STORIA (SCIENTIFICA E NON SOLO) DELLA CONFIGURAZIONE TOKAMAK

IL NUOVO SAGGIATORE, vol. 21 2005 n. 1-2

A. Sestero
 

ENEA – Frascati (*)


Gli studi sugli usi pacifici dell’energia termonucleare hanno avuto origine negli anni ’50 come attività a latere delle ricerche (rigorosamente classificate) sui dispositivi termonucleari di interesse militare. Come è comprensibile, pertanto, per un certo lasso di tempo tali studi sono stati monopolio delle uniche (all’epoca) potenze termonucleari: Stati Uniti, Unione Sovietica e Inghilterra.
Nell’ambito di detti studi si sono battute sin dall’inizio due strade assai diverse. Una di queste è caratterizzata da un approccio fortemente dinamico, nell’ ambito del quale si punta ad ottenere una produzione di energia mediamente continua nel tempo mediante una serie di micro-esplosioni termonucleari che si susseguono a cadenza ravvicinata. In queste circostanze, la stessa inerzia meccanica del materiale esplodente consente da sola di assicurare che la configurazione di plasma denso e caldo preparata ad hoc rimanga compatta e unita per il (brevissimo) tempo richiesto affinché l’esplosione termonucleare sia innescata e completata (da ciò l’espressione “a confinamento inerziale” con la quale viene generalmente connotato tale approccio alla fusione termonucleare controllata). Appare evidente che per sua natura la suddetta linea di ricerca è vincolata a svilupparsi in stretta simbiosi con gli studi sulle applicazioni militari dell’energia termonucleare: per cui metodi e risultati nell’ambito dell’approccio a confinamento inerziale sono rimasti a lungo classificati. Ancora oggi alcune parti di tali programmi non sono liberamente accessibili (segnalatamente, alcuni codici di calcolo per la simulazione delle micro-esplosioni).
Il secondo indirizzo perseguito punta invece a produrre energia termonucleare in condizioni non esplosive, confinando il plasma termonucleare (cioè inibendo ogni possibile contatto distruttivo del plasma stesso con pareti materiali) mediante campi magnetici dotati di particolari topologie. Da ciò l’espressione “a confinamento magnetico” con la quale viene solitamente connotato questo secondo tipo di approccio alla fusione termonucleare controllata.
Ovviamente le investigazioni sul confinamento magnetico (a differenza di quelle sul confinamento inerziale) sono tenute a confrontarsi con problemi del tutto diversi da quelli che si incontrano nello sviluppo degli ordigni termonucleari, e pertanto possono essere perseguite indipendentemente dalle investigazioni su questi ultimi. Tale circostanza – verso la fine degli anni ’50 – rese possibile un accordo tra le potenze termonucleari dell’epoca, in conseguenza del quale tutto il campo delle ricerche sul confinamento magnetico venne declassificato.
Detto accordo fu formalmente sancito nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite svoltasi a Ginevra nel 1958, e fu accolto dal pubblico informato con palese soddisfazione, sia per la liberalizzazione che introduceva in un’importante area di ricerca, sia perché rappresentava un tangibile segno di distensione tra i due blocchi politicamente contrapposti sulla scena mondiale: un segnale apprezzato e quanto mai benvenuto, in un periodo di gravi tensioni internazionali dovute alla guerra fredda.
 

1.  L’illusione dell’esperimento ZETA


La declassificazione degli studi sul confinamento magnetico consentì a nuovi paesi di aggiungersi ai tre originariamente attivi in detto ambito di ricerca. Tuttavia Stati Uniti, Unione Sovietica e Inghilterra mantennero per qualche tempo una certa preminenza nel campo. In particolare l’Inghilterra continuò a dedicarvi sforzi notevoli, i quali ad un certo punto dettero adito alla progettazione e costruzione della cosiddetta “macchina ZETA”. Vale la pena di occuparci un po’ dettagliatamente di questo dispositivo, sia per certo clamore che suscitarono alcune vicende ad esso associate, sia perché la configurazione plasma-magnetica di detto esperimento è diretta antesignana della configurazione tokamak – quest’ultima essendo il tema del presente scritto.
Tecnicamente la macchina ZETA apparteneva ad una classe di configurazioni sperimentali che in gergo fusionistico sono denominate zetapinch toroidali stabilizzati. Tali dispositivi sono costruiti a partire da una camera da vuoto metallica di forma toroidale, nella quale viene introdotto un gas a bassa pressione. Il gas viene ionizzato con tecniche appropriate, e nel plasma così ottenuto, con un accoppiamento di tipo trasformatore, viene indotta una corrente elettrica molto intensa nella direzione toroidale. La produzione di tale corrente è di fatto lo scopo principe di questa tipologia di esperimenti, che attraverso di essa si propongono di raggiungere due risultati, il riscaldamento del plasma e il suo confinamento: il primo risultato essendo prodotto dall’effetto Joule associato alla corrente indotta nel plasma, e il secondo risultato essendo assicurato tramite il campo magnetico meridiano generato da questa stessa corrente.
Per rendere possibile tutto ciò è tuttavia necessario completare la configurazione con un ulteriore ingrediente: ovvero un campo magnetico di direzione toroidale, generato da bobine disposte attorno alla camera da vuoto.
Detto campo magnetico aggiuntivo ha lo scopo di consentire l’esistenza di soluzioni stazionarie delle equazioni magneto-idrodinamiche – cioè di rendere possibile l’esistenza, nella geometria toroidale considerata, di appropriati “equilibri di plasma” – nonché di assicurare la stabilità di detti equilibri nei confronti di un’estesa classe di possibili perturbazioni (i cosiddetti modi macroscopici, i più pericolosi, caratterizzati da lunghezze d’onda confrontabili con le dimensioni del plasma).
Durante l’operazione dell’esperimento ZETA furono utilizzati gas diversi, al fine di osservare come variassero le proprietà dei plasmi prodotti al variare della composizione atomica ed isotopica del mezzo usato. Nel corso di tale indagine ad un certo punto vennero usate anche miscele isotopiche potenzialmente attive dal punto di vista fusionistico, cioè potenzialmente capaci di dar luogo a reazioni nucleari di fusione – senza che, naturalmente, ci si aspettasse di poter osservare queste ultime in numero cospicuo. Invece, del tutto inopinatamente, i rivelatori di neutroni che facevano parte del corredo diagnostico del dispositivo cominciarono ad emettere un segnale di intensità più che significativa.
Una comprensibile eccitazione si diffuse tra il personale dell’esperimento: forse si era appena ottenuto un risultato di clamorosa importanza!
In circostanze del genere, è buona regola essere molto prudenti. I neutroni osservati erano certamente di origine fusionistica: lo provava il picco del segnale in corrispondenza dell’atteso, appropriato valore dell’energia. Tuttavia l’informazione fornita dalle diagnostiche neutroniche non era da sola sufficiente a chiarire cioè che era realmente accaduto. In linea di principio, sarebbe stato necessario correlarla con tutta una serie di altre misure, condotte su altri parametri e altre proprietà di plasma, allo scopo di ottenere un quadro il più possibile comprensibile e coerente di ciò che si stava manifestando nell’esperimento. Una campagna del genere avrebbe richiesto molte settimane, forse alcuni mesi. Alla fine – dopo non poche, sofferte discussioni – gli inglesi decisero che non potevano consentirsi un tale ritardo: e rompendo ogni indugio la notizia fu comunicata ai mezzi di informazione.
Per capire i motivi che spinsero i fisici inglesi a un tale azzardo, dobbiamo calarci un po’ nell’atmosfera dell’epoca. Da parte sovietica, la declassificazione delle ricerche fusionistiche era stata più formale che sostanziale. Si comunicavano i risultati ottenuti – se ritenuti importanti e atti a portar lustro alla scienza sovietica – ma si omettevano molti particolari.
Soprattutto non si davano informazioni sugli esperimenti in gestazione, o nelle prime fasi di operazione. Per cui, al momento in cui in Inghilterra accadevano i fatti descritti, i fisici russi avrebbero potuto benissimo avere in attività un dispositivo simile alla macchina ZETA senza che se ne sapesse nulla. E se lo avevano, la relativa facilità con cui nella macchina ZETA erano stati generati neutroni faceva ritenere probabile che un tale evento potesse essere agevolmente riprodotto in un esperimento consimile. C’era dunque il rischio concreto, per gli inglesi, di essere battuti sul filo di lana nell’annunciare al mondo il loro clamoroso risultato: il fatto cioè di essere riusciti ad ottenere per la prima volta reazioni di fusione in quantità macroscopicamente significativa da un plasma magneticamente confinato.
Dobbiamo anche capire che nella tesa atmosfera da guerra fredda che caratterizzava quegli anni ogni importante risultato scientifico ottenuto dall’una e dall’altra parte di necessità acquisiva anche una forte valenza politica. Di fatto, in anni di poco anteriori l’orgoglio scientifico e tecnologico dell’occidente aveva già dovuto subire una serie di fieri colpi. Il vantaggio acquisito dai sovietici nel campo degli ordigni termonucleari e dei vettori intercontinentali, il primo satellite artificiale, il primo uomo nello spazio: erano tutte conquiste sovietiche che avevano fortemente impressionato l’opinione pubblica occidentale. No, decisamente l’occidente non poteva permettersi di rischiare che anche questo nuovo importante traguardo scientifico diventasse appannaggio dei sovietici. Da ciò la decisione dei ricercatori inglesi di rompere ogni indugio e comunicare l’evento ai media.
Di tale scelta, peraltro, non ebbero mai abbastanza a pentirsi. Le successive verifiche rivelarono infatti che i neutroni osservati erano sì generati da reazioni nucleari di fusione, ma non erano termonucleari – con ciò intendendosi che non erano stati prodotti da una distribuzione termica (cioè maxwelliana) di nuclei reagenti, bensì da alcune famiglie di nuclei di alta energia originatesi attraverso interazioni onda-particella. Ed è ben noto che, per ottenere un ritorno netto di energia da qualsivoglia dispositivo fusionistico, la distribuzione dei nuclei reagenti nel medesimo deve effettivamente essere pressocché maxwelliana (come ricordato anche, d’altra parte, dal vocabolo termo-nucleare col quale tale ambito di ricerca viene correntemente caratterizzato).
Il modo infelice con cui fu gestita la vicenda sopra descritta – soprattutto nel rapporto con i mezzi di informazione – introdusse purtroppo per la prima volta una connotazione negativa nell’ambito della ricerca fusionistica. Sfortunatamente, altri episodi similmente infelici si sono verificati in anni successivi. Non possiamo esimerci dal rievocare, ad esempio, l’incresciosa, eccessiva e prematura campagna mediatica che in anni a noi più vicini è stata condotta sul tema della fusione fredda. Purtroppo, come conseguenza di episodi siffatti, le ricerche sulla fusione sono state spesso avvolte, nel pubblico sentire, da un aura di vaga inaffidabilità – cosa per la quale abbiamo pagato, e continuiamo a pagare, un certo scotto.


2. – Il successo della configurazione TOKAMAK


Per efficacemente introdurci alle proprietà della configurazione TOKAMAK, dobbiamo portare l’attenzione sul campo toroidale, presente nella macchina ZETA e nei dispositivi consimili. In proposito, bisogna ammettere che i fisici non l’hanno mai amato. Le bobine necessarie per la sua generazione sono state vissute come una camicia di forza posta attorno al plasma, che fastidiosamente intralciava le possibilità di accesso a quest’ultimo. Per di più , il costo (non trascurabile) di dette bobine è stato percepito come un inopportuno drenaggio operato sulle risorse economiche disponibili. Nei limiti del possibile, pertanto, si è sempre cercato di utilizzare campi toroidali di modesta intensità , così da limitare i suddetti aspetti negativi.
Una tale ostilità preconcetta, in concomitanza con altre circostanze, è purtroppo all’origine di alcune vicende non proprio fortunate che si sono verificate nel corso degli eventi che hanno caratterizzato negli anni a seguire l’evoluzione dei TOKAMAK.
Dobbiamo a questo punto ricordare che tra le instabilità di plasma che affliggono la famiglia degli zeta-pinch toroidali di cui ci stiamo occupando vi è una tipologia di modi particolarmente subdola, poiché suscettibile di svilupparsi anche in presenza di campo magnetico toroidale: ci riferiamo ai modi denominati, in gergo fusionistico, modi kink esterni. Per evitare l’impatto distruttivo di detti modi sul plasma, è necessario scegliere il campo toroidale o al di sopra o al di sotto di una certa fascia di valori – in corrispondenza della quale vengono infatti a instaurarsi topologie di campo particolarmente insidiose. Alla luce dell’ostilità preconcetta verso il campo toroidale che è stata più sopra ricordata, appare facilmente comprensibile il fatto che i fisici abbiano preferito indagare inizialmente valori di campo posti al di sotto della fascia proibita: scelta compiuta appunto nella macchina ZETA ed esperimenti consimili. La seconda area di stabilità macroscopica – quella connessa a valori più elevati del campo magnetico toroidale – fu fatta oggetto di indagine soltanto in un secondo tempo.
Ciò avvenne per iniziativa dei laboratori sovietici, i quali per primi imboccarono tale strada – realizzando in proposito un esperimento battezzato TOKAMAK, destinato a far notizia nel tempo.
L’affermazione della nuova configurazione TOKAMAK nel campo delle ricerche fusionistiche si concretizzò attraverso una serie di vicende, per la verità, piuttosto singolari. Le prime comunicazioni scientifiche sui risultati della macchina TOKAMAK riuscirono infatti poco credibili alle orecchie dei fisici occidentali. Per
meglio comprendere la ragione di ciò, dobbiamo fare un passo indietro. Ricordiamo che uno dei parametri di plasma più significativi, ai fini degli obbiettivi fusionistici, è il cosiddetto tempo di confinamento dell’energia, definito come rapporto tra l’energia (cinetica, cioè termica) contenuta nel plasma e la potenza globalmente persa dal plasma stesso attraverso vari meccanismi.
Di fatto, il valore ottenuto per tale parametro in un dato esperimento fusionistico fornisce un’indicazione significativa del progresso conseguito mediante l’esperimento stesso.
Dobbiamo anche ricordare come numerose, diversificate configurazioni plasma-magnetiche fossero state fino a quel momento indagate sperimentalmente, con risultati sempre piuttosto deludenti, se misurati appunto attraverso i valori raggiunti dal tempo di confinamento dell’energia.
Ebbene – tornando alla vicenda del TOKAMAK – attraverso le prime informazioni comunicate dai russi su questo esperimento sembrava doversi concludere che con esso si era oggettivamente fatto segnare un progresso strepitoso nella qualità del confinamento. La cosa apparve quanto meno sospetta ai fisici occidentali. Un simile cospicuo miglioramento (così si argomentava) non poteva verosimilmente ascriversi solamente al diverso, più alto valore utilizzato per il campo toroidale. Forse le vere ragioni che avevano determinato l’annunciato progresso erano altre, che erano state taciute (secondo il costume sovietico dell’epoca). O forse c’era semplicemente di mezzo un errore sistematico nelle misure, o nella loro interpretazione (macchina ZETA docet).
Si può pertanto comprendere come, nelle diverse occasioni di confronto coi colleghi sovietici, i fisici occidentali non mancassero mai di esternare i propri dubbi e le proprie perplessità (i più acrimoniosi nei loro interventi essendo di fatto i fisici inglesi, i quali ancora si leccavano le ferite per la brutta figura fatta con la macchina ZETA…). Ciò creava nelle delegazioni sovietiche, ovviamente, notevole disagio e contrarietà. Nella vicenda del TOKAMAK l’abituale vezzo di
avvolgere ogni comunicazione scientifica in un certo alone di mistero si stava rivelando per i sovietici un vero boomerang: proprio il sorprendente progresso conseguito generava infatti sospetto e incredulità diffusa, col risultato che la ricerca sovietica, anziché ricavarne prestigio, vedeva la propria stessa attendibilità venire intaccata.
Tutto questo convinse alla fine i fisici sovietici (e i loro referenti politici) che verosimilmente era giunto il momento di cambiare atteggiamento: di inaugurare cioè una stagione di “glasnost” – ante litteram – nelle relazioni con l’occidente (seppure limitatamente, per il momento, alle sole ricerche sul confinamento magnetico).
L’operazione trasparenza, che di fatto rendeva sostanziale anche nel campo sovietico la declassificazione formalmente dichiarata alcuni anni prima, fu attuata con un’abile regia mediatica, volta a creare un vero e proprio coup de théatre. Alla prima occasione di incontro con gli occidentali, infatti, il delegato sovietico di turno – dopo aver incassato le solite bordate di commenti sarcastici da parte degli inglesi – rispose rivolgendo a questi ultimi un sorprendente invito: “Se non credete ai nostri risultati, ebbene, mettete in valigia i vostri strumenti e venite a realizzare voi stessi le misure che ritenete necessarie”. L’invito fece ovviamente sensazione. Gli inglesi, con lo spirito sportivo che li contraddistingue, accettarono senza indugio: e alcuni di essi si trovarono perciò a varcare – per la prima volta – la soglia di un laboratorio sovietico di ricerca sulla fusione.
La fine della vicenda è nota a tutti: nei rapporti redatti al termine del loro impegno i fisici inglesi certificarono la validità dei risultati conseguiti dai colleghi sovietici, sportivamente complimentandosi per la professionalità del lavoro svolto e implicitamente chiedendo scusa per le precedenti ingiustificate illazioni negative. In conseguenza dei fatti sopra ricordati molti laboratori occidentali modificarono i loro programmi, convertendosi essi stessi alla configurazione TOKAMAK. In tempi relativamente brevi si ebbero ulteriori ripetute conferme della validità di tale soluzione, che in campo fusionistico praticamente assunse il ruolo di configurazione di riferimento Ð quella cioè con la quale le altre iniziative sperimentali nell’ambito del confinamento magnetico avrebbero dovuto d’ora in poi confrontarsi. L’obbiettivo della produzione commercialmente utile di energia da reazioni nucleari di fusione restava tuttavia ancora assai lontano: iniziava un cammino lungo, faticoso, irto di dubbi e difficoltà, che ancora continua, e ancora non consente di individuare il punto di arrivo con assoluta chiarezza.
 

3.  “Grande è bello”


In linea di principio, per aumentare le prestazioni fusionistiche nell’ambito della configurazione TOKAMAK ci sono due percorsi ovvi, tra loro complementari: si possono incrementare quelli che sono i parametri estensivi dell’esperimento (dimensioni del dispositivo, sezione e volume del plasma) oppure se ne possono accrescere i parametri intensivi (intensità di campo magnetico, densità di flusso di corrente).
La maggioranza dei fisici fusionisti, per la verità, ha sempre mostrato preferenza per la prima alternativa.
In questo paragrafo non ci addentreremo ad indagare i motivi che possono aver determinato una tale propensione (al di là del peculiare pregiudizio in proposito che è stato in precedenza ricordato). Più semplicemente, ci limiteremo ad esporre due vicende particolarmente emblematiche nella storia dei TOKAMAK a grandi dimensioni: la realizzazione dell’esperimento JET e l’avvio del progetto ITER.
L’esperimento JET (come si evince dal nome vergato per esteso: Joint European Torus) rappresentoÁ uno sforzo comune dei paesi dell’area europea, che attraverso di esso scelsero di convogliare capacità professionali e disponibilità economiche in un’unica impresa di grande momento, allo scopo di far compiere alla ricerca fusionistica un significativo balzo in avanti. Tale iniziativa fu preparata con cura. Fu nominata una commissione, cui fu affidato l’incarico di indicare la combinazione di parametri di macchina che poteva consentire l’impiego più proficuo delle risorse a disposizione (almeno, sulla base di quelle che erano le conoscenze del tempo). Detta commissione lavorò con metodo e rigore per un significativo lasso di tempo, al termine del quale stilò un rapporto contenente una serie di indicazioni. Portiamo qui l’attenzione sul valore suggerito dalla commissione per il campo magnetico toroidale (in un certo senso, infatti, questo è il parametro più importante, dal momento che da esso, e insieme dal tetto di spesa orientativamente stabilito, seguono anche, grosso modo, obbligatorie fasce di valori per i parametri di macchina estensivi).
Per detto campo toroidale fu raccomandato il valore di 5 tesla (con i valori compresi nell’intervallo tra 4 e 6 tesla giudicati ancora ragionevolmente accettabili) (1).
Completata l’indagine preparatoria, fu costituito il gruppo di progetto, incaricato di elaborare i disegni costruttivi dell’esperimento. Questo gruppo si trovò da subito in disaccordo con quanto raccomandato in precedenza dalla commissione di studio. L’opinione che vi prevalse fu che il nuovo dispositivo avrebbe dovuto essere soprattutto molto grande (così da permettere un livello di dettaglio radiale mai prima raggiunto nelle diagnostiche di plasma) e con un campo magnetico toroidale piuttosto ridotto (così da non debordare troppo nei costi, vista la scelta alquanto liberale fatta con le dimensioni). Un tale orientamento era in palese contrasto con le conclusioni cui era pervenuta la precedente commissione di studio. Iniziò a questo punto un teso braccio di ferro, al termine del quale il gruppo di progetto riuscì di fatto ad imporre incondizionatamente i propri intendimenti. Fu così dato il via alla progettazione e quindi alla costruzione del JET, con il campo magnetico toroidale stabilito al valore di 2.8 tesla.
Quando giunse il momento dell’avvio delle attività operative sull’esperimento, tuttavia, si dovette quasi subito ammettere che, forse, si era un po’ esagerato nel tenere basso il campo.
Il nuovo dispositivo infatti non si comportava in modo sufficientemente muscolare. A malincuore, e con un certo imbarazzo, si dovettero richiamare gli ingegneri ai loro tavoli da disegno, e commissionare una riedizione potenziata del magnete toroidale. Naturalmente, coi vincoli che derivavano dall’essere le altre componenti di macchina già costruite, il valore di 5 tesla inizialmente raccomandato dalla commissione di studio era a questo punto un miraggio irrangiungibile. Dando prova di grandi capacità professionali, gli ingegneri riuscirono comunque a portare il campo toroidale al valore di 3.5 tesla.
Il JET a 3.5 tesla ha prodotto nella sua lunga vita un’interessante messe di risultati. Alla luce delle vicende sopra ricordate, tuttavia, non possiamo evitare che un insidioso dubbio si insinui nella nostra mente. Dubbio che è traducibile nella seguente domanda: quanti altri più avanzati meriti avrebbe forse potuto conquistarsi sul campo una macchina di pari impegno scientifico ed economico, ma progettata sin dall’inizio secondo le indicazioni originali della commissione di studio? Naturalmente, non lo sapremo mai. Ma non possiamo fugare un vago senso di malinconia al pensiero che, forse, è stata mancata un’importante occasione…
E veniamo ora al progetto ITER. Col suo lancio, si intendeva ripetere – questa volta a livello mondiale – l’esperienza unificante che aveva caratterizzato il JET a livello europeo. L’esordio di ITER avvenne in circostanze particolari, che aggiunsero all’iniziativa una considerevole valenza politica. Era infatti il momento in cui in Unione Sovietica si prendevano le prime timide iniziative di liberalizzazione e avvicinamento all’Occidente. Coinvolgere l’Unione Sovietica in un importante progetto internazionale avrebbe certamente aiutato l’evoluzione in corso al suo interno. Tanto più per l’elevato valore simbolico che in quest’ottica assumeva la ricerca termonucleare per scopi pacifici: non dobbiamo infatti scordare che la ricerca termonucleare per scopi militari era stata per anni l’aspetto più pericoloso della guerra fredda. Il lancio dell’iniziativa ITER avvenne pertanto in un clima di grandi speranze che, tra le altre cose, sembravano legittimare l’attesa di finanziamenti piuttosto liberali per gli anni a venire. Cullandosi in tali aspettative, il gruppo incaricato di progettare l’esperimento definì per quest’ultimo obbiettivi assai ambiziosi, includendo tra le previste finalità non solo importanti traguardi di fisica, ma anche tutta una serie di obbiettivi specifici dell’ingegneria di un possibile reattore commerciale. Non inaspettatamente, tutto ciò portò ad una considerevolissima lievitazione delle stime di costo formulate per l’esperimento – nonostante il volonteroso tentativo di parzialmente contenere quest’ultime (a parità di obbiettivo finale in termini di prestazioni) mediante l’introduzione di valori di campo toroidale tipicamente doppi di quelli utilizzati nel dispositivo JET. Nel volgere di pochi anni, tuttavia, cambiamenti importanti si manifestarono nella situazione politica del blocco orientale. L’Unione Sovietica si dissolse, e le singole realtà statali da essa emerse (in primo luogo la nuova Russia) iniziarono ad inseguire spontaneamente il miraggio di un libero mercato e una libera economia. E’ chiaro che in questa nuova situazione la valenza politica inizialmente riposta nella collaborazione internazionale sul progetto ITER non sussisteva praticamente più. Questo dato di fatto – unitamente alla smodata lievitazione dei costi di ITER sopra denunciata – indussero alla fine gli Stati Uniti (paese assai pragmatico, come
tutti sappiamo) a chiamarsi fuori dalla collaborazione sul progetto ITER. Quanto alla nuova Russia, in realtà avrebbe desiderato rimanere nell’accordo di collaborazione, ma non poteva semplicemente permetterselo, perché le difficoltà della situazione contingente la costringevano a darsi ben altre priorità. Il progetto ITER rimase pertanto nelle mani degli altri paesi partecipanti: in primo luogo l’Unione Europea, poi il Giappone, e infine un altro pugno di paesi di minore peso economico.
In queste circostanze apparve chiaro che, per sopravvivere, il progetto ITER doveva essere sottoposto a vigorosa cura dimagrante. Per prima cosa, vennero cassati tutti gli obbiettivi di sapore reattoristico, confinando le finalità dell’impresa
ai soli obbiettivi di fisica. Non solo, anche questi ultimi vennero ridimensionati – e
gli stessi margini di sicurezza stabiliti per il raggiungimento di tali obbiettivi dovettero purtroppo essere assottigliati. A questo punto (e siamo pressocché giunti ai giorni nostri) i proponenti di ITER ritennero di avere tra le mani un progetto di esperimento ragionevolmente accettabile sul piano dei costi, per il quale si poteva pertanto chiedere l’inizio della costruzione.
Al tempo di questo scritto una decisione definitiva in proposito ancora non è stata assunta (2).
In ogni caso, se il progetto ITER decollerà, ci sarà certamente un forte drenaggio di risorse economiche e professionali nel campo della fusione.
E’ comunque auspicabile che vengano preservati spazi di ricerca adeguati anche per altre iniziative fusionistiche – segnalatamente, restando nell’ambito dell’indirizzo TOKAMAK, per le proposte illustrate nella sezione seguente.


4.  “Alto campo è bello”


Il primo TOKAMAK genuinamente ad alto campo vide la luce in America nei laboratori del MIT. La scelta di perseguire l’indirizzo dell’alto campo fu di fatto propiziata dalla contiguità geografica e culturale tra la nascente impresa e lo storico “Bitter Magnet Laboratory” dello stesso MIT. In tempi brevi e con spesa assai contenuta, nacque cosõÁ l’esperimento “ALCATOR A”, capace di operare con un campo magnetico toroidale di 12 tesla. I risultati ottenuti mediante questo esperimento confermarono definitivamente l’effetto positivo che un aumento del campo toroidale induce nelle proprietà di confinamento di particelle ed energia del plasma – fatto già in precedenza chiaramente accertato mediante la stessa transizione che era stata operata dalla configurazione della macchina ZETA alla configurazione TOKAMAK.
Il successo ottenuto con ALCATOR A incoraggiò lo sviluppo di nuovi dispositivi ad alto campo. Questi furono costruiti ancora presso il MIT, ma altresì nei Laboratori dell’ENEA di Frascati. Scopo di tali investigazioni non fu tanto quello di aumentare ulteriormente il valore del campo toroidale, quanto piuttosto quello di conciliare quest’ultimo con geometrie più avanzate (tori panciuti, sezioni del plasma assialmente elongate), queste ultime essendo più favorevoli per gli scopi fusionistici prefissati.
Come punto di approdo delle suddette ricerche, fu infine avviato un progetto ambizioso, battezzato IGNITOR – prefiggentesi (come suggerito dal nome) il raggiungimento nel plasma di condizioni di ignizione: condizioni cioè nelle quali l’energia depositata nel plasma dalle particelle alfa ottenute da reazioni di fusione è sufficiente a compensare tutte le perdite di energia subite dal plasma stesso. Non c’è qui bisogno di ricordare che il raggiungimento di condizioni di ignizione è concordemente considerata una tappa fondamentale nella dimostrazione della fattibilità scientifica di un reattore a fusione. Nel progetto IGNITOR il campo toroidale fu fissato al valore di 13 tesla. Il piccolo incremento rispetto ai 12 tesla di ALCATOR A non deve trarre in inganno: a causa della geometria profondamente diversa, i 13 tesla di IGNITOR realizzano infatti un traguardo ingegneristico molto più impegnativo di quanto non fossero stati i 12 tesla ottenuti in precedenza nella geometria di ALCATOR A.
Ovviamente, tra i progetti ITER e IGNITOR si è da sempre manifestata una vivace dialettica (se non vogliamo dire rivalità), dal momento che entrambe le iniziative perseguono obbiettivi consimili, sia pure attraverso scelte diverse del valore del campo toroidale. Nel confronto, il progetto IGNITOR sembra avere dalla sua due importanti atouts: migliori garanzie di raggiungimento del traguardo dell’ignizione, e costo sensibilmente inferiore. Quest’ultimo non è ovviamente un aspetto di natura scientifica o tecnologica, ma dobbiamo tener presente che è comunque un elemento di assoluta importanza, considerati i costi stratosferici che i progetti fusionistici sono di necessità venuti assumendo.
Decisioni importanti sul futuro di IGNITOR e di ITER sono ormai prossime ad essere assunte: indipendentemente da quello che sarà il destino di ITER, è altamente augurabile che il progetto IGNITOR rimanga comunque sulla scena, al fine di assicurare un vitale margine di flessibilità al programma di ricerca nell’indirizzo TOKAMAK.
Per finire, a conclusione di questa libera carrellata sulla configurazione TOKAMAK, accenneremo al progetto OMITRON. Questa è un’attività che prese avvio nei Laboratori dell’ENEA di Frascati, come corollario del progetto IGNITOR. Detta attività era finalizzata a ricercare le migliori soluzioni costruttive nella progettazione di un magnete toroidale ad alto campo, nell’ambito degli speciali vincoli imposti dalla configurazione TOKAMAK. In quest’ottica fu trovata una soluzione particolarmente efficace, costituita da due “ricette” concatenate tra loro (per le quali furono effettivamente espresse rivendicazioni separate nel relativo testo brevettuale depositato).
La prima di tali ricette consiste nel sostituire il consueto supporto meccanico passivo per le bobine del magnete toroidale con un supporto meccanico attivo in forma di pressa magnetica, attuato nelle geometrie alternative assiale o radiale. La seconda ricetta consiste invece nell’utilizzare la flessibilità così conseguita non più
soltanto per scaricare sforzi indesiderati dalle bobine del magnete, bensì anche per caricarvi utili sforzi aggiuntivi – finalizzati questi ultimi a rendere quasi isotropo il tensore degli sforzi nelle zone più sollecitate, allo scopo di minimizzare in esse gli sforzi di taglio (i soli responsabili dello snervamento e/o rottura del materiale di bobina).
Per sua natura, la prima ricetta può essere applicata con gradualità. Pertanto fu possibile integrarla nel progetto IGNITOR con una certa facilità, senza sostanzialmente modificare le altre componenti del dispositivo (con una geometria di pressa scelta dapprima assiale, e cambiata successivamente in radiale, per ottenere maggiore efficacia). La stessa cosa non fu possibile fare invece per la seconda ricetta – la cui attuazione avrebbe di fatto richiesto un vero e proprio stravolgimento dell’ingegneria di IGNITOR.
A questo punto il progetto OMITRON, per poter perseguire i suoi obbiettivi, dovette di necessità porsi su una strada separata rispetto al progetto IGNITOR. L’applicazione al meglio delle ricette individuate consentì di accrescere il valore del campo toroidale fino a 20 tesla (e cioè pur mantenendo la geometria ottimale di plasma che è caratteristica del progetto IGNITOR).
Le opportunità create dall’accesso ad un valore di campo magnetico toroidale così elevato erano palesemente interessanti. Il raggiungimento dell’ignizione del deuterio-trizio era resa significativamente più agevole. Non solo: stime prudenti, basate su modelli correnti di trasporto dell’energia nel plasma, facevano balenare la possibilità di raggiungere l’ignizione anche in miscele di deuterio-trizio di composizione non canonica – consentendo così di muovere i primi passi verso la sperimentazione con i cosiddetti combustibili avanzati (deuterio-elio3 e deuterio-deuterio catalizzato). Inoltre, tutto ciò poteva realizzarsi – aspetto questo ovviamente fra i più importanti – rimanendo nell’ambito di preventivi di spesa dichiaratamente non iperbolici.
Apprendendo di caratteristiche così interessanti, il lettore avrà probabilmente ritenuto, dentro di sé, che il progetto OMITRON possa avere avuto un adeguato, concreto sviluppo.
Non è stato così. Se si eccettua il contesto amico incontrato in seno al progetto IGNITOR, al di fuori di quest’ultimo a tutt’oggi non è stato possibile al progetto OMITRON trovare alcun consenso (e tanto meno sostegno concreto).
Ancora una volta in questo scritto non rimane pertanto che registrare un senso di vaga malinconia, per quella che forse è stata un’ulteriore occasione mancata…

_________________________

NOTE

(*) Attualmente retired. Indirizzo di casa: Viale Giulio Agricola 131, Roma 00174.
(1) Il campo toroidale varia ovviamente con la distanza dall’asse di simmetria della configurazione. Come è consuetudine, qui e nel seguito i valori del campo toroidale indicati sono riferiti al centro della sezione meridiana del plasma nella configurazione di riferimento. Con l’occasione, chiediamo scusa del vezzo (ormai inveterato nel campo della fusione) di usare il termine campo magnetico per indicare quella che è invece più propriamente l’induzione magnetica.

(2) Negli ultimi tempi si sta manifestando un cambiamento dell’atteggiamento americano nei confronti di ITER. Infatti nella «legge finanziaria» proposta dall’Amministrazione USA, e attualmente all’esame del Congresso, compaiono
stanziamenti volti ad assicurare il rientro degli Stati Uniti nella collaborazione ITER a partire dal 2006. Congiuntamente ad altri segnali (ad esempio, il mutato atteggiamento nei confronti dell’UNESCO), ciò sembrerebbe testimoniare il desiderio degli Stati Uniti di riavvicinarsi alla comunità internazionale (dopo un periodo durante il quale – per note vicende – se ne erano parzialmente allontanati).

 (Nota del redattore) – Verrà costruito in Francia il reattore sperimentale a fusione nucleare Iter, un avveniristico progetto da 10 miliardi di euro messo a punto nel quadro delle ricerche di nuove fonti di energia pulita.
La decisione è stata presa il 28 giugno 2005 a Mosca nel corso di una riunione a livello ministeriale tra i sei partner coinvolti nell’impresa: Unione europea, Russia, Cina, Giappone, Stati Uniti e Corea del Sud. La Francia ha avuto la meglio sul Giappone: la sede scelta è Cadarache, nel Sud del Paese. L’Ue, a fine maggio 2006, ha deciso che assicurerà un finanziamento del 40% dei costi di costruzione, mentre un 10% sarà messo dalla Francia. Usa, Giappone, Cina e Corea del Sud si assumeranno un onere del 10% ciascuno. La spesa complessiva prevista è di circa 4,7 miliardi di euro. I costi di gestione, pari a circa 5 miliardi, saranno anch’essi divisi tra i partner del progetto.
I lavori per la costruzione del reattore dovrebbero cominciare nel 2007, una volta ottenuti tutti i permessi, e dovrebbero terminare in una decina di anni.




Categorie:Senza categoria

Rispondi