Due parole su “Un programma di fisica …”

Roberto Renzetti

(1983)

        Sono vari anni che su riviste, le più diverse, ci sono articoli che si occupano di “nuovi programmi di fisica”. Questa volta leggo di questi argomenti, senz’altro stimolanti, sulla nostra rivista: Quale Energia. Nel n. 1 vi sono articoli di E. Boni e A. Drago; nel n. 2-3 un lavoro di A. Baracca.

        Poiché si tratta di studiosi che stimo, ritengo utile reprimere la pigrizia e fare alcune osservazioni (in modo problematico per cercar di chiarire meglio i problemi e, eventualmente, di avere delle risposte che neghino i miei assunti).

        Sono dodici anni che insegno fisica e mi occupo di questioni riguardanti la didattica. Ho cominciato all’università, ho continuato nelle scuole con un lavoro d’equipe con vari colleghi interessati al problema, ho lavorato nell’Aif (Associazione per l’insegnamento della fisica) e in più di cinquanta corsi di aggiornamento; ora lavoro forzatamente da solo perché mi trovo all’ estero. In questi anni ho imparato che la didattica è una sorta di rifugio a tempo perso per moltissime persone mentre è un impegno a tempo pieno per relativamente poche persone. Credo di aver capito che il problema principale nasce dal fatto che, qualunque cosa si faccia in didattica, non è in alcun modo riconosciuta a fini di concorsi, carriera, punteggi, stipendio. E così chi si occupa di didattica a tempo pieno è in genere un insegnante, uno che lo fa probabilmente mosso dalla constatazione dell’evanescenza del suo lavoro, e forse anche per trasformare la routine in qualcosa di dinamico, di attivo. Chi, al contrario, si occupa di didattica a tempo perso è in genere colui che lavora all’università: la sua carriera si costruisce con pubblicazioni che nulla hanno a che fare con la didattica; egli deve produrre cose ”serie” e solo ogni tanto, forte dei riconoscimenti in altri campi, può piombare senza cognizione di causa in un campo di ricerche che non è il suo.

        Ecco, se solo si capisse che la didattica ha un suo specifico e una sua dignità di ricerca, si sarebbe un poco più umili e ci si comporterebbe come uno che si occupa di “particelle” e difficilmente interferirebbe con chi. si occupa di “stato solido”. Invece, chissà perché, in didattica tutti sono autorizzati, a metter bocca. Vorrei chiarire che il contributo di chiunque è buono e benvenuto; ma questo chiunque, scoperta l’importanza del problema, vi si metta a lavorare a tempo pieno. Che senso ha uscirsene ogni tanto con proposte di nuovi programmi, estemporanei, non pensati collegialmente, non pensati in relazione alla realtà nella quale si opera? La costruzione di un iter didattico è un’operazione di grande complessità.

        Non si tratta solo di fare un elenco di argomenti più o meno logicamente collegati tra loro, ma di capire che si tratta di inserire queste cose in una struttura, la scuola, che abbiamo voluto di massa e che deve restare di massa.

        In una situazione del genere, a meno di parzialissimi atti volontaristici, la produzione artigianale deve cedere il passo a una produzione di tipo industriale, e in nessun caso ci si può riferire a un preteso “insegnante di fascino” o a “un programma di fascino”. O si vogliono costruire isole felici completamente slegate dalla realtà più generale che – chiedo scusa – è quella che più m’interessa ? Si pensi solo a una banalità: il bel programma ideato dall’insegnante “moderno” e “dinamico” che fine fa quando quest’insegnante si ammala per un mese e deve venire un supplente? E quando al primo anno si fa la termodinamica e al secondo arriva un altro insegnante che rifà la termodinamica (come è previsto dagli attuali programmi)?

        Il problema è piuttosto quello di studiare un qualcosa in tutte le sue articolazioni e di produrre materiali didattici, anche per non lasciare solo l’insegnante di provincia che non ha biblioteche, emeroteche, musei, sale di proiezione.

        Non sono quindi – o non soltanto – le idee geniali che occorrono, ma un lavoro costante e continuo, di “ricerca e di produzione”. Per far questo servono soldi che gli organi preposti allo scopo non forniscono. Se si vuole dimostrare che scuola di massa è sinonimo di dequalificazione, tocca a noi dimostrare che non è vero; ma a livello di massa e non di piccole isole. E occorre – anche – far acquisire agli studenti una convinzione di fondo: tra curiosità e interesse c’è di mezzo la fatica. Al di là di questo discorso generale, mi interessa entrare nel merito delle cose dette da Baracca.

        La domanda che mi pongo è: perché un programma di fisica fondato sui problemi energetici e ambientali dovrebbe essere migliore di un altro programma? Oltre al fatto che in linea teorica è quello per il quale i ragazzi (ma quali?) dovrebbero essere oggi più motivati, non riesco a trovare altra risposta. E che ne direste allora di fare un programma di elettronica finalizzato alla costruzione di un amplificatore? (Vi assicuro che questi argomenti sollevano maggiori curiosità che non l’energia). Ho provato negli anni passati a far cose del genere e la motivazione iniziale (curiosità) è certamente grande; ma, quando si tratta di passare a impostare equazioni e a svilupparle analiticamente, quando si tratta cioè di lavorare (fatica), gran parte della motivazione iniziale se ne va (non c’è interesse). L’atteggiamento più comune è: questa cosa mi piace, tu insegnante dammi una risposta, la più immediata possibile, altrimenti rinuncia perché ho altre curiosità.

        E chiunque abbia lavorato nella scuola sa quanto, a questo punto, occorra lavorare per non creare l’illusione che rutto è facile, semplice e scontato.

        Oltre a ciò, si crede davvero che è un programma che qualifica un corso di fisica? Se cosi fosse, chi pensa questo sottintende che il fine di un corso di fisica (a livello liceale) è il contenuto delle cose che si studiano, quando ormai si e abbastanza d’accordo sul fatto che, al di là delle cose che si studiano, è importante “imparare a studiare”, a porsi davanti a problemi, imparare un metodo di lavoro che poi, in qualunque campo si vorrà specializzare lo studente, gli sarà utile. Sono convinto che è poco importante il programma; grande importanza riveste il modo con cui si fa. Sono altrettanto convinto che, per capire qualcosa della questione energetica, non è indispensabile strutturare un programma sull’energia, ma – fra l’altro – far bene la fisica (e in genere lavorare bene in tutte le discipline), qualunque programma si faccia. In definitiva: non c’è un solo programma di fisica, così come non c’è un solo modo di insegnarla; ma, qualunque programma e metodo di lavoro si scelga, bisogna programmarlo lavorandoci sopra molto al fine di renderlo generalizzabile (la mobilità degli insegnanti non può ricadere sulla testa degli studenti).

        Ancora più in dettaglio: la cinematica è certamente arida e noiosa (se ne potrebbe comunque discutere); ma quando partissimo dalla misura della velocità di un contatore della luce (stupida idea avanzata da una supposta “esperta in didattica” che confonde la fisica con le osservazioni scientifiche), cosa diciamo ai ragazzi a proposito di velocità? Ci basta quanto sostiene Piaget: è un concetto intuitivo? E se la velocità può esser data come intuitiva, la “forza” che compare nell’espressione del “lavoro”, come la esplicitiamo in “m·a” Che diciamo di “a”? E se la traiettoria del corpo non è rettilinea, pur rimanendo la velocità costante, come parliamo di accelerazione centripeta? E se non introduciamo il punto materiale, come facciamo a parlare della conservazione dell’energia meccanica, ad esempio, nel caso di un pendolo? (Il corpo rigido – pendolo composto – è un qualcosa di più complesso che richiede la conoscenza dei momenti d’inerzia. E quanto sia intrinsecamente utile l’introduzione di un concetto limite come il punto materiale lo dimostra proprio l’altro concetto limite: la macchina di Carnot).

        Si intende fare la cinematica “a pezzettini” e trattare l’argomento che serve ogni volta che serve? Si è pensato, ad esempio, a quanto la cinematica potrebbe risultare gradevole se applicata a problemi astronomici? Si e pensato all’insostituibilità della cinematica per semplici problemi applicativi di analisi matematica?

        Tanto per evitare equivoci, sono convinto che tutto ciò si possa risolvere; ma credo si possa convenire sulla mole di lavoro che un’operazione del genere richiede.

        Credo però di capire le esigenze da cui Baracca muove e, queste si, sono reali e di grande attualità. Solo che qui emerge quella sovrapposizione di piani con la quale troppo spesso ci scontriamo nella scuola.

        Dico subito che una cosa è fare fisica, un’altra farne la storia.

[E qui entro in un campo nel quale Baracca mi è maestro e ha dato contributi notevolissimi alla didattica, pur non facendo esplicitamente didattica. Per quanto mi riguarda, i lavori che egli ha prodotto, da solo o insieme ad altri, su questioni di rapporti tra Scienza, Storia, Tecnica e Società mi hanno fatto capire varie cose e si sono riflessi con grande utilità nel mio insegnamento].

        Tornando a quanto dicevo sopra, una delle tendenze che più volte ho riscontrato in colleghi fisici può essere riassunta così: dopo aver lavorato analiticamente molti anni su questioni di fisica, ora ho più chiare le problematiche che si pongono e mi sono costruito svariate sintesi; ebbene, sono queste sintesi che voglio passare agli studenti. Questo è, secondo me, uno degli errori più gravi che si possano fare: nella scuola occorre lavorare analiticamente perché gli studenti imparino a costruirsi loro delle sintesi, e non per fornirgli prodotti già confezionati che hanno perso tutta la loro capacità nutritiva.

        Quanto sto dicendo è connesso con il problema della storia della fisica, almeno nel senso che questa storia non può prescindere da una conoscenza a priori dei contenuti specifici della fisica. E allora, come si fa a far cogliere la grande novità dell’affermazione dei concetti di lavoro e conservazione dell’energia, in connessione stretta con le esigenze produttive della seconda rivoluzione industriale, se non si sa: come si lavorava prima, a quali esigenze rispondeva la fisica (ma la fisica!) precedente; cos’è lavoro; cos’è energia;… ? Sarebbe l’equivalente di quanto già accade ora, ed è disastroso: si dà grande enfasi alla rivoluzione scientifica e non si fa capire perché quella doveva essere una “rivoluzione”. Rispetto a che? Chi mai ha spiegato la fisica aristotelica ai ragazzi? Ma, tranquilli, nulla di grave, si tratta solo di far recitare agli studenti l’ennesimo atto di fede.

        Per quanto appena accennato, uno dei problemi che a me sta particolarmente a cuore è questa mutilazione che si vive nella scuola: si fa la Storia di tutto (delle guerre, delle paci, della musica, dell’arte, della letteratura, della religione, della filosofia); non compare traccia di una storia della scienza e della tecnica, là dove questo potrebbe essere l’unico momento di saldatura delle “due culture” (si veda l’altro mio lavoro pubblicato sul sito: “La storia della fisica nella Scuola Secondaria“).

        Ma il problema della storia della fisica o delle scienze non si risolve certamente in un corso di fisica o di scienze (questi corsi servono e sono a malapena sufficienti per fare fisica e scienze). D’altra parte non mi sento di avanzare proposte slegate da un contesto più generale. Anche qui credo ci sia molto da lavorare, ben sapendo che in ogni caso la gestione di questi problemi sarà essenzialmente politica.

        Una scienza che cresce e si struttura tende all’assiomatizzazione. Questo fatto, evidentissimo nella matematica, lo è meno nella fisica. Ed ecco che i “Principia” di Newton sono la nostra meccanica assiomatizzata che insegniamo a scuola. È questo un buon motivo per non occuparsi di meccanica ? Credo di no (è possibile tra l’altro costruire un iter non assiomatizzato della meccanica che passi da Galileo ad Huygens). Perché mi sono convinto, sperimentalmente, che nella scuola bisogna fare ancora la rivoluzione galileiana (dopo può anche venire la seconda rivoluzione industriale). Ma, a parte la sistemazione newtoniana della meccanica, che diciamo dei lavori, ad esempio di Galileo ? E pensare che dobbiamo usare gli stessi ragionamenti per convincere i ragazzi che un pezzo di gesso ed un vocabolario, lasciati, cadere da una medesima altezza, arrivano insieme al suolo. E poi, credete, sia facile stabilire che l’aria pesa? Provatevi a fare l’esperienza di Torricelli e a vedere cosa succede: le spiegazioni aristoteliche si sprecano. E che dire del fatto che alcune macchine termiche furono progettate come “atmosferiche” (era la pressione atmosferica che, dopo l’espansione e la condensazione, riportava giù il pistone nel cilindro): cos’è la pressione? C’entra qualcosa con l’aria che pesa? (e qui mi riferisco a Drago); è il caso o no di parlare della costruzione modellistica di Bernoulli, (interpretazione microscopica della pressione) o di Maxwell, Clausius, Boltzmann (significato microscopico dell’ entropia)? Si può fare una fisica dalle macchine o dai motori senza farne la fisica? E i modelli in sé non sono formativi? E perché si dice di partire sperimentalmente dai motori quando poi, e non a caso, si fa l’unico esempio di un qualcosa di statico: un pannello solare?

        È certamente vero che non bisogna fare della fisica l’immagine di una teoria costruita sui ragionamenti e sulle astrazioni estreme invece che sugli esperimenti. Ma la fisica, caro Drago, è anche questo, che si vuole negare! Quindi occorre certamente iniziare in modo intuitivo, ma poi occorre sistemare, organizzare, costruire modelli interpretativi, verificarne la fecondità “con ragionamenti e astrazioni”; si tratta di fare gli “intellettuali scientifici” che sottopongono a trattamento teorico i dati empirici. O forse, a fini euristici, si vuol fornire l’immagine di una fisica così come ci piacerebbe che fosse?

        Insomma, nonostante tutto e a tutt’oggi, mi pare che la strutturazione cinematica-dinamica-termodinamica-elettromagnerismo (il percorso che prevede l’eliminazione dell’elettrostatica come capitolo a sé è ben descritto dal testo di Vespi) sia la più funzionante anche perché, fra l’altro, ripercorre la successione storica con la quale alcuni concetti si sono costruiti e – perché no? – affermati.

        Concordo in pieno con Baracca là dove afferma la necessità di introdurre nell’insegnamento elementi di fisica moderna, di fare almeno intendere il senso della svolta relativistica quantistica, di fare della fisica nucleare. Ma qui il problema diventa complesso e investe le competenze: attualmente la fisica è insegnata – almeno nei licei – da fisici e da matematici, e questi ultimi, dato l’attuale ordine degli studi, non frequentano corsi di fisica moderna all’università (si pone di nuovo l’annosa questione della separazione delle cattedre).

         Per concludere vorrei dire che è possibile che mi si convinca – anzi, vorrei esser convinto – della possibilità che molte cose si possano fare in modo nuovo; vorrei studiare insieme a vari colleghi la possibilità di strutturare diversamente un programma di fisica: vorrei potervi lavorare a tempo pieno (da professionista e non da militante, quest’ultimo ruolo essendo l’analogo dell’ insegnante missionario di un tempo) .

        E in definitiva – insisto – qualunque programma va bene a due condizioni: che sia strutturato e non lasciato all’improvvisazione; che non sia un alibi e che non giustifichi facili illusioni.



Categorie:Didattica della Fisica

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