Roberto Renzetti
SCUOLA E INDUSTRIA, DALL’UNITÀ ALL’INIZIO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
All’atto dell’Unità d’Italia la politica culturale nei confronti della scienza era da un lato quella ereditata dai singoli stati preunitari (policentrica, sostanzialmente volta a dare lustro al potere), dall’altro quella di una vivace minoranza risorgimentale, orientata a dare un più ampio respiro – nazionale – alla ricerca scientifica. Questa situazione fu affrontata dai primi governi italiani in modo sbrigativo con l’estensione a tutta l’Italia di una legge di derivazione piemontese, che ebbe se non altro il merito di mettere un certo ordine nella pletorica schiera delle università (molte non erano che fabbriche clientelari di lauree) e di tendere a creare scuole superiori qualificate (cosa che riuscì solo con la Scuola Normale Superiore di Pisa). Peraltro la legge ebbe conseguenze negative soprattutto per la sua rigidezza strutturale che impediva la creazione di nuovi insegnamenti, quali erano richiesti dalle esigenze del Paese.
A ciò si aggiunga un livello di finanziamento infimo, soprattutto se paragonato con i finanziamenti alle Accademie di Belle Arti e ai Conservatori e se si tiene conto che, nonostante tutto, l’università era l’unico luogo dove si faceva ricerca in Italia.
Se si va poi a vedere la distribuzione delle varie cattedre all’interno delle università, si scopre che le due discipline che risultavano praticamente schiacciate e con finanziamenti irrisori erano la fisica e la chimica, discipline che erano invece alla base dell’imponente decollo industriale di quegli anni in paesi come la Germania, la Gran Bretagna, la Francia.
Una situazione ancora più drammatica era quella dei settori produttivi del nostro Paese. Al momento dell’Unità l’Italia era un Paese economicamente arretrato. Il prodotto nazionale lordo proveniva per il 58% da un’agricoltura arcaica e latifondista, per il 22% dal terziario e per il 20% da un’industria – essenzialmente tessile e particolarmente della seta – con tecnologia molto debole e in gran pane d’importazione (solo 445 telai meccanici e i rimanenti a mano).
L’industria siderurgica praticamente non esisteva (una trentina di altoforni), quella meccanica forniva piccole percentuali al fabbisogno della nascente rete ferroviaria, quella estrattiva era antiquata e, comunque, la mancanza di materie prime era uno dei maggiori handicap nazionali. Si producevano – da rottami – ghisa e ferro di bassa qualità (praticamente assente la produzione di acciaio); come “combustibili” si utilizzavano il carbone di legna e l’acqua fluente, La politica del libero scambio instaurata dai primi governi favorì l’agricoltura e l’industria della seta danneggiando tutte le altre, in particolare la siderurgica e la meccanica. Pian piano, però, sali il livello di tassazione (che raggiunse il primato europeo) soprattutto per finanziare le opere pubbliche che dovevano servire da indispensabili infrastrutture per lo sviluppo economico e produttivo: ferrovie, ponti, acquedotti, porti, strade, poste, trafori… A pagare queste opere fu soprattutto l’agricoltura, mentre continuavano ad aumentare i bisogni siderurgici e meccanici, ai quali sopperiva l’importazione che era in grado di fornire prodotti migliori, a prezzi inferiori fino al 50%. La siderurgia tentò di aggiornarsi, ma scelte tecnologiche sbagliate impedirono il suo definitivo decollo (i forni Siemens-Martin, meno adatti all’esigenza italiana di lavorare rottami di ferro con l’impiego di minor quantità di combustibile, erano preferiti ai convertitori Bessemer – nel 1914 in Italia vi erano 61 Siemens-Martin e 2 Bessemer).
In ogni caso, grazie soprattutto ad alcune commesse privilegiate da parte delle ferrovie, la produzione siderurgica aumentò estendendosi anche all’acciaio (la qualità rimaneva comunque inferiore alla tedesca) e di conseguenza anche il settore meccanico ne trasse beneficio. Il panorama di quest’ultimo settore risulta comunque deprimente; tutto veniva importato: telai meccanici, macchine agricole, strumenti ottici, scientifici e di precisione, macchine utensili – se si eccettuano alcune imitazioni dell’Ansaldo. Anche i cantieri navali, che lavoravano principalmente su navi a vela, risultarono completamente obsoleti e furono sostituiti da quelli del Nord Europa che lavoravano su navi a vapore.
Un altro colpo all’agricoltura fu assestato dal clamoroso ribasso dei noli marittimi: dagli Usa cominciarono ad arrivare prodotti agricoli a prezzi inferiori a quelli nazionali. Questa situazione indusse a varare leggi protezionistiche (1887): lo scopo era difendere l’agricoltura e sostenere la siderurgia che, negli ultimi anni, aveva visto crescere gli interessi degli investitori e delle banche, oltre che dello Stato che, nel 1884, aveva dato un decisivo contributo alla nascita delle acciaierie Terni.
Sul finire del secolo cominciarono a sorgere le industrie che poi sarebbero risultate trainanti: l’industria elettrica e l’industria meccanica dell’automobile. La prima comportò l’affrancamento dalle urgenti necessità di combustibile, sostituito dall’idroelettricità; la necessità di personale qualificato; la messa in moto della grande edilizia (con conseguente nascita e clamoroso sviluppo dell’industria del cemento); la metallurgia; la meccanica pesante (turbine, condotte); la meccanica di precisione (strumentazione, conduttori); l’industria della ceramica (isolatori); l’industria chimica (isolanti di gomma). L’industria dell’automobile portò invece con sé il decollo di: vetreria, elettrotecnica, gomma, lubrificanti, cuscinetti a sfera, meccanica di precisione. E il take-off industriale italiano fu dovuto proprio alla capacità di svincolarsi da forme rigide e univoche di sviluppo settoriale (siderurgia, agricoltura) e dal graduale allargarsi dell’orizzonte produttivo. Paradossalmente, quindi, i maggiori contributi al take-off industriale vennero proprio dai settori più penalizzati dal protezionismo (la siderurgia non era in grado di fornire prodotti affidabili; l’industria elettrica e quella meccanica dovevano ricorrere all’importazione; i prezzi erano elevati a causa, appunto, del protezionismo: i prodotti elettrotecnici e meccanici non risultavano competitivi sui mercati internazionali). Ma i prodotti dell’industria meccanica nazionale erano spesso carenti anche da un punto di vista tecnico-scientifico. Per parte sua la siderurgia non era invogliata dal protezionismo a migliorare i suoi prodotti, così come l’agricoltura non avvertiva la spinta competitiva alla meccanizzazione.
Fu questa l’epoca del massiccio intervento del capitale straniero attraverso banche create allo scopo – Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano …. a capitale essenzialmente tedesco – e l’epoca in cui ogni tecnico operante all’interno delle nostre fabbriche era straniero.
Gran parte dei problemi accennati nascevano dall’inesistenza di rapporti fra ricerca scientifica e produzione industriale (questa stretta interdipendenza, ad esempio, aveva fatto della Germania la più grande potenza economico-produttiva del mondo). Il protezionismo non invogliava a spendere denari per la ricerca; il capitale straniero non aveva interesse a che si facesse ricerca.
Furono alcuni imprenditori “illuminati” che si resero conto di questa paurosa lacuna e cominciarono a perseguire la promozione di ricerche direttamente legate alle esigenze della produzione industriale (Tosi e Rossi) fino ad arrivare alla creazione di scuole per la formazione di tecnici specializzati (scuole di elettrotecnica di Carlo Erba).
Per parte sua la scuola pubblica non era in grado di fornire all’industria tecnici con un sufficiente livello di qualificazione. A partire dalla Legge Casati (1859), attraverso la legge Coppino (1877) che sulla carta rese obbligatoria la scuola elementare, il sistema scolastico subì svariate modifiche attraverso circolari e decreti. La mancanza di finanziamenti e la drammatica realtà del lavoro infantile resero l’evasione dell’obbligo quasi generalizzata, così che, ancora nel censimento del 1911, più del 50% della popolazione italiana risultava analfabeta. Vi erano pochissime scuole professionali e quasi nessun istituto tecnico, dandosi per tradizione scontato che l’asse portante della scuola fosse l’indirizzo umanistico-letterario.
L’università, per parte sua, non brillava certamente: si reclamavano ideali astratti di “Cultura” completamente slegati dalle esigenze sociali e produttive del Paese, e nessuno, neppure nel settore industriale, pensava ad essa come sede di ricerca scientifica. Le velleità di riforma si muovevano come esercizi teorici su due direttrici principali e contrapposte: (a) università come tempio della Cultura: (b) università professionale. Intanto i già scarsi finanziamenti venivano drasticamente ridotti (Baccelli 19S4). Ciò comportò una ulteriore decadenza dell’istituzione.
E le cose peggiorarono, se possibile, con l’avvento della “sinistra” al potere: clientele si aggiunsero a clientele. Ma un piccolo cenno di cambiamento s’intravide, sulla spinta di quegli imprenditori “illuminati” di cui si diceva: aumentarono le cattedre di tipo applicativo.
In definitiva, all’inizio del secolo, le scuole tecniche superiori più avanzate erano quelle create direttamente dalle imprese (Milano, Torino, Roma, Napoli) che riuscirono a far decollare anche l’industria (Tosi e Breda: locomotive e macchine a vapore; Falck: leghe e acciai speciali; Giuseppe Colombo: sviluppi dell’elettricità; Agnelli, Lancia, Romeo e Maserati…: industrie metallurgiche). Servendosi, fra l’altro, dei primi laboratori di ricerca realizzati in fabbrica e cominciando a consorziarsi per vere e proprie collaborazioni con alcuni istituti universitari. L’inizio di questa collaborazione portò a risultati notevoli, se già all’inizio del secolo erano spariti dalle nostre fabbriche i tecnici stranieri e si cominciavano a sviluppare brevetti italiani.
Passo passo, l’industria italiana cominciò a inserirsi nel settore elettrico con la costruzione di grandi componenti (Ansaldo), cavi isolanti (Pirelli), isolatori ceramici (Ginori), turbine (Riva).
Il settore meccanico cresceva rapidamente. La chimica invece segnava il passo in settori vitali quali i coloranti e la chimica organica: per l’arretratezza della legge universitaria, solo nel 1906 si riuscì a separare l’insegnamento della chimica organica da quello della chimica inorganica.
A malincuore si deve ammettere che lo slancio decisivo all’affermazione dell’industria italiana fu dato dalla guerra.
Prima dalla campagna di Libia che ebbe come conseguenza l’apertura nel 1912, presso il Politecnico di Torino, del primo laboratorio universitario di aeronautica (nonostante ciò i maggiori contributi allo sviluppo dell’aeronautica italiana vennero da privati e particolarmente da Caproni).
La guerra ci privò dei capitali tedeschi, dei brevetti e delle importazioni che fino allora avevano dominato e determinato la nostra economia. La necessità di provvedere da soli comportò cambiamenti radicali: gli scienziati abbandonarono il concetto astratto di scienza; il governo cominciò a interessarsi alla ricerca; vennero fondati l’Ufficio invenzioni e ricerche (Volterra, Belluzzo), il Laboratorio di ottica e meccanica di precisione, il Comitato nazionale scientifico-tecnico per lo sviluppo e l’incremento dell’industria italiana; si scoprì l’enorme importanza della chimica (i tedeschi usavano armi chimiche e avevano ottenuto la sintesi dell’azoto). Si trattava comunque di un cambiamento finalizzato, dietro al quale non vi era alcuna prospettiva di largo respiro: tanto è vero che molte delle iniziative ricordate non sopravvissero alla fine della guerra, anche se qualcosa nell’atteggiamento era cambiato,…
Il settore produttivo fece invece giganteschi balzi in avanti affrancandosi quasi completamente dalla dipendenza dall’estero.
L’industria meccanica (automobili, aerei, motori…) ebbe un’incredibile espansione: Macchi, Agnelli, Caproni, Isotta Fraschini, Bugatti, Savoia-Verduzio (Ansaldo), Olivetti (strumenti elettrici Cgs), Marelli, Breda, Tosi, Romeo. Analogamente l’industria elettrica, che si vide costretta a sopperire alla mancanza d’importazioni di carbon fossile e petrolio; l’industria estrattiva che riattivò fra l’altro vecchie miniere di ferro di buona qualità in Valle d’Aosta (la Montecatini, che partiva dal settore estrattivo, cominciò a entrare in quello chimico): l’industria della gomma (Pirelli) e farmaceutica.
Il dopoguerra portò allo scoperto molti problemi. La riconversione fu durissima: quasi 900 industrie fallirono. Vi furono imponenti crisi: agraria, tessile meccanica e siderurgica. Sul fronte della ricerca gli scienziati sperimentarono un profondo senso di frustrazione per la chiusura dei laboratori e la consapevolezza, prima inesistente, di alcune inalienabili esigenze. I reduci e le distruzioni crearono eserciti di disoccupati. Alcune industrie si erano comunque enormemente potenziate e riuscirono a passare indenni, a volte guadagnandoci, quel periodo. Il consorzio siderurgico Uva si appropriò della Banca Commerciale e del Credito Italiano ( 1921 ): la Montecatini assorbì le due massime industrie produttrici di fosfati (1920); la Terni le sue attività all’elettricità, all’elettrochimica, alla meccanica; le imprese elettriche prosperarono – dati gli alti prezzi raggiunti dai combustibili – disponendo inoltre di un nuovo ampio tratto di arco alpino da imbrigliare; grandi incrementi ebbero la produzione di macchinario tessile, di macchine per cucire Necchi, di macchine per ufficio (Olivetti), di strumenti ottici, di prodotti di meccanica fine e di precisione; la società Snia (Società di navigazione italo-americana), di proprietà Agnelli (Fiat) e Gualino, entrò nel settore della seta artificiale (raion), assorbendo la Viscosa di Pavia. La Snia-Viscosa (1922) ebbe un successo eccezionale, di fronte al crollo dell’industria della seta naturale.
Sul fronte della scienza-ricerca la guerra aveva prodotto alcuni effetti negativi come il nazionalismo tecnico-scientifico, la politica autarchica, la retorica del primato scientifico italiano …; ma anche effetti che, almeno in una certa ottica, sono da ritenersi positivi: il valore pratico della scienza, la continuità dei rapporti scienza-industria.
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