FONDAMENTI DI FISICA GENERALE 62. LA NASCITA DELLA RELATIVITÀ DI EINSTEIN.

Ingegneria Meccanica – Roma Tre

AA/2011-2012

APPUNTI PER IL CORSO

(Ripresi integralmente e da me assemblati dai testi di bibliografia)

Roberto Renzetti

Bibliografia: R. Renzetti –Vari appunti miei raccolti negli anni -www.fisicamente.blog

 [La numerazione di figure, formule e note è quella che trovate perché questo articolo è la messa insieme di articoli precedenti].

Roberto Renzetti

Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento (826) del giugno 1905 è l’articolo nel quale Einstein introduce la  relatività. Ad esso se ne aggiungerà ancora un altro, “interessante conseguenza [dei] risultati della precedente ricerca“, nel settembre dello stesso anno: L’inerzia di un corpo è dipendente dal suo contenuto di energia? (827)   In questo lavoro, come elaborazione di quanto ottenuto nel precedente articolo, viene data una prima formulazione del principio di equivalenza tra massa ed energia. (828)

        Cominciamo con il discutere Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento.  

 – INTRODUZIONE

         L’articolo inizia così:   (837)

E’ noto che l’elettrodinamica di Maxwell – come essa attualmente viene d’ordinario concepita – conduce nelle sue applicazioni a corpi in movimento ad asimmetrie che paiono non essere aderenti ai fenomeni.

Ecco dunque che il primo motivo è l’insoddisfazione per la teoria di Maxwell, negli ultimi sviluppi di Lorentz, ed in particolare perché questa teoria origina delle asimmetrie. Di quali asimmetrie si tratta ?  

          Einstein non ricorre ad esemplificazioni sofisticate ma al più semplice dei fenomeni elettrodinamici, che risale a Faraday; il movimento relativo di un magnete e di un conduttore e le azioni elettrodinamiche che si producono tra questi due oggetti. Lo stesso Einstein dice:

Si pensi ad esempio alle interazioni elettrodinamiche tra un magnete ed un conduttore. Il fenomeno osservabile dipende qui solo dal moto relativo fra magnete e conduttore, mentre secondo il consueto modo di vedere sono da tener rigorosamente distinti i due casi che l’uno o l’altro di questi corpi sia quello mosso. Infatti, se si muove il magnete e rimane fisso il conduttore, si produce nell’intorno del magnete un campo elettrico di certi valori di energia il quale provoca una corrente nei luoghi ove si trovano parti del conduttore. Rimane invece fisso il magnete e si muove il conduttore, non si produce nell’intorno del magnete alcun campo elettrico, ma al contrario [si produce] nel conduttore una forza elettromotrice, alla quale non corrisponde per sé alcuna energia, ma che – supposta l’uguaglianza del moto relativo nei due casi considerati – dà occasione al prodursi di correnti elettriche della stessa grandezza e dello stesso percorso, come nel primo caso [avevano dato] le forze elettriche.”

Dicevamo che questa esemplificazione è semplice ma non altrettanto la sua interpretazione teorica, soprattutto in relazione all’asimmetria che essa comporta e di cui parla Einstein. Per cogliere il nocciolo del ragionamento, serviamoci della figura 41.   (838) Innanzitutto osserviamo che da sfondo alle due situazioni, nella teoria cui fa riferimento Einstein

Figura 41

ed in particolare nella teoria di Lorentz, c’è un etere immobile che funge da sistema a cui riferire i singoli moti. Per cui nel primo caso preso in considerazione (figura 41a)  il conduttore risulta fermo rispetto all’etere mentre il magnete si muove con velocità v, sempre rispetto all’etere. Nel secondo caso (figura 41b) le situazioni, ancora rispetto all’etere, sono invertite. Facendo riferimento alle equazioni di Maxwell, nel primo caso, quando il magnete si sposta, origina una variazione dell’induzione magnetica B in tutto l’etere che circonda il magnete e  nel conduttore. Poiché varia B nell’etere, varia il flusso di B concatenato con il conduttore. Ricordando la terza delle equazioni di Maxwell (la 7 del  paragrafo 5 del capitolo 3) ad una variazione del flusso di B si accompagna un campo elettrico nell’etere che circonda il magnete. Le cariche (gli elettroni), in quiete nel conduttore, sono soggette alla forza originata dal campo elettrico (mentre non sentono alcuna forza magnetica poiché quest’ultima non si esercita su cariche in quiete) ed in definitiva tra i capi A e B del conduttore si  genera una differenza di potenziale. Sempre facendo riferimento alle equazioni di Maxwell, nel secondo caso, poiché il magnete è fisso ed è il conduttore che si sposta, la variazione dell’induzione magnetica B si avrà solo nel filo e non nell’etere circostante il magnete (caso del flusso tagliato). Quindi nell’etere non c’è una variazione del flusso di B e conseguentemente (per la stessa equazione di Maxwell precedentemente citata) non si originerà un campo elettrico nell’etere che circonda il magnete. Anche in questo caso però ai capi AB del conduttore si originerà una differenza di potenziale, ma questa volta di origine magnetica (forza di Lorentz). Questa differenza di potenziale, a parità di altri fattori, ha esattamente lo stesso valore che nel primo caso.  (839)

        Dall’esame di questa situazione,  risultano dei fatti che sono certamente previsti dalla teoria di Maxwell-Lorentz, ma che, altrettanto certamente, sono tali da creare, per Einstein, una inaccettabile asimmetria; anche se gli effetti sono gli stessi (si producono nei due casi differenze di potenziale uguali, a parità di altre condizioni) i fenomeni hanno una spiegazione fisica differente: in un caso la differenza di potenziale è dovuta ad una forza elettrica, nell’altro ad una forza magnetica.

        Poiché ciò che stiamo discutendo rivestiva grande importanza nel pensiero di Einstein  (840) è utile fare un’altra esemplificazione, del tutto simile a quella ora discussa ma più facilmente comprensibile.

        Supponiamo di avere due cariche elettriche q uguali poste ad una distanza r l’una dall’altra (per semplicità supponiamo che una di esse sia vincolata in modo tale che non possa muoversi). Un osservatore T, immobile rispetto al sistema costituito dalle due cariche, calcolerà, secondo le usuali leggi dell’elettrostatica, una forza F che agirà sulla carica mobile e diretta come in figura 42a (cariche dello stesso segno si respingono). Supponiamo ora che l’osservatore

Figura 42

T si sposti, con velocità u, nella direzione mostrata in figura 42b. Secondo il principio galileiano di relatività, tutto va come se T fosse immobile e fossero invece le cariche che si muovono alla stessa velocità di T ma in verso opposto (figura 42c). In questo caso, quindi, T osserverà due correnti parallele (una carica in moto costituisce una corrente elementare). Ora, secondo la legge di Ampère sulle azioni elettrodinamiche tra correnti, alla forza repulsiva F, che si aveva nel caso di azione elettrostatica (figura 42a), si deve sottrarre una forza attrattiva f (dovuta al fatto che correnti concordi si attraggono). In definitiva, un osservatore in moto dovrebbe calcolare (e calcola) una forza repulsiva F – f, minore della forza repulsiva F che lo stesso osservatore calcolerebbe (e calcola) quando è in riposo. E ciò vuol dire che le leggi dell’elettrodinamica danno risultati diversi per osservatori in moto relativo a velocità costante. Questo fatto può essere detto anche così: le leggi dell’elettrodinamica non sono invarianti per una trasformazione di Galileo. (841)

        Come rendere conto di tutto ciò ?

        Oltre a questo tipo di asimmetrie Einstein fa anche un vago riferimento ad altri fenomeni che probabilmente sono: l’aberrazione stellare, l’esperienza di Fizeau relativa alla misura della velocità della luce in due colonne di acqua fluente in versi opposti, (842) l’esperienza di Michelson-Morley, quella di Trouton-Noble. Bice Einstein:

Esempi analoghi, come pure i falliti tentativi di constatare un moto della Terra relativamente al mezzo luminoso, conducono alla presunzione che al concetto di quiete assoluta, non solo nella meccanica, ma anche nell’elettrodinamica, non corrisponda alcuna delle proprietà di ciò che si manifesta, ma che piuttosto, per tutti i sistemi di coordinate per i quali valgono le equazioni della meccanica, (843) debbano anche valere le stesse leggi elettrodinamiche ed ottiche, come appunto è stato dimostrato per le grandezze del primo ordine.

         Einstein inizia a costruire la sua fisica dei principi con l’affermazione che il concetto di riferimento assoluto non ha alcun significato né nella meccanica  né nell’elettrodinamica né nell’ottica. Piuttosto bisogna ammettere che tutte le leggi fisiche abbiano la stessa forma in tutti i sistemi inerziali. Non vi è quindi nessun sistema privilegiato in cui le cose debbano andare in un dato modo; al contrario tutti i sistemi inerziali, tutti quelli in moto relativo uniforme gli uni rispetto agli altri, sono equivalenti; in essi tutte le leggi fisiche devono essere le stesse. A questo punto Einstein dice:

noi vogliamo elevare questa presunzione … a presupposto fondamentale

ed in questo modo introduce il primo dei due principi che sono il fondamento della relatività, quello che va sotto il nome di Principio della relatività di Einstein. (844)   Come si vede, si tratta di una generalizzazione del Principio di relatività di Galileo a tutte le leggi della fisica.

        Subito dopo, a questo principio, Einstein ne aggiunge un altro:

[noi vogliamo] inoltre introdurre il presupposto, solo apparentemente inconciliabile con il precedente, che la luce nello spazio vuoto si propaghi sempre con una velocità determinata e indipendente dalla velocità del corpo emittente.” (845)

Si tratta del principio che va sotto il nome di Principio della costanza della velocità della luce, quello che più ha fatto discutere (si veda, ad esempio, quanto sostiene M. La Rosa – 1923 – in bibl. 186, pagg. 293-306).

        Da dove tira fuori questo principio Einstein ?

        Esso era comunemente accettato in tutte le teorie ondulatorie della luce (Fresnel, Stokes, Maxwell, Lorentz) ma, sempre, come principio applicabile ad un sistema che si trovasse in riposo rispetto all’etere. Probabilmente il fatto che un valore costante di c venisse fuori dalle più disparate misure fatte sulla Terra, non importa in quale direzione rispetto al presunto etere, unitamente al fatto che questo valore si ricavasse da elaborazioni teoriche sulle equazioni che regolano i campi elettromagnetici (si ricordi il lavoro di Weber e Kohlraush), convinsero Einstein ad assumere la costanza di c come principio generale. Inoltre, forse, influì su Einstein proprio la formulazione del primo dei due principi, quello di relatività; se, infatti, la Terra si considera come un sistema inerziale e su di essa le misure di c danno sempre lo stesso valore, e deve avere lo stesso valore per tutti gli altri sistemi inerziali (indipendentemente dallo stato di moto della sorgente per il fatto che anche dalle misure fatte sulla Terra risulta questa indipendenza, infatti c ha lo stesso valore sia quando è misurata da fenomeni astronomici, sia quando è misurata su sorgenti poste sulla Terra, e lo stato di moto di una sorgente sulla Terra è certamente differente dallo stato di moto, ad esempio, di un satellite di Giove).  (846)   Infine, e questo è il fatto più importante, Einstein, nei suoi tentativi di modificare le equazioni di Maxwell-Lorentz perché risultassero invarianti per sistemi di riferimento in moto traslatorio uniforme gli uni rispetto agli altri, deve essersi convinto che la condizione che si richiedeva era la costanza di c.

          Certo che questo principio, così formulato, doveva suonare male e, con Straneo, “forse sarebbe stato meglio porre in rilievo che la teoria dei gruppi imponeva l’adozione di una costante fondamentale e che questa per ragioni fisiche non poteva che essere la velocità della luce.” (847)

        Comunque stiano le cose, Einstein dice che questo secondo Principio appare inconciliabile con il primo. Perché ?  

        Perché, ammesso il Principio di relatività, sembrerebbe che debbano valere le trasformazioni di Galileo e, in particolare, la composizione delle velocità. Supponiamo allora ai accettare contemporaneamente il Principio dell”indipendenza di c dal moto della sorgente e la composizione classica delle velocità: se una sorgente si muove verso un osservatore con velocità v, il tutto equivale a sorgente immobile ed osservatore che si sposta verso di essa con velocità – v; l’osservatore misurerebbe allora una, velocità u = c + v e dalla conoscenza di c egli sarebbe in grado di ricavare v e cioè una velocità assoluta; questo fatto entrerebbe in contraddizione con il supposto Principio di relatività. E l’apparente inconciliabilità sta proprio qui: il Principio di relatività di Einstein non prevede le trasformazioni di Galileo e quindi non prevede quella composizione delle velocità. Assumendo nuove trasformazioni l’inconciliabilità sparisce e la c, oltre ad assumere un valore costante in tutti i sistemi inerziali, diventa una velocità limite, una velocità che non può essere superata in alcun modo. (848) Ciò che si vuol dire è che l’apparente inconciliabilità nasce dalle ordinarie definizioni di spazio e di tempo. Ammessi i due Principi di Einstein, occorre cambiare queste definizioni e conseguentemente le loro equazioni di trasformazione (quelle di Galileo) nel passaggio da un sistema inerziale ad un altro.

               Riassumendo, i due principi che Einstein pone a fondamento della sua elettrodinamica sono:

       1) Principio di Relatività: Le leggi della fisica sono le stesse in tutti i sistemi inerziali animati di un moto rettilineo uniforme gli uni rispetto agli altri. Nessuno di questi sistemi inerziali è privilegiato.

       2) Principio di costanza della velocità della luce: La velocità della luce nel vuoto ha sempre lo stesso valore c in tutti i sistemi inerziali. Essa è indipendente dalla velocità della sorgente o dell’osservatore.

Egli dice:

Questi due presupposti bastano per giungere ad una elettrodinamica dei corpi in movimento semplice e libera da contraddizioni …

      E dell’etere, cosa ne è di questa misteriosa sostanza ?

L’introduzione di un etere luminoso si manifesterà superflua …

      Così, con un solo colpo di penna, Einstein si sbarazza di ciò che da più parti veniva indicato come il tormento della fisica. L’etere se ne va, sparisce il riferimento assoluto e lo spazio assoluto (cosa che d’altra parte era implicita nel primo principio assunto da Einstein).

              A questo punto sono dati i principi generali. Come intende proseguire Einstein ?

              Proprio come indicavamo qualche riga più su a proposito dell’inconciliabilità: a partire da una revisione dei concetti fondamentali della meccanica e, in particolare, della cinematica (si noti: revisione della meccanica e non dell’elettrodinamica). Egli dice:

La teoria da sviluppare si appoggia – come ogni altra elettrodinamica – sulla cinematica del corpo rigido, poiché le affermazioni di ogni teoria del genere riguardano rapporti tra corpi rigidi (sistemi di coordinate), orologi e processi elettromagnetici. Le non sufficienti considerazioni di questa circostanza sono la radice delle difficoltà con le quali l’elettrodinamica dei corpi in moto ha presentemente da lottare.”  

Per costruire una elettrodinamica consistente con i suoi due principi, Einstein parte quindi da una ridefinizione di lunghezze e tempi che sono alla base di qualunque processo di misura, anche di fenomeni elettromagnetici, e che nel passato sono stati dati troppo facilmente per scontati.

           Con ciò termina l’introduzione al suo articolo e passa a discutere, appunto, questioni di cinematica.

CINEMATICA RELATIVISTICA

        La prima, questione che viene affrontata è la definizione di contemporaneità o simultaneità

        Cosa si deve intendere per eventi simultanei? Sembrerebbe di poter rispondere: eventi che avvengono nello stesso istante. Si, ma che significa nello stesso istante ?

        Per rispondere a questa domanda Einstein si costruisce una serie di strumenti concettuali tali che gli permettano di arrivare ad una definizione operativa delle grandezze fisiche tempo (mediante orologi) e lunghezza (mediante regoli rigidi).  (849)  Seguiamo il suo ragionamento.

        Egli inizia con l’introdurre un sistema inerziale che, per semplicità discorsiva, considera in quiete. Se si vuole definire la posizione di un punto materiale in questo sistema, lo si può fare misurando, con dei regoli rigidi, le distanze di questo punto dai tre assi cartesiani coordinati. Se si vuole definire il moto di questo punto materiale si possono dare le coordinate del punto in funzione del tempo. Ora, quando si parla di tempo, occorre fare attenzione. Infatti, parlare di tempo è come parlare di avvenimenti simultanei e questo perché se, ad esempio, noi diciamo che il treno arriva alle 7, intendiamo dire che il treno arriva simultaneamente a quando le lancette del nostro orologio segnano le 7. Si può allora sostituire la definizione di tempo con le posizioni delle lancette dell’orologio ? Questo va bene solo nel caso in cui si debba definire il tempo per il luogo dove si trova l’orologio; ma se si vogliono dare i tempi per “avvenimenti che si svolgono in luoghi differenti“, allora sorge la necessità di sapere cosa diventa quella simultaneità cui ci riferivamo prima. Noi potremmo certamente valutare il tempo in cui si produce un determinato fenomeno nello spazio a partire da un unico osservatore, munito di orologio, che si trovi nell’origine delle coordinate del nostro sistema inerziale: si produce l’avvenimento; esso viene segnalato all’origine delle coordinate con un segnale luminoso; quando il segnale luminoso arriva, l’osservatore va a vedere che tempo segna il suo orologio. Questo metodo però, osserva Einstein, “ha   l’inconveniente   di   non   essere   indipendente   dalla   posizione   dell’osservatore munito di orologio“; infatti, a posizioni diverse dell’osservatore, data la costanza di c (e qui non serve assumere la costanza di c per tutti i sistemi inerziali ma solo quella per un sistema in quiete), corrispondono tempi diversi per uno stesso fenomeno che avviene in un punto fissato dello spazio. (850) Einstein suggerisce quindi “una  più pratica determinazione [per] avvenimenti che si svolgono in luoghi differenti” .

                Supponiamo di prendere in considerazione due punti A e B dello spazio, nei quali si trovino due osservatori muniti di due orologi identici. L’osservatore A potrà dare i tempi di A e delle immediate vicinanze; l’osservatore B potrà dare i tempi di B e delle immediate vicinanze. Se però non si fa qualche altra convenzione

non è possibile … paragonare temporalmente un avvenimento in A con un avvenimento in B; noi [infatti] abbiamo finora definito un tempo A e un tempo B, ma nessun tempo comune ad A e B.”

L’ulteriore convenzione che manca per definire quest’ultimo tempo è

che il tempo che la luce impiega per giungere da A a B è uguale al tempo che essa impiega per giungere da B ad A.”

Data questa definizione è allora possibile sincronizzare due orologi distanti mediante un segnale luminoso che, partito da A, dopo la riflessione su B, riporti ad A l’informazione sul tempo di B. Chiamiamo con tA  l’istante (il tempo) in cui   un  raggio di luce parte da A, con  tB  l’istante in cui questo raggio viene riflesso da B per tornare verso A e con t’A l’istante in cui il raggio arriva di nuovo in A. La definizione data ci permette di dire che i due orologi funzionano in modo sincrono quando:

tB – tA = t’A – tB .   (851)

Con questa definizione non vi è luogo a contraddizioni e non solo per i punti A e B, ma per qualsiasi altro punto dello spazio, di modo che valgono le seguenti condizioni:

1.Quando l’orologio in B cammina sincrono con l’orologio in A, l’orologio in A cammina sincrono con l’orologio in B.  

  2.Quando l’orologio in A cammina sincrono con l’orologio in B quanto anche con l’orologio in C, camminano pure    sincroni gli orologi in B e in C relativamente l’uno all’altro.”

In questo modo, aiutandosi con esperienze mentali, Einstein fornisce una definizione di tempo e di simultaneità. In particolare, secondo Einstein,

il tempo di un avvenimento è l’indicazione contemporanea all’avvenimento di un orologio in quiete, che si trova nel luogo dell’avvenimento, il quale procede sincrono con un determinato orologio in quiete, e precisamente per tutte le determinazioni di tempo, con lo stesso orologio.”

Come conseguenza di quanto detto ed in accordo con il Principio della costanza della velocità della luce, si ha:

(2 AB)/( t’A – tA )  = c

cioè: la velocità della luce, come costante universale, è data dal rapporto tra l’intero tragitto, andata e ritorno, tra A e B ed il tempo totale impiegato a percorrere questo tragitto. Come si ricorderà questi due punti, A e B, erano presi in un sistema in quiete, per cui

il tempo ora definito, a cagione di questa appartenenza al sistema in quiete, lo diremo il tempo del sistema in quiete.” (852)

         A questo punto si può cominciare a parlare di relatività di lunghezze e tempi introducendo nelle nostre discussioni e il Principio di relatività e quello della costanza della velocità della luce che vengono ora esplicitamente enunciati nel modo seguente:

1) Le leggi secondo le quali si modificano gli stati dei sistemi fisici sono indipendenti dal fatto che questi e cambiamenti di stato vengano riferiti all’uno o all’altro di due sistemi di coordinate che si trovino in relativa reciproca traslazione uniforme.

 2) Ogni raggio di luce si muove nel sistema di coordinate in quiete con la determinata velocità c, indipendente dal fatto che quel raggio di luce sia emesso da un corpo in quiete o da un corpo in movimento.

Supponiamo di avere, nel definito sistema in quiete, un’asta rigida di lunghezza h (misurata nello stesso sistema in quiete con un regolo rigido). Quest’asta si trovi poggiata sull’asse delle x e, ad un dato istante, cominci a muoversi con velocità v nel verso delle x crescenti. Ci si chiede qual è la lunghezza di questa asta in due eventualità:

a) l’osservatore  (853)  è in moto con l’asta alla sua stessa velocità ed esegue la misura in questo sistema mediante un regolo rigido (il tutto va come se osservatore, asta da misurare, regolo di misura si trovassero in quiete);

b)  l’osservatore è sul  sistema in  quiete;  egli,  mediante  orologi  (in  quiete) sincronizzati con quelli (in moto) che si trovano sull’asta da misurare, “deduce … in quali punti del sistema in quiete si trovino il principio e la fine dell’asta da misurare, in un determinato tempo t“; a questo punto si passa a misurare la distanza di questi due punti, mediante un regolo rigido nel sistema in quiete. Anche questa dovrà essere considerata come lunghezza dell’asta.

Il principio di relatività ci dice subito che utilizzando il sistema di misura (a), “la lunghezza dell’asta in moto nel sistema in moto deve essere uguale alla lunghezza h dell’asta in quiete“; e ciò vuol dire che la misura che noi troviamo per l’asta è la stessa sia quando noi, stando in quiete, misuriamo l’asta in quiete nel sistema in quiete; sia quando noi, stando in moto, misuriamo l’asta in moto nel sistema in moto. (854)

Vediamo ora di calcolarci mediante (b) “la lunghezza dell’asta in moto nel sistema in quiete” e, come Einstein anticipa, troveremo che essa è differente dalla precedente lunghezza h, e ciò in contrasto con quanto la cinematica ordinaria generalmente ammette. Supponiamo di avere alle estremità A e B dell’asta due orologi sincronizzati con gli orologi del sistema in quiete; e ciò vuol dire che i tempi indicati dagli orologi che si trovano in A e B corrispondono, istante per istante, al “tempo del sistema in quiete“; e ciò vuol dire ancora che gli orologi che si trovano in A e B sono “sincronizzati nel sistema in quiete“. (855)  Vi sia poi un osservatore vicino all’orologio A ed un osservatore vicino all’orologio B, di modo che i due osservatori si muovano con gli orologi. Questi osservatori dovranno sincronizzare gli orologi mediante il sistema di sincronizzazione dato precedentemente e cioè mediante un segnale luminoso. Allora,  “al tempo tA  [del sistema in quiete] (856) parta [da A] un raggio luminoso,  venga riflesso al tempo tB in B e ritorni  al tempo t’A  in A“.  Questo segnale impiegherà un tempo tB  –  tA   per percorrere la distanza AB ed un tempo t’A – tB  per percorrere la distanza BA. Ora, a seguito del principio della costanza della velocità della luce, il segnale luminoso che viaggia con velocità c: quando da A va verso B, dovrà rincorrere l’estremo B che gli si allontana con velocità v; quando da B torna verso l’estremo A, si troverà quest’ultimo che gli va incontro con velocità v. In definitiva, se con rAB   denotiamo la lunghezza dell’asta misurata nel sistema in quiete, si ha: (857) 

tB – tA =  rAB /(c – v)                     t’A – t = rAB /(c + v)

Quanto ricavato vuol dire che “osservatori in moto con l’asta in moto troverebbero i due orologi non procedenti sincronicamente, mentre osservatori nel sistema in quiete dichiarerebbero, sincroni quegli orologi”.  (858)  E questo perché, mentre avevamo visto che per il sistema in quiete i due orologi situati in A e B erano sincroni con la conseguenza che per il sistema in quiete doveva risultare:

  tB – tA = t’A – tB

ora, per il sistema in moto, risulta:

tB – tA   t’A – tB.

Einstein può allora concludere:

Vediamo dunque che al concetto di simultaneità non possiamo attribuire alcun significato assoluto, ma che invece due avvenimenti che, considerati da un sistema di coordinate, sono simultanei, considerati da un sistema mosso relativamente ad esso, non sono più da considerare come avvenimenti simultanei.”

In definitiva, il concetto di simultaneità, dato per evidente nella cinematica classica, viene a perdere il suo valore assoluto, diventando relativo. Inoltre si scambiano i ruoli preesistenti: mentre prima la definizione di tempo ci permetteva di parlare di eventi simultanei, ora la definizione di eventi simultanei ci permette una misura del tempo.

        Abbiamo ora in mano tutte le premesse necessarie per costruirci le equazioni di trasformazione, quelle cioè che ci permettono di passare da un sistema supposto in quiete ad un altro in moto traslatorio uniforme rispetto al primo  (e viceversa).  Questa parte  viene trattata da Einstein nel paragrafo 3 della sua memoria. Io, per ragioni di semplicità concettuale ed espositiva, (859)  preferisco seguire un modo diverso per ricavare le stesse equazioni di trasformazione. Questa trattazione è stata elaborata dallo stesso Einstein in un’epoca successiva (1916). (860)                                                                        

       Supponiamo allora di avere due sistemi di coordinate: l’uno, S (di coordinate x,y,z), supposto in quiete; l’altro, S’ (di coordinate x’, y’, z’), in moto rettilineo uniforme a velocità v rispetto al primo. Per semplicità i due sistemi sono presi in modo tale che i loro assi x ed x’ coincidono, mentre gli assi y e z del primo sono rispettivamente paralleli agli assi y’ e z’ dell’altro

(si veda la figura 43).  (861) Dice Einstein: (861 bis)

II nostro problema può venir formulato con esattezza nel modo seguente.

Figura 43

Quanto valgono le x’ ,y’, z’ e t’ di un evento rispetto ad S’, quando sono date le grandezze x, y, z, t, dello stesso evento rispetto ad S ?

Ora, un qualunque evento, che si produca sull’asse x del sistema S,

è rappresentato rispetto al sistema di coordinate S dall’ascissa x e dal tempo t, e rispetto al sistema S’ dall’ascissa x’ e dal tempo t’. Dobbiamo trovare x’ e t’ quando siano dati x e t.”  (862)

Riferendoci alla figura 43, supponiamo che all’istante in cui inizia a prodursi l’evento da studiare le origini O ed O’ di S ed S’ coincidano. In questo istante un segnale luminoso (l’evento) venga emesso dall’origine O di S e si propaghi lungo l’asse x, nel verso delle x crescenti.

        Nel sistema S, dopo un tempo t ≠ O, il segnale avrà raggiunto il punto di ascissa x = ct; e poiché vale il principio di costanza della velocità della luce, anche nel sistema S’ dovrà risultare x’ = ct’. (863)

        In definitiva, nei due sistemi valgono rispettivamente le due equazioni:

                             x = ct

                             x’= ct’

e cioè:

                             x – ct =0

                             x’- ct’= 0.

Ciascuna di queste due equazioni corrisponde alla misura dello stesso evento sul rispettivo sistema di riferimento. Di conseguenza le due equazioni dovranno essere tra loro dipendenti. In particolare l’annullarsi dell’una dovrà implicare l’annullarsi dell’altra. E questo vuol dire che le due equazioni dovranno essere uguali a meno di una costante moltiplicativa; cioè:

                         (x’ – ct’) = λ (x – ct)

dove λ e’ appunto la costante che dovrà essere determinata.

        Ripetendo lo stesso ragionamento per un segnale luminoso che, partito da O, si propaghi in verso contrario (verso delle x decrescenti), troviamo:

                         (x’ + ct’) = ν(x + ct)

dove ν e’ ancora una costante da determinarsi.

        Ed allora, per trovare le equazioni di trasformazione dal sistema S a quello S’ ( e viceversa ) occorrerà determinare le due costanti λ e ν, cominciando con il risolvere il sistema:

(x’ – ct’) = λ(x – ct)

(x’ + ct’) = ν(x + ct)

Sommando e sottraendo le due equazioni si trova:

(x’ – ct’) + (x’ + ct’) = λ(x – ct) + ν(x + ct)

(x’ – ct’) – (x’ + ct’) = λ(x – ct) – ν(x + ct)

da cui, di seguito:

2x’ = λx – λct + νx + νct

-2ct’ = λc – λct – νx – νct

x’ = ½ (λ + ν)x – ½ (λ – ν)ct

ct’ = ½ (λ + ν)ct – ½ (λ – ν)x

Chiamando per semplicità:

a = ½ (λ + ν)                e                        b = ½ (λ – ν)

si ha:

  x’ = ax – bct

  ct’ = act – b

ed il problema diventa quello di determinare le due costanti a e b. Per farlo occorrono due condizioni fisiche che discendono da considerazioni elementari. Innanzitutto si può osservare che sul sistema S’ in moto, l’origine O’ ha per ascissa x’ = 0 (e questo è sempre vero). Ponendo questo valore nella prima delle (1) si ha;

            0 = ax – bct      ->       x = (b/a)ct

Ora, poiché abbiamo chiamato con v = x/t la velocità con cui l’origine O’ di S’ si muove rispetto ad S, dall’ultima relazione scritta discende:

x/t = (b/a)c

e cioè:

v = (b/a)c          ->        b = a(v/c)               (2)

ed  ancora:

v/c = b/a.  (864)                                            (3)

Inoltre il principio di relatività ci insegna che, giudicata da S, la lunghezza di un singolo regolo-campione che sia in quiete rispetto ad S’ deve essere esattamente identica alla lunghezza, giudicata da S’, di un singolo regolo-campione che sia in quiete relativamente ad S. Per vedere come appaiono i punti dell’asse S’ visti da S, dobbiamo soltanto prendere ‘una istantanea’ di S’ da S; ciò significa che dobbiamo assegnare a t (tempo di S) un valore particolare, ad esempio t = 0.” (865)

Al tempo t = 0 una data lunghezza Δx’ di S’ varrà Δx se valutata da S. Vogliamo ricavarci Δx conoscendo il suo valore Δx’ in S’. Sostituendo t = 0 nella prima delle (1) si trova:

                             x’ = ax

e ciò vuol dire che:

                            Δx’ = a Δx

Se quindi la lunghezza Δx’ misurata in S’ vale, ad esempio, Δx’ = 1, nella ‘istantanea’ presa da S essa varrà:

                                                         1 = a Δx      =>

Δx =  1/a.    (866)                     (4)

Facciamo ora un’altra ‘istantanea’, questa volta da S’, al regolo-campione Δs in quiete su S. Anche adesso dobbiamo assegnare a t’ (tempo di S’) un valore particolare, ad esempio, t’ =0. Il problema è lo stesso del precedente. Ora, dato che al tempo t’ = 0 una data lunghezza Δs di S varrà Δx’ se valutata da S’, si tratta di ricavare Δx’ conoscendo il suo valore Δx in S. Sostituendo t’ = 0 nella seconda delle (1), si  trova:

act – bx = 0.

Da questa espressione occorre eliminare la t e per farlo la si può mettere a sistema con la prima delle (1):

act – bx = 0

x’ = ax – bct

Dalla prima si ricava subito t:

t = (b/a)(x/c)

che può essere subito sostituito nella seconda;

x’ = ax – bc (b/a)(x/c)

Risolvendo si trova:

 x’ = ax – abc(b/a2)(x/c)             ->          x’ = ax – ax(b2/a2)            ->         x’ = a (1 – b2/a2)x.

Ricordando la (3), questa espressione diventa:

x’ = a(l – v2/c2)x

E ciò vuol dire che:                                          

Δx’ = a(l – v2/c2)Δx.

Se quindi la lunghezza Δx misurata in S vale, ad esempio, Δx = 1, nella ‘istantanea’ presa da S’ essa varrà:

Δx’ = a(1 – v2/c2).                                               (5)

Ma, per il principio di relatività, questa e l’altra ‘istantanea’ dovranno essere identiche; l’espressione (4) dovrà cioè essere uguale all’espressione (5):

Δx = Δx’  ->  1/a = a(1 – v2/c2)   ->  a2 = 1/(1 – v2/c2                    (6)

Abbiamo così ricavato una delle costanti che ci occorrevano. Per trovare l’altra sostituiamo la (6) nella (2):

      Sostituendo nelle (1) i valori (6) e (7) delle due costanti così trovate, sihanno le equazioni di trasformazione cercate:

Per completare basta osservare che sugli assi y, y’, z e z’ non si ha moto relativo, quindi risulta:

y’ = y

z’ = z

In definitiva il gruppo delle trasformazioni che trova Einstein è:

Queste trasformazioni ci permettono di stabilire “quanto valgono le x’, y’, z’, t’, di un evento rispetto ad S’, quando sono date le grandezze x, y, z, t, dello stesso evento rispetto ad S.”

        Ora, anche se Einstein non lo fa esplicitamente, è utile ricavare le trasformazioni inverse che rispondono alla domanda: quanto valgono le x, y, z, t di un evento rispetto ad S, quando sono date le grandezze x’, y’, z’, t’, dello stesso evento rispetto ad S’ ? Quanto detto corrisponde a situare l’osservatore in S’ e, dato il principio di relatività, supporre S’ in quiete mentre il sistema S si muove con velocità -v rispetto ad esso. Per rispondere alla domanda che ci siamo posti, osservando che già abbiamo ovviamente y = y’ e z = z’, basterà risolvere rispetto ad x e t il sistema formato dalla prima e dalla quarta delle (8). Risolvendo di seguito e, per semplicità, chiamando β = 1/(1 – v2/c2)½ , si trova, successivamente:

ed in definitiva si hanno le equazioni di trasformazioni cercate:

E’ di grande importanza osservare che le (9) si ottengono dalle (8) semplicemente sostituendo a v che compare in queste ultime la quantità – v. E ciò proprio in virtù del fatto che le trasformazioni che trova Einstein godono della proprietà di gruppo (la trasformazione inversa di una data trasformazione deve essere la trasformazione identica).  (868)

       Come si ricorderà ciò non valeva per le equazioni di trasformazione di Lorentz, prima dell’intervento di Poincaré.

       Ma, tornando ad Einstein, egli, dopo essersi ricavate le equazioni di trasformazione (8) (che, incidentalmente e conseguentemente con quanto detto nel paragrafo 1, egli ancora non chiama trasformazioni di Lorentz), passa a dimostrare che “ogni raggio di luce, misurato nel sistema in moto, si propaga con la velocità e, purché ciò, come abbiamo ammesso, accada nel sistema in quiete, poiché non abbiamo ancora dato la dimostrazione che il principio della costanza della velocità della luce sia compatibile con il principio di relatività.”

        Supponiamo allora di considerare un segnale luminoso che all’istante t = t’ = 0 (istante in cui le origini O ed O’ dei due riferimenti S ed S’ coincidono) venga emesso dall’origine O di S (sistema in quiete). Questo segnale si propagherà da O sotto forma di un’onda sferica il cui fronte viaggerà rispetto ad S con la velocità c della luce. La superficie sferica di quest’onda avrà un raggio r che varierà con il tempo (di S) secondo la relazione:

                              r = ct.

Ricordando che l’equazione di una sfera con centro nell’origine degli assi (in S) è data da:

                     x2 + y2 + z2  = r2

si vede subito che nel nostro caso si ha:

                     x2 + y2 + z2 = c2t2. (869)                                                    (10)                   

Se applicando le trasformazioni (9) a questa equazione otteniamo anche per il sistema S’ l’equazione di una superficie sferica che si propaga dall’origine O’ con velocità c, allora avremo dimostrato la compatibilità dei due principi di Einstein. Risolvendo di seguito, si trova:

L’onda in oggetto è dunque, anche considerata nel sistema in moto, un’onda sferica con la velocità di propagazione c. Con ciò è mostrato che i nostri due principi fondamentali sono … compatibili.”

E ciò vuol anche dire che se la luce ha velocità c nel sistema S, essa ha la stessa velocità c nel sistema S’, indipendentemente dalla velocità di quest’ultimo rispetto al primo; si ha infatti:

r’ = ct’.

        Possiamo a questo punto passare al quarto paragrafo della memoria di Einstein dal titolo Significato fisico delle equazioni ottenute, riguardanti corpi rigidi ed orologi in movimento.

        Si inizia con il considerare, nel sistema S’ in moto relativamente al sistema S in quiete, un corpo rigido che ha la forma di una sfera di raggio S e che ha il suo centro nell’origine delle coordinate. Nel sistema S’ la superficie di questa sfera è data dall’equazione:

x’2 + y’2 + z’2 = R2.

Al tempo t = 0, nel sistema S, questa equazione diventa (applicando la prima delle trasformazioni (6), nella quale si ponga  t = 0, oltre alla seconda e terza):

E ciò vuol dire che:

un corpo solido, che misurato in stato di quiete ha la forma di una sfera, ha dunque in stato di moto – considerato dal sistema in quiete – la forma di un ellissoide di rotazione … Mentre dunque le dimensioni y e z della sfera (ma anche di qualsiasi altro corpo di qualsiasi forma) non appaiono modificate a cagione del moto, la dimensione x appare accorciata del rapporto (1 – v2/c2)-1/2, dunque tanto più fortemente quanto più grande è v. Per v = c tutti i corpi mossi – considerati dal sistema in quiete – si contraggono in figure superficiali. Per velocità superiori a quella della luce le nostre considerazioni perdono il loro significato; d’altronde vedremo nelle considerazioni che seguiranno che la velocità della luce ha, nella nostra teoria, fisicamente il ruolo di una velocità infinita. E’ chiaro che uguali risultati sussistono per un corpo fisso nel sistema in quiete quando venga considerato da un sistema in moto uniforme.”

I corpi di un sistema in moto, quindi, se osservati da un sistema in quiete, si contraggono nella direzione del moto. La contrazione è tanto maggiore, quanto maggiore è la velocità v del moto relativo; al limite, per v = c, la dimensione dell’oggetto nel verso del moto si annulla. Questa pertanto è la prima

considerazione che fa concludere ad Einstein che la velocità della luce è una velocità fisicamente infinita, cioè che essa è  insuperabile o, che è lo stesso, che essa è una velocità limite. E’ importante sottolineare che un’uguale contrazione nel verso del moto si osserverebbe dal sistema in moto

sul sistema in quiete a seguito del principio di relatività.

        Analogo ragionamento si può fare per i tempi. Supponiamo di avere un orologio che nel sistema S in quiete dia il tempo t, mentre (lo stesso orologio) nel sistema S’ in moto dia il tempo t’. Poniamo quest’orologio nell’origine delle coordinate di S’ e vediamo che tempo fornisce in S. La quarta delle trasformazioni (8) ci dice che:

inoltre sappiamo che, in S:

x = vt.

Sostituendo quest’ultima relazione nella precedente, si trova:

In definitiva, il tempo t’ segnato da un orologio in moto, quando esso è valutato da un riferimento in quiete, è in ritardo di (1 – v2/c2)1/2 rispetto al tempo t misurato nel sistema in quiete. E ciò vuol dire che il tempo del sistema in moto, se osservato dal sistema in quiete, scorre più lentamente o, che è lo stesso, si dilata. Dalla relazione (12) inoltre si vede subito che per v = c si ha che t’ = 0, e cioè che il tempo e’ fermo in un sistema che si muove con la velocità della luce, quando è osservato da un sistema in quiete. Anche qui si possono fare le stesse considerazioni fatte precedentemente a proposito di velocità superiori a c (in questo caso il tempo t’ diventerebbe una grandezza algebricamente immaginaria alla quale non sapremmo quale significato fisico assegnare). Anche qui, resta inteso che, data la validità del principio di relatività, una medesima dilatazione del tempo si osserva dal sistema in moto sul sistema in quiete. Einstein aggiunge, a questo punto, che questo risultato vale anche quando l’orologio si muove da un punto ad un altro seguendo una linea poligonale ed ancora se questa poligonale è chiusa. Quest’ultimo fatto fa dire ad Einstein un qualcosa che, successivamente ed

ancora oggi, ha dato il via ad una serie di speculazioni che sono lungi dall’aver trovato una soluzione. Dice Einstein:

se si trovano in A due orologi sincroni e si muove uno di essi con velocità costante su una curva chiusa finché ritorna in A, ciò che potrebbe durare t sec, quest’ultimo orologio al suo arrivo in A si trova, rispetto all’orologio rimasto immobile, in ritardo di 1/2.t.v2/c2 sec.” (870)

      E finalmente arriviamo all’ultimo paragrafo della parte cinematica che è dedicato alla composizione delle velocità.  (871)

        In accordo con la costanza di c e con il suo non sommarsi con nessuna altra velocità, occorrerà trovare delle equazioni di trasformazione che, nel passaggio da un sistema ad un altro, rendano, al limite, c + c = c.

        Supponiamo che un punto materiale si muova sul sistema  S’ che è, ricordiamolo, in moto con velocità v rispetto al sistema S supposto in quiete. Questo punto si muova, per semplicità, l’ungo l’asse x’ (che ha la stessa direzione dell’asse x di S) e sia u’ la sua velocità rispetto ad S’. Si vuole conoscere con quale velocità u si muove questo punto rispetto al sistema S (o, che è lo stesso, quanto vale u’ osservata da S). Cominciamo con l’osservare che il moto del punto materiale sul sistema S’ è descritto dall’equazione:

x’ = u’t’.

Basta applicare le trasformazioni (6) a x’ e t’ di quest’ultima relazione, per trovare ciò che cerchiamo. Si ha

Dividendo ambo i membri per t e ricordando che nel sistema S è x/t = u, si trova l’equazione di trasformazione cercata:

            Si noti che per velocità u’ e v molto piccole rispetto a c, il termine u’v/c2, che si trova al denominatore, può essere trascurato, di modo che si ottiene l’equazione classica di addizione delle velocità (quella di Galileo):

u =  u’ + v.

Nel caso limite, già annunciato, in cui sia u’ sia v valgano c, la velocità risultante sarà:

Da quanto detto

segue che dalla composizione di due velocità, le quali siano minori di c, risulta sempre una velocità minore di c …

Segue inoltre che la velocità della luce c non può venir modificata per composizioni con una velocità inferiore a quella della luce.”

        E qui, dopo aver fatto notare che varie trasformazioni come la (13), quando sono applicate a vari sistemi di riferimento, formano gruppo, Einstein conclude la parte cinematica per passare a mostrarne le applicazioni all’elettrodinamica.

NOTE

(826) Annalen der Physik, 17; 1905; pagg. 891-921. Una traduzione in italiano di questo lavoro si trova in bibl.174, pagg.479-504. A questa mi riferirò.

La diversità radicale della trattazione einsteniana sta nel tentativo (riuscito) di risolvere le questioni che si ponevano mediante la fisica dei principi. Egli infatti non entra in estenuanti e successive elaborazioni elettrodinamiche; non fa una fisica costruttiva tentando di “formare un quadro dei fenomeni complessi partendo da certi principi relativamente semplici“, da elementi ipotetici, in definitiva, di tipo riduzionista. Einstein cerca invece delle”proprietà generali dei fenomeni osservate empiricamente, principi dai quali vengono dedotte formule matematiche di tipo tale da valere in ogni caso particolare si presenti“.          

Il problema principale per Einstein è la sua profonda insoddisfazione per le equazioni di Maxwell-Lorentz.  Egli aveva provato più volte a correggerne gli errori mediante un approccio costruttivo, ma, come già detto, tutti i tentativi “fallirono completamente“. Nel caso particolare dell’elettrodinamica, quelle equazioni fornivano, come vedremo, risultati diversi se applicate a sistemi di riferimento diversi Inoltre, anche qui come nel caso dei quanti di luce, l’asimmetria esistente tra campi continui e cariche discrete è un prodotto della teoria degli elettroni che Einstein non si sente di accettare.

Infine non va dimenticato che le elaborazioni di Lorentz introducevano qua e là delle profonde modificazioni ai concetti fondamentali della meccanica. Ed allora, dato che si  procedeva  in silenzio ad una revisione della meccanica, perché non pagare questo prezzo ma al fine di ottenere dei principi più generali, magari andando ad una revisione più profonda della meccanica stessa ? 

 Ciò che colpiva di più Einstein era proprio l’asimmetria che si presentava quando si applicavano le equazioni di Maxwell a differenti sistemi di riferimento.   Egli tentava di far rientrare la suddetta asimmetria cercando un apparato teorico, sia per i fenomeni ottici che per quelli elettromagnetici, nel quale solo avesse significato il moto relativo, un apparato teorico cioè che mantenesse immutate le equazioni nel passaggio da un riferimento ad un altro che fosse in moto traslatorio uniforme rispetto al primo.

Se uno si muovesse alla velocità della luce, con un’onda elettromagnetica, dovrebbe descrivere il mondo in un modo differente da chi è in riposo rispetto alla Terra, egli, vedendo solo l’oscillazione di un campo che non si propaga nel tempo, sarebbe in grado di decidere qual è il suo stato di moto rispetto all’etere (si sta muovendo con velocità c) violando in questo modo il principio classico di relatività; inoltre questo fatto non è previsto all’interno delle stesse equazioni di Maxwell. E’ come se si avesse a che fare con la luce immobile e ciò è inammissibile poiché la stessa luce è definita proprio dalla sua frequenza di movimento.

(827) Annalen der Physik,18; 1905; pagg. 639-641. Una traduzione in italiano di questo lavoro si trova in bibl. l74 pagg. 505-50 7. A questa mi riferirò.

(828) La famosa relazione E = mc2  sarà ricavata da Einstein in un lavoro del 1907 pubblicato nel Jahrbuch der Radioaktivität

(837) Bibl. 174, pag. 479. Tutte le citazioni che seguiranno senza riferimento bibliografico sono tratte, salvo avviso contrario, da questo testo di bibliografia, da pag. 479 a pag. 504.

(849) Colui che per primo formulò in modo esplicito l’operazionismo fu il fisico statunitense P.W. Bridgman (l862-1961) . Per eliminare dalla fisica e dalla scienza in genere molti concetti metafisici, Bridgman propose (1927) di definire i vari concetti che si utilizzano nella fisica in termini di operazioni o processi (di misura, di laboratorio, …). In un suo saggio, Le teorie di Einstein  da un punto di vista operativo, inserito nel volume curato da Schlipp, Albert Einstein, scienziato e filosofo (bibl.168, pagg. 281-301), Bridgman afferma che colui che ha, nei fatti, inventato l’operazionismo è stato proprio Einstein con la sua Teoria della relatività ristretta. Dice Bridgman in apertura del saggio: “ Questa esposizione tenterà di dimostrare che Einstein non riportò nella sua relatività generale la profondità e gli insegnamenti che egli stesso ci aveva dato con la sua teoria particolare.” Einstein quindi, almeno con la sua relatività generale, abbandonò il punto di vista operativo nella definizione delle grandezze. Sul l’argomento si veda anche Bergia in bibl. 148,  pagg. 37-38.                                

(850) Si noti che un’altra possibilità di dare i tempi per avvenimenti che si svolgono in luoghi differenti potrebbe essere quella di portare gli orologi nello stesso luogo, sincronizzarli e quindi riportarli nei luoghi d’origine. Einstein non prende in considerazione questa possibilità perché, probabilmente, aveva in mente due difficoltà: chi garantisce che il moto non alteri il funzionamento degli orologi ? e chi ci assicura che per due fenomeni differenti  i tempi passino allo stesso modo? Si ricordi che quella di Einstein è una definizione operativa.

(851) In definitiva, per sincronizzare un orologio che sta in A con uno che sta in B, si invia un segnale luminoso da A a B e si attende che ritorni in A. Alla fine dell’esperimento il tempo totale letto sa A, diviso per due, permette di sincronizzare i due orologi.

(852) Si noti che, in accordo con il Principio di relatività, tutti i sistemi inerziali sono equivalenti. Scelto un sistema inerziale a caso, nessuno ci vieta di considerarlo come se fosse in quiete (ed il fatto è in accordo anche con il principio classico di relatività). Occorre comunque ricordare che, dato un sistema inerziale, tutti quei sistemi che si muovono di moto rettilineo uniforme rispetto a quello, sono anch’essi inerziali.

(853) Taylor, in un modo divertente, fa rilevare: ” in queste spiegazioni intervengono sempre gli osservatori, i quali non possono neppure dormire perché, se lo facessero, potrebbero perdersi qualche avvenimento importante e mettere in crisi l’intera teoria” (bibl. 177, pag.86). Sulla abbondanza degli osservatori nella relatività basta tener sempre presente che l’osservatore non è né un fisico né un filosofo; non é uno che fa teorie ma, al contrario, è  un esecutore materiale di misure, un operatore metrico.

(854) Se qualcuno, che ha già una qualche conoscenza di relatività, pensasse a per ora non meglio specificate contrazioni dell’asta, tenga conto che le contrazioni riguardano anche il regolo di misura. Ma su questo torneremo più oltre.  

(855) Cioè: nel sistema in quiete risulterà, come abbiamo visto, tB – tA = t’A – tB . Il che vuol dire che: l’orologio che si trova in A indicherà il tempo di A nel luogo in cui si trova A; l’orologio che si trova in B indicherà il tempo di B nel luogo in cui si trova B; sia l’orologio di A che quello di B indicheranno il tempo del sistema in quiete; nel sistema in quiete i due orologi risulteranno sincroni.

(856) Come lo stesso Einstein ci fa osservare, questo tempo del sistema in quiete è anche la “posizione delle lancette dell’orologio del sistema in moto” che si trova nel luogo di cui si parla.

(857) Se si ricorda l’enunciato originale di Einstein del principio di costanza della velocità della luce (dato appena qualche riga più su), si riconoscerà che la velocità della luce, nel sistema in quiete, deve essere c. Ciò vuol dire che gli orologi del sistema in quiete misureranno un tempo maggiore per la luce che va da A a B rispetto a quello necessario alla luce per andare da B ad A. In un caso infatti bisognerà tener conto del fatto che la luce emessa da A deve raggiungere B che si allontana con velocità v; nell’altro caso,  la luce riflessa da B dovrà raggiungere A che si avvicina con velocità v.

(858) Facendo seguito a quanto detto nella nota precedente, se gli orologi che si trovano in moto agli estremi dell’asta in movimento sono sincronizzati con il metodo di Einstein, rispetto al sistema in quiete daranno, tra loro e istante per istante, letture differenti. Ma poiché il principio della costanza di c è affermato per tutti i sistemi inerziali, noi dobbiamo ammettere che gli orologi nel sistema in moto, sincronizzati tra loro con  il solito metodo, sono effettivamente sincroni tra loro.

(859) II modo con cui Einstein ricava le equazioni di trasformazione nella memoria del 1905 è, per noi, complesso per due motivi: 1) si introducono le equazioni alle derivate parziali che non conosciamo (non tutti almeno); 2) si svolgono dei ragionamenti un poco farragginosi (a posteriori!).

(860) In un lavoro divulgativo dal titolo Sulla relatività speciale e generale, bibl. 178. In particolare la trattazione  che ci riguarda è in appendice, al paragrafo 11, pagg 68-70. Anche qui ho cambiato alcune notazioni di Einstein in modo da renderle conseguenti con altre notazioni da me usate in altra parte di questo lavoro.

(861) In sostanza andremo a studiare il problema ad una dimensione anziché complicarlo in tre dimensioni; e ciò vuol dire che ci occuperemo solo delle variazioni della coordinata x (oppure x’), restando inteso che per le altre coordinate valgono le seguenti equazioni di trasformazione:  y = y’ e z = z’.

(861 bis) Bibl. 178, pag. 66.

(862) Ibidem, pag. 68.

(863) Poiché all’istante in cui l’evento comincia a prodursi le origini dei due riferimenti coincidono, anche in S’ il segnale luminoso sarà emesso al tempo t’ = 0. E, data appunto la costanza di c, anche in S dopo un tempo t’, il segnale luminoso si troverà ad occupare l’ascissa x’ = ct’.

(864) A partire da questo punto, P. Couderc segue un metodo diverso per ricavarsi le trasformazioni di Lorentz (si veda allo scopo bibl. 180, pagg. 120-122 ).

(865) Ibidem, pagg. 69-70. Si osservi che una ‘istantanea’, scattata quando il centro del regolo è sull’asse ottico della macchina fotografica, permette di traguardare simultaneamente gli estremi del regolo.

(866) Δx è la lunghezza di un regolo-campione, in quiete su S’, valutata da S mediante una ‘istantanea’.

(867) Come già detto (nota 859), Einstein , nella sua memoria del 1905 utilizzò un metodo differente per ricavare le  (8).  In breve,  egli prima di tutto annuncia che “le equazioni da trovare devono essere lineari a cagione della proprietà di omogeneità che noi attribuiamo allo spazio e al tempo“, quindi, utilizzando il metodo di sincronizzazione precedentemente definito, va a calcolarsi l’equazione di trasformazione del tempo nel passaggio dal sistema S al sistema S’. Questa equazione dipende da un fattore f(v), dipendente dalla velocità, da determinarsi. Con l’equazione di trasformazione del tempo egli si va a calcolare l’equazione di trasformazione delle coordinate. Tutte queste equazioni sono date a meno del fattore f(v). A questo punto Einstein passa a dimostrare che anche nel sistema in moto la luce si propaga con velocità c (se, appunto, con questa velocità essa si propaga nel sistema in quiete); e ciò gli serve per dimostrare la compatibilità del principio di relatività con quello della costanza di c. Per fare ciò egli si serve delle equazioni di due onde sferiche luminose emesse all’origine dei due riferimenti al tempo t = t’ =0 (quando, passandosi vicino i due sistemi, le.due origini coincidono) e poiché esse , applicandovi le trasformazioni già trovate, risultano ancora sferiche (nel passaggio dall’una all’altra), Einstein può concludere che “i nostri due principi fondamentali sono compatibili“. L’ultimo passo che Einstein fece fu quello di sbarazzarsi del fattore f(v). Allo scopo egli introduce un terzo sistema di coordinate S” che si muove rispetto ad S come lo faceva S’, ma questa volta con velocità  -v. Mediante una doppia applicazione delle equazioni di trasformazione egli trova che le coordinate x’’, y’’,  z’’,  t’’ del sistema S’’, sono legate a quelle (x, y, z, t) del sistema S dalle relazioni:

                             x” = f(v).f(-v)x

                             y” = f(v).f(-v)y

                              z“ = f(v).f(-v)z

                              t” = f(v).f(-v)t

dove f(-v) è un altro fattore indeterminato che gli viene fuori nel ricavare le equazioni di trasformazione da S” ad S. Einstein osserva allora:

Poiché  le  relazioni  tra  s”,  y”,   z”  e  x, y, z  non  contengono  il  tempo  t,  i due sistemi S ed S” sono relativamente in quiete, ed è chiaro che la trasformazione da S ad S” deve essere la trasformazione identica. E’ dunque:

                             f(v).f(-v) =1.”

Quindi, con l’introduzione di considerazioni di teoria dei gruppi (la trasformazione inversa di una data trasformazione deve essere la trasformazione identica) egli riesce a trovare una prima relazione che gli permetterà di ricavare f(v). Da altre considerazioni trova che:

                             f(v) = f(-v)

 e quindi, mettendo insieme le ultime due relazioni, può concludere che

                                f(v) = 1.

  Si osservi la maggiore semplicità di questo metodo e quante ipotesi in meno sono necessarie rispetto a quanto aveva fatto Lorentz che si era trovato di fronte allo stesso problema.

(868) Si noti come ‘proprietà di gruppo’ e ‘principio di relatività’ siano esattamente la stessa cosa: la prima esprimendo in modo analitico il secondo. Si può ora ricordare che le trasformazioni che trovò Lorentz non godevano della proprietà di gruppo poiché, data l’immobilità dell’etere, non ha senso la trasformazione inversa del sistema di riferimento in moto con il sistema in riposo rispetto all’etere.

(869) Si può anticipare una osservazione sulla quale torneremo più oltre. La velocità della luce c è una costante che noi abbiamo studiato solo incidentalmente per la luce; essa ha un significato più generale rappresentando una proprietà dello spazio-tempo. Dalla (10) si vede infatti che c è quella costante che, moltiplicata per t, rende omogenee le grandezze in gioco nello spazio-tempo.

(870) Su questo  ‘paradosso degli orologi’ il fisico francese P. Langevin (1872 -1946) costruirà nel 1911 il famoso ‘paradosso dei gemelli’ del quale discuteremo più oltre. Basti per ora dire che per percorrere una poligonale sono necessarie delle accelerazioni e le accelerazioni sono competenza della relatività generale e non della relatività ristretta.

(871) Anche qui seguirò un metodo differente da quello utilizzato da Einstein nella sua memoria del 1905.

      

                                                      .

                                                            

                                                         

      

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