EFFETTI BIOLOGICI E SANITARI DELL’INCIDENTE DI CHERNOBYL SULLE POPOLAZIONI DELL’EX URSS

da http://wwwamb.casaccia.enea.it/pubblicazioni/Chernobyl.doc

F. Mauro & L. Padovani, Dipartimento Ambiente, ENEA, 00060 Roma

Riassunto

Gli effetti biologici e sanitari dell’incidente di Chernobyl possono essere rilevati soprattutto in popolazioni di repubbliche dell’ex URSS (consistenti parti della Belarus, alcune zone dell’Ucraina e della Federazione Russa). Il quadro che emerge per quel che riguarda queste popolazioni non sembra peraltro essere completo, pur tenendo presente i limiti collegati alla latenza nella comparsa degli effetti tardivi radioindotti.

Gli effetti sanitari dell’incidente di Chernobyl possono essere suddivisi in: (a) effetti radioindotti acuti (deterministici); (b) effetti radioindotti tardivi di tipo probabilistico (stocastici); (c)altri effetti non imputabili alle radiazioni ionizzanti (ma collegati all’incidente) o la cui natura radioindotta è dubbia o contestata. Alcuni effetti biologici osservabili non comportano necessariamente, almeno a certi livelli di dose, una espressione clinica o una rilevanza per le condizioni di salute dell’individuo.

Effetti acuti si sono verificati all’interno del gruppo noto come “liquidatori”, il cui numero stimato, secondo le fonti nazionali, è di circa 800.000 persone, appartenenti però a diverse categorie. I dati presentati dalle autorità ed accettati dall’UNSCEAR riportano: 499 sintomatici, 237 ricoverati, 28 deceduti per sindrome acuta da radiazioni nelle prime settimane, 19 deceduti nel 1987-1996. L’ipotesi che queste cifre non esauriscano il quadro degli effetti acuti verificatisi in questa popolazione può essere avanzata. Alcune stime sono disponibili sulle dosi a cui sono state esposti i “liquidatori”: si ritiene che il 45% abbia ricevuto dosi inferiori a 100 mSv, per il 47% tra 100 e 250 mSv, per l’8% tra 250 e 500 mSv ed alcune centinaia dosi superiori a 500 mSv. Effetti acuti di questo tipo non sono state riportati in popolazioni diverse dai “liquidatori”.

Il principale effetto tardivo che ci si poteva attendere a fronte dell’esposizione a radiazioni ionizzanti a seguito del rilascio è l’aumento dell’induzione di alcuni tipi di tumori. Diversi studi sono stati condotti allo scopo di individuare queste patologie in alcuni dei gruppi evacuati (per un totale di circa 130.000 persone, di cui 49.000 dalla città di Prypiat) dalla zona circostante la centrale (circa 30 km di raggio) e di quelli che hanno continuato a vivere in zone (soprattutto rurali) abbastanza contaminate (numero minimo riportato: 270.000).

Si valuta che la popolazione che è stata evacuata abbia ricevuto dosi variabili tra 30 e 500 mSv con un valore medio di circa 120 mSv. Nel caso degli individui (non evacuati) abitanti zone ad alta contaminazione (>555 kBq/m2), le dosi medie le dosi medie dovute al cesio (soprattutto 137Cs) risultano di 40 mSv (con una distribuzione da 5 a 250 mSv), tenendo conto delle contromisure a carattere alimentare.

Per quel che riguarda le popolazioni più in generale, stime di dose collettiva sono state calcolate, oltre che da vari studiosi, dalla UNSCEAR, sulla base delle misure di deposizione e di modelli di trasferimento. La dose collettiva efficace impegnata dall’incidente di Chernobyl per la popolazione totale dell’intero pianeta (di fatto il solo emisfero nord) è stimata in 600.000 Sv-persona. Tale dose collettiva è distribuita per il 53% alle popolazioni dell’Europa (escluse le regioni europee dell’ex URSS) e per il 36% all’ex URSS (nella sua interezza).

Un incremento statisticamentre significativo dell’incidenza di carcinoma della tiroide è stato osservato ed è l’oggetto del contributo specifico di un altro autore in questa conferenza. Non sono stati invece verificati aumenti significativi di leucemia o di altri tumori radioinducibili.

Il problema di verificare l’eventuale insorgere di effetti tardivi avrebbe potuto certo essere affrontato nel gruppo dei “liquidatori”. E’ possibile che in futuro informazioni più precise emergano dallo s tsl proposito; gli effetti attesi in questo gruppo, sulla base delle dosi stimate , sono dell’ordine di grandezza di 1 decina di migliaia di tumori con esito letale. Inoltre, nell’ambito della costruzione di registri epidemiologici, alcuni dati sono stati forniti per circa 300.000 “liquidatori”, per i quali è stato riportata un tendenza all’aumento dell’incidenza dei tumori maligni, un eccesso di morbidità per alcune patologie (sistema endocrino, sangue e sistema emopoietico, sistema circolatorio, sistema digestivo, disordini psichiatrici), ma non un eccesso di mortalità (nel 1990 e 1991). Nel caso poi di 99.000 di questi “liquidatori”, per cui erano disponibili dati dosimetrici documentati, è stato riportato un aumento dipendente linearmente dalla dose, dei valori di rischio relativo per tumori maligni ed alcune malattie. Queste osservazioni non sono considerate come conclusive e non risolvono il problema della natura radioindotta o meno di queste patologie o di alcune di esse.

Gli effetti attesi sia per la popolazione evacuata (130.000), sia per la popolazione residente in zone ad alta contaminazione (270.000), sono dell’ordine di grandezza di alcune migliaia di tumori con esito letale. Le stime di dose collettiva sopra riportate e le conoscenze sui coefficienti di rischio forniscono un ulteriore dato di tipo previsionale (possibilmente sovrastimato ed ottenuto sulla base di modelli di rischio probabilistico): l’emergere, per la popolazione dell’ex URSS, nel corso di un periodo standard di vita, di al massimo 2 decine di migliaia di casi di tumori letali in eccesso rispetto a quelli dovuti a cause “naturali” (o comunque diverse dalle radiazioni ionizzanti dovute all’incidente); essendo questi ultimi casi circa 35 milioni, si tratta di un eccesso di circa lo 0.05%.

Per una serie di altri fenomeni patologici (aberrazioni cromosomiche fetali, difetti congeniti, esiti della gravidanza, aborti spontanei, sindrome di Down, tumori indotti in utero), sono stati ottenuti risultati non confermati o che non hanno messo in evidenza differenze statisticamente significative. Gli esami clinici eseguiti nell’ambito di un progetto del WHO sembra però indicare un andamento positivo (non statisticamentre significativo) per l’incidenza di ritardo mentale e disturbi comportamentali nei bambini nati nel primo anno dopo l’incidente da donne provenienti da zone evacuate o ad alta contaminazione.

Un incremento della frequenza di aberrazioni cromosomiche in cellule somatiche è stato osservato in molti studi, anche se non in tutti, concernenti campioni provenienti da paesi dell’ex-URSS e di alcuni paesi europei. E’ da tener presente che certi tipi di danno cromosomico sono sicuramente radioindotti ma non comportano necessariamente, per certe frequenze di aberrazioni (a dosi relativamente basse), modificazioni apprezzabili delle condizioni di salute. E’ questo il caso della maggior parte dei cosiddetti “bambini di Chernobyl”, studiati anche direttamente dal gruppo dell’ENEA, nei quali incidenze molto basse di aberrazioni cromosomiche (rotture e riarrangiamenti), persistenti anche a molti anni dall’incidente, sono state messe in evidenza nei linfociti sia con metodi di citogenetica classica che con “chromosome painting”. Negli stessi bambini, è stato messo in evidenza un incremento del numero dei linfociti nel 30% dei casi, caratterizzati spesso anche da un rapporto CD4/CD8 inferiore alla norma. Un problema particolare è quindi quello di possibili alterazioni della risposta immunitaria, anche a dosi estremamente basse, probabilmente di scarso rilievo clinico. Ad esempio, La natura radioindotta di queste alterazioni è peraltro solo sospetta.

Sono stati riportati effetti quali stress, stati ansiosi, disturbi neurovegetativi, disturbi comportamentali, nevrosi, ecc., ed anche “distonia vegetativa” Gli studiosi di alcune delle repubbliche hanno denunciato fenomeni di carattere più generale e di rilevanza demografica, come un aumento della mortalità in concomitanza con un decremento della natalità. Fenomeni di questo tipo non possono essere attribuiti ad un effetto diretto delle radiazioni ionizzanti.Il problema si pone comunque se tali fenomeni debbano essere considerati delle conseguenze psicosociali della catastrofe. E’ da tenere peraltro presente che nelle stesse regioni si sono verificati gli effetti di un cambiamento epocale nell’organizzazione dello stato, con associata una grave crisi economico-organizzativa.

Introduzione.
La ricognizione e lo studio degli effetti biologici e sanitari dell’incidente di Chernobyl sono stati l’oggetto, oltre che di numerosi lavori scientifico-tecnici di carattere specifico o aventi rilevanza locale, di programmi coordinati e di pubblicazioni di “review” condotti da organizzazioni internazionali (UNSCEAR, WHO, IARC, IAEA, EC, NEA/OECD). Tali effetti possono essere rilevati soprattutto in popolazioni di repubbliche dell’ex URSS (consistenti parti della Belarus, alcune zone dell’Ucraina e della Federazione Russa). Ciò che è noto circa le dosi di radiazioni ionizzanti dovute all’incidente indica che effetti radioindotti sono ben difficilmente riconoscibili in popolazioni di altri paesi sottoposti alla ricaduta radioattiva, come d’altronde confermato da alcune ricerche condotte soprattutto nei paesi scandinavi (ma non in alcuni paesi carpato-balcanici). Il quadro che emerge per quel che riguarda le popolazioni dell’ex URSS sembra peraltro essere affatto completo, pur tenendo presente il tempo intercorso dall’incidente e quindi i limiti collegati alla latenza nella comparsa degli effetti tardivi radioindotti. Diverse critiche sono state periodicamente avanzate sulla completezza del quadro che emerge dai lavori riepilogativi. E’ stato sottolineato come i dati biomedici raccolti in loco possano essere stati “filtrati”, soprattutto nei primi tempi dopo l’incidente, dalle autorità sovietiche e post-sovietiche; e severi dubbi possono essere avanzati sulla adeguatezza dei dati disponibili sulle condizioni di salute precedenti all’incidente, in un contesto etnico-demografico non sufficientemente studiato. Le osservazioni di monitoraggio sull’uomo (valutazioni diagnostiche e prognostiche, analisi biocliniche e genetico-somatiche, misure di dosimetria interna, ecc.) sono state spesso condotte su gruppi troppo piccoli o disomogenei dal punto di vista statistico e utilizzando metodologie non standardizzate. Una polemica ancora non sopita è sorta tra medici “locali” (ed alcune delle organizzazioni umanitarie ed ambientaliste) ed esperti “occidentali” sulla riconducibilità o meno da parte di alcuni dei fenomeni osservati all’effetto delle radiazioni ionizzanti. Ed infine, essendo alcune delle organizzazioni internazionali istituzionalmente impegnate anche nello sviluppo e promozione dell’energia nucleare, esse possono risultare, entro certi limiti, non del tutto credibili almeno a parte dell’opinione pubblica. E’ peraltro doveroso notare che nessuna contraddizione rilevante è emersa nel quadro parziale descritto dalle diverse organizzazioni; basta confrontare, ad esempio, gli effetti descritti a cura dell’IAEA (1991) e della NEA/OECD (1995) con quelli presentati al recente convegno di Minsk (Karaoglou et al., 1996) organizzato dall’EC e dai ministeri delle tre repubbliche interessate. Gli effetti sanitari dell’incidente di Chernobyl possono essere suddivisi in: (a) effetti radioindotti acuti (deterministici): questi si osservano generalmente entro pochi mesi dall’esposizione, sono conseguenti a dosi elevate e caratterizzati da valori-soglia delle dosi per la manifestazione di patologie cliniche; (b) effetti radioindotti tardivi di tipo probabilistico (stocastici): si possono verificare in seguito ad esposizione a qualsiasi dose e la frequenza di espressione in popolazioni esposte dipende direttamente dalla dose assorbita; (c) altri effetti non imputabili alle radiazioni ionizzanti (ma collegati all’incidente) o la cui natura radioindotta è dubbia o contestata. Alcuni effetti biologici osservabili (ad esempio, nei cromosomi) non comportano necessariamente, almeno a certi livelli di dose, una espressione clinica o una rilevanza per le condizioni di salute dell’individuo; eventuali patologie possono verificarsi in conseguenza di fattori concomitanti o essere sovrapponibili ad altre non radioindotte.
Gli effetti acuti ed i “liquidatori”
Effetti acuti si sono sicuramente verificati all’interno del gruppo noto come “liquidatori”, il cui numero stimato, secondo le fonti nazionali, è di circa 800.000 persone (di cui 200.000 nel 1986-1987). E’ oggi chiaro come questa definizione e quindi il numero suddetto comprendano categorie diverse: i lavoratori in turno al momento dell’incidente (sia nella centrale esplosa, circa 400 persone, che nelle altre tre del complesso); i vigili del fuoco e le prime squadre di emergenza; gli esperti ed i tecnici inviati nella zona; i lavoratori (militari, per il 50%, civili, volontari e non) impiegati, nel periodo 1986-1990, nelle operazioni di contenimento sul sito del reattore, di costruzione del “sarcofago” e di bonifica e controllo nelle zone più contaminate; il personale sanitario; lo stesso personale amministrativo e “politico” che non è entrato necessariamente nelle zone “calde” o che ha comunque ottenuto un riconoscimento per lo sforzo prestato. Il numero stimato di 800.000 persone si giustifica sulla base delle diverse categorie considerate ed anche tenendo presente il criterio di rotazione imposto dalle dosi a cui il personale stesso poteva essere esposto e la lunga durata di alcuni lavori (ad esempio, sul terreno). Per quel che riguarda gli effetti acuti sui “liquidatori”, i dati presentati dalle autorità ed accettati dall’UNSCEAR (1988) riportano: nel complesso, 499 lavoratori vennero ospedalizzati per sintomi sospetti, soprattutto nei primi giorni o addirittura nelle prime 24 h; e di questi, 237 vennero riconosciuti (134 con diagnosi confermata in sede di consenso) come affetti da sindrome acuta da radiazioni (talvolta aggravata da ustioni dovute ad alte temperature oppure a raggi beta). Per quel che riguarda la mortalità, oltre a 3 decessi per cause associate immediatamente all’incidente (2 in conseguenza dell’esplosione ed 1 per trombosi coronarica), 28 “liquidatori” sono morti a seguito di sindrome acuta da radiazioni (con successo molto scarso dei tentativi terapeutici mediante trapianto di midollo) nelle prime settimane dopo l’incidente ed altri 19 (10-20, secondo i rapporti; vedi diversi contributi al recente convegno di Minsk in Karaoglou et al., 1996) nel periodo 1987-1996. Dei 237 ricoverati, il 40% circa era stato esposto a dosi superiori ai 2 Gy (e tutti ad oltre 0.4 Gy); praticamente tutti i deceduti erano stati esposti a dosi da 4 a 16 Gy. L’ipotesi che queste cifre (499 sintomatici, 237 ricoverati, 28+19 deceduti) non esauriscano il quadro degli effetti acuti verificatisi nell’intera popolazione di 800.000 può essere avanzata. E’ possibile che tali numeri riguardino solo una o più particolari categorie e siano eventualmente limitati ad alcuni tipi di lavoro o intervalli temporali. D’altro canto, dati precisi non sono disponibili; e, come vedremo più sotto, anche le osservazioni sui “liquidatori” per quel che concerne gli effetti tardivi, sono parziali e non forniscono dati soddisfacenti. Alcune stime sono invece disponibili sulle dosi a cui sono state esposti i “liquidatori”: da una dose (equivalente di dose) media al corpo intero di 170 mSv per i lavoratori operanti nel 1986 ad una di 15 mSv per quelli nel 1989. Si tratta inoltre di valori medi rispetto ad una distribuzione molto ampia; per il complesso dei liquidatori, si ritiene che il 45% abbia ricevuto dosi inferiori a 100 mSv, per il 47% tra 100 e 250 mSv, per l’8% tra 250 e 500 mSv ed alcune centinaia dosi superiori a 500 mSv. E’ possibile quindi che individui che presentavano effetti acuti (deterministici) con sintomi non troppo severi (leucopenia, pallore, nausea, astenia, ecc.) non siano stati registrati o addirittura non si siano presentati o non siano stati inviati presso le strutture ospedaliere. E’ da tener presente che non tutti i lavoratori erano dotati di dosimetri, che alcuni dei dosimetri risultarono sovraesposti, che molte delle dosi vennero stimate esclusivamente sulla base di misure ambientali, e che i limiti ammessi per i lavoratori vennero mano mano ridotti (a partire dall’iniziale 250 mSv). Comunque, questi ordini di grandezza della dose media stimata sono stati confermati da studi indipendenti di dosimetria biologica (cromosomi dicentrici come indicatori) che peraltro suggeriscono una qualche sottostima soprattutto per i lavoratori non dotati di dosimetro. Le stime di dose soggeriscono che effetti acuti del tipo della sindrome acuta da radiazioni non debbano essersi verificati nella popolazione generale; e ciò sembra confermato dal fatto che sindromi di questo tipo non sono state riportate, neanche in persone provenienti da zone evacuate (IAEA, 1986).

Stime delle dosi ed effetti tardivi Il principale effetto tardivo che ci si poteva attendere a fronte dell’esposizione a radiazioni ionizzanti a seguito del rilascio è l’aumento dell’induzione di alcuni tipi di tumori. Diversi studi sono stati condotti allo scopo di individuare queste patologie in alcuni dei gruppi evacuati (per un totale di 115.000-130.000 persone, di cui 49.000 dalla città di Prypiat) dalla zona circostante la centrale (circa 30 km di raggio) e di quelli che hanno continuato a vivere in zone (soprattutto rurali) abbastanza contaminate (da circa 270.000 ad oltre 800.000 persone, a seconda della definizione, nelle tre repubbliche; oltre agli evacuati, altre 160.000 sono state risistemate altrove o hanno comunque abbandonato la zona). Gli individui evacuati sono stati esposti soprattutto all’irraggiamento interno dovuto all’inalazione degli isotopi radioattivi dello iodio (principalmente 131I) ed all’irraggiamento esterno dovuto alla radioattività depositata nel terreno. Per la prima componente, le dosi medie alla tiroide sono state stimate in oltre 1 Sv per i bambini sotto i 3 anni di età e da 300 a 70 mSv per i rimanenti gruppi di età. Nel complesso, si valuta che la popolazione che è stata evacuata abbia ricevuto dosi variabili tra 30 e 500 mSv con un valore medio di circa 120 mSv; tale valore è stato in parte ridimensionato nella recente Conferenza di Vienna (EC/IAEA/WHO, 1996). Nel caso degli individui (non evacuati) abitanti zone ad alta contaminazione (>555 kBq/ o, secondo le le unità precedentemente in uso, >15 Ci/km2), le dosi medie alla tiroide, dovute soprattutto all’ingestione di latte bovino contaminato, sono state in alcuni casi (ad esempio, Gomel in Belarus) dello stesso ordine di grandezza di quelle degli individui evacuati o comunque relativamente alte (30-40 mSv); le dosi medie dovute al cesio (soprattutto 137Cs) risultano di 40 mSv (con una distribuzione da 5 a 250 mSv), tenendo conto delle contromisure a carattere alimentare. Queste dosi sembrano essere state più alte in alcune zone ove non sono state applicate le contromisure (ad esempio, Rovno in Ucraina). E’ da tener presente che il limite massimo della dose individuale (per l’intera durata della vita) stabilito nel 1988 dalle autorità sanitarie sovietiche è di 35 mSv. Per quel che riguarda le popolazioni più in generale, stime di dose collettiva sono state calcolate, oltre che da vari studiosi (e.g., Anspaugh et al., 1988), anche dall’UNSCEAR (1988; vedi anche Bennet, 1996), sulla base delle misure di deposizione e di modelli di trasferimento. La dose collettiva efficace impegnata dall’incidente di Chernobyl per la popolazione totale dell’intero pianeta (di fatto il solo emisfero nord) è stimata in 600.000 Sv-persona. Tale dose collettiva è distribuita per il 53% alle popolazioni dell’Europa (escluse le regioni europee dell’ex URSS) e per il 36% all’ex URSS (nella sua interezza). E’ da tener presente però che, essendo la popolazione europea quasi il doppio di quella ex sovietica, gli individui componenti di quest’ultima sono in media stati esposti a dosi più alte. In questo quadro dosimetrico, un incremento statisticamentre significativo dell’incidenza di carcinoma della tiroide nei bambini e, entro certi limiti, negli adulti, presumibilmente imputabile all’assunzione di radioiodio, è stato osservato, dapprima in Belarus, ed è l’oggetto del contributo specifico di un altro autore in questa conferenza. Non sono stati invece verificati aumenti significativi di leucemia o di altri tumori radioinducibili (WHO, 1995, 1996; Prisyazhniuk et al., 1996). Peraltro, i dati dosimetrici suggeriscono che gli incrementi prevedibili per quel che riguarda sia l’induzione di tumori (oltre a quelli della tiroide), sia quelli genetici nelle (due) generazioni successive a quella esposta, possano assai difficilmente essere rilevati in modo statisticamente apprezzabile rispetto alla incidenza dovuta ad altre cause. Un’eccezione può essere rappresentata, in alcuni coorti di popolazione particolarmente esposte e nel caso che vengano attivati/mantenuti programmi di sorveglianza nel lungo periodo, da alcuni tumori (leucemia, per cui alcuni autori hanno previsto una raddoppio dell’incidenza; seno; vescica) e, secondo alcuni, da patologie renali. Il problema di verificare l’eventuale insorgere di effetti tardivi avrebbe potuto certo essere affrontato nel gruppo dei “liquidatori”. Studi complessivi di questo tipo, condotti sotto egida internazionale, non sono stati però avviati (neanche nel caso del programma IPHECA sotto gli auspici del WHO), per ragioni non del tutto chiare. Inizialmente, le autorità locali possono essere state riluttanti o altrimenti indaffarate rispetto all’avvio di un “follow-up”; successivamente, a seguito della frantumazione dell’URSS, la stessa logistica degli studi può essere divenuta troppo difficile e necessitare di (troppo) alti finanziamenti. Nell’ambito però della costruzione di registri epidemiologici, avviata a seguito del suddetto programma, alcuni dati sono stati forniti (Souchkevitch, 1966) per circa 300.000 “liquidatori” residenti nella Federazione Russa, per i quali è stato riportata un tendenza all’aumento dell’incidenza dei tumori maligni (da 97.0 per 100.000 nel 1989 a 180.7 per 100.000 nel 1992), un eccesso di morbidità per alcune patologie (sistema endocrino, sangue e sistema emopoietico, sistema circolatorio, sistema digestivo, disordini psichiatrici), ma non un eccesso di mortalità (nel 1990 e 1991). Nel caso poi di 99.000 di questi “liquidatori”, per cui erano disponibili dati dosimetrici documentati (il che fornisce un’idea della reale situazione di monitoraggio di questi lavoratori), è stato riportato un aumento dipendente linearmente dalla dose, statisticamente significativo, dei valori di rischio relativo per tumori maligni ed alcune malattie (del sistema emopoietico, endocrino, nervoso, digestivo, degli organi sensori, malattie infettive). Queste osservazioni non sono considerate come conclusive e non risolvono il problema della natura radioindotta o meno di queste patologie o di alcune di esse, soprattutto a causa di effetti confondenti come il tabagismo e variazioni regionali. E’ possibile però che in futuro informazioni più precise emergano dallo studio dei “liquidatori” per quel che riguarda l’incidenza di alcuni tipi di tumori ed i conseguenti effetti in termini di mortalità. Gli effetti attesi in questo gruppo, sulla base delle dosi stimate per gli 800.000 “liquidatori”, sono dell’ordine di grandezza di 1 decina di migliaia di tumori con esito letale. Le conseguenze sanitarie dell’incidente di Chernobyl non sono quindi, per quel che riguarda effetti tardivi come l’insorgenza e la mortalità da tumori, (ancora) dimostrabili in modo statisticamente significativo e attribuibili con certezza alle radiazioni ionizzanti. Le stime di dose collettiva sopra riportate e le conoscenze sui coefficienti di rischio (Anspaugh et al., 1988; Ilyin et al., 1990; ICRP, 1990; NRPB, 1995; Cardis & Okeanov, 1996) possono però fornire un dato di tipo previsionale (possibilmente sovrastimato ed ottenuto sulla base di modelli di rischio probabilistico). Gli effetti attesi sia per la popolazione evacuata (130.000), sia per la popolazione residente in zone ad alta contaminazione (270.000), sono dell’ordine di grandezza di alcune migliaia di tumori con esito letale. Per la popolazione dell’ex URSS nel suo complesso, ci si può attendere l’emergere, nel corso di un periodo standard di vita (50 anni), di al massimo 2 decine di migliaia di casi di tumori letali in eccesso rispetto a quelli dovuti a cause “naturali” (o comunque diverse dalle radiazioni ionizzanti dovute all’incidente); essendo questi ultimi casi previsti in circa 35 milioni, si tratta di un eccesso di circa lo 0.05%. E’ ben difficile, quindi, che incrementi di questo livello possano essere osservati epidemiologicamente se non, come già accennato, per alcuni gruppi come i “liquidatori” e gli evacuati. Per una serie di altri fenomeni patologici (aberrazioni cromosomiche fetali, difetti congeniti, esiti della gravidanza, aborti spontanei, sindrome di Down, tumori indotti in utero), sono stati ottenuti risultati non confermati o che non hanno messo in evidenza differenze statisticamente significative. Gli esami clinici eseguiti nell’ambito di un progetto del WHO sembra però indicare un andamento positivo (non statisticamentre significativo) per l’incidenza di ritardo mentale e disturbi comportamentali nei bambini nati nel primo anno dopo l’incidente da donne provenienti da zone evacuate o ad alta contaminazione.
Altri effetti biologici radioindotti
Un incremento della frequenza di aberrazioni cromosomiche in cellule somatiche è stato osservato in molti studi, anche se non in tutti, concernenti campioni provenienti da paesi dell’ex-URSS e di alcuni paesi europei; tali studi hanno riguardato l’uomo, alcuni animali (mammiferi e pesci) e piante fanerogame. E’ da tener presente che certi tipi di danno cromosomico sono sicuramente radioindotti ma non comportano necessariamente, per certe frequenze di aberrazioni (a dosi relativamente basse), modificazioni apprezzabili delle condizioni di salute. E’ questo il caso della maggior parte dei cosiddetti “bambini di Chernobyl”, studiati anche direttamente dal gruppo dell’ENEA, nei quali incidenze molto basse di aberrazioni cromosomiche (rotture e riarrangiamenti), persistenti anche a molti anni dall’incidente, sono state messe in evidenza nei linfociti sia con metodi di citogenetica classica che con “chromosome painting” (Padovani et al., 1993, 1996). Peraltro, queste osservazioni, nonchè le misure di dosimetria interna (mediante “whole-body counter” ed analisi radiotossicologica) condotte in parallelo, suggeriscono (De Vita et al., 1996) una perdurante esposizione alla contaminazione da cesio per via alimentare e quindi una evidente parziale efficacia delle contromisure. In questi ed altri gruppi sotto studio, si sta cominciando ad applicare un approccio di dosimetria biologica basata su “end-point” multipli; ma anomalie in termini di comparsa di cromosomi dicentrici e di mutazioni somatiche (tipo glicoforina A negli eritrociti ed HPRT nei linfociti) sono state osservate soltanto in campioni di “liquidatori” (Sevan’kaev et al., 1995). Un problema particolare è quello di possibili alterazioni della risposta immunitaria, anche a dosi estremamente basse (un caso ben diverso quindi da quello riguardante la sindrome acuta da radiazioni). Alcuni studi hanno riportato alterazioni immunitarie ed ematologiche, probabilmente di scarso rilievo clinico o che è improbabile che conducano ad un danno permanente. Ad esempio, nei bambini studiati dal nostro gruppo dell’ENEA, è stato messo in evidenza un incremento del numero dei linfociti nel 30% dei casi, caratterizzati spesso anche da un rapporto CD4/CD8 inferiore alla norma. La natura radioindotta di queste alterazioni è peraltro solo sospetta.

Effetti sanitari non necessariamente radioindotti


Fin dai primi tempi dopo l’incidente, sono stati riportati molti effetti (stress, stati ansiosi, disturbi neurovegetativi, disturbi comportamentali, nevrosi ecc.), da alcuni classificati come psicologici o riconducibili al quadro di una supposta “radiofobia”. Più recentemente, nelle repubbliche dell’ex URSS, è stata molto utilizzata una classificazione diagnostica di “distonia vegetativa”, nel tentativo di fornire un’interpretazione generale ad almeno alcuni di questi sintomi, forse anche a fini amministrativo-assistenziali. Inoltre, gli studiosi di alcune delle repubbliche (ad esempio, Belarus) hanno denunciato fenomeni di carattere più generale e di rilevanza demografica (e.g., Lutsko et al., 1996), come un aumento della mortalità in concomitanza con un decremento della natalità e con conseguente decremento della popolazione nel periodo 1986-1994. Altri rapporti (e.g., Savchenko, 1995) hanno suggerito l’incremento di alcune patologie (tumorali in genere, gastroenteriche, patologie pediatriche, asma) che non sono però riconducibili con sicurezza al periodo successivo all’incidente. Alcuni di questi rapporti riguardano “oblast” particolari (come Gomel in Belarus). Fenomeni di questo tipo non possono essere attribuiti ad un effetto diretto delle radiazioni ionizzanti, anche se, in alcuni casi, un effetto combinato delle radiazioni e dello “stress” per alcune malattie degenerative non può essere scartato; alcuni esperti medici ritengono che alcuni effetti tardivi non-carcinogenici non siano stati adeguatamente studiati. Il problema si pone comunque se tali fenomeni debbano essere considerati delle conseguenze psicosociali della catastrofe; si pensi, ad esempio, ai problemi delle popolazioni evacuate e sistemate definitivamente in nuove sedi. Impatti psicosociali notevoli sono già stati osservati nel caso di altri eventi catastrofici sia radiologici (Isole Marshall) che non radiologici. Un altro fattore non chiaro è rappresentato da un migliorato approccio diagnostico. E’ da tenere peraltro presente che nelle stesse regioni dell’ex URSS, già caratterizzate da uno sviluppo economico-industriale che ha comportato conseguenze dannose per l’ambiente e la salute (GOSKOMPRIRODA, 1989), si sono verificati gli effetti di un cambiamento epocale nell’organizzazione dello stato, con associata una grave crisi economico-organizzativa.

Conclusioni

In conclusione, gli effetti sanitari dell’incidente nucleare di Chernobyl che siano stati statisticamente verificati, accettati consensualmente dalla comunità scientifica internazionale, nonchè attribuibili con certezza all’azione delle radiazioni ionizzanti, si riducono, allo stato attuale, alla sindrome acuta da radiazioni (in certi casi, con esiti letali) osservata in lavoratori intervenuti in emergenza a seguito dell’incidente, e ad un incremento dell’incidenza di tumore alla tiroide (soprattutto nei bambini) nelle popolazioni delle zone più contaminate (in Belarus, Ucraina e Federazione Russa). Sono anche stati osservati effetti biologici presumibilmente radioindotti di scarsa o nulla rilevanza per le condizioni di salute; e molti effetti a carattere clinico e psicologico difficilmente attribuibili alle radiazioni ionizzanti, almeno allo stato attuale delle conoscenze. L’impatto economico-sociale dell’incidente è stato in ogni caso enorme, con ovvie ripercussioni anche sul piano sanitario. E’ possibile che, in futuro, altri effetti tardivi delle radiazioni ionizzanti vengano dimostrati, soprattutto in gruppi di “liquidatori”, di evacuati o di popolazioni delle zone più contaminate. I programmi di monitoraggio delle popolazioni colpite non sembrano essere ancora tali da fornire risposte esaustive. L’esperto si viene così a trovare in una difficile situazione per quel che riguarda la propria credibilità, stretto tra l’obbligatorietà di basarsi su dati certi sul piano scientifico-statistico, le comunicazioni rilasciate da parte delle organizzazioni ambientaliste e umanitarie nonchè dalle amministrazioni locali, e le richieste di informazione completa da parte dell’opinione pubblica. Soltanto ulteriori studi possono risolvere ogni dubbia contrapposizione tra “minimalisti” e “catastrofisti”. D’altro canto, anche gli effetti già dimostrati e quelli che è verosimile attendersi sulla base dello stato delle conoscenze, unitamente all’impatto sul piano psicosociale, rendono, nell’opinione di chi scrive, le conseguenze dell’incidente eticamente inaccettabili.

Riconoscimenti

Ringraziamo i colleghi V. Covelli ed M. Coppola per la lettura critica del contributo, S. Piermattei e M. Belli per la collaborazione nella ricerca delle informazioni, e R. De Vita, M. Spanò e G. Tarroni per il lavoro svolto insieme presso l’ENEA.
Bibliografia
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