anche perché il «cavaliere» era protetto dai Barberini.

In un primo tempo la progettazione delle nuove condutture, che dovevano portare l’acqua di Trevi in piazza Navona, era stata assegnata appunto al Borromini. Il Bemini era stato messo da parte senza tanti complimenti e sembrava finito. Ma da uomo astuto e pronto al compromesso qual era, ben conosceva il lato debole della cognata del papa e la sua decisiva influenza nelle scelte. Prima le mandò in regalo mille doppie e gratificò il figlio Camillo di un brillante di notevole valore, infine se la conquistò presentandole un progetto per la mostra della fontana centrale, consistente in un bozzetto di argento massiccio [dell’altezza di un metro e mezzo, ndr]. Olimpia, in occasione di un banchetto nel palazzo di piazza Navona, al quale intervenne papa Innocenzo, mise in bella mostra il modello in una stanza di passaggio. Allorché Innocenzo lo vide ne rimase talmente colpito che si racconta esclamasse: «Questo disegno non può essere di altri che del Bernino … onde bisognerà per forza servirsi del Bernino a dispetto di chi non lo vuole, perché a chi non vuol porre in opera le sue cose bisogna non vederle». Olimpia aveva vinto, per nostra fortuna, ancora una volta.

Nelle sue intenzioni tutto avrebbe dovuto essere pronto per il giubileo del 1650. In una stampa dell’epoca che rappresenta la piazza nell’Anno Santo, si scorge la guglia della fontana dei Fiumi, ma a guardar bene alla base c’è uno steccato che copriva i lavori in corso, mentre era stata eretta l’anno precedente la sola guglia. Il 12 giugno 1651 la fontana venne inaugurata e, grazie al successo che incontrò, il papa e il Bernini si ritrovarono definitivamente.

Alla fontana detta del Moro si mise mano subito dopo quella dei Fiumi, con la modesta somma che era avanzata, sempre con progetto del Bernini. Al centro della bella vasca del Della Porta, questi pose una scultura a forma di chiocciola zampillante sorretta da due delfini. Ma a Donna Olimpia, che l’aveva proprio di fronte al suo balcone, la «lumaca» parve troppo modesta e poco scenografica: volle che il papa la sostituisse con qualcosa di più appariscente. Tuttavia, con la sua consueta ingordigia, non intese rinunciare alla «lumaca» e se ne fece fare omaggio. La destinò ai giardini di villa Pamphili, dove venne sistemata dall’ Algardi. Al suo posto fu collocato il grande Moro, che piacque assai a Olimpia anche se audacemente nudo, e che fu scolpito su disegno del Bernini da un suo allievo, Giannantonio Mari.

I lavori della grande chiesa di S. Agnese furono iniziati nel 1652. Al
suo posto sorgeva una piccola costruzione dedicata alla santa in ricordo del luogo del martirio. Innocenzo x affidò in un primo tempo i lavori a Girolamo Rainaldi. Un anno dopo gli toglieva l’incarico per darlo al Borromini, il quale immaginò quella splendida facciata che oggi vediamo, lasciando tuttavia quasi inalterato l’interno rainaldiano. La piazza si presentava a questo punto come un notevole colpo d’occhio e Olimpia aveva di che essere soddisfatta.

(30) A proposito della tenera amicizia tra Karol e Wanda, Renzo Allegri racconta un episodio che l’avrebbe fatta conoscere al mondo intero:

Un’amicizia che ebbe una straordinaria visibilità nel 1984, quando si seppe che la Poltawska aveva ottenuto un miracolo per intercessione di Padre Pio, tramite richiesta di Karol Wojtyla. La vicenda risale al 1962. Ammalata di tumore, Wanda stava per morire. I medici non davano speranze. Volevano comunque tentate un intervento chirurgico. Wojtyla, giovane vescovo, si trovava a Roma per il Concilio. Venne informato e scrisse subito una lettera a Padre Pio, chiedendogli di pregare per quella donna. La lettera porta la data del 17 novembre 1962. Fu recapitata a Padre Pio a mano, da Angelo Battisti, che era amministratore della Casa Sollievo della Sofferenza. Padre Pio chiese a Battisti di leggergli la lettera. Al termine, disse: “Angiolino, a questo non si può dire di no”. Battisti, che conosceva bene i carismi di Padre Pio, tornò a Roma stupito e continuava a chiedersi il “perché” di quella frase: “A questo non si può dire di no”. Undici giorni più tardi, e cioè il 28 novembre fu incaricato di portare una nuova lettera a Padre Pio. In questa, il vescovo polacco ringraziava il padre delle preghiere perché “la donna ammalata di tumore, era guarita all’improvviso, prima di entrare in sala operatoria”. Un vero e strepitoso miracolo quindi, attestato dai medici.

Credo che qualunque persona resti stupita da questa raccomandazione di un vescovo per una ammalata. Padre Pio, il grande imbroglione (e per questo santificato), era molto sensibile alle raccomandazioni perché sapeva che, in qualche modo, ne avrebbe ottenuto benefici successivi. Ed infatti fu il futuro Papa polacco che facilitò la carriera dell’imbroglione mettendo a tacere tutte le indagini precedenti, avviate anche da Papa Giovanni XXIII, che appunto certificavano un Padre Pio autentico truffatore. Ma poi, un santo in pectore che chiede l’intervento di un altro santo in pectore?

(31) E’ d’interesse qui ricordare che questa vocazione alla misura si è mantenuta nella Chiesa. Mauro Mellini, in un suo saggio (Così annulla la Sacra Rota, Samonà e Savelli 1969) relativo alle sentenze della Sacra Rota sugli annullamenti dei matrimoni religiosi (per ricchi e potenti), riporta un possibile caso di annullamento per impotenza. Poiché un matrimonio non può essere annullato dalla Chiesa se è stato consumato con l’accoppiamento, si può pensare di disquisire di quel consumato. Consumare significa che l’uomo penetra la donna e, se c’è stata penetratio, allora non si annulla nulla. Sembra semplice ma in realtà non basta la penetratio ma occorre che la penetratio sia in quantità significativa, come un esperto rotale scriveva: Perforatio vaginae et penetratio penis necnon seminatio intra vas muliebri ceerte requiritur: sed quanta perforatio et penetratio? E con la penetratio non canonicamente sufficiente anche se aliquando mulier fieri posse gravida, siamo di fronte ad impotenza e quindi a nullità e ciò spiega come la Chiesa abbia annullato molti matrimoni per impotenza anche se benedetti da vari figli (la proibizione al divorzio fu introdotta nella Chiesa dal Concilio Laterano del 1215 e ribadita con alcune questioni non completamente definite dal Concilio di Trento).

          Debbo però completare una affermazione ora fatta relativa al significato del consumare il matrimonio. Il canone 1061 in vigore dal 1983 è più preciso: il matrimonio di una coppia che utilizzi la pillola è considerato consumato e quindi non annullabile; se invece è in uso il coitus interruptus il matrimonio è considerato non consumato e quindi annullabile; il caso del preservativo è tipico da teologi del nulla: si discute infatti se si debba considerare l’eiaculazione all’interno della vagina (come accade utilizzando il preservativo) come rapportabile all’eiaculazione direttamente nella vagina (come accade non utilizzando il preservativo) ma in ogni caso a nessuna coppia che usi il preservativo sarebbe concesso il divorzio rotale. Un notabile cattolico potrebbe però farsi annullare il matrimonio sostenendo che il suo preservativo era bucato ed il seme è andato sia all’interno che nella vagina (indipendentemente dal fatto che siano o no nati dei figli). Per completezza ricordo che per la Chiesa anche l’amplexus reservatus (accoppiarsi senza giungere all’orgasmo) non rende consumato il matrimonio. Se la donna utilizza il diaframma il matrimonio è considerato consumato. L’insieme di queste norme ecclesiastiche (cui se ne aggiungono infinite altre) mostrano che la Chiesa ha un altro Dio da aggiungere al denaro, ai Tre ufficiali ed alla schiera dei santi: il seme maschile. Per far capire basta rifarsi all’ultima norma citata, quella del diaframma: siamo completamente dentro la concezione di Aristotele-Alberto Magno-Tommaso in quanto ciò che conta è l’uomo e non la donna nella generazione. L’uomo ha sparso il suo seme nella vagina e ciò basta, quello che fa la donna è indifferente perché è una specie di sacco che dovrà contenere per nove mesi il figlio che è tutto dentro il seme del maschio (alla faccia degli ovociti & Co e della conciliabilità, sostenuta da qualche sprovveduto, tra scienza e fede).

(32) Dal sito utopia.it, che riporta alcune affermazioni del Manuale dei confessori di Monsignor Bouvier (1837) riprendo alcuni peccati relativi al sesso ai quali non ho fatto cenno nel testo:

Il giovane che fa sedere una ragazza sulle sue ginocchia e la trattiene, o abbracciandola la preme su se stesso ordinariamente, commette peccato mortale e la donna non va immune dallo stesso peccato se volontariamente a tutto ciò acconsente.


Si domanda se è permesso ai fidanzati dilettarsi nel pensiero di abbracciamenti carnali futuri o passati.


Risposta: Se i fidanzati acconsentano alla dilettazione carnale, che sorge prevedendo il futuro accoppiamento, o rammentando gli accoppiamenti passati, peccano mortalmente, giacché si figurino il congiungimento venereo come effettivo e vi si dilettano volontariamente. È peccato mortale dilettarsi deliberatamente in emozioni carnali, ancorché eccitate casualmente
… perché la volontà è la sede del peccato …


Vi è una specie di sodomia, che può accadere anche fra persone di sesso diverso, quando la relazione carnale avviene all’infuori dell’accoppiamento delle parti genitali; per esempio, quando si mettono in opera le natiche, la bocca, le mammelle, le cosce, ecc. Benché questo genere d’infamia non sia punito egualmente come la sodomia propriamente detta, è certo ch’esso è sempre una grande ignominia contro natura.


Nel caso dell’uomo passivo e della donna attiva, l’invertimento della natura sarebbe ancor più grave. Peccano mortalmente i coniugi… se si accoppiano carnalmente usando di una parte del loro corpo che non è quella voluta dalla natura, per esempio, se la moglie prende in bocca il membro virile del marito ecc.

È severamente da biasimare, specialmente il marito, se per sentire maggiore piacere s’introduce nella vagina della moglie facendosi volgere da lei il didietro come usano le bestie, oppure mettendosi sotto di lei, giacché queste strane posizioni corporali sono spesso segni di passionalità moralmente cattiva in coloro che non si accontentano delle posizioni naturali.


Il dilettarsi toccando, senza il fine dell’accoppiamento, le parti veneree è peccato veniale o mortale…

La eiaculazione, considerata in se stessa (senza l’atto della penetrazione) è un peccato contro natura; fra coniugi è peccato mortale quando ne risulti un prossimo pericolo di eiaculazione, perché la polluzione non è lecita né ai coniugati né ai liberi, e non si può ammettere scusa alcuna ad esporsi volontariamente al pericolo di essa.


Si domanda cosa deve fare una donna, oppressa dalla forza (violentata),  Risposta: internamente non deve acconsentire al piacere venereo, qualunque sia la violenza esterna che su lei si compie se no peccherebbe mortalmente. Ella deve difendersi con tutte le sue forze, … in guisa però di non uccidere né di mutilare gravemente l’aggressore, perché la vita e i principali membri del corpo valgono in questo caso più dell’onore, che nella donna qui non è altro che soltanto materialmente offeso. Se ella spera di poter essere soccorsa, deve gridare e invocare l’opera altrui, giacché ella non resiste… parrebbe ch’essa acconsentisse.E meglio sarebbe mille volte morire piuttosto che piegare di fronte a questo pericolo. Una giovane, ridotta a queste strette, temendo di poter acconsentire al piacere delle sensazioni veneree, deve gridare, anche con evidente pericolo della propria vita; in tal caso ella sarà una martire della castità [Come in Deuteronomio 25,11]

Il concubinato è il rapporto fra un uomo libero e una donna libera, i quali convivono come se fossero in matrimonio, o sotto lo stesso tetto, o in separate abitazioni. È certo che il concubinato, inteso così, è un peccato molto più grave della semplice fornicazione, perché c’è l’abituale disposizione dello spirito a peccare…

La fornicazione con persona eretica o infedele, è peccato ancor più grave, in quantoché ridonda in obbrobrio alla vera religione. Anche i fornicatori, gli adulteri, ecc. non possono opporsi alla generazione, lasciando volontariamente cadere il seme fuori della vagina della donna,perché questa è sempre una cosa contro natura.

I baci in parti inconsuete del corpo, per esempio, sul petto, sulle mammelle o, come usano i colombi, introducendo la lingua nella altrui bocca, stimansi fatti con intendimenti libidinosi, o almeno inducono nel grave pericolo della libidine, e perciò non vanno esenti da peccato mortale.

I baci, ancorché onesti, dati o ricevuti per motivo di libidine, fra persone dello stesso sesso o di sesso diverso, sono peccati mortali.

È certo che i baci, anche se onesti, che inducono nel prossimo pericolo di eiaculazione o di veementi commozioni di libidine, sono da reputarsi peccati mortali.

I baci e i toccamenti… quando sono peccati mortali, si devono confessare…

Se qualcuno, per ragioni di sua particolare debolezza, è solito provare eiaculazione guardando eroticamente una donna in qualche parte sensuale del corpo, o toccandole una mano, premendole le dita, conversando con lei, abbracciandola onestamente, ma senza una ragione, assistendo a balli, ecc. deve astenersi da tutti codesti atti sotto pena di peccato mortale.
Nel toccare se stessi con intendimenti sensuali: in questo caso c’è peccato mortale.

Peccano mortalmente le donne che eccitano in sé la vagina oppure volontariamente se ne compiacciono.

L’esperienza dimostra che la vista influisce meno sulla lussuria che il tatto: ciò nondimeno gli sguardi impudichi spessissimo sono un peccato mortale o veniale secondo l’intenzione, il consenso…

È certo che taluni sguardi, benché in se stessi onesti, sono peccati mortali quando avvengono accompagnati da sensuale intenzione. È pure un peccato mortale se il guardare impudico eccita i moti della concupiscenza e si presta ad essi assenso.

È peccato mortale il dilettarsi guardando le mammelle nude d’una donna avvenente, perché è insito in questi sguardi un pericolo.

È spesso grave peccato il fissare gli occhi sopra una bella persona d’altro sesso, perché una tale attenzione è piena di pericoli: … se manca l’intenzione impudica, il peccato non è che veniale.

        A questi peccati se ne devono aggiungere molti altri relativi a come ci si veste (vietato mostrare e vietato guardare), al ballare e danzare, al leggere romanzi in cui si parla di rapporti intimi tra persone, all’andare a teatro a vedere spettacoli sconci, all’immaginare situazioni sessuali con altra persona, al coitus interruptus (onanismo).

 (33) Debbo solo ricordare che dietro gli eserciti crociati che andavano in Terra Santa per ridare alla Cristianità quelle terre occupate da infedeli, seguivano eserciti di puttane che guadagnavano moltissimo per il grandissimo numero di clienti tra i cristianissimi crociati. Neppure la crociata guidata da San Luigi fu immune da questa calamità. E questi santi difensori della vera fede, durante la quarta crociata, mentre rapinavano ogni bene dalla cristiana Costantinopoli, dentro la chiesa di Santa Sofia, fecero sedere una prostituta sul trono del Patriarca bizantino, e la donna cantò canzoni sconce e danzò in modo osceno nel luogo santo.

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