Roberto Renzetti
A Ipazia, l’unica santa martire
di quel periodo
che io conosca.
Con la speranza che non fosse vergine.
Santi?
di Roberto Renzetti
© 2013 Roberto Renzetti
© 2013 Tempesta Editore
I edizione 15 aprile 2013
I quaderni di Tempesta Laica
ISBN 9788897309376
Tempesta Editore
via Sisto IV, 77 – 00167 Roma
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cell. 3479282082
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INDICE
Un poco di storia 7
Comandamenti fai da te 15
Gli Atti di Paolo e Tecla 17
Gli Atti di Paolo 29
I racconti di Eusebio di Cesarea 35
La nascita dei Santi 63
Come sbarazzarsi dei riti pagani 71
Santa Caterina 79
I santi pagani 81
La vergine Maria e i santi apotropaici 87
Miracoli 93
La proliferazione dei santi malandrini 99
Miracoli, reliquie e superstizione 103
Note 107
Bibliografia 119
Webografia 119
UN POCO DI STORIA
Chi sono i santi? Subito dopo il riconoscimento ufficiale del Cristianesimo da parte di Galerio, Licinio e Costantino, i santi erano quelle stimabili persone che hanno imposto a noi, come esempio, un modello di vita perfetta o, per lo meno, superiore. Gente seria che non rinunciava alle proprie idee e che per esse si faceva ammazzare. Dobbiamo quindi tutti tendere alla santità perché ciò ci avvicina a Dio e ci allontana dall’esercito dei voltagabbana che ci circonda.
Il culto dei santi, che non era neppure immaginato nel Cristianesimo delle origini, risale a circa un secolo dall’inizio dell’espansionismo cristiano, quindi al IV secolo. I martiri come santi furono oggetto di culto quasi obbligato in sostituzione della pluralità delle divinità pagane che, a livello psicologico, non potevano trovare una adeguata sostituzione nella semplice e austera adorazione dell’unico dio monoteista giudeo-cristiano, imposta da quel criminale di Teodosio. Questo trasferimento del culto da divinità pagane a santi cristiani, fu una necessità per le popolazioni e per la Chiesa dovuta al fatto che, dopo i decreti di Teodosio, divenne impossibile venerare divinità pagane. Le popolazioni avevano le loro divinità che si videro sottratte da un giorno all’altro e la reazione, a lungo andare, fu quella di convertirsi (ma senza alcuna convinzione, semmai con qualche rancore) per ritrovare una qualche divinità da venerare, a cui affidarsi e da cui farsi proteggere. Qui nasceva la difficoltà per la Chiesa che doveva fornire a quei conversi la nuova divinità. Un dio astratto, l’originario dio cristiano, non faceva al caso di chi aveva avuto una icona, una statua da venerare. Come vedremo la Chiesa operò delle sostituzioni costruite in modo da soddisfare al meglio il desiderio degli ex pagani che volevano avere una divinità. Stabilito in qualche modo il trasferimento, la cristianizzazione di questo trasferimento avveniva affermando che non era più quel dio (quindi ora quel santo) che faceva direttamente una grazia, ma il santo operava solo come intermediario verso l’unico Dio cristiano (era la vera novità che non intaccava l’ortodossia cristiana ed accontentava il convertito per il quale questo discorsetto iniziale aveva ben poco significato. Per tutto il resto i riti rimasero gli stessi del politeismo. Almeno per le divinità minori (perché il Cristianesimo riuscì ad abolire quelle maggiori), la cappella del santo prese il posto del santuario della divinità pagana e, senza colpo ferire, il nuovo occupante assunse tutte le funzioni dello sfrattato con il trasferimento a lui delle usanze e superstizioni locali. Poiché le divinità pagane erano venerate in quanto protettrici di qualche categoria di persone o di qualche fatto naturale, si pensò bene di attribuire ad ogni santo una particolare predisposizione nel proteggere persone, luoghi o eventi. La festa del dio venerato localmente diventò la festa del santo patrono. I miti relativi a questo santo patrono, come la sua vita ed il suo operato in materia di miracoli, spesso, sarebbero nati dall’integrazione di fatti di vita del santo in oggetto, supposto che sia mai esistito, con leggende relative al dio pagano.
Dove cercare i primi santi, coloro che dovevano sostituire le divinità pagane ? Sembrò abbastanza naturale trovare questi personaggi esemplari, indiscutibili, di sicuro esempio, tra le persone che erano cadute per aver sostenuto la propria fede nell’Impero di Roma, i martiri, come li chiamò la Chiesa, che si erano avuti durante quelle che la Chiesa chiamò persecuzioni. C’è da dire però che l’Impero di Roma non aveva un particolare odio contro i cristiani. E’ a tutti noto che Roma aveva una legislazione estremamente permissiva con tutte le religioni dei popoli che. cadevano sotto il suo dominio considerandole manifestazioni degli dèi che già conoscevano. Nelle caserme e nei circhi c’erano piccoli altari dove ognuno pregava il suo Dio o i suoi dèi poiché non vi era l’unicità di un culto ma era possibile venerare più divinità contemporaneamente. Ciò che veniva richiesto a tali religioni era solo il rispetto delle leggi dello Stato e quindi il non creare problemi di ordine pubblico. In un certo momento, a quanto detto, si aggiunse una nuova legge che andava a sancire un costume affermatosi fin dalla morte di Augusto nel 14 d.C. In tutto l’Impero si diffuse una vera gratitudine per questo imperatore che aveva portato pace e prosperità dopo secoli di guerre e carestie. Come atto prevalentemente politico, come riconoscimento della centralità di Roma nell’Impero, si tributarono ad Augusto gli onori che normalmente vengono tributati ad una divinità e ciò non era altro che un modo per esprimere omaggio e lealtà allo Stato. Questa prassi divenne legge con Domiziano, Imperatore dall’81 al 96. La legge richiedeva a tutti i cittadini e sudditi dell’Impero, e quindi anche ai cristiani, il compimento di riti previsti in quella che era diventata religione di Stato, riti riassumibili in periodici sacrifici di animali o nel depositare un poco d’incenso dentro una pira in onore della divinità imperiale, fatto che, nella mentalità di Roma, non significava in alcun modo il riconoscimento dell’unicità di un Dio ma una semplice disposizione di ubbidienza e sottomissione allo Stato. Sappiamo quindi per certo che nelle pretese persecuzioni non ci si accaniva contro il cristiano in quanto tale ma solo in quanto commetteva, come chiunque altro, dei crimini e tra questi crimini subentrava la non fedeltà a Roma ed il non riconoscimento dello Stato (verso la fine del III secolo si rese evidente un altro motivo per perseguire i cristiani, il loro non volere combattere negli eserciti di Roma, come discusso in nota 4). In ogni caso le uccisioni e le condanne furono episodi circoscritti, legati a colpe concrete che venivano loro attribuite, e furono accompagnate anche da atteggiamenti favorevoli verso i cristiani in alcuni imperatori. All’obbligo di sacrificare all’Imperatore erano solo esonerati gli ebrei ma, appunto, non i cristiani. Alla domanda del perché accadesse ciò, ho trovato convincente la risposta di Gibbon che riassumo. Gli ebrei, con la loro superba pretesa di superiore santità, potevano spingere i politeisti romani a considerarli una genìa odiosa ed impura. I romani potevano considerare le leggi di Mosè frivole ed assurde ma, e questo è il punto, quelle leggi definivano da centinaia di anni un popolo, una nazione che, in quanto tale, doveva essere rispettata (anche se gli ebrei di Palestina avevano dato ai romani enormi problemi con inenarrabili stragi di soldati)(1). E questo popolo aveva le sue riconoscibili sinagoghe sparse ovunque ed ovunque faceva sacrifici al suo Dio. I cristiani erano invece considerati una setta di costituzione recente, senza tradizioni, senza nazione, senza chiese, senza sacrifici perché sostituiti con il pane ed il vino dell’eucarestia (questa metafora del sacrificio fu introdotta dalla Chiesa anche per avvicinare i poveri alla nuova fede, poveri che non potevano permettersi animali da sacrificare). Inoltre il loro non riconoscersi in nessuno degli dèi noti, con la presunzione del possesso esclusivo della conoscenza del vero Dio e con l’aggravante del disprezzo di ogni altra religione considerata empia ed idolatrica, li rendeva sospetti della non accettazione dell’ordine costituito e quindi contestualmente eversori o possibili tali (in un momento storico in cui in Palestina nasceva ogni tipo di setta disposta a farsi ammazzare pur di cacciare gli occupanti romani). Ma poi, una setta di recente costituzione come ha l’ardire di dileggiare, di accusare di errore i propri compatrioti credenti in altre divinità e, peggio, di condannare la fede dei padri, fede mai così denigrata da credenti in altri dèi ? Era un dato comune a tutti che la tolleranza è un qualcosa che si concede a chi ha una reciproca indulgenza. Infine costoro disponevano solo di un Dio invisibile che, come tale, non era comprensibile anche alle persone colte di Roma, ai filosofi ed ai credenti politeisti, anche pii. Sotto un diverso profilo, i cristiani erano conosciuti perché diffusi soprattutto in Asia ed Africa dove erano usi fare riunioni in case private anche di notte. Ebbene, queste riunioni segrete non erano tollerate dai romani in zone che continuamente creavano problemi di ordine pubblico. A questi dati oggettivi, che facevano parte della mentalità dell’epoca, si aggiunse come corollario la diffamazione non dissimile a quella che secoli dopo i cristiani realizzarono contro gli ebrei di Spagna. Si iniziò a favoleggiare di riunioni notturne dei cristiani nelle quali si effettuavano dei riti orrendi con dei neonati. Racconta Giustino Martire [Apolog. Major. I, 33; II, 14] che un bambino, completamente ricoperto di farina era considerato il mezzo per essere iniziati al Cristianesimo. Ogni aspirante doveva bucherellare la pelle del bambino, leccare il sangue che usciva fino a mangiare le sue carni. Terminato il rito iniziavano libagioni alla fine delle quali si scatenavano orge indicibili. Ad un dato momento veniva fatto il buio di modo che non si sapeva più chi si accoppiava con chi, uomo con uomo, fratello con sorella, madre con figlio, ….. I cristiani sapevano di essere così diffamati e reagirono nel modo peggiore possibile: dissero che queste cose avvenivano ma solo nelle sette eretiche dei marcioniti, degli gnostici, dei carpocraziani, … Ma come faceva un magistrato di Roma ad entrare nelle sottigliezze delle eresie se queste non erano neppure capite dal popolo semplice dei cristiani ? Per la legge e chi l’amministrava restavano solo i generici cristiani e, per loro stessa ammissione, rei di tali oscenità e crimini. Ma questi generici cristiani che, come detto, erano indistinguibili dagli ebrei almeno nei primi anni, erano salvati proprio dai quegli stessi magistrati che ogni volta, individuandoli come ebrei, li salvavano dall’ira e dalla furia dei veri ebrei.
A questo punto si deve tener conto di un fatto cruciale: un cristiano poteva, come detto, evitare l’estrema punizione delle leggi di Roma semplicemente sacrificando (come detto bastava un poco d’incenso su una pira) ad un dio fasullo, l’Imperatore, per poter mantenere intatta la propria fede nel suo Dio. Ebbene, si faccia attenzione, i cristiani quando presero il potere non dettero mai questa possibilità di salvezza ai pagani(2) i quali dovevano cancellare completamente la propria fede e convertirsi per essere salvi dall’estrema punizione, anche qui la morte, che le proprie norme e consuetudini prevedevano (si tenga anche conto che gli ebrei non operavano come i cristiani contro coloro che ebrei non erano).
Le persecuzioni contro i cristiani in Siria ed in altri territori dell’Asia, dove si concentravano in maggior numero, furono quelle le cui modalità sono descritte in alcuni documenti scritti da Plinio il Giovane, Traiano ed Adriano. Era stato il governatore di Bitinia e del Ponto, Plinio, a chiedere a Traiano come comportarsi con i cristiani che praticavano una religione considerata superstitio (ogni religione implicante un timore eccessivo degli dèi perché probabile causa di disordini popolari) e Traiano aveva risposto sostenendo che non si doveva mettere in atto alcuna particolare procedura. I cristiani dovevano essere trattati come tutti gli altri cittadini senza particolare accanimento se non la richiesta che valeva per tutti i cittadini: il rispetto della legge (che prevedeva per tutti, meno che per gli ebrei, il riconoscimento, al lato del proprio Dio, dell’Imperatore come Dio di Roma). Vi è da aggiungere una considerazione: il fatto che Plinio, uomo che aveva dedicato la sua vita al diritto, aveva esercitato come avvocato nei tribunali di Roma, era stato senatore, … il fatto, dicevo, che chiedesse lumi a Traiano, mostra che non vi era alcuna legislazione o decreto contro i cristiani a cui affidarsi. Con Adriano (Imperatore dal 117 al 138), che sostenne medesime cose di Traiano, ebbe inizio un periodo di maggiore moderazione (l’accusatore di una qualunque illegalità da parte di un cristiano si sarebbe dovuto presentare a ripetere la denuncia in giudizio e se tale accusa fosse risultata falsa pene severe erano previste per l’accusatore). Con Antonino Pio (Imperatore dal 138 al 161) la legge che riguardava i cristiani divenne più chiara affermando che il cristiano in quanto tale non era perseguibile a meno che, individualmente, non commettesse dei reati contro le leggi ordinarie. Come ricorda Deschner [1], “per quasi due secoli … le autorità si comportarono verso il Cristianesimo in modo non meno tollerante che verso tutti gli altri culti pagani. Le dieci persecuzioni che abitualmente vengono indicate non rispondono alla verità dei fatti storici; come tanti altri fenomeni cristiani, anche il numero dieci riferito alle persecuzioni è una finzione, inventata in analogia alle dieci piaghe d’Egitto ed anche alle dieci corna dell’Apocalisse (e la numerologia, in una religione che prendeva le mosse dall’ebraismo con la sua kaballah, era d’obbligo). Se si prescinde dalla prima limitata persecuzione contro i cristiani, quella di Nerone del 64, che vide i cristiani accusati di incendio doloso(3) della città di Roma, persecuzione comunque limitata proprio alla città di Roma, [in cui i morti cristiani furono circa 300, ndr], si possono stabilire con certezza solo le persecuzioni avvenute sotto cinque imperatori [Settimio Severo (198)(4), Decio (250)(5), Valeriano (258)(6), Diocleziano e Galerio (303)(7), ndr], dei cinquanta che hanno regnato fra Nerone e Costantino. «Tutte ebbero breve durata e un numero relativamente basso di martiri autentici [contati complessivamente in 2000 da Gibbon ed in 1500 da Drews, ndr]»”. Lo stesso Origene di Alessandria, figlio di martire, in Contra Celsum (III) scrisse che il numero dei martiri non era molto elevato, sostenuto in questo anche dalla testimonianza del suo amico Dionisio (vescovo di Alessandria e santo) il quale affermava che, durante la dura persecuzione di Decio nella grandissima Alessandria, si contarono dieci uomini e sette donne martirizzati come cristiani. E lo stesso Eusebio di Cesarea, che lo storico tedesco Jacob Burkhardt, nel suo Die Zeit Constantins des Grossen (1880), definì il primo storico completamente disonesto dell’antichità, nel suo De Martyribus Palestinae racconta solo di 9 vescovi decapitati e di un totale di 92 martiri. Il relativamente piccolo numero di martiri è dovuto al fatto che le autorità romane non facevano nulla per nascondere l’inizio di una persecuzione, che tra l’altro non poteva iniziare simultaneamente in ogni luogo, ed erano i vescovi stessi che avvertivano i fedeli di allontanarsi dai centri abitati sapendo che non vi era la ricerca ossessiva del cristiano da parte delle autorità civili.
Quando le persecuzioni terminarono, intorno al 311, fu Damaso I (305-384), un Papa che aveva bande armate con le quali massacrava i sostenitori di Papa Ursino, suoi oppositori, a mantenere la loro memoria e a far ricercare e trovare le tombe dei martiri in modo da amplificarne il ricordo. I martiri divennero così i santi e ad essi furono associati coloro che avevano abbracciato la fede cristiana e la avevano mantenuta per tutta la vita. A questa categoria di santi se ne aggiunsero via via delle altre: le vergini (sempre e comunque), i monaci eremiti ed asceti, i dottori della Chiesa, gli educatori, … ed i papi.
I primi santi (II e III secolo), quelli di cui mi occuperò, furono dunque i martiri, la cui storia fu sapientemente manipolata e resa come testimonianza di sangue che doveva servire innanzitutto come esempio, come storia esemplare, come mito, come testimonianza della non esistenza di sofferenza quando il fine è ricongiungersi con Dio, da proporre ai giovani da educare. Di molti di questi martiri abbiamo solo un nome (o vaghissime notizie) ed a questi nomi è molto difficile dare un qualche credito anche perché le prime storie di martiri le abbiamo dalla Storia Ecclesiastica del citato Eusebio di Cesarea, il cortigiano di Costantino. In ogni caso, nei primi secoli del Cristianesimo, i martiri furono gli unici santi ed essi iniziarono a svolgere il fondamentale ruolo di sostituzione ed imitazione del culto (prima greco, poi romano) dei personaggi esemplari, degli eroi, come Bacco, Esculapio, Ercole, culto che, a sua volta, si rifaceva a quello dei morti. Nei culti dell’antichità classica, il luogo dove si svolgevano le cerimonie era la tomba vera o presunta del morto, preteso taumaturgo o eroe. La tomba divenne sempre più ricca, piena di adorni, di offerte, di fiori e pian piano, in alcuni casi, divenne un tempio che disponeva di un altare per i sacrifici. I riti e le cerimonie avevano delle fissate periodicità. Tutto questo fu ripreso dalla Chiesa che, a partire dal IV secolo e quando non riuscì ad impadronirsi di un tempio pagano, costruì templi sempre più grandi e basiliche per i santi martiri che, come accennato, avevano storie costruite ad imitazione dei personaggi che dovevano andare a sostituire. E se non ve ne erano di adeguate, come non potevano perché la gran parte delle storie di sconosciuti era assolutamente anonima, si inventavano di sana pianta con racconti mitici, agiografie fantastiche che ancora oggi vengono raccontate per educare, senza vergogna, gli agnelli del gregge. Naturalmente per riuscire a penetrare nei sentimenti popolari più profondi in modo da prendere il posto di altre religioni serviva sostituire la venerazione di alcune divinità pagane con dei santi cristiani appositamente pensati. Ma ciò non bastava perché, nel corso dell’anno, vi erano molte feste dal sapore pagano che dovevano essere necessariamente rimpiazzate. Tali feste erano sempre molto attese perché erano giorni di riposo e di gozzoviglie e la Chiesa non poteva certo pensare di ottenere consenso semplicemente cancellandole. Si trattava, anche qui, di riprendere tali feste una ad una e di cristianizzarle. Occorreva innanzitutto collocare alcuni capisaldi del Cristianesimo in giorni dell’anno fondamentali in altre religioni e quindi si cominciò a collocare la nascita di Cristo in luogo opportuno, in quel 25 dicembre, data con profondo significato astronomico perché il sole inizia a risalire all’orizzonte, che era data di nascita di dei pagani tra cui Mitra.
In somma sintesi, come già detto, il numero dei martiri, su persecuzioni lunghe 250 anni, fu relativamente piccolo. E le cose stanno certamente così anche se noi abbiamo notizie di persecuzioni atroci estese a moltitudini immense di persone, in maniera quasi ininterrotta dalla morte di Gesù fino a Costantino, da scrittori cristiani come Lattanzio e, appunto, Eusebio di Cesarea (per pura combinazione quasi tutti i testi scritti da laici o eretici o pagani sono scomparsi, distrutti dalla foga distruttrice dell’ortodossia). Per capire però quali miti si costruivano, di che dimensione, di che portata, anche per dare sostegno al grande e fantasioso numero di martiri, è utile iniziare da alcuni apocrifi, tra i più antichi che possediamo, come gli Atti di Paolo e Tecla e gli Atti di Paolo. Prima però è interessante ricordare ai furbastri delle gerarchie della Chiesa uno dei capisaldi del Vecchio Testamento: i Dieci Comandamenti che, secondo la tradizione, Dio aveva dettato a Mosè.
COMANDAMENTI FAI DA TE
Senza fare un discorso approfondito che vada ad indagare le varie versioni della Bibbia che ci sono pervenute (per capire di cosa si tratta rimando al testo di Donnini di webografia), ricordo alcune cose correlate con l’Esodo che, al capitolo XXXIV, riporta i dieci comandamenti. Il primo dei comandamenti dettati da Dio a Mosè (o meglio: scritti dallo stesso Dio con il fuoco sulla pietra) dice: Io sono il Signore tuo Dio, non avrai altro Dio al di fuori di me. Non ti farai idolo o immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non servirai alcuno poiché io sono il Signore tuo Dio. Il decimo comandamento dice: Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo.
I comandamenti insegnati nella Bibbia sono quindi dieci, quelli insegnati nel Catechismo della Chiesa Cattolica sono in realtà soltanto nove! Il secondo, infatti, è stato letteralmente cancellato, e dal decimo ne hanno ricavati due “pezzi”, per coprire il vuoto del secondo. Così, ora il secondo è in realtà il terzo, il terzo è il quarto, e così via. I comandamenti 1, 9 e 10 del Catechismo della Chiesa cattolica sono infatti:
Io sono il Signore Dio tuo:
1 – Non avrai altro Dio fuori di me.
9 – Non desiderare la donna d’altri.
10 – Non desiderare la roba d’altri.
Ci vuole poco a scoprire che la Chiesa ha censurato Dio nella parte in cui dettava a Mosè:
Non ti farai idolo o immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra.
E non finisce qui se anche Isaia, nel Vecchio Testamento, diceva cose terribili contro le immagini sacre:
Quelli che fabbricano gli idoli sono gente da nulla. I loro dèi preziosi non servono a niente. Quelli che li adorano non vedono e non si rendono conto: perciò saranno coperti di vergogna. Chi fabbrica un idolo o fonde una statua si illude di averne un vantaggio. Quelli che li prendono sul serio saranno umiliati, perché gli idoli sono stati fatti da semplici uomini. Il falegname prende le misure, disegna l’immagine con il gesso, misura il pezzo con il compasso e lo lavora con lo scalpello. Gli dà una forma umana, una bella figura d’uomo, che metterà in casa. […] Usa una parte dell’albero per accendere il fuoco, e una parte per costruire un idolo. Mette la prima in un braciere per riscaldarsi e cuocere il pane; con l’altra invece fa la statua di un dio e la adora con grande rispetto. Con un po’ di legna fa il fuoco; arrostisce la carne, se la mangia ed è sazio. Poi si riscalda e dice: Che bel calduccio! Che bel fuocherello! Poi con il resto si costruisce un dio, il suo idolo, lo adora, si inchina e lo prega così: Tu sei il mio Dio, salvami! Questa gente è troppo stupida per capire cosa sta facendo: hanno gli occhi e l’intelligenza chiusi alla verità. Nessuno di loro riflette, nessuno ha il buon senso o l’intelligenza di dire: Ho bruciato metà di un albero; sulla brace ho cotto il pane e arrostito la carne che mangio. Dell’altra metà ho fatto un idolo inutile. Mi prostro davanti a un pezzo di legno! Il loro idolo non li può salvare, ma essi non riescono a pensare: E’ evidente che quello che ho in mano è un falso dio [Isaia 44; 9-20].
Cosa è accaduto ? Ciò che è nell’evidenza di tutti ma che solo pochi riescono ad ammettere: la Chiesa cattolica di Roma è portatrice di una religione idolatra e politeista. Basta fare attenzione quando si visitano le chiese sparse nel mondo, tutte piene di immagini e statue di vari santi quando non direttamente di Gesù, Dio, la Madonna (tante Madonne). Basta solo dare un’occhiata ad una moschea o ad una sinagoga per accorgersi invece cosa è monoteismo: nessuna immagine del divino, del dio. Il fatto è che la Chiesa si è potuta affermare proprio perché ha inglobato in sé le varie divinità dell’antichità classica immergendole in un brodo evangelico, realizzando una minestra acida ed immangiabile. E queste divinità erano legate all’immagine del dio, essendo esse stessa quel dio, che la Chiesa non è stata mai capace di (o meglio: non ha mai voluto) estirpare. E’ più facile far presa su menti semplici, il gregge, offrendogli l’immagine di un dio piuttosto che evocarlo attraverso la mente.
Si tenga a mente tutto ciò quando, più oltre discuteremo di santi, miracoli e reliquie ed ora torniamo agli Atti di Paolo e Tecla ed agli Atti di Paolo.
GLI ATTI DI PAOLO E TECLA
Senza chiedermi nulla sulla storicità di quanto racconterò, senza fare soverchi commenti, riporto di seguito le vite e le gesta di alcuni martiri, così come sono raccontate dall’agiografia cristiana. Uno dei primi racconti fantastici di martirio e santità lo troviamo negli Atti di Paolo e Tecla (Acta Pauli et Theclae) un apocrifo facente parte degli Atti di Paolo (Acta Pauli), andato perduto nella sua integrità (ne sono conservati circa 2/3 del testo), che ambiva inserirsi tra le imprese narrate negli Atti degli Apostoli del Nuovo Testamento. Questo testo, che racconta il primo viaggio di Paolo di Tarso da Antiochia a diverse località dell’Asia Minore, fu scoperto da Tertulliano essere un falso costruito da un prete dell’Asia cristiana intorno all’anno 160. E vediamo questo istruttivo racconto di Tecla e Paolo avvertendo che le parti in corsivo sono originali.
La prima tappa del viaggio di Paolo, che era fuggito da Antiochia accompagnato dai due adulatori Demas ed Ermogene fu la città di Iconio. Da qui, al fine di ospitarlo, gli si fece incontro un suo estimatore, Onesiforo, con la moglie Lettra ed i figli Simia e Zerro. Non fu difficile riconoscere Paolo perché corrispondeva alle descrizioni che ne venivano fatte: un uomo di bassa statura, la testa calva, le gambe arcuate, il corpo vigoroso, le sopracciglia congiunte, il naso alquanto sporgente, pieno di amabilità; a volte infatti aveva le sembianze di un uomo, a volte l’aspetto di un angelo.
Entrati in casa, Paolo fece un elenco di benedizioni che ricordano il Discorso della montagna di Gesù, solo che qui l’accento era tutto su continenza e castità. Tra queste benedizioni, infatti, vi erano:
Beati quelli che custodiscono casta la carne, poiché essi diverranno tempio di Dio.
Beati i continenti, perché Dio si intratterrà con essi.
Beati quelli che hanno rinunziato a questo mondo, poiché essi saranno graditi a Dio.
Beati coloro che hanno la moglie come se non l’avessero, poiché essi erediteranno Dio.
Beati i corpi delle vergini, poiché essi saranno graditi a Dio e non perderanno la ricompensa della loro castità: la parola del Padre sarà infatti per essi opera di salvezza nel giorno del suo Figlio ed avranno riposo nei secoli dei secoli.
Analoghe predicazioni di esaltazione della castità fece Paolo nei giorni seguenti e tutte affascinavano una giovane vergine che le ascoltava dalla finestra. Questa giovane, che sostenuta dalla fede restava alla finestra con gioia inesprimibile, si chiamava Tecla ed era figlia di Teoclia e fidanzata di Tamiri, uno dei personaggi importanti della città, un primo. Ella vedeva che nella casa di Onesiforo entravano altre vergini per ascoltare Paolo, ed era presa da forte desiderio di essere anche lei tra quelle fortunate.
Invece la madre di Tecla, Teoclia, era preoccupata perché non riusciva a distogliere la figlia da quella finestra. Pensò di chiamare il fidanzato Tamiri perché la convincesse. Tamiri accorse felice pensando che si avvicinassero le nozze ma Teoclia spiegò la situazione dicendogli: “Tecla è tutta presa da uno straniero che ammaestra con parole menzognere e seduttrici, ed io sono stupita che una vergine così modesta si lasci turbare in modo così penoso da una persona che sconvolge tutta la città predicando che è necessario temere l’unico Dio e vivere in castità. Devi fare qualcosa, Tamiri, perché Tecla ti è promessa”.
Tamiri provò ad avvicinarsi a Tecla e la esortò a desistere da quella posizione e dall’ascoltare quello straniero. Lo stesso fece la madre insieme alle ancelle. Ma niente. Preso dallo sconforto, Tamiri uscì e si recò davanti alla casa di Onesiforo dove vide due persone che litigavano brutalmente. Si trattava degli accompagnatori di Paolo, Demas ed Ermogene, ai quali Tamiri si rivolse con queste parole: “Uomini, ditemi chi siete e chi è quel seduttore, là dentro, presso di voi, ingannatore di giovani e di vergini affinché non si sposino, ma restino come sono. Prometto di darvi molto denaro purché mi parliate di lui”.
Demas ed Ermogene gli risposero: Chi sia costui, non lo sappiamo. E’ certo che allontana i giovani dalle donne e le vergini dagli uomini, dicendo: “Se non vi conserverete puri e lungi dal contaminare la vostra carne, se non la manterrete casta, non vi sarà per voi alcuna risurrezione”.
Tamiri invitò i due a casa sua. Li fece mangiare e bere in abbondanza poi chiese loro chi era lo straniero e quale era la sua dottrina. Demas ed Ermogene risposero alla domanda aggiungendo che l’unica soluzione era il portare Paolo davanti al governatore della città Castelio, sotto l’accusa che egli seduce la gente con il nuovo insegnamento dei cristiani. In tal modo le cose con Tecla si sarebbero sistemate e si sarebbe arrivati al più presto all’agognato matrimonio. La mattina seguente Tamiri, con un gran seguito di maggiorenti della città e popolani armati di bastoni, si recò alla casa di Onesiforo e gli disse: “Hai rovinato la città di Iconio e la mia promessa sposa, tanto che ella non mi vuole più: orsù, andiamo dal governatore Castelio!”. Nel frattempo tutta la folla gridava: “Fà fuori il mago! Ha rovinato infatti tutte le nostre donne!”.
Tamiri, giunto davanti al tribunale prese a gridare a gran voce: “Proconsole, non sappiamo donde viene costui, che induce le vergini a non sposarsi. Esponga ora davanti a te il motivo per cui insegna queste cose”. Demas ed Ermogene dissero a Tamiri: “Dì che è cristiano e così lo rovinerai”. Ma il governatore seguì il proprio consiglio, e chiamato a sé Paolo, gli domandò: “Chi sei tu? Che cosa insegni? Non è infatti leggera l’accusa che adducono contro di te”. Paolo alzò la voce e rispose: “Poiché oggi debbo rendere ragione di ciò che insegno, ascolta, governatore! Il Dio vivo, il Dio della vendetta, il Dio geloso, il Dio che non ha bisogno di nulla e desidera la salvezza degli uomini, mi ha mandato affinché io li strappi dalla perdizione e dalla contaminazione, dal piacere e dalla morte, affinché più non pecchino. Per questo Dio ha mandato il suo proprio Figlio, che è appunto colui che io predico, ad insegnare agli uomini la speranza in lui, che fu il solo ad avere pietà del mondo traviato, affinché gli uomini non siano più sotto la condanna, abbiano invece la fede e il timore di Dio, conoscano la santità e amino la verità. Se dunque insegno ciò che mi è stato rivelato da Dio, in che cosa sono ingiusto, proconsole ?”. Il governatore, udito ciò, ordinò che Paolo fosse incatenato e condotto in prigione, per poterlo ascoltare fino a fondo a tempo opportuno.
Durante la notte Tecla regalò dei bracciali al custode per farla uscire di nascosto da casa, si recò al carcere dove corruppe il carceriere per farsi condurre da Paolo. Raggiuntolo, si sedette ai suoi piedi, gli baciò le catene mentre Paolo le raccontava le meraviglie del Signore. Intanto i suoi parenti e Tamiri erano preoccupati per la sua sorte perché non la trovavano in casa. Iniziarono quindi a cercarla per le strade dove uno schiavo, compagno del custode, li informò che era uscita di notte per recarsi alla prigione. Arrivati alla prigione trovarono Tecla incatenata, per così dire, dall’amore per Paolo. Usciti fuori dalla prigione misero insieme molte persone con le quali si recarono dal governatore per raccontargli cosa era accaduto.
Questi ordinò di condurre Paolo davanti al tribunale. Frattanto Tecla si raggomitolava nel luogo ove Paolo, seduto nella prigione, l’ammaestrava. Il governatore ordinò che fosse condotta anche lei davanti al tribunale: ed ella partì felice, piena di gioia. Mentre Paolo era condotto per la seconda volta, la folla gridava ancora più forte: “E’ un mago! Toglilo di mezzo!”. Tuttavia il governatore ascoltava con piacere Paolo che parlava delle opere sante. In seguito, dopo aver radunato il suo consiglio, fece chiamare Tecla e le disse: “Perché non ti sposi con Tamiri, secondo la legge dei cittadini di Iconio?”. Ma lei teneva gli occhi fissi su Paolo. Siccome non rispondeva, sua madre Teoclia esclamò: “Brucia questa iniqua! Brucia questa nemica del matrimonio in mezzo al teatro, affinché tutte le donne, ammaestrate da costui, ne abbiano spavento”.
Il governatore suo malgrado dovette decidere di far fustigare Paolo e quindi di cacciarlo dalla città. Per il pessimo esempio, sotto gli incitamenti della folla, condannò Tecla al rogo. Poi il governatore si alzò e andò, insieme a tutta la folla, nel teatro dove doveva essere eseguita la sentenza per contemplare lo spettacolo. Ma, come un agnello nel deserto alza lo sguardo verso il pastore, così Tecla cercava Paolo; e rimirando tra la folla, vide il Signore seduto, nelle sembianze di Paolo, e disse: “Quasi che io fossi incapace di resistere, Paolo è venuto a osservarmi!”. E mentre lei era tutta protesa verso di lui, egli salì in cielo. Nel frattempo i giovani e le vergini raccoglievano legna e paglia per bruciare Tecla.
Preparato lo spettacolo, Tecla fu fatta entrare nuda ed il governatore, colpito dalla forza della giovane vergine, si commosse e pianse. Incuranti di tutto, gli aguzzini le ordinarono di salire sul rogo. Lei si mise in forma di croce, salì ed essi vi appiccarono il fuoco. Ma, nonostante divampasse una grande fiamma, il fuoco non la toccò: Dio infatti, commosso, causò un fragore sotterraneo, mentre, dall’alto, una nube carica di pioggia e di grandine oscurò il teatro e vi rovesciò tutto il suo contenuto. Molti si trovarono in gran pericolo e perirono, mentre il fuoco si spense e Tecla fu salva.
Intanto Paolo, e con lui Onesiforo, sua moglie e i figli digiunavano in un sepolcro aperto lungo la strada che va da Iconio a Dafne. Dopo essere rimasti alcuni giorni digiuni, i ragazzi dissero a Paolo: “Abbiamo fame”. Ma non avevano nulla per comprare il pane; Onesiforo infatti, con tutta la sua famiglia, aveva abbandonato le cose del mondo per seguire Paolo. Paolo allora si tolse il mantello e disse: “Su, figlio, va’, compra parecchi pani e portali”. Mentre il ragazzo comperava, vide Tecla, la sua vicina; si stupì e le disse: “Tecla, dove vai?”. Lei rispose: “Salvata dal fuoco, cerco Paolo”. E il ragazzo a lei: “Vieni, ti conduco da lui. Egli infatti è angosciato per te, prega e digiuna ormai da sei giorni”.
Giunti al sepolcro che li ospitava, Tecla trovò Paolo che pregava il Signore di salvarla dalle fiamme e, a sua volta, ringraziò il Signore per averla salvata ed averle permesso di rivedere Paolo. Appena Paolo la vide, ringraziò il Signore poi godettero dell’amore che li legava mangiando pani e legumi. Ma dopo un poco Tecla si offrì di seguire Paolo per sempre dicendogli: “Mi faccio tagliare i capelli e ti accompagnerò ovunque tu vada”. Ma egli rispose: “I tempi sono cattivi e tu sei graziosa. Ti potrebbe arrivare un’altra prova, peggiore della prima alla quale tu non potresti resistere, mostrandoti codarda”. E Tecla a lui: “Dammi soltanto il sigillo in Cristo e non mi toccherà prova alcuna”. Paolo le rispose “Abbi pazienza, Tecla, riceverai l’acqua”. E con questa promessa di battesimo, Paolo prese con sé Tecla dirigendosi ad Antiochia e rimandando Onesiforo con la sua famiglia ad Iconio.
Arrivati ad Antiochia il primo Alessandro, uno dei personaggi in vista della città, vide Tecla e se ne invaghì. Per averla offrì denaro a Paolo ma Paolo disse che non la conosceva e non era sua. Allora Alessandro, che era un personaggio molto potente, tentò di abbracciare Tecla in strada ma la giovane vergine reagì gridandogli “Non fare violenza a una straniera, non fare violenza a una serva di Dio! Sono una delle prime di Iconio e sono stata scacciata dalla città, perché non ho voluto sposare Tamiri”. Nel dire questo si difese strappandogli il mantello e facendogli cadere la corona che aveva sulla testa. Questa azione rese ridicolo Alessandro davanti alle persone che avevano assistito alla scena. Egli reagì portando Tecla davanti al governatore. Costui la interrogò e la vergine confessò tutto con la conseguenza che il governatore la condannò ad essere sbranata dalle fiere.
Le donne della città avevano ormai conosciuto i fatti e si indignarono gridando che la sentenza era malvagia ed empia. Per parte sua Tecla chiese al governatore che almeno fosse rispettata e potesse arrivare inviolata alle fiere. Allo scopo si fece avanti la ricca regina Trifena, alla quale era morta la figlia Falconilla. Ella prese con sé Tecla fino all’esecuzione della sentenza per garantirle la protezione di cui aveva bisogno.
Prima del sacrificio Tecla, che aveva sempre al suo fianco Trifena, venne fatta sfilare nel corteo delle fiere con un cartello che spiegava i motivi della condanna: Rea di sacrilegio. Scelta una leonessa molto feroce, Tecla fu legata a cavalcioni di essa mentre la folla urlava adirata contro questa sentenza: “Quali empietà, o Dio, si commettono in questa città”. La leonessa però, durante la sfilata, iniziò a leccare i suoi piedi e le sue gambe. Alla fine di questo rito Trifena prese di nuovo con sé Tecla perché sua figlia, apparsale in sogno, le aveva detto: “Al mio posto, madre, prenderai Tecla, straniera abbandonata, affinché preghi per me ed io possa passare nel luogo dei giusti“. Trifena, comunque addolorata sia per ciò che la figlia le aveva detto sia per il fatto che il giorno dopo Tecla sarebbe stata offerta in pasto alle fiere, disse a Tecla: “Tecla, mia seconda figlia, vieni, prega per mia figlia affinché viva nell’eternità. Questo infatti è quanto ho visto in sogno”. E subito Tecla pregò il Signore: “Dio dei cieli, Figlio dell’Altissimo, concedile quanto desidera, che cioè sua figlia Falconilla viva nell’eternità“.
Al sorgere del giorno, Alessandro venne a prelevarla – era lui infatti che offriva i giochi al circo – dicendo: “Il governatore è seduto e il popolo tumultua contro di noi, dammi la condannata alle fiere, affinché la conduca via”. Ma Trifena si mise a gridare tanto da farlo fuggire; diceva: “Il lutto per la mia Falconilla si abbatte per la seconda volta sulla mia casa! Non c’è alcuno che mi aiuti! Non un figlio, essendo lei morta, non un parente, essendo io vedova. Il Dio di mia figlia Tecla, soccorra Tecla!”. Il governatore allora la mandò a prendere dai soldati ma ancora Trifena, non la lasciò e la condusse per mano verso il luogo del sacrificio dicendo: “Ho condotto alla tomba mia figlia Falconilla, e conduco te, Tecla, a combattere contro le fiere”. Nell’udire queste parole, Tecla, piangendo, si rivolse ancora al Signore: “Signore, Dio nel quale io credo e nel quale mi sono rifugiata, che mi hai strappato al fuoco, ricompensa Trifena per la pietà che mi ha usato e per avermi conservata pura”.
Nei pressi dell’arena si udivano varie grida mentre le fiere ruggivano. Vi erano persone che gridavano perché fosse subito data alle fiere la rea di sacrilegio mentre altre: “Perisca la città a causa di questa iniquità! Uccidi tutte noi proconsole! E’ uno spettacolo atroce, una sentenza malvagia!”.
Tecla, tolta dalle mani di Trifena, fu spogliata e, rivestita di una corta sottana, fu gettata nello stadio, lanciando contro di lei leoni e orsi. Allora una feroce leonessa andò a gettarsi ai suoi piedi, mentre la folla delle donne lanciava alte grida. Un’orsa si lanciò contro di lei, ma la leonessa si precipitò contro l’orsa e la sbranò. Un leone, ammaestrato nella lotta contro l’uomo e appartenente ad Alessandro, si lanciò contro di lei, ma si precipitò anche la leonessa, lottò contro di lui e morirono insieme. Il dolore delle donne divenne ancora più grande, poiché era morta la leonessa che la proteggeva.
Il governatore ed Alessandro erano sempre più nervosi per queste avversità. Fecero allora entrare molte altre fiere. Tecla era però indifferente, assorta in preghiera. Poi si rese conto che vi era lì vicino una grande fossa piena d’acqua dentro la quale vi erano delle foche affamate. Pensò allora di lavarsi con una cerimonia che finalmente la faceva cristiana mediante il battesimo. Si gettò nell’acqua dicendo a gran voce: “Nel nome di Gesù Cristo io mi battezzo nell’ultimo giorno”. La folla però stava gridando di non gettarsi nell’acqua perché le foche l’avrebbero sbranata. Ma anche qui il Signore venne in aiuto di Tecla: vi fu un grande bagliore e tutte le foche risultarono fulminate galleggiando morte sull’acqua. Si creò una nube di fuoco che allontanò anche le fiere precedentemente sciolte ed impedì che fossero viste le sue membra nude. Ma non era finita perché furono lanciate contro di lei ancora altre fiere. Le donne che assistevano gridarono ed alcune gettarono foglie e piante aromatiche dagli odori molto intensi in modo da sviare su queste l’attenzione delle belve. Le belve furono stordite da ciò e non toccarono Tecla.
Alessandro era furioso e, a questo punto, disse al governatore che aveva la possibilità di finirla con quella vergine: “Ho dei tori terribilmente feroci; attacchiamo a essi la condannata alle fiere”. Il governatore autorizzò l’ingresso dei tori nell’arena. Tecla fu legata per i piedi a due tori al fine che risultasse squartata. Per realizzare ciò furono posti sui genitali dei tori dei ferri roventi che, addirittura, fecero prendere fuoco al vello delle bestie. Il fuoco però ruppe le corde che legavano Tecla che si ritrovò a terra come se nulla fosse accaduto.
Trifena non aveva resistito a tanta violenza e crudeltà ed era caduta svenuta. Le sue ancelle però gridarono che Trifena era morta. Nel sentire di questa morte il governatore sospese tutto e tutti i presenti restarono sospesi in una profonda angoscia. Come sappiamo Trifena era una regina, parente del Cesare. Alessandro ebbe paura e si inginocchiò davanti al governatore per dirgli: “Abbi pietà di me e della città! Libera la condannata alle fiere, affinché non perisca anche la città. Se Cesare, infatti, avrà notizia di queste cose, subito manderà in rovina noi e la città, essendo morta all’ingresso dell’arena la regina Trifena, sua parente”.
Il governatore allora chiamò di mezzo alle fiere Tecla e le disse: “Chi sei tu? E che cosa hai attorno a te, che neppure una fiera ti ha toccato?”. Lei rispose: “Sono un’ancella del Dio vivo. Quanto è attorno a me è l’aver io creduto nel Figlio, oggetto della compiacenza divina: per mezzo suo neppure una delle fiere mi ha toccata. Lui solo infatti è la via della salvezza e la base della vita immortale. Egli è il rifugio di coloro che sono sbattuti dalla tempesta, il ristoro dei tribolati, il riparo dei disperati. In una parola: chi in lui non crede, non vivrà, ma morrà per l’eternità”. Udito ciò, il governatore ordinò che fossero portati dei vestiti e le disse: “Indossa questi abiti”. Lei rispose: “Colui che mi ha vestito quando ero nuda in mezzo alle fiere, costui mi rivestirà con la salvezza nel giorno del giudizio”. Prese gli abiti e li indossò.
Il governatore emise allora subito un decreto in questi termini: “Tecla, pia ancella di Dio, io vi lascio libera“. Le donne allora gridarono tutte a gran voce e quasi con un’unica bocca diedero lode a Dio dicendo: “Vi è un solo Dio, quello che salvò Tecla”. Questo grido scosse tutta intera la città. Informata della lieta notizia, Trifena le andò incontro con una folla, abbracciò Tecla e disse: “Ora credo che i morti risorgono! Ora credo che mia figlia vive! Entra da me e ti faccio erede di tutte le mie sostanze”.
Tecla entrò dunque da lei, si ristorò in casa sua per otto giorni insegnandole la parola di Dio. Lei credette e così la maggioranza delle sue ancelle e grande fu la gioia di quella casa.
Dopo aver letto queste ispirate pagine, Ambrogio, il dottore della chiesa grida: “Un incanto così formidabile aleggia sulla sua verginità, che perfino i leoni le danno prova della loro ammirazione: sebbene affamati, il pasto non li istigò ad attaccare; sebbene eccitati, l’irruenza non li travolse; sebbene aizzati, la rabbia non li scatenò; sebbene avvezzi all’istinto, l’abitudine non li fuorviò; sebbene feroci, la natura non ebbe più potere su di essi. Diventarono maestri di devozione rendendo omaggio alla martire, e similmente maestri di castità leccando alla vergine soltanto i piedi, tenendo per verecondia, si direbbe, gli occhi rivolti al suolo, affinché nulla di maschile, fosse pure di natura animalesca, potesse guardare la vergine senza veli“. Questo può aiutare a capire perché uno scemo o un furbastro così fu fatto vescovo di Milano, quasi un leghista, una cabra montesa.
Tecla ben trattata e coccolata si riprese ma il benessere di cui godeva in quella casa non era per lei. Era Paolo la persona che ambiva incontrare di nuovo ed ella mise in moto molte persone del circolo di amicizie di Trifena per sapere dove si trovava. Saputo che era a Mira, vestitasi con un mantello che la copriva in modo da sembrare un uomo, si recò a Mira accompagnata da dei giovani e delle giovani. Lo trovò che predicava la parola del Signore. Paolo la vide e per un momento ebbe paura che le stesse per accadere ancora qualcosa perché Tecla era accompagnata da una moltitudine di persone. Lei però capì cosa pensava Paolo e subito lo rassicurò dicendogli: “Ho ricevuto il lavacro, Paolo! Colui infatti che ti diede energia per il vangelo, a me diede l’energia per il lavacro”.
Dopo aver raccontato a Paolo l’accaduto gli disse che tornava ad Iconio. Paolo la incitò chiedendole di insegnare la parola di Dio. Appena Tecla tornò, Trifena inviò a Paolo molte vesti e dell’oro per aiutare i poveri. La prima visita però che fece fu a casa di Onesiforo dove si gettò a terra dove predicava Paolo dicendo: “Mio Dio, e Dio di questa casa ove brillò per me la luce, Gesù Cristo, Figlio di Dio, mio aiuto nella prigione, aiuto davanti ai governatori, aiuto nel fuoco, aiuto tra le fiere! Tu sei Dio, a te la gloria per l’eternità. Amen”. In questa casa seppe che Tamiri era morto mentre sua madre era ancora in vita. La fece chiamare e le disse: “Teoclia, madre mia, puoi tu credere che il Signore vive nei cieli? Se tu desideri ricchezze, il Signore te le darà per mezzo mio, se desideri la tua figlia, eccomi presso di te”. Resa questa testimonianza, partì per Seleucia e dimorò in una caverna per 72 anni seguendo una dieta vegetariana, bevendo acqua, e illuminando molti con la parola di Dio.
Alcune donne nobili, avendo sentito parlare della vergine Tecla, andarono da lei e impararono le parole di Dio; molte di esse abbandonarono il mondo e praticarono con lei la virtù. Ovunque si sparse la sua fama, e per mezzo suo si operarono ovunque miracoli. Venutane a conoscenza tutta la città e i dintorni, portavano i loro malati sulla montagna, e prima ancora che si avvicinassero alla porta venivano guariti, qualunque fosse la loro malattia, e gli spiriti impuri uscivano gridando: tutti riacquistavano la salute del corpo, glorificando Dio che aveva dato una tale grazia alla vergine Tecla. E in tal modo i medici di Seleucia erano considerati buoni a nulla: persero i loro clienti e nessuno prestava più attenzione a loro. Pieni d’invidia e gelosia, escogitarono inganni contro la serva di Dio, e il diavolo suggerì loro un piano perverso. Un giorno tennero consiglio e discussero insieme, affermando: “Questa vergine è consacrata alla grande dea Artemide; qualsiasi cosa le chieda lei l’ascolta perché è vergine ed è amata da tutti gli dèi. Prendiamo uomini disonesti, ubriachiamoli con molto vino, diamo loro molto oro, dicendo: “Se potete corromperla e contaminarla, vi daremo ancora molto denaro”. I medici pensavano: se riusciranno a corromperla, non l’ascolteranno più, per i malati, né gli dèi, né Artemide.
Eseguirono dunque il loro progetto. Uomini disonesti andarono sul monte e, postisi all’ingresso della caverna, simili a leoni, bussarono alla porta. La santa martire Tecla aprì fiduciosa nel Dio nel quale credeva, pur essendo già a conoscenza del loro criminale progetto; disse loro: “Che volete, figli?”. Risposero: “E’ qui quella che si chiama Tecla?”. Lei rispose: “Perché la volete?”. Essi risposero: “Vogliamo coricarci con lei”. La beata Tecla rispose: “Io sono una povera vecchia, serva del mio Signore Gesù Cristo. Anche se volete farmi del male, non ci riuscirete”. Risposero: “Non è possibile che non riusciamo a fare di te ciò che vogliamo”. Così dicendo s’impadronirono di lei con la forza e cercarono di violentarla. Ma lei disse loro con dolcezza: “Aspettate, figli, e vedrete la gloria del Signore”. Afferrata da essi, lei guardò verso il cielo e disse: “Dio terribile, incomparabile e glorioso di fronte ai tuoi nemici, tu che mi hai scampato dal fuoco, non mi hai abbandonato a Tamiri, non mi hai abbandonato ad Alessandro, mi hai strappato dalle belve, mi hai salvato dalla fossa, tu che ovunque mi hai soccorso ed hai glorificato in me il tuo nome, strappami anche adesso da questi uomini empi! Non permettere che violentino la mia verginità, conservata fino a oggi per il tuo nome perché ti amo, ti desidero, mi prostro davanti a te, Padre, Figlio e Spirito santo, per sempre, Amen”.
Dal cielo s’udì una voce: “Tecla, mia serva verace, non temere perché io sono con te. Guarda! Vedi il luogo aperto davanti a te. Là troverai una casa perpetua, là sarai soccorsa”. La beata Tecla, tutta intenta, vide la pietra aprirsi come per una persona e fece come le era stato detto. Sfuggendo abilmente a quegli uomini disonesti, entrò nella roccia, che subito si chiuse non lasciando apparire neppure una fessura. Alla vista di questo strano prodigio, restarono fuori di sé e non ebbero la forza di impadronirsi della serva di Dio. Riuscirono soltanto ad afferrare il suo velo, strappandone un pezzo. E ciò per concessione di Dio per corroborare la fede dei visitatori di questo luogo venerabile e per la benedizione delle generazioni future, di coloro che con cuore puro credono nel Signore nostro Gesù Cristo. Entrata nella roccia, Tecla proseguì e s’inoltrò sotterra giungendo fino a Roma per contemplare Paolo; ma lo trovò morto.
Dunque, Tecla di Iconio, protomartire, apostola e vergine di Dio, patì all’età di 18 anni; dopo la peregrinazione, il viaggio e l’esercizio della virtù sul monte, visse ancora 72 anni; quando il Signore la riprese, aveva 90 anni: questa fu la sua fine.
La sua santa memoria si fa il 24 settembre, a gloria del Padre, del Figlio e dello Spirito santo ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen.
Come si sarà notato è questa una storia fantastica, una vera favola, che però non riguarda la santità di Tecla di Iconio che resta intatta, come la sua persona, nota solo da questo testo, è data per realmente esistita. Sulla storia ora raccontata, al di là della sua realtà, vi sono delle osservazioni da fare. La prima riguarda quell’insistere sulla parola vergine come un qualcosa di sacro che, di per sé, vale la santità. Io non so se storicamente alla parola vergine si siano alternati significati diversi o se siamo di fronte ad una traduzione ingannevole, ma se vergine è ciò che conosciamo oggi, siamo di fronte ad una aberrazione mentale, ad una sorta di offesa verso tutte le donne che giustamente non sono vergini, quasi che, di per sé un rapporto sessuale sia da condannare sempre ed in assoluto. La cosa si attenuerebbe se si discutesse anche di giovani vergini riferito agli uomini. Il valore della verginità, anche se non si condivide il fatto in sé, sarebbe almeno un qualcosa di valido per tutti. Invece no, l’aggettivo vergine è qualificativo solo della donna come se il suo sesso si rompesse e con esso l’intera immagine della donna. In definitiva la donna è il suo sesso. Può darsi poi che verginità abbia un significato più ampio e riguardi anche ogni altra operazione che sta intorno ai giochi d’amore tra uomo e donna. Sembrerebbe debba essere così per evitare di avere a che fare con le semivergini di Marcel Prévost o di cui parlava Tom Antongini, il segretario di Gabriele d’Annunzio. Senza entrare in dettagli scabrosi, anche un bacio sensuale sulla bocca potrebbe rendere una fanciulla non più vergine. Ma qui siamo nel campo delle illazioni che diventano terreno per sottili disquisizioni di teologi. Io, da ateo impenitente, lascio.
Altro aspetto che merita attenzione è relativo ai motivi che portano una donna (meglio: una vergine) ad essere perseguitata. E’ sempre per la sua avvenenza. Per l’essere concupita da qualche uomo che ha poi il potere (diretto o mediante la propria influenza economica o politica) di vendicarsi su di lei per essere stato rifiutato. L’essere cristiana è solo la scusa a cui si appigliano i pretendenti delusi. Nel nostro caso, Tamiri che è un primo o potente di Irconio, rifiutato da Tecla, la denuncia al governatore che la manda al rogo ed Alessandro che è un potente di Antiochia, rifiutato da Tecla, la denuncia al governatore che la dà alle fiere. Una Tecla supervergine ma bruttina non avrebbe dato origine a questa santa martire.
Ultimo aspetto, almeno da citare, è relativo ai fiabeschi miracoli ed alla quasi personalizzazione che si fa almeno di un leone. Non vi è dubbio che queste favole dovevano avere un grande impatto pedagogico sulle nuove generazioni, gli agnelli, da educare al Cristianesimo e di queste favole ve ne sono a centinaia.
GLI ATTI DI PAOLO
Proprio relativamente alla personalizzazione di un leone, ancora negli Atti di Paolo, in quella parte che troviamo nel Papiro Greco di Amburgo (mancante di qualche parola qua e là e di qualche foglio), vi è una storia che riguarda la persecuzione dello stesso Paolo ad Efeso che merita di essere conosciuta. Il tutto inizia quando il governatore sta per decidere a quale supplizio dovrà essere condannato Paolo.
Il governatore Gerolamo ed i cittadini avevano udito la difesa di Paolo fatta nel teatro della città. Alla fine di essa il governatore chiese ai convenuti quale fosse la pena per il reo. Alcuni dissero il rogo, altri le fiere. Gerolamo allora decise di farlo flagellare prima di gettarlo in pasto alle fiere.
Passarono sei giorni e Gerolamo fece sfilare le fiere che si era procurato e tutti rimasero sbalorditi per le loro dimensioni. Ormai era venuto il momento del sacrificio nell’arena. Paolo, era solo, chiuso in una cella dello stadio, legato ed in ginocchio a pregare il Signore. Il rumore dei carri che trasportavano le fiere che si avvicinavano non lo turbavano e neppure le urla di coloro che le tenevano a bada. Un gigantesco leone si avvicinò alla porta laterale della prigione di Paolo e ruggì così forte ed in modo tanto feroce e furibondo che la gente si spaventò mentre Paolo, anch’egli spaventato, fu distratto dalla preghiera.
Gerolamo aveva una moglie di nome Artemilla ed un liberto di nome Diofanto che, a sua volta, aveva una moglie di nome Eubula che era una discepola di Paolo. Eubula stava giorno e notte vicina a Paolo per sentirlo predicare tanto che Diofanto ne era geloso fino al punto di volere anch’egli le fiere per Paolo. Artemilla era invece molto incuriosita da tutto ciò che sentiva dire su Paolo e pregò Eubula di condurla a lui per sentirlo pregare. Costei lo disse a Paolo che, pieno di gioia, disse di condurla a lui. Artemilla si vestì con un abito scuro ed andò da Paolo con Eubula. Quando Paolo la vide esclamò: “Donna, padrona di questo mondo, proprietaria di molto oro, cittadina dal grande lusso, superba nel vestire, siediti a terra, dimentica le tue ricchezze, la tua bellezza, i tuoi ornamenti, giacché a nulla ciò ti servirà se non preghi Dio il quale considera come letame le cose che qui sono grandi e concede liberamente le meraviglie dell’aldilà. L’oro perisce, le ricchezze si consumano, i vestiti si logorano, la bellezza sfiorisce, le metropoli mutano e il mondo perisce nel fuoco a causa dell’empietà degli uomini. Dio solo rimane e l’adozione da lui concessa; soltanto per mezzo suo ci si può salvare. Ora, Artemilla, abbi fiducia in Dio ed egli ti libererà, abbi fiducia in Cristo ed egli ti concederà il perdono dei peccati e ti cingerà con la corona della libertà, in modo che tu non serva più gli idoli e i profumi dei sacrifici, ma il Dio vivo e Padre di Cristo, la cui gloria è nei secoli dei secoli. Amen”.
Artemilla, udite queste parole, chiese subito a Paolo di essere battezzata in Dio e chiese di poter essere battezzata in mare il giorno successivo.
[A questo punto vi è nel testo una qualche incongruenza. Riporto ciò che leggo cercando di interpretare]
A tal fine esse dissero a Paolo : “Vuoi che facciamo venire un fabbro, affinché ti sciolga e tu ci possa battezzare nel mare?”. Ma Paolo rispose: “Non voglio! Io infatti ho fede in Dio il quale ha liberato tutto il mondo dalle catene”.
Era sabato e si avvicinava il giorno del Signore, nel quale Paolo doveva combattere con le fiere; Paolo allora alzò la voce e disse: “Mio Dio, Gesù Cristo, che mi hai liberato da tanti mali, concedi che sotto gli occhi di Artemilla e di Eubula, le quali sono tue, si spezzino le catene dalle mie mani”. Mentre Paolo rendeva così testimonianza, entrò un giovane bello e affabile, il quale, sorridendo, sciolse le catene di Paolo e subito scomparve. A motivo della visione avuta e del segno prodigioso delle catene, si dileguò la sua angoscia per la lotta contro le fiere e balzò in piedi allegro come se fosse in paradiso. Prese Artemilla e uscì dal luogo stretto e oscuro nel quale erano custoditi i prigionieri. Quando, passati inosservati davanti alle guardie, furono al sicuro, Paolo pregò il suo Dio dicendo: “Si aprano le porte e risplenda la tua provvidenza…, affinché Artemilla venga iniziata con il sigillo del Signore”. Nel nome del Signore, si spalancarono allora le porte chiuse… mentre era caduto sulle guardie un profondo sonno. La matrona e il beato Paolo uscirono subito con Eubula, invisibili a causa dell’oscurità. E un giovane, corporalmente simile a Paolo, illuminando non con una lampada ma con la santità del suo corpo, li precedette fino a quando giunsero in vicinanza del mare; colui che splendeva si pose davanti a loro… Dopo avere pregato, Paolo pose la sua mano su Artemilla, benedì l’acqua nel nome di Gesù Cristo così che il mare si rigonfiò in modo straordinario e, presa da grande spavento, Artemilla fu per svenire. Allora Paolo alzò la voce e disse: “O tu che splendi e illumini, vieni in aiuto, affinché i pagani non dicano che il prigioniero Paolo è fuggito, dopo aver ucciso Artemilla”. Mentre il giovane sorrideva nuovamente, la matrona, rientrata in sé, tornò a casa allo spuntar del giorno. Entrato in carcere, mentre le guardie erano ancora addormentate, spezzò il pane, accostò anche dell’acqua, la abbeverò con la parola e la mandò da suo marito Gerolamo. Egli, invece, rimase in preghiera
Arriviamo così al giorno del Signore, al giorno in cui Paolo doveva confrontarsi con le fiere. Di buon mattino tra i cittadini ci fu il grido: “Allo spettacolo! Su, a vedere combattere con le fiere colui che possiede Dio!”. Lo stesso Gerolamo vi si recò, sia per il sospetto che nutriva verso sua moglie, sia perché egli (Paolo) non era fuggito; ordinò a Diofanto e agli altri servi di condurre Paolo nello stadio. Questi si lasciò condurre fuori (dalla cella) senza dire una parola, anzi, con la testa bassa e sospirando perché era portato in trionfo dalla città. Portato via, fu subito gettato nello stadio, mentre tutti erano stizziti per il dignitoso contegno di Paolo. Artemilla ed Eubula caddero ammalate molto gravemente a causa della (imminente) perdita di Paolo; Gerolamo era triste, e non poco, a causa della moglie, infastidito dalle voci che correvano in città, e così non aveva con sé la moglie.
Quando Paolo si sedette, il sorvegliante alle fiere ordinò di lasciare libero davanti a Paolo un leone molto feroce, catturato poco prima: tutta la folla, dopo l’iniziale stupore perché la bestia era straordinariamente grande e selvaggia, iniziò ad aizzare il leone con alte grida affinché uccidesse Paolo che stava assorto in preghiera. Quando il leone saltò fuori dalla gabbiaPaolo seguitava la sua preghiera rendendo la sua testimonianza. Guardandosi attorno, il leone si mostrò completamente e poi corse a gettarsi vicino alle gambe di Paolo come un mite agnello e come un suo schiavo e si mise a pregare. Quando terminò la preghiera, risvegliandosi come da un sogno, disse a Paolo con voce umana: “La grazia sia con te!”. Paolo non si spaventò, e gli rispose: “La grazia sia con te, leone!” e pose la mano su di lui.
Mentre Paolo ed il leone si fissavano, tutto il popolo gridava: “Via il mago, via lo stregone!”. Ed a Paolo sembrò di riconoscere il leone al quale chiese: “Leone, sei tu quello che io ho battezzato?”. Il leone rispose: “Sì”. Paolo gli domandò nuovamente: “Come sei stato preso a caccia?”. Il leone rispose con una voce: “Come te, Paolo!”.
[La storia del leone battezzato la troviamo nel Papiro Copto di Bodmer, sempre nell’ambito degli Atti di Paolo, ed è utile riportarla qui come ricordo di un’avventura che in precedenza aveva vissuto Paolo]
Ciò detto, Paolo lasciò Smirne diretto a Efeso. Qui entrò in casa di Aquila e Priscilla, pieno di gioia per poter vedere i fratelli che egli, Paolo, aveva così cari. Anche questi ne furono lieti: s’alzarono e lo pregarono di essere ritenuti degni che Paolo mettesse piede in casa loro. Ne nacque così giubilo e gioia grande. Passarono la notte vegliando nella preghiera e indagando la volontà di Dio per infondere coraggio nel loro cuore: pregando tutti unanimi, allo stesso modo.
Durante quella notte Paolo raccontò ad Aquila e Priscilla una sua avventura con un leone nel deserto.
Dalla pianura del deserto delle ossa venne fuori un grosso e terribile leone, ma noi eravamo così immersi nella preghiera che Lemma e Ammia per mezzo della preghiera … la belva… [vi sono, come si è capito, delle parole illeggibili, ndr]. Allorché terminai la mia preghiera, la belva si era gettata ai miei piedi. Pieno di Spirito santo, io la guardai e le dissi: “Leone, che cosa vuoi?”. Mi rispose: “Vorrei essere battezzato!”.
Lodai Dio che aveva concesso la parola alla belva e ai suoi servi la salvezza. Ora, in quel luogo c’era un grande fiume; io ci entrai… Poi, gridai: “Uomini e fratelli! Colui che abita nei luoghi eccelsi, colui che volge lo sguardo agli umili, colui che dà riposo agli esausti, colui che, accanto a Daniele, chiuse le fauci dei leoni, colui che mi ha mandato il Signore nostro Gesù Cristo, conceda che il nostro… sfugga alla belva e io porti a compimento il piano che mi ha affidato”.
Dopo avere pregato con queste parole, presi il leone per la criniera e lo immersi tre volte nel nome di Gesù Cristo. Quando risalì dall’acqua, scosse bene la sua criniera e mi disse: “La grazia sia con te!”. Io gli risposi: “Pure con te!”. Il leone corse poi per la campagna pieno di gioia; questo, in realtà, me lo manifestò il cuore: lo incontrò una leonessa, ma egli non le voltò il suo sguardo, e invece di seguirla se ne fuggì [anche qui la castità … ndr]. Anche voi, Aquila e Priscilla, credete nel Dio vivo e predicate ciò che avete udito…”.
[Torniamo ora a Paolo che parla con il leone dentro l’arena]
Infuriato per l’accaduto, Gerolamo mandò dentro molte fiere, affinché uccidessero Paolo, e arcieri contro il leone, affinché anch’esso fosse ucciso. Ma, quantunque il cielo fosse sereno, si scatenò una grandine fitta, violenta e spaventosa tanto che parecchi morirono e altri fuggirono. Paolo e il leone non ne ebbero alcun danno, mentre le altre fiere perirono a causa della grandine; questa era così violenta, che strappò via un orecchio di Gerolamo che era stato colpito. La folla fuggì gridando: “Salvaci, Dio! Salvaci, Dio dell’uomo che ha lottato con le fiere!”.
Paolo fu liberato insieme al leone. Presero strade diverse e Paolo si diresse verso Filippi, quindi Corinto ed infine Roma. In questo viaggio accaddero varie cose, vari miracoli e fenomeni incredibili, che qui ora tralascio.
Anche questa storia è molto istruttiva ed anch’essa è tipica delle favole che venivano raccontate a coloro che dovevano essere convertiti. Sono storie fantastiche, fiabesche, edificanti, chiaramente false. Niente di male se dovessero essere utilizzate per far addormentare dei bambini. Si tratta di particolari superuomini o superdonne di circa 2000 anni fa che come analoghi personaggi di oggi sono adorati dai bambini e non solo. La storia del leone che parla e che chiede di essere battezzato è molto coinvolgente perché accorda la fede con la voglia che molte persone anno di riconoscere dignità agli animali che, per altri versi, sono animali solo sacrificali per i testi sacri. Vi è poi un altro filone di racconti e cinematografia attuale che assegna la parola agli animali continuando una tradizione che, ripeto, è coinvolgente ed in grado di innamorare giovani da dover indottrinare. Ma, anche qui, non mancano le conversioni fulminanti, come quella di Artemilla che, sente qualche parola di Paolo e si converte (se bastavano quelle poche banalità per convertire una persona, c’è da chiedersi con che persone si aveva a che fare da quelle parti. Erano tutti dotati di semplici grugniti ?), quel Paolo che è preparato per essere sbranato dai leoni e che in modo abbastanza semplice riceve visite e fa salotto.
Come ho detto, questi racconti provengono da testi apocrifi, testi cioè che, diciamoci la verità, la Chiesa da una parte non riconosce come fondanti la fede e dall’altra utilizza a piene mani (credo che tutti sappiano di fantastiche storie di bue ed asinello da coniugare con re magi e stelle che li guidano, di Fatima, Lourdes e Medjugorje).
I RACCONTI DI EUSEBIO DI CESAREA
Eusebio di Cesarea, del quale ho già fornito la corretta definizione, nacque a Cesarea di Palestina nel 265. Ebbe modo di studiare formandosi alla scuola greca di Panfilo, fondata da Origene. Nel 303, da cristiano qual era, sfuggì alla persecuzione di Diocleziano ed ebbe una vita controversa nella Chiesa, aderendo e poi negando la sua adesione all’arianesimo finché non raggiunse una situazione di grande privilegio divenendo lo storico di corte di Costantino che nel 313 lo promosse vescovo di Cesarea. Il suo zelo verso il suo protettore lo mostrò in ogni passaggio del suo De vita Costantini presentando Costantino come il prediletto di Dio che era mosso interiormente dal Salvatore stesso. Ad Eusebio dobbiamo la favoletta del “in hoc signo vinces” (o in hoc signo victor eris) che il Signore fece sognare a Costantino prima dello scontro con Massenzio a Ponte Milvio, favoletta che ci ha dilettato l’infanzia pur essendo, appunto, una favola. Ma di favole è infarcita la sua opera che, insieme alla esaltazione del sovrano, offre una squallida denigrazione di altre fedi. Un esempio è il seguente:
… le scelleratezze che venivano perpetrate in quel luogo [Tempio di Afrodite] non potevano rimanere nascoste al nostro grande imperatore, il quale, quando, senza che nessuno lo avesse informato, si avvide anche di questi crimini [essenzialmente presunte orge, ndr], con un gesto di previdenza veramente imperiale, giudicò che un tempio siffatto non fosse degno di rimanere sotto i raggi del sole, e ordinò che venisse interamente raso al suolo insieme con tutti gli oggetti di culto: ad un cenno dell’imperatore quei pericolosi edifici, simbolo della dissolutezza della falsa religione, subito caddero in frantumi, e fu l’esercito che porse i proprî servigî per la bonifica di tutta l’area.
Ma il massimo sfoggio di servilismo Eusebio, il teologo di corte, lo diede raccontando il Concilio di Nicea che fu presieduto da Costantino in persona:
… finalmente Costantino in persona passò attraverso il corridoio centrale, simile ad un celeste angelo del Signore: la sua veste splendente lanciava bagliori pari a quelli della luce ed egli appariva tutto rilucente dei raggi fiammeggianti della porpora…
Costantino aprì il concilio e, come ricorda Eusebio, quando fece il suo ingresso nella sfarzosa sala del palazzo imperiale, dette l’impressione di essere
un angelo di Dio, sceso dal cielo, luminoso nei suoi vestiti lucenti, radioso della focosa vampa della porpora e ornato dello scintillio chiaro dell’oro e delle pietre preziose.
Insomma Eusebio, ma anche Lattanzio l’istitutore del figlio, esegeti cristiani dell’epoca, parlano di Costantino come del più pio, accorto ed assennato uomo del tempo (un nuovo apostolo). Gli concedono ogni virtù, oltre alla conversione al Cristianesimo che nessuno sa ancora ben situare e se sia mai esistita.
E se ciò non bastasse arriva il fine teologo Ratzinger a rincarare la dose, visto che Eusebio risulterebbe diffamato. Scrive Benedetto XVI (L’Osservatore Romano – 1 marzo 2009):
Eusebio presenta Costantino come immagine di Dio e mimesi del Lògos. … Per il vescovo di Cesarea l’imperatore rappresenta l’immagine-imitazione della divinità non per partecipazione ontologica, come volevano i trattati ellenistici, ma grazie alle sue virtù: imitando il Lògos l’imperatore può riprodurre l’immagine del regno del Padre. … Solo colui che riesce a riprodurre in sé l’immagine del Padre attraverso l’imitazione del Lògos, può essere definito veramente imperatore. … Il modello per eccellenza per chi esercita il potere è Cristo: ciò garantisce l’assenza di abusi e illeciti.
Insomma queste colte parole confermano il giudizio di Burkhardt: Eusebio è il primo storico completamente disonesto dell’antichità e Ratzinger ? Ma lo sa il nibelungo che quel sant’uomo di Imperatore ammazzò la moglie e quasi tutti i figli in una ordalia del terrore ? Lo sa, lo sa, solo che i crimini dei potenti uomini li convertono in santi della Chiesa di Roma.
Nella Storia ecclesiastica,dopo qualche cenno alla persecuzione di Nerone, Eusebio, rifacendosi a Il martirio di Policarpo, il più antico fra gli Atti dei martiri(8), racconta appunto la storia di San Policarpo. Costui sarebbe stato allievo di Giovanni figlio di Zebedeo, il più giovane degli Apostoli che, per questo, aveva grande autorità tanto da essere nominato vescovo a Smirne. Era un ortodosso che si batté contro le eresie, in particolare contro il docetismo ed i seguaci di Valentino. Di lui si racconta (Ireneo da Lione) che avesse conosciuto l’eretico Marcione nel 154 apostrofandolo come primogenito del Demonio. Ebbene, nel 155, Policarpo, che sembra avesse 86 anni, fu arrestato perché si era rifiutato di sacrificare all’Imperatore Antonino Pio e fu condannato al rogo.
Era un sabato di festa grande. Lo incontrarono l’eirenarca [il responsabile dell’ordine pubblico, ndr] Erode e suo padre Niceta che, fattolo salire sulla loro carrozza e sedutisi vicino a lui, cercarono di persuaderlo a rinnegare la sua fede con queste parole “Che male c’è nel dire Signore Cesare, nel sacrificare e così salvarsi?”. In un primo tempo non rispose, ma poi, vista la loro insistenza, disse: “Non ho intenzione di fare ciò a cui mi esortate”. Essi desistettero allora dal persuaderlo e, pronunciate contro di lui turpi parole, lo spinsero giù dalla carrozza con tanta violenza che egli, nella caduta, si sbucciò uno stinco. Ma non si voltò neppure, ignorando il dolore, e con coraggioso zelo avanzava, condotto verso lo stadio. Pur essendoci qui un sì grande clamore che avrebbe impedito a chiunque di essere udito, Policarpo, non appena entrò, sentì una voce dal cielo dirgli: “Forza Policarpo, sii forte”. Nessuno vide chi aveva parlato, ma molti dei nostri udirono quella voce. Quando Policarpo fu portato all’interno dello stadio, coloro che avevano appreso la notizia del suo arresto eruppero in un grande clamore. Non appena entrò, il proconsole gli domandò se era Policarpo; avuta risposta affermativa, cercò di persuaderlo ad abiurare dicendo: “Abbi riguardo della tua età!“; aggiunse poi quelle parole che erano soliti pronunciare: “Giura nel Genio di Cesare, pentiti, dì: basta con gli atei”. Ma Policarpo, guardando con volto serio tutta la folla che era nello stadio, alzò verso di loro la mano e, sollevato lo sguardo al cielo, disse: “Basta con gli atei!”. Il proconsole, avvicinatosi, gli disse: “Giura e ti libererò; insulta il Cristo! “. Ma Policarpo rispose: “Sono suo servo da ottantasei anni e non ho ricevuto da lui nessuna ingiustizia. Come potrei insultare il mio re, colui che mi ha dato la salvezza?”. Ma il proconsole insisteva dicendo: “Giura nel Genio di Cesare”; e Policarpo: “Se speri che io giuri nel Genio di Cesare, come mi ordini, fingendo di ignorare chi io sia, ascolta attentamente: sono cristiano. E se vuoi apprendere l’insegnamento del Cristianesimo, basterà che tu mi ascolti per un giorno!”. Rispose il proconsole: “Persuadi il popolo”. E Policarpo: “Ho ritenuto degno rivolgerti la parola perché mi hanno insegnato di onorare i magistrati e le autorità investite da Dio come loro si addice, se ciò non è dannoso per noi; ma non stimo degni costoro di ascoltare la mia difesa”. E il proconsole: “Ho le belve; a queste ti darò in pasto se non abiuri la tua fede”. Egli rispose: “Chiamale, ma non muterò parere per passare dalle cose migliori alle peggiori; è bello infatti andare dall’ingiustizia alla giustizia”. Ed egli: “Se non ti curi delle belve, ti farò consumare dal fuoco, se non abiurerai il Cristo”. E Policarpo: “Tu minacci un fuoco che brucia per un’ora e poco dopo si spegne, ma ignori il fuoco del giudizio futuro e del castigo eterno destinato agli empi. Ma perché perdi tempo? Fa venire quello che vuoi”. Nel dire altre parole ancora più gravi era pieno di coraggio e di gioia, e il suo volto abbondava a tal punto di grazia da non scomporsi alle parole che gli erano state rivolte dal console, che rimase anzi stupito e inviò l’araldo in mezzo allo stadio a proclamare tre volte: “Policarpo si è dichiarato cristiano”. Quando l’araldo ebbe finito di pronunciare queste parole, tutto il popolo dei pagani e dei Giudei che abitavano a Smirne gridò con impeto incontenibile e a gran voce: “Questi è il maestro dell’Asia, il padre dei cristiani, il flagello dei nostri dei, colui che insegna a molti a non sacrificare e a non prostarsi “. Dicendo ciò, chiesero a gran voce all’asiarca [era il titolo che spettava a chi si occupava degli affari d’Asia] Filippo di sguinzagliare un leone contro Policarpo. Egli rispose che non era possibile, poiché lo spettacolo delle belve era finito. A loro sembrò bene quindi chiedere all’unanimità di bruciare vivo Policarpo. […] Ciò si verificò in men che non si dica: il popolo infatti condusse subito fuori dalle officine e dalla terme legna e fascine. In ciò si prodigarono soprattutto i Giudei, come era loro costume. Quando la pira fu allestita si tolse da sé tutti i vestiti, si sciolse la cintura e tentò di togliersi anche le scarpe, cosa che non aveva fatto prima da sé poiché ciascun fedele sempre contendeva con l’altro per toccargli per primo la pelle. A causa della sua perfetta santità infatti era oggetto di onore anche prima di giungere alla vecchiaia. Subito gli fu fatto indossare ciò che è necessario per il rogo; ma poiché essi avevano anche l’intenzione di inchiodarlo, disse loro: “Lasciatemi così; colui che infatti mi dà la forza di sopportare il fuoco, mi permetterà di resistere al rogo anche senza che voi mi ci assicuriate con i chiodi”. Essi allora non lo inchiodarono, ma lo legarono. Egli, messe le mani dietro la schiena e legato come agnello scelto preso da un grande gregge come olocausto gradito a Dio onnipotente, disse [una lunga preghiera] … Non appena proferì “amen” e portò a termine la preghiera, gli addetti attizzarono il fuoco. A noi, ai quali fu concesso vedere il prodigio di una grande fiamma che risplendeva, è stato riservato il compito di raccontare ad altri il miracolo che accadde. Il fuoco, prendendo forma di volta come la vela di una nave gonfiata dal vento, avvolse il corpo del martire, che vi si trovava in mezzo non come carne bruciata, ma come oro e argento arsi in una fornace; infatti sentivamo un profumo simile a quello dell’incenso e di un altro aroma prezioso. Quegli empi infine, vedendo che ciò impediva che il suo corpo potesse essere consumato dal fuoco, ordinarono ad un confector [colui che dava il colpo di grazia o alla belva o al gladiatore feriti, ndr] di avvicinarsi a lui e di trafiggerlo con una spada. Fatto questo, sgorgò dal suo corpo una così grande quantità di sangue da riuscire a spegnere il fuoco e a far meravigliare il popolo della grande differenza esistente tra coloro che non credono e gli eletti. Egli era uno di costoro, il maestro ammiratissimo nei nostri tempi, discepolo degli apostoli e profetico vescovo della Chiesa cattolica di Smirne; ogni parola che usciva dalla sua bocca o si era già compiuta o si sarebbe compiuta. Ma il demonio, astuto e invidioso, nemico della progenie dei giusti, vedendo la grandezza della sua testimonianza di fede e la sua vita sempre ineccepibile, che lo cinse della corona dell’immortalità e gli permise di riportare il premio inoppugnabile della vittoria, fece in modo che noi non raccogliessimo neppure il suo corpo, sebbene molti desideravano farlo per tenere con loro le sue sante spoglie. Alcuni consigliarono a Niceta, padre di Erode, fratello di Alce, di recarsi dal procuratore per esortarlo a non darci il suo corpo, dicendogli: “Affinché, abbandonando l’adorazione di colui che è stato crocifisso, non comincino a venerare costui”.
Eusebio prosegue raccontando dei martiri delle città di Lione e Vienna nella Gallia secondo una lettera che gli sarebbe arrivata. Ed ecco il martirio tra tormenti atroci di Santo, di Attalo, di Maturo e della fragile Blandina che tutti credevano la più fragile ma che alla fine si mostrò la più salda nella fede. Costei
stremò e sfiancò coloro che, uno dopo l’altro, si alternarono nel torturarla in tutti i modi dalla mattina fino alla sera ed essi stessi dovettero confessarsi vinti non avendo nient’altro da farle, e si meravigliavano che rimanesse ancora in vita nonostante avesse tutto il corpo straziato e dilaniato e testimoniavano che uno solo di quei supplizi sarebbe stato sufficiente a farle rendere l’anima, senza che ci fosse bisogno di tali e sì grandi torture. Ma la beata, come un atleta generoso, traeva vigore dalla confessione e le recava conforto, riposo e sollievo dalla sofferenza dire: “Io sono cristiana e da parte nostra non si fa nulla di male”.
Blandina, insieme agli altri martiri, fu di nuovo condotta in carcere in attesa che tutti fossero dati alle fiere:
Maturo, Santo, Blandina e Attalo furono dati in pasto alle fiere, nell’edificio pubblico e al comune spettacolo della crudeltà dei pagani. A tale scopo in quel giorno i combattimenti delle fiere erano dati per mezzo dei nostri. Nell’anfiteatro, Maturo e Santo furono nuovamente sottoposti a ogni tipo di tormenti, come se prima non avessero sofferto nulla, o piuttosto, come se, avendo superato l’avversario più volte, stessero gareggiando per la corona stessa. Ancora una volta, come era in uso in quelle località, subirono la pena dei flagelli e le lacerazioni delle fiere e tutti quei supplizi che la plebaglia inferocita, chi una cosa, chi un’altra, gridando imponeva e alla fine la sedia di ferro, essendo stati arrostiti sulla quale i corpi emanavano odore di grasso. Ma neppure così i pagani si placavano, anzi si infuriavano ancora di più in quanto volevano avere la meglio sulla resistenza dei martiri: da parte di Santo null’altro udirono se non la confessione che egli aveva continuato a ripetere sin dall’inizio. Ma i martiri, dato che continuavano a restare in vita dopo quella dura lotta, alla fine furono uccisi; in luogo dei vari combattimenti corpo a corpo quel giorno essi stessi divennero spettacolo per la folla. Quanto a Blandina, dopo essere stata sospesa a un palo, divenne preda delle fiere che le erano lanciate contro: la vista di lei, appesa a una sorta di croce, in fervida preghiera, infondeva grande coraggio a coloro che lottavano ancora, i quali, nella lotta, anche per mezzo dei loro occhi materiali, vedevano attraverso la sorella colui che era stato crocifisso per loro, per persuadere coloro che credono in lui che chi soffre per la gloria di Cristo è per sempre in comunione col Dio vivente. Quel giorno ella non fu toccata da alcuna belva e, tirata giù dal palo, fu condotta nuovamente in prigione, destinata ad un altro combattimento, affinché, passata vittoriosa attraverso numerose vittorie, da un lato rendesse inevitabile la condanna dell’infido serpente, dall’altro esortasse i fratelli, ella, piccola, debole, insignificante. Rivestita di Cristo grande e invincibile atleta, aveva sconfitto a più riprese 1’avversario e aveva riportato nella lotta la corona dell’immortalità. Per quanto riguarda Attalo, fu anch’egli reclamato a gran voce dalla folla (egli era, infatti, assai noto), entrò nell’arena come un lottatore preparato dalla sua pura coscienza giacché si era realmente allenato nella dura disciplina cristiana ed era stato sempre in mezzo a noi testimone della verità. Gli fecero fare il giro dell’ anfiteatro, preceduto da una tavoletta su cui era scritto in lingua latina: “Costui è Attalo, il cristiano” 29. Il popolo fremeva contro di lui, ma il legato, quando apprese che egli era cittadino romano, ordinò che fosse ricondotto in carcere insieme a tutti gli altri. Su di essi scrisse a Cesare e ne attese la risposta [ma Cesare non ebbe alcuna pietà]. …
L’ultimo giorno dei giochi gladiatorii, Blandina fu condotta nuovamente nell’arena insieme a Pontico, un giovinetto di circa quindici anni. Essi vi erano stati condotti ogni giorno a vedere il supplizio degli altri ed erano stati costretti a giurare sui loro idoli e, poiché si erano dimostrati quanto mai fermi nel non farlo e li avevano disprezzati, la folla si infuriò talmente nei loro confronti che non ebbe alcuna pietà per l’età del ragazzo, né alcun rispetto per il sesso della donna. Li sottoposero a ogni tipo di crudeltà e fecero loro percorrere tutto il ciclo dei tormenti, tentando di costringere l’uno e l’altra a giurare senza che tuttavia ci riuscissero. Pontico, infatti, esortato dalla sorella, al punto che anche i pagani videro che era essa ad esortarlo e a sostenerlo, morì dopo aver coraggiosamente sopportato ogni supplizio. Ultima di tutti restò la beata Blandina; come una nobile madre che ha esortato i suoi figli e li ha mandati avanti a sé vittoriosi al cospetto del re, dopo aver sostenuto anch’essa tutte le prove dei figli, si affrettava ora verso di essi, ripiena di gioia e di allegria per la partenza, come inviata ad un banchetto nuziale e non gettata alle fiere. Dopo i flagelli, dopo le fiere, dopo la graticola, ella fu posta in una rete e gettata innanzi a un toro. Dopo essere stata a lungo trascinata dall’ animale, non aveva più alcuna percezione di quanto le accadeva a motivo della speranza e dell’attesa delle cose in cui aveva creduto e dell’incontro con Cristo: anche i pagani furono costretti ad ammettere che mai presso di loro una donna aveva sopportato tali e così grandi supplizi. Neppure ciò bastò tuttavia a saziare la loro rabbia e la loro efferatezza verso quei santi. Come eccitate da una bestia feroce, quelle popolazioni selvagge e barbare non si placavano con facilità e la loro brutalità ebbe modo di infierire sui corpi dei martiri in una maniera nuova e straordinaria. L’essere stati vinti, infatti, non li faceva vergognare, in quanto non avevano più la ragione umana, ma infiammava ancor di più la loro ira come quella di una belva e sia il legato che il popolo manifestavano nei nostri confronti lo stesso odio ingiusto, affinché si adempisse la Sacra Scrittura: L’empio continui pure ad essere empio e il giusto continui a praticare sempre più la giustizia. E, infatti, gettarono ai cani quelli che erano morti soffocati in prigione e attentamente, notte e giorno, facevano in modo che nessuno di essi potesse ricevere da noi la sepoltura. Allora esposero anche i resti abbandonati dalle fiere e risparmiati dal fuoco, parte lacerati e parte carbonizzati. Quanto alla testa e al busto degli altri, lasciati ugualmente privi di sepoltura, furono fatti vegliare accuratamente dai soldati per diversi giorni. E c’era chi fremeva e digrignava i denti davanti a quei resti, quasi cercando di infliggere loro un più grande supplizio; altri ridevano e li schernivano, mentre contemporaneamente esaltavano i loro idoli, ai quali attribuivano il castigo dei nostri; altri ancora, più moderati, e che in certo modo sembrava avessero pietà di loro, li insultavano invece maggiormente dicendo: “Dov’è il loro Dio e a cosa è servita loro la religione che hanno anteposto alla loro stessa vita?”.
Ma qui siamo ancora a qualche sporadica persecuzione. Il meglio di sé Eusebio lo fornisce a partire dalle persecuzioni di Decio. Riportando quanto raccontava nelle sue lettere Dionigi D’Alessandria, scrive Eusebio:
Quali e quanto grandi furono le tribolazioni subite da Origene durante la persecuzione e quale ne fu la fine, allorché il demone maligno gli si schierò contro con tutte le sue forze e lottò contro di lui con tutte le sue insidie e la sua potenza e lo scelse in modo particolare sopra tutti coloro contro cui allora combatteva; quali e quanto grandi furono le sofferenze, le catene e le sevizie, le torture sul corpo, col ferro e nelle profondità del carcere, che patì quest’uomo per la parola di Cristo; e come per numerosi giorni subì il supplizio dei ceppi ai piedi che furono stirati al quarto foro; con quale coraggio sopportò la minaccia del rogo e tutte le altre prove che gli furono inflitte dai suoi nemici e quale ne fu per lui l’esito, mentre il giudice cercava con ogni mezzo in suo potere, con zelo, di evitarne la morte; come, dopo tutto questo, egli lasciò delle parole piene anch’esse di utilità per tutti quelli che avevano bisogno di essere rincuorati; tutte queste cose contengono in maniera veritiera e precisa le numerose lettere di quest’uomo.
E’ utile qui ricordare che nonostante subisse queste atrocità e fosse figlio di un martire, Origene, come già detto, testimoniava che il numero complessivo dei martiri era poca cosa. Ma Eusebio continua riportando ancora altri racconti di Dionigi, come ciò che accadde ad alcuni cristiani di Alessandria:
Successivamente di comune accordo tutti facevano irruzione nelle case dei fedeli e, gettandosi ognuno su coloro che conosceva come suoi vicini, li spogliavano, li rapinavano e si appropriavano degli oggetti più preziosi, gettavano poi sul fuoco quelli più modesti e quelli che erano fatti di legno e li bruciavano per le strade, offrendo lo spettacolo di una città conquistata dai nemici. I fratelli se ne andavano, si nascondevano e accettavano con gioia la rapina dei loro beni, come avevano fatto coloro di cui testimonia Paolo. E non so se qualcuno, tranne forse uno che era caduto nelle loro mani, finora abbia rinnegato il Signore. Presero anche Apollonia, un’anziana vergine di esemplari qualità; dopo averle fatto saltare tutti i denti colpendola alle mascelle, eressero un rogo davanti alla città e minacciarono di bruciarla viva se non avesse pronunciato con loro le formule dell’empietà. Ma la donna, dopo essersi accusata brevemente, si gettò prontamente nel fuoco e morì bruciata. Presero anche Serapione, mentre si trovava a casa e, dopo avergli fatto subire terribili torture e spezzato tutte le articolazioni delle membra, lo gettarono a capofitto dall’ultimo piano.
Il racconto passa poi alle persecuzioni di Valeriano che, fu persuaso dal suo maestro, il potente mago d’Egitto Macriano, di sbarazzarsi dei cristiani che lo circondavano
ordinandogli di uccidere e perseguitare quegli uomini puri e santi in quanto avversari ed ostacoli delle loro blasfeme ed abominevoli stregonerie (essi, infatti, con la loro presenza e il loro sguardo ed anche con il solo alito e il suono della voce, sono ed erano capaci di mandare a monte le insidie dei demoni malvagi). Egli gli consigliò inoltre di compiere cerimonie impure, sortilegi infami e riti infausti, di sgozzare sventurati fanciulli, di sacrificare figli di padri miserabili, di squarciare le viscere dei neonati, di trafiggere e fare a pezzi le creature di Dio, come se essi potessero diventare più fortunati in seguito a queste cose.
E, naturalmente, Valeriano ubbidì al suo maestro facendo stragi di ogni cosa santa a partire dai bambini.
Il crescendo di persecuzioni si ha infine con i racconti di quelle avvenute sotto Diocleziano in cui le iperboli di numeri e di atrocità raggiunge il suo culmine. Scrive Eusebio:
Si potrebbe raccontare di migliaia [di martiri], i quali dimostrarono ammirevole zelo per la religione di Dio, non solo da quanto si scatenò la persecuzione contro tutti i cristiani, ma da molto prima, dal tempo in cui regnava la pace. Dapprima, come svegliatosi dal sonno, colui che assunse il potere, nel periodo subito dopo Decio e Va1eriano [Diocleziano], quasi di nascosto e in segreto, mise mano alla persecuzione contro le chiese. Non portò subito guerra contro di noi, ma indirizzò i suoi tentativi soltanto contro i militari (riteneva infatti che, se avesse prima vinto costoro, facilmente avrebbe poi avuto ragione degli altri) [ho discusso della questione dei militari come grave pericolo per l’Impero in nota 7, ndr]. Si poté allora vedere come moltissimi militari con grandissima gioia abbracciarono la vita civile, pur di non rinnegare la religione del Demiurgo dell’universo. Il comandante, chiunque allora ricoprisse questa carica, per primo poneva mano alla persecuzione contro i propri soldati, individuando ed epurando quanti stavano nell’esercito, offrendogli un’alternativa: o obbedire e mantenere il loro grado, oppure ne sarebbero stati privati, se si fossero opposti all’editto. Moltissimi soldati del regno di Cristo, non curandosi della gloria apparente e del benessere di cui godevano, preferirono senza esitazione la confessione di Cristo.
Subito dopo, dai militari si passò ai personaggi di corte, qualunque ruolo ricoprissero nei palazzi di Nicomedia:
Tra quanti allora sono stati celebrati, sia tra i greci che tra i barbari, come degni di ammirazione e famosi per coraggio, le circostanze resero martiri divini ed eccelsi i servi imperiali, …. Nella città di Nicomedia, uno dei servi imperiali fu portato in mezzo, innanzi agli imperatori sopra menzionati. Gli fu allora ordinato di sacrificare; ma poiché si rifiutava, ordinarono di sollevarlo nudo e di colpirlo in tutto il corpo con frustate, fin quando, anche contro la sua volontà, non avesse eseguito l’ordine. Egli però, pur stando in mezzo a queste sofferenze, era irremovibile; allora mescolarono aceto con sale e lo versarono sulle parti dilaniate del corpo, là dove si intravedevano le ossa. Siccome disprezzava anche queste sofferenze, fecero avanzare una graticola e del fuoco. A quel punto, alla maniera della carne che mangiamo, quanto rimaneva del suo corpo fu fatto consumare dal fuoco; non però tutto in una volta, ma a poco a poco, affinché non si disfacesse in poco tempo. A quelli che 1’avevano posto sul fuoco era stato vietato di toglierlo se prima non avesse acconsentito, dopo tali sofferenze, a quanto gli era stato ordinato. Egli però rese l’anima, restando saldo nel proposito e vincitore su questi tormenti. Questo fu il martirio di uno dei servi imperiali, veramente degno del nome che portava, si chiamava infatti Pietro.
[…]
In questo stesso periodo Antimo, capo della chiesa di Nicomedia, fu decapitato per la testimonianza di Cristo. A lui si accompagnò una moltitudine di martiri. In quei giorni, nel palazzo imperiale di Nicomedia, non so come, si era sviluppato un incendio e si andava dicendo che fosse opera dei nostri. Per ordine imperiale i devoti del luogo furono trucidati in massa, alcuni passati a fil di spada, altri bruciati su roghi. Si dice che uomini e donne, con divino e indicibile slancio, si siano precipitati sul rogo. I carnefici, dopo aver legato su barche un’ altra moltitudine li inabissarono nei flutti marini. Riguardo poi ai servi imperiali, che erano stati posti sotto terra con tutti gli onori, i loro cosiddetti padroni pensarono che bisognasse riesumarli e gettarli in mare, perché temevano che, se fossero rimasti nelle loro tombe, qualcuno li avrebbe potuti adorare, ritenendoli – come essi credevano – déi.
[…]
Lo spettacolo di quanto [in seguito] avvenne supera ogni descrizione: una massa immensa fu imprigionata in ogni dove e ovunque le carceri, un tempo allestite per assassini e violatori di tombe, furono tanto piene di vescovi, presbiteri, diaconi, lettori ed esorcisti che non rimase più posto per i condannati a motivo di delitti comuni. Subito dopo i primi editti ne vennero altri, coi quali si ordinava di rimettere in libertà i detenuti che avessero sacrificato e di sottoporre invece a infiniti tormenti chi si fosse rifiutato. Come è possibile, ancora una volta, contare la moltitudine di martiri di ciascuna provincia, e in particolare dell’Africa, della Mauritania, della Tebaide e dell’Egitto? Alcuni, partiti da questo luogo per altre città e province, si resero insigni per il martirio.
Le persecuzioni, come detto, si estendevano a tutto l’Impero. In particolare Eusebio riconosce che rifulsero per coraggio i martiri della sua terra, la Palestina, e gli egiziani che si trovavano a Tiro, anche perché erano miracolosamente evitati dalle fiere:
Tuttavia conosciamo quanti rifulsero tra quelli di Palestina e conosciamo pure quelli di Tiro, in Fenicia. Chi, dopo aver visto costoro, non si sarebbe stupito delle innumerevoli frustate e della resistenza, sotto i colpi, di quei veramente straordinari atleti della religione? E, dopo le frustate, della lotta con belve divoratrici d’uomini, dell’assalto di leopardi e di varie specie d’orsi, di cinghiali, di tori, aizzati con ferro e fuoco, come non meravigliarsi, dico, della stupenda resistenza di quei valorosi innanzi a ciascuna belva? […] Quelle belve per lungo tempo non osarono sfiorare o avvicinarsi ai corpi di quegli uomini cari a Dio. Si lanciarono invece contro quegli altri che dal di fuori le incitavano e le provocavano, mentre soltanto i santi atleti, che pure erano privi di ripari e facevano cenni con le mani per attirarle su di sé (così infatti era stato loro ordinato di fare), non erano per nulla toccati. Seppure qualche volta si slanciavano contro di loro, venivano però trattenute come da una forza divina, e di nuovo si ritiravano. Questo fatto durò a lungo e provocava non poco stupore sugli spettatori, di modo che, dopo il fallimento di una prima belva, si scioglieva contro un unico e medesimo martire una seconda e una terza bestia. Era motivo di sbalordimento l’intrepida fermezza di quei santi durante tali prove e la saldezza decisa e intrepida di quei giovani corpi. Avresti potuto vedere un giovane di neppure vent’anni, ritto, senza catene e con le mani stese a forma di croce, il quale, con mente impassibile e tranquilla, in tutta calma continuava le preghiere alla divinità; e neppure si spostava dal luogo dove stava, sebbene orsi e leopardi, spiranti furore e morte, quasi toccassero la sua carne; ma la loro bocca – non so per quale divina, indicibile potenza – era serrata, e subito si ritraevano. Questo fu uno di quei martiri. Avresti inoltre potuto vedere altri (erano in cinque) gettati a un toro infuriato, il quale dilaniava con le corna quanti dal di fuori gli si accostassero, e li lasciava semimorti. Quando però, furioso e minaccioso, caricava i santi martiri neppure riusciva ad avvicinarsi, ma andava cozzando qua e là con le zampe e con le corna. Anche aizzato con ferri roventi, pur spirando furore e minaccia, era ricacciato dalla divina provvidenza, cosicché non recava loro alcun danno. Furono allora sguinzagliate altre belve. Ma dopo terribili e molteplici assalti di queste ultime, alla fine tutti furono trucidati con la spada; e invece che alla terra e alle tombe, furono gettati nelle onde del mare.
Ma anche gli egiziani che vivevano nella propria terra non furono da meno come atleti di Dio:
Quella narrata è la lotta degli Egiziani di Tiro, che sostennero il combattimento per la religione. Devono tuttavia essere oggetto di ammirazione anche quelli che resero testimonianza nella loro terra. Qui un numero immenso d’uomini, donne e bambini, per l’insegnamento del nostro Signore Salvatore disprezzarono questa vita provvisoria e sopportarono diverse forme di morte. Alcuni di loro, dopo le unghie di ferro, gli stiramenti, gli aspri flagelli e infinite altre molteplici forme di tormenti, terribili a udirsi, furono infine dati alle fiamme. Altri fuurono affogati in mare; altri morirono tra le torture; altri perirono per fame e altri ancora furono crocifissi. Tra questi ultimi, alcuni nel modo solito usato per i malfattori, altri invece in modo peggiore: inchiodati a testa in giù, furono tenuti in vita fino a quando non morirono di fame sugli stessi pali.
Altre immani sofferenze dovettero subire i cristiani della zona di Tebe:
Superano però ogni descrizione gli oltraggi e le sofferenze patite dai martiri della Tebaide, straziati a morte per tutto il corpo con cocci al posto delle unghie di ferro. Alcune donne poi, legate per un piede e sollevate in alto con mangani, stando a testa in giù e coi corpi interamente nudi, nemmeno minimamente coperti, offrivano a quanti le vedevano una vista la più ignominiosa, crudele e disumana possibile. Altri morivano, dopo essere stati legati ad alberi: con congegni venivano uniti tra loro i rami più robusti e a ciascuno di questi si fissavano le gambe dei martiri; poi si lasciavano tornare i rami alla loro posizione naturale, squartando così con un sol colpo quelli contro cui avevano escogitato un tale supplizio. Questa persecuzione non durò pochi giorni né per un breve lasso di tempo, bensì per anni interi. A volte si mettevano a morte oltre dieci persone, altre più di venti e altre ancora non meno di trenta o anche di sessanta. Una volta, in un sol giorno, furono uccisi persino cento, tra uomini, bambini e donne, condannati a svariate e diverse pene. Noi stessi, quando fummo in quei luoghi, ne vedemmo un gran numero, dei quali alcuni in un sol giorno subirono la decapitazione, altri il rogo. Addirittura il ferro della scure si ottundeva e, smussatosi, si rompeva: e i carnefici, per la stanchezza, si davano il cambio tra loro. Vedemmo allora lo stupendo ardore, la forza divina e il coraggio dei credenti nel Cristo di Dio. Appena pronunciata la sentenza contro i primi, altri si facevano avanti, da tutti i lati, innanzi alla tribuna del giudice e confessavano di essere Cristiani, incuranti delle atrocità e delle diverse forme di tormenti, a cui andavano incontro. Impassibili, in piena libertà parlavano della devozione al Dio dell’universo e accoglievano ratto finale della sentenza di morte con gioia, sorrisi ed esultanza: cantavano inni ed elevavano ringraziamento al Dio di ogni cosa fino all’ultimo respiro.
Eusebio, riportando quanto scritto in una lettera di tal Filea, racconta alcuni fatti accaduti ad Alessandria:
Alcuni erano fissati a ceppi con le mani legate dietro la schiena, e con mangani erano stirati in tutte le membra. Mentre stavano in siffatta posizione, i torturatori li colpivano, secondo gli ordini, per tutto il corpo, non soltanto, come si faceva con gli assassini, sui fianchi, ma li percuotevano coi loro strumenti al ventre, alle gambe e sulle guance. Altri, appesi per una sola mano a un portico, erano sollevati in aria, sicché la tensione delle giunture e delle membra era più terribile di ogni altra sofferenza. Altri ancora, col viso rivolto a una colonna, erano legati in modo che non potessero poggiare i piedi; e in tal modo i nodi si tendevano al massimo, per il peso del corpo. E sopportavano tali supplizi non soltanto durante il tempo in cui il governatore li interrogava, ma quasi per l’intera giornata. […]
Dopo i supplizi alcuni venivano messi in ceppi, con ambedue i piedi stirati fino al quarto foro, sicché per necessità stavano supini sui ceppi medesimi, non essendo in grado di reggersi in piedi per le ferite prodotte dai colpi ricevuti su tutto il corpo. Altri, gettati sul pavimento, vi rimanevano immobili, a causa dell’ininterrotta applicazione delle torture; e in tale posizione offrivano a chi li guardava una vista più terribile delle sevizie, in quanto recavano sui loro corpi i segni delle diverse torture. In tali frangenti, alcuni morivano per i maltrattamenti, disonorando 1’avversario con la loro fermezza; altri, rinchiusi già quasi morti in prigione, vi morivano dopo non molti giorni, sfiniti dalle sofferenze; i restanti, rimessisi grazie alle cure, con il tempo e per il carcere sopportato, divenivano più intrepidi.
A questo punto Eusebio passa a trattare i martiri della Frigia e racconta qualcosa di orribile lì avvenuto …. ecco, una strage infinita in una città, una intera città, che il disonesto Eusebio si dimentica di dire qual è:
In quello stesso periodo dei soldati, dopo aver circondato una cittadina di cristiani in Frigia appiccatovi il fuoco, arsero vivi tutti gli abitanti, compresi i bambini e le donne, martiri del Dio dell’universo. Gli abitanti di quella città infatti, tutti indistintamente, anche lo stesso Curatore e i magistrati, insieme ai Curiali, oltre che l’intera popolazione, si erano confessati Cristiani e non avevano in alcun modo obbedito a quanti ingiungevano loro di adorare gli idoli.
Eusebio aggiunge che è impossibile citare tutti gli infiniti martiri e si rifà ad alcuni episodi avvenuti qua e là senza un ordine particolare:
Perché debbo ora ricordare per nome tutti gli altri o numerare la moltitudine di uomini o descrivere i diversi tormenti dei mirabili martiri? Alcuni furono soppressi con le scuri, come accadde a quelli d’Arabia; altri ebbero le gambe spezzate, come avvenne a quelli di Cappadocia; e anche furono appesi dai piedi a testa in giù e, acceso di sotto un fuoco lento, furono soffocati dal fumo che si sprigionava dal materiale bruciato, come capitò a quelli della Mesopotamia; altri ancora subirono la mutilazione del naso, delle orecchie e delle mani, ed ebbero le altre parti del corpo dilaniate, come accadde ad Alessandria. Perché bisogna riaccendere il ricordo dei martiri di Antiochia, bruciati su graticole, non per farli morire, ma per rendere più lungo il supplizio? Oppure il ricordo di altri, che hanno preferito piuttosto mettere la destra sul fuoco piuttosto che accostarsi al maledetto sacrificio? Alcuni di costoro, sfuggiti alla prova, prima di essere catturati e di cadere nelle mani dei perfidi, preferirono gettarsi da sé dall’alto delle case, ritenendo che la morte fosse un modo per sottrarsi alla malvagità degli empi.
Una signora [Domnina], donna nel corpo, ma santa e ammirevole per le virtù dell’anima [è interessante la dicotomia individuata in una donna: è santa nell’anima nonostante sia una donna, ndr], illustre tra tutti gli antiocheni per ricchezza, famiglia e rinomanza, aveva allevato nei precetti della religione le sue due figlie [Bernice e Prosdocia] vergini, le quali eccellevano per bellezza e si trovavano nel fiore degli anni. Poiché la grande invidia scatenatasi contro di loro si adoperava in ogni modo per rintracciarne il nascondiglio, quando venne a sapere che vivevano in un altro paese, ebbe cura di richiamarle ad Antiochia, e così esse caddero nelle reti dei soldati. La donna però, quando vide se stessa e le figlie senza scampo, le ragguagliò su quanto di terribile avrebbero subito dagli uomini, e la cosa più intollerabile di tutte, la minaccia di essere prostituite. Le esortò a non voler udire tale cosa neppure con la punta delle orecchie, dicendo che il consegnare le anime alla schiavitù dei demoni era peggio di qualunque morte o di qualsiasi perdita. Unica liberazione da tutto ciò sarebbe stato il rifugiarsi nel Signore. Le giovani furono del medesimo avviso. Allorché giunsero a metà strada, dopo avere avvolto con modestia i vestiti intorno al corpo, chiesero alle guardie il permesso di fermarsi un istante per appartarsi, e si gettarono nel fiume che scorreva lì accanto.
Esse quindi si diedero la morte. Inoltre altre due vergini, sempre ad Antiochia, in tutto divine e veramente sorelle, insigni per famiglia, illustri per ricchezze, giovani d’età, belle di corpo, nobili d’anima, pie nel comportamento, ammirevoli nello zelo, come se la terra non sopportasse di portare tali meraviglie, furono gettate in mare per ordine dei servi dei demoni. Questi gli eventi lì accaduti.
Nel Ponto altri sopportarono cose terribili a udirsi. Ebbero le dita della mani trapassate da spilloni acuminati; ad alcuni fu versato sulla schiena piombo fuso, bollente e infuocato, ed ebbero arrostite le parti più importanti del corpo. Altri soffrirono nei genitali e nelle viscere sofferenze turpi e spietate, inenarrabili, che, dimostrando la loro crudeltà, giudici zelanti e legalitari escogitarono a gara, come se fosse una prova di saggezza. E tentavano di superarsi, l’un l’altro, inventando sempre nuovi supplizi, come se ci fossero in palio dei premi.
Secondo Eusebio, a questo punto gli imperatori furono stanchi di uccidere. Scelsero verso i cristiani cose che ritenevano buone ed umane, terminando con il sangue che sporcava le città e che dava adito alla loro diffamazione. Insomma gli imperatori non condannarono più a morte i cristiani ma si dedicarono ad altro:
Allora l’ordine fu di strappare occhi e amputare gambe: queste erano per loro le pene più lievi e umane contro di noi. Perciò, grazie a questa forma di umanità degli empi, non è possibile enumerare la moltitudine di quanti ebbero l’occhio destro prima cavato con la spada e poi cauterizzato col fuoco; di quelli a cui fu paralizzato il piede sinistro con la cauterizzazione delle giunture, e del gran numero dei condannati alle miniere di rame della provincia, non tanto per farli lavorare, ma piuttosto per maltrattarli e tormentarli. […] Ad ogni modo sarebbe troppo lungo ed addirittura impossibile ricordare per nome ciascuno di loro.
La parte di Storia Ecclesiastica di Eusebio relativa ai martiri termina qui. Il resto del libro riguarda, da un lato, la storia minuta della Chiesa nei suoi primi anni e, soprattutto, la storia delle eresie contro le quali Eusebio si scatena come i supposti carnefici di Roma si scatenavano contro i cristiani. Nella produzione di Eusebio, restataci quasi intatta al contrario delle opere degli eretici e dei pagani andate distrutte dai cristiani, vi è comunque sempre un grande interesse, oltre alla vergognosa esaltazione del suo padrone Costantino, per i martiri. Leggo un solo passo della sua opera “I martiri della Palestina”, quello in cui parla di San Procopio perché è utile per capire come, a partire da tali racconti, che a me suonano come racconti del terrore, si siano costruite poi, ad opera di pii agiografi storie fantastiche, amplificate a dismisura, miti e favole utili per creare adesione al Cristianesimo.
Il primo fra i martiri di Palestina fu Procopio, uomo pieno della grazia celeste e che prima del martirio aveva così bene regolato la sua vita da avere, fin dall’infanzia, mantenuto la castità e da essersi dedicato all’esercizio di tutte le virtù. Il suo corpo era ridotto così male da dargli, per così dire, l’apparenza di un cadavere, ma l’anima sua attingeva nella parola di Dio un tal vigore che ne riconfortava il corpo stesso. Egli campava a pane ed acqua, non nutrendosi che ogni due o tre giorni, e prolungando talvolta il suo digiuno per una settimana intera. La meditazione della parola divina occupava la sua mente in tal guisa, che egli vi restava assorto giorno e notte senza stancarsi. Pieno di bontà e di dolcezza, stimandosi inferiore a tutti, edificava ogni persona con i suoi discorsi. La parola di Dio era il suo unico studio, e nelle scienze profane aveva solo una mediocre istruzione. Nato ad Elia, dimorava a Scitopoli, dove nello stesso tempo adempiva a tre funzioni ecclesiastiche, era cioè lettore e interprete in lingua siriaca, e scacciava i demoni con l’imposizione delle mani. Mandato a Cesarea insieme ad alcuni compagni di Scitopoli, appena ebbe oltrepassato le porte della città fu condotto in presenza del governatore, e prima ancora di esser posto in prigione ed in ceppi, fu sollecitato dal giudice Flaviano a sacrificare agli dei. Procopio, ad alta voce, proclamò che non esistono più dei, ma uno solo, il creatore e l’autore di tutte le cose. Questa parola fece una viva impressione sul giudice il quale, non sapendo che rispondere, tentò di persuaderlo a sacrificare almeno agli imperatori. Ma il santo martire di Dio disprezzò le sue istanze. Ascolta questo verso di Omero -gli disse-: Non è bene avere parecchi padroni: che non vi sia che un solo capo, un solo re. A tali parole, come se avesse pronunziato imprecazioni contro gl’imperatori, il giudice ordinò di condurlo al supplizio. Gli fu troncata la testa, ed egli entrò felicemente nella vita eterna, il sette del mese di Desio, giorno che i latini chiamano nonae di luglio, il primo anno della persecuzione da noi. Fu il primo martirio che ebbe luogo a Cesarea.
A partire da questo racconto, che potrebbe descrivere ciò che è accaduto poiché non vi sono esagerazioni agiografiche particolari, sono state costruite storie incredibili con il fine di educare alle virtù cristiane i giovani. Vediamo.
Quando Procopio arrivò a Cesarea era persona conosciuta perché era un cristiano colto che faceva il lettore e l’esorcista. Per ubbidire all’editto di Diocleziano, il giudice Flaviano lo fece arrestare alle porte della città e condurre direttamente in tribunale. Qui vi era già una folla rumoreggiante che chiedeva subito una punizione esemplare per chi dileggiava gli dei non sacrificando ad essi (nessuno comunque richiedeva il sacrificio agli dei ma al solo Imperatore). Alla domanda di Flaviano che gli chiedeva chi fosse, egli rispondeva con il suo nome e la qualifica di cristiano. Flaviano proseguì:
Siete voi il solo ad ignorare gli ordini divini degli Imperatori, secondo i quali coloro che non sacrificano agli dei debbono essere torturati e dannati a morte? Non posso meravigliarmi abbastanza di vedervi agire così stoltamente all’età avanzata acui siete giunto. Come pretendete d’insegnare agli altri se avete perduto l’intelletto? Con qual criterio potete sostenere che Dio è nato da una donna ed è stato crocifisso? Chi è che non riderebbe di una tale invenzione? Abbandonate questo insulso errore, sacrificate agli dei, e adorate rispettosamente l’immagine dell’imperatore, altrimenti morrete fra i tormenti. Che almeno i supplizi di chi vi ha preceduto vi rendano più savio!
Procopio rispose esaltando la sua fede e l’unicità del Dio come testimoniato anche dai massimi filosofi dell’antichità. Flaviano lo interruppe chiedendogli di ripensare ai suoi propositi perché altrimenti avrebbe dovuto subire le fiere ed altri tormenti. Procopio, tanto convinto della sua fede, si inalberò continuando ad esaltarla con maggiore impeto ed intercalando la sua invettiva con insulti a Flaviano. Quest’ultimo si convinse che con quella determinazione non vi era nulla da fare e diede quindi ordine di torturarlo. Procopio fu denudato e gli fu strappata la pelle dal corpo fino a che le costole non furono visibili. Poi sulle ferite fu sparso sale e furono ulteriormente tormentate strofinandovi gli aculei di un cilicio. I torturatori passarono al volto che sfregiarono con uncini di ferro tanto da renderlo irriconoscibile. Infine gli spezzarono le ossa. Su quel povero corpo non c’era ormai da fare nulla di più e Flaviano diede ordine al carnefice Archelao di decapitarlo. Quando stava alzando il braccio armato di spada, Archelao ebbe le mani paralizzate e quindi cadde a terra morto.
Flaviano imbestialì ordinando di incarcerare Procopio incatenato. Questi recitò lunghe preghiere, gli apparve Gesù sotto l’aspetto di un angelo ed in poco tempo guarì completamente delle sue tremende ferite. Passarono solo tre giorni e Flaviano sottomise Procopio a nuovo interrogatorio accusandolo di essersi servito di magia per uccidere il suo carnefice e per guarire completamente. Quindi, dopo averlo fatto legare, lo fece fustigare con nerbi di bue ordinando ai carnefici di mettere carboni ardenti sulla sua schiena già martoriata (ma non era guarita ?) e di conficcargli nel corpo dei ferri arroventati. Qui accade un qualcosa che si ripeterà in quasi ogni agiografia di altri innumerevoli martiri: Procopio, mentre è così brutalmente torturato parla tranquillamente con Flaviano, da un lato magnificandogli la propria fede e dall’altro insultandolo. Ciò fa prolungare la sua tortura senza che Procopio mostri di soffrire in qualche modo. Flaviano tenta un ultimo supplizio per costringere Procopio a sacrificare: gli pone dei carboni ardenti nella mano con sopra dei grani d’incenso; fa avvicinare un piccolo altare dicendogli che basta che lasci cadere quei carboni sull’altare perché si sia compiuto il sacrificio agli dei. Procopio resiste con il braccio teso senza aprire il palmo della mano predicando ancora verso Flaviano la sua fede. Quest’ultimo si convince dell’incrollabilità di quell’uomo, e decide di giustiziarlo. Procopio chiede solo un’ora di tempo per pregare e poi sottopone il collo al colpo di spada che lo decapita (questa volta il carnefice riesce perché vi è il consenso di Procopio). Il suo corpo sarà raccolto e sepolto da fedeli cristiani.
Non entro in altre agiografie perché sono davvero innumerevoli(9) ma tutte dello stesso tenore ed anche con stessi miracoli: Procopio, sia esso un asceta, sia un soldato o qualunque altra persona, o è già cristiano o si converte. Da cristiano i malvagi pagani lo arrestano, lo sottopongono a torture tremende alle quali Procopio resiste essendo addirittura indifferente ad esse. Mentre si accaniscono su di lui, egli parla della grandezza della fede in Cristo ai suoi torturatori. Infine, dopo la mano con i carboni ardenti, vi è la scena del carnefice che muore mentre tenta di decapitarlo. C’è solo da aggiungere che questo personaggio, Procopio, ha parti delle sue agiografie che condivide con altri martiri: la scena dei carboni con incenso nella mano è la stessa che si ritrova in San Barlaam(10); quella del carnefice che ha le mani paralizzate e poi stramazza al suolo è la stessa che incontriamo nell’agiografia di San Marino(11); l’agiografia di Sant’Efisio(12) di Cagliari quasi coincide con quella di Procopio; allo stesso modo, nel 1215, furono portate da Costantinopoli a Venezia le spoglie di un presunto martire di nome Giovanni e poiché non si sapeva nulla di lui, gli fu costruita addosso la stessa storia di Procopio.
Quanto visto relativamente a San Procopio indica con chiarezza quale uso fu fatto di qualche martire o preteso tale. Si deve qui notare che il disonesto Eusebio è qui il più attendibile di tutti gli altri: da una sua storia, probabilmente vera, sono scaturite leggende incredibili. E se occorre richiamarsi ad Eusebio per avere una qualche verità, l’insieme delle storie di santi e beati è veramente accidentata di falsi e falsari. E’ quindi inutile andare a ricercare fonti che, quando vi sono, risultano del tutto inattendibili. C’è da notare che la Chiesa considera alcune di queste agiografie come leggendarie ma alcune le considera attendibili insieme a fantastici miracoli che si accompagnano ad esse. La Chiesa, da brava amministratrice di una fede che la arricchisce, sa che queste storie, che abbondano in Atti di Martiri, in Martirologi, in Passioni e in varie opere di Padri o Esegeti della Chiesa, attirano i deboli e bisognosi di fantastico inserendoli in quello che la Chiesa stessa definisce gregge. Un esempio ? Quello di San Venanzio di Camerino martire (III secolo) tratto dal sito santiebeati.it:
Venanzio giovanetto di quindici anni apparteneva ad una nobile famiglia di Camerino, fattosi cristiano, lasciò tutte le comodità in cui era vissuto ed andò a vivere presso il prete Porfirio. Venne ricercato dalle autorità pagane della città e minacciato di tormenti e di morte se non fosse ritornato al culto degli dei, in esecuzione degli editti imperiali. Venanzio adolescente per età, ma dalla forte personalità per la fede ricevuta, si rifiuta e quindi viene sottoposto a flagellazioni, pene di fumo, fuoco, éculeo (cavalletto con il trave superiore a sezione triangolare sul quale si era sistemati a cavalcioni con grandi pesi legati alle caviglie), ne esce sempre incolume e per questo raccoglie conversioni fra i pagani curiosi e gli stessi persecutori. Resta imprigionato e viene ancora tormentato con i carboni accesi sul capo, gli vengono spezzati i denti e mandibola, gettato in un letamaio, Venanzio resiste ancora, allora viene dato in pasto a cinque leoni affamati, ma questi gli si accucciano inoffensivi ai suoi piedi. Ancora incarcerato, può accogliere ammalati di ogni genere che gli fanno visita ammirati ed imploranti, ed egli ridona a loro la salute del corpo e dell’anima, convertendoli al cristianesimo. Ormai esasperato, il prefetto della città lo fa gettare dalle mura, ma ancora una volta lo ritrovano salvo, mentre canta le lodi a Dio. Viene legato e trascinato attraverso le sterpaglie della campagna e anche in questa occasione opera un prodigio, facendo sgorgare una sorgente da uno scoglio per dissetare i soldati, operando così altre conversioni. Alla fine, il 18 maggio del 251, sotto l’imperatore Decio o nel 253 sotto l’imperatore Valeriano, viene decapitato insieme ad altri dieci cristiani; mettendo così fine a questa galleria di orrori, che è difficile credere a tanta crudeltà, messa in atto da un popolo che dominava il mondo di allora, sì con la forza ma suscitando anche cultura, arte, diritto, civiltà [e quella scure che mozza quelle teste deve aver mozzato anche la volontà di Dio, ndr].
Un altro esempio, ancora del III secolo, è quello di Santa Margherita (dasantiebeati.it):
Margherita (Marina nella “passio” greca attribuita ad un certo Timoteo che è la fonte principale per la biografia) nasce nel 275 ad Antiochia di Pisidia, all’epoca una delle città più fiorenti dell’Asia Minore; Paolo e Barnaba in uno dei loro viaggi vi si fermarono per predicare Gesù Messia e Figlio di Dio ottenendo molte conversioni. Il padre Edesimo o Edesio era sacerdote pagano, per questo ruolo la famiglia di Margherita spiccava per agiatezza e nella vita sociale e religiosa della città. Nessuna notizia si ha della madre. Margherita presumibilmente rimane orfana di madre dai primi giorni di vita, tanto che il padre la affida ad una balia che abita nella campagna vicina. La balia segretamente cristiana, educa Margherita a questa fede e quando ritenne che fosse matura la presentò per ricevere il battesimo. Tutto ciò avvenne, ovviamente, ad insaputa del padre. Siamo durante il periodo delle persecuzioni scatenate da Massimiano e Diocleziano, Margherita crescendo apprendeva la storia di eroismi dei fratelli di fede, irrobustiva il suo spirito ispirandosi al Vangelo, si sentiva decisa ad emulare il coraggio dimostrato dai cristiani davanti alla crudeltà delle persecuzioni e nelle sue preghiere chiedeva di essere degna di testimoniare la sua fedeltà a Cristo. Il padre ignaro di tutto ciò decide di riprendere la figlia ormai quindicenne presso la sua casa di Antiochia. Margherita fu subito a disagio sia per il distacco dalla nutrice, che per lo stile di vita che teneva presso la casa paterna colma di agi. Una sera chiese al padre cosa rappresentassero quelle statuette e le lampade che erano in casa, il padre spiegò che quelli erano gli idoli che adorava ed invitò Margherita a bruciare incenso per loro. Ella ascoltava quasi indifferente quello che il padre le diceva, il padre credette che Margherita mancava di una educazione religiosa adeguata al proprio rango sociale, la affidò così ad un maestro di sua conoscenza che dirigeva una scuola dove si insegnava un po’ di tutto. Margherita non gradiva gli insegnamenti pagani e dopo poco tempo rivelò al padre di essere cristiana. Per tale motivo, il padre non esitò a mandarla via di casa, quindi Margherita ritornò dalla sua balia che l’accolse come reduce vittorioso di un’aspra battaglia. In campagna Margherita si rese utile pascolando il gregge e per le altre necessità che si presentavano; essa dedicava molto tempo alla preghiera, in particolare pregava per il padre e per i fratelli nella fede che venivano sempre più spesso perseguitati. Un giorno mentre conduceva le pecore al pascolo, Margherita, venne notata da Oliario, nuovo governatore della provincia; appena la vide rimase colpito dalla sua bellezza e ordinò che gli fosse condotta dinnanzi. Dopo un lungo colloquio il governatore non riuscì nell’intento di convincere Margherita a diventare sua sposa, essa si dichiarò subito cristiana e fu irremovibile nel professare la sua fede. Il governatore, dopo un lungo interrogatorio, alle risposte di Margherita, controbatte con la flagellazione e l’incarcerazione. Secondo la tradizione, in carcere a Margherita appare il demonio sotto forma di un terribile drago, che la inghiotte, ma lei armata da una croce che teneva tra le mani, squarcia il ventre del mostro sconfiggendolo. Da questo fantastico episodio, nacque nella devozione popolare quella virtù riconosciuta a Margherita, di ottenere, per la sua intercessione, un parto facile alle donne che la invocano prima dell’inizio delle doglie (infatti è noto che un parto facile si ottiene squarciando il ventre con una croce, ndr). Dopo un breve periodo di carcere, Margherita è sottoposta ad un nuovo martellante interrogatorio davanti a tutta la cittadinanza, anche in quest’occasione, essa non esita a proclamare a tutti la sua fede e l’aver dedicato a Cristo la sua verginità. Ancora una volta viene invitata ad adorare ed offrire incenso agli dei pagani, ma lei si rifiuta e menziona il brano del vangelo di Matteo dicendo “quando sarete dinnanzi a magistrati e ai presidi, non vi preoccupate come o che cosa dovete rispondere, perché lo Spirito del Padre vostro, che sta nei cieli, parlerà per voi”. Mentre tutti osservavano quanto stava succedendo, una forte scossa di terremoto fece sussultare la terra e apparve una colomba con una corona che andò a deporre sul capo di Margherita.
Questo fatto prodigioso, le affermazioni di Margherita, il suo rifiuto delle pratiche pagane e le molte conversioni che avvennero, mandarono su tutte le furie il governatore che emise la sentenza di condanna per Margherita: “Venga decapitata fuori della città”. Margherita fu decapitata il 20 luglio 290 all’età di quindici anni.
Questi prodigi, che si contano a centinaia(13), prima con agiografie che prendevano le mosse da storie con qualche fondo di verità, poi con martiri totalmente inventati, producevano incassi favolosi per la Chiesa ed i doni alla tomba del presunto martire e poi al tempio acquisirono via via grande importanza tanto che i martiri accumularono fortune. Agli inizi la Chiesa distribuiva tali fortune tra i poveri ma a poco a poco decise che restassero di proprietà dei martiri, cioè a se stessa. Insieme a fiori, a cibi, ad animali, ad oro e pietre preziose, si aggiunsero, nei luoghi in cui si veneravano i martiri, le medesime offerte, fabbricate dagli stessi artigiani, che erano fatte agli dei pagani: lampade votive, unguenti, lumini, incenso, … Ed ancora ad imitazione dei riti pagani e degli antichi costumi funebri, si iniziarono a festeggiare alcune ricorrenze, anche con sfrenate gozzoviglie e banchetti fino a notte fonda in onore dei martiri. Con l’istituzionalizzazione delle feste, ad esse si affiancarono fiere e mercati con la partecipazione sempre più massiccia di affaristi d’ogni tipo, non esclusi ladri, prostitute e delinquenti in genere (come accade ancora oggi). Ci si accoppiava liberamente, si ammazzava, ci si ubriacava, ci si abbandonava ad oscene orge. Ad evitare possibili confusioni (?) il Sinodo di Elvira (l’attuale Granada), tenutosi tra il 300 ed il 313, proibì alle donne cristiane di pernottare nei cimiteri (luoghi delle sepolture dei santi martiri) e, per non perdere il vizio, vietò il matrimonio con ebrei. Quelle feste in onore dei martiri erano diventate qualcosa di estremamente malfamato se San Gerolamo (347-420) esortava le madri a non mandarvi le figlie o ad accompagnarle sorvegliandole strettamente e se il vescovo di Cirro, Maris, testimoniava della verginità di una fanciulla nonostante avesse partecipato a varie feste dei martiri (sic !). Ma già siamo nell’epoca in cui la casta Chiesa utilizzava le vergini a sue delizie particolari inventando l’agapete, con quella convivenza o amore spirituale che doveva essere santamente casto tra fanciulle che avevano deciso di dedicare la propria verginità a Dio ed uomini di Chiesa che avevano fatto voto di castità. Inutile dire che l’agapete originò le peggiori nefandezze, aberrazioni e degenerazioni per di più compiute in nome di Dio ed autorizzate dallo stesso San Paolo che così aveva sostenuto nella Prima lettera ai Corinzi (9, 4-5): Non abbiamo forse noi il diritto di mangiare e di bere? Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Pietro ? Lo stesso San Gerolamo denunciò (Lettera ad Eustochio) le vergogne dell’agapete (la pratica dell’agapete fu soppressa definitivamente nel 1139, sotto il pontificato di Innocenzo III, dal Concilio Lateranense II) e non solo:
Oh vergogna, oh infamia! Cosa orrida, ma vera!
Donde viene alla Chiesa questa peste delle agapete?
Donde queste mogli senza marito?
E donde in fine questa nuova specie di puttaneggio?
Chiediamoci a questo punto cosa c’è di cristiano dietro le storie dei martiri, dietro le vergini portate al macello, quando le stesse vergini erano costrette dalla potenza di un vescovo ad essere sacrificate in casa di tale servo di Dio. Tralasciando l’agapete, sono questi fenomeni straordinari che definicono il Cristianesimo ? Ho detto cristianesimo ma potrei parlare di qualunque altra religione. Cosa c’entrano i prodigi con Gesù ? E’ per sostenere che Gesù è un mago potente ? Deve convincere così ? E’ più potente un miracolo che il Discorso della montagna ? Insomma basta un mago che battezzi un leone ed un rinoceronte per ridurre Paolo ad un miserabile che sa battezzare solo leoni ? Sembrerebbe di sì poiché si è insistito su queste cose fino alla nausea come cercherò di esemplificare.
La vita e il martirio dei tre fratelli, Alfio, Filadelfo e Cirino è in un documento della seconda metà del secolo X, al 960 circa. I nostri Santi hanno subito il martirio nella persecuzione di Valeriano e precisamente nel 253. I tre fratelli sono nati a Vaste, in provincia di Lecce, il padre Vitale apparteneva a famiglia patrizia e la madre, Benedetta, affrontò direttamente e spontaneamente l’autorità imperiale per manifestare la propria fede e sottoporsi al martirio. Il prefetto Nigellione, giunto a Vaste per indagare sulla presenza di cristiani, compie i primi interrogatori e, viste la costanza e la fermezza dei tre fratelli, decide di inviarli a Roma insieme ad Onesimo, loro maestro, Erasmo, loro cugino, ed altri quattordici. Da Roma, dopo i primi supplizi, vengono mandati a Pozzuoli, dal prefetto Diomede, il quale sottopone alla pena di morte Erasmo, Onesimo e gli altri quattordici e invia i tre fratelli in Sicilia da Tertullo, a Taormina; qui vengono interrogati e tormentati e poi mandati a Lentini, sede ordinaria del prefetto, con l’ordine che il viaggio sia compiuto con una grossa trave sulle spalle. I tre giovani sono liberati dalla trave da una forte tempesta di vento; passano da Catania, dove vengono rinchiusi in una prigione, che ancora oggi è indicata con la scritta “Sanctorum Martyrum Alphii Philadelphi et Cyrini carcer”, in una cripta sotto la chiesa dei Minoritelli; in questo viaggio, secondo un’antica tradizione molto diffusa, confortata peraltro da un culto mai interrotto, sono passati per Trecastagni, perché la normale via lungo la costa era impraticabile a causa di una eruzione dell’Etna. Nel cammino da Catania a Lentini avvengono vari prodigi e conversioni: si convertono addirittura i venti soldati di scorta e il loro capo Mercurio, che Tertullo fa battere aspramente e uccidere. Entrando in Lentini i tre fratelli liberano un bambino ebreo indemoniato e ammalato, convertono alla fede molti ebrei che abitano in quella città e che successivamente sono condannati alla lapidazione. Presentati a Tertullo sono sottoposti prima a lusinghe e poi ad ogni genere di supplizi: pece bollente sul capo rasato, acutissimi chiodi ai calzari, strascinamento per le vie della città sotto continue battiture. Sono prodigiosamente guariti dall’apostolo Andrea e operano ancora miracoli e guarigioni fino a quando Tertullo non ordina che siano sottoposti al supplizio finale: Alfio con lo strappo della lingua, Filadelfo posto su una graticola rovente e Cirino immerso in una caldaia di pece bollente. I loro corpi, trascinati in un luogo detto Strobilio vicino alle case di Tecla e Giustina, e gettati in un pozzo, ricevono dalle pie donne sepoltura in una grotta, ove in seguito viene edificata una chiesa (da santiebeati.it).
Nell’ultimo anno dell’impero di Filippo l’Arabo (243-249), nonostante che in quel periodo di sei anni, ci fu praticamente una tregua nelle persecuzioni anticristiane, scoppiò nel 248 ad Alessandria d’Egitto una sommossa popolare contro i cristiani, aizzata da un indovino alessandrino. Molti seguaci di Cristo furono flagellati e lapidati, al massacro non sfuggirono nemmeno i più deboli; i pagani entrarono nelle loro case saccheggiando tutto il trasportabile e devastando le abitazioni. Durante questo furore sanguinario dei pagani, fu presa anche la vergine anziana Apollonia, definita da Eusebio “parthenos presbytès”, che però nell’iconografia sacra, come tutte le sante vergini, è raffigurata in giovane età e le colpirono le mascelle facendole uscire i denti, oppure come la tradizione ha riportato, le furono strappati i denti con una tenaglia [per questo è la protettrice dei denti e delle relative malattie]. Poi acceso un rogo fuori la città, la minacciarono di gettarcela viva, se non avesse pronunziato insieme a loro parole di empietà contro Dio. Apollonia chiese di essere lasciata libera un momento e una volta ottenuto ciò, si lanciò rapidamente nel fuoco venendo incenerita. L’episodio sarebbe avvenuto alla fine del 248 o inizio 249, quindi Apollonia che era in età avanzata, doveva essere nata negli ultimi anni del II secolo o al principio del III secolo; nella sua lettera il vescovo s. Dionigi afferma, che la sua era stata una vita degna di ogni ammirazione e forse per questa condotta esemplare e per l’apostolato che doveva svolgere, si scatenò la furia dei pagani, che infierirono su di lei con particolare crudeltà. Il gesto di Apollonia di gettarsi nel fuoco, pur di non commettere un peccato grave, suscitò fra i cristiani ed i pagani di allora, una grande ammirazione e nei secoli successivi fu oggetto di considerazione dottrinale. Eusebio e Dionigi non accennano a nessun rimprovero per il suo gesto considerato un suicidio, peraltro inspiegabile in quanto la vergine sarebbe stata condannata comunque al rogo, se non avesse abiurato la fede.
Forse volle sottrarsi ad ulteriori dolorosissime torture, che avrebbero potuto indebolire la sua volontà, preferendo gettarsi fra le fiamme.
Anche s. Agostino nella sua “De civitate Dei”, si pone delle domande sul problema se è lecito darsi volontariamente la morte per non rinnegare la fede; egli dice: “Non è meglio compiere un’azione vergognosa, da cui è possibile liberarci col pentimento, più che un misfatto che non lascia spazio ad un pentimento che salvi?” (da santiebeati.it).
Aureliano era un cristiano vissuto e morto a Roma, nella prima metà del III secolo e al tempo dell’imperatore Decio (200-251) che nel 249 ordinò la settima persecuzione contro i cristiani; Aureliano si fece scoprire per le sue aspre critiche contro la religione pagana e la corruzione dei costumi.
Condotto dal prefetto Hylas, subì le consuete torture e mentre soffriva per i supplizi, le statue degli dei, a cui si era rifiutato di sacrificare, furono rinvenute in altro posto con le teste fitte in terra, mentre lo stesso prefetto fu colpito dalla paralisi. Allora Hylas meravigliato dai prodigi, chiese ad Aureliano di risanarlo, ma una volta guarito prese a minacciarlo di pene orribili, se non avesse fatto ritornare gli idoli al loro posto nel tribunale.
Aureliano si rifiutò e quindi venne condotto dall’imperatore Decio, al quale senza paura, lo rimproverò d’idolatria. L’imperatore colpito dall’audacia del cristiano e informato dei prodigi che gli davano una fama di mago, propose ad Aureliano di guarire la figlia, posseduta dal demonio, promettendogli la sua conversione e molte ricchezze. Guarita la figlia, anche Decio come Hylas, lo minacciò di morte; a questo punto Aureliano avvicinatosi agli idoli li infranse in polvere. Decio gli fece mozzare la lingua, ma il martire in qualche modo continuava a rimproverarlo, allora l’imperatore lo fece decapitare insieme al figlio Massimo; i loro corpi furono seppelliti nel cimitero di Callisto al terzo miglio della via Appia (dasantiebeati.it).
Il martirio di Lucia di Siracusa incomincia con la sua visita assieme alla madre Eutichia, al sepolcro di Agata a Catania, per impetrare la guarigione dalla malattia da cui era affetta la madre: un inarrestabile flusso di sangue dal quale non era riuscita a guarire neppure con le dispendiose cure mediche, alle quali si era sottoposta. Lucia ed Eutichia partecipano alla celebrazione eucaristica durante la quale ascoltano proprio la lettura evangelica sulla guarigione di un’emorroissa. Lucia, quindi, incita la madre ad avvicinarsi al sepolcro di Agata e a toccarlo con assoluta fede e cieca fiducia nella guarigione miracolosa per intercessione della potente forza dispensatrice della vergine martire. Lucia, a questo punto, è presa da un profondo sonno che la conduce ad una visione onirica nel corso della quale le appare Agata che, mentre la informa dell’avvenuta guarigione della madre le predice pure il suo futuro martirio, che sarà la gloria di Siracusa così come quello di Agata era stato la gloria di Catania. Al ritorno dal pellegrinaggio, proprio sulla via che le riconduce a Siracusa, Lucia comunica alla madre la sua decisione vocazionale: consacrarsi a Cristo! A tale fine le chiede pure di potere disporre del proprio patrimonio per devolverlo in beneficenza. Eutichia, però, non vuole concederle i beni paterni ereditati alla morte del marito, avendo avuto cura non solo di conservarli orgogliosamente intatti e integri ma di accrescerli pure in modo considerevole. Le risponde, quindi, che li avrebbe ereditati alla sua morte e che solo allora avrebbe potuto disporne a suo piacimento. Tuttavia, proprio durante tale viaggio di ritorno, Lucia riesce, con le sue insistenze, a convincere la madre, la quale finalmente le da il consenso di devolvere il patrimonio paterno in beneficenza, cosa che la vergine avvia appena arrivata a Siracusa. Però, la notizia dell’alienazione dei beni paterni arriva subito a conoscenza del promesso sposo della vergine, che se ne accerta proprio con Eutichia alla quale chiede anche i motivi di tale imprevista quanto improvvisa vendita patrimoniale. La donna gli fa credere che la decisione era legata ad un investimento alquanto redditizio, essendo la vergine in procinto di acquistare un vasto possedimento destinato ad assumere un alto valore rispetto a quello attuale al momento dell’acquisto e tale da spingerlo a collaborare alla vendita patrimoniale di Lucia. In seguito il fidanzato di Lucia, forse esacerbato dai continui rinvii del matrimonio, decide di denunciare al governatore Pascasio la scelta cristiana della promessa sposa, la quale, condotta al suo cospetto è sottoposta al processo e al conseguente interrogatorio. Durante l’agone della santa e vittoriosa martire di Cristo Lucia, emerge la sua dichiarata e orgogliosa professione di fede nonché il disprezzo della morte, che hanno la caratteristica di essere arricchiti sia di riflessioni dottrinarie sia di particolari sempre più cruenti, man mano che si accrescono i supplizi inflitti al fine di esorcizzare la v. e m. dalla possessione dello Spirito santo. Dopo un interrogatorio assai fitto di scambi di battute che la vergine riesce a controbattere con la forza e la sicurezza di chi è ispirato da Cristo, il governatore Pascasio le infligge la pena del postribolo proprio al fine di operare in Lucia una sorta di esorcismo inverso allontanandone lo Spirito santo. Mossa dalla forza di Cristo, la vergine Lucia reagisce con risposte provocatorie, che incitano Pascasio ad attuare subito il suo tristo proponimento. La vergine, infatti, energicamente gli dice che, dal momento che la sua mente non cederà alla concupiscenza della carne, quale che sia la violenza che potrà subire il suo corpo contro la sua volontà, ella resterà comunque casta, pura e incontaminata nello spirito e nella mente. A questo punto si assiste ad un prodigioso evento: la vergine diventa inamovibile e salda sicché, nessun tentativo riesce a trasportarla al lupanare, nemmeno i maghi appositamente convocati dallo spietato Pascasio. Esasperato da tale straordinario evento, il cruento governatore ordina che sia bruciata, eppure neanche il fuoco riesce a scalfirla e Lucia perisce per spada! Sicché, piegate le ginocchia, la vergine attende il colpo di grazia e, dopo avere profetizzato la caduta di Diocleziano e Massimiano, è decapitata. Pare che Lucia abbia patito il martirio nel 304 sotto Diocleziano. Assai diffusa è a tutt’oggi la celebrazione del culto di Lucia quale santa patrona degli occhi (dasantiebeati.it).
Insomma, risulta evidente che nei racconti dei più diversi agiografi abbiamo a che fare con dei carnefici crudeli, violenti e con fantasie criminali davvero ragguardevoli: crocifissioni, impalamenti, chiodi conficcati dappertutto, uncini per strappare le carni, tenaglie per strappare i seni (una vera vocazione dei carnefici ed una fissazione degli agiografi l’insistere su richiami sessuali), spilloni sotto le unghie prima che vengano strappate, affogamenti in sacchi da soli o con cani o con serpenti, affogamenti con pesanti pietre legate al collo, fatti a pezzi, messi in fornaci ardenti, segati, impiccati, affamati ed assetati, privati di arti, mutilati di naso e lingua, fatti sbranare da fiere, fatti strappare da tori o da rami di albero, sospesi a cavalletti, … (forse da queste fantasie hanno tratto ispirazione i santi inquisitori di Santa Madre Chiesa che hanno martoriato ed ammazzato a piacere). Nel contempo abbiamo frotte di cristiani che ambiscono il martirio, lo desiderano, lo vogliono fermamente, per ottenere quella che loro chiamavano la palma o la corona del martirio che poi è una immediata salita nel regno dei cieli (come ancora usano gli islamici). Quando una fiera si scagliava loro addosso ringraziavano il signore per questo privilegio. Ed il martirio di tante anime candide, di corpi per lo più vergini, di donne solo belle (ma le sante brutte, esistono ?) è una occasione perché si dispieghi tutta la potenza di Dio in miracoli tanto eclatanti nei racconti cristiani quanto inesistenti nei lavori degli storici. Le belve feroci ed affamate che non toccano i corpi cristiani, le fiamme che non osano lambire alcuni martiri, le graticole che arrostiscono ma non uccidono, il sangue dei martiri che spegne il fuoco del rogo, le colombe che volano dalle ferite del martire, le ossa spezzate che si rimarginano in un giorno, mani di carnefici che si paralizzano, carnefici che muoiono poco prima di dare il colpo di spada che dovrebbe troncare il capo di un martire, santi martiri che discettano di Cristianesimo condannando il paganesimo nella loro condizione di arrosti sulla graticola o di corpi ardenti come tizzoni accesi, altri ancora che continuano imperterriti a pontificare dopo che gli hanno strappato la lingua. I martiri sono refrattari alla tortura, qualunque essa sia, perché non provano dolore. Anzi le torture più bestiali sui corpi dei martiri davano loro piacere, come testimoniavano i dottori della Chiesa Basilio ed Agostino, una sorta di antico insegnamento ai micidiali kamikaze musulmani. Crisostomo, altro dottore, diceva invece che i carboni ardenti su cui camminavano era solo un letto di rose mentre le fiamme di un rogo erano come un bagno refrigerante e tonificante. Questi santi martiri resistono alle più feroci torture ma poi cadono come fuscelli quando una spada gli sega il collo. Un Dio potente a metà ? Cioè: basta insistere per ammazzare quei poveretti ? Oppure: perché non si è sparsa la voce tra carnefici che ogni tortura era inutile e, per non perdere tempo, si doveva subito passare al fatidico taglio della testa ?
In quanto ho sommariamente raccontato emergono altri fatti che meritano attenzione. Vi è una deformazione mentale grave nell’adorazione delle donne vergini come ho già detto e su cui insisto. Se una donna non è vergine non è neppure presa in considerazione. A parte Apollonia, le sante martiri sono tutte giovani, belle e vergini. Una mamma non merita la santità (e questa è una vera bestemmia). A parte il misogino Paolo che reclamava ascetismo e verginità, non risultano mai tali richiami in Gesù che invece amava la compagnia, la vita, le donne ed anche la tavola. La verginità reclamata era probabilmente legata a quanto sostiene Tertulliano nell’Apologia del Cristianesimo:
Considerate quanto contribuiscano i vostri errori [dei pagani] a far commettere incesti, fornendone materia la promiscuità della lussuria. Anzitutto voi esponete i figli perché siano raccolti da qualche misericordioso estraneo di passaggio, o li emancipate perché siano adottati da migliori genitori. Essendo stati abbandonati dalla famiglia, ne deriva che essi un giorno ne perderanno anche il ricordo. E come l’errore avrà preso radici, di lì avrà origine il tralcio dell’incesto, e la famiglia si ramificherà in modo criminoso. Ed in ogni luogo, in patria, fuori, oltre i mari, vi accompagna la lascivia, i cui eccessi dappertutto possono facilmente, anche a vostra insaputa, procurarvi dei figli da qualche porzione del vostro seme; ed i membri di una stessa famiglia, così disseminati, per le relazioni che si stringono fra gli uomini, finiranno per incontrare i propri parenti e, ignari del sangue incestuoso, non li riconosceranno. Una vigilantissima e costantissima castità premunisce noi da tale eventualità, e siamo tanto garantiti dalle turpitudini e da ogni eccesso nella vita matrimoniale, quanto dal pericolo dell’incesto. Alcuni fra noi, ancora più sicuri, allontanarono ogni pericolo di quegli eccessi con una continenza verginale: vecchi puri come fanciulli [Tert. Apol. IX; 17-19].
Naturalmente Tertulliano non sa che, se si prende per buona la Genesi,che è un testo sacro del Cristianesimo, occorre ammettere che Dio puntava proprio sull’incesto tra i figli di Adamo ed Eva per popolare il mondo. Ma, tralasciando queste piccolezze (sono tali ?), vi è da considerare la catena logica messa in campo da tanto autorevole scrittore: si parte da un bambino adottato che successivamente per la lascivia a cui è educato andrà inevitabilmente ad accoppiarsi con una sua sorella o madre o consimili. Per evitare ciò è meglio essere casti legandosi solo al coniuge con il quale si dovranno evitare turpitudini (sic!). Io mi permetto di aggiungere una ulteriore precauzione che Tertulliano non considera: l’uomo deve essere certo che quel figlio è proprio il suo e l’unico modo perché ciò accada è che la donna sia vergine mentre egli può essere turpe con chiunque, anche con i bambini. In definitiva le vergini in quanto tali sono esseri eccezionali. Resta comunque la mia incomprensione della sicumera con cui alcune donne sono date per vergini e non parlo solo di giovanette ma di donne di tutte le età, compresa Apollonia della quale ho detto. Occorrerebbe inoltre essere certi che alcune donne lo siano perché non sempre la natura permette di appendere lenzuoli insanguinati.
Vi sono poi altri martiri che, avrete notato, sono più santi se figli di personaggi importanti. Insomma non ho trovato storie di martiri poveri, forse perché i poveri, nonostante le speranze, non hanno posto neppure nel Cristianesimo. Vi sono infine i feroci inquisitori che si accaniscono anche su giovanissimi martiri con gli Imperatori che assistono alle carneficine con piglio crudele. L’Imperatore è quasi sempre là presente a godersi le torture, le fiere, ogni crimine. Forse per questo è caduto l’Impero di Roma. Insomma vi è una sorta di clichè, un canovaccio che si ripete nella gran parte delle agiografie (semmai costruite in un crescendo di santità e di orrori) che fanno a meno di ogni fatto storico, anche perché la fede non richiese né storia né ragione.
LE PERSECUZIONI DEI CRISTIANI CONTRO ERETICI E PAGANI
Arriviamo al 313 quando Costantino e Licinio fecero il famoso Editto di Milano (anche se in realtà non era un Editto ma un Decreto che faceva seguito all’Editto di Galerio del 311), che concesse ai cristiani la libertà di culto. Il Cristianesimo divenne religio licita. Da questo momento i cristiani assunsero sempre maggior potere e, nel 325, con il Concilio di Nicea, costruirono le basi teoriche della loro religione iniziando la loro ortodossia. Siamo comunque ancora in una situazione in cui il Cristianesimo è equiparato alle altre religioni. Con Teodosio, come accennato, si ebbe un tragico cambio radicale: il Cristianesimo, mediante l’editto di Tessalonica del 380 (con i Decreti del 391 e 392 che li resero esecutivi), diventò religione di Stato, l’unica religione ammessa nell’Impero. Ma l’ortodossia che venne stabilita a Nicea si costruì negli anni che vanno dall’editto di Milano alla medesima Nicea e, data un’ortodossia, iniziarono le argomentazioni di coloro che non erano d’accordo con essa. Iniziarono ad emergere quelle che già erano state divergenze sopite dalle persecuzioni ed ogni divergenza rispetto ai canoni che si andavano delineando era bollata come eresia. Tutti, prima di Nicea, erano eretici perché essere eretici voleva dire semplicemente che si avevano opinioni differenti. Ma quando le basi del Cristianesimo iniziarono ad essere precisate, soprattutto da gerarchie collegate ai centri del potere imperiale, ancor prima del 325, gli eretici erano quelli che non aderivano all’ortodossia e, per ciò stesso, dovevano essere eliminati. Poiché vi era libertà di religione, l’Imperatore non intraprese che poche azioni marginali contro i pagani ma poté iniziare le persecuzioni contro gli eretici, cioè contro i cristiani non ortodossi. A questo punto c’è da porsi un interrogativo molto importante: tra i martiri è possibile che non vi sia neppure un cristiano eretico ? Gli eretici non possono essere santi cristiani ? E, a parte queste amenità che i teologi non discutono, che la lotta contro gli eretici fosse fortemente richiesta dagli ortodossi traspare anche con chiarezza da quella Storia ecclesiastica del disonesto Eusebio. Leggendo solo gli indici si trovano alternati quei racconti dell’orrore delle persecuzioni su infiniti martiri della Chiesa e quelle eresie che provocavano in Eusebio la stessa repulsione.
Il mago Menandro (Libro III, 26); L’eresia degli ebioniti (Libro III, 27); L’eresiarca Cerinto (Libro III, 28); L’eresia di Nicola (i Nicolaiti) (Libro III, 29); Chi furono a quel tempo i capi di una falsa conoscenza (Menandro, Saturnino di Antiochia, Basilide d’Alessandria, Carpocrate) (Libro IV, 7); Gli eresiarchi del loro tempo (Valentino, Cerdone capo dei Marcioniti, Marco mago) (Libro IV, 11); L’eresia di Taziano (Libro IV, 29); Rodone e i contrasti fra i marcioniti (Apelle, la vergine indemoniata Filomena, Potito, Basilico, Sinero, (Libro V, 13); I falsi profeti catafrigi (Montano, Priscilla, Massimilla) (Libro V, 14); Lo scisma avvenuto a Roma al tempo di Blasto (Florino) (Libro V, 15); Ciò che si ricorda di Montano e dei falsi profeti che erano intorno a lui (Libro V, 16); Coloro che hanno diffuso fin dall’inizio l’eresia di Artemone … (Libro V, 28); L’errore di Berillo (Libro VI, 33); Il contrasto con gli arabi (Libro VI, 37); L’eresia degli elcesaiti (Libro VI, 38); Novato: la sua condotta di vita e la sua eresia (Libro VI, 43); Cipriano affermò che dovessero essere purificati con il bagno battesimale coloro che si convertissero da un errore eretico (Libro VII, 3); L’eresia di Sabellio (Libro VII, 6); L’abominevole errore degli eretici … (Libro VII, 7); L’eterodossia di Novato (Libro VII, 8); Il battesimo empio degli eretici (Libro VII, 9); Nepote ed il suo scisma (Libro VII, 24); Paolo di Samosata e l’eresia da lui fondata ad Antiochia (Libro VII, 27); Deposizione e scomunica di Paolo (Libro VII, 29); La perversione eterodossa dei Manichei … (Libro VII, 31).
Arrivato qui, finalmente, Eusebio può esultare (Libro IX, 11), perché tutti i nemici della Chiesa sono stati distrutti definitivamente. Eusebio esulta per le uccisioni di queste persone e la cosa potrebbe anche andar bene se si fa riferimento al Vecchio Testamento ma non torna in alcun modo dopo i Vangeli che ti fanno cristiano. Ed Eusebio non era interessato a queste quisquilie, egli era un fervente ammiratore di Costantino, era lo storico di regime che esaltava le gesta del suo padrone e ciò gli bastava. Costantino non era indifferente alle richieste dei pii cristiani come Eusebio ed iniziò subito, su indicazione dei medesimi, a perseguitare gli eretici, tutti coloro che dissentivano dalla Chiesa ortodossa. Costantino non lo faceva per fini legati alla purezza della fede, della quale gli interessava molto poco. A lui serviva una Chiesa, estesa in tutte le regioni dell’Impero, forte e soprattutto unita, che lavorasse come sostegno all’Impero a partire dal suo intervento presso i soldati che, convertitisi in epoche precedenti, avevano creduto alla pace universale ed al non uccidere. Ciò era molto importante perché da molti anni i cristiani propagandavano il rifiuto del combattimento e Celso si era soffermato cento anni prima a denunciare ciò come una grave minaccia per la sicurezza dello Stato, proprio quando iniziava la pressione dei barbari ai confini dell’Impero. Costantino era persona di larghissime vedute ed estremamente perspicace. Era stato per molti anni in mezzo all’esercito, quell’esercito formato da persone provenienti dagli strati più bassi e della popolazione e dai barbari che avevano deciso di difendere l’Impero. Egli aveva visto che il Cristianesimo era un potente aggregatore che aveva, tra le truppe, molti adepti. Che il Cristianesimo era una società nella società, organizzata, fondata su epistole, libri e testi sacri a partire dai quali ne furono prodotti molti altri, compatta e diffusa in modo capillare in tutto l’Impero. Capì che era conveniente allearsi con i cristiani nell’opera di rifondazione dell’Impero pur lasciando le altre religioni libere di esistere e di praticare i loro riti. L’eresia era una minaccia, oltreché per la Chiesa, per i piani di Costantino. Si iniziarono ad escludere tutti gli eretici dalle cariche pubbliche e da quelle facilitazioni che erano state concesse al clero ufficiale. Furono colpiti gli aderenti agli insegnamenti di Paolo di Samosata, i montanisti della Frigia, i novaziani, i marcioniti, i valentiniani, i manichei ed in generale ogni movimento gnostico (non è qui il caso di raccontare le innumerevoli eresie). Cosa fare di tali eretici ? Vi erano gli editti del persecutore di cristiani, Diocleziano, da adattare alla conversione degli eretici alla vera religione, quella ortodossa. Quegli editti, soprattutto nella loro parte di legislazione penale, vennero applicati agli eretici (con l’esclusione dei novaziani per una indagine scrupolosa sui loro principi di fede che Costantino fece fare da autorità civili di sua fiducia) con gli applausi dei cristiani che conoscevano la loro durezza per averla sperimentata. Ma mentre si combattevano queste eresie, iniziarono a crearsene altre ben più estese e minacciose. In particolare quando ad Alessandria iniziò la furibonda disputa tra i sostenitori di Atanasio e quelli di Ario, quando Donato sostenne che solo coloro che non erano stati collaborazionisti con Roma potevano aspirare a cariche religiose, con molti che addirittura pretendevano la cacciata dalle comunità cristiane costituite di coloro che avevano avuto comportamenti codardi ed indegni durante le persecuzioni, beh quando questi problemi si posero si dovette ricorrere al citato Concilio di Nicea che doveva stabilire definitivamente quali erano i principi base, i dogmi della Chiesa. Ma le cose non furono così semplici perché le controversie ariane e donatiste lacerarono l’Impero soprattutto in Africa ed Asia (l’occidente cristiano, quello di Roma, era poca cosa e soprattutto era popolato da ignorantissimi, anche tra gli inventati papi, che neppure sapevano quali erano gli argomenti del contendere). Iniziarono così durissime persecuzioni che tendevano a sterminare letteralmente ogni controversia, ogni eresia (che, almeno agli inizi, non toccarono gli ariani perché, a partire dal 328, Costantino li riammise nei palazzi di Costantinopoli per sua propria simpatia ma anche perché sua sorella preferita, Costanza, era ariana).
Con Teodosio si ebbe la drastica svolta e nessuna concessione fu più ammessa. Anche le persecuzioni si estesero dagli eretici ai pagani: nel 381 vennero vietati tutti i riti di altre religioni e si stabilì che i cristiani apostati non avessero diritto ad un testamento; nel 382 furono permessi gli oggetti pagani solo nel caso avessero valore artistico; nel 383 il giorno dedicato al Sole (dies solis) divenne il giorno dedicato al Signore (dies dominicus); nel 385 fu ribadito il divieto di cerimonie pagane. In complesso dal 326 (Costantino I) al 435 (Teodosio II) furono promulgate 66 leggi contro gli eretici (delle quali 16 fatte da Teodosio I) che venivano esplicitamente indicati. Tutte le leggi avevano un carattere duramente repressivo con pene che andavano dai divieti di riunione, a pene pecuniarie, all’impossibilità di trasmettere o ricevere beni per via testamentaria, alla perdita di ogni diritto civile, alla pena di morte. E bande di cristiani, guidati da vescovi (ricordo Macedonio con i vescovi di Nicomedia e Cizico e più tardi il criminale Cirillo, per questo santificato) divennero sempre più operanti nello sterminare fisicamente l’eresia. Come minimo esempio leggiamo cosa scrive Socrate Scolastico nella sua Storia ecclesiastica: ”Molti [eretici] furono messi in prigione, perseguitati e mandati in esilio. Si massacrarono a schiere coloro che erano chiamati eretici, particolarmente a Cizico e a Samosata. Nella Paflagonia, nella Bitinia, nella Galazia e in molte altre province, città e villaggi furono devastati ed interamente distrutti” [Hist. Eccl. Libro II; Capp. 27, 38. Questi episodi sono riportati anche nella Storia ecclesiastica di Sozomeno nel Libro IV, Cap. 21](14).
Teodosio intervenne anche con estrema durezza e ferocia contro le religioni pagane, in questo aiutato dall’istigazione continua di vescovi e monaci. Il suo intervento fu efficace poiché, a partire dai suoi provvedimenti, nell’arco di 60 anni, le antiche religioni pagane praticate da secoli, furono estirpate con la violenza (anche di bande di cristiani fanatici ed ignoranti, con futuri santi alla testa). Tutti i templi furono incendiati e distrutti con tutte le statue e le opere d’arte che contenevano, gli strumenti dell’idolatria sequestrati e distrutti, aboliti i privilegi dei sacerdoti, confiscati tutti i beni dei differenti culti a beneficio della Chiesa, dell’Imperatore, dell’esercito, unico esempio al mondo di un violento genocidio religioso con tutta l’infinita cultura che vi era dietro, come quella della superba biblioteca annessa al Tempio di Serapide in Alessandria, il cui vescovo era il criminale Teofilo (non santo perché ariano), saccheggiata e distrutta nel 391. Ai cristiani che si convertivano al paganesimo fu negato il diritto di testimoniare e di ereditare. Agli apostati fu tolta la cittadinanza ed i diritti politici. Anche il culto in case private fu vietato, come furono vietati sacrifici, incenso ed ogni cosa che potesse far pensare ad una cerimonia pagana. Mai nessuna persecuzione pagana raggiunse queste vette, mai si raggiunse una tale violenza, ferocia e crudeltà, perché, con Gibbon, uno zelo così ostinato non era congeniale allo spirito scettico ed indifferente del politeismo(15). Questa grande cultura fu sostituita dal Cristianesimo, che non solo non era culturalmente adeguato, anzi !, ma che lavorava da moltissimi anni all’abbattimento, alla distruzione fisica, all’incendio di tutto ciò che si era accumulato da secoli nei vari rami del sapere.
Va ricordato che le peggiori atrocità furono rivolte agli eretici e che tra le atrocità contro i pagani vi furono gli interessi particolari di vari imperatori, a partire da Costantino, di depredare tutti i beni (moltissimi) dei vari templi pagani. Tutte queste meraviglie in statue, marmi, ori ed argenti furono utilizzate per decorare i palazzi, le strade e le piazze di Costantinopoli, la nuova Roma. Naturalmente, a lato del saccheggio, si operava ogni crudeltà contro i sacerdoti e contro la popolazione che accorreva a difendere il proprio tempio. Il successore di Costantino, Costanzo, iniziò nel 341 la persecuzione di tutti gli indovini e gli ellenici imprigionandoli e giustiziandoli. Bande di cristiani iniziarono (357) ad Oriente la distruzione di tutti i templi pagani con le statue che contenevano e che si erano salvate dai precedenti saccheggi. Erano i vescovi ed i teologi che istigavano e guidavano questi fanatici con l’affermazione che dentro quelle statue vi erano diavoli. Nel 359, a Skytopolis in Palestina, viene organizzato uno dei tanti campi di concentramento per la tortura e l’esecuzione dei pagani arrestati in qualsiasi parte dell’Impero. Nel 364 l’Imperatore Flavio ordina la distruzione della biblioteca di Antiochia e la pena di morte per chiunque ancora veneri con qualunque cerimonia gli dèi pagani e pratichi la divinazione anche mediante l’astrologia. E le persecuzioni proseguono in modo meticoloso in ogni regione dell’Impero, ininterrotte per decine di anni con ogni sevizia per chi anche solo abbia libri classici nella propria casa. Ogni biblioteca viene data alle fiamme. Tutti questi orrori, se possibile, si incrementeranno con Teodosio, dal 385. Scrive lo storico pagano Ammiano Marcellino riferendosi alle stragi continue in tutti i campi di concentramento, con particolare virulenza a Skytopolis: “E dalle più remote località dell’Impero trascinavano incatenati innumerevoli cittadini di ogni età, e classe sociale. E molti di loro morivano nel percorso o nelle prigioni locali. E coloro che riuscivano a sopravvivere, finivano a Skithopolis, una remota città della Palestina, dove avevano piazzato gli strumenti delle torture e delle esecuzioni“. Nel 391, come scrive Eunapio, storico dell’ultimo periodo neoplatonico, inorridito per ciò che accadeva ad Alessandria: “senza una ragione plausibile, senza il minimo rumore di guerra, il tempio di Serapide venne distrutto. Le statue e le offerte votive furono rubate. Solo il pavimento del tempio non venne asportato, dato che le pietre erano troppo pesanti. E dopo quella distruzione si vantavano di aver distrutto gli dei. In seguito, introdussero in quei luoghi sacri i cosiddetti monaci, uomini nella forma ma porci nel vestire e nel mangiare“. In questa occasione scheletri umani di criminali e di schiavi, spacciati per cristiani uccisi dai pagani, vengono posti nelle chiese e venerati come martiri. L’elenco delle persecuzioni è infinito e, dato il clima, non vi furono che pochi coraggiosi a scrivere una qualche cronaca con la speranza che quello scritto potesse un giorno vedere la luce (pochissimi). Nonostante tutto il paganesimo e l’eresia resistevano e non tra gerarchi ma tra devoti fedeli (non si dimentichino poi tutte le persecuzioni contro gli ebrei sempre andate avanti in simultanea con tutte le altre). Senza soluzione di continuità gli ultimi importanti fuochi furono tolti definitivamente di mezzo da Carlo Magno tra l’850 e l’860 con la decapitazione di 4500 sassoni di religione ariana. Ma ormai la Chiesa poteva innestare la sua vocazione al crimine, allo correre del sangue, alle Crociate ed all’Inquisizione che funzionò allegramente fino alla Rivoluzione Francese. Una storia esemplare quella della Chiesa. Eleva gli animi e lo spirito, risultando grandemente educativa. Basta saperla leggere ed abbandonarsi ai lupi travestiti da agnelli.
LA NASCITA DEI SANTI
Le religioni pagane, allora come oggi il Cristianesimo, erano sostenute dalla consuetudine più che dal raziocinio e la consuetudine era sostenuta dalle festività e cerimonie pubbliche che, una volta annullate, fiaccavano rapidamente la religione medesima. Il popolo era (ed è) più che mai ignorante (il gregge) ed è nella disposizione di lasciare condurre i suoi istinti verso le nuove divinità che vengono proposte se gli vengono tolte le vecchie. Questo popolo ha fame di fede, spiritualità e superstizione e non resiste senza il tempio, le statue, le immagini e le cerimonie materiali che gli sono sottratte. A Roma bastò poco più di una generazione perché ci si assuefacesse alla nuova fede. Fu così che nell’Impero si insinuò per poi radicarsi il Cristianesimo, attraverso il culto dei santi martiri con difficoltà di tipo diverso nelle diverse regioni dell’Impero. Infatti, mentre Roma poteva vantare tutto un Colle Vaticano ed una Via Ostiense pieni di sepolcri di martiri (anche se in massima parte fasulli), come millantava ancora il disonesto Eusebio di Cesarea citando una notizia proveniente dal presbitero Gaio, in Oriente c’era poco da venerare perché non si era stati previdenti e non si era fatta la collezione di martiri, tanto che Costantino fece erigere sul Bosforo una Basilica degli Apostoli in cui tentò di radunare il maggior numero di resti santi (ad Andrea, Luca e Timoteo si aggiunsero i presunti resti del profeta Samuele) e reliquie che gli fu possibile. Da allora ogni chiesa capì che doveva dotarsi delle spoglie di un qualche santo, fosse pure di un suo osso, per far accorrere fedeli a frotte, fedeli ai quali non erano negati prodigiosi miracoli, con annesse resurrezioni, che si moltiplicavano e/o si invocavano con processioni e riti vari. Con il culto dei martiri, che avrebbero dovuto essere degli intermediari con Dio, terminava la predicazione di Gesù, la spiritualità del messaggio apostolico ed il monoteismo reclamato dal Cristianesimo (che era stato capace di abolire gli dei maggiori ma solo di sostituire le divinità inferiori sotto altro nome). Ben presto però l’intermediazione fu (ed è) solo una pia ed ipocrita illusione perché chi si recava e reca nei santuari chiede di essere esaudito direttamente dal santo. Ma come riconoscere il santo che serve ad un dato pagano che fino a poco tempo prima aveva una divinità di riferimento che aveva in sé determinate facoltà di protezione ? Questo pagano, convertito per forza, era, agli inizi, in difficoltà nel Cristianesimo, non trovava più il dio specialista della determinata funzione della sua antica divinità al quale rivolgersi. Ed i vescovi provvidero subito in questa opera di orientamento a partire dal III secolo, organizzando un vero e completo saccheggio delle divinità pagane che portò alla sostituzione di tali divinità protettrici con santi cristiani che avevano stesse caratteristiche e funzioni con medesimi miracoli. La cosa è certificata dallo stesso Agostino che nel De Civitate Dei (22, 10) scriveva: Così i miracoli degli dei sono stati sconfitti dai miracoli dei martiri [per approfondire si può vedere webografia: Persecuzioni religiose contro eretici e pagani]. Ma, non basta perché, a lato di ciò, vi fu l’introduzione di un rosario infinito di altri santi per ogni uso ed esigenza.
Con questo armamentario di santi specialisti di ogni disturbo, a protezione di ogni mestiere, occupazione, …, i pagani non ebbero più remore alla conversione: il servizio del Cristianesimo era molto più specialistico di quello offerto dal paganesimo.
Come prevedibile, i martiri erano il riferimento. Ma i martiri erano anche qui solo nomi. Serviva quel qualcosa di materiale che muove il gregge (ieri come oggi). Serve a qualcosa ricordare il Vangelo di Matteo ?
5 Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 6 Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
7 Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. 8 Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate [Matteo, 6, 5-8].
Questi erano e sono gli insegnamenti più duri per degli idolatri di allora ed oggi. In completa sintonia con quanto accadeva nel paganesimo, furono i resti dei martiri, le reliquie, che fornirono quel qual cosa di materiale che occorreva. Dai martiri si passò alle reliquie che divennero miracolose con un circuito perverso secondo il quale i miracoli le accreditavano richiamando sempre più creduloni del popolo infinito di cui dispone la Chiesa. Reliquie, miracoli, guarigioni, visioni, … fu la salsa in cui intingevano i loro privilegi gli addetti al clero. Da questi miracoli fatti dai santi martiri (o dalle reliquie dei santi martiri) si iniziò ad argomentare che costoro erano in grado di ascoltare le richieste dei miserabili sofferenti in vita. Ed allora non dovevano essere stati cancellati al momento della loro morte ma esistere in qualche luogo in attesa della Resurrezione. Da qui tutte le teorie sul Paradiso, Inferno ed accessori vari. Le nuove divinità non potevano essere da meno delle antiche e così le chiese del culto erano diventate del tutto simili ai templi pagani: sfarzo, luminarie, riti degradanti, persone che si trascinavano in ginocchio per chiedere grazie non già ad un Dio spirituale ma a una qualche salma di santo o a una qualche sua reliquia. I riti di soli pochi anni prima si erano via via trasferiti al Cristianesimo codificando una santa continuità che rese estremamente più facile al popolo seguire la nuova religione che imperversava in tutti i territori dell’Impero con persecuzioni violente che superarono di gran lunga quelle che essa aveva subito.
Ma il cammino che doveva portare alla sostituzione di determinati dèi con determinati santi che avessero stesse caratteristiche ed abilità d’intervento, a cominciare da santi guaritori da sostituire agli dèi che avevano analoghe proprietà taumaturgiche, non era tanto semplice. Per riuscire in questa impresa, che tra l’altro avrebbe significato conquistare il consenso non più con la violenza, sarebbe bastato sostituire la leggenda di una antica divinità o personaggio mitologico con quella di un santo martire il cui nome ed avventura avessero una qualche somiglianza. Vediamo subito un esempio. Nella mitologia greca Ippolito era un bellissimo giovane, favorito della dea Artemide nelle sue qualità di stallone inesauribile. Si innamorò perdutamente di lui la principessa cretese Fedra, moglie di Teseo (figlio del dio Poseidone), ma Ippolito la respinse. In tal modo il grande amore divenne infinito odio e Fedra, dopo essersi stracciata le vesti, disse al marito Teseo che Ippolito aveva tentato di sedurla. Teseo si rivolse a Poseidone per vendicare Fedra con la morte e Poseidone provvide subito. Mentre Ippolito correva con il suo cocchio lungo una strada che costeggiava il mare, un violento terremoto seguito da un maremoto sbalzò Ippolito dal cocchio e da un’onda enorme che si alzò dal mare venne fuori un toro che terrorizzò i cavalli i quali, impazziti, calpestarono mortalmente il giovane. Tra i martiri cristiani vi era un tal Ippolito così descritto da un antico libretto fatto stampare dal Santuario di Sant’Ippolito Martire (vicino Cosenza):
Essendo stato preso l’invincibile Martire di Cristo S. Lorenzo, fu dato in guardia a un gentiluomo Romano, chiamato Ippolito. Questi nel vedere i miracoli che S. Lorenzo operava, mentre stava legato in prigione, e che col segno della croce rendeva la vista ai ciechi, e faceva cose meravigliose, si convertì alla Fede di Gesù Cristo, e fu battezzato con tutta la sua famiglia, composta di ben 19 persone, dal medesimo S. Lorenzo. Ricevuto il Battesimo, Ippolito diventò così fervente, così desideroso di morire per Cristo, che vedendo patire S. Lorenzo, per accompagnarlo, e morire con lui, volle, ad alta voce gridare che egli era Cristiano. Fu necessario che S. Lorenzo gl’imponesse di tacere, ordinandogli di aspettare il tempo opportuno, che presto però sarebbe venuto. Corse S. Lorenzo gloriosamente la sua carriera, e morì arrostito in una graticola, con quella invitta costanza e con quel meraviglioso spirito, che vengono descritti negli atti del suo Martirio. Ed Ippolito prendendo pietosamente il suo corpo lo seppellì, in compagnia di Giustino Prete. Divulgatasi la notizia, e venuta a conoscenza dello Imperatore, dopo tre giorni, mentre Ippolito era in casa, fu sorpreso e condotto alla presenza del tiranno, il quale gli disse: “anche tu sei negromante e mago come Lorenzo? È vero che hai seppellito il suo corpo?” E Ippolito rispose: “È vero, sì, ch’io l’ho seppellito; ma come Cristiano non come mago”. Il tiranno si turbò fortemente, gli fece dare con una pietra molte percosse nella bocca, ordinando che venisse spogliato della veste bianca, che portava come Cristiano da poco battezzato. E Ippolito rivolto al tiranno disse: “Tu non mi hai spogliato, ma vestito”. Valeriano volle che venisse disteso per terra e con verghe e grossi percosso, e il Santo ringraziava Iddio che lo facea degno di quel tormento. Il tiranno stranamente indignato, nel vedere che Ippolito gioiva framezzo a quelle forti percosse, ordinò che il suo corpo venisse trafitto con cardi e con spine. E mentre ciò si faceva, Ippolito esclamava: “Son Cristiano, patisco per Cristo”! Già stanchi gli stessi soldati di squarciare le sue carni, comandò il tiranno, che fosse rivestito del suo abito antico di militare e cominciò amorevolmente a parlargli, esortandolo a non voler essere così pertinace, a rimaner suo amico, a goder gli alti onori della milizia, e le altre grazie che gli faceva. Rise Ippolito e, alta la sua nobile fronte e con voce chiara, gli disse: “Il mio onore e la mia gloria militare é essere soldato costante di Cristo, e morire sotto la sua bandiera”. Indignato il tiranno ordinò che gli fossero confiscati i beni e che tutta la famiglia d’Ippolito fosse presa e menata alla sua presenza, avendo inteso ch’era tutta quanta cristiana. Tra le altre persone v’era una santa donna, chiamata Concordia, la quale era stata bàlia del medesimo Ippolito, e quando il tiranno le disse che guardasse ai suoi anni e non volesse morire col suo padrone, ella rispose: “Io, e tutti questi che qui siamo presenti,piuttosto vogliamo con Ippolito valorosamente morire,che senza dì lui vivere,come codardi”. Sdegnato il tiranno disse: “Gli schiavi ed i servi non si emendano se non a forza di battiture”; e fece frustare Concordia e batterla con verghe di ferro sì fortemente che in quel tormento, alla presenza di Ippolito, rese il suo spirito a Dio. Il Santo rimase lieto e consolato, di aver mandato dinanzi a sè, alla corona di gloria, quella che col suo latte lo avea nutrito. Finalmente Valeriano comandò che Ippolito e tutta la sua famiglia fossero condotti fuori le mura di Roma, ed ivi, alla presenza d’Ippolito, fossero gli altri decapitati, ed egli, legato alle code di cavalli feroci, fosse trascinato per la campagna disseminata di pietre e di rovi, nel quale orribile martirio tutto lacerato e squarciato, diede l’anima sua a Dio. Il suo corpo, di notte, fu sepolto da Giustino Prete e da altri cristiani nel campo Verano, non lontano dal corpo di S. Lorenzo. Ed era l’anno 261, imperando Valeriano e Galieno suo figliuolo.
Ebbene, questo santo martire fu ucciso da cavalli feroci e quindi l’assonanza con l’altro Ippolito è chiara. Ma questo è un caso particolare anche se perfetto per l’uso, difficile però che si ripeta spesso.
Più in generale era sufficiente trovare un qualche legame di un martire, fosse solo per una data, con un territorio, un luogo, una festività pagana ed operare come si era fatto con il giorno inventato per il Natale di Gesù, sovrapposto al Natale del Sol Invictus (dies natalis solis invicti). Era poi possibile cambiare di un poco le date, creare artificialmente il parallelismo, tutto al fine di mantenere la tradizione, la festività con riti esterni magari da cambiare con il tempo, al resto avrebbero pensato gli abili ed infaticabili predicatori. Un tale cambiamento, come fa osservare Atienza, avvenne, ad esempio, con la sostituzione del tempo con l’eternità che la Resurrezione avrebbe garantito. I romani, almeno da Numa Pompilio, avevano chiamato il primo mese dell’anno Gennaio, cioè Ianuarius. Si trattava quindi di un mese dedicato a Ianus (Giano). Era Ianus che apriva le porte (porta = ianua) dell’Olimpo e quelle del nuovo anno ed era la sua versione femminile, Dea Iana (Diana, l’Artemide greca), che vivificava la natura, proteggendo boschi, animali, sorgenti, fiumi e donne anche nel parto, con il suo ruolo di Dea Madre, Giano apriva e chiudeva le porte del ciclo di quella vita della quale Diana era artefice e custode. La sostituzione di questi due simboli del mondo nella sua evoluzione ciclica viene realizzata con Pietro che apre le porte del cielo e con la Provvidenza che emana dal Padre, quindi con la speranza di salvezza di fronte alle minacce di Satana. E’ il passaggio più duro per la Chiesa perché pieno di significati da comunicare al popolo dei fedeli cercati ma forse il più facile perché il più lontano dalla vita quotidiana di quello stesso popolo. D’altra parte, quale martire, per quanto eroe e vergine e tutto ciò che si vuole, può sostituire la grandezza di Ianus e Iana ? Quell’essere bifronti, quell’aprire al futuro guardando senza dimenticare il passato, è una metafora totale della vita.
Altro mito dell’antichità classica furono i Dioscuri, molto amati e venerati, che sottilmente si cercava di riproporre come coppia di divinità. Castore e Polluce, figli di Leda (sposa di Tindaro) e Zeus che si presentò all’amata sotto le spoglie di un cigno, erano gemelli con caratteristiche diverse ma complementari. Leda restò incinta sia di Zeus che di Tindaro ed ebbe due coppie di gemelli, la prima composta da Elena e Polluce, figli di Giove e quindi con caratteristiche divine, la seconda da Clitennestra e Castore, figli di Tindaro e quindi con caratteristiche umane. Tra questi gemelli, Castore e Polluce non si separarono mai legati come erano tra loro. Tanto erano legati che quando Castore fu ferito e stava per morire, Polluce chiese a Zeus l’immortalità di Castore o la sua morte. Ma Zeus, che non aveva questo potere, riuscì però a ricongiungerli permettendo loro di stare insieme per sempre, metà del tempo agli Inferi e metà con gli dèi sul monte Olimpo(16). I Diòs Kouroi, col fisico di abili e possenti atleti, erano sempre pronti ad accorrere dove qualcuno era in pericolo e, pertanto, rappresentavano la soprannaturale forza ausiliatrice. Castore e Polluce, chiamati negli antichi testi i “Salvatori di molti uomini“, erano le figure sacre da invocare per ogni assistenza repentina, perché coi loro cavalli arrivavano in tempi rapidissimi. Il mito era facilmente riportabile alla morte e resurrezione del cristianesimo, alle due nature (la mortale e l’immortale) o almeno al ciclo della vita, era quindi molto ma molto sentito e quindi importante. Si cercarono quindi coppie di santi da poter essere offerti in loro vece. Primo esempio di questo tentativo si ebbe con Pietro e Paolo, anche con richiami al Vangelo ed ai fratelli di Gesù con riferimento particolare a Tommaso, detto anche Didimo, cioè gemello. Questo modello non ebbe però successo anche perché intaccava l’altro mito, quello della madre di Gesù. Non si sa bene per quale strada ma si arrivò in poco tempo ad avere una gran quantità di coppie di santi che si suppone discendessero dal mito di Castore e Polluce. Alcuni di essi sono poco noti ai più ma esistono nei martirologi(17):
Santi Ciro (medico ad Alessandria) e Giovanni (soldato ad Edessa), martiri nella persecuzione di Diocleziano ai quali ci si raccomanda per essere guariti da malattie.
Santi Vito e Modesto, il primo taumaturgo in vita ed il secondo suo maestro, furono martirizzati in Sicilia o in Lucania sotto Diocleziano. Sono patroni degli epilettici o dei danzatori e vario altro.
Santi Gorgonio (comandante delle guardie del palazzo) e Doroteo (addetto alla stanza da letto imperiale), erano di stanza nel palazzo di Diocleziano a Nicomedia.
Santi fratelli Giusto e Pastore, martirizzati in Spagna in giovanissima età sotto il regno di Diocleziano.
Santi fratelli Simplicio e Faustino, martirizzati in Roma nel 287 dal prefetto Lucrezio che si impadronì poi dei loro averi. Lucrezio dette un banchetto per festeggiare la sua impresa durante il quale un neonato gli disse che sarebbe morto presto. Lucrezio fu preso da diavoli che lo fecero cadere morto tra violenti spasimi.
Ma la coppia dei santi più famosa e che più si avvicina al culto ed al formidabile mito dei Dioscuri è quella dei Santi Cosma e Damiano (IV secolo, anche se vi sono almeno tre coppie di tali santi e non si conosce molto di nessuna delle tre). Si tratta di due santi medici, rappresentanti della sacra medicina cristiana o meglio della santità che cura i corpi. L’equivalente cristiano dell’Esculapio greco che, come quello, ma con metodi del tutto differenti, fornivano cure ai loro pazienti con apparizioni notturne nei loro sogni e che, anche con visite di persona, erano rinomati per non pretendere parcelle di sorta. L’agiografia racconta che fossero due di cinque fratelli, probabilmente gemelli, originari di Egea in Arabia e vissuti nella seconda metà del III secolo. Alla morte del padre iniziarono a fare i medici, convertendosi al Cristianesimo. Va detto che la loro era non una medicina basata su qualche fondamento scientifico ma solo su ricerca di virtù soprannaturali, risultando comunque degli apprezzati guaritori per interventi che avevano più che altro un carattere miracoloso. Anche il loro martirio richiama significati fortemente simbolici. Furono fatti arrestare dal proconsole Lisia che li fece torturare barbaramente. Furono quindi gettati in mare legati perché affogassero ma un angelo sciolse le corde e li riportò a terra sani e salvi. Catturati di nuovo furono gettati in un rogo che lasciò andare fiamme da ogni parte, ammazzando i carnefici, ma non toccando i due. Furono presi e messi su un cavalletto acuminato ma i carnefici che operavano su di loro ebbero le braccia paralizzate e non riuscirono nell’intento di legare i pesi alle loro gambe. Li presero di nuovo e, crocifissi, furono lapidati ma con le pietre che, raggiunte le croci, rimbalzavano su chi le tirava (analogamente con un tentativo di trafiggerli con delle frecce). Finalmente si riuscì ad ammazzarli con la decapitazione (ma il lettore lo aveva già capito). I simbolismi in gioco riguardano l’escursione nella morte dei due attraverso i quattro elementi di Aristotele. I medici, i farmacisti, gli infermieri e i barbieri, che una volta esercitavano la medicina minore, li venerano come loro patroni. Molti storici ed archeologi sostengono che la prima chiesa a loro dedicata da Papa Felice, lo fu nel luogo in cui vi era la basilica consacrata ad un’altra coppia famosa della classicità: Romolo e Remo. Ed in questo luogo, che divenne subito meta di pellegrinaggi, si ebbero degli infermi che furono curati in modo spettacolare. Gregorio di Tours ebbe a dire che i due spaventavano le malattie.
COME SBARAZZARSI DEI RITI PAGANI
A questo punto è necessario chiedersi come potevano questi personaggi, pretesi martiri e pretesi santi, entrare nella cultura della popolazione dell’Impero di Roma. Solo per una storia di martirio sotto la legge dello stesso Impero ? Come potevano diventare oggetti di culto ? Tutto è connesso strettamente alle loro reliquie(18) (resti) ed al loro preteso potere taumaturgico, come accennato. Si può anzi invertire la questione affermando che la popolazione conobbe prima la reliquia e poi il nome del santo martire a cui apparteneva. Dopo aver affermato che le reliquie rappresentarono una corruzione della pura e perfetta semplicità del sistema cristiano, con una lucidità ed efficacia ancora evidenti, scrive Gibbon in proposito:
La soddisfacente esperienza che le reliquie dei santi erano più pregevoli dell’oro e delle pietre preziose, stimolò il clero a moltiplicare i tesori della chiesa. Senza molto riguardo alla verità o alla probabilità, si inventavano dei nomi per gli scheletri, e delle opere per i nomi, La fama degli apostoli e dei santi uomini che avevano imitato la loro virtù, fu oscurata dalla fantasia religiosa, Al drappello invincibile dei genuini e primitivi martiri, si aggiunsero molte migliaia di eroi immaginari, che non erano mai esistiti se non nella fantasia di scaltri o creduli scrittori di leggende; e si ha ragione di credere che Tours non fosse la sola diocesi, dove le ossa di un malfattore erano adorate come quelle di un santo [nella nota Gibbon dice che fu lo stesso Martino di Tours ad estorcere questa confessione dalla bocca del morto, ndr]. Una pratica superstiziosa, che mirava ad accrescere le tentazioni della frode e della credulità, estinse nel mondo cristiano la luce della storia e della ragione.
Ma i progressi della superstizione sarebbero stati molto meno rapidi e vittoriosi, se la fede del popolo non fosse stata assistita dall’opportuno aiuto delle visioni e dei miracoli per assicurare l’autenticità e la virtù delle più sospette reliquie. Nel regno di Teodosio il Giovane, Luciano, prete di Gerusalemme e ministro ecclesiastico del villaggio di Cafargamala, a circa venti miglia dalla città, riferì un sogno assai singolare, che per eliminare i suoi dubbi si era ripetuto per tre sabati consecutivi. Gli appariva nel silenzio della notte una veneranda figura con una lunga barba, una veste bianca e una verga d’oro; diceva di chiamarsi Gamaliele e dichiarava all’attonito prete che il suo corpo, insieme a quelli di Abiba, suo figlio, di Nicodemo, suo amico, e dell’illustre Stefano, primo martire della fede cristiana, erano stati segretamente sepolti in un campo vicino. Egli aggiungeva con una certa impazienza, che era ormai tempo di liberare lui e i suoi compagni da quella oscura prigione che la loro comparsa sarebbe stata salutare a un mondo angustiato e che essi avevano scelto Luciano per informare il vescovo di Gerusalemme della loro sepoltura e dei loro desideri. I dubbi e le difficoltà che ancora ritardavano questa importante scoperta furono eliminati da successive visioni, e finalmente il terreno fu scavato dal vescovo, alla presenza di un’innumerevole moltitudine. Le bare di Gamaliele, del figlio e dell’amico furono trovate in ordine; ma quando venne alla luce la quarta bara, che conteneva i resti di Stefano, la terra tremò e si diffuse un odore paradisiaco, che risanò immediatamente le varie malattie di settantatre astanti. I compagni di Stefano restarono nella tranquilla residenza di Cafargamala; ma le reliquie del primo martire furono portate con solenne processione in una chiesa, eretta in loro onore sul Monte Sion, e in quasi tutte le province del mondo romano si riconobbe ogni piccola particella di quelle reliquie, una goccia di sangue o la raschiatura di un osso, possedeva una divina e miracolosa virtù. Il grave e dotto Agostino, lo spirito del quale non si può accusare di credulità [questo pensava Gibbon, ndr], ha riferito gl’innumerevoli miracoli operati in Africa dalle reliquie di santo Stefano; e questa meravigliosa narrazione è inserita nell’elaborata opera La città di Dio, che il vescovo di Ippona intendeva come una prova solida e immortale della verità del cristianesimo. Agostino dichiara solennemente di avere scelto soltanto quei miracoli, pubblicamente attestati da coloro che erano stati oggetto o spettatori del potere del martire. Molti ne furono omessi o dimenticati; e Ippona era stata trattata meno favorevolmente delle altre città della provincia. Eppure il vescovo enumera, nello spazio di due anni e nei confini della sua diocesi, più di settanta miracoli, tra cui tre resurrezioni. Se vogliamo rivolgere lo sguardo a tutte le diocesi e a tutti i santi della cristianità, non sarà facile calcolare le favole e gli errori, che scaturirono da questa sorgente inesauribile. Ma ci sarà certamente permesso di osservare che un miracolo, in quel tempo di credulità e di superstizione, perdeva il suo nome e il suo merito, potendosi appena considerare come una deviazione dalle ordinarie e stabilite leggi della natura.
Gl’innumerevoli miracoli, dei quali le tombe dei martiri erano un perpetuo teatro rivelarono al pio credente il vero stato e l’effettiva costituzione del mondo invisibile, e le sue speculazioni religiose apparvero fondate sulla salda base dei fatti e dell’esperienza. Quale che fosse la condizione delle anime comuni nel lungo intervallo fra la dissoluzione e la resurrezione dei corpi, era evidente che gli spiriti superiori dei santi e dei martiri non passavano questa parte della loro esistenza in un sonno muto e inglorioso. Era evidente (senza pretendere di determinare il luogo della loro dimora, o la natura della loro felicità), che essi godevano una viva e attiva coscienza della loro beatitudine, della loro virtù e dei loro poteri, e che avevano già ottenuto il possesso del loro eterno premio. L’ampiezza delle loro facoltà intellettuali superava la misura dell’umana immaginazione, essendo provato dall’esperienza che erano capaci di udire e intendere le varie richieste dei loro numerosi devoti, che nello stesso momento, ma nelle più diverse parti del mondo, invocavano il nome e l’aiuto di Stefano o di Martino. La fiducia dei loro postulanti era fondata sulla persuasione che i santi, mentre regnavano con Cristo, gettassero uno sguardo di compassione sulla terra, che si interessassero vivamente alla prosperità della chiesa cattolica e che gl’individui, che imitavano l’esempio della loro fede e pietà, fossero i particolari e favoriti oggetti del loro più affettuoso riguardo. Talora, veramente, sulla loro amicizia potevano influire considerazioni di una specie meno sublime; essi guardavano con parziale affetto i luoghi che erano stati santificati dalla loro nascita, dimora, morte e sepoltura, e dal possesso delle loro reliquie. Le basse passioni della superbia, avidità e vendetta sembravano indegne di uno spirito celeste; nondimeno, i santi si degnavano di attestare il loro riconoscente apprezzamento per la generosità dei loro devoti, e scagliavano i più violenti fulmini contro quegli sciagurati, che violavano empiamente i loro magnifici santuari, o non credevano al loro potere soprannaturale. Atroce, infatti doveva essere il delitto, e strano lo scetticismo di quegli uomini, se avevano potuto resistere ostinatamente alle prove di una potenza divina, a cui gli elementi, tutto l’ordine della creazione animale e perfino le sottili e invisibili operazioni dell’animo umano erano costretti a obbedire. Gli immediati e quasi istantanei effetti che si supponeva seguissero la preghiera o l’offesa, persuasero i cristiani di quanto fossero grandi il favore e l’autorità, di cui i santi godevano alla presenza del sommo Dio; e sembrò quasi superfluo indagare, se essi fossero continuamente obbligati ad intercedere davanti al trono della grazia, o se non fosse loro permesso di esercitare, secondo i dettami della loro benevolenza e giustizia, il delegato potere del loro subordinato ministero. L’immaginazione, che con penosi sforzi si era elevata alla contemplazione e al culto della causa universale, accolse ardentemente questi inferiori oggetti di adorazione, come più proporzionati alle sue grossolane idee ed imperfette facoltà. La sublime e semplice teologia dei primi cristiani si andò gradatamente corrompendo, e la monarchia celeste, già oscurata da sottigliezze metafisiche, fu degradata dall’introduzione di una mitologia popolare, che tendeva a ristabilire il regno del politeismo.
Gli oggetti della religione, essendo stati a poco a poco ridotti alla misura dell’immaginazione, si introdussero i riti e le cerimonie che parevano più potentemente influire sui sentimenti del volgo. Se al principio del V secolo Tertulliano o Lattanzio fossero stati a un tratto resuscitati per assistere alla festa di qualche santo o martire popolare, avrebbero guardato con stupore e indignazione il profano spettacolo, succeduto al culto puro e spirituale delle comunità cristiane. Appena aperte le porte della chiesa, sarebbero stati offesi dal fumo dell’incenso, dal profumo dei fiori e dallo splendore delle lampade e dei ceri, che sul mezzogiorno diffondevano una luce sconveniente, superflua e, secondo loro, sacrilega. Se si fossero avvicinati alla balaustrata dell’altare, avrebbero attraversato una folla prostrata, composta per la massima parte di stranieri e pellegrini, che alla vigilia della festa accorrevano nella città e già sentivano l’ebbrezza del fanatismo e forse del vino. Essi baciavano devotamente le mura e il pavimento del sacro edificio, e quale che fosse il linguaggio della chiesa, le loro fervide preghiere erano dirette alle ossa, al sangue o alle ceneri del santo che ordinariamente veniva nascosto da un velo di lino o di seta agli occhi del volgo. I cristiani frequentavano le tombe dei martiri con la speranza di ottenere dalla loro potente intercessione ogni specie di grazie spirituali, ma specialmente temporali. Imploravano la conservazione della salute, la cura delle infermità la fecondità delle mogli sterili o la salvezza e felicità dei figli. Quando intraprendevano qualche viaggio lungo o pericoloso, supplicavano i santi martiri di essere loro protettori e guide; e se tornavano senza aver subito disgrazie, correvano nuovamente ai sepolcri dei martiri per celebrare con espressioni di gratitudine le loro obbligazioni per la memoria e le reliquie dei loro celesti patroni. Le pareti erano tutte coperte di ex voto per le grazie ricevute; occhi, mani, piedi d’oro e d’argento; e dipinti edificanti, che non potevano a lungo andare non produrre un’insensata o idolatrica devozione, rappresentavano l’immagine, gli attributi e i miracoli del santo patrono. Uno stesso uniforme e innato spirito di superstizione poté suggerire, nei paesi e nei tempi più lontani, gli stessi metodi d’ingannare la credulità o d’influire sui sentimenti degli uomini; ma si deve obiettivamente riconoscere, che i ministri della chiesa cattolica imitarono quel profano modello, che erano impazienti di distruggere. I vescovi più rispettabili si erano persuasi che il popolo ignorante avrebbe più volentieri rinunziato al paganesimo, se avesse trovato qualche somiglianza, o qualche compenso nel seno del cristianesimo. La religione di Costantino compi in meno di un secolo la conquista definitiva dell’Impero romano; ma i vincitori furono a loro volta insensibilmente soggiogati dalle arti dei loro vinti rivali.
La citazione è lunga perché coglie con estrema chiarezza tutti gli elementi che entrano nella spiegazione dei differenti problemi. Racconta in modo chiaro ed elaborato cosa accadde negli anni che vanno da Costantino ad oltre Teodosio ed a me non resta che esemplificare e rendere ancora più evidente, se possibile, quanto riportato dello storico inglese dell’Ottocento.
A lato di quanto spiegato da Gibbon, occorreva dispiegare un’operazione più vasta, sottile e difficile, il sostituire alle varie festività pagane un qualcosa di simile ma dal carattere cristiano. Nel corso dell’anno vi erano molte feste con chiaro carattere pagano che dovevano essere necessariamente rimpiazzate. Tali feste erano sempre molto attese perché erano giorni di riposo e di gozzoviglie e la Chiesa non poteva certo pensare di ottenere consenso semplicemente cancellandole. Si trattava, anche qui, di riprendere tali feste una ad una e di cristianizzarle. Occorreva innanzitutto collocare alcuni capisaldi del Cristianesimo in giorni dell’anno fondamentali in altre religioni e quindi si cominciò a collocare la nascita di Cristo nel luogo opportuno al quale ho accennato.
Il Natale è una festa pagana legata al solstizio invernale, godeva di grande importanza in tutto l’Impero Romano. Ricordo che il solstizio invernale è il giorno più corto dell’anno, e cade intorno al 21 dicembre. In questo giorno, tra l’altro, il sole tocca il punto più basso rispetto all’orizzonte. Il 25 dicembre la durata del giorno rispetto alla notte ricomincia a crescere in modo evidente (in base alle osservazioni empiriche fatte dagli antichi) come anche la sua altezza rispetto all’orizzonte. Per questo quel giorno era il natale del sole che ridava vita alla natura nel suo insieme. Questo giorno era festeggiato proprio per questo ed era la festa del dies natalis solis invicti, festa che era già stata utilizzata per un altro divino natale, quello di Mitra.
L’Avvento, nella liturgia cristiana, segna l’inizio dell’anno liturgico, e comprende le quattro domeniche prima del Natale (Adventus Domini). Nella Roma precristiana adventus significava la venuta, una volta all’anno, della divinità nel suo tempio. In seguito, assunse anche il significato di visita dell’imperatore o della sua festa.
La Pasqua è il giorno in cui i cristiani festeggiano la “resurrezione” di Gesù. La Pasqua cade la prima domenica dopo il primo plenilunio di primavera. Si tratta quindi di una festività legata all’equinozio di primavera. Tutti i popoli pagani dell’Impero Romano e non solo conoscevano già questa festa: la natura, dopo il freddo inverno, “risorge”. L’idea di resurrezione della natura diventò resurrezione di Cristo, e anche questo mito, in qualche modo, fu “incorporato” nella nuova religione che andava diffondendosi in antitesi al paganesimo. Uno dei simboli della Pasqua è l’uovo che rappresenta la fertilità.
Le Candelora. I romani, per le calende (il primo giorno) di febbraio, illuminavano la città per tutta la notte con fiaccole e candele, in onore della dea Giunone Februata, madre di Marte, dio della guerra, e imploravano dal figlio la vittoria contro i nemici (ed il nome candelora deriva proprio dalle candele accese). La festività pagana era anche dedicata a Cerere ed ai Lupercali con significato di purificazione e rinnovamento, si celebrava infatti il ritorno della luce dopo i mesi del buio, l’inizio del risveglio della natura dopo il sonno dell’inverno. Fu papa Gelasio I, fra il 492 e il 496, a cristianizzare la festa, che prese il nome di «Quadragesima de Ephifanìa», e la dedicò alla purificazione di Maria Vergine dopo il parto (Maria, come tutte le donne ebree, dopo aver partorito, si sottopose al prescritto periodo di isolamento, una sorta di quarantena dettata da precauzioni igieniche sia pure codificate sottoforma di pratica religiosa. Dopo questa purificazione Maria poté presentare Gesù al tempio).
Ognissanti. I Romani avevano la festa della conclusione dell’epoca attiva del raccolto, una specie di festa del termine della stagione agricola, come ringraziamento dei doni ricevuti dalla terra. Veniva festeggiata in modo variabile, secondo i luoghi, in giorni corrispondenti alla fine di ottobre e all’inizio di novembre, per poi acquisire una data comune a tutti che si identificò con la notte di transizione tra ottobre e novembre. Al significato agricolo della festa si aggiunse quello di festa dell’aldilà. In questa realtà di festa pagana si inserì con Papa Bonifacio IV il desiderio della Chiesa di ricondurre ad un significato religioso cattolico tutti i residui di paganesimo ancora esistenti. Non potendo proibire le manifestazioni pagane, perché la privazione di un’occasione di festa avrebbe scatenato delle violente reazioni tra la gente, il Papa creò il giorno di Tutti i Santi. Questa festa affiancò ai festeggiamenti pagani la ricorrenza liturgica. Duecento anni più tardi la Chiesa non era ancora riuscita a liberarsi della festa pagana, allora Papa Gregorio III fece coincidere la festività di Ognissanti con il giorno in cui veniva effettuata la festa pagana. In questo modo a partire dal 1500 le due festività erano diventate una cosa unica ed il significato pagano originario era quasi completamente dimenticato.
Assunzione. Il 15 agosto era la festa cattolica che celebrava la verginità di Maria (l’assunzione di Maria in cielo è una festa inventata da Pio XII nel 1950 e sovrapposta a questa della verginità oggi localizzata al 21 novembre. Secondo alcuni Vangeli apocrifi il mese di agosto segnerebbe lo stato speciale di morte di Maria, la sua dormizione). Nel 18 a.C. l’imperatore romano Ottaviano, proclamato Augusto dal senato romano, dichiarò che tutto il mese di agosto sarebbe stato festivo e dedicato alle Feriae Augusti, una serie di celebrazioni solenni, la più importante delle quali cadeva il 13 ed era dedicata a Diana, dea patrona del legno, delle fasi della luna e della maternità. La festa si celebrava nel tempio dedicato alla dea sull’Aventino ed era una delle poche occasioni in cui i romani di ogni classe e censo, padroni e schiavi, si mescolavano liberamente. Oltre che a Diana, le Feriae erano un’occasione per celebrare Vertumno, dio delle stagioni e della maturazione dei raccolti; Conso, la cui festa cadeva il 21 agosto, dio dei campi e Opi dea della fertilità, la cui festa, Opiconsiva, cadeva il 25 del mese (altre feste in agosto erano: il giorno 12 dedicato ad “Ercole Invitto”; il 17 veniva ricordato il dio Portumnus; il 23 si svolgevano i “Volcanalia”, in onore di Vulcano, dio del fuoco; il 27 era la volta dei “Volturnalia”, festa dedicata al dio fluviale Volturnus). In breve, le Feriae erano una celebrazione della fertilità e della maternità; come molte altre feste romane erano di derivazione orientale e in particolare riecheggiavano quelle in onore di Atagartis, dea madre sira, patrona della fertilità e del lavoro dei campi. Con l’avvento del cristianesimo la gente attribuì queste medesime prerogative alla Vergine Maria, la cui solennità cominciò ad essere celebrata in un giorno vicinissimo alla festa di Diana.
Epifania. Dal greco epiphaneia, vuol dire “manifestazione, apparizione”. Il 6 gennaio i cristiani festeggiano la visita dei re magi alla grotta di Betlemme, ma nell’antichità questo giorno corrispondeva alla festa paleoegizia del solstizio invernale. Il 6 gennaio si hanno altre feste pagane: Festa di Iside, Festa di Holla, di Frigg e di Fulla, Festa di Berchta, Battesimo di Osiride, Festa dei miracoli.
Ultimo giorno dell’anno. La festa cattolica di Santo Stefano era la Festa di Artemide e la Notte del Popolo Fatato.
Capodanno. Quando si stabilì che l’anno iniziava il 1° gennaio, la romana festa di Giano è diventata o la festività della Madre di Dio o la Circoncisione di Gesù. Occorre osservare che Maria fu proclamata “Madre di Dio” solo nel 431, ben 4 secoli dopo la predicazione di Gesù. Non è un caso che ciò sia avvenuto proprio ad Efeso, città che aveva un forte attaccamento al culto di una madonna (in questo caso si trattava di Artemide o Diana). Si tratta evidentemente di un mito pagano introdotto nel Cristianesimo.
Mese di maggio. Secondo la Chiesa cattolica è il “mese della madonna”. A Roma il mese di maggio era dedicato alla Dea Maia e sempre a lei erano dedicate anche le rose.
San Giovenale. Chi era costui ? Questo santo non è mai esistito, anche se si fa riferimento ad un San Giovenale di Narni di cui non si sa nulla. Si tratta di una denominazione “cristianizzata” con cui si rinominavano i templi di Giove trasformati in chiese.
RELIQUIE
Ho già anticipato qualcosa ma l’argomento merita molta attenzione per l’impatto che ebbe nelle conversioni. Da un certo momento, finita l’epoca del martirio con i martiri molto vicini almeno nel tempo, si iniziò a rivolgersi a ciò che era ancora possibile trovare di materiale del corpo del martire. La divinità così come era presentata dai cristiani aveva bisogno di un qualche aiuto del senso e dell’immaginazione. Il puro spirito, l’idea di pensare solo a quel martire (supposto che ciò avesse un senso), la sua anima, interessavano poco o comunque non eccitavano la fantasia di perfetti idolatri convertiti in un nome ma non in una religione, quella di Gesù. Mentre prima di Teodosio ogni pratica cristiana, ogni rito, che poteva minimamente richiamare il paganesimo era tenuto lontano, successivamente tutto fu permesso, reliquie ed icone. Ciò che accadde però fu che reliquie ed icone passarono subito dall’essere aiuto alla devozione ad essere esse stesse oggetto di devozione. Come ho già detto vi fu una sorta di concessione a questo venerare dei pezzi di corpo, sperando che fosse il modo migliore di accompagnare i nuovi convertiti sulla strada della nuova religione. Anche su questo si seguivano usi e tradizioni pagane che avevano le loro reliquie nei resti degli eroi e che restavano però nei loro sepolcri intatte e mai frazionate. Purtroppo per i cristiani in buona fede, vinse la vecchia religione pagana ed il Cristianesimo perì sotto i colpi dell’idolatria. Lo spunto per la venerazione di reliquie è biblico e fa riferimento teologico all’episodio della divisione delle acque del Giordano per mezzo del mantello di Eliseo ed al resuscitare i morti per mezzo delle ossa del medesimo profeta. Comunque si voglia imbrogliare il gregge, resta il fatto che mai Gesù incitò a tali pratiche vergognose e non mi interessa qui avere il consenso del gregge. Ogni persona pensante, persona alla quale mi rivolgo, cristiana o meno, sa che la verità è quella qui riportata. Sull’onda delle emozioni collettive i pezzi di corpo del santo martire iniziarono a fare miracoli (sic !) con preferenza per ciechi che recuperavano la vista (con la metafora che ciò comportava) e, soprattutto, per la cacciata di diavoli dal corpo di indemoniati. Tutto ciò ebbe le teorizzazioni di un teologo, Teodoreto, il quale sostenne che anche un piccolo pezzetto di corpo del martire aveva lo stesso potere del corpo intero. I prodigi non si fermano qui perché, in seguito, i miracoli si estesero per intercessione degli oggetti del santo od anche solo per ciò che il santo aveva toccato o che si era trovato casualmente vicino (terra vicina alla tomba, erba e fiori, lampada votiva, …). Peggio, perché la Chiesa fece una suddivisione gerarchica delle reliquie: prima quelle insignes (corpi interi, teste, braccia, gambe) e poi quelle non insignes notabiles (mano, piede) e non insignes exiguae (dita, denti). Peggio ancora, perché anche lo strumento che aveva dato la morte al santo divenne reliquia (non serve ricordare l’adorazione ancora attuale della croce che aveva dato l’orrenda morte a Gesù per aggiungere che anche qualche spada che aveva mozzato una santa testa era ed è reliquia venerata). Ma questo era solo l’inizio. In seguito si moltiplicarono i miracoli delle reliquie con, anche qui, successive dettagliate specializzazioni taumaturgiche. L’invenzione era sensazionale e dette inizio a scavi per riportare alla luce i resti dei poveri martiri che, per sommo sfregio, furono fatti a pezzetti e distribuiti in giro per l’Europa, con cammini preferenziali verso Costantinopoli e Roma (la traslazione delle reliquie ebbe inizio nel IV secolo). Ognuno ambiva ad un pezzo di corpo di un martire e le chiese furono le principali destinatarie. Ben presto si esaurirono le reliquie, un poco perché i martiri, poiché in gran parte erano stati inventati, esaurirono i loro corpi, e soprattutto perché non si sapeva dove erano stati sepolti. Vista la grande richiesta, dapprima la Chiesa stessa inventò reliquie saccheggiando cimiteri, quindi furono furbastri a fiutare l’affare ed a fabbricare reliquie in quantità da ossa anche di criminali, assassini e bestemmiatori. Il via alla moltiplicazione delle reliquie lo dette Elena, la bagascia dei Balcani, madre di Costantino. Elena, fu santificata dalla Chiesa, forse proprio per le sue razzie in tutto il Medio Oriente ed a Gerusalemme di ogni vaga ed incerta (dolce eufemismo per dire falsa) reliquia di Gesù. Si aggirò sul Golgota nel 326 dove, anche se la legislazione in Giudea prevedeva l’incenerimento di tutte le croci dopo le esecuzioni, trovò tre croci individuando quella di Gesù, sulla quale erano ancora conficcati due chiodi. Il fatto era straordinario perché di Gesù non si possedeva nulla e neppure era sperabile possederlo in quanto era salito al cielo con il corpo. Solo più tardi si trovò un pezzo di croce bagnato del suo sangue, uno dei tanti prepuzi che gli appartennero (sembra 13 !), lo sterco dell’asino che lo adorò, un poco della paglia della mangiatoia, i suoi pannolini, la colonna dove su fustigato, la palma che aveva fornito le foglie nella domenica delle palme, i resti dell’ultima cena, un panno spruzzato con il suo sangue, un pezzo della corda con cui fu legato, il giavellotto che lo aveva trafitto al costato, la roccia sulla quale Giuda aveva tradito, la spugna e la canna con le quali gli avevano dato da bere acqua ed aceto, la corona di spine, il sudario, un pezzo della pietra su cui fu partorito Gesù, … Inutile dire che le reliquie della croce, legni più chiodi, sono oggi in quantità tale da poter costruire una nave e che le altre sono vere bufale. In questa occasione il vescovo Eustazio di Antiochia disse di Elena che Gesù l’aveva innalzata dallo sterco al trono con la conseguenza che Costantino lo esiliò senza che si sapesse più nulla di lui.
Senza tema di smentite, si può affermare che il culto delle reliquie aprì la stura al potere magico degli oggetti, alla magia in generale, alla superstizione. Vi fu un importante ritorno del peggiore paganesimo: si cantavano canti pagani nelle chiese, si facevano festini pagani dopo l’Eucarestia, nelle messe per i morti si invocava la morte dei vivi, … Il culto dei santimartiri si estendeva e con esso si facilitavano le conversioni perché ogni villaggio ritrovava o si ricostruiva il proprio Dio locale, ogni malato il protettore dell’organo offeso, ognuno con le sue simpatie. Ma il santo taumaturgo spesso non bastava. Come osserva Tabacco:
Il monoteismo aveva privato i ceti più umili delle divinità maggiori del loro pantheon anteriore, ma non poteva sopprimere l’intero complesso di credenze che li avevano confortati nella vita quotidiana. Avevano bisogno di poter ricorrere a forze note, anche se misteriose, capaci di controllare quelle spesso temibili e sempre sorde della natura. L’Onnipotente era troppo lontano e troppo inconsueto nella sua terribile severità. Ecco allora il ricorso a formule magiche, tradizionalmente impiegate a protezione contro i più diversi mali, in quanto impregnate di poteri occulti e superiori al corso della vita normale. Ecco l’atteggiamento reverenziale verso elementi e luoghi, come le fonti, i boschi, il fuoco, un tempo ospitanti divinità minori, e spesso ancora sentiti o pensati, nell’alto medioevo, come dotati di una loro intrinseca sacralità, tanto da suggerire, in qualche caso in Germania pur dopo la conversione dei Sassoni, sacrifici appositi in loro onore.
Ma non basta perché vi è molto di più. Infatti il culto dei santi, come già accennato, estese a dismisura quello delle reliquie per cui ci si legava a pezzetti di qualcosa (corpo, ossa, vestito, utensile) per affermare la fede, tornando alle consuetudini e pratiche magiche da sempre dominanti. E le reliquie vennero ambite anche da singole persone benestanti che desiderando una reliquia personale ne compravano di piccole al mercato già inserite in speciali custodie (i filatteri) da appendere al collo (e, se proprio non potevano comprarla, la affittavano), A questo mondo grottesco aiutavano le visioni ed i racconti fantastici di ispirati cristiani (Gregorio di Tours), racconti popolati di Angeli ed Arcangeli che scorrazzavano per la Terra elevando al cielo le anime dei santi e dei giusti salvate dalle grinfie degli onnipresenti e minacciosi Demoni. Vi è un grande bisogno di descrizione materiale dei luoghi verso cui si dirigeranno le anime dopo la morte del corpo (Paradiso ed Inferno) e della rassicurante compagnia degli Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele, i primi due, alla bisogna, sono armati di spada. E con la consueta compagnia di angeli, i viaggi degli spiriti eletti, ma anche dei loro corpi, avvengono in spazi bui popolati da demoni, attraverso ogni possibile cosmologia e l’osservazione dall’alto delle miserie di questo mondo ma con l’esaltante visione della Gerusalemme celeste, evocata nell’Apocalisse, come punto d’arrivo.
Vi è in definitiva, da parte dei cristiani, un ritorno al riconoscere le cose materiali come guida e sostegno alla loro fede e le reliquie sono proprio la prova di quanto affermo. D’altra parte le reliquie erano ampiamente utilizzate dai pagani mentre erano aborrite dagli ebrei che si rifacevano a quanto la Bibbia diceva a proposito delle ossa dei giusti che devono riposare in pace nei loro luoghi. Occorre però essere più precisi perché la parola sola, reliquia, non descrive bene cosa c’è dietro di magico, superstizioso ed orrido.
In Svizzera, a Schaffhausen, è conservato il fiato di San Giuseppe rilasciato sul guanto di Nicodemo. Basta questo per far capire i livelli di imbarbarimento delle predicazioni di quel povero Gesù, preso a schiaffi da coloro che dicono di essere suoi fedeli ? Non basta, ed anche se non serve a nulla proseguo. San Biagio ha, come reliquie, sei braccia, mentre San Vincenzo e Santa Tecla ne hanno nove ciascuno. Sta meglio San Filippo che ne ha diciassette anche se è superato da San Giacomo che ne ha diciotto. Sant’Agata ha sei mammelle mentre San Giovanni venti mascelle. San Bartolomeo ha nove mani con tutte le dita. Gesù è ben rappresentato in sette chiese, ciascuna delle quali conserva un suo prepuzio (in totale sono 13 per cui sarebbe facile ironizzare sul perché è un dio, ma abbiamo rispetto per i credenti). Di Gesù possediamo le fasce, il fieno su cui è stato adagiato, pezzi di pietra della stalla e l’intera mangiatoia (che venne portata a Roma intorno al 650). Il suo sangue è conservato in ampolle a La Rochelle, a Mantova, a Roma, solo in Francia si hanno ben 500 denti di Gesù Bambino (oltre a molte piume ed uova dello Spirito Santo)… Dovunque, in Europa, si trovano altre reliquie di Gesù, alcune delle quali ripetute: il panno che lo avvolgeva, la camicetta da neonato, l’intero altare su cui fu posto quando fu presentato al tempio, la colonna su cui fu fustigato, il ramoscello d’ulivo che agitava quando entrò in Gerusalemme, la sua barba, l’ombelico, le lacrime versate alla morte di Lazzaro, un poco di terra che calpestò quando resuscitò Lazzaro, alcune spine della corona. Grande importanza riveste la reliquia di una pietra con l’impronta del piede di Gesù lasciata quando prese lo slancio (principio di azione e reazione) per elevarsi al Cielo lasciando evidentemente l’impronta dell’atto.I vasi delle nozze di Cana sono dappertutto ma c’è chi ha anche alcuni pani moltiplicati in quella occasione. Si ha il tavolo su cui Gesù ed Apostoli fecero l’Ultima Cena, un pezzo di pane avanzato, il coltello con cui Gesù tagliò l’agnello pasquale ed un piatto in cui fu mangiato. Un cervello di S. Giovanni è nell’abbazia di Tiron, un altro a Nogent-le Rotrou. Un orecchio sta a Parigi, un altro a Saint Flour e un altro ancora a Praga. Si ricordano inoltre una quarantina di altre teste che non possiamo indicare esattamente con sicurezza.Papa Urbano VI fece mozzare la testa di Santa Caterina nel 1381 per portarla a Roma come reliquia (ma della santa esistono vari pezzi di corpo in giro per l’Italia).
Su questa Santa, rinomata per la grande bellezza, occorre dire due parole. Alcune vicende che la riguardano ci sono state raccontate dal suo confessore e biografo Raymond de Capoue o Raimondo di Capua (un probo domenicano) che, a quanto pare, era un prete che aveva strani rapporti con la Santa approfittando delle sue visioni che, sembra, fossero a sfondo sessuale. In una lettera della Santa possiamo leggere il modo con cui era visitata ogni notte nella sua cella dal suo divino sposo, Gesù, al quale aveva donato la sua verginità. Leggiamo come la bella Santa, sposa mistica di Gesù, scambiava il sesso con il raggiungimento delle meraviglie del Cielo (trascritto da un incerto ed antico italiano in forma moderna e leggibile): A mezzanotte il mio dolce sposo entra nella mia cella ed intona canti sacri, quindi si mette a riposare nel mio letto e mi riempie di tutte le allegrie e felicità del Paradiso. Una volta venne a visitarmi nascosto, vestito da monaco mendicante, poiché non lo riconoscessi, e così vestito mi chiese elemosina con una voce piena di sofferenza, ed io, non disponendo di altro, gli ho dato il mio copricapo, i miei vestiti, la mia cintura al fine di consolare questo povero sofferente le cui preghiere ed istanze erano ogni volta più lamentose; finalmente quando mi tolsi l’ultimo velo che mi copriva, egli prese la sua forma divina e mi portò con lui al settimo cielo. [http://www.ilpalio.siena.it/Personaggi/LettereCaterina/default.aspx]. Questa sì che è una Santa ! Come Santa è Teresa d’Avila che sullo stesso argomento, raccontando delle sue estasi, scriveva: Un giorno mi apparve un angelo bello oltre ogni misura. Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avere un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era cosi vivo che mi faceva emettere dei gemiti, ma era cosi grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po’, anzi molto. È un idillio cosi soave quello che si svolge tra l’anima e Dio, che io supplico la divina bontà di farlo provare a chi pensasse che io mento. [Teresa d’Avila, Autobiografia, XXIX, 13]. Tornando alle sante reliquie, anche di Sant’Agata fu mozzata la testa per farne una reliquia (su questa santa vi è la contesa tra due città, Gallipoli e Galatina, di una mammella che fu trovata dal vescovo di Gallipoli nella bocca di un bambino ! Dal grottesco all’orrido attraverso l’incredibile). Roma dispone della colonna che servì d’appoggio a Gesù quando sferzò i mercanti nel tempio. Pezzi di legno provenienti dalla croce sulla quale Gesù morì sono in quantità industriale, come i chiodi che lo crocifissero. Si ha anche la finestrella di marmo attraverso la quale entrò l’Arcangelo Gabriele ad annunciare la lieta novella a Maria (senza la finestra, infatti, non sarebbe mai potuto entrare). Tra le reliquie dovrebbe esisterne una mitica, mai trovata: il Santo Graal (la coppa in cui bevve Gesù nell’Ultima Cena). La descrivono come una coppa preziosa intarsiata di gemme, mostrando una totale ignoranza di una cena frugale tra pescatori poveri. Ve ne è un’altra, una comprovata bufala, che viene venerata a Torino: la Sacra Sindone (il più noto dei sudari di Gesù perché nel mondo se ne venerano oltre quaranta) che analizzata al Carbonio 14 ha mostrano essere di epoca medioevale (quando appunto si fabbricavano reliquie da vendere ai gonzi cristiani d’Europa e non solo). Non parliamo poi del sangue di San Gennaro, ormai misconosciuto come santo, che Luigi Garlaschelli dell’Università di Pavia ha mostrato come si fabbrica: la sostanza gelatinosa in grado di liquefarsi mediante il movimento, sostanza chiamata tixotropia, si ottiene sciogliendo 25 grammi di cloruro ferrico in 100 millilitri di acqua; si debbono poi aggiungere delicatamente 10 grammi di carbonato di calcio; si sistemi ora questa mescola in un contenitore membranoso (questo processo utilizza sostanze sintetiche ma in passato, da qualche alchimista che ideò il miracolo, potevano essere utilizzate interiora di animali e pergamino); in tale sistemazione alcune molecole diffonderanno fuori del contenitore; a questo punto si tirerà fuori dal contenitore il miscuglio restante per depositarlo in un piatto che permetterà la sua evaporazione fino ad ottenere un volume di 100 millilitri; si aggiungano ora 1,7 grammi di cloruro di sodio (sale da cucina) et voilà abbiamo un gel marrone, il sangue di San Gennaro. D’interesse sono la lingua di Sant’Antonio, la coda dell’asinello che lo adorava, i 30 denari di Giuda, due corpi e mezzo di San Sebastiano e la polvere di Santa Rita da Cascia (vendute via web) oltre a frammenti delle vesti di Giovanni Paolo II (vendute in negozi di articoli religiosi intorno al Vaticano). Notevole il cervello di San Pietro che si conserva a Ginevra, cervello che, analizzato, mostrò essere una pietra pomice.
Ho già detto delle infinite truffe che vi furono dietro al traffico di reliquie, ma vi furono anche truffe nelle truffe come lo spacciare come resti di santi martiri denti di talpa, ossa di topo, grasso d’orso. Tanto potente era il fascino delle reliquie che nel IX secolo Papa Pasquale I (817-824), fece spostare dentro Roma duemilatrecento corpi, che distribuì fra le diverse basiliche. L’idea che il possesso del corpo di un santo costituisse, per la città, il villaggio, la basilica, … un presidio insostituibile contro le malattie, le calamità, i disastri di ogni genere, i disordini, l’eresia e fosse un elemento insostituibile per la promozione e la fama di un luogo di culto, moltiplicò le invenzioni di corpi attribuiti ai santi, nella maggior parte dei casi, sulla base di indicazioni derivanti da sogni, visioni o altri tipi di segni (ad esempio il profumo) miracolistici. Talora l’ansia di possedere il corpo di un santo diede luogo a contese ed a furti veri e propri.
Assimilabili alle reliquie sono le immagini e le statue dei santi, vero ritorno all’idolatria (anche di Santi che la Chiesa, dal Concilio Vaticano II, ha degradato a persone normali o a leggende, come Veronica, Gennaro, Pantaleone, Eusebio, Cristoforo, Costanza, Margherita d’Antiochia, Caterina d’Alessandria, …).
Si dirà che vi è una grande differenza tra il credere che un caprone, un gatto o un bruco siano segni di sventura e l’essere convinti che la testa di Santa Caterina porti bene. Resta il fatto che si tratta esattamente dello stesso fenomeno. Ed allora … apriamo la caccia ai cristiani ?
I SANTI PAGANI
E’ ora di riprendere ed articolare meglio quanto dicevo più su a proposito della costruzione di santi cristiani ad imitazione delle divinità pagane. E’ forse inutile ma vale la pena dirci che quando un cristiano si raccomanda ad un determinato santo lo fa perché gli mantenga la salute, lo salvi da una malattia, protegga i familiari più cari, per ringraziarlo di quanto da lui ha ottenuto. Non credo vi siano fedeli che si rivolgono ai santi quotidianamente per chiedere di avere più fede o forza davanti alle avversità che comunque restano senza un santo che ce le tolga. Le religioni precedenti al Cristianesimo non avevano molte divinità che si occupavano in modo particolare di salute; piuttosto accompagnavano la devozione verso quella divinità con la ricerca della natura del male e l’eventuale possibilità di curarlo con rimedi naturali, come erbe, acque, infusi, caldo, freddo. Tutto questo armamentario era definito magia. Per potersi affermare il Cristianesimo dovette operare, oltreché nei modi detti, anche demonizzando sia le divinità altrui, che le credenze altrui e, tra queste, quella sana magia pagana che era l’inizio della medicina (la malattia passò dall’essere un fatto naturale a una produzione del demonio). Quando poi si trattava di malattie mentali erano esclusivamente relegate a fatto religioso (indemoniati) con la conseguenza che gli interventi terapeutici diventavano oggetto di esame e cura esclusiva dei ministri della fede che sostituivano le vecchie cure ed i vecchi amuleti con il segno della croce, con l’acqua benedetta, con i santi guaritori ed anche con solenni bastonature e poco cristiane coercizioni, oltre naturalmente all’estremo rimedio, l’esorcismo. Cosicché la Chiesa fece gravi danni scagliandosi contro quella magia-medica (più tardi criminalizzandola come stregoneria o magia nera) e dovette ricorrere a più santi taumaturghi visto che quei rimedi pagani erano demonizzati. Ma, ripromettendoci di discutere via via i problemi e le implicazioni, vediamo una breve rassegna di santi pretesi martiri, anche inventati, che ricordavano anche nel nome la divinità pagana(19) per poi capire quanto siano cresciute le divinità con poteri taumaturgici (i santi martiri) nel Cristianesimo. Una delle massime divinità greco-romane era Apollo, rappresentato sempre come un giovane o efebo, protettore di tutte le arti, della musica e in particolare della medicina. Ora sarebbe stato troppo scopertamente falso inventarsi il Sant’Apollo ma meno impegnativo trovare un Sant’Efebo del quale non si sa nulla ma è accreditato come possente taumaturgo. Artemide (Diana) richiamò il santo martire Artemio che condivide indirettamente con la dea (anche) della fertilità l’essere colui che protegge organi genitali ed ernia. Dioniso Eleuterio (Bacco), capace di produrre estasi negli uomini e quindi di liberarli dalla sofferenza, divenne ben due santi: San Dioniso (o Denis o Dionigi) e Sant’ Eleuterio(20). Giove Nicoforo divenne San Niceforo. Venere Afrodite divenne Santa Venera (sic !) e Santa Fredisia. Minerva Pallade divenne Santa Palladia. Elios divenne Sant’Elia. Proserpina divenne Santa Filomena. La ninfa Aura Placidia si divise divenendo Santa Aura e Santa Placidia. Cerere Flava divenne Santa Flava. Proserpina divenne Santa Filomena … . Anche alcune date furono santificate cosicché le idi divennero Santa Ida. Allo stesso modo alcuni modi di dire come il romano Perpetua felicitas divennero Santa Perpetua e Santa Felicita; come il rogare et donare che divenne San Rogaziano e San Donaziano; come flor et lux che divenne Santa Flora e Santa Lucia. D’interesse anche l’iconografia che vide assegnare: a S. Wolfgang l’accetta, o uncino di Saturno; a Mosè i corni di Giove Ammone; a S. Pietro le chiavi di Giano (come già detto).
Sembra evidente che ogni rito o festa venne ripreso e, dopo essere stato purgato degli evidentemente estranei, divenne cristiano. Helios, il dio Sole dei greci, divenne san’Elia; Pan, protettore delle greggi fu scacciato per essere sostituito da San Demetrio; Nettuno Equestre (o Consus in Roma) passò la protezione dei cavalli a Sant’Antonio; la Vergine sostituì Afrodite nella rappresentazione dell’Aurora. E di questi esempi se ne potrebbero fare. Ma vi sono anche nomi ripresi da antichi dei e per semplice assonanza trasferiti: Aidoneus è diventato San Donato; la dea Pelina è San Pelino; Mercurio è, anche nelle rappresentazioni, San Michele; Iside è la Vergine Nera; in Egitto Osiride divenne Gesù; … La Chiesa sessuofobica superò se stessa addirittura riconoscendo tra i suoi riti ed i suoi santi quello fallico, inventandosi San Vito che dà forza e vigore fisico ai giovanetti ed aiuta le donne a restare incinte. Anche le leggende greche di carattere tipicamente religioso furono riprese integralmente per illustrare eventi analoghi. Si pensi all’Inferno cristiano che è stato costruito dai Padri della Chiesa saccheggiando l’Ade ed il Tartaro. I due cristiani Onorio d’Autun e Rabano Mauro, tra l’VIII ed il IX secolo, arredarono l’Inferno cristiano con i fiumi Flegetonte, Cocito e Stige ed addirittura con la barca di Caronte. Solo quando la Chiesa credette di avere soppiantato ciò che restava delle vecchie credenze, da un lato si aprì (dando poca importanza ad alcuni fenomeni, almeno fino all’epoca delle grandi eresie) e dall’altro iniziò a proibire con metodo ogni riferimento ai vecchi dei (non prima del IX secolo), tutto ciò che non aveva inglobato ma aveva rifiutato. Ma i culti pagani che non potevano essere praticati in pubblico, continuarono ad esserlo in privato per secoli e, come accade sempre per ciò che è proibito e maledetto, i culti pagani esasperarono i loro aspetti negativi (quegli dei divennero dei demoni o delle bestie immonde) ed acquisirono una caratteristica che li renderà misteriosi, occulti, la segretezza. La parte rifiutata delle antiche culture religiose dalla Chiesa confluì in magie, in astrologie, in stregonerie.
A Roma vi erano i festeggiamenti di due importanti divinità, Quirino e Romolo. Ad essi fu sovrapposta la festa di San Pietro e Paolo. I pagani invocavano generalmente Esculapio o Feronia per scongiurare malattie o per essere guariti. La Chiesa fu molto più prolifica perché distinse i santi per specializzazioni mediche: S. Andrea Avellino (1521-1608) per la cura della apoplessia e per scongiurare la morte improvvisa, S. Venanzio da Camerino martire (circa 235-251) per salvaguardare dalle cadute, S. Margherita (nota anche con il diminutivo di S. Rita) di Antiochia vergine e martire (275-290) invocata per aiutare il parto e contro le febbri malariche, S. Pasquale Baylon (1540-1592) per trovare marito ad una zitella (le sue devote, a Napoli, recitano questa cantilena: «San Pasquale Baylonne protettore delle donne, fammi trovare marito, bianco, rosso e colorito, come te, tale e quale, o glorioso san Pasquale!»); … Ed ancora: Sant’Acacio, martire sotto Diocleziano, invocato nelle malattie degli occhi; SS. Acisclo e Vittoria martiri, protettori contro le tempeste; Sant’Adelaide, patrona degli ancoratori, barcaioli, battellieri; Sant’ Agata, protettrice contro tutti i pericoli, contro le eruzioni e in particolar modo invocata per le malattie del seno, ivi comprese le ragadi; Sant’Agostino, protettore dalle malattie di occhi e orecchie, contro la tosse e gli animali nocivi; Sant’Anna, madre della Madonna, patrona delle madri, delle istitutrici, delle balie, delle vedove e delle ricamatrici; Santa Barbara, martire di Nicomedia, invocata contro i fulmini, gli incendi, la morte improvvisa, patrona della marina e dell’artiglieria, dei genieri, dei vigili del fuoco, degli architetti, dei minatori, dei cuochi. torturata e condannata alla decapitazione che doveva essere effettuata dal proprio padre, durante l’esecuzione fu salvata da un fulmine che colpì il genitore, incenerendolo; San Biagio, vescovo di Sebaste, martire, invocato contro, le malattie infettive, la balbuzie e il mal di gola; Santa Caterina di Alessandria, martire sotto Massenzio, invocata dalla puerpere e dalle ragazze in cerca di marito (caterinette), patrona degli oratori, filosofi, filatrici, notai, ciclisti, carrozzieri, notai; San Ciriaco martire, invocato contro gli spiriti maligni; San Cristoforo martire, invocato nelle malattie reumatiche. patrono degli automobilisti e degli autieri, dei battellieri, dei tassisti, degli sportivi. Guerriero di grande statura, dopo essersi convertito, si mise in cerca di Cristo e gli fu suggerito di offrirsi di portare sulle spalle tutti coloro che avessero avuto bisogno del suo aiuto per attraversare un fiume. Da allora fu invocato da chi doveva intraprendere un viaggio; San Giuseppe, patrono e protettore della chiesa universale, patrono delle famiglie cristiane, dei falegnami, artigiani e lavoratori in genere, degli esiliati, dei decoratori, delle ragazze da maritare, dei viaggiatori, dei viaggi in generale e patrono della buona morte. Altri santi pagani al di fuori della taumaturgia e medicina furono creati con l’uso di fervida fantasia. I cacciatori che dovettero abbandonare il culto di Diana si rifecero con S. Uberto di Tongeren-Maastricht (656-727); i cultori della scienza e degli studi in genere dovettero lasciare Minerva ma si consolarono con S. Caterina di Alessandria d’Egitto vergine e martire (circa 287-304). E, da non credere da persone dotate di senno, è accaduto di tutto sulle santità ed i patronati: il povero San Giovanni Battista, dato che era un pastore migrante nel deserto vestito di pelli di pecora o cammello, fu fatto patrono dei pellicciai; un tal Bernardino da Siena (1388-1444) che era devotissimo al santissimo nome di Gesù tanto da scrivere più volte il suo nome su tavolette di legno che faceva baciare ai fedeli (sembra sia stato lui il creatore del monogramma JHS che egli rappresentava sormontato da una croce e attorniato da un sole), è stato fatto patrono dei pubblicitari; l’arcangelo Gabriele, che aveva portato l’annuncio di Dio a Maria futura madre di Gesù, divenne protettore dei postelegrafonici; S. Lucia (280-304), da lux che vuol dire luce, divenne patrona della vista e quindi degli orologiai; S. Cristoforo, per aver traghettato un bambino (che poi seppe essere il giovane Gesù che pesava come il mondo intero) da una riva all’altra di un fiume, divenne patrono dei viaggiatori e quindi degli automobilisti; S. Benedetto (circa 480 – circa 547), dato che rimase circa 30 anni in una grotta a Subiaco, divenne protettore degli speleologi; Santa Cristina di Bolsena (III secolo) che, per aver avuto tagliata la lingua, divenne patrona dei balbuzienti; Santa Zita (1218-1278) che morì nella sua condizione di domestica divenne patrona delle casalinghe; Santa Chiara (1193-1253) è stata eletta protettrice della televisione perché, essendo a letto ammalata, aveva avuto la visione di una funzione liturgica celebrata da San Francesco a distanza, funzione alla quale avrebbe voluto ardentemente partecipare; S. Giuseppe da Copertino (1603-1663), che cadeva in estasi e si sollevava dal suolo, divenne protettore dei paracadutisti ma anche degli studenti perché venne consacrato sacerdote dopo il difficile superamento degli esami, superamento considerato prodigioso per le difficoltà da lui incontrate nonostante l’impegno profuso nello studio. Quanti di questi ultimi Santi ho conosciuto nella mia vita !
A questo punto, non essendo addentro nelle date che interessano gli sviluppi della fede con i suoi dogmi, viene da chiedersi che ruolo occupa la Madre di Gesù, Maria, la Madonna.
LA VERGINE MARIA ED I SANTI APOTROPAICI
Ho raccontato più volte che Maria non ebbe un ruolo importante ed universalmente riconosciuto nei primi anni del Cristianesimo (a partire dalla seconda metà del II secolo iniziò un interessamento a Maria ma solo nei Vangeli apocrifi; la verginità di Maria divenne dogma in Oriente nel Concilio di Efeso del 431; verso la fine del IV secolo Maria fu equiparata ai santi; durante il V secolo, in Oriente, iniziò il culto di Maria mentre in Occidente occorre attendere il VII secolo per avere festività, preghiere dedicate a Maria; Maria sarebbe stata concepita Immacolata, senza cioè peccato originale come stabilì Pio IX nel 1854 e Maria sarebbe stata Assunta in cielo con il suo corpo, allo stesso modo di Gesù, come stabilì in un dogma Pio XII nel 1950). Ebbene, proprio il dogma dell’Assunzione in cielo del suo corpo, iniziò ad essere discusso tra la fine del IV secolo e la fine del V da vari teologi cristiani, non senza vivaci opposizioni e non senza l’inizio di altre storie fantastiche che qui tralascio. Naturalmente scoperta Maria si iniziò la frenetica, spasmodica e lucrosa ricerca di reliquie (tra cui: alcune gocce del suo latte, una pietra su cui era caduto un poco del suo latte, alcuni suoi capelli, il suo pettine, alcuni suoi indumenti, il suo sudario, la sua cintura, il suo foulard e la sua intera casa di Nazaret arrivata in volo a Loreto con una colonna deviata a Saragozza). In ogni caso, dal momento in cui Maria fu offerta in pasto al gregge, iniziarono fatti straordinari: ogni persona che toccasse o solo vedesse una reliquia della Madre di Gesù, risultava immediatamente guarita da ogni malattia. Maria iniziò così il suo cammino sostitutivo di molti santi martiri che la Chiesa stessa si vergognava di continuare a sostenere anche per la loro evidente similitudine con le divinità pagane. Maria era invocata per i parti, per aiutare contro la sterilità femminile, per la salute dei neonati, … e si può dire che furono queste storie del passato che hanno aiutato molto ad innalzare Maria ai livelli che oggi conosciamo. Fu quindi Maria che assunse il ruolo di taumaturga di gran parte delle malattie ma non fu la sola se la Chiesa, nel XIV secolo, si preoccupò di stilare un elenco di 14 santi taumaturghi, i santi apotropaici (o ausiliatori), santi cioè in grado di liberarci da ogni male sia proveniente da dentro il corpo che dal suo esterno: Caterina d’Alessandria, Barbara, Margherita di Antiochia, Eustachio, Pantaleone, Erasmo, Biagio, Vito, Dioniso (o Dionigi), Ciriaco di Roma, Giorgio, Cristoforo, Egidio, Acacio (o Agazio) di Bisanzio. Di questi santi vi sono innumerevoli e fantastiche agiografie delle quali riporto qualche dettaglio ma avvertendo che di un santo martire non vi è mai una sola agiografia.
San Vito (martire sotto Diocleziano) è noto come protettore dei danzatori, dei malati di convulsioni, degli epilettici, degli affetti da corea (una particolare encefalite popolarmente nota come Ballo di San Vito), da rabbia (o idrofobia), da letargia. Dà forza e vigore fisico ai giovanetti ed aiuta le donne a restare incinte
San Ciriaco di Roma, che avrebbe esorcizzato (e poi battezzato) la figlia Artemia di Diocleziano e la principessa persiana Giovia (figlia del re Sapore). Sarebbe caduto martire sotto Massimiano (successore di Diocleziano nel 305). E’ protettore contro le tentazioni e contro l’ossessione (tentazione violenta) e possessione diabolica.
Sant’Erasmo di Antiochia (o Sant’Elmo), martire sotto Diocleziano, miracolosamente trasportato dall’Arcangelo Michele a Formia, è protettore dei malati di dolori addominali. Il fenomeno dei Fuochi di Sant’Elmo, un effetto elettrostatico che in determinate condizioni appariva come un fuoco sugli alberi maestri delle navi, prende il nome da Sant’Erasmo il cui nome, nei secoli, subì una trasformazione fonetica in Sant’Elmo soprattutto ad opera dei marinai.
San Cristoforo, martire sotto Decio, è invocato in occasione di gravi calamità naturali, per la protezione da disgrazie o pericoli specifici e per essere protetti dalla peste. E’ anche protettore dei viandanti e dei pellegrini (la Chiesa l’ha depennato dal novero dei santi).
Sant’Egidio fu abate in epoca merovingia (fine VII ed inizi VIII secolo) ed è protettore dei lebbrosi, degli storpi, dei tessitori, dei malati di mente e di coloro che soffrono di attacchi di panico.
Sant’Acacio (o Agazio) di Bisanzio (già incontrato), martire sotto Diocleziano, è protettore di coloro che soffrono di emicrania e di malattie agli occhi. Vi è anche un altro Sant’Acacio che morì martire sotto Decio ma le agiografie dei vari Acacio sono confuse e non permettono di chiarire.
San Biagio, da ex centurione martirizzato sotto Diocleziano e Massimiano è protettore dei militari ed è invocato dai fedeli contro l’emicrania, ogni male riguardante la gola e il mal di denti. Inoltre i fedeli si rivolgono a lui per la consolazione dalle lunghe agonie e contro la siccità.
San Dioniso (o Dionigi o Denis) (già incontrato), martire sotto Decio o Diocleziano, protegge contro le emicranie.
San Giorgio, da soldato romano al servizio di Diocleziano, si convertì al Cristianesimo donando ai poveri tutti i suoi averi. Ciò provocò il suo essere tagliato in due con una ruota in cui erano inseriti chiodi e spade. I suoi carnefici furono da lui convertiti che quindi si salvò. Entrò in un tempio pagano e con un soffio fece sbriciolare tutte le statue di divinità pagane. Convertì l’imperatrice Alessandra che per ciò stesso subì il martirio. Resuscitò delle persone morte quasi 500 anni prima. Uccise un drago che dimorava in uno stagno a Selem (Libia) e che richiedeva pecore e giovani estratti a sorte in pasto (ciò comportò la conversione dell’intera cittadina). Fu martirizzato da Diocleziano. Protegge contro i serpenti velenosi, la peste, la lebbra e la sifilide e, nei paesi slavi, contro le streghe.
Sant’Eustachio, martirizzato tra I e II secolo sotto Adriano, protegge contro i pericoli del fuoco.
Santa Barbara (già incontrata), martire di Nicomedia sotto Massimiano, invocata contro i fulmini, gli incendi, la morte improvvisa, patrona della marina e dell’artiglieria, dei genieri, dei vigili del fuoco, degli architetti, dei minatori, dei cuochi.
Santa Caterina di Alessandria (già incontrata), martire sotto Massenzio, invocata dalla puerpere e dalle ragazze in cerca di marito (caterinette), patrona degli oratori, filosofi, filatrici, notai, ciclisti, carrozzieri, notai (la Chiesa l’ha depennata dal novero dei santi).
Santa Margherita di Antiochia (già incontrata), martire sotto Mssimiano, è protettrice delle partorienti (la Chiesa l’ha depennata dal novero dei santi).
San Pantaleone è presentato dalle differenti agiografie che lo riguardano come il miglior erede delle conoscenze mediche provenienti dalla medicina che si formava sotto gli auspici delle divinità pagane. Ed il personaggio, come viene comunemente descritto, ha in sé un qualcosa che esce fuori dall’ortodossia per avvicinarsi all’eresia (dati alcuni accostamenti del sangue di cui dirò con ermetismo e leggenda del Santo Graal, ma non è qui il caso di occuparsi di ciò). Era medico personale di Galerio a Nicomedia. Figlio di un cristiano, divenne cristiano ma poi abbandonò la fede che riprese successivamente. Denunciato a Diocleziano volle mostrare all’Imperatore che la sua era la vera fede guarendo un paralitico. Il miracolo non servì e fu condannato al rogo. Le fiamme lo evitarono e si spensero. Fu poi condannato ad essere gettato nel piombo fuso ma il piombo si raffreddò. Fu allora gettato in mare con una grande pietra legata al collo ma il masso miracolosamente si mise a galleggiare. Fu gettato alle fiere che lo aspettavano per fargli le feste, saltellandogli intorno. Fu poi legato ad una ruota che avrebbe dovuto strapparlo ma le corde si spezzarono e la ruota andò in frantumi. Si tentò di decapitarlo ma la spada si piegò ed i carnefici morirono fulminati. Stufo di tutti questi tentativi, Pantaleone disse che voleva essere ucciso ed allora, solo allora, fu legato ad un olivo e decapitato (il sangue che bagnò la pianta le fece subito dar frutti). E’ protettore dei malati di consunzione (la Chiesa l’ha depennato dal novero dei santi).
Di tutti questi santi vi sono infinite reliquie sparse per tutte le chiese d’Oriente ed europee. Vi sono anche fenomeni miracolosi riguardanti il sangue di un santo che si liquefa un certo giorno per poi tornare a coagulare (come San Gennaro), sangue che sembra avere anche vita propria, rifiutandosi di coagulare in determinati periodi come durante la Prima Guerra Mondiale.
Di tutti questi santi, ma anche di quelli citati in altri paragrafi, se si vanno a leggere le agiografie sono tutte, in modo desolante, simili. Qualche autore ha inventato qualche tortura in più ma, in definitiva, alla lettura della seconda o terza agiografia un lettore attento e cosciente inizia ad annoiarsi. Non era con queste storie straordinarie che si poteva attirare l’attenzione di persone da convertire su questioni taumaturgiche. Solo quando vi era il ricorso ad una qualche memoria collettiva dell’antico paganesimo, solo allora si risvegliava l’intervento sul corpo come cura tendenzialmente medica. Insomma solo quando un santo assumeva le sembianze di un dio antico, con il quale si poteva praticare una primitiva medicina solo allora si risvegliavano gli interessi dei convertiti. E perché ciò avvenisse non era determinante la vita più o meno eroica del santo ma, spesso, bastava che il suo tempio (chiesa) fosse stato costruito in luogo storicamente sacro
MIRACOLI
I santi e le reliquie non erano altro che un mezzo per ottenere dei miracoli. La Chiesa, per far finta di essere monoteista, afferma che i miracoli li fa solo la Trinità, tutte le richieste rivolte a santi e alla Vergine Maria, servono solo per cercare un tramite che inoltri la richiesta ad una delle persone della Trinità. E con questo vincolo iniziale, a partire da Costantino, crebbe la richiesta di miracoli, non più solo legati alla salute propria e delle persone care, ma di ogni genere, non esclusi gli straordinari. La credulità anche di persone colte era preparata ad accettare tutto ed a tramandarci tutto. A partire dal V secolo sorse il problema della fine dei martiri con la memoria che tendeva a dimenticarli. Fu necessario inventarne di nuovi da pescare tra santi monaci, eremiti, vescovi, asceti del deserto. Ma che ci si fa con tanti santi ? Essi, per quanto si possa costruire intorno sulle loro sante vite, sulle imitazioni e sciocchezze simili, servono solo per una cosa: per fare miracoli. E’ il fenomeno oggi noto come consumo che in questo caso è consumo del santo. Ed una persona non può essere santificata se non ha fatto dei miracoli, anche se, come di recente, basta inventarsi qualche miracolo da circo per ottenere il risultato: se un bambino balbuziente si avvicina ad Antonio ed inizia a parlare fluentemente, allora Antonio può diventare santo. Di interesse è scoprire che gli agiografi, scoperto un particolare miracolo per un dato santo, lo ripetono uguale per molti altri santi. Ma che importa, tanto ogni pecorella del gregge ha il suo protettore e quel miracolo è certamente solo del suo protettore che è il miglior santo di tutti. Ed è inutile dire che tutte le favole belle ma anche orrende riguardanti i martiri si ripeterono senza vergogna per i santi monaci. Chi scrive di questi santi spergiura di averli visti all’opera, racconta di fantastici viaggi per visitare quell’eremita nel deserto (mai fatti ma copiati dalle cronache di qualche viaggiatore del passato), tutto ciò è falso e, se lo si scopre, ci si nasconde dietro il fin di bene. Così avanzano i miti che riempiono i racconti nelle notti fredde e nevose di famiglie raccolte davanti al camino. Deschner [1] riassume questi miti in santi monaci che producono il contorcimento dei diavoli solo mostrando una reliquia, in briganti che si lasciano catturare alla sola presenza di tali monaci, di resurrezioni continue, in angeli che alimentano gli asceti, di eroi cristiani che attraversano i fiumi a piedi o il Nilo sul dorso di un coccodrillo, del Sole che si ferma ad un ordine di così potenti santi. Appena morivano i cadaveri emanavano odori paradisiaci ed in punto di morte del sant’uomo il cristiano fedele che assisteva sofferente alla perdita di chi avrebbe potuto fargli un miracolo, già studiava il modo di tagliargli almeno un dito, santa reliquia. Deschner [1] racconta anche del primo monaco cristiano, l’eremita San Paolo di Tebe (230-335 circa). Costui fu alimentato dai suoi 43 anni fino alla morte ai 113 anni, per sessant’anni, da Dio che gli inviava ogni giorno mezzo pane mediante un corvo (i corvi hanno sempre avuto un ruolo importante se anche San Benedetto nel suo eremo di Subiaco era alimentato da un corvo). Ma Paolo era andato in quella grotta, per scampare alla persecuzione di Decio e Valeriano, quando aveva solo 16 anni e fino ai suoi 43 anni si era cibato dei frutti di una palma. Quando Sant’Antonio Abate andò a trovarlo nella sua grotta nel deserto, Dio inviò due pani al giorno invece del solito mezzo. Andato via Antonio, nel suo cammino ebbe la visione di Paolo che era morto. Tornò indietro e trovatolo morto, volle seppellirlo ma non sapeva come. Si fecero allora avanti due leoni che scavarono una fossa. Ed Antonio ebbe ancora a che fare con bestie feroci, sempre a lui ubbidienti ma anche con diavoli che di lui avevano il terrore. Anche Antonio fu un grande taumaturgo in malattie impossibili: una volta guarì una giovane le cui escrezioni da naso, orecchie ed occhi divenivano subito vermi al contatto con il suolo. E con i suoi immensi poteri vide un altro santo taumaturgo, Ammun (ricordato per essere vissuto in assoluta castità per i 18 anni del suo matrimonio con sua moglie), mentre si involava verso il cielo.
Altri miracoli ricorda Deschner [1] che riporto in somma sintesi.
Un asino di Zosimo viene mangiato da un leone. Allora Zosimo, per risarcirsi prende il leone felice e scodinzolante, lo carica su un carro e se lo porta a casa.
Eugenio l’Egiziano viene gettato in una fornace e ne esce indenne per andare a cercare una reliquia dell’arca di Noè. Ma la reliquia era sepolta in profondità. Intervenne allora un angelo a scavare.
Santo Macario guarisce un drago che si inginocchia davanti al santo per ringraziarlo.
Santo Simeone guarisce un altro drago che per ringraziarlo si prostra in venerazione del convento del santo per varie ore.
I monaci possono tutto: guariscono ogni ossessione, tra cui quella di una donna che aveva ingoiato di seguito 30 polli; con un poco di acqua benedetta fermano l’invasione di cavallette; resuscitano ogni morto; catturano ogni bandito; trasformano in potabile l’acqua del mare; sono alimentati con pani provenienti dal cielo; il cammino viene sempre loro indicato da qualche volenteroso che dimora in cielo; per l’eucarestia, ogni fine settimana ricevono direttamente dal cielo corpo e sangue di Gesù; eseguono con successo esorcismi su cammelli; raccontano da testimoni la metamorfosi di una donna in giumenta.
Finiti i santi martiri ed i monaci asceti ed eremiti, anche i vescovi diventano santi con i loro miracoli.
Porfirio di Gaza, di fronte ad una tremenda siccità, prega e fa piovere.
Donato di Euroa ammazza i draghi sputandogli.
Il vescovo ariano Nerse si trovò esiliato da Valeriano, insieme ad altri 72 vescovi, in un’isola deserta, priva d’acqua e di alimenti. La morte per sete e fame era certa. Nerse fece inginocchiare tutti e raccontò i vari prodigi del Vecchio Testamento per ricordare a tutti quanto potente è il Signore. Allora si scatenò una tempesta che dal mare scaraventò sull’isola montagne di pesce e vari pezzi di legna che si accese da sola. I vescovi, come loro eterno ed attuale costume, mangiarono a volontà. Dopo essersi saziati ebbero sete e Nerse fece un buco nella sabbia e da lì sgorgò una sorgente di acqua potabile e fresca. E poiché stettero in quell’isola nove anni, quei fenomeni si ripeterono giornalmente per nove anni.
Il santo vescovo armeno Chad de Bagravand, allievo di Nerse, dava sempre da mangiare ai poveri svuotando le intere botti di riserva che aveva. Ogni volta che tornava a prendere cibo dalle botti esse erano sempre di nuovo piene. Un giorno dei ladri rubarono il bestiame del convento. Quei ladri furono accecati ed a tentoni riportarono le bestie al convento. Chad li guarì e regalò loro le bestie che avevano rubato.
Martino di Tours riusciva a fare tanti miracoli e tutti di grande spessore tanto che la stessa imperatrice lo serviva a tavola con devozione. Un giorno un antico e gigantesco abete stava cadendo e Martino con un segno della croce deviò la sua traiettoria dalla parte opposta, dove l’abete fece danni enormi. Tra i tanti ordinari miracoli (guarigioni con semplici toccamenti o solo sentendo il suo nome e tre resurrezioni) esorcizza una mucca che gli si inginocchiò per ringraziarlo. Notevole il suo impietrire una intera processione che riteneva idolatra ed il suo resuscitare un impiccato.
San Benedetto da Norcia (personaggio che io stimo molto per la sua Regola, l’Ora et Labora che per la prima volta in Occidente ridette dignità al lavoro manuale elevandolo alla stessa dignità del lavoro intellettuale. In ogni caso le agiografie popolari gli assegnano vari miracoli) fa sgorgare acqua da una roccia; riconosce la bevanda avvelenata che alcuni preti, come al solito lascivi e corrotti, di Subiaco gli inviano per togliersi di torno il moralizzatore; allo stesso modo con un pane avvelenato; resuscita due morti; riesce a far camminare sull’acqua il suo discepolo Mauro che non solo non affonda ma neppure si bagna i piedi; è in grado di esercitare la telepatia e la divinazione (vaticina l’ascesa e la morte di re Totila).
Quando però si parla di miracoli non ci si sofferma su quanto siano stravaganti molti di essi. Il cane che parla, il cammello (derivato da cattiva traduzione perché nel testo si parlava di una corda di cammello) che più volte viene fatto passare attraverso la cruna di un ago, il tonno secco che viene rimesso in mare e nuota vispo e felice. Ma anche su cose più gravi si costruisce un qualcosa che nessun dio oggi oserebbe proporre: San Lorenzo che sulla graticola parla tranquillo di filosofia, martiri dal cui sangue prendono il volo delle rondini, San Romano che mezzo bruciato declama 260 versi contro il paganesimo (aggiungendone cento dopo che gli hanno strappato la lingua), San Ponziano che cammina tranquillo sui carboni ardenti, viene torturato senza effetto, viene cosparso di piombo bollente da cui esce illeso ma che, per colmo di sfortuna, si fa trafiggere da una spada. …
Ma non tutti i miracoli sono per alleviare pene, molti erano per punire ed abbiamo già visto, ad esempio, l’accecamento dei ladri. Giacobbe di Nisibi osservò alcune fanciulle che si lavavano alla fontana. Le svergognate non abbassarono prontamente le vesti e Giacobbe le tramutò in vecchie (ecco, uno così sarebbe da picchiare). Apollonio, durante il regno di Giuliano, fece rattrappire nell’immobilità un’intera assemblea di pagani. San Pacomio era intento a costruire un suo eremo ed alcuni suoi nemici cercarono d’impedirglielo. Fu allora che un angelo del Signore li bruciò tutti. Altri miracoli punitivi furono per fortuna indirizzati contro statue di divinità pagane che si distruggevano o si liquefacevano come cera. San Maurilio, vescovo di Angers, riesce a cancellare dalle fondamenta un tempio pagano. Libera uno schiavo uccidendo con le preghiere il suo padrone che poi resuscita e poi è artefice di tanti prodigi che sarebbe lungo elencare.
A tutto questo arsenale di favole vi sono da aggiungere le visioni. Immaginate un eremita, un asceta, una persona che si fustiga e che indossa il cilicio, che digiuna, che si mortifica, che si obbliga a non dormire, che è solo da anni, che mortifica i desideri della carne, … ebbene, uno così non dovrebbe avere visioni ? Dei sogni fantastici che, al risveglio, riempirà di significati ? Una bella donna avanza verso di lui. Può essere una donna qualunque magari vogliosa ? Ma no, è la Madonna che viene a fargli visita e consolarlo. Poi sente delle voci, poi vede diavoli con cui combatte, poi vede anime di santi morti, … Visioni o allucinazioni ? Se un cristiano eretico (ad esempio un ariano) raccontasse queste cose ad un cristiano ortodosso, quest’ultimo direbbe che si tratta di allucinazioni. Diverso è il caso del cristiano ortodosso con tali sogni: si tratterebbe di una visione che tende ad avvicinarlo alla santità. Chissà come sarebbero intese le visioni di un ateo, di uno come me, che in eterni periodi di castità forzata sognava splendide donne. O che in altrettanto lunghi periodi di fame nera sognava pane, solo pane e mortadella.
Tutte queste favole, a volta simpatiche a volta orride, furono spacciate per vere da tutti i massimi pensatori della Chiesa. Vi erano legioni di scrittori di queste favole, in gran parte privi di fantasia, che venivano accreditati da Santi Padri. Non si sa bene se anche costoro credessero davvero o opportunisticamente fornissero erba al gregge. Tra quarto e quinto secolo questa era la formazione dei cristiani e se qualcuno poneva qualche obiezione nella migliore delle ipotesi era azzittito e nella peggiore accusato di eresia.
Ed oggi, come considera la Chiesa tutti questi racconti demenziali ? Il suo atteggiamento è il medesimo da secoli. Non bisogna credere a queste cose ma se restano nella nostra storia servono solo perché hanno un carattere edificante. Se si chiede cosa edificherebbero non rispondono ma noi sappiamo che si tratta di beni immobili. Molti santi martiri o sante vergini sono state depennate dagli elenchi ufficiali di santi. Molti di essi sono ritenuti fantastici e quindi non più credibili. Molte delle gesta di coloro che restano riconosciuti sono ritenute favolistiche e quindi si ammette che non sono più da credere. Eppure se si gira per siti web realizzati da organizzazione cattoliche, se si fa una capatina in una qualche chiesa dedicata a qualche martire, si ritrova tutta la paccottiglia che ufficialmente sarebbe stata gettata via. Funziona così con la Chiesa: con una mano nega e con l’altra ammette. Un esempio ? Padre Pio, il truffatore come fu definito dalla Chiesa stessa. Questo fin quando i soldi che affluivano in gran quantità a San Giovanni Rotondo erano utilizzati in loco per arricchire lo stesso padre Pio e qualche suo socio delinquente. Poi il Vaticano ottenne il trasferimento di ogni provento a Roma. Da quel momento Padre Pio è stato assolto da ogni furto e contatto osceno con giovanette ed addirittura santificato. Analogamente con la vergogna mondiale della Madonna di Medjugorje sulla quale si dice che dobbiamo studiare, sulla quale si nominano commissioni (di bigotti e beghine), sulla quale si resta in sospeso, … mentre il turismo gestito da preti e suore fa centinaia di milioni di utili. Stessa operazioni con Madonne che piangono, con veggenti di varia estrazione. Lo stesso fu con tutte le apparizioni mariane specialmente se finalizzate a far vincere le elezioni agli amici politici di turno. D’altra parte perché coltivare una qualche speranza ? La Chiesa è sempre vissuta coltivando falsificazioni ed imbrogli. Pretendere da lei una qualche marcia indietro da tali pratiche corrisponderebbe alla sua buona morte, alla sua eutanasia che, se non altro per ragioni di fede, non potrà mai ammettere.
LA PROLIFERAZIONE DEI SANTI MALANDRINI
Oltre ai martiri, alle vergini, ai monaci, ai vescovi, vi furono anche santi d’altro tipo, tra cui i papi. Tra tutte queste vi saranno pure state delle sante persone nel senso che le persone per bene danno a questa parola ma, se si studiano con attenzione le vite dei santi relazionandole con gli interessi della Chiesa, si scopre che la maggior parte dei santi furono proclamati tali per interessi speciali della Chiesa medesima.
Arrivato però a questo punto non posso trattare con dettagli quanto ho or ora annunciato ma debbo limitarmi a fare qualche nome indicando di seguito i motivi che, a mio giudizio, non avrebbero dovuto portare alla santità tali personaggi:
Sant’Elena, la madre di Costantino e concubina del padre, era una bagascia che lavorava in una taverna dei Balcani dando sollievo ai viandanti tra i quali il padre di Costantino.
Santa Costanza, dedita al crimine insieme a suo marito Gallo (cugino di Giuliano) fatto per questo decapitare dall’Imperatore Costanzo II
Sant’Agostino, impenitente libertino, non aveva alcun rispetto per la gente che considerava carnale ed ignorante. Fu del tutto indifferente al sacco di Roma da parte di Alarico
Sant’Ambrogio, un governatore romano non battezzato, eletto a vescovo di Milano che inventò i martiri Gervasio e Protasio
San Damaso I, un vero assassino al quele ho già accennato.
San Leone Magno (Papa), vietò l’elezione a Papa a chi non era raccomandato da famiglia nobile
San Gelasio I (Papa) vietò agli schiavi di diventare chierici
San Cirillo, capo di una banda di picchiatori, fu il mandante della squadraccia che uccise Ipazia e distrusse la biblioteca di Alessandria
Santa Clotilde santa perché convinse Clodoveo, re dei merovingi, a convertirsi
Santa Teodolinda santa perché convinse Agilulfo, re dei Longobardi, a convertirsi
San Gregorio VII, noto libertino. Fu sorpreso in flagrante adulterio con una giovane serva di un monastero; fece strangolare la sua governante Beatrice in una notte di follie libertine; fu egli stesso un impenitente libertino noto per i suoi amori scandalosi con la contessa Matilde; curò un’ulcera all’ano del sodomita Ubaldo, vescovo di Montoue, applicandogli nella parte ferita la mitra papale.
San Bernardo da Chiaravalle, noto guerrafondaio che predicò in tutta Europa le Crociate anche contro i Catari. Inventò la teoria del malicidio: chi uccide una persona malvagia, quale è chi si oppone a Cristo, non uccide una persona, ma il male che è in lei; dunque egli non è un omicida bensì un malicida e quindi lavora per maggior gloria di Dio.
San Domenico, mise su l’ordine che organizzò la criminale lotta all’eresia e che darà i migliori inquisitori
San Tommaso, un estimatore della pena di morte per gli eretici. Uno che teorizzava il non lavoro per il clero e l’esistenza della schiavitù. Un diffamatore delle donne che sono un errore che si genera quando predominano i venti dal sud.
Sant’Antonino Pierozzi, indegno diffamatore delle donne
San Bernardino da Siena, un cacciatore di streghe. Le additava al pubblico, accendendo sdegno e mistica esaltazione contro le nemiche; inviava guardie sulle loro tracce, placando le ire della comunità con la cattura e l’uccisione di quelle che egli indicava come responsabili di cattivi raccolti, di menomazioni o morti di neonati o di altri drammi individuali e collettivi.
San Carlo Borromeo presenziò a processi ed esecuzioni di centinaia di fattucchiere
San Pio V, un feroce persecutore di eretici. Fu nepotista ed elevò alla porpora cardinalizia ed alla Segreteria di Stato suo nipote (o figlio ?) Carlo con un olimpico salto dalla sua precedente occupazione di soldato. Esultò nel sapere della strage degli Ugonotti. Fece bruciare ed impiccare insigni filosofi ed umanisti. Pubblicò il primo Index dei libri proibiti.
A questo piccolo esempio di santi uomini del passato se ne possono aggiungere altri di epoca più recente.
San Giovanni Bosco che, secondo i miei criteri di giudizio, potrebbe essere santo ma non per la Chiesa che pure lo ha santificato. I gay, per la Chiesa, sono il peggio della turpitudine esistente e Giovanni Bosco era un gay impenitente.
San Escrivà de Balaguer, fascista spagnolo che benediceva ogni crimine del generalissimo Franco.
San Pio da Pietrelcina, un impostore. Un solo esempio: il gesuita e teologo Giandomenico Mucci, sul numero 3670 di Civiltà Cattolica del 2003, rivela che padre Pio, in una decina di lettere ai suoi direttori spirituali, copiò pari pari i racconti delle estasi di santa Gemma Galgani, come se le estasi le avesse avute lui. Mucci esclude il plagio e spiega la cosa con «un processo di identificazione spirituale». Ma un piccolo rimprovero a padre Pio lo fa: «Che un santo renda conto della propria situazione d’anima con le parole di un’altra persona, non avvertendo i destinatari, è un fenomeno quanto meno inatteso e lascia perplessi».
Le centinaia di santi e beati della Guerra Civile di Spagna, fabbricati da Giovanni Paolo II, violentando la storia dell’umanità.
MIRACOLI, RELIQUIE E SUPERSTIZIONE
Abbiamo visto che, da un dato momento, vi fu una vera e propria costrizione ad aderire ad una religione i cui culti, per i barbari, erano in una lingua sconosciuta ed incomprensibile. Non vi è alcuna differenza con i riti magici che si nascondono quasi sempre dietro formule incomprensibili. La religione così imposta è percepita dal popolo come una nuova e più potente superstizione che ne ha sostituito molte differenti. La superstizione si serve ora dei simboli cristiani, la croce, l’immagine della Madonna, l’ostia che era in grado di risanare i malati che l’avessero guardata fissamente durante una funzione religiosa. E non vi era motivo di agire diversamente se gli stessi riti nuovi del Cristianesimo si svolgevano nei vecchi templi pagani (negli stessi luoghi, nelle stesse festività) cristianizzati con l’abbattimento dei vecchi simboli, con acqua benedetta e con una croce sull’altare. Si poteva pretendere un’adesione convinta di massa alla nuova religione ? Si ebbe adesione ma solo per poter illudersi di avere quella protezione che tutti necessitavano sempre più, con la miseria che avanzava e con l’aiuto pubblico che veniva sempre meno in un mondo in disfacimento. La superstizione per gli antichi rientrava perfettamente nel quadro dei normali rapporti fra uomo e divinità. Essi erano convinti che la divinità, nella sua profonda bontà e onniscienza, intendesse avvertire l’uomo di eventuali pericoli e si avvalesse di segni o presagi, allo scopo di avvisarlo di calamità incombenti. Inciampare, udire il verso del gufo o della cornacchia, fare un cattivo sogno, erano, per la mentalità religiosa dei romani, dei veri e propri presagi, cioè dei segni con cui la divinità ci metteva in guardia contro un pericolo imminente. Solo gli uomini che non erano devoti, che escludevano ogni intervento delle divinità nella vita umana, negavano a questi segni ogni valore di presagio e irridevano le superstizioni. Ed il Cristianesimo, ai suoi inizi si presentò come una entità che disprezzava i rapporti con la divinità. Ma poi, arrivato al potere, recuperò subito.
Gli amuleti ed i talismani, che erano aborriti dai cristiani dei primi tempi, improvvisamente ritornano con filatteri appesi al collo anche a pii fedeli. E che funzione avevano se non la medesima ? Servivano anche ora sia per difendersi da malattie sia per proteggersi da pericoli che sarebbero potuti venire da nemici visibili ed invisibili. Ma il ritorno dell’amuleto e del talismano, apertosi il cammino con il filattero, poté espandersi ad ogni oggetto già usato nell’antichità, al più con la variante di un pater noster (o una alfa ed una omega) inciso su una pietra facente le funzioni del talismano, ma anche a nuove invenzioni. Kieckhefer ricorda che la cera benedetta raccolta alla festa della Purificazione era efficace contro i fulmini mentre il suono delle campane contro i temporali. Un agnello (Agnus Dei) di cera benedetto (forse) dal Papa proteggeva invece da varie calamità e malattie. Una pergamena arrotolata con su scritte varie preghiere era la salvaguardia contro ogni male, in particolare contro la morte improvvisa, per il portatore. Se si voleva difendere il proprio campo dalla grandine, occorreva recarsi a prelevare un poco di cera sulla tomba di Martino di Tours e depositarla su un albero. Disponendo di un filattero, si poteva andare in battaglia sicuri di tornare vivo. Ma attenti a giocare con qualche anche non voluta blasfemia perché i santi, con i resti in terra ma le anime in cielo, erano in grado di vedere, di udire e di punire.
Anche le ostie, con l’estendersi del rito dell’eucarestia, divennero poco a poco una sorta di reliquia. Dentro di esse vi era nientemeno che il corpo di Gesù anche se ciò reclamava maggiore fantasia e capacità di astrazione nel cogliere fino in fondo il nesso esistente tra ostia e Gesù con la conseguenza che l’ostia iniziò ad essere un amuleto dotato di un potere proprio. Arriviamo così all’uso improprio di oggetti sacri che disegnano una vera e propria superstizione. Con i teologi però in grado di difendere queste pratiche dall’accusa di magia demoniaca perché mai si richiamava un qualche demone attraverso quegli oggetti. Le cose sacre, se dispensavano qualche miracolo o prodigio, lo facevano utilizzando un potere che derivava da Dio e dai santi, cosa che non accadeva con gli amuleti ordinari che racchiudevano i poteri occulti in se stessi. E questa era la distinzione che la teologia cristiana, con alla testa Agostino, operava: il culto pagano è una superstitio perché si riferisce ad un qualcosa a cui non si deve alcuna adorazione (nessuno oserebbe adorare una zampa di coniglio) mentre il culto cristiano è per oggetti che sono solo un’intermediazione con Dio ed i santi. Inutile dire che si tratta solo di un atto di fede che potrebbe essere recitato anche da un pagano.
Analogamente per i miracoli la cui base teologica deriva da San Tommaso che in questo si muove nella tradizione agostiniana. I miracoli, secondo Tommaso, possono farli anche i Diavoli ed in tal caso andrebbero chiamati fenomeni magici. Ed allora qual è la differenza con i miracoli di Dio. I primi sono solo conseguenze di fatti naturali che possono essere spiegati scientificamente ma che ci sono presentati in modo da sembrare fatti straordinari. Abbiamo di fronte un giocoliere, un prestigiatore che cura con destrezza senza curare davvero. Le arti magiche non sono scienze ma veri imbrogli del Demonio. I miracoli di Dio realizzano invece una sospensione delle leggi di natura. Non è peregrino ricordare qui che queste elucubrazioni di Tommaso, insieme a molte altre, che non a caso costituiscono la base culturale della Chiesa, ebbero un ruolo preminente nella criminale caccia alle streghe.
E così, forti della solita autoassoluzione, del dirsi addosso che si esercita la vera religione e che si è in compagnia di Dio, quello vero, è possibile operare con riti del tipo esorcismo senza neppure pensare che l’evocazione di diavoli è un precipitare in un abisso infinito di ignoranza. Ma a che serve dirlo ? Il gregge ama passare al mattatoio delle coscienze e delle intelligenze, per maggior gloria di alcuni signori in gonnella e zucchetto, anche con scarpine rosse facenti pendant con la porpora.
O Gesù, Gesù !
Quanto qui scritto è una pia testimonianza, per usare parole care a lor signori. Non accadrà nulla e non smuoverà nessuno perché, come ho più volte detto, i miei concittadini amano vivere una tranquilla vita spirituale che, in somma sintesi, vuol dire: della religione in sé non mi interessa nulla; mi vanno bene tutti i fatti esteriori che tale religione richiede; non voglio che mi si complichi la vita con questioni metafisiche che sono per raffinati teologi; le gerarchie sono disoneste ed immorali ma io mi fido del prete della mia parrocchia che non abusa certamente dei miei figli; di fronte al crollo totale di ogni ideologia, mito, … preferisco restare in queste certezze; con cosa potrei poi sostituirle ? E questi santi uomini, così dediti al Cristianesimo, sono la mia morte civile, rappresentano l’impossibilità di evoluzione politica e sociale dell’intera società. Per maggior gloria di Gesù.
Amen.
NOTE
- E’ lo stesso Gibbon che racconta di queste stragi di soldati romani organizzate da ebrei. Scrive Gibbon: A Cirene massacrarono duecentoventimila Greci, a Cipro duecentoquarantamila, in Egitto una grandissima quantità di persone. Molte di queste vittime infelici furono segate in due, secondo una tecnica consacrata dall’esempio di Davide. I vittoriosi ebrei divoravano la carne, leccavano il sangue e si avvolgevano le budella di quei disgraziati intorno al corpo come una cintura. Si veda Dione Cassio, LVIII, p. 1145. Ma Gibbon, sempre citando Dione Cassio (LXIX, p. 1162), racconta anche la reazione romana: Nella guerra di Adriano furono passati per le armi cinquecentottantamila ebrei, oltre un numero infinito di essi che morirono di fame, di malattie e tra le fiamme. Pur in queste immense tragedie, e proprio per esse, gli ebrei erano riconosciuti nazione, cosa che non poteva in alcun caso essere assegnata ai cristiani che Paolo aveva sradicato dalla Palestina per mescolarsi con i gentili.
- Il termine pagano nacque quando il Cristianesimo iniziò ad espandersi e ad affermarsi. I seguaci delle più diverse religioni, che non cedettero al Cristianesimo, si ritirarono nelle campagne, in distretti rurali fuori città, ciascuno dei quali era chiamato pagus. L’abitante del pagus era il paganus da cui il nome che inizialmente connotava solo religioni diverse dal Cristianesimo e successivamente, ad opera della diffamazione dei cristiani, assunse una connotazione negativa.
- Secondo Gibbon, Nerone valutò la possibilità di accusare gli ebrei dell’incendio di Roma, tanto più che proprio in quegli anni vi erano scontri feroci in Palestina tra Roma e quelli che erano definiti terroristi (la storia non cambia se anche oggi chiunque lotta per liberare la sua terra è definito terrorista), scontri che portarono, solo sei anni dopo (70), alla distruzione del Tempio di Gerusalemme (che, secondo Gibbon fu distrutto più dagli ebrei che dai romani). Ma, scrive ancora Gibbon: gli ebrei avevano avvocati molto potenti nel palazzo imperiale e nel cuore stesso del tiranno [Nerone], la bella Poppea, sua moglie e signora ed un attore [Alituro] favorito della stirpe di Abramo, i quali avevano già interceduto per quella gente malvista. L’attore Alituro era stato colui che aveva intercesso con l’imperatore per il perdono di Giuseppe Flavio, l’ebreo e futuro storico che aveva combattuto contro Roma e poi era passato al servizio dell’Impero, e per la liberazione dal carcere a Roma di alcuni sacerdoti ebrei.
- Mazzarino, a proposito della persecuzione sotto i Severi, scrive: Ma sotto i Severi, così come sotto Commodo, la posizione sostanziale dei Cristiani restava sempre quella che già si riscontrò sotto Traiano: essi potevano essere perseguiti, solo se personalmente denunziati. Qualora non fossero denunziati, essi potevano tranquillamente professare la loro fede; e lo stesso Settimio Severo li tollerava, in tal caso. (Naturalmente, nessuno denunziava a cuor leggero personalità molto influenti, per esempio senatori o donne di famiglia senatoria.) Si può dire, in ultima analisi, che la «persecuzione» contro i Cristiani era sempre allo stato permanente, giacché anche quando l’imperatore non avesse emesso un preciso editto o rescritto contro di essi (così, per esempio, Commodo) era pur possibile accusarli e farli condannare – e quando, viceversa, l’imperatore avesse emesso un editto o rescritto contro di essi (così, appunto, Settimio Severo), era pur possibile che essi continuassero a riunirsi, salvo ad essere individualmente accusati (il che non avveniva a cristiani molto influenti) e quindi condannati. Il concetto di persecuzione è dunque un concetto da nuancer volta a volta, Esso ci chiarisce il più grave paradosso di questo stato romano, il quale ufficialmente dichiara un crimine di cristianesimo, ma lo punisce solo nei casi di una precisa denunzia (questa può verificarsi anche come autodenuncia, quando il cristiano dichiara – spontaneamente o su domanda – di essere cristiano).
- Decio fu acclamato Imperatore dalle sue truppe nel 249 in un momento di grave crisi per l’Impero (morì in battaglia solo due anni dopo nel 251). Egli ritenne necessario ritornare a dar forza all’Impero mediante un ritorno alla tradizione, ad una uniformità di culto e quindi ad un ritorno ai tradizionali dei di Roma. A tal fine emanò un editto in cui tutti i cittadini erano obbligati a sacrificare agli dei di Roma ed all’Imperatore e per attestare ciò a tutti era rilasciato un libellus (una specie di certificato) in cui si dichiarava l’avvenuto sacrificio. L’editto riguardava tutte le religioni, specialmente quelle egizie e le misteriche di origine asiatica ma, per l’entità numerica, la religione cristiana risultò la più colpita in quella che fu la prima persecuzione estesa a tutto l’Impero. Sembra da varie testimonianze cristiane che il fine della persecuzione non fosse fare martiri ma ottenere con metodi diversi l’abbandono del Cristianesimo da parte dei fedeli. In ogni caso Dionisio di Alessandria racconta che nella sua grandissima città si ebbero solo 17 esecuzioni in accordo con il numero irrisorio di martiri riportato da Origene. Anche il disonesto Eusebio di Cesarea parla di sole 91 vittime nella interra provincia di Siria e Palestina. I metodi per sfuggire alla persecuzione erano tre: fuggire, corrompere qualche funzionario per acquistare un libellus, rinnegare la propria religione. Molti cristiani utilizzarono questi metodi per salvarsi. Alla fine della persecuzione richiedevano di nuovo l’ammissione nella comunità cristiana (lapsi). Nasceva così la questione dei lapsi che creò gravi problemi alla Chiesa stessa con discussioni interminabili in diversi Concili e con la nascita di movimenti ereticali che rifiutavano la riammissione di questi pentiti nella comunità.
- Con finalità analoghe a quelle di Decio si mosse Valeriano nel 257 con un editto che obbligava, pena l’esilio, i vescovi, i preti ed i diaconi cristiani a sacrificare per la religione dei padri. A ciò si accompagnava il divieto di riunioni con il sequestro delle chiese e dei cimiteri (le catacombe) al fine di privare i cristiani delle loro guide per indebolire l’intera comunità. Nel 258 seguì un nuovo editto in cui l’esilio era sostituito dalla pena di morte per le autorità dello Stato (essenzialmente senatori e familiari) che risultassero convertite al Cristianesimo. Fatto notevole era il sequestro dei beni di costoro ed in realtà questo era il fine principale data la situazione disastrata delle casse dello Stato. La persecuzione terminò nel 260 quando Valeriano fu fatto prigioniero in battaglia con i persiani. A partire dal figlio di Valeriano, Gallieno, terminarono le persecuzioni fino a quella di Diocleziano.
- Diocleziano è descritto da tutti gli storici come estremamente tollerante con i cristiani tanto che varie cerimonie di culto si svolgevano a palazzo e coinvolgevano parenti dell’Imperatore. Egli aveva inaugurato la tetrarchia nominando un altro imperatore (un altro Augusto) nella persona di Massimiano e due vice imperatori (due Cesari) nelle persone di Costanzo Cloro e Galerio. Con Costanzo non vi furono problemi riguardo alla tolleranza verso il Cristianesimo. Problemi molto gravi sorsero in Oriente con Massimiano ed il suo vice Galerio in relazione a problemi militari che non potevano essere tollerati. Iniziò una condanna a morte contro un giovane africano, tal Massimiliano, presentato ai magistrati come persona valida per essere arruolata e che continuava a sostenere che la sua coscienza non gli consentiva di combattere. E fin qui vi era una generica coscienza. Il problema si chiarì meglio con l’azione del centurione Marcello, di stanza in Mauritania, che in una festività pubblica gettò le sue armi e proclamò ad alta voce che egli avrebbe ubbidito solo al suo Signore Gesù e che, in accordo con i suoi insegnamenti, rifiutava l’uso delle armi che servivano un sovrano idolatra. Fu immediatamente arrestato e condannato alla decapitazione come disertore. Ecco, vicende come queste con un carattere militare e civile (non immediatamente riconducibili alla religione) servirono subito ad alienare molte simpatie verso il Cristianesimo. Si fece strada facilmente l’idea che questi comportamenti di vari militari erano il frutto di una setta di fanatici che, con il loro comportamento minavano (e qui non si tratta di una questione ideologica legata al rifiuto di un sacrificio ad un dato Dio) la sicurezza dello Stato. Una setta, quella dei cristiani, che generava tali comportamenti, sempre più numerosi, doveva essere distrutta perché oggettivamente pericolosa per l’Impero. Come racconta Lattanzio (De mortibus persecutorum), Galerio parlò della cosa con Diocleziano nella sua residenza di Nicomedia. Diocleziano, nonostante tutto, tentò di resistere ma Galerio, forte dei suoi successi militari aveva la forza per insistere. Il problema fu sottoposto ad un consiglio di pochi dignitari di Stato che deliberò di fermare i cristiani. Le azioni contro i cristiani iniziarono nel febbraio del 303 con l’incendio della principale chiesa cristiana a Nicomedia e con la pubblicazione di un editto di persecuzione da estendere a tutte le province dell’Impero (tutte le chiese dovevano essere distrutte, i libri sacri dovevano essere bruciati, tutti i beni confiscati, ritorno all’obbligo di sacrificio agli dei di Roma, decadenza dei cristiani dalle alte cariche, divieto di riunioni). Non aiutarono i cristiani i due incendi del palazzo di Diocleziano a Nicomedia, dei quali furono immediatamente accusati (gli apologisti cristiani si divisero su due ipotesi: 1) un fulmine avrebbe colpito gli empi, richiamando così l’ira di Giove; 2) lo stesso Galerio aveva appiccato gli incendi). Da questo momento iniziarono molte esecuzioni dei fanatici ritenuti responsabili.
C’è solo da aggiungere che, in punto di morte (311), Galerio, Augusto d’Oriente (che aveva come suo Cesare Massimino Daia poi diventato Augusto in simultanea con Galerio nel 306), dettò ai suoi successori, Licinio (Augusto nell’Illirico d’Oriente dal 308) e Costantino (Cesare di Costanzo ed Augusto alla sua morte nel 308 nelle province galliche e ispaniche diOccidente), un editto generale di tolleranza verso i cristiani, riammessi al loro culto che potevano liberamente riprendere ad esercitare. L’editto valeva però solo nei territori controllati dai tre suddetti e non su quello amministrato da Massimino Daia (che poco dopo sarebbe divenuto anch’egli Augusto con il controllo d’Oriente e quindi delle province d’Asia escluso l’Illirico) che continuò la persecuzione. Per i primi sei mesi inviò una circolare a tutti i governatori nella quale diceva di smettere con le persecuzioni degli ostinati cristiani e quindi di smetterla con i processi liberando i prigionieri. Quindi si fece convincere dai suoi consiglieri pagani ad organizzare lo Stato così come lo era la Chiesa perché in questo risiedeva la forza dei cristiani. E così fece creando la centralizzazione dei vari culti pagani, con un pontefice, con sacerdoti vestiti di bianco scelti tra i personaggi importanti delle varie città sotto il suo controllo. Sistemate così le cose proseguì la persecuzione per pochissimo tempo però perché nella guerra civile Massimino fu sconfitto e morì, con la fine definitiva di ogni persecuzione. Occorre qui ricordare che gli Augusti Diocleziano e Massimiano avevano abdicato in favore dei loro Cesari Galerio e Costanzo Cloro. Costoro nominarono come loro Cesari, rispettivamente, Massimino Daia e Flavio Severo. Massimino Daia nel 308 ottenne il titolo di Augusto insieme a Costantino (figlio illegittimo di Costanzo Cloro) elevato a tale rango dai militari di stanza in Gallia e Britannia. Successivamente Massenzio, figlio di Massimiano, fu proclamato Augusto dai militari (di stanza in Italia ed Africa) subito dopo la morte (308) del legittimo aspirante al titolo, Flavio Severo. Con Massenzio, Augusto d’Italia ed Africa, per un certo periodo gli Augusti furono 4 ed in particolare si ebbero due Augusti in lizza sul medesimo territorio (l’Impero d’Occidente), Costantino e Massenzio. E’ il periodo della guerra civile che vedrà lo scontro armato tra Costantino (che aveva gli altri due Augusti come alleati) e Massenzio nella battaglia di Ponte Milvio del 312. L’anno seguente Licinio sconfisse Massimino Daia che si suicidò. Si era tornati ai due Augusti e Licinio, entrando in Nicomedia, emanò un rescritto (erroneamente conosciuto come Editto di Milano) in cui la libertà di culto era concessa anche ai cristiani d’Oriente:
« Noi, dunque Costantino Augusto e Licinio Augusto, essendoci incontrati proficuamente a Milano e avendo discusso tutti gli argomenti relativi alla pubblica utilità e sicurezza, fra le disposizioni che vedevamo utili a molte persone o da mettere in atto fra le prime, abbiamo posto queste relative al culto della divinità affinché sia consentito ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinché la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità. »
Dopo varie vicende si arrivò allo scontro armato tra Costantino e Licinio, scontro che si concluse nel 323 con la definitiva sconfitta di Licinio cui seguì l’assassinio dello stesso nel 324. In tal modo si ricostituì l’unità dell’Impero con Costantino unico Augusto.
- Con Atti dei Martiri si intendono una gran mole di scritti molto diversi tra loro che videro la luce negli anni. Si hanno gli Acta storici, dove si va da veri e propri verbali di interrogatorio di cristiani da parte dei magistrati di Roma, a racconti di interrogatori di cristiani fatti da testimoni oculari, ad una via di mezzo tra i due precedenti tipi di Acta in cui si ha a che fare con una storia scritta in modo letterario dei fatti precedentemente noti e scritti solo in forma di resoconto giudiziario. Si hanno poi gli Acta romanzati dove si va da racconti romanzati che prendono spunto da fatti veri e poi costruiscono tutto indipendentemente dalla verità storica. Si hanno ancora gli Acta fantastici in cui si inventa assolutamente tutto al fine di avere un testo che serva ad edificazione delle persone da convertire e che con il tempo sono diventati quasi storici. Si hanno infine vari tipi di Acta sui quali sarebbe lungo insistere (Calendaria, Martirologi, Itinerari, vari scritti di Padri della Chiesa, raccolte di Vite di martiri fatte da vari personaggi tra cui Eusebio).
- Dal sito http://www.educazione.sm/ riporto altre agiografie di San Procopio:
Siamo nell’epoca di Diocleziano e della terribile persecuzione contro i Cristiani da lui ordinata. L’imperatore ci viene descritto mentre si reca in Egitto per mettere in fuga l’usurpatore Achille, poi va a visitare la città di Antiochia, dove il senato gli tributa una specie di idolatrica professione di fede pagana.
Viveva a Gerusalemme, chiamata in quel tempo Elia, una nobile donna di nome Teodosia, che aveva un figlio, Neania, pagano come lei. La madre, sapendo che Diocleziano era a poca distanza, decide di condurre suo figlio ad Antiochia per raccomandarlo alla benevolenza dell’imperatore. Costui, incantato dal bell’aspetto del giovane e dal suo zelo per il culto degli idoli, lo crea subito duca di Alessandria e gli raccomanda di ricercare attivamente i cristiani e di punirli con severità perché erano folli e malvagi.
Neania parte dunque per eseguire la sua missione, imbevuto di odio e rancore. Mentre sta per intraprendere la sua missione, sopravviene un terremoto, accompagnato da lampi, e una voce proveniente dal cielo gli chiede: Dove te ne vai Neania? Nello stesso tempo gli appare una croce di cristallo, mentre la voce continua: Io sono Gesù crocifisso, il figlio di Dio. Tu sarai per me un vaso di elezione e con questo segno vincerai.
Neania, soggiogato, va con i suoi soldati a Scitopoli per farvi fabbricare, da un certo Mario, una croce in oro e argento, simile a quella della visione. Una volta terminata, sulla croce compaiono miracolosamente tre immagini con i nomi di Emanuele, Michele e Gabriele scritti in ebraico. Per mezzo della croce straordinaria Neania riesce a porre in fuga un esercito di nemici uccidendone addirittura seimila.
In seguito torna presso la madre, spezza tutti gli idoli che erano in suo possesso, regalando ai poveri i pezzi dei materiali preziosi da cui erano composti. La madre, spaventata, lo denuncia a Diocleziano che, per consolarla, le permette di adottare a suo piacimento un senatore come figlio, e manda una lettera al governatore Ulcione, con cui gli ordina di catturare Neania, d’interrogarlo e di farlo perire fra i tormenti se avesse persistito nella sua empietà. Neania, dopo aver preso cognizione della lettera dell’imperatore, la strappa in mille pezzi dichiarandosi cristiano. Il governatore a quel punto lo fa incatenare e condurre a Cesarea.
Qui Ulcione inizia il processo a Neania facendolo legare e tormentare per un tempo lunghissimo con uncini di ferro. Quando tutte le ossa del martire sono state messe a nudo, ed i carnefici non ne possono più, lo si riporta in prigione dove, a un certo punto, riceve la visita di alcuni angeli e di Gesù Cristo che, dopo averlo battezzato, gli cambia il nome in Procopio guarendolo da tutte le ferite.
Il giorno successivo ha luogo un nuovo interrogatorio alla fine del quale Procopio domanda d’esser condotto al tempio. Il giudice ed il popolo pensano che il martire abbia finalmente rinunciato alla sua religione e che voglia recarsi al tempio per sacrificare alle divinità pagane; Procopio per questo motivo viene condotto al tempio con gran pompa. Qui giunto, però, invece di rinnegare la fede cristiana, frantuma tutti gli idoli facendo un segno della croce.
A questo punto la leggenda è arricchita da due lunghi episodi: il primo s’incentra sulla conversione di diversi soldati che, recatisi a trovare Procopio in prigione grazie alla complicità del carceriere, sono da questi condotti presso il vescovo Leonzio che subito li battezza. Divenuti cristiani, vengono immediatamente catturati e martirizzati.
Il secondo racconta di dodici matrone, appartenenti a famiglie senatorie, che dopo avere aderito al Cristianesimo, muoiono fra spaventosi supplizi come i soldati, suscitando la compassione di Teodosia, madre di Procopio, che come loro si converte finendo essa pure martirizzata.
Poco dopo il governatore Ulcione contrae una febbre maligna e muore; viene però subito sostituito da Flaviano che riprende il processo a Procopio con le peculiarità della leggenda precedente.
Probabilmentequest’ultima leggenda è la sintesi di due storie inizialmente distinte: quella di un ignoto Neania, che si reputa accaduta sotto il governatore Ulcione, e l’altra di Procopio con Flaviano come giudice. Laprovenienza della leggenda di Neania è ignota, per cui non si sa quanto di vero e di fantastico contenga. E’ sicuramente un miscuglio di luoghi comuni, di reminiscenze, e di episodi desunti da altre leggende: la conversione di SanPaolo, lavisione di Costantino, gli atti di San Policarpo, ecc. L’introduzione di Neania nella leggenda ha determinato una metamorfosi quasi totale di san Procopio; della narrazione originale di Eusebio non si ritrovano che vaghi ricordi in alcuni nomi che l’agiografo ha voluto conservare. Questa seconda leggenda è molto antica: nel settimo secolo era già ben nota e godeva di un certo credito.
Vi è anche una terza leggenda dì San Procopio, anch’essa assai nota, che ci è giunta addirittura in due versioni poco diverse tra loro. E’ senz’altro scaturita dalla seconda leggenda, e più di questa è farcita di citazioni dotte che, come è riscontrabile spesso nelle leggende più tarde, servivano agli agiografi per mostrare tutto il loro scibile, impreziosire le loro opere di ricami letterari, ingigantire ed esaltare i personaggi, i luoghi e le vicende su cui incentravano i loro racconti. Questa terza leggenda è tra tutte la più diffusa e conosciuta, e la figura di San Procopio, rimasta nella tradizione soprattutto come soldato martire, è modellata in base alle vicende in essa contenute.
- La storia di Barlaam è una riscrittura della leggenda di Buddha. “Essa narra del principe indiano Iosafat al cui padre, pagano, viene predetto che si convertirà al cristianesimo: Iosafat viene quindi tenuto lontano dalle miserie del mondo, in mezzo al lusso ed ai piaceri, ma ciò non gli impedisce di prendere coscienza delle miserie della vita umana (conosce la malattia, la vecchiaia e la morte). Il giovane viene quindi convertito dal santo eremita Barlaam e, divenuto eremita egli stesso, converte al cristianesimo il padre ed i sudditi” (da Wikipedia). Da notare che siamo in epoca in cui si sentono gli influssi orientali dell’Asia Centrale (buddismo, zoroastrismo, manicheismo) sul Cristianesimo.
- San Marino era un soldato romano martirizzato sotto l’imperatore Gallieno a Cesarea di Palestina. Fu denunciato come cristiano da un commilitone ostile, professò a chiara voce davanti al giudice la propria fede, ricevendo la corona del martirio con la decapitazione realizzata inizialmente di un tal Verissimo che cadde fulminato al momento di tagliare il collo a Marino.
- Dal sito santiebeati.it apprendiamo che la popolarità di Sant’Efisio di Cagliari è dovuta al racconto del suo martirio scritto da un certo prete Mauro, che asserisce di essere stato tra i testimoni della gloriosa morte di S. Efisio “a principio usque ad finem“, cioè dall’inizio dei terribili supplizi, ai quali il martire fu sottoposto, fino alla conclusione del cruento dramma. Gli studiosi non ne sono per nulla convinti e ritengono l’autore di questa Passio, scritta dopo la liberazione della Sardegna dai Saraceni, un insigne falsario.
- Una gran mole di agiografie di santi martiri si può trovare nello scritto della metà del XVIII secolo (poco attendibile) di S. Alfonso Maria de Liguori, Vite di martiri che raccoglie vari martirologi precedenti (ed in cui si racconta anche la storia di Teodora e Didimo). Si può leggere questo scritto in http://www.intratext.com/IXT/ITASA0000/__P3JP.HTM. Altro scritto, questa volta della fine del IV secolo, è il Peristephanon Liber di Prudenzio. In vari martirologi vi sono poi agiografie ripetute di martiri più noti di altri (anche se ormai obsoleti). Tra questi vi è San Genesio Martire, il quale, essendo prima pagano e commediante, mentre nel teatro, alla presenza dell’Imperatore Diocleziano, metteva in burla i misteri dei Cristiani, improvvisamente, ispirato da Dio, si convertì alla fede e fu battezzato. Poco dopo, per ordine dell’Imperatore, fu percosso crudelissimamente con bastoni, quindi sospeso sull’eculeo (il già incontrato cavalletto, ndr), con uncini fu lacerato per lunghissimo tempo e anche abbruciato con fiaccole. Finalmente, perseverando nella fede cristiana, dicendo: “Non vi è altro Re che Cristo, per il quale se mille volte io fossi ucciso, voi non me lo potreste mai togliere nè dalla bocca, nè dal cuore”, colla decapitazione meritò la palma del martirio [da Sicari]. Vi è San Lorenzo, raccontato in vari siti come vittima d’una persecuzione di carattere fiscale, istigata dal ministro delle finanze ed attuata dall’Imperatore Valentiniano, che, nel 257, cercò di spogliare la nascente Chiesa sospettata di avere accumulato segreti tesori. Arrestato e richiesto di consegnare i tesori, San Lorenzo si dimostra cristiano esemplarmente saggio, nel distinguere la vera ricchezza della Chiesa, cioè la carità. Radunati i ciechi, gli storpi, i malati e i poveri della città, li presenta all’Imperatore, dicendo: ” Ecco i tesori eterni, che non diminuiscono mai e che fruttano sempre, sparsi in tutti e dappertutto”. Questa risposta, rispondente alla verità sembrò ai messi dell’Imperatore addirittura beffarda. Perciò l’Arcidiacono Lorenzo venne arrestato e lungamente martirizzato. Egli affrontò poi il lungo martirio, nel quale il fuoco era solo estrema risorsa dei persecutori. E quando venne steso sul letto di ferro, sopra la coltre rosseggiante dei carboni accesi, rifulge ancora il suo amore per il prossimo. Pronunciò infatti una bellissima preghiera per tutta la città di Roma. Tutti conoscono poi le leggendarie sue ultime parole, sulla griglia infuocata: “Ecco, da questa parte sono cotto; rivoltatemi e mangiate!”. Ma non tutti sanno che prima di spirare rivolse a Dio il suo spirito, dicendo: “Ti ringrazio, mio Signore, perché ho meritato di attraversare le porte del Tuo Regno”. Abdon e Sennen sono due martiri, certamente esistiti nel III secolo, che subirono il martirio a Roma. Si tratta di due principi persiani, che nella loro condizione di schiavi o di liberti a Roma, si prodigavano a seppellire i martiri. Questo loro impegno li fa accusare presso l’imperatore Decio (200-251) che li fa mettere in prigione; in seguito essi compaiono davanti al Senato, rivestiti da abiti dignitosi ma incatenati. Giacché rifiutarono, secondo la prassi, di sacrificare agli idoli, vennero condannati a morte e condotti nell’anfiteatro dove sorgeva il Colosso di Nerone, fra l’Anfiteatro Flavio e il tempio di Venere, per essere divorati dalle belve feroci. Ma essi miracolosamente ammansirono gli animali, che li evitarono, allora Abdon e Sennen vennero decapitati dai gladiatori. I loro corpi vennero gettati davanti alla statua del Sole, dove rimasero tre giorni, finché il diacono Quirino li raccolse nascondendoli nella sua casa, dove restarono per lunghissimo tempo [da santiebeati.it]. “In Praeneste, dies natalis” (città natale) di Sant’Agapito martire, che essendo di 15 anni e ardendo di amore per Cristo, per ordine di Aureliano, fu steso sull’éculeo e battuto a lungo con crudi flagelli; poi, sotto Antioco prefetto, soffrì supplizi ancora più crudeli, e, in ultimo, essendo esposto ai leoni e non riportando alcun danno, con il taglio della testa ricevette la corona” [da santiebeati.it]. San Vincenzo di Saragozza figlio del console Eutichio e della matrona Enola fu martire, insieme al suo vescovo Valerio sotto Diocleziano. Secondo una leggenda agiografica, il prefetto Daciano tentò invano di piegare la volontà di Valerio e Vincenzo e di fiaccare i loro corpi anzi si meravigliò, quando vennero portati al suo cospetto, di trovarli ancora in buone condizioni fisiche. Daciano si adirò con le guardie, accusate di essere state troppo tenere con i due cristiani, poi cercò di adoperare le armi della persuasione. Queste furono le parole di Vincenzo anche a nome di Valerio:
| « La nostra fede è una sola. Gesù è il vero Dio: noi siamo suoi servi e testimoni. Nulla noi temiamo nel nome di Gesù Cristo e vi stancherete prima voi a tormentarci che noi a soffrire. Non credere di piegarci né con la promessa di onori né con la minaccia di morte, perché dalla morte che tu ci avrai dato saremo condotti alla vita. » |
Daciano mandò il vescovo in esilio e riversò la sua ira su Vincenzo. Il primo supplizio a lui riservato fu quello dell’eculeo: uno strumento di tortura terribile che lussava tutte le ossa del corpo. Vincenzo rimaneva con gli occhi al cielo in preghiera, come se il supplizio non lo riguardasse. Daciano, pensando che la tortura fosse troppo lieve, comandava di arpionare il corpo con uncini di ferro. Vincenzo conservava lo stesso atteggiamento. Anzi così parlava rivolgendosi al carnefice:
| « Tu mi fai proprio un servizio da amico perché ho sempre desiderato suggellare con il sangue la mia fede in Cristo. Vi è un altro in me che soffre, ma che tu non potrai mai piegare. Questo che ti affatichi a distruggere con le torture è un debole vaso di argilla che deve ad ogni modo spezzarsi. Non riuscirai mai a lacerare quello che resta dentro e che domani sarà il tuo giudice. » |
II prefetto, con gli occhi fuori dall’orbita per la rabbia, ordinò le ultime atrocità: il martirio a graticola e le lamine infuocate. Vincenzo continuava a sopportare le torture impassibile. Daciano allora decise di sospendere quel genere di torture. Vincenzo fu portato in un’oscura prigione e disteso sopra cocci di vasi rotti perché gli si rinnovassero le piaghe e i dolori. A quel punto avvenne il miracolo: le catene si spezzarono e i cocci si trasformarono in fiori, mentre uno splendore di luce celestiale illuminò la cupa prigione. Gli angeli scesero dal cielo per consolare Vincenzo e prepararlo a godere del Paradiso. Il carceriere del Santo si convertì. Daciano si apprestò all’ultimo tentativo : convincere Vincenzo non più con le torture ma con favori. Lo fece trasferire su un letto e gli concesse di ricevere i suoi amici, cercando invano di piegarlo con le lusinghe. Una leggenda miracolistica racconta che dopo la morte Daciano ordinò che il corpo del martire venisse gettato in un campo deserto e dato in pasto alle fiere: Dio però sarebbe intervenuto mandando un corvo a vegliare ed a difendere le spoglie del Santo. Successivamente, il prefetto ordinò che il cadavere fosse rinchiuso in un sacco e gettato in mare, legandovi un grosso sasso in modo da trascinarlo in fretta al fondo. Ma il sasso avrebbe galleggiato e la brezza avrebbe trasportato le sacre spoglie verso una spiaggia dove sarebbero state raccolte in seguito ad una doppia apparizione, ad un cristiano e ad una vedova: lo stesso Santo avrebbe indicato il luogo dove giaceva il suo corpo e dove sarebbero accorsi i fedeli per dargli onorata sepoltura. Oggi le reliquie del Martire sono custodite un po’ ovunque. Il corpo custodito ad Acate in Provincia di Ragusa, venerato come il Martire di Saragozza, è in realtà un martire omonimo proveniente della catacombe romane [da Wikipedia]. San Cipriano nacque a Cartagine verso il 210. Dopo tre anni dalla sua conversione al Cristianesimo, fu eletto vescovo della sua città. Ritiratosi in clandestinità durante la persecuzione di Valeriano, venuto a conoscenza di essere stato condannato a morte, tornò a Cartagine per dare testimonianza di fronte ai propri fedeli e venne decapitato nel 258 [da santiebeati.it]. Nel primo pomeriggio di domenica 16 gennaio dell’anno 259, all’ora della siesta, alcuni soldati bussano alla porta del vescovo di Tarragona, Fruttuoso, che li accoglie in pantofole nell’ingresso di casa. E’ appena stato emanato il secondo editto dell’imperatore Valeriano contro i cristiani e i soldati sono stati inviati con il preciso scopo di accompagnare il vescovo Fruttuoso davanti al console Emiliano. Gli viene concesso di posare le pantofole e di calzare un paio di scarpe e insieme a lui portano via anche i due diaconi, Augurio ed Eulogio. Che non si tratti di una semplice convocazione, ma di un arresto in piena regola, lo dimostra il fatto che i tre vengono subito rinchiusi in carcere.. I cristiani tarragonesi non abbandonano il loro vescovo e non si vergognano di lui: fanno anzi la fila per andarlo a trovare e a portargli un po’ di viveri, e tutto questo movimento probabilmente induce il console ad accelerare i tempi del processo. Senza contare che Fruttuoso non cessa neppure in cella di esercitare il suo ministero: di sicuro si sa che amministra un battesimo, ma è probabile che abbia anche confessato fino all’ultimo. Cioè fino al venerdì successivo, 21 gennaio, quando Fruttuoso e i suoi due diaconi, vengono portati in tribunale. La loro testimonianza è limpida e coraggiosa, resa con una serenità ed una forza che impressionano. Li condannano ad essere bruciati vivi, quel giorno stesso, nell’anfiteatro. “Devo custodire nel mio animo l’intera chiesa cattolica che si espande da oriente a occidente”, risponde Fruttuoso a quei suoi fedeli che pretenderebbero da lui un ricordo particolare dall’aldilà. Su una catasta di legno si consuma lentamente e dolorosamente il loro sacrificio, mentre i tre martiri si sostengono a vicenda e cantano la loro fede fino all’ultimo. A sera, quando anche le ultime fiamme si sono spente, i cristiani si precipitano su quello che resta dei poveri corpi per accaparrarsi almeno una manciata delle loro ceneri, ma devono restituirle quanto prima, perché è lo stesso Fruttuoso ad esigerlo, apparendo in sogno a quei fedeli troppo devoti: quasi una prosecuzione “post mortem” del suo magistero, per tutelare la fede dei suoi cristiani da ogni forma di fanatismo o superstizione [da santiebeati.it]. San Quirino vescovo, nell’anno 309 durante la persecuzione di Diocleziano fu arrestato dal preside Massimo e indotto a sacrificare agli dèi, come prescriveva l’editto imperiale; si rifiutò decisamente e pertanto fu frustato e chiuso in carcere, dove poté convertire il custode Marcello. Trascorsi tre giorni, fu condotto dal preside della Pannonia Amanzio, il quale dopo averlo inutilmente sollecitato ad ubbidire, lo fece gettare nel fiume Sava con una pietra legata al collo. I cristiani ne raccolsero il corpo e lo seppellirono a Savaria nei pressi del luogo del martirio [da santiebeati.it]. Un’ultima citazione la merita San Neofito.Costui era di Nicea in Bitinia ed a solo nove anni era già in grado di fare da maestro ai suoi compagni. A dieci anni iniziò la sua vita ascetica ritirandosi dentro una grotta del monte Olimpo, dove una strana bestia rossa se ne andò per fargli posto. Quando aveva 15 anni, durante la persecuzione di Diocleziano, per aver rifiutato di sacrificare agli dei fu gettato dentro una fornace ardente. Naturalmente fu tirato fuori in ottimo stato ma solo per andare a morire decapitato (si noti che questo racconto viene passato dalla Chiesa come apocrifo perché esageratamente agiografico. Occorrerebbe ricordare che stesso episodio è nel Vecchio Testamento e riguarda Daniele ed i suoi compagni che scamparono una fornace sette volte più ardente del solito. E così via … indefinitamente.
(14) Gibbon nella sua Storia della decadenza e caduta dell’impero romano racconta:
Gli abitanti dei villaggi della Numidia e della Mauritania erano una razza di gente feroce, imperfettamente ridotta sotto l’autorità delle leggi romane, e imperfettamente convertita alla fede cristiana, ma animata da un cieco e furioso entusiasmo per la causa dei loro maestri donatisti. Essi sopportavano con indignazione l’esilio dei loro vescovi, la demolizione delle loro chiese e la sospensione delle loro segrete adunanze. La violenza dei magistrati, che ordinariamente erano sostenuti da una scorta militare, fu talora respinta con pari violenza; e il sangue di alcuni popolari ecclesiastici, sparso in quelle mischie, infiammò i loro rozzi seguaci di un ardente desiderio di vendicare la morte di quei santi martiri. Con la loro crudeltà e imprudenza, i ministri della persecuzione furono talora causa della propria morte, e la colpa di un casuale tumulto spinse i colpevoli alla disperazione e alla rivolta. Cacciati dai loro villaggi, i contadini donatisti si unirono in formidabili bande all’estremità del deserto getulico, abbandonando facilmente le loro fatiche abituali per una vita d’ozio e di rapine, che veniva consacrata col nome di religione e debolmente condannata dai dottori della loro setta. I capi dei circoncellioni [i circumcelliones erano donatisti che da una parte esaltavano forme di lotta miranti al conseguimento del martirio, dall’altra imponevano ai proprietari terrieri la liberazione degli schiavi e il condono dei debiti, ndr] presero il titolo di capitani dei santi. Essendo scarsamente provvisti di spade e di lance, la loro arma principale era una grossa e pesante clava, che essi chiamavano l’israelita; e il ben noto grido: «Dio sia lodato», che era il loro grido di guerra, spargeva la costernazione per le disarmate province dell’Africa. Da principio colorirono le loro depredazioni col pretesto della necessità, ma ben presto passarono la misura del vettovagliamento: soddisfacevano senza ritegno la loro libidine e avidità, bruciavano i villaggi che avevano saccheggiato e regnavano da licenziosi tiranni sulle campagne. Si sospesero i lavori dell’agricoltura e l’amministrazione della giustizia, e poiché i circoncellioni pretendevano di ristabilire l’uguaglianza primitiva degli uomini e riformare gli abusi della società, offrirono un asilo sicuro agli schiavi e ai debitori, che accorrevano a schiere sotto il loro santo stendardo. Quando non incontravano resistenza, ordinariamente si appagavano del saccheggio; ma la minima opposizione bastava a provocarli alla violenza e alla strage, e dei preti cattolici, che si erano imprudentemente segnalati per il loro zelo, furono torturati da quei fanatici con la più raffinata e barbara crudeltà. Il coraggio dei circoncellioni però non si esercitava sempre contro nemici senza difesa. Essi affrontarono, e talvolta anche sconfissero, le truppe della provincia; e nella sanguinosa azione di Bagai attaccarono in campo aperto, ma con sfortunato valore, un’avanguardia della cavalleria imperiale. I donatisti, presi armati, ricevevano, e spesso meritavano, il trattamento che avrebbe potuto farsi alle bestie feroci del deserto. I prigionieri morivano, senza mandare un lamento, per mezzo della spada, della scure, o del fuoco; e si moltiplicarono in rapida proporzione le rappresaglie, che aggravavano gli orrori della ribellione ed escludevano la speranza di un reciproco perdono. […]
Tali disordini sono i naturali effetti della tirannia religiosa. […]
La semplice narrazione delle divisioni intestine, che turbarono la pace e disonorarono il trionfo della chiesa, servirà a confermare l’osservazione d’uno storico pagano, e a giustificare il lamento d’un venerando vescovo. L’esperienza aveva convinto Ammiano che l’inimicizia dei cristiani fra loro superava il furore delle fiere contro gli uomini; e Gregorio Nazianzeno lamenta nello stile più patetico che il regno dei cieli fosse stato dalla discordia convertito nell’immagine del caos, d’una tempesta notturna e dell’inferno stesso. I fieri e parziali scrittori di quei tempi, attribuendo a se stessi tutta la virtù, e imputando tutta la colpa agli avversari, hanno descritto la guerra degli angeli contro i diavoli. […]
I figli di Costantino calcarono le orme del padre con maggior zelo e minor discrezione. Si moltiplicarono insensibilmente i pretesti dell’oppressione e della rapina, si mostrò ogni indulgenza per la condotta illegale dei cristiani, ogni dubbio fu interpretato a svantaggio del paganesimo e la demolizione dei templi fu celebrata come uno dei più prosperi avvenimenti del regno di Costante e di Costanzo. […]
Le divisioni fra i cristiani ritardarono la rovina del paganesimo e la guerra santa contro gl’infedeli fu proseguita con vigore da imperatori e vescovi, preoccupati maggiormente dei mali e dei pericoli della ribellione intestina. Si sarebbe potuto giustificare l’estirpazione dell’idolatria coi principi d’intolleranza dominanti; ma le sette rivali, che a volta a volta regnavano nella corte imperiale, temevano di inimicarsi e forse d’esacerbare gli animi di un forte, sebben decadente partito. A favore del cristianesimo militarono l’autorità e la moda, l’interesse e la ragione; ma dovettero passare due o tre generazioni prima che la loro decisiva influenza fosse universalmente sentita. La religione, che così a lungo aveva dominato nell’impero romano, era ancora venerata da molti, meno amanti delle teorie speculative che delle antiche usanze. Le cariche dello stato e dell’esercito erano da Costantino e da Costanzo affidate indifferentemente a tutti i sudditi, e una parte considerevole del sapere, della ricchezza e del valore era sempre al servizio del politeismo. La superstizione del senatore e del contadino, del poeta e del filosofo derivava da cause diverse, ma s’incontravano tutti con pari devozione nei templi degli dèi. Il loro zelo fu insensibilmente infiammato dall’insultante trionfo di una setta proscritta e le loro speranze ravvivate dalla ben fondata fiducia che l’erede presuntivo dell’impero, giovane e valoroso eroe, che aveva liberato la Gallia dai barbari, avesse segretamente abbracciato la religione dei suoi antenati [il riferimento è a Giuliano detto l’Apostata, ndr].
(15) Gibbon nella sua Storia della decadenza e caduta dell’impero romano racconta:
La rovina del paganesimo al tempo di Teodosio è forse l’unico esempio della totale estirpazione di un’antica e popolare religione, e può perciò essere considerata come un evento singolare nella storia dello spirito umano. I cristiani, e specialmente il clero, avevano sopportato con impazienza le prudenti dilazioni di Costantino l’imparziale tolleranza di Valentiniano il Vecchio, e non potevano ritenere perfetta o sicura la loro conquista finché fosse permesso ai loro avversari di esistere. L’influenza che Ambrogio e i suoi confratelli avevano acquistato sulla giovinezza di Graziano e la pietà di Teodosio, venne impiegata per ispirare le massime della persecuzione nel petto degl’imperiali proseliti. Si stabilirono due speciosi principi di giurisprudenza religiosa, dai quali essi dedussero una diretta e rigorosa conseguenza contro i sudditi dell’impero che continuavano a praticare il culto dei loro antenati: che il magistrato è in certa qual misura colpevole dei delitti che trascura di proibire, o punire, e che il culto idolatrico delle false divinità e dei veri demoni è il delitto più abominevole contro la suprema maestà del Creatore. Le leggi di Mosè e gli esempi della storia ebrea erano frettolosamente, e forse erroneamente, applicati dal clero al regno mite e universale del cristianesimo. Lo zelo degl’imperatori fu incitato a vendicare il proprio onore e quello di Dio; e circa sessant’anni dopo la conversione di Costantino, si rovesciarono i templi del mondo romano […]
La pia fatica, che alla morte di Costanzo era stata interrotta per quasi vent’anni, fu vigorosamente ripresa e finalmente condotta a termine dallo zelo di Teodosio. Mentre questo bellicoso principe combatteva ancora contro i Goti, non per la gloria, ma per la salvezza dell’impero, osò offendere una parte notevole dei sudditi con certi atti, che potevano forse assicurare la protezione del cielo, ma che dovevano sembrare temerari e inopportuni agli occhi della prudenza umana. Il successo del suoi primi tentativi contro i pagani incoraggiò il pio imperatore a rinnovare e a rafforzare i suoi editti di proscrizione. Le stesse leggi, erano state pubblicate nelle province orientali, dopo la sconfitta di Massimo furono estese a tutto l’impero d’Occidente, e ogni vittoria dell’ortodosso Teodosio contribuì al trionfo della fede cristiana e cattolica. Egli attaccò la superstizione dalla sua parte più vitale, vietando i sacrifici, che dichiarò illeciti e infami; e sebbene il tenore dei suoi editti condannasse più specialmente l’empia curiosità di esaminare le viscere delle vittime, ogni successiva spiegazione tendeva a coinvolgere nella stessa colpa la pratica generale dell’immolazione, che era l’essenza della religione pagana. Essendo i templi stati eretti per i sacrifici, era dovere di un buon principe allontanare dai sudditi la pericolosa tentazione di trasgredire le leggi che aveva stabilito. Fu dato speciale incarico a Cinegio, prefetto del pretorio d’Oriente, e in seguito ai conti Giovio e Gaudenzio, due alti ufficiali dell’impero d’Occidente, di chiudere i templi, di sequestrare o distruggere gli strumenti dell’idolatria, di abolire i privilegi dei sacerdoti e di confiscare i beni del culto a beneficio dell’imperatore, della chiesa, o dell’esercito. Qui la persecuzione avrebbe potuto fermarsi e i nudi edifici, che non erano più adibiti al servizio dell’idolatria, avrebbero potuto essere difesi dalla rabbia distruttrice del fanatismo. Molti di quei templi erano i più belli e splendidi monumenti dell’architettura greca, e l’imperatore stesso aveva interesse a non sfregiare lo splendore delle sue città, né a diminuire il valore dei suoi beni. Si poteva permettere che quei magnifici edifici restassero come altrettanti perenni trofei della vittoria di Cristo. Nella decadenza, in cui si trovavano le arti, si poteva utilmente adibire a magazzini, o a manifatture, o a luoghi di pubbliche adunanze; e forse anche, qualora si fossero con i sacri riti sufficientemente purificate le mura dei templi, si poteva concedere che il culto del vero Dio espiasse l’antica colpa dell’idolatria. Ma finché i templi restavano, i pagani nutrivano una forte e segreta speranza, che un qualche favorevole rivolgimento, un secondo Giuliano, potessero ristabilire gli altari degli dèi; e l’ardore, col quale alzavano al trono le loro vane preghiere, accrebbe nei riformatori cristiani lo zelo di estirpare senza misericordia la radice della superstizione. Le leggi degl’imperatori dimostrano qualche sintomo di una disposizione più mite: ma i loro freddi e languidi sforzi non furono sufficienti ad arrestare il torrente del fanatismo e della rapina, che era diretta, o piuttosto incitata, dai padri spirituali della chiesa. Nella Gallia, san Martino, vescovo di Tours, muoveva alla testa dei suoi fedeli monaci a distruggere gl’idoli, i templi e gli alberi sacri della sua vasta diocesi; e il prudente lettore giudicherà se nell’esecuzione di questa difficile impresa, Martino fosse sostenuto da una miracolosa potenza, o dalle armi materiali. In Siria, il divino ed eccellente Marcello, come lo chiama Teodoreto, vescovo animato da fervore apostolico, decise di abbattere i magnifici templi della diocesi di Apamea. Il tempio di Giove, per l’arte e la solidità con cui era stato costruito, resisté all’attacco. L’edificio si trovava sopra un’altura, il suo tetto elevato era sostenuto da quindici massicce colonne, della circonferenza di sedici piedi, e le grosse pietre che le formavano erano saldamente unite con piombo e ferro. Invano si erano usati gli attrezzi più forti e acuti, bisognò distruggere le fondamenta delle colonne, che caddero a terra appena i pali di sostegno furono consumati dal fuoco. Le difficoltà dell’impresa sono descritte sotto l’allegoria di un diavolo nero che, non potendo impedirle, ostacolava le operazioni degli operai cristiani. Superbo della vittoria, Marcello mosse in persona contro le potenze delle tenebre alla testa di un numeroso gruppo di soldati e gladiatori, schierati sotto il suo vescovile stendardo, e 1’uno dopo l’altro attaccò i villaggi e i templi di campagna della diocesi di Apamea. Dovunque si temeva qualche resistenza o pericolo, il campione della fede, che per essere zoppo non poteva fuggire né combattere, si teneva a conveniente distanza, fuori dalla portata dei dardi, ma questa prudenza fu causa della sua morte. Egli fu sorpreso e ucciso da un corpo di contadini esasperati, e il sinodo della provincia sentenziò senza esitare che il santo Marcello aveva sacrificato vita per la causa di Dio. Nel sostenere questa causa si distinsero per la diligenza e lo zelo i monaci, che uscirono con furia tumultuosa dal deserto. Essi meritarono l’inimicizia dei pagani, e alcuni meritavano l’accusa di avidità e d’intemperanza; di avidità, che soddisfacevano con il sacro saccheggio, e di intemperanza, alla quale si abbandonavano a spese del popolo, che scioccamente ne ammirava i laceri panni, le chiassose salmodie e l’artificioso pallore. Un piccolo numero di templi fu protetto dal timore, dalla venalità, dal gusto o dalla prudenza dei governatori civili ed ecclesiastici. A Cartagine, il tempio della Venere celeste, il sacro recinto del quale aveva una circonferenza di due miglia, fu giudiziosamente convertito in chiesa cristiana, e una simile consacrazione ha conservato intatta la maestosa cupola del Pantheon a Roma. Ma in quasi tutte le province del mondo romano un esercito di fanatici, senza autorità, né disciplina, assalì i pacifici abitanti, e le rovine delle più belle costruzioni dell’antichità attestano tuttora le devastazioni di quei barbari, che ebbero il tempo e la voglia di eseguire tale faticosa distruzione. […]
Nei crudeli regni di Decio e di Diocleziano, il cristianesimo era stato proscritto come un’apostasia dall’antica ed ereditaria religione dell’impero, e gl’ingiusti sospetti verso questa oscura e pericolosa fazione venivano in qualche modo avvalorati dall’inseparabile unione e dalle rapide conquiste della chiesa cattolica; ma le stesse scuse d’ignoranza e di timore non valgono per gl’imperatori cristiani, che violavano i precetti dell’umanità e del vangelo. L’esperienza dei secoli aveva dimostrato la debolezza e la follia del paganesimo, la luce della ragione e della fede aveva già rivelato alla maggior parte degli uomini la vanità degl’idoli e si poteva lasciare che quei pochi, che ancora ne praticavano il culto, celebrassero in pace e nell’oscurità i riti religiosi dei loro antenati. Se i pagani fossero stati animati dall’indomito zelo che possedeva lo spirito dei primi credenti, il trionfo della chiesa sarebbe stato macchiato di sangue e i martiri di Giove o di Apollo avrebbero approfittato della gloriosa opportunità di sacrificare la vita e le sostanze ai piedi dei loro altari. Ma uno zelo cosi ostinato non era congeniale allo spirito scettico e indifferente del politeismo. I violenti e ripetuti colpi degl’imperatori cristiani furono attutiti dalla materia molle e cedevole contro la quale erano diretti, e la pronta obbedienza dei pagani li difese dalle pene e dalle ammende del codice teodosiano. Invece di sostenere che l’autorità degli dèi era superiore a quella dell’imperatore, essi desisterono con un lamentoso mormorio da quei sacri riti, che il loro sovrano aveva condannato. Se talvolta, in un accesso di collera o nella speranza di non essere scoperti, si lasciavano tentare a praticare la loro religione, il loro umile pentimento disarmava la severità del magistrato cristiano; e raramente rifiutavano di fare ammenda della loro temerità, sottomettendosi, sebbene con segreta riluttanza, al giogo del vangelo. Le chiese erano piene di una crescente moltitudine di indegni proseliti, che per motivi temporali si erano uniformati alla religione dominante; e mentre imitavano devotamente l’atteggiamento e recitavano le preghiere dei cristiani, soddisfacevano la loro coscienza invocando sinceramente in segreto gli dèi dell’antichità. Se ai pagani mancava la pazienza di soffrire, mancava loro anche il coraggio di resistere; e le disperse migliaia di essi, che deploravano la rovina dei templi, cedevano senza lotta alla fortuna dei loro avversari. La disordinata opposizione dei contadini della Siria e della plebe di Alessandria al furore del fanatismo privato, fu ridotta al silenzio dall’autorità e dal nome dell’imperatore. […]
Un popolo di schiavi è sempre pronto ad applaudire la clemenza del suo padrone, che nell’abuso del potere assoluto non giunge alle ultime estremità dell’ingiustizia e dell’oppressione. Teodosio poteva senza dubbio imporre ai suoi sudditi pagani l’alternativa del battesimo o della morte; e l’eloquente Libanio ha lodato la moderazione di un principe, che non obbligò mai con una legge tutti i suoi sudditi ad abbracciare e praticare immediatamente la propria religione . La professione del cristianesimo non era stata eretta a condizione essenziale per godere dei diritti civili, né si era imposto alcun peso particolare ai pagani, che accettavano senza discutere le favole di Ovidio e negavano ostinatamente i miracoli del vangelo. Il palazzo, le scuole, l’esercito e il senato erano pieni di devoti e dichiarati pagani, che ottenevano senza distinzione gli onori civili e militari dell’impero. Teodosio segnalò il suo generoso riguardo per le virtù e l’ingegno concedendo a Simmaco la dignità consolare e la sua amicizia personale a Libanio; e i due più eloquenti apologisti del paganesimo non furono mai sollecitati a mutare o a dissimulare le loro opinioni religiose. Era lasciata ai pagani la più ampia libertà di parlare e di scrivere; Zosimo, lo storico e filosofo, ultimo seguace di Eunapio, e i fanatici dottori della scuola platonica mostrano la più furente animosità e hanno le più aspre invettive contro i sentimenti e la condotta del loro vittoriosi avversari. Se questi audaci libelli erano pubblicamente noti, dobbiamo lodare il buon senso degl’imperatori cristiani, che guardavano con un sorriso di disprezzo gli ultimi conati della superstizione e della disperazione. Ma le leggi imperiali, che proibivano i sacrifici e le cerimonie del paganesimo, venivano rigidamente applicate, e ogni momento contribuiva a distruggere l’autorità di una religione sostenuta dalla consuetudine più che dal raziocinio. La devozione del poeta e del filosofo può essere alimentata dalle preghiere, dalla meditazione e dallo studio; ma sembra che l’esercizio del pubblico culto sia l’unico saldo fondamento delle opinioni religiose del popolo, le quali traggono la loro forza dall’imitazione e dall’abitudine. L’interruzione di tale pubblico esercizio può nel corso di pochi anni portare a termine l’importante opera di un rivolgimento nazionale. Non si può lungamente conservare la memoria delle opinioni teologiche senza l’artificiale aiuto del sacerdoti, dei templi e dei libri. Il volgo ignorante, il cui animo è sempre agitato dalle cieche speranze e paure della superstizione, verrà ben presto persuaso dai suoi superiori a dirigere i propri voti alle divinità dominanti del tempo e a poco a poco si imbeverà di un ardente zelo per il sostegno e la propagazione di quella nuova dottrina, che da principio la fame spirituale lo spinse ad accettare. La generazione, venuta dopo la promulgazione delle leggi imperiali, fu attirata nel seno della chiesa cattolica; e la caduta del paganesimo, sebbene così dolce, fu cosi rapida, che appena ventotto anni dopo la morte di Teodosio l’occhio del legislatore non ne scorgeva più i deboli e minuti vestigi.
(16) Castore e Polluce, a seconda dei luoghi dove si celebrava il loro culto, erano:
protettori delle malattie incurabili, protettori e maestri delle arti, soprattutto la musica e la danza, ma anche la poesia e l’epica, protettori dei campi coltivati, protettori dei naviganti e dei cavalieri.
- Tra i santi martiri in coppia vi sono ancora:
Santi gemelli Medardo e Gilardo
Santi fratelli Felice ed Adaucto
Santi fratelli Voto e Felice
Santi fratelli Emeterio e Celedonio
Santi Nereo ed Aquileo
Santi Proto e Giacinto
Santi Primo e Feliciano
Santi Sisto ed Eovaldo
Santi Abdon et Sennen
Santi Cirillo e Metodio (IX secolo)
Santi Gervasio e Protasio
………………………….
Quest’ultima coppia di santi martiri nacque in un modo stravagante ed imbroglione che va ricordato. Dal 381 l’Imperatore Graziano spostò la capitale e la corte da Treviri a Milano dove però sorsero gravi problemi tra il vescovo di Milano Ambrogio e la madre di Valentiniano II (fratellastro di Graziano), Giustina, perché ariana. Giustina avrebbe voluto almeno una chiesa di rito ariano ma Ambrogio la negò con durezza e fermezza. Giustina tentò di far valere le sue prerogative imperiali anche con l’aiuto di Valentiniano II e convocò Ambrogio il quale si recò all’incontro con un seguito di numerose persone (una squadraccia), seguito che praticamente impedì la volontà imperiale su quella della Chiesa. Giustina pensò di fare a meno di Ambrogio ed ordinò che per Pasqua fosse preparata una Chiesa ma tumulti plebei, istigati da Ambrogio, impedirono che si svolgesse la cerimonia ariana. Ambrogio parlò alla folla istigandola ancora di più descrivendo Giustina come una delle più perfide donne nemiche della Cristianità e paragonando l’uso di una chiesa per gli ariani ad una ulteriore persecuzione contro i cristiani. Si sfiorò una guerra civile che vide vincitore, per il sostegno popolare, Ambrogio e che fece ottenere a Giustina un editto di tolleranza verso gli ariani. Un decreto di espulsione di Ambrogio non ebbe esito perché il vescovo utilizzò gli inventati martiri Gervasio e Protasio di oltre 300 anni prima e reliquie dei loro corpi (cercati affannosamente e trovati allo scopo anche se nessuno sa se vi fosse corrispondenza e nessuno storico sa dire di quale persecuzione furono vittime) per avere maggiore sostegno popolare attraverso la guarigione di vari ciechi e di vari invasati dal Demonio, miracoli testimoniati da Ambrogio, dal suo segretario Paolino e dall’africano Agostino (che considerava la gente carnale ed ignorante), insegnante di retorica a Milano e futuro Santo (sic!). Un piccolo dettaglio è restato senza risposta: che fine hanno fatto i corpi di questi santi martiri ? Sciocchezze per un prestigiatore come Ambrogio che appena sei anni dopo, nel 393, capito l’affare, scoprì a Bologna i corpi di altri due martiri, Agricola e Vitale, ed ancora a Milano nel 395, altri due, Nazario e Celso. E fu così che partì la lucrosa ricerca delle reliquie che arricchì la Chiesa, dandole inoltre un immenso potere attraverso la credulità del gregge, e non solo.
(18) Da Giovanni Sicari Reliquie Insigni e “Corpi Santi” a Roma, Monografie Romane, Alma Roma 1998:
Il culto delle reliquie, derivante dalle onoranze per i defunti, è oggi raccomandato ma non imposto dalla Chiesa. Il Concilio di Trento nella sua venticinquesima sessione lo emendò dagli eccessi e il Concilio Vaticano II così si espresse: “La Chiesa, secondo la sua tradizione, venera i Santi, le loro reliquie autentiche e le loro immagini”. Le reliquie sono i resti mortali dei santi canonizzati o dei beati venerati o anche gli oggetti a loro collegati come: strumenti di martirio, vesti, utensili che sono tanto più preziosi quanto più stati a contatto con il vivente. Tra le reliquie corporali si distinguono le Insigni così definite dal Codex Juris Canonici: il corpo, la testa, un braccio, un avambraccio, la lingua, una mano, una gamba o la parte del corpo che fu martirizzata, purché sia intera e non piccola.
Nei primi secoli la Chiesa romana fu contraria alla traslazione e alla manomissione dei corpi dei santi che venerava in basiliche costruite sulle loro tombe. Alle continue richieste di chi desiderava possedere dei resti sacri, rispondeva donando reliquie ex contactu, cioè pezzi di stoffa messi a contatto con le tombe venerate o con oli che ardevano nei santuari. [Questa pratica pretesca fece affluire alle casse della Chiesa montagne di denaro, ndr]. Le basiliche cimiteriali, divenute insicure per le incursioni barbariche, depredate d’alcuni corpi santi da Astolfo re dei Longobardi per la città di Pavia, vennero abbandonate e le salme traslate nelle chiese della capitale. Nel collocare i resti dei santi nelle nuove tombe, a volte, si separava la testa o altre parti dal corpo per venerarli in diversi luoghi, tra questi il più famoso fu, dai tempi di S. Leone III (795-817), la cappella di S. Lorenzo nel patriarchio del Laterano. Dopo centinaia d’anni d’oblio solo nel XVI secolo, grazie anche all’interesse suscitato da S. Filippo Neri, negli antichi cimiteri cristiani vennero riprese le ricerche di reliquie. Si riesumarono “corpi santi”, “martiri inventi” che venivano trasferiti nelle chiese della città. Il ritrovamento nei loculi di semplici balsamari o d’epitaffi recanti simboli di fede erano sufficienti, per la metodica dell’epoca, come prova dell’avvenuto martirio. Grazie a Pio XI che istituì, nel 1925, il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana oggi si ha il massimo rigore scientifico e storico nel riconoscere i martiri dai semplici cristiani sepolti negli antichi cimiteri.
- Le corrispondenze che seguono sono tratte da Ambrogio Donini.
- San Dionisio o Dionigi o Denis lo troviamo per la prima volta negli Atti degli Apostoli (17, 32-34).
Mentre Paolo predicava ad Atene, tra i suoi uditori poi convertiti vi era Dioniso, ed una donna, tal Damaris. Dionisio collaborò con Paolo per alcuni anni, fu destinato a curare i cristiani di Atene e finalmente fu inviato in Gallia ad evangelizzare quelle popolazioni. Fu martirizzato in Lutezia, l’odierna Parigi. Appena decapitato, raccolse la sua testa e si incamminò verso il luogo oggi conosciuto con il suo nome (Saint Denis), poggiò la sua testa al suolo e morì dopo aver espresso il desiderio di essere sepolto in quel luogo. E’ d’interesse che il martirio di Dioniso avvenne insieme a quello di altri due martiri, Eleuterio e Rustico. Ma come ho detto nel testo Dioniso Eleuterio era la divinità pagana Bacco e qui da essa si sono ricavati ben due santi martiri. Per ciò che riguarda Damaris (che secondo alcuni sarebbe stata la compagna di Dioniso) occorre osservare che il suo nome ricorda molto da vicino quello della dea greca dell’agricoltura Demetra (sorella di Zeus), curatrice della madre terra e artefice del ciclo delle stagioni che vivificano la terra medesima. Ebbene, Demetra, insieme alla figlia Persefone, era la dea sacra dei misteri eleusini. Con Dioniso e Demetra (queste note valgono anche per la dea Cibele, spesso confusa con Artemide) siamo di fronte a divinità con forte implicazione nei culti misterici (i Misteri dionisiaci ed i Misteri eleusini). Insomma il Cristianesimo attinse molto dalle religioni misteriche che avevano una loro prima origine dal lontano Oriente (come il culto di Mitra). Sembra poi che molti convertiti al Cristianesimo fossero stati in precedenza dei seguaci di Dioniso e Demetra. I misteri, oltre alle estasi prodotte dal vino, uno dei frutti della madre terra, aprivano a speranze di una vita migliore sia in terra che dopo il suo esaurimento.
BIBLIOGRAFIA
Juan G. Atienza – Los santos Paganos – Robin Book, Barcelona 1993
Karlheinz Deschner – Storia criminale del Cristianesimo – Ariele 2000-2010 [1]
Karlheinz Deschner – Il gallo cantò ancora. Storia critica della Chiesa – Massari 1998 [2]
Ambrogio Donini – Breve storia delle religioni – Newton-Compton 1991
Eusebio di Cesarea – Storia ecclesiastica – Città Nuova 2005
Edward Gibbon – Storia della decadenza e caduta dell’Impero Romano – Mondadori 2010
Károly Kerényi – Gli dèi e gli eroi della Grecia – il Saggiatore 2009
Richard Kieckhefer – La magia nel Medioevo – Laterza 1993
Santo Mazzarino – L’Impero Romano – Laterza 1973
Giovanni Sicari – Reliquie Insigni e “Corpi Santi” a Roma – Alma Roma, 1998
G. Tabacco, G. G. Merlo – Il Medioevo – Il Mulino 1989
WEBOGRAFIA
Eusebio di Cesarea – I martiri di Palestina books.google.com/…/I_martiri_di_Palestina_d_Eusebio_di_Cesa.htm
La leggenda di San Procopio: http://www.educazione.sm/scuola/servizi/cd_virtuali/lavori_scuole/leggendaiper/leggendaiper/comenasce.htm
David Donnini – Come nacque la Bibbia http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=29596
Persecuzioni religiose contro eretici e pagani http://www.romanoimpero.com/2010/10/persecuzioni-religiose.html
Atti di Paolo e Tecla – http://www.intratext.com/IXT/ITA0460/__P1.HTM
Atti di Paolo – http://www.intratext.com/IXT/ITA0460/__P5.HTM http://www.intratext.com/IXT/ITA0460/__P7.HTM
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