Fusione nucleare, lo stato dell’arte

di Franco Pallavicini

http://www.tdf.it/2006/fvp-fusione.htm

Fissione e fusione
La ricerca sulla fusione, un po’ di storia
A che punto siamo?
Conclusioni
Per approfondire

Lo scorso 28 giugno, dopo una lunga disputa, è stato finalmente deciso il sito dell’ International Thermonuclear Experimental Reactor: ITER sarà costruito a Cadarache in Francia.

Qualche mese prima una proposta di legge di Gianfranco Morgando (Margherita) riaccendeva l’attenzione sull’esperimento IGNITOR e indicava Rondissone (in Piemonte) come sito per questo esperimento.

A che punto siamo sulla strada della produzione di energia da fonti “nucleari” diverse dalle attuali centrali a fissione, quali sono i costi delle iniziative in corso? Perché più di una?

In questo articolo proviamo a fare un po’ di chiarezza sulla situazione presentando un rapido inquadramento delle tecnologie coinvolte nella produzione di energia di origine “nucleare”, una breve storia della ricerca relativa alla fusione e facendo infine il punto sulla situazione attuale in questo settore di ricerca.

Fissione e fusione

E=mc2, la famosa equivalenza massa/energia trova in ambito nucleare una delle sue più notevoli applicazioni.
La massa a riposo di un nucleo stabile è minore delle masse a riposo dei singoli nucleoni (protoni e neutroni) che lo costituiscono: il difetto di massa si è trasformato in energia di legame. Ci sono due modi per liberare questa energia: il “frazionamento” di nuclei pesanti, come l’Uranio o il Plutonio, mediante bombardamento di neutroni, la fissione nucleare.
Oppure la via esattamente opposta: fondere assieme nuclei leggeri, per esempio isotopi dell’idrogeno che hanno il nucleo costituito da un solo protone e da uno, due (deuterio) o tre (trizio) neutroni, la fusione nucleare.
La reazione più “facile” da realizzare è quella che fonde un nucleo di Deuterio con uno di Trizio producendo una particella alfa (nucleo di Elio4) e un neutrone: D+T -> He3 + n

Le attuali centrali nucleari producono energia tramite fissione. L’uso di reazioni di fissione presenta notevoli svantaggi, esaminati qui di seguito, rispetto all’ utilizzo di reazioni di fusione, con però un unico ma decisivo vantaggio: sappiamo come costruire e abbiamo costruito reattori a fissione mentre il più vicino reattore a fusione funzionante si trova a oltre 140 milioni di Km da noi.

I principali “minus” della fissione rispetto alla fusione sono:

 1Il “combustibile” per le centrali a fissione (Uranio, Plutonio) non è particolarmente abbondante ed è quindi destinato ad esaurirsi rapidamente: più o meno con la stessa dinamica del petrolio (stime di esaurimento in circa 100 anni). Il “combustibile” per le reazioni di fusione (Idrogeno) è invece estremamente abbondante tanto da poter equiparare la produzione di energia per fusione termonucleare ad una fonte “rinnovabile” ed è inoltre uniformemente distribuito sulla terra a differenza di uranio, plutonio … e petrolio.
 2Smaltimento del combustibile “esausto”. Per quanto non tutte le scorie siano ugualmente pericolose e siano possibili soluzioni, al di là del terrorismo psicologico operato da certe frange ambientaliste, il problema attualmente resta: le scorie radioattive delle centrali a fissione hanno una vita estremamente lunga (decine di migliaia di anni) ed il loro “immagazzinamento” per periodi così lunghi costituisce un indubbio problema. Il Trizio ha invece un periodo una vita media di 13 anni (idrogeno e deuterio non sono radioattivi) e la radioattività indotta dai neutroni veloci prodotti dalle reazioni di fusione sulle “pareti” del reattore ha una vita media dell’ordine dei 100 anni: per la fusione non sono necessarie tecniche di smaltimento “geologico”. In natura esistono reazioni di fusione del tutto prive di “scorie radioattive”, ovvero reazioni che non coinvolgono il Trizio e senza produzione di neutroni veloci: per esempio quelle che avvengono nel sole ( p+p -> D, D+p -> He3, He3 + He3-> He3 + p + p), peccato richiedano condizioni (di temperatura e pressione) ancora più estreme di quelle richiesta dalla reazione D/T e quindi ancora più lontane dalla nostra attuale capacità tecnica.
 3Possibile utilizzo delle centrali a fissione (ma non quelle a fusione) come “fabbriche” di materiale per ordigni nucleari con conseguente opposizione delle attuali “potenze nucleari” al loro sviluppo in paesi non amici. Si veda il caso dell ‘Iran.
 4Sicurezza intrinseca. In caso di problemi la reazione di fusione si ferma da sola al contrario di quella di fissione che in assenza di “moderatori” si autoalimenta con crescita esponenziale dell’energia prodotta fino alla “fusione” del nocciolo (vedi incidente di Cernobyl).

L’energia prodotta tramite fusione condivide inoltre con quella prodotta tramite fissione il grande pregio di non produrre inquinamento ed in particolare CO2 il gas responsabile dell’ effetto serra.

E’ comunque doveroso dire che anche per la fissione si stanno proponendo schemi innovativi ( l’ “Amplificatore di Energia”, proposto da C. Rubbia, basato su Torio + acceleratore di particelle, i reattori veloci ad Uranio impoverito, etc.) che presentano sostanziali miglioramenti rispetto agli schemi attuali e risolvono o alleviano alcuni dei problemi sopra esposti (disponibilità materia prima, smaltimento scorie radioattive, sicurezza intrinseca). Inoltre la realizzazione di questi schemi presenta problemi tecnologici probabilmente minori di quelli legati alla fusione.

Ciò detto la fusione rimane comunque la “grande” speranza del futuro. Vediamo in quale modo può essere realizzata.

Perché la forza nucleare forte, che ha un corto raggio d’azione, entri in gioco, bisogna “schiacciare” i nuclei uno contro l’altro, con energia sufficiente a superare la “barriera di Coulomb”, cioè la repulsione elettrostatica tra i protoni, con carica elettrica positiva.

Tre (forse quattro) sono gli schemi possibili:

Confinamento gravitazionale. E’ il meccanismo utilizzato nelle stelle, non è ovviamente utilizzabile nei reattori terrestri

Confinamento inerziale. Si comprime una “pasticca” di Deuterio e/o Trizio mediante un “bombardamento” concentrico di raggi laser ad alta potenza o fasci di particelle di grande energia. Si tratta di provocare “piccole esplosioni termonucleari”: si devono raggiungere densità molto elevate (dell’ordine di 1025 part./cm3 per tempi estremamente brevi (100 picosecondi).

Fusione Magnetica densità ≈ 1014 part/cm3 tempo ≈ 1 sec Dimensioni del
plasma ≈ 1000 m3
Fusione Inerziale densità ≈ 1025 part/cm3 tempo ≈ 100 ps Dimensioni del
plasma ≈ 10-6 cm3

Confinamento magnetico. Si riscalda la “miscela” nucleare, il

Confinamento magnetico. Si riscalda la “miscela” nucleare, il plasma di Idrogeno / Deuterio / Trizio, confinandolo tramite un forte campo magnetico per impedirne sia la dispersione sia il contatto con una qualunque parete solida che non resisterebbe a simili temperature. Si tratta della tecnica che si vuole sperimentare con ITER e IGNITOR, è la tecnica oggi considerata più promettente e a cui dedicheremo il resto di questo articolo.

Fusione Fredda. Nei solidi la repulsione coulombiana può essere schermata da effetti collettivi degli elettroni del reticolo e non è più necessario riscaldare per fornire l’energia necessaria a superare la barriera coulombiana. La tecnica si basa su elettrolisi con elettrolita deuterato utilizzando catodi specifici (ad es. Palladio). Tramite elettrolisi si fa entrare nel reticolo del catodo il deuterio fino a portarlo ad una concentrazione (part./cm3) dell’ordine di quella degli ioni costituenti il reticolo. I risultati sperimentali sono controversi e difficilmente riproducibili: si ha sviluppo di calore quando la concentrazione del deuterio è dell’ordine di quella dell’elemento del catodo ma sono imprevedibili l’inizio del fenomeno e la durata, si ha qualche evidenza di trasmutazioni nucleari. In mancanza di un solido fondamento teorico e di risultati apprezzabili non è possibile dire se questa linea di ricerca potrà portare alla produzione di energia.


La ricerche sulla fusione, un po’ di storia

Questo paragrafo è stato in gran parte tratto dall’ ottimo articolo “STORIA (SCIENTIFICA E NON SOLO) DELLA CONFIGURAZIONE TOKAMAK” di A. Sestero che vi invito a consultare.

Gli studi sugli usi pacifici dell’energia termonucleare hanno avuto origine negli anni ’50 (come attività a latere delle ricerche sui dispositivi termonucleari di interesse militare).

La “declassificazione” degli studi sul confinamento magnetico (avvenuta formalmente nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite svoltasi a Ginevra nel 1958 ) consentì a nuovi paesi di aggiungersi ai tre originariamente attivi in detto ambito di ricerca. Tuttavia Stati Uniti, Unione Sovietica e Inghilterra mantennero per qualche tempo una certa preminenza nel campo. In particolare l’Inghilterra continuò a dedicarvi sforzi notevoli, i quali ad un certo punto dettero adito alla progettazione e costruzione della cosiddetta “macchina ZETA”.

Tecnicamente la macchina ZETA apparteneva ad una classe di configurazioni sperimentali che in gergo fusionistico sono denominate zetapinch toroidali stabilizzati. Tali dispositivi sono costruiti a partire da una camera da vuoto metallica di forma toroidale, nella quale viene introdotto un gas a bassa pressione. Il gas viene ionizzato con tecniche appropriate, e nel plasma così ottenuto viene indotta una corrente elettrica molto intensa nella direzione toroidale. La produzione di tale corrente è di fatto lo scopo principe di questa tipologia di esperimenti, che attraverso di essa si propongono di raggiungere due risultati, il riscaldamento del plasma e il suo confinamento: il primo risultato essendo prodotto dall’effetto Joule associato alla corrente indotta nel plasma, e il secondo risultato essendo assicurato tramite il campo magnetico meridiano generato da questa stessa corrente. Per rendere possibile tutto ciò è tuttavia necessario completare la configurazione con un ulteriore ingrediente: ovvero un campo magnetico di direzione toroidale, generato da bobine disposte attorno alla camera da vuoto. Questo campo magnetico aggiuntivo ha lo scopo di rendere possibile l’esistenza, nella geometria toroidale considerata, di appropriati “equilibri di plasma”, nonché di assicurare la stabilità di questi equilibri nei confronti di possibili perturbazioni.

I fisici non l’hanno mai amato il campo toroidale: le bobine necessarie per la sua generazione sono state vissute come una camicia di forza posta attorno al plasma, che fastidiosamente intralciava le possibilità di accesso a quest’ultimo. Per di più, il costo (non trascurabile) di dette bobine è stato percepito come un inopportuno drenaggio operato sulle risorse economiche disponibili. Nei limiti del possibile, pertanto, si è sempre cercato di utilizzare campi toroidali di modesta intensità , così da limitare i suddetti aspetti negativi.

Per evitare l’impatto distruttivo sul plasma delle instabilità è necessario scegliere il campo toroidale o al di sopra o al di sotto di una certa fascia di valori, in corrispondenza della quale vengono infatti a instaurarsi topologie di campo particolarmente insidiose.

Alla luce dell’ostilità preconcetta verso il campo toroidale che è stata più sopra ricordata, appare facilmente comprensibile il fatto che i fisici abbiano preferito indagare inizialmente valori di campo posti al di sotto della fascia proibita: scelta compiuta appunto nella macchina ZETA ed esperimenti consimili. La seconda area di stabilità macroscopica, quella connessa a valori più elevati del campo magnetico toroidale, fu fatta oggetto di indagine soltanto in un secondo tempo.

Ciò avvenne per iniziativa dei laboratori sovietici, i quali per primi imboccarono tale strada, realizzando in proposito un esperimento battezzato TOKAMAK, destinato a far notizia .

Con l’esperimento TOKAMAK T-3 alla fine degli anni ’60 i russi ottennero un progresso strepitoso nella qualità del confinamento. Dopo questo esperimento (e dopo che i risultati conseguiti furono certificati da scienziati inglesi inizialmente increduli e dubbiosi della validità e dell’esattezza delle misure russe) molti laboratori occidentali modificarono i loro programmi, convertendosi essi stessi alla configurazione TOKAMAK. In tempi relativamente brevi si ebbero ulteriori ripetute conferme della validità di tale soluzione, che in campo fusionistico praticamente assunse il ruolo di configurazione di riferimento.

L’obbiettivo della produzione commercialmente utile di energia da reazioni nucleari di fusione restava tuttavia ancora assai lontano.

In linea di principio, per aumentare le prestazioni fusionistiche nell’ambito della configurazione TOKAMAK ci sono due percorsi tra loro complementari: si possono incrementare le dimensioni del dispositivo oppure se ne possono accrescere intensità di campo magnetico e densità di flusso di corrente. La maggioranza dei fisici fusionisti ha sempre mostrato preferenza per la prima alternativa. E’ questa la strada seguita dai principali “esperimenti” con configurazioni di tipo TOKOMAK: l’esperimento JET europeo, il TFTR americano e il JT-60 giapponese: macchine progettate nel corso degli anni ’70 ed operative a partire dagli anni ’80. Questa è anche il filone in cui si inserisce l’attuale progetto ITER.

L’esperimento JET (il Joint European Torus), costruito a Culham in Inghilterra, rappresentò uno sforzo comune dei paesi dell’area europea. L’ iniziativa fu preparata con cura. Fu nominata una commissione, cui fu affidato l’incarico di indicare la combinazione di parametri di macchina che poteva consentire l’impiego più proficuo delle risorse a disposizione. Per il campo toroidale fu raccomandato il valore di 5 tesla. Completata l’indagine preparatoria, fu costituito il gruppo di progetto, incaricato di elaborare i disegni costruttivi dell’esperimento. Questo gruppo si trovò da subito in disaccordo con quanto raccomandato in precedenza dalla commissione di studio. L’opinione che vi prevalse fu che il nuovo dispositivo avrebbe dovuto essere soprattutto molto grande e con un campo magnetico toroidale piuttosto ridotto (così da non debordare troppo nei costi, vista la scelta alquanto liberale fatta con le dimensioni). Iniziò a questo punto un braccio di ferro, al termine del quale il gruppo di progetto riuscì di fatto ad imporsi. Fu così dato il via alla progettazione e quindi alla costruzione del JET, con il campo magnetico toroidale stabilito al valore di 2.8 tesla. Quando giunse il momento dell’avvio delle attività operative sull’esperimento, tuttavia, si dovette quasi subito ammettere che, forse, si era un po’ esagerato nel tenere basso il campo. Il nuovo dispositivo infatti non si comportava in modo sufficientemente muscolare. A malincuore, e con un certo imbarazzo, si dovettero richiamare gli ingegneri ai loro tavoli da disegno, e commissionare una riedizione potenziata del magnete toroidale. Naturalmente, coi vincoli che derivavano dall’essere le altre componenti di macchina già costruite, il valore di 5 tesla inizialmente raccomandato dalla commissione di studio era a questo punto irraggiungibile. Gli ingegneri riuscirono comunque a portare il campo toroidale al valore di 3.5 tesla. Il JET a 3.5 tesla ha prodotto nella sua lunga vita un’interessante messe di risultati. Alla luce delle vicende sopra ricordate, tuttavia, non possiamo evitare di chiederci quali risultati avrebbe potuto produrre se si fosse rispettata l’indicazione iniziale.

La seconda strada per aumentare le prestazioni di un reattore a fusione è quella di lavorare con alti campi magnetici.
Il primo TOKAMAK genuinamente ad alto campo vide la luce in America nei laboratori del MIT. In tempi brevi (siamo ancora negli anni ’70) e con spesa assai contenuta, nacque così l’esperimento “ALCATOR A”, capace di operare con un campo magnetico toroidale di 12 tesla. I risultati ottenuti mediante questo esperimento confermarono definitivamente l’effetto positivo che un aumento del campo toroidale induce nelle proprietà di confinamento di particelle ed energia del plasma – fatto già in precedenza chiaramente accertato mediante la stessa transizione che era stata operata dalla configurazione della macchina ZETA alla configurazione TOKAMAK.

Il successo ottenuto con ALCATOR A incoraggiò lo sviluppo di nuovi dispositivi ad alto campo. Questi furono costruiti ancora presso il MIT, ma altresì nei Laboratori dell’ ENEA di Frascati. Qui sono stati costruite le macchine FT (Frascati Tokamak) non più operativo e FTU (Frascati Tokamak Upgrade) ancora in funzione. Scopo di tali investigazioni non fu tanto quello di aumentare ulteriormente il valore del campo toroidale, quanto piuttosto quello di conciliare quest’ultimo con geometrie più avanzate (tori panciuti, sezioni del plasma assialmente elongate), queste ultime essendo più favorevoli per gli scopi fusionistici prefissati.

Nel corso degli anni ’90 si conseguono ulteriori miglioramenti soprattutto utilizzando come “combustibile” miscele di Deuterio e Trizio invece che il solo Deuterio utilizzato in precedenza: le macchine fin qui costruite producono più energia di quella immessa ma non lavorano ancora in condizione di “bruciamento” del plasma. Non sono cioè in grado di raggiungere la condizione in cui non è più necessario fornire energia al plasma per mantenere la reazione di fusione ma questa si automantiene grazie all’energia prodotta. In condizione di bruciamento l’energia depositata nel plasma dalle particelle alfa ottenute da reazioni di fusione è sufficiente a compensare tutte le perdite di energia subite dal plasma

 stesso. 

L’accensione (ignition) del plasma dipende sostanzialmente dal prodotto nTτ (densità * temperatura * tempo di confinamento). L’accensione avviene per valori di nTτ >= 2*1021 (m-3, keV, sec.). Le macchine attuali hanno raggiunto valori entro un fattore 3 da quanto necessario.
E’ importante sottolineare che realizzare macchine in grado di raggiungere la condizione di bruciamento non è solo importante come “traguardo tecnico” verso la realizzazione di un reattore “commerciale” ma è essenziale per poter studiare la “fisica” di un plasma in tali condizioni, “fisica” che può essere diversa da quella di un plasma non “acceso” e quindi richiedere ulteriori modifiche e affinamenti nelle configurazioni dei futuri reattori. La realizzazione di plasmi in condizioni di “bruciamento” è quindi attesa con ansia da tutta la comunità scientifica (yearn to burn).

Nel corso degli anni ’90 inizia così una lunga (e frustrante) fase di progettazione di una nuova generazione di reattori il cui elemento centrale è senz’altro il progetto ITER ma che vede anche nascere l’idea di IGNITOR (sul filone delle macchine ad alto campo) come mezzo per raggiungere più rapidamente la condizione di bruciamento.

Come punto di approdo delle ricerche su macchine con elevati campi magnetici condotte al MIT ed in Italia fu avviato sul un progetto ambizioso, battezzato IGNITOR, prefiggentesi (come suggerito dal nome) il raggiungimento nel plasma di condizioni di ignizione.
Nel progetto IGNITOR il campo toroidale fu fissato al valore di 13 tesla. Il piccolo incremento rispetto ai 12 tesla di ALCATOR A non deve trarre in inganno: a causa della geometria profondamente diversa, i 13 tesla di IGNITOR realizzano infatti un traguardo ingegneristico molto più impegnativo di quanto non fossero stati i 12 tesla ottenuti in precedenza nella geometria di ALCATOR A. La prima proposta della macchina IGNITOR, a cura di B. Coppi del MIT, fu formulata sul finire degli anni ’70. Nel corso degli anni ’80 il progetto viene portato avanti con un sempre maggior coinvolgimento dell’Italia, tramite l’ ENEA, e con il coinvolgimento di un consorzio industriale formato da Fiat ed Ansaldo. Nel corso della progettazione i parametri di macchina vengono significativamente modificati (per esempio con un aumento della corrente di plasma da 4 a 10/12 MA. Nel corso degli anni novanta si prosegue con la progettazione, i parametri di macchina vengono congelati, si realizzano prototipi dei principali componenti del “nocciolo” e progetti dettagliati dei sistemi ausiliari. Il progetto è finanziato dal governo italiano a partire dal 1990 (legge 345/90) con un primo stanziamento di 20 miliardi di lire e successivamente rifinanziato con le leggi finanziarie del ’94, ’97, ’98, ’99 e 2000 con uno stanziamento complessivo di 126,9 miliardi di lire solo parzialmente spesi per il progetto anche per la mancanza di una chiara decisione politica di “procedere” o meno con la costruzione della macchina.

E veniamo ora al progetto ITER ( l’ International Thermonuclear Experimental Reactor). Col suo lancio, si intendeva ripetere – questa volta a livello mondiale – l’esperienza unificante che aveva caratterizzato il JET a livello europeo. L’esordio di ITER (le prime discussioni su questo progetto iniziarono alla fine del 1985 ) avvenne in circostanze particolari, che aggiunsero all’iniziativa una considerevole valenza politica. Era infatti il momento in cui in Unione Sovietica si prendevano le prime timide iniziative di liberalizzazione e avvicinamento all’Occidente. Coinvolgere l’Unione Sovietica in un importante progetto internazionale avrebbe certamente aiutato l’evoluzione in corso al suo interno. Tanto più per l’elevato valore simbolico che in quest’ottica assumeva la ricerca termonucleare per scopi pacifici: non dobbiamo infatti scordare che la ricerca termonucleare per scopi militari era stata per anni l’aspetto più pericoloso della guerra fredda. Il lancio dell’iniziativa ITER avvenne pertanto in un clima di grandi speranze che, tra le altre cose, sembravano legittimare l’attesa di finanziamenti piuttosto liberali per gli anni a venire. Cullandosi in tali aspettative, il gruppo incaricato di progettare l’esperimento definì per quest’ultimo obbiettivi assai ambiziosi, includendo tra le previste finalità non solo importanti traguardi di fisica, ma anche tutta una serie di obbiettivi specifici dell’ingegneria di un possibile reattore commerciale.

Tutto ciò portò ad una considerevolissima lievitazione delle stime di costo formulate per l’esperimento, nonostante il volonteroso tentativo di parzialmente contenere quest’ ultime (a parità di obbiettivo finale in termini di prestazioni) mediante l’introduzione di valori di campo toroidale tipicamente doppi di quelli utilizzati nel dispositivo JET.

Nel volgere di pochi anni, tuttavia, cambiamenti importanti si manifestarono nella situazione politica del blocco orientale. L’Unione Sovietica si dissolse, e le singole realtà statali da essa emerse (in primo luogo la nuova Russia) iniziarono ad inseguire spontaneamente il miraggio di un libero mercato e una libera economia. È chiaro che in questa nuova situazione la valenza politica inizialmente riposta nella collaborazione internazionale sul progetto ITER non sussisteva praticamente più . Questo dato di fatto, unitamente alla smodata lievitazione dei costi di ITER sopra denunciata, indussero alla fine gli Stati Uniti a chiamarsi fuori dalla collaborazione sul progetto ITER. Quanto alla nuova Russia, in realtà avrebbe desiderato rimanere nell’accordo di collaborazione, ma non poteva semplicemente permetterselo, perché le difficoltà della situazione contingente la costringevano a darsi ben altre priorità .

Il progetto ITER rimase pertanto nelle mani degli altri paesi partecipanti: in primo luogo l’Unione Europea e il Giappone. In queste circostanze apparve chiaro che, per sopravvivere, il progetto ITER doveva essere sottoposto a vigorosa cura dimagrante.
Per prima cosa, vennero cassati tutti gli obbiettivi orientati allo studio ingegneristico di un reattore “commerciale” , confinando le finalità dell’impresa ai soli obbiettivi di fisica.
Non solo, anche questi ultimi vennero ridimensionati – e gli stessi margini di sicurezza stabiliti per il raggiungimento di tali obbiettivi dovettero purtroppo essere assottigliati.
A questo punto (e siamo pressoché giunti ai giorni nostri) i proponenti di ITER ritennero di avere tra le mani un progetto di esperimento ragionevolmente accettabile sul piano dei costi, per il quale si poteva pertanto chiedere l’inizio della costruzione. Nel frattempo gli Stati Uniti decisero di rientrare nel progetto (dichiarazione di G.W. Bush del gennaio 2003).

A che punto siamo?

ITER

Gli attuali partner del progetto ITER sono Cina, Unione Europea, Giappone, Russia, Corea del Sud e Stati Uniti. Recentemente (2005) l’India ha chiesto di partecipare al progetto, i negoziati per il suo ingresso sono in corso.
La partecipazione finanziaria degli Stati Uniti è stata ufficialmente ratificata dall’ “Energy bill 2005” (firmato da Bush lo scorso 8 Agosto) che assegna 1,1 miliardi di dollari alla ricerca sulla fusione nel triennio 2006/2009 e, in aggiunta a questo stanziamento, “quanto necessario” alla partecipazione americana alla costruzione di ITER.
Come ricordato in apertura di articolo, lo scorso 28 giugno i sei partner hanno deciso il luogo dove sarà costruito ITER: Cadarache nel sud della Francia. La decisione è stata presa dopo una lunga disputa tra UE e Giappone, entrambi candidati per ospitare la macchina.
Il prossimo appuntamento e la firma dell’ accordo di costruzione prevista entro la fine di quest’anno. Se tutto andrà secondo i piani la costruzione dell’impianto durerà circa 10 anni: ci si aspetta di creare il primo plasma nel 2016.

L’attuale stima dei costi per la costruzione di ITER è di circa 5 miliardi di euro più ulteriori 5 miliardi per tenerlo in funzione per 20 anni.

IGNITOR

Il progetto IGNITOR si trova in uno stadio avanzato di progettazione e di prototipazione che ne consentirebbe la realizzazione, grazie anche alle sue dimensioni contenute, in 4 / 5 anni.

Il costo di realizzazione del “nucleo” può essere stimato in circa 70 milioni di €, quindi un costo complessivo dell’impianto non superiore ai 150/200 milioni di euro ( circa 20 volte minore del costo stimato per ITER). Un costo teoricamente affrontabile dalla sola Italia. (ad oggi sono stati stanziati dall’ Italia per IGNITOR (periodo 1994/2000) e in parte non spesi circa 65 milioni di euro).

Il progetto è stato presentato nel luglio del 2002 al “Fusion Summer Study” tenutosi a Snowmass (CO) durante il quale è stato confrontato con ITER e con FIRE (la proposta americana alternativa ad ITER ed al momento “congelata” vista la decisione di partecipare ad ITER). Le conclusioni dello studio (vedi Major Conclusions of the MFE Study) sono state che IGNITOR non poteva sostituire ITER o FIRE come “esperimento principale” ma costituire un buon elemento a supporto visto la sua (probabile) capacità di produrre plasma in condizioni di bruciamento, i suoi costi contenuti e l’avanzato stadio di progettazione che ne consentiva la realizzazione in tempi rapidi.

Il progetto è ad oggi sostanzialmente “fermo” in attesa di una decisione politica. Di fatto il governo non si è più occupato della questione dopo la finanziaria del 2000. L’ onorevole Gianfranco Morgando (Margherita) ha presentato nel 2004 una proposta di legge per “smuovere le acque” e riportare attenzione sull’argomento, anche se con speranze praticamente nulle che sia presa in considerazione in questa legislatura. Il sito ad oggi “individuato” per l’eventuale costruzione di IGNITOR è il sito Terna-Enel di Rondissone (Piemonte) a circa 30Km da Torino e nelle vicinanze del centro ENEA di Saluggia (IGNITOR richiede infatti la disponibilità di oltre 1.000 MW di potenza elettrica, richiesta non banale da soddisfare). Un sito alternativo è quello della centrale nucleare (in corso di smantellamento) di Caorso in provincia di Piacenza.

Quanto visto porta a concludere che la costruzione di IGNITOR è praticabile ed ha senso nell’ambito dello sforzo internazionale verso la realizzazione di un reattore a fusione solo se l’eventuale decisione di procedere sarà presa rapidamente, IGNITOR è tanto più importante quanto sarà disponibile prima che la realizzazione di ITER si avvicini alle sue fasi finali.

Conclusioni

La strada per arrivare alla produzione di energia da fusione prevede di portare avanti “in parallelo”:

–  la costruzione di una “major facility” qual è ITER  

–  studi sulla fisica di base del plasma, settore dove IGNITOR potrebbe dare il suo contributo più importante  

– studi sulle tecnologie di base necessarie alla costruzione di un reattore commerciale tra cui di grande importanza sono gli studi sui materiali a bassa attivazione sotto bombardamento neutronico e che operino ad alte temperatura.

Il passo successivo sarà la costruzione di un impianto “dimostrativo” (macchina DEMO) in grado di produrre effettivamente energia elettrica: questa macchina potrà essere basata su una configurazione Tokamak simile a quella di ITER o su una diversa configurazione a seconda dei risultati ottenuti grazie ad ITER e agli altri esperimenti condotti in parallelo.

Tutto questo porta ad una previsione di disponibilità di un reattore commerciale a fusione non prima del 2050. Occorre quindi accelerare il più possibile sul fronte della fusione anche attivando esperimenti “paralleli” a quello principale (IGNITOR v/s ITER) ma anche percorrere altre vie sulla strada della sostituzione del petrolio (e del carbone) quali fonti principali di energia.

Nei prossimi numeri di TDF cercheremo di esplorare possibilità, tempi e costi di tecnologie alternative quali i reattori a fissione di nuova concezione, le biomasse, l’eolico, il solare terrestre e il solare spaziale.   

Per approfondire

STORIA (SCIENTIFICA E NON SOLO) DELLA CONFIGURAZIONE TOKAMAK
A. Sestero ENEA – Frascati
Il Nuovo Saggiatore – vol. 21 2005 n. 1-2
Il programma IGNITOR
Paolo Detragiaghe – ENEA Torino
presentazione tenuta il 28/10/2005 ad Ivrea, organizzata da Associazione Culturale “Il dialogo” e ITIS Ivrea
La fusione Nucleare stato dell’arte e strategie
Maurizio Samuelli ENEA Frascati
Presentazione alla Conferenza FUS -18/9/2003
Fusione. La strada percorsa e il futuro
Francesco De Marco – ENEA Frascati
Presentazione alla Conferenza FUS -18/9/2003
U.S. Energy Policy Act 2005 e estratto dei paragrafi dedicati alla fusione dell’ Energy Policy Act 2005
Documento di programmazione energetica degli Stati Uniti approvato dal Senato e firmato da G.W. Bush lo scorso 8/8/2005
The FIRE place
Informazioni aggiornate quasi giornalmente sui programmi di ricerca relativi alla fusione.
Snowmass 2002 Summer Study
Sessione di studi dedicata allo “stato dell’arte” dei programmi mondiali sulla fusione, in particolare al confronto dei programmi ITER, FIRE e IGNITOR


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