LA NASCITA DELLA SCIENZA IN GRECIA. Parte I: Eleati, Atomisti, Platone, Aristotele

1 – LA SCUOLA DI ELEA

    Alcuni profughi (a seguito delle devastazioni nella Ionia da parte di Arpago, re dei Medi) provenienti dalla città ionica di Phocaea, sulla costa dell’Asia Minore subito dietro l’isola di Samo, patria di Pitagora, fondarono nel VI secolo a.C., vicino a Posidonia (l’attuale Paestum nel sud della Campania), la città di Elea. Vi nacque una fiorente scuola di filosofia, iniziata da Senofane di Colofone (580-488) noto in particolare per le sue durissime e dissacranti critiche della divinità, della superstizione e della raffigurazione antropomorfica degli dei. Per comprendere bene l’impostazione generale dei filosofi di tale scuola rispetto al pensiero scientifico, merita citare cosa dice Forti:

Usando il linguaggio moderno possiamo dire che essi svolgono una critica della scienza. Con Parmenide e Melisso tendono anzi a sostituire la scienza con la «metafisica», ciò che non avrà certo effetti positivi su pensatori successivi, da Platone ad Aristotele in poi. Per ragioni di precedenza storica andrebbero imputate loro le conseguenze negative del miscuglio fra scienza e metafisica che si produssero talvolta nei secoli seguenti, fino alla nostra età. Ma esse sono invece, spesso, un prodotto troppo spontaneo della ragione perché sia possibile addebitarle a qualche «inventore».

Il rappresentante principale di tale scuola è Parmenide (circa 515 – circa 440 ) che ebbe insegnamenti pitagorici e per un certo tempo appartenne ai pitagorici (vi è chi parla della scuola eleatica come di una setta dissidente dei pitagorici che, come ogni dissidente, ha per principali bersaglio il ceppo da cui si stacca). Secondo il pensiero eleatico tutti i mutamenti che osserviamo nel mondo sono pure illusioni prive di realtà, dovute all’inganno dei nostri sensi perché, secondo Parmenide e gli eleatici l’universo è un tutto pieno impenetrabile; di conseguenza è impossibile ogni movimento e, più in generale, ogni cambiamento. Il tutto prevede l’impossibilità di dividere la materia. Si tratta perciò di uno spazio pieno di materia con continuità, anzi lo spazio e la materia praticamente si confondono. Può sembrare che questo spazio somigli a quello della geometria o, meglio, a quello della geometria dei pitagorici. Vi sono però due sostanziali differenze: da una parte lo spazio dei pitagorici era pieno di entità discrete (le monadi), dall’altra quello spazio era inteso come infinito, mentre qui abbiamo a che fare con uno spazio compreso da una sfera “perfetta”. È quindi evidente la polemica di Parmenide con la scuola pitagorica: la materia, se c’è c’è; e se c’è, c’è dappertutto; è inutile pensarla localizzata in particolari punti; è inutile attribuirle qualità; essa è solo estensione; ciò che esiste è quindi solo estensione; niente può dividere la materia poiché ciò equivarrebbe ad ammettere qualcosa (ciò che divide) che esiste di meno; quindi niente mutamenti, solo illusioni dei nostri sensi.  Ciò che non muta, non si genera, non si corrompe deve essere inteso come un uno ed indivisibile. Ciò rappresenta una qualche anticipazione dei tentativi della scienza fisica di rintracciare conservazioni là dove tutto sembra cambiare. Anche le teorie corpuscolari dei greci ricercavano l’immutabile in un mondo che sembrava mutare. Si tratta, in definitiva, della negazione del divenire di Eraclito e della vera fondazione della metafisica. Dice Forti: 

Questa, come tutti sanno, implica sempre un passaggio avventato dal mondo del linguaggio e del pensiero – come introspezione o fantasia – al mondo della realtà esteriore. La vera filosofia sa troppo bene che è come pretendere di volare tirandosi per i capelli, ma, ciò nonostante, la scienza ha avuto sempre a che fare con la metafisica. Basti pensare a tanti aspetti della scienza di Aristotele, a molte discussioni sullo spazio e il tempo assoluti di Newton, ai fondamenti delle dottrine leibniziane, o alla Filosofia della Natura di Hegel (1).

    E, da buon metafisico, Parmenide (che pure fu un valido legislatore che fornì ad Elea leggi ammirate in tutta la Grecia) esclude ogni approccio empirico con la realtà. Egli afferma esplicitamente che occorre affidarsi solo alla ragione perché i sensi sono testimoni inattendibili che possono farci imboccare strade sbagliate. In ogni caso, dalla testimonianza di Teofrasto, sappiamo che dette alcuni contributi scientifici (classificazione delle figure geometriche; insegnò a riconoscere nella Stella del mattino ed in quella della sera un unico pianeta; delimitò le 5 zone climatiche del globo; sarebbe stato lui il primo a parlare di Terra sferica e di Luna che splende di luce riflessa; …) ma che il suo massimo contributo fu l’invenzione della implicazione logica, della legge di contraddizione. Le sue riflessioni, profonde ed oscure (come ebbe a dire Socrate), interessano soprattutto la critica alla monade-numero dei pitagorici. La ricerca del substrato comune di tutte le cose aveva portato i pitagorici ad immaginare questo substrato costituito dai Numeri intesi come punti, ripetizioni di medesime entità, aventi una determinata posizione. Ora ci si chiede: ma dove dovevano prendere posizione questi Numeri ? Qui nasce un paradosso perché la discontinuità dei punti è posizionata sulla continuità di fondo che, in definitiva dovrebbe diventare il vero substrato. Nelle elaborazioni pitagoriche questo problema restava non chiarito. Una linea, se è fatta da unità individuali, deve avere come elementi di separazione dei tratti continui, oppure i numeri monade perdono di significato. D’altra parte il problema non è risolto dal rendere le monadi sempre più piccole perché subito ci si chiede: fino a che punto ? Come osserva de Santillana, Limite (discreto) ed Illimite (continuo) si tallonano. E non è cosa da poco perché stiamo qui parlando della definizione di spazio geometrico come contenitore della forma ma anche della materia, intesa come proprietà accidentale e contingente dello spazio occupato (Parmenide si schiererà con questa concezione e dopo di lui lo farà Newton). E de Santillana afferma che, da questo momento, siamo usciti dalla magia dei numeri per entrare nel regno della Necessità logica. E, da questo momento, la speculazione matematica prende il sopravvento sull’indagine empirica. Si tenderà a sovrapporre la logica alla scienza con la conseguenza di creare una sorta di strano mix tra fisica e metafisica che spesso, ancor oggi, ritroviamo. Sarà Zenone (490 – 430), allievo di Parmenide a rendere chiare le problematiche del maestro. Egli costruì i suoi paradossi, che noi conosciamo da Aristotele, proprio come espediente polemico contro i molti detrattori dell’intemperante Parmenide. La sua attenzione si concentra sul punto-monade pitagorico che avrebbe dovuto avere delle dimensioni. Cos’è questo punto ?

1) Paradosso del segmento

    Un segmento può essere pensato costituito da infiniti punti senza dimensioni, ma infiniti oggetti senza dimensioni forniscono una entità nulla: non vi è segmento. Un segmento può essere pensato costituito da infiniti punti con dimensioni, ma infiniti oggetti con dimensioni forniscono una entità infinita: non vi è segmento. Il segmento è una entità che non esiste. Altro modo di esprimere il paradosso è il seguente. Supponiamo che un oggetto debba spostarsi da un estremo A ad uno B di un segmento. Prima di aver percorso tutto il tragitto, l’oggetto dovrà percorrerne la metà (AC); prima di questa, la metà della metà (AD); prima di questa la metà della metà della metà (AE); e così via all’infinito. Ci si avvicina sempre a B senza raggiungerlo mai.

2) La freccia immobile

    Una freccia scagliata da un arco occupa in ogni istante (indivisibile) uno spazio uguale alla propria lunghezza e dunque è ferma in quel luogo; perciò la freccia è ferma in ogni istante, e dunque è sempre immobile.

3) Achille e la tartaruga

    Il ‘piè veloce’ Achille compete in una gara di corsa con una tartaruga. Siccome sa quanto egli valga più di ella, le concede un vantaggio (qualunque). Quando Achille A sarà arrivato dove si trovava inizialmente la tartaruga T, la tartaruga sarà arrivata in T’; quando Achille sarà arrivato in T’, la tartaruga sarà arrivata in T”; …. Conclusione: Achille non raggiungerà mai la tartaruga.

4) Lo stadio (“la metà del tempo è uguale al suo doppio”)

    Considerando in uno stadio un punto mobile che va ad una certa velocità, se lo si considera rispetto ad un punto fermo andrà, ad esempio, a 10 km/h; se lo si considera invece rispetto ad un altro punto mobile che vada alla sua stessa velocità ma in verso opposto, quello stesso punto mobile si muoverà a 20 km/h (problema del riferimento e relatività del moto). In conclusione: se è assurdo negare il moto e la molteplicità, è altrettanto assurdo affermarli(2).

Si può in definitiva dire che tutti i paradossi nascono dalle difficoltà che, come diremmo oggi, pongono gli infinitesimi e gli infiniti, a cui si aggiungono altri due elementi: la non considerazione del tempo; la mancanza di un’univoca definizione di punto. Merito fondamentale di Zenone è l’aver posto questi problemi così clamorosamente sul tappeto: i tentativi di soluzione dei paradossi, in tempi relativamente brevi, porteranno alla nascita di una definizione “rigorosa” del punto matematico (Euclide) e di una definizione divergente di punto fisico, di punto materiale (Democrito). Era il primo vagito dell’analisi infinitesimale.

Per quanto riguarda il problema al quale vogliamo dedicare maggior attenzione, le difficoltà che nascevano da infinitesimi e infiniti non rappresentavano altro che la difficoltà di definire il problema continuità/discontinuità della materia che costituisce il mondo.

    Altro elemento che aggiungeva difficoltà era la mancata presa in considerazione di assenza di materia, cioè di vuoto. Ciò avrebbe probabilmente aiutato a comprendere quale elemento di separazione si dovesse considerare tra materia e materia (nell’ipotesi di materia discontinua). Quindi, da una parte il tutto pieno era un dato empirico, dall’altra, la non individuazione di qualcosa che non fosse materia e che avesse la proprietà di separare la materia poneva problemi a chi tentava la strada della ricerca (speculativa) di un principio unico alla base di tutto il mondo (principio fisico e non metafisico). Quest’ultima osservazione può far intendere come inizino a qualificarsi i diversi filoni di pensiero e come inizi a delinearsi la differenza tra idealismo (principio metafisico) e materialismo (principio fisico). Riporto di seguito una dossografia di Zenone(3):

Qualora l’essere non avesse grandezza neppure sarebbe [ … ]. Se esiste, è necessario che ciascuna cosa abbia una certa grandezza e spessore e che in essa una parte disti dall’altra. Lo stesso ragionamento vale anche della parte che sta innanzi: anche questa infatti avrà grandezza e avrà una parte che sta innanzi. Questo vale in un caso come in tutti i casi: nessuna infatti di tali parti sarà l’ultima e non è possibile che non ci sia una parte a precedere l’altra. Così, se sono molti [gli enti], è necessario che essi siano piccoli e grandi: piccoli fino a non avere grandezza, grandi fino ad essere infiniti.
Se infatti venisse aggiunto a un altro essere non lo renderebbe per nulla maggiore. Difatti, non avendo esso grandezza alcuna, quando venga aggiunto non è possibile che nulla aumenti in grandezza. E così senz’altro ciò che venne aggiunto non sarebbe nulla. Se poi, quando venga sottratto, l’altro essere non diventerà per nulla minore, e neppure, d’altro canto, quando quello venga aggiunto questo diventerà maggiore, è chiaro che non era nulla ciò che venne aggiunto né ciò che venne sottratto.
Se gli enti sono molti è necessario che siano tanti quanti sono e non più né meno. Ma se sono tanti quanti sono saranno limitati [di numero]. Se gli enti sono molti sono infiniti [illimitati]: sempre infatti in mezzo agli enti ve ne sono altri e in mezzo a questi di nuovo degli altri. E in tal modo gli enti sono infiniti [illimitati]. 
(Questi tre frammenti sono stati riferiti da Simplicio nel suo “Commento alla fisica di Aristotele“; Cfr. Simpl. phys., 140,34; 139,5 e 140,27)

I PLURALISTI

   Nella stessa epoca in cui si sviluppava la scuola eleatica si sviluppa una scuola di pensiero che fa capo a Empedocle di Agrigento (492 – 432), il quale rappresenta l’elemento di transizione fra i vari tentativi di definire un elemento unificatore che lo precedettero, e la vera e propria scuola degli atomisti.

La teoria di Empedocle abbandona l’idea di una singola arché e prevede quattro elementi all’origine del mondo: terra (solida), acqua (liquida), aria (gassosa), fuoco (ardente e consumatore). Ciascuno di essi sarebbe poi composto da particelle e pori(4). Questi 4 elementi (oggi si direbbe che questi sono quasi gli elementi in senso moderno(5) chiamati opportunamente da Empedocle radici) non debbono essere pensati come quelli che abbiamo ordinariamente intorno (che oggi chiameremmo composti). Questi ultimi sono sempre un combinazione degli altri elementi. Invece l’elemento originale acqua è l’essenza dell’acqua, un qualcosa che non ci è dato di cogliere. I 4 elementi (intesi come radici) hanno la caratteristica di essere tra loro in accordo o in opposizione (vedi figura), così l’acqua risulta opposta al fuoco ma affine alla terra. A questi elementi si devono associare 4 qualità primarie (caldo, umido, secco e freddo), che sono tra loro come gli elementi in accordo ed in opposizione, di modo che il caldo è opposto al freddo ma in accordo con l’umido. Dal mescolamento di questi quattro elementi in proporzioni diverse, con due delle

4 qualità primarie, nasce il mondo e la sua varietà. Tali elementi devono ora essere considerati, non più come soggetti della costruzione del mondo, ma come materia passiva soggetta a delle forze esterne. Le forze che uniscono elementi diversi per formare le cose che ci circondano sono di due tipi: l’amore (forza attrattiva) e l’odio (forza repulsiva). Sembra si possa intravedere in Empedocle una sorta di concezione atomistica basata su quattro elementi: particelle impercettibili dei quattro elementi, particelle immutabili, si combinano o si dissociano tra loro; queste continue combinazioni e dissociazioni originano i cambiamenti che osserviamo. Queste particelle si mantengono reali ed immutate attraverso tutti i processi. A tali corpuscoli non viene però ancora assegnata alcuna caratteristica particolare (si deve notare che, opportunamente integrata, la teoria dei quattro elementi di Empedocle resse per 2000 anni, almeno fino ai tempi di Galileo). Queste concezioni erano suggerite ad Empedocle dalla sua attività principale che era quella di medico. E dal suo temperamento più portato alla biologia, egli concepisce un universo intrinsecamente instabile, che evolve, che diviene continuamente. Questo continuo divenire dell’universo pensato sferico, messo insieme alla sua eternità, lo fa immaginare pulsante, ciclico, ed ogni ciclo si compone di 4 periodi scanditi dal primato che assumono di volta in volta l’amore e l’odio. E’ notevole il terzo periodo per quanto ne riprenderà Aristotele. In esso domina l’odio e, per tale motivo, i 4 elementi sono tutti separati tra loro e raggruppati in successive sfere concentriche. Al centro vi è la sfera della terra, quindi vi è una buccia d’acqua, poi di aria e quindi di fuoco. Questa concezione e subito ricollegabile all’astronomia che vuole proprio una Terra circondata da acqua poi da aria e quindi dal fuoco del Sole. Con il passaggio ad una situazione in cui l’Amore tende a crescere, allora gli elementi vanno sempre più mescolandosi.

Anassagora di Clazomene(6)(499 – 428) città della Ionia, era di sette anni più vecchio di Empedocle ed ateo come Senofane. Nel 462 si trasferì ad Atene dove divenne amico delle personalità più importanti dell’Atene di Pericle, tra cui lo stesso Pericle,  facendo professione del suo occuparsi della natura in modo laico, sapendo distinguere e separare in ambiti diversi la fisica dalla metafisica. Nel 432, dopo la caduta di Pericle, fu processato per empietà, e fu condannato all’esilio. Si trasferì a Lampsaco nell’Ellesponto (lo stretto che divide il mare Egeo dal Mar Nero attraverso il Mar di Marmara, e corrisponde agli attuali Dardanelli) dove morì. Egli si muove sulla stessa strada di Empedocle ma con notevoli differenze. Anche qui si ha a che fare con un atomismo strano, un atomismo che non prevede il vuoto. Tanti corpuscoli, non solo di quattro tipi ma di varietà infinita ed a loro volta divisibili all’infinito, riempiono l’universo. Gli “elementi” di Anassagora sono quindi infiniti; ciascuno è costituito da tanti corpuscoli identici; ciascun corpuscolo è divisibile all’infinito; una Intelligenza (il Nous) ha impresso un moto rotatorio a questi corpuscoli intorno a un dato centro (la Terra); la forza centrifuga, così originata, li va a separare e a ricongiungere continuamente (in questo si può intravedere un primo abbozzo di quello che sarà il sistema cosmologico di Descartes e, per molti versi, di Huygens). La concezione della materia in Anassagora è basata sulle homoioméreia o omeomerie che è parola greca composta da homoios = simile o uguale e meros  = parte, e che vuol quindi dire parti uguali. Si tratta delle parti simili o uguali di cui la materia è costituita (queste piccole parti sono chiamate da Anassagora semi), teoria connessa alla conservazione della materia medesima. Dice Anassimandro in alcuni scritti di  Aezio (in: Lamanna):

Noi usiamo un cibo semplice e di una sola specie, per esempio pane ed acqua, e di questo si nutrono i peli, le vene, le arterie, la carne, i nervi, le ossa e le altre parti. Accadendo dunque queste cose, bisogna riconoscere che nel cibo vi sono tutte le cose, e che tutte le parti del corpo si accrescono assimilando cose che già esistono: cioè in quel cibo vi sono particelle generatrici del sangue e dei nervi e delle ossa e delle altre parti; le quali particelle sono visibili solo alla mente. Non si deve ricondurre tutto alla sensazione, la quale si limita a manifestarci che sono il pane e l’acqua a produrre queste parti del corpo, ma occorre pensare che nel pane e nell’acqua vi sono particelle visibili solo alla mente. E per il fatto che tali particelle sono simili a ciò che ne deriva, le chiamò omeomerie e le designò come “principi delle cose”.

Così stando queste cose, bisogna ritenere che in tutti i composti siano molte e svariate sostanze, e semi di tutte le cose, aventi forme d’ogni specie, e colori e sapori… E poiché le parti del grande e del piccolo sono uguali per composizione, in ogni cosa saranno tutte le cose; e non è possibile che siano isolate, ma tutte partecipano di ciascuna … E in tutte san contenute molteplici cose, ed è uguale la complessità nelle maggiori e nelle minori delle cose separate… Ciò che appare è una visione dell’invisibile … Non v’è un grado minimo del piccolo, ma v’è sempre un grado minore, poiché è impossibile che l’Essere cessi di essere, ma anche del grande vi è sempre un maggiore, ed è uguale al piccolo per quantità, ed ogni cosa … è insieme grande e piccola.

Anassagora sta qui affrontando un problema che farà scrivere volumi interi da altri filosofi nei secoli successivi. Parla della divisibilità e con essa dell’infinito. Un oggetto è sempre divisibile in un certo numero di parti. Ogni sua parte è altrettanto divisibile.  Come si vede si riecheggiano qui alcune delle cose di Zenone che vedremo ancora in Democrito d’Abdera.

LA SCUOLA DEGLI ATOMISTI 

    Con questi pensatori, per la prima volta, s’intuisce un mondo costituito da corpuscoli indivisibili (atomo = indivisibile). E proprio per denotare l’effettiva individualità di un atomo si postula l’esistenza di un vuoto che risulti elemento di separazione tra atomo e atomo. Si esce quindi dall’equivoco di corpuscoli costituenti una materia continua. La materia è ora discontinua; essa risiede nei piccolissimi e indivisibili atomi che sono separati da vuoto. La materia che ci appare estesa e continua è in realtà discontinua. È un qualcosa di poroso, con pori vuoti tra atomo e atomo (il concetto di poroso lo si può ritrovare anche nei pitagorici e, come visto, in Empedocle, ma in quel caso i pori erano pieni di altra materia, ad esempio aria). Le proprietà della materia sono poi le proprietà dei singoli atomi che la costituiscono. Le forme degli atomi sono responsabili di alcune qualità secondarie (colore, sapore…) che noi osserviamo. Se, ad esempio, una sostanza è costituita da atomi sferici, essa ci darà la sensazione del dolce accarezzandoci dolcemente la lingua. Al contrario, se una sostanza è acida dovrà essere costituita da atomi a molte punte che, penetrando nella bocca, la “pungono” in varie partì dandoci la sensazione di acido. Il calore è invece spiegato con l’ammissione che il fuoco sprigioni degli atomi velocissimi (la cosa sarà ripresa da Galileo e poi da Rumford); per render conto della loro estrema velocità questi atomi devono essere di forma sferica, la forma che meglio riesce a muoversi negli spazi vuoti lasciati da altri atomi. Se si volesse poi una spiegazione della maggiore o minore “gravità” (leggi peso specifico) di dati corpi, la si ritroverebbe nella minore o maggiore presenza di spazi vuoti tra atomo e atomo. Allo stesso modo i cambiamenti di stato avvenivano per il maggiore o minore vuoto che, in particolari condizioni, andava a frapporsi fra gli atomi. Ma poi: l’aria è composta da particelle minute (la cosa sarà ripresa da Gassendi e Bernouilli); la pressione è dovuta alla presenza di molti corpuscoli d’aria in uno spazio ristretto; i venti sono originati da differenze di pressione; il suono crea un moto ondulatorio delle particelle d’aria …

    E questa materia, l’universo, come sarebbe nata, come si sarebbe organizzata? Al principio, secondo Democrito, solo atomi e moto. Un’infinita varietà di atomi per forma e dimensioni (per Democrito è pensabile l’esistenza di un atomo grande come un mondo), in moto eterno nello spazio infinito, vuoto e privo di direzioni privilegiate. Il moto è poi eterno poiché, senza di esso, non vi sarebbe né generazione né corruzione. Moto, quindi, in tutte le direzioni dello spazio (è interessante osservare che in queste che parrebbero inoffensive affermazioni vi è un universo di problemi. Gli stessi seguaci futuri dell’atomismo democriteo si sentiranno in dovere di modificare le vedute del maestro).

     La scuola degli atomisti, che impresse una svolta densa di conseguenze al problema della continuità/discontinuità, in stretta connessione con quanto era stato proposto in termini di paradossi da Zenone è particolarmente e fortemente caratterizzata da Democrito(7) di Abdera (460 – 360) e da Leucippo di Mileto (circa 450 – 370). Abdera era una città della Tracia gravitante nell’Egeo ionico nella quale Leucippo era stato maestro di Democrito dopo aver avuto un’esperienza ad Elea. Da Abdera Democrito si recò ad Atene attratto dagli insegnamenti di Anassagora. Questi lo rifiutò alla sua scuola ma ad Atene ebbe modo di conoscere Socrate. Leucippo era invece uno ionico, contemporaneo di Empedocle ed Anassagora, che aveva avuto insegnamenti da Parmenide e Zenone ad Elea. Leucippo, e la cosa trova  l’accordo degli storici, sarebbe il vero fondatore dell’atomismo, che si differenziò dagli eleati e da Parmenide affermando la realtà del non-essere e del divenire. Egli postulò che tutto l’universo è un composto di atomi di essere vuoto. Ed anche per Democrito valevano le stesse idee, di modo che le concezioni di questi due pensatori risultano così intrecciate ed indistinguibili che non è possibile una chiara distinzione tra i contributi dei due.

   Il problema era essenzialmente il seguente: che cosa fa muovere gli atomi? Poiché non vi era nessuna apparente ragione di ciò, contro le dure critiche aristoteliche, Epicuro(8) (342 – 280) e Lucrezio (99 – 55) elaborarono successivamente le teorie di Leucippo e Democrito. Lucrezio assegnò agli atomi la proprietà peso: gli atomi cadevano all’infinito verso il basso – la terra – e solo deviazioni da questa verticale – clinamen – permettevano una serie di reazioni che avrebbero originato tutto ciò che ci circonda. Con questa sostanziale modifica se ne fa strada un’altra: la reintroduzione di direzioni privilegiate nello spazio, alto e basso, su e giù: come si vede, l’elaborazione lucreziana rappresenta un sostanziale passo indietro rispetto a quella democritea. Questo moto di atomi in tutte le direzioni fa sì che atomi diversi vadano a urtarsi; quando l’urto non è centrale, i due o più atomi che si sono urtati iniziano a girare l’uno intorno all’altro; altri atomi vanno ad aggiungersi a questa specie di vortice finché non si formano i mondi che ci circondano; mondi che, così come sono stati generati, possono corrompersi.

     In definitiva: atomi non tali per la loro piccolezza ma per la loro indivisibilità, estesi, indivisibili, immutabili e impenetrabili, differenti tra loro solo per forma (A e N), disposizione (AN e NA), posizione (V e Λ e <) e dimensioni, qualitativamente uguali, in eterno moto nel vuoto lungo tutte le direzioni dello spazio; le (infinite) differenze di forma, di dimensione, di posizione, di distribuzione e di condizione di movimento degli atomi sono responsabili di tutte le differenze sostanziali e qualitative tra le varie sostanze; un atomo non è né caldo, né freddo, né bianco, né dolce; di queste sensazioni, che sono soltanto soggettive, sono responsabili gli aggregati di atomi. Da ultimo, le forze tra gli atomi si esercitano solo quando vengono a contatto (questo punto è estremamente interessante perché non è altro che il coronamento della visione materialista e meccanicista di Democrito. Egli parte dall’affermazione: “Non si dà principio [leggi causa] dell’eterno e dell’infinito“, che ben si lega con l’unico frammento di Leucippo rimastoci: “Niente si fa a caso, ma tutto avviene per ragione e necessità“. Ciò comporta un rigido determinismo, tutto in natura segue da cause meccaniche; inoltre, è inutile chiedersi il perché degli atomi e del loro moto: sarebbe come chiedersi qual è l’origine dell’infinito; conseguentemente: il mondo non ha bisogno di nessun principio ordinatore).   

   L’insieme delle cose dette qualifica bene le idee di Leucippo e Democrito inserendole., in un filone che sarà quello meccanicista-materialista. Concludo questo capitolo riportando le poche dossografie note di Democrito geometra (la maggioranza delle dossografie che riguardano Democrito sono attinenti alla sua morale):

 
Se un cono viene secato da un piano parallelo alla base, come si dovranno immaginare le superfici di sezione (ossia, le superfici che delimitano, l’una la parte superiore del tronco di cono inferiore, l’altra la base del cono superiore – si veda la figura)? verranno uguali o disuguali? Perché, se saranno disuguali renderanno irregolare il cono

irregolare il cono che verrà ad avere tante incisioni e scabrosità a gradini; ma se saranno uguali le superfici saranno uguali anche le sezioni e il cono verrà ad assumere l’aspetto del cilindro, in quanto risultante della sovrapposizione di cerchi uguali e non disuguali, il che è sommamente assurdo. (Democrito mette in tal modo in evidenza il problema degli infinitamente piccoli e del calcolo infinitesimale; si accosti questo frammento al fatto che Archimede attribuisce a Democrito la scoperta che il volume del cono e della piramide sono uguali rispettivamente a 1/3 del cilindro e del prisma di base uguale e di medesima altezza, conoscenza che già possedevano gli Egiziani e forse i Mesopotamici – Tratto da Pichot).

Al di là di quant’altro ha elaborato Democrito, l’invenzione dell’atomo fisico è una prima risposta ai paradossi di Zenone. Pensando al primo dei paradossi, quello del segmento, è facile sostenere che, se si ha a che fare con un segmento fisico, esso sarà costituito da un numero, grande quanto si vuole ma finito, di punti fisici, e cioè di atomi. Altri problemi rimanevano, e la risposta a Zenone sarebbe stata completata da Euclide (323-283). Ma, prima di Euclide, s’inserisce l’opera di uno dei più prestigiosi pensatori dell’antichità classica, Platone.

DALLA IONIA E MAGNA GRECIA AD ATENE

     Siamo nella seconda metà del V secolo, quando Atene è diventata il principale centro politico e culturale dell’intera Grecia, mantenendo il primato culturale fino all’avvento del Cristianesimo e perdendo quello politico alla fine del V secolo. E’ l’epoca in cui Pericle, tra il 450 ed il 431,  rende splendida la città in cui operano i più eminenti pensatori (tra i quali i soli scienziati Anassimandro ed Anassimene portati ad Atene dallo stesso Pericle)) ed artisti (Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane, Fidia, …) ma anche l’epoca in cui la moralità e la religione tradizionali decaddero, fatto che è sempre associato a rapidi arricchimenti di persone di potere senza basi culturali come lo stesso Pericle ebbe a denunciare. Si afferma la democrazia e con essa una migliore ripartizione delle terre, l’estensione dei diritti politici ad un numero sempre maggiore di persone. Sono finite vittoriosamente le guerre persiane (478), Atene ne ha tratto grande vantaggio perché si  è sostituita nei commerci delle città ioniche con le colonie greche vicine al Mar Nero, gli schiavi per i lavori manuali abbondano come mai, e la città assume via via sia il ruolo di grande potenza a cui sono associate magnificenza, ricchezza e munificenza che possono permettere di investire denaro nell’istruzione che ebbe grande sviluppo. Ad Atene erano confluite le diverse correnti di pensiero: i pitagorici, gli eleati, i seguaci di Empedocle, di Eraclito, gli atomisti, … E furono questi pensatori ad iniziare una nuova professione, quella di insegnanti di cultura o sofisti. E furono proprio i sofisti (Gorgia, Protagora, Ippia, Antifonte, …) che estesero (facendosi pagare profumatamente) a matematica, geometria, medicina e, soprattutto, alla retorica, all’arte del discorso(9), gli ambiti dell’istruzione prima ristretti alle sole grammatica, musica e poesia. Dice de Santillana che

l’ingegno e la cultura andavano per la maggiore agli occhi degli Ateniesi di ogni classe sociale. L’inclinazione avvocatesca insita nella politica della città-stato trovava nelle tecniche logiche inventate da Zenone un nuovo strumento allettante. Esse permettevano di lasciare l’avversario senza parola e possibilità di controbattere, e sembravano particolarmente efficaci per affrontare pregiudizi o privilegi incalliti. Era dunque naturale che sorgesse un nuovo problema filosofico: quale genere d’istruzione ci permette di eccellere sui nostri simili? Anche nell’epoca moderna, la democratizzazione della vita pubblica e lo sviluppo dell’economia hanno riproposto le stesse istanze imperiose. Solo in questa fase di sviluppo si impostano e si affrontano problemi come quello della libertà e dell’autorità, dell’educazione da dare ai cittadini e di quella da dare ai capi. La potenza della ragione si manifestava attraverso l’eloquenza, e l’«eccellenza» che sembrava più desiderabile era l’arte della persuasione. La potenza intellettuale e l’abilità oratoria sembravano intercambiabili. In risposta alla richiesta del mercato, ecco presentarsi un nuovo tipo di intellettuale, il «sofista», o insegnante qualificato. L’antico ideale dell’eccellenza aristocratica, la aretē, era inteso nel senso di virtù; quindi i conservatori, e tra essi troviamo Socrate, domandavano sdegnosamente se la virtù potesse essere insegnata. Ma le parole avevano gradualmente cambiato di significato. Aretē significava ormai efficienza politica.

    Pur non potendo affermare che con i sofisti nasce il disinteresse per la matematica, certamente l’astrazione ed il rigore che si erano affermati in precedenza vengono trascurati e svalutati. Si possono citare solo due figure di scienziati di rilievo dell’epoca: il matematico Ippocrate di Chio (470 – 400) ed il matematico ed astronomo Eudosso di Cnido (480 – 355)(10). La matematica ritorna per le preoccupazioni pratiche e Protagora, forte della convinzione che l’opinione è la sola forma di conoscenza, potrà dire che è inutile insistere su circonferenza e tangente che si toccano in un solo punto, tutti sanno che i punti sono più di uno ed Antifonte potrà tranquillamente sostenere che non esiste il problema della quadratura del cerchio perché esso è risolto disponendo di un poligono iscritto di abbastanza lati. Vi è un interesse per i mestieri specializzati (medicina, ingegneria), una specie di technē, per ciò che è ritenuto utile da chi ha perduto i fondamenti, per la cultura raccontata e parlata, come avviene sempre in periodi che annunciano l’inizio della decadenza o comunque tempi diversi con valori differenti. De Santillana commenta con una certa amarezza

Può non essere facile apprezzare l’apporto dei sofisti in tutta la sua novità, in quanto a noi stessi tocca vivere in un’epoca sofistica. Tutto ciò che chiamiamo educazione progressiva, pragmatistica o sociale, tutto ciò che si definisce atteggiamento costruttivo, la teoria positivistica della scienza come economia di pensiero, l’accostamento empirico ad un mondo in evoluzione, l’educazione alla vita, l’adattamento ad una concezione matura del mondo, l’antropologia sociologica o la sociologia antropologica e tante altre formule similmente plantigrade [come le psicologie, le pedagogie, le docimologie, … ndr] – sono tutte eminentemente sofistiche. Possono significare alcune cose ottime e molte pessime. «Pensiero positivo» è un’espressione che avrebbe mandato Gorgia in visibilio e certo egli ci avrebbe giocato come un gatto col topo, poiché sapeva quel che faceva. Ma, ovviamente, una differenza si impone subito. Il pragmatismo moderno professa di includere in se stesso tutta la scienza e pretende alla qualifica di scientifico. Gli antichi sofisti non ci pensavano neppure. […] Eppure anche oggi, sotto l’influsso sofistico, il rango della scienza pura, in quanto distinta dalla scienza applicata, è diventato progressivamente oscuro ed incerto, se non sussidiario agli occhi del cittadino medio.

    Con l’inizio della Guerra del Peloponneso, nel 431, la democrazia ateniese entra in una profonda crisi che sarà anche quella delle altre città del suo impero (a quest’epoca, nel 399, si colloca il processo e la condanna a morte di Socrate che rappresenta una sorta di spartiacque tra cosiddetti presocratici e postsocratici). Per oltre cinquant’anni si vivranno crisi sempre più acute con successive egemonie di differenti città (è l’epoca in cui opera Platone).

  L’ACCADEMIA DI PLATONE

Raffaello, l’Accademia. Al centro della scena sono rappresentati Platone (con la tunica rossa) ed Aristotele (con la tunica celeste) che conversano. E’ da notare la grande abilità e capacità descrittiva di Raffaello attraverso i gesti dei due filosofi. Platone ha un dito rivolto verso l’alto, indicando il cielo, mentre Aristotele tende la sua mano aperta verso  la terra.

    Questo affresco di Raffaello nelle Stanze di Giulio II descrive il clima che doveva esservi intorno all’aristocratica scuola che Platone (428-347) fondò ad Atene, nel parco dove era sepolto l’eroe mitologico attico Academo agli inizi del IV secolo, l’Accademia (chiusa nel 529 d.C. dall’imperatore Giustiniano che ritenne questo centro una fonte di corruzione intellettuale, contrario all’ortodossia cristiana). Dice Preti che essa raccoglieva il maestoso filone della filosofia religiosa e speculativa e della reazione politica. E continua:

Platone stesso (come già Eraclito, al quale assomiglia molto in caratteri morali e politici) apparteneva a una delle più distinte consorterie nobiliari della città, che si vantava di regale discendenza; e alla più alta aristocrazia appartenevano i soci dell’ Accademia, ateniesi e forestieri (vi erano nella scuola anche dei non-ellenici); gli affiliati siciliani e italici pure appartenevano alle classi politiche e sociali dominanti nelle città greche dell’isola e d’Italia. Grande vi era il lusso, dispendiosissimo il tenore di vita interno, in particolare i simposi periodici che servivano e ad affiatare moralmente i soci e come riunioni filosofiche. Naturalmente, il fondo della società era, come già quello della scuola pitagorica di cui in un certo senso l’Accademia è stata l’erede storica, teologico e religioso: i soci formavano la chiesa di una nuova religione, derivante dall’orfismo e dal pitagorismo, ma in cui erano del tutto aboliti i riti purificatori e i miti più grossolani, la filosofia platonica costituendone insieme la rivelazione e la via di purificazione, in quanto mediante essa l’anima si liberava, teoreticamente e praticamente, dalla schiavitù dei sensi (e quindi delle cose corporee esterne), e si elevava per gradi alla contemplazione di quel mondo delle pure idee che formavano la sfera del divino puro Essere, eterno, ingenerato e immutabile(11).

    E come si può apprezzare qui entriamo in pure speculazioni filosofiche dove la scienza e la scoperta non entrano più. La conoscenza razionale viene separata da quella sensibile con il primato della prima. E tale conoscenza non è superiore in valore relativo, perché funziona meglio e quindi è più sicura, ma perché essa è assoluta, con un valore metafisico del suo oggetto che è il mondo delle idee, rispetto al misero soggetto della conoscenza sensibile che è il mondo materiale. L’uomo deve emanciparsi passando dalla percezione sensibile alla comprensione razionale. È utile osservare che tale affermazione è ancora oggi del tutto condivisibile solo che, all’epoca, essa ritardò lo sviluppo della scienza poiché si pose di più l’accento sulla comprensione razionale senza dare una qualche enfasi ad una adeguata conoscenza sensibile. Si sopravvalutò il pensiero e si sottovalutò l’elemento empirico senza una sufficiente conoscenza di quest’ultimo.E Platone ripeterà fino alla fine della sua vita che non può esserci una vera fisica ed anche il suo Timeo, in cui egli descrive una sua cosmologia, non va inteso in senso letterale ma come un mito, un’allegoria che tenta di avvicinarci alla vera Anima del mondo che non è oggetto sensibile.

    Platone nacque da famiglia aristocratica ad Atene. La sua corporatura robusta (platus) gli fece dare il nomignolo di Platone, in realtà il suo nome era Aristocle. Intorno ai 20 anni, e siamo già abbondantemente fuori l’età di Pericle, egli divenne allievo di Socrate a cui restò molto legato. Socrate gli insegnò che: la virtù si identifica con la scienza intesa non come scienza della natura o matematica ma come saggezza etica e sociale; la virtù si acquisisce approfondendo la conoscenza dell’uomo; la virtù può essere insegnata in quanto scienza. Viaggiò a Eliopoli in Egitto, a Cirene sulle coste mediterranee dell’Africa, in Magna Grecia. A Taranto seguì gli insegnamenti del grande astronomo e matematico Archita (che fu anche maestro di Eudosso). Ma i viaggi che più influirono su Platone furono i tre che fece a Siracusa (tra il 390 ed il 354), all’epoca una delle città più importanti, ricche e civili del Mediterraneo, per le varie vicende personali che visse con il tiranno Dionigi padre (che lo vendette come schivo), con suo cognato Dione e con Dionigi figlio.

Ciò che noi vediamo, secondo Platone, è solo una copia sgraziata di ciò che esiste in un mondo ultraterreno, al di là dello spazio e del tempo. La perfezione ivi esistente potrà essere avvicinata dai mortali solo mediante l’azione del pensiero. In questa visione l’indagine teorica assume il primato sull’indagine scientifica (empirica), la scienza assume il primato sulla tecnica; nell’ambito delle scienze la matematica assume il completo primato; tutto ciò che è lavoro manuale merita disprezzo (siamo in una società di schiavi che sarà successivamente teorizzata da Aristotele con l’affermazione che poiché non vi sono gli automi, allora …).

Quindi la matematica rappresenta il modo migliore per avvicinarsi a quel mondo di perfezione che viene continuamente richiamato, anche nella pratica quotidiana.Secondo Farrington, per Platone l’aritmetica è democratica mentre la geometria è oligarchica e per questo è un prerequisito per chi voglia diventare filosofo. Egli diceva:

Lo studio della geometria è un metodo per dirigere l’anima verso l’essere eterno; una scuola preparatoria, valida per una mente capace di rivolgere l’attività dell’anima verso le cose eterne

e così grande era la convinzione di ciò che, all’ingresso dell’Accademia, era scritto non entri chi non è geometra.

Quando il matematico traccia delle linee e costruisce figure, quelle linee e quelle figure gli servono da sostegno materiale ma in realtà egli si riferisce a linee ed a figure ‘perfette’ e non disegnabili. I risultati della matematica sono risultati che discendono da quella figura ideale mediante l’applicazione del puro ragionamento.

Coloro che si occupano di geometria, di aritmetica e di altre discipline del genere suppongono certe ipotesi come cose evidenti a tutti. Prendono le mosse da tali presupposti e procedono poi, nei loro ragionamenti, da una proposizione all’altra e giungono così alla dimostrazione che si propongono. [Repubblica, VII, 20, 530c.]

La scienza trarrà un maggior utile dal ragionamento e dalla costruzione matematica applicati direttamente alle forme, che non dall’esame empirico per mezzo dei sensi. Anche qui, come nella matematica, l’empirismo può aiutarci come ci aiutava quella linea ‘sgraziata’ che ci doveva rappresentare una retta. Per la scoperta della verità occorre, ad un certo punto, abbandonare l’empirismo.

Per i nostri fini importa sottolineare che questo primato matematico fa sì che una qualunque ricerca sarà maggiormente soddisfatta dal ragionamento e dalla elaborazione matematica: tutto ciò che dovesse risultare un “toccare le cose” potrebbe risultare ingannevole. Inoltre c’è da considerare che una conclusione ottenuta per via matematica non abbisogna di nessuna verifica, è vera in sé. Quindi per avvicinarsi e scoprire la verità occorre abbandonare ogni empirismo. Ma Platone, oltre che essere epistemologo, dette anche dei contributi positivi alla matematica: contribuì al suo assetto logico come appare negli Elementi di Euclide; fornì la esatta definizione di alcuni enti geometrici fondamentali, come punto cerchio, superficie come limite di un solido. 

    In astronomia, scienza che gli deve la scoperta di medesima velocità angolare di Mercurio, Venere e Sole, egli riteneva che gli astronomi dovessero scoprire, nella confusa irregolarità dei moti planetari, il sistema matematico ideale dei moti circolari uniformi. Simplicio ci riporta un’affermazione di Platone attribuita a Sosigene (II secolo d.C.) che era praticamente un problema che il medesimo Platone proponeva ai suoi discepoli: Quali sono i movimenti uniformi ed ordinati mediante la cui assunzione sia possibile spiegare il movimento apparente dei pianeti ? Naturalmente dietro questa domanda vi è la concezione platonica dell’astronomia. Egli sa che i moti planetari presentano delle anomalie che richiedono spiegazioni. I pianeti non ci offrono la sensazione di moti ordinati, essi sono errabondi (da planaomai = errare). Le irregolarità però devono essere solo apparenti e vi deve essere una combinazione di moti circolari, moti ordinati e perfetti, che spieghi tutto. E’ qui utile un cenno al perché si richiedessero agli astri dei moti perfetti. Platone, nella sua lotta contro materialismo ed ateismo, considerava le vecchie divinità dell’Olimpo, popolari ed ingenue, superate. La sostituzione di tali divinità avviene con divinità astrali, da trovare nel cielo (influenze orientali). Per assegnare il ruolo di divinità ad un corpo celeste occorreva mostrare prima che avesse un’anima e per di più divina. E Platone riesce facilmente nell’impresa (cosa non si può fare giocando con le idee) con il seguente ragionamento. Solo i viventi, come noi, sono in grado di muoversi mentre la materia inanimata ha bisogno di un qualcosa di esterno che la muova (e questo è un attacco a Democrito). Noi vediamo che i cieli si muovono e quindi sono viventi. Essi riescono poi a muovere moli enormi come il Sole e con regolarità e quindi sono intelligenti.

Ciò che agisce sempre allo stesso modo, uniformemente e sotto l’influsso delle stesse cause, dovrebbe proprio per questo essere considerato come dotato di intelligenza, e ciò si applica specialmente agli astri [ …] Che cosa potrebbe fare sì che una massa così grande come il Sole si muova lungo la propria orbita, nell’esatto intervallo di tempo in cui essa compie regolarmente il suo percorso ?” [Epinomide, 982]

    Nell’ambito di questa visione e a suo coronamento viene assunta in pieno la parte della filosofia pitagorica che voleva il primato della geometria nell’ambito della matematica, quella dei numeri naturali e dei loro rapporti in divine e armoniche proporzioni.

   Essa inizia con la definizione del problema: occorre distinguere tra ciò che è eterno e ciò che si genera e quindi si corrompe.

   Platone è un pensatore complesso e sarebbe riduttivo estrapolare dalle sue molte opere quelle in cui egli ci parla di scienza. Certamente Platone attinse a molti pensatori di varie scuole precedenti e contemporanei, senza mai citarli però. In lui ritroviamo Empedocle, i pitagorici, gli atomisti e, per la biologia, agli ippocratici. Più in dettaglio egli trasse: da Pitagora gli elementi orfici della sua filosofia, la tendenza religiosa, la fede nell’immortalità ed in un altro mondo, l’importanza da assegnare alla matematica nella sua doppia concezione razionale e mistica; da Parmenide l’opinione che la realtà sia eterna e che ogni mutamento è illusorio; da Eraclito che non vi sia nulla di permanente nel mondo sensibile; da Socrate le preoccupazioni etiche. Egli naturalmente modificò alcune cose raccogliendole e mettendole insieme nel modo che più lo soddisfaceva, con originali contributi (ad esempio, nell’assumere la teoria dei 4 elementi di Empedocle egli non si fermò lì ma, come vedremo, volle identificare i 4 elementi semplici con un solido regolare). L’opera di Platone che meglio ci può far capire la sua visione del mondo naturale è il Timeo al quale ho accennato indicando la sua funzione allegorica. Cerchiamo di seguirla per alcuni aspetti.

     Ciò che è eterno deve aver avuto un qualche principio, poiché qualunque cosa che è lo è per qualche causa. Quanto alle cose sensibili, non c’è dubbio alcuno che esse abbiano avuto un’origine e che debbano avere una fine. Il mondo intero è stato fatto secondo un modello che si può comprendere solo con la ragione e l’intelletto; esso è un animale animato e intelligente generato dalla provvidenza divina (è interessante osservare che Platone è monoteista: tutti gli altri dei non sono che una banale emanazione dell’unico dio). Il mondo cosi generato è unico proprio perché è stato fatto secondo un modello, quello di un animale perfetto. Le prime cose che dio mise nella composizione del mondo furono fuoco e terra, ma poiché non è possibile che due cose si compongano bene senza la terza (significato soprannaturale di numeri con particolari privilegi), occorre ammettere che fra terra e fuoco vi sia un legame che li congiunga (si comincia a parlare di un qualcosa che in alcune religioni va sotto il nome di trinità).

      La necessità del terzo elemento sarebbe ineluttabile in un mondo piano; ma qui ci troviamo in un mondo che ha una sua esistenza nello spazio; quindi, data la dimensione in più, occorre aggiungere un quarto elemento. Oltre al fuoco e alla terra occorre aggiungere acqua e aria.

Il mondo-animale aveva poi una forma indefinita e dio cercò di dargli la miglior forma possibile, quella sferica. E chi sollevasse problemi sulla stranezza di un tale animale troverebbe un’immediata risposta in Platone: a questo animale non servivano occhi per vedere perché al di fuori di esso non vi era nulla da vedere; non aveva orecchie perché non vi era nulla da sentire; non vi era aria che richiedesse un naso o una bocca; né aveva bisogno di organi che ingerissero ed espellessero elementi perché non vi era nulla da ingerire, digerire, espellere. Come si nutre allora l’animale? Mediante la sua corruzione interna! Allo stesso modo poi non servivano né mani né piedi. Gli fu assegnato l’unico movimento adatto, quello circolare. Un unico animale sferico in moto circolare su se stesso, non bisognoso di nessuna compagnia perché perfetto. All’interno del nostro animale sferico dio sistemò i pianeti con le loro orbite in modo che fossero rispettate le proporzioni di date armonie musicali (“divise sei volte l’ulteriore, facendone sette circoli diseguali secondo gl’intervalli del doppio e del triplo, che erano tre per ciascuna parte“). In questa elaborazione Platone trovò il tempo di irridere le teorie evolutive di Anassimandro secondo le quali l’uomo derivava dai pesci, come accennato nel precedente lavoro. Egli avanzava l’ipotesi “che la quarta specie di animali, il cui ambiente è l’acqua, trasse origine dagli uomini assolutamente più imbecilli“.

    Tutto ciò non bastava; occorreva la creazione del tempo per fare sì che ciò che era stato creato si dissolvesse insieme a quest’ultimo. E per creare il tempo servivano il sole e la luna, oltre a cinque altri astri in modo che il tempo avesse la sua scansione. Dopo un altro cenno alla trinità (“conviene paragonare alla madre quello che riceve, al padre quello donde riceve, al figlio la natura intermedia“), Platone passa a descrivere la sua straordinaria concezione “corpuscolare”. Inizia con l’affermare una cosa per molti versi cara ai pitagorici: ogni superficie piana è composta da triangoli. Tutti i triangoli sono fondamentalmente di due tipi: il triangolo rettangolo isoscele (angoli di 90°, 45°, 45°) e il triangolo rettangolo scaleno (angoli di 90°, 60°, 30°).

Ora, mentre per il triangolo rettangolo isoscele non vi sono problemi, per quello scaleno ve ne sono; essi possono infatti essere, al contrario degli altri, della più incredibile varietà. Com’è possibile allora decidere per quello con angoli di 90°, 60°, 30°? Semplicemente perché è (letteralmente) il più bello. E la bellezza di questo triangolo discende soprattutto dal fatto che, se ripetuto sei volte, realizza un triangolo equilatero (figura D seguente). Occorre osservare che Platone non realizza il triangolo equilatero nel modo più semplice mediante due soli dei triangoli suddetti (figura C seguente). Da questi due triangoli si generano le quattro entità che sono alla base della costituzione del mondo: terra, acqua, aria, fuoco. Per vedere come, occorre intanto osservare che quattro triangoli rettangoli isosceli, uniti tra loro attraverso l’angolo retto, formano un quadrato (figura B seguente). E’ anche qui da notare che il quadrato non è costruito nel modo più semplice, mediante due triangoli rettangoli isosceli (figura A seguente).  Ma siamo ancora al

livello di “piano”; i quattro elementi occupano invece lo “spazio”. Come organizzare insieme dei triangoli in modo che diano delle figure solide ? A Platone sembra evidente: attraverso i solidi regolari che, fra l’altro, erano stati da poco scoperti (il cubo, il tetraedro, l’ottaedro, l’icosaedro, il dodecaedro). Vediamo come.

Anzitutto c’è da osservare che i quattro elementi non sono tutti generabili da una unica matrice. La terra ha caratteristiche differenti dagli altri tre elementi perché è formata dall’insieme di triangoli rettangoli isosceli e non scaleni:

Una particella di terra ha forma di cubo, che si ottiene dall’unione di 24 triangoli rettangoli isosceli (4 per ogni faccia).

– Una particella di fuoco ha forma di tetraedro, che si ottiene dall’unione di 24 triangoli rettangoli scaleni (6 per ogni faccia).

– Una particella di aria ha forma di ottaedro, che si ottiene dall’unione di 48 triangoli rettangoli scaleni (6 per ogni faccia).

– Una particella di acqua ha forma di icosaedro, che si ottiene dall’unione di 120 triangoli rettangoli scaleni (6 per ogni faccia).

    Oltre a questa differenza tra i vari elementi, vi è anche la differenza nell’ambito dello stesso elemento perché vi sono tipi diversi di ciascuno di essi. Ad esempio, nel caso della terra, dovremo considerare i triangoli rettangoli isosceli che si combinano nelle singole facce del cubo in tre modi modi diversi attraverso una quantità diversa di triangoli (crescenti secondo la potenza di 2), come mostrato in figura:

Combinazione di due, quattro o otto triangoli rettangoli isosceli per formare quadrati di tre diverse dimensioni corrispondenti ai tre gradi della terra.

Le singole particelle possono dissolversi nei singoli triangoli che le compongono; questi triangoli potranno poi ricomporsi a loro piacimento, purché sia rispettata la regola di triangoli isosceli con triangoli isosceli e triangoli scaleni con triangoli scaleni. Ciò vuol dire che il triangolo elementare che è alla base dell’elemento terra non potrà far altro che ricomporsi con altri triangoli provenienti dalla dissoluzione di altre particelle di terra; i triangoli elementari che provengono dalla dissoluzione degli altri tre elementi, essendo tutti dello stesso tipo, potranno ricomporsi tra loro nei modi più vari, con la conseguenza che atomi provenienti da particelle di fuoco potranno entrare a far parte di particelle d’acqua. Più precisamente, dalla terra si può riottenere soltanto terra, mentre una particella d’aria può trasformarsi in due di fuoco (24 x 2 = 48), una particella d’acqua può trasformarsi in due particelle d’aria e una di fuoco, e viceversa (120 = 2 x 48 + 24).

     Ci si potrebbero a questo punto chiedere le ragioni di ciò: esse risiedono tutte in principi armonici e legati a quei postulati non dimostrabili che sono alla base di molte filosofie antiche (che arrivano allegramente fino a noi). Intanto si ha a che fare con poliedri perché il mondo è tridimensionale, e un mondo siffatto è rappresentabile da una grandezza elevata al cubo. Supposto poi che la terra sia rappresentabile da un a³ e il fuoco da un b³, il fatto che servano altri due elementi (l’acqua e l’aria) è giustificato con il riconoscimento dell’esistenza di due medi proporzionali tra a³ e b³, che possono dare origine a una progressione geometrica: a³, a²b, ab², b³.

Perché poi la terra ha particelle a forma di cubo? Perché essa è la più immobile e plasmabile tra i quattro elementi e il cubo, essendo formato da triangoli ben saldi come l’isoscele, è tra tutti i solidi regolari il più stabile. L’acqua ha la forma meno mobile (l’icosaedro) e il fuoco la più mobile (il tetraedro); l’aria, essendo intermedia tra fuoco e acqua, deve avere una mobilità intermedia (ottaedro). Ma perché il tetraedro è il più mobile tra i solidi regolari? Perché ha il minor numero di basi e quindi è più tagliente e può infilarsi dove vuole con facilità. E poi, avendo il minor numero di basi, è di necessità la più leggera tra le particelle, e ciò si conviene al fuoco. In gradi decrescenti le stesse qualità si addicono agli altri elementi e, conseguentemente, agli altri solidi regolari.

    L’insieme dei quattro elementi che compone l’universo deve essere sempre in moto, così da non lasciare mai uno spazio vuoto. Si tratta di un movimento nel tutto pieno, istantaneo e ciclico, fatto in modo da costituire una specie di vortice (tutto ciò verrà ripreso completamente da Descartes).

     Nella concezione particellare di Platone è sfuggito uno tra i cinque solidi regolari, il dodecaedro. Esso doveva trovare un qualche posto e, in armonia con la sua visione complessiva, lo trova nel cielo, a rappresentazione dello Zodiaco, delle 12 costellazioni (tutto ciò lo si ritroverà ampiamente nel sistema del mondo di Kepler). Una sola osservazione relativa alla quintessenza, quinta essentia o pempton poma, rappresentata dal dodecaedro. Questo solido è l’unico che si realizza con poligoni diversi dal triangolo, con pentagoni. E non a caso Platone lo mette ai livelli più elevati infatti i pitagorici, da cui Platone prende molti spunti, avevano come simbolo il pentagramma, l’intersezione tra triangoli che descriveva al suo interno un pentagono.

     Infine la numerologia della scala musicale fornisce  materiali per concepire due grandi moti circolari nell’universo: il primo, che produce la rotazione diurna della sfera delle stelle fisse attorno al proprio asse; il secondo, che produce il moto proprio dei pianeti diretti in verso opposto lungo l’eclittica o parallelamente ad essa. La materia primordiale viene

    Il complesso “straordinario” di fisica ed epistemologia platoniche fu portatore di due fondamentali istanze: l’universo ha una struttura matematica; l’astronomia e la fisica sono concepite come entità teorico-matematiche(12).

IL LICEO DI ARISTOTELE

Alla scuola di Platone si formò anche Aristotele (384-322 a.C.) che, per quasi vent’anni, stette al fianco del suo maestro.

    Aristotele nacque a Stagira, colonia ionica nella penisola calcidica (nord della Grecia). Sua padre, che morì quand’egli era ancora un giovanetto, era il medico Nicomaco  presso la corte del re dei macedoni Aminta. A 18 anni fu ammesso all’Accademia e divenne alunno prediletto di Platone con il quale restò 20 anni, fino alla morte del maestro. Poiché non ebbe la successione alla guida dell’Accademia, che, in un ambiente aristocratico, andò al nipote di Platone, se ne andò da Atene. Fece un viaggio ad Asso (Asia Minore) e lì fondò una sua scuola. Per varie vicende politiche dovette andarsene, riparando a Mitilene da dove, fu chiamato da Filippo il Macedone come precettore del figlio Alessandro. Quando quest’ultimo salì al trono, Aristotele tornò ad Atene (334) dove fondò una sua scuola in una località che era consacrata ad Apollo Lykeos, il Liceo. Questa scuola mantenne gli insegnamenti tradizionali dell’Accademia (essenzialmente filosofia, matematica ed astronomia) ed aggiunse quelli di scienze naturali e di fisica. Nel primo caso si ebbero importanti successi con importanti raccolte e classificazioni di animali e piante provenienti da ogni parte del mondo conosciuto; in ambito fisico non vi fu quasi nulla, anzi, il bilancio è addirittura negativo, giacché l’Autorità di Aristotele, il potente apparato logico e trattatistico  che caratterizzano la sua opera, contribuirono a radicare ed a diffondere per secoli dei pregiudizi fatali al progresso [Forti]. Tra gli allievi del Liceo vi furono importanti personalità, come Teofrasto ed Eudemo. Ma la scuola ebbe vari nemici nei partiti contrari al dominio macedone (tra cui quello di Demostene) ed Aristotele (sembra ingiustamente) era considerato persona legata al potere di Alessandro Magno. Alla morte di quest’ultimo (323) vi furono sollevazioni del partito di Demostene e Aristotele venne accusato di empietà (si usava ed usa spesso con gli oppositori). Riuscì a fuggire in gran fretta dicendo che la città non dovrà macchiarsi ancora una volta di un delitto contro la filosofia. Si ritirò a Calcide, nell’isola di Eubea, dove morì un anno dopo (322).

    Nel descrivere le concezioni di Aristotele occorre tenere a mente che esse dominarono il mondo occidentale per oltre 2000 anni. Si deve tener presente che Aristotele, in questi secoli, è stato interpretato e spesso travisato. Occorre quindi sempre distinguere tra il suo pensiero e quello degli aristotelici.

La filosofia aristotelica si discosta radicalmente da quella di Platone; essa è un complesso organico, molto ben organizzato in un insieme del quale è impossibile toccare una sola parte senza compromettere il tutto. Aristotele spaziò su tutti i campi del sapere discutendo a fondo ogni affermazione, ogni fatto empirico, ogni punto di vista precedentemente espresso da altri pensatori. Egli si distinse anche per questo da Platone, il quale trattò alcuni argomenti in modo superficiale, anche se con uno stile che più volte raggiunge una liricità sorprendente, là dove Aristotele rasenta la pedanteria. Con Aristotele iniziano ad essere accumulati i fatti osservati, gli oggetti vengono classificati, interviene la sensazione la fissare le immagini, si comincia ad osservare il mondo circostante, cosa non apprezzata nell’Accademia di Platone, descrivendolo per quello che è, in modo ingenuo. Due modi radicalmente diversi di intendere la scienza. Con Platone essa è costruita sull’ipotesi, sulle elaborazioni dell’intelletto, sulle idee che solo poi devono discendere nel mondo reale per dar conto di qualche apparenza; con Aristotele si parte dagli oggetti materiali per classificare e trovare regole che permettano generalizzazioni e riconducano a dei concetti (oggi si potrebbe dire di metodo deduttivo ed induttivo). E, per ciò che ci riguarda, la matematica non trova posto nelle elaborazioni aristoteliche. Non ha nulla di preconcetto contro di essa ma non approva che stia al centro degli interessi dei filosofi quando dovrebbe solo servire a risolvere problemi pratici.

    La fisica di Aristotele tenta di spiegarci come è costituito il mondo e perché esso è costituito così e non in altro modo. Il suo atteggiamento conoscitivo nei riguardi della natura è essenzialmente contemplativo e descrittivo: si esclude ogni intervento attivo sulla realtà per portare alla luce le sue intime leggi. Poiché la quantità è del tutto irrilevante per l’essenza, il tenerne conto non ci porta in alcun modo alla conoscenza dei principi dell’essere e delle cose: non c’è quindi alcuna ragione di effettuare delle misure (e di usare quindi procedimenti matematici), si tratta invece di classificare le sostanze ed i movimenti cui esse sono soggette. L’oggetto della filosofia in generale e della scienza in particolare è formato dalle cose che percepiamo con i sensi. La conoscenza proviene da percezioni sensibili anche se l’intelletto ha lo scopo di elaborare tali percezioni. L’atteggiamento di fronte ai fenomeni naturali è essenzialmente empirico.

    La cosa più interessante da notare è che il complesso del pensiero aristotelico si presenta in modo unitario, risultando impossibile modificarne una parte senza danneggiare completamente l’intero edificio.

    Per Aristotele il mondo è organizzato secondo due idee principali:

· la teoria dei quattro elementi

 · la teoria dei luoghi naturali.

    Alla sua base egli pone i quattro elementi di Empedocle (terra, acqua, aria, fuoco) e  l’etere, anch’esso introdotto, ma senza particolare enfasi, dallo stesso Empedocle. E l’etere gioca invece in Aristotele un ruolo importante. Esso doveva entrare nella costituzione di tutto ciò che si trovava al di sopra del cielo della luna, per render conto del fatto che tutto ciò che ivi si trova rimane sempre uguale a se stesso, senza essere soggetto a generazione e corruzione. Inoltre, al di sopra del cielo della luna, vi è un moto eterno che non subisce rallentamenti, e ciò è possibile attraverso un elemento diverso da quelli che ci circondano sulla terra. Tralasciamo però l’etere (che pure, per cammini diversi, giocherà un ruolo importantissimo nella fisica) e occupiamoci dei quattro elementi sublunari e della loro relazione con le quattro qualità elementari o primarie (caldo, freddo, secco, umido) che, per essere tali, devono godere delle seguenti caratteristiche: essere sensibili al tatto; essere suscettibili di originare cambiamenti qualitativi; formare coppie di opposti (caldo-freddo; secco-umido; pesante-leggero; denso-raro; ruvido-liscio; duro-soffice; resistente-fragile). Anzitutto queste quattro qualità elementari, in accordo con la loro definizione, formano le coppie di opposti ora riportate che non possono mai coesistere (il caldo non può coesistere con il freddo e il secco non può coesistere con l’umido). A ognuno degli elementi sono assegnate due qualità elementari, cosicché abbiamo:

– terra  =>  secca e fredda

– acqua => umida e fredda

– aria    => umida e calda

– fuoco => secco e caldo

(si noti che, in accordo con la visione aristotelica del mondo che lo vuole ordinato secondo i gradi dell’intrinseca nobiltà dei quattro elementi – in successione, terra, acqua, aria, fuoco – il passaggio da un elemento a quello che lo segue nella scala di nobiltà avviene mediante il cambiamento di una sola delle qualità elementari). Questo modo di definire le cose fa sì che, mediante lo scambio di almeno una delle qualità primarie nel suo opposto, è possibile che un elemento si trasformi in un altro (sono più facili gli scambi di una sola delle qualità primarie ma non sono esclusi gli scambi di ambedue). Risulta semplice la trasformazione di acqua in aria (o viceversa) e altrettanto facile è quella da aria a fuoco (eccetera). Risulta difficile la trasformazione da aria in terra (o viceversa). Cosicché gli elementi non sono immutabili ma trasformabili gli uni negli altri. La figura seguente riporta uno schema delle più probabili trasformazioni:

anche se ne sono possibili altre più complesse, come quelle che possono ottenersi partendo da due elementi che ne originano altri due, ad esempio:

acqua (freddo-umido) + fuoco (caldo-secco) = terra (freddo-secco) + aria (caldo-umido),

(per rendersi conto di questa reazione si pensi a quando si spegne un fuoco con dell’acqua: si ottengono cenere e aria).

    Motivi cosmologici, e in particolare l’attrito del fuoco con il cielo della luna in rotazione, mescolano i quattro elementi che originariamente erano separati. Quindi i quattro elementi non si trovano mai allo stato puro:

 la terra domina negli oggetti pesanti

– l’aria domina negli oggetti leggeri

– l’acqua entra nella composizione dei metalli (per la spiegazione della fusione)

– il fumo non è altro che combinazione di fuoco e terra

– gli oggetti che galleggiano hanno una percentuale d’aria maggiore di quella di terra

– e così via.

    Quando però ci chiedessimo se ci sono corpuscoli alla base dei quattro elementi, ci troveremmo in difficoltà a rispondere. Da una parte, per motivi che discendono dalla dinamica di Aristotele (non è possibile alcun moto in presenza di vuoto perché il moto esiste solo se vi è un motore che continua a spingere; ora, quando scagliamo un sasso, esso può continuare a muoversi quando si è staccato dal motore-mano solo perché l’aria, richiudendosi dietro di esso, continua a spingerlo), è esclusa l’esistenza del vuoto, contro il quale, nella sua “Fisica”, Aristotele sviluppa una dura critica. Più in generale, il rifiuto dell’atomismo nasceva in Aristotele dal fatto che sia Platone che Democrito non assegnavano alcuna qualità ai (supposti) costituenti ultimi della materia. Per Aristotele alcune qualità elementari debbono entrare direttamente in una qualunque teoria della materia. Egli inizia con il dargli atto  di aver elaborato una teoria del discontinuo che si differenzia da tutte le altre. Democrito è il solo ad aver posto alla base della materia dei corpuscoli tridimensionali. Tutti gli altri, e particolarmente Platone, hanno ideato una discontinuità a base di superfici, di oggetti bidimensionali. Aristotele, pur rifiutando l’atomismo di Democrito, è più interessato ad esso che ai triangoli di Platone, non tanto perché consideri quella di Democrito una migliore teoria del discontinuo, quanto per l’attenzione che questi rivolge ai fatti empirici, cosa del tutto estranea al pensiero di Platone. E qui emerge uno dei cardini, già annunciato, della fisica aristotelica: priorità dei fatti empirici, dell’osservazione sul ragionamento, sulla matematica ma con l’avvertenza che ciò che Aristotele considera come esperienza è la mera osservazione di ciò che ci circonda. Anch’egli aveva in disprezzo tutto ciò che era contatto diretto con la “materia”. Il fatto poi che lo spazio per Democrito è un vuoto nel quale sono sistemati gli atomi con possibilità di spostamento in tutte le direzioni (spazio omogeneo e isotropo, diremmo oggi), fa dire al finalista Aristotele, che aveva elaborato la “teoria dei luoghi naturali”, che gli atomi di Democrito non saprebbero dove andare non trovando né un su né un giù, né una destra né una sinistra… Resterebbero quindi immobili (“non è possibile che neppure un solo oggetto si muova, qualora il vuoto esista“). Inoltre, se vi fosse il vuoto, non si capirebbe perché un oggetto scagliato dovrebbe fermarsi qui piuttosto che lì. E ciò fa concludere ad Aristotele con l’enunciato, da lui ritenuto assurdo, del principio d’inerzia: “Sicché l’oggetto o dovrà restare in quiete ovvero necessariamente dovrà muoversi all’infinito“. Infine: “Se si ammettesse il vuoto, tutti i corpi avrebbero la medesima velocità [ad esempio, di caduta]: il che è impossibile” (e ciò viene ricavato da Aristotele dall’osservazione che uno stesso oggetto si muove più o meno velocemente a seconda della densità del mezzo che attraversa e – viceversa – che, a parità di densità del mezzo, oggetti di “peso” diverso si muovono con velocità direttamente proporzionali ai loro pesi). Con ciò è escluso quell’elemento di discontinuità che era alla base dell’ atomismo di Leucippo e Democrito (vi è il tutto pieno). Quanto è divisibile questo tutto pieno?

     Qui emerge un altro punto importante della filosofia aristotelica: la differenza concettuale che egli fa tra infinito in potenza e infinito in atto. Aristotele sostiene che un corpo percepibile è divisibile all’infinito e non divisibile all’infinito allo stesso tempo, senza che in ciò vi sia contraddizione. Infatti esso sarà divisibile in potenza ma non in atto. Ma anche qui sorgono problemi poiché – secondo Aristotele – anche supponendo di fare la divisione del corpo solo in potenza, risulterebbe che ogni punto di questo corpo sarebbe diviso e così, dato che questo corpo svanirebbe nel nulla, come sarebbe possibile ricostituirlo ? D’altra parte è impensabile il dividere un corpo in ogni punto e quindi, a un certo istante, si dovrà pur porre fine al processo. Si dovranno dunque ammettere nel corpo grandezze indivisibili invisibili. Ma le cose non sono poi così chiare. Secondo Aristotele, questo modo di ragionare nasconde un errore poiché implica l’ammissione di una divisione contigua a una precedente divisione, e ciò è in disaccordo con il fatto che è impossibile considerare due punti contigui tra loro.

     In definitiva, pur nell’ammissione chiara di tutto pieno e continuo, la soluzione del problema pare arenarsi su un fatto accessorio: la divisibilità della materia. Ma, poiché Aristotele ammette solo la divisione in atto, sembra ragionevole accettare l’esistenza di piccole parti che conservino le caratteristiche della sostanza che si sta dividendo (minima naturalia). Ma sul problema della divisibilità della materia Aristotele torna ancora più volte e, in particolare, nella polemica con Zenone. Egli inizia con il fornire la definizione di vari termini che successivamente gli saranno utili: continuità, contatto, consecutività, contiguità. Risultano in contatto i corpi le cui estremità coincidono. Un oggetto è consecutivo a un altro se non vi è alcun oggetto (dello stesso genere) intermedio tra esso e quello a cui è consecutivo. Contiguo è invece ciò che, oltre a essere consecutivo, è anche in contatto. Il continuo è una determinazione particolare del contiguo, e c’è continuità quando i limiti di due oggetti mediante i quali essi si toccano (contiguità) diventano uno solo (continuità). Ora, da quanto detto è chiaro che il contiguo è consecutivo, mentre non tutto il consecutivo è contiguo; se poi c’è continuità ci deve essere anche contiguità; viceversa, ci può essere contiguità senza che ci sia continuità.

    Fissate queste definizioni, Aristotele afferma l’impossibilità che qualcosa di continuo sia formato da atomi (indivisibili), ad esempio che una linea risulti formata da punti (poiché la linea è un continuo mentre il punto è un indivisibile). Ogni continuo deve essere formato da parti che siano sempre divisibili; in caso contrario si verificherebbe l’assurdo che un indivisibile è a contatto con un indivisibile in modo che quel continuo cessa di essere tale per diventare un contiguo. Allo stesso modo della linea, risultano continui anche grandezza, tempo e movimento. Ecco dunque un argomento contro Zenone (la freccia): tanto la grandezza quanto il tempo sono continui; se la grandezza è infinita ci vorrà un tempo infinito a percorrerla, se essa è finita ci vorrà un tempo finito. Anche la tartaruga poi non verrà raggiunta da Achille fin quando lo precede, ma verrà raggiunta con la sola ammissione che la distanza che percorre è finita e non infinita. Ritornando alla freccia, anche qui il paradosso nasce dall’ammissione di tempo composto da istanti (indivisibili); il che non è corretto poiché il tempo è continuo, e tutto ciò che è continuo non può essere composto da indivisibili. E così via, con questi ragionamenti (più complessi per la verità di come li ho riassunti) Aristotele demolisce ogni sistema filosofico che non sia il proprio. E nega anche se stesso nell’affermare che il mondo deve essere conosciuto a partire dai fatti empirici che si presentano.

    I quattro elementi non hanno però esaurito la loro funzione in quanto ho detto più su, essi hanno un ruolo importante anche nella cosmologia aristotelica. Essi, poiché come accennato sono organizzati secondo i gradi di una intrinseca nobiltà, saranno disposti in tale ordine gerarchico anche nella costituzione del cosmo: la terra, la più vile, sta più in basso; su di essa vi è l’acqua, quindi l’aria e, da ultimo, il fuoco, l’elemento più nobile.  Sono semplici osservazioni naturali che portano a questa fisica: un pugno di terra affonda nell’acqua, delle bolle d’aria salgono da sotto l’acqua, il fuoco acceso nell’aria sale attraverso quest’ultima. A questi elementi occorre aggiungere l’etere perfetto, eterno ed incorruttibile, la quintessenza, che si trova al di sopra di tutti gli altri. Tutto ciò è chiuso dentro una prima sfera di cristallo, la sfera della Luna. Gli serviva una sfera materiale ad Aristotele per sostenere i ‘pianeti’ che risultavano incastonati in essa e la sfera doveva essere cristallina poiché dalla Terra non la vediamo. Dalla prima sfera in poi i pianeti, le sfere che li sostengono, gli astri e l’intero spazio fino all’ottava sfera (quella delle stelle fisse), sono costituiti di etere. Sotto il cielo della Luna le cose nascono e muoiono. Sopra questo cielo tutto è perfetto, eterno, immutabile ed incorruttibile. L’insieme completo delle sfere del sistema aristotelico, come sviluppo del sistema di Eudosso e Callippo con l’introduzione di un significato fisico a quell’apparato matematico, è di 56 (55 + quella delle stelle fisse). Tutte queste sfere sono state introdotte per rendere conto dei vari moti e delle loro apparenti irregolarità. Ciascun pianeta è dotato di un sistema di sfere. L’asse della sfera che porta il pianeta è fissato all’interno di un’altra sfera rotante, il cui asse è attaccato ad una terza sfera e così via. Postulando un numero sufficiente di sfere, disponendo gli assi ad angoli appropriati e variando le velocità di rotazione si riesce a rappresentare con buona approssimazione il moto dei pianeti, del Sole e delle stelle. Altre sfere ruotanti in direzione opposta, erano introdotte tra sfera planetaria e sfera planetaria, affinché il moto dell’una non si trasmettesse all’altra (sfere compensatrici: qualcosa di analogo farà Maxwell quando introdurrà le ruote inattive)(10)  al fine, con ancora un significato fisico-teologico, di evitare che i movimenti delle sfere superiori non perturbino il mondo sublunare (nel sistema di Eudosso il problema non si poneva perché le sfere non erano a contatto in quanto si immagina vi fosse un vuoto che invece esplicitamente e decisamente Aristotele rifiuta).

    Il moto è trasmesso dall’ultima sfera a quelle più interne. Quando si arriva alla sfera eterea che contiene incastonata la Luna, il suo moto trascina per attrito l’aria ed il fuoco sottostanti, ciò provoca il turbinio ed il rimescolamento dei quattro elementi fenomeno che è alla base del cambiamento e quindi della generazione e corruzione del mondo ‘terreno’ o sublunare. Si noti che senza quell’attrito i quattro elementi sarebbero separati: al centro vi sarebbe una sfera di terra, circondata prima da una buccia d’acqua, quindi da una buccia d’aria ed infine da una buccia di fuoco. In particolari condizioni, il fuoco che sale si concentra in un dato luogo e da quel medesimo attrito viene messo in rapida rotazione, originando il fenomeno delle comete. Queste ultime infatti non possono essere ammesse come corpi provenienti da uno spazio esterno che semplicemente non esiste. Inoltre corpi in moto “trasversale” nello spazio, sfonderebbero quelle sfere cristalline (come fece osservare S. Tommaso che, proprio per questo motivo, mise in discussione l’ascesa del corpo di Gesù al Cielo, cielo che comunque non esisteva in Aristotele). Uno schema semplificato del sistema aristotelico-tolomaico è nella figura seguente.

      Per Aristotele, i movimenti terrestri, dei quali parlerò subito dopo, dipendono da quelli celesti. Le incessanti rivoluzioni del cielo provocano i moti rettilinei egualmente incessanti degli elementi terrestri, moti questi ultimi che sono alla base di ogni generazione, mutamento e corruzione. È vero che non tutti questi processi hanno luogo nella stessa direzione: generazione-corruzione; aumento-diminuzione; rafforzamento-indebolimento; … E, dal momento che effetti contrari debbono avere cause contrarie, non è possibile che la rivoluzione dell’ottava sfera (quella delle stelle fisse) sia la sola a produrre e a mantenere i moti terrestri; si rende necessario un secondo principio, e questo consiste nei moti del Sole, della Luna e dei pianeti (che sono diretti in moto contrario a quello della rotazione diurna dei cieli) lungo la linea dello Zodiaco: La rotazione diurna è la causa della perpetuità dei processi sublunari; mentre il passaggio lungo lo Zodiaco è la causa della loro diversità. Così tutto ciò che accade sulla Terra è controllato dalle sfere celesti. Inizia in questo modo quella cosa che va sotto il nome di Oroscopo.

    Alcune difficoltà di tale sistema astronomico sono:

· si deve supporre costante la distanza di ogni corpo celeste dalla Terra;

· non si spiega la variazione della luminosità apparente dei pianeti;

· non si spiega la variazione del diametro apparente della Luna;

· non si spiega perché le eclissi di Sole a volte sono parziali ed a volte totali.

    Passiamo ora ad occuparci di altro problema al centro della fisica di Aristotele, il moto (avvertendo che il termine moto o movimento per Aristotele vuol dire qualsiasi mutamento mentre il moto come lo si intende oggi è per Aristotele il moto locale). Un oggetto è in moto se occupa successivamente luoghi diversi. Ed il moto può essere:

· sostanziale (di generazione e corruzione);

· qualitativo (modificazione delle qualità);

· quantitativo (accrescimento e diminuzione);

· moto locale che, a sua volta, si suddivide in:

· moto violento;

· moto naturale che, a sua volta, si suddivide in:

 verso l’alto e verso il basso;

· circolare.

    I corpi che si muovono dall’alto in basso o viceversa sono dotati di peso o leggerezza, proprietà che non spettano ai corpi che si muovono di moto circolare . I gravi cadono a diverse velocità a seconda del loro “peso” e a seconda della densità del mezzo in cui cadono (velocità di caduta proporzionale al peso).

    Ogni corpo tende ad andare al suo luogo naturale ed i moti che realizzano questo sono moti naturali (con la teoria dei luoghi naturali viene spiegata anche la morte dei viventi): così la terra si muoverà per andare a ricongiungersi con la terra, l’acqua scorrerà per andare verso l’acqua, l’aria salirà in bollicine dall’acqua, …

    Sono moti violenti quelli provocati artificialmente (ve ne sono di due tipi, quelli dei projecta separata, cioè lanci di sassi, di frecce, … e quelli del motor conjunctus, quando un animale trascina un carro, ad esempio). In ogni caso, perché un moto sia possibile è necessario che qualcosa, un motore, lo sostenga: mentre è chiaro qual è il motore nel caso del carro trainato, per il sasso scagliato occorre pensare che esso sia mantenuto in moto dall’aria che, chiudendosi dietro di esso, lo sospinge. Se il motore cessa di agire, cessa il moto. Non è pensabile il persistere di uno stato di moto senza motore. Il moto è uniforme se su di esso il motore agisce in modo costante (il moto è uniforme se su di esso agisce una “forza” costante). Il che oggi sarebbe formalizzato con un F = m.v, cioè la velocità di un corpo è direttamente proporzionale alla forza che gli è applicata ed inversamente proporzionale al ‘peso’ del medesimo corpo. Si deve osservare qui che la caduta di un corpo è intesa in modo diverso da un oggetto trascinato, dal motor conjuntus. E’ il peso che assolve due funzioni diverse: nel caso della caduta il peso aiuta il fenomeno che avviene spontaneamente, nel caso del trascinamento il peso si oppone ad essere spostato. Ma dentro questa sottigliezza vi è una problematica enorme che sarà dipanata a partire da Galileo che avrà di fronte una catasta di cose disordinate da mettere al loro posto. Vediamo un’altra questione strettamente connessa a quanto dicevo e relativa al fatto che per spostare un corpo una forza deve essere superiore alla somma di forza resistente ed attrito, all’inerzia + attrito come diremmo oggi. Con un esempio fatto dallo stesso Aristotele, accade che mentre una forza A, che sposti un corpo B per una certa distanza in un dato tempo, costringerà un corpo che sia la metà di B a coprire nello stesso tempo una distanza doppia, non è garantito che tale forza sia in grado di muovere un corpo due volte più grande di B per una distanza metà in uno stesso tempo. Perché il ragionamento abbia un senso completo occorre preliminarmente che la forza sia in grado di spostare il corpo due volte più grande di B. Insomma tempi, distanze, velocità, pesi non li possiamo estrarre a caso da una scatola chiusa(13) e metterli insieme a piacere.

    L’infinito non può muoversi e poiché la sfera delle stelle è in moto, si deve concludere che il mondo è finito (qui sorge per Aristotele una grave difficoltà perché per muoversi, aveva sostenuto, un corpo deve occupare luoghi diversi. Se la sfera delle stelle fisse è in moto vuol dire che sia di qua che di là di essa deve esservi luogo e quindi l’universo deve proseguire anche al di là di tale sfera. E’ per far fronte a tale difficoltà che Aristotele deve aggiungere la posizione seguente). Il limite del mondo è la superficie interna della sfera delle stelle: l’ultima sfera è in moto anche se occupa sempre lo stesso luogo.

    Conseguenza della teoria dei luoghi naturali è l’unicità del mondo (tutta la terra con la terra, tutta l’acqua con l’acqua, …).

    La Terra è immobile poiché un corpo scagliato in alto ricade perpendicolarmente nello stesso punto da cui è stato lanciato (servirà comprendere ciò che sviluppò Giordano Bruno: tutto ciò che si muove con la Terra ha la stessa velocità della Terra).

    La sfericità della Terra viene dedotta dalle ombre circolari disegnate sulla Luna durante le eclissi.

    Il mondo è perfetto perché ha “tre” dimensioni (3 è il numero pitagorico perfetto) e, poiché è perfetto è anche finito, infatti non gli manca nulla(14).

UNA PARZIALE CONCLUSIONE 

    Con la morte di Aristotele scompare uno dei massimi pensatori dell’antichità classica.  I rivolgimenti politici originati dalle conquiste di Alessandro Magno spostano il centro scientifico dalla Grecia, Magna Grecia e Asia Minore verso Alessandria ed ancora in alcuni centri della Magna Grecia, dando inizio al periodo ellenistico. Qui si saldano le tradizioni dei massimi pensatori dell’antichità classica con la cultura che era stata sviluppata dai babilonesi e quella che era penetrata dall’oriente. Ora non incontriamo più filosofi “complessivi”; la scienza inizia a separarsi dal pensiero filosofico che ormai, dai sofisti in poi, disquisiva su se stesso; il filosofo lascia il posto al dotto. Vi sarà qui una fioritura impressionante di ingegni di scienziati e ricercatori che daranno vita alla vera e grande esplosione della scienza. Come dice Russo, alla rivoluzione dimenticata e vedremo perché. Gli splendidi nomi di questo periodo sono quelli dei matematici Euclide e Apollonio; degli astronomi Ipparco e Aristarco di Samo; del geografo Eratostene; del grande Archimede di Siracusa.

    L’eredità più propriamente filosofica dei massimi pensatori dell’antichità classica la ritroviamo invece nelle scuole di pensiero che si susseguono dopo la morte di Aristotele: la scuola scettica, epicurea (che riesce in seguito a penetrare in Roma e a rivaleggiare con la religione di stato e con il cristianesimo), stoica, neopitagorica, neoplatonica. A parte la scuola epicurea che ha caratteri peculiari, l’interesse per la scienza viene meno; la metafisica, la magia, l’astrologia, l’alchimia, assumono importanza sempre maggiore.

     In conclusione, così come siamo debitori a Platone della costante rivendicazione dell’uso della matematica per una vera conoscenza scientifica, altrettanto dobbiamo ad Aristotele per il suo rivendicare il primato di ricerche empiriche accompagnate da elaborazione teorica (la logica). Per altri versi, Platone aveva in dispregio le operazioni manuali, tecnologiche ed empiriche, così come Aristotele trascurava completamente la matematica ai fini della conoscenza della natura. Ci vorranno 2000 anni ma, quando queste due tradizioni si salderanno (unitamente a un cambiamento globale dei riferimenti), nascerà l’approccio moderno alla comprensione del mondo.

Nel prossimo articolo inizieremo a discutere dello splendido periodo ellenistico.


NOTE

(1) Nella nota Forti aggiunge, relativamente ad Hegel:

Per darne un esempio, la rifrazione della luce viene spiegata con l’immagine della «azione eroica di un grand’uomo, posta in una piccola anima». Aggiunge il filosofo: «Come l’eroe immaginato è operante in me, ma solo in guisa ideale, casi anche l’aria accoglie lo spazio visivo dell’acqua, e se lo rimpicciolisce».
e riferendosi ancora a Parmenide ha modo di dire:
Come metafisica Parmenide si esprime spesso in modo piuttosto oscuro che sembra quasi nascondere il suo pensiero anziché renderlo evidente. Ad esempio nel suo poema Intorno alla natura (di cui ci restano 154 versi) prende come punto di partenza il dilemma « l’essere è, e non può non essere» ovvero « l’essere non è, ed è necessario che non sia».
Poiché certamente Parmenide non intendeva esprimere semplici identità (essere = essere; non essere = non essere) si può a lungo discutere sul vero significato di queste sue proposizioni che somigliano molto ai rebus dei metafisici di tutte le epoche, fino a quelle più recenti, come ad esempio «non c’è niente fuorché l’essere-nel-mondo, e questo è un
carattere, non un’attività dell’esserci» di Heidegger, ovvero «il nulla stesso nulleggia» ( das nichts selbst nichtet», dello stesso Heidegger), o ancora «il puro essere e il puro nulla sono eroica di un grand’uomo, posta in una piccola anima». Aggiunge il filosofo: «Come l’eroe
immaginato è operante in me, ma solo in guisa ideale, casi anche l’aria accoglie lo spazio visivo dell’acqua, e se lo rimpicciolisce».
e riferendosi ancora a Parmenide ha modo di dire:
Come metafisica Parmenide si esprime spesso in modo piuttosto oscuro che sembra quasi nascondere il suo pensiero anziché renderlo evidente. Ad esempio nel suo poema Intorno alla natura (di cui ci restano 154 versi) prende come punto di partenza il dilemma « l’essere
è, e non può non essere» ovvero « l’essere non è, ed è necessario che non sia».
Poiché certamente Parmenide non intendeva esprimere semplici identità (essere = essere; non essere = non essere) si può a lungo discutere sul vero significato di queste sue proposizioni che somigliano molto ai rebus dei metafisici di tutte le epoche, fino a quelle più recenti, come ad esempio «non c’è niente fuorché l’essere-nel-mondo, e questo è un
carattere, non un’attività dell’esserci» di Heidegger, ovvero «il nulla stesso nulleggia» ( das nichts selbst nichtet», dello stesso Heidegger), o ancora «il puro essere e il puro nulla sono dunque lo stesso» di Hegel, e via dicendo.

(2) Faccio qui alcune considerazioni che potrebbero essere utili a quanti non conoscono gli sviluppi futuri della matematica e della fisica:

Paradosso 1 – Di che punti si parla ? Questo paradosso apre al problema della definizione del punto “matematico”. Questo paradosso, come i seguenti, pone in realtà il problema che va oggi sotto il nome di composizione del continuo. Con linguaggio moderno si può dire:

Se un segmento lo pensiamo come divisibile in un numero crescente di parti, arbitrariamente grande ma mai infinito (infinito potenziale), allora le parti che abbiamo preso in considerazione saranno piccole a piacere ma mai nulle, cioè sempre dotate di una misura (infinitesimi potenziali). Se invece pensiamo il segmento come costituito da un’infinità attuale di parti, queste dovranno essere prive di dimensioni, dovranno cioè essere punti matematici (infinitesimi attuali) e non segmentini. La strada per risolvere questa apparente (?) inconciliabilità tra visione fisica e matematica sarà lunga e dovrà passare attraverso gli sviluppi dell’analisi matematica. Ancora gli infinitesimi introdotti da Newton e Leibniz presenteranno una contraddizione: essi non sono punti privi di dimensioni, sono piuttosto quantità estremamente piccole non misurabili e insieme non nulle. Rimane comunque un altro problema: che significato si può dare al rapporto tra due infinitesimi? Inizierà Euler a dar soluzione alla questione introducendo il concetto di funzione; continuerà D’Alembert introducendo il concetto di limite; darà una prima risposta definitiva Cauchy mediante la trasformazione dell’infinitesimo da quantità fissa ma evanescente in variabile, e più precisamente nella variabile che tende a zero.

Paradosso 2 – Il moto non si verifica in nessun istante. Esso è una corrispondenza biunivoca fra istanti temporali e punti dello spazio. Se a qualunque istante di tempo corrisponde sempre lo stesso luogo si dice che un oggetto è immobile. Ma se ad ogni istante di tempo corrisponde una diversa posizione nello spazio si dice che l’oggetto è in moto. Dire che la freccia è ferma “ad ogni istante” non significa dire che essa è ferma “sempre”. Si può parlare di velocità solo quando si considerino almeno due istanti del tempo ed i corrispondenti luoghi dello spazio. La velocità istantanea è un concetto limite, non finito. Più in generale si può dire che ha senso parlare di velocità solo quando si considerino due luoghi dello spazio occupati in due tempi diversi da un dato oggetto. Se poi, come sembra più attinente con il paradosso di Zenone, si vuole parlare di velocità istantanea, ecco che c’imbattiamo in un classico concetto limite (problema di infinitesimi).

Paradosso 3 – Il segmento AB contiene infiniti punti ma ciò non significa affatto che B si trovi all’infinito. Le cose starebbero così se il punto avesse una dimensione. È questa una polemica contro il punto esteso dei pitagorici. Aristotele a sua volta sosterrà: “se l’uno è indivisibile in sé … sarebbe nulla”. È inoltre vero che i tratti da percorrere si fanno sempre più piccoli, ma anche i tempi! Lo spazio tende a zero (numeratore); il tempo tende a zero (denominatore) di modo che si ha un rapporto 0/0 “privo di significato”.

Paradosso 4 – Il quarto paradosso che, insieme al secondo, vuol sostenere l’idea di Parmenide di inesistenza del moto (o della sua discutibilità) non è altro che una brillante introduzione a questioni di relatività del moto. La velocità è legata al tempo: basta farsi un conticino e si scopre che questo paradosso oggi semplicemente non esiste.

    In definitiva, paradossi nascono dalle difficoltà che pongono gli infinitesimi e gli infiniti (problemi che cominceranno a risolversi dalla fine del 1600 con Newton e Leibniz). Altro elemento che fa nascere i paradossi sul moto è, come accennato, il non considerare il tempo. Ulteriore elemento che genera i paradossi è la definizione di punto e vedremo la soluzione che ne darà Democrito. Il paradosso dello stadio è l’ammissione della relatività classica (su cui lavoreranno Bruno, Galileo, Newton). Tali paradossi possono nascere solo quando la “ragione” (pregiudizio) si vuole anteporre all'”esperienza”. Si tratta dei limiti del procedimento deduttivo che fa riferimento alla sola ragione rispetto all’induttivo che tiene conto anche dell’esperienza.

(3) Vi è un episodio della vita di Zenone che merita di essere raccontato. Esso è relativo alla sua morte eroica.  Avendo partecipato ad una congiura contro il tiranno della città – Nearco o Diomedonte – fu catturato, e sottoposto a un interrogatorio di polizia: «Dopo aver denunziato, come cospiratori, gli amici del tiranno, fu da questo interrogato per sapeere se c’era qualche altro complice. Egli rispose: tu, la rovina della città. Poi, rivolto ai presenti, esclamò: mi meraviglio della vostra viltà, se siete servi della tirannnide, per timore di costui… Da ultimo, mozzatasi con i denti la lingua, gliela sputò addosso. I cittadini allora, incitati da questo esempio, subito abbatterono il tiranno» (Secondo una antica testimonianza citata da Geymonat).

(4) E’ utile riportare la dossografia che tratta la questione:

Queste furono le sue dottrine: quattro sono gli elementi: fuoco, acqua, terra, aria; vi è poi l’Amicizia, per la quale questi elementi stanno insieme, e la Contesa [l’Odio], per la quale si separano. Dice così: [ … ] «Zeus splendente e Era avvivatrice e Edoneo / e Nesti, che di lacrime distilla la sorgente mortale», per Zeus intendendo il fuoco, per Era la terra, per Edoneo l’aria, per Nesti l’acqua, essendo questa vicenda cosmica; infatti aggiunge: «E queste cose continuamente mutando non cessano mai. Ed aggiunge: «Una volta ricongiungendosi tutte nell’uno per l’Amicizia; / altra volta portate in direzioni opposte dall’inimicizia e dalla Contesa». E afferma che il sole è una gran massa di fuoco, maggiore della luna; che la luna ha forma di disco, e che il cielo è cristallino. E che l’anima riveste ogni specie di animali e di piante (metempsicosi); dice infatti: «Un tempo io fui già fanciullo e fanciulla, / arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori dal mare». (Diogene Laerzio, VIII 51-57).

[Empedocle] pone quattro elementi corporei, il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra, realtà eterne, mutabili solo rispetto alla quantità e alla piccolezza a seconda che si aggreghino o si separino, e poi i principi propriamente detti, da cui gli elementi sono mossi, e ciò è l’Amicizia e la Contesa. Perché è necessario che, sempre alternativamente muovendosi, gli elementi permangono, ora unendosi per opera dell’Amicizia, ora disgiungendosi per opera della Contesa. Cosicché secondo lui, i principi sono sei. Ed infatti talora attribuisce energia attiva  alla Contesa e all’Amicizia [ … ], talora equipara anche questi, come elementi, agli altri quattro. 
(Simplicio, phys. 25,21) 

Empedocle parlava di frammenti minimi, anteriori ai quattro elementi, come dire, cioè, di elementi similari [omeomerie] anteriori agli elementi. (Aezio, I 31,1 – Dox. 312)

Dopo infatti che l’etere si fu separato, l’aria e il fuoco andarono verso l’alto, e il cielo che tutt’intorno si muoveva, restò formato in un vastissimo spazio. Quanto al fuoco che rimase un poco sotto il cielo, a sua volta si trovò compreso nei raggi del sole. La terra, raccogliendosi in un oggetto solo, e incalzata da una certa necessità, apparve al centro e vi ebbe sede. Poi, intorno alla terra, l’etere da tutte le parti, essendo molto più leggero, prese a fare incessanti rivoluzioni. La sua immobilità (quella della Terra) è imputabile a Dio (essa non risulta da molteplici sfere poste alternativamente sopra di lei e le cui rivoluzioni hanno levigato i contorni), perché intorno ad essa circola un vortice d’un certo tipo, mirabilissimo (la sua forza gli deriva difatti dalla sua forma vasta e molteplice), che fa si che la Terra non cada in qua e in là. 
(Filone, Della Provvidenza, Il, 60)

Empedocle dice che per primo si separò l’etere, in un secondo tempo il fuoco e poi la terra, dalla quale, eccessivamente compressa dall’impeto della rotazione sgorgò l’acqua; da questa evaporò l’aria, e l’etere <e dal fuoco> derivò il cielo, dal fuoco il sole e dagli altri elementi si formò per condensazione la superficie della terra. (Aezio, II, 6,3 – Dox. 334)

Empedocle dice che, essendosi l’aria ritirata davanti all’impeto del sole, il polo settentrionale s’inclinò, si sollevarono le regioni boreali e si abbassarono quelle meridionali e in conseguenza di ciò tutto il cosmo si inclinò (inclinazione dell’asse terrestre in rapporto all’eclittica) 
(Aezio, II 8,2 – Dox. 338)

Empedocle dice [che il sole si muove in giro] essendo impedito ad andare secondo una linea retta dalla sfera che lo circonda e dai circoli tropicali. (lbid., Il, 23,3 Dox. 353)

Empedocle dice che il cielo è solido, derivato dall’aria condensata come un cristallo a causa del fuoco, e contenente in entrambi gli emisfèri l’elemento igneo e quello aereo. (lbid., II 11,12 – Dox. 339)

Empedocle dice [che gli astri sono] di fuoco per la loro provenienza dall’elemento igneo, che l’aria contenendo in se stessa fece sprizzare nella primitiva separazione. (lbid., Il, 13,2 Dox. 341)

Empedocle dice che le stelle fisse sono conficcate nel cristallo (la volta celeste cristallina), mentre i pianeti sono invece liberi. (lbid., II 13,11 – Dox. 342)

Empedocle dice che il sole si nasconde [l’eclissi] per il fatto che la luna gli passa sotto [davanti] (lbid., II 24,7 – Dox. 354)

Empedocle [ … ] sostiene che la sensazione avviene in virtù dell’adattamento a quei pori che sono propri di ciascuna sensazione degli altri, perché si dà il caso che essi siano ora in certo modo troppo larghi, ora troppo stretti [è ciò che fa sì che un senso non possa giudicare dei dati adattati agli altri sensi, perché gli uni hanno pori troppo larghi e gli altri troppo stretti, in rapporto al sensibile, di sorta che … ], cosicché ora vi è passaggio senza contatto, ora impossibilità completa di penetrazione. Egli cerca poi di dire anche quale sia la natura. della vista; e afferma che al suo interno è fuoco e la sua parte esterna < acqua e> terra e aria, attraverso le quali il fuoco, essendo sottile, passa, come la luce nelle lanterne. I pori del fuoco e dell’acqua sono alternati, e noi possiamo distinguere il bianco mediante quelli del fuoco e il nero mediante quelli dell’acqua: vi è infatti un adattamento di ciascuno ai rispettivi pori (Teofrasto de sens. 1,2 – Dox. 499 sgg.  – 1,7).

(5) Dice Lloyd a questo proposito:

“La nozione di elemento costitutivo viene concepita da Empedocle in modo più rigoroso di qualsiasi altro presocratico antecedente. Le sue radici, eterne e semplici a un tempo, sono i costituenti irriducibili in cui ogni cosa può essere risolta. Tuttavia, la sua concezione degli elementi differisce, come quella di ogni altro scienziato greco, dal concetto moderno almeno per un aspetto, ovvio ma essenziale: quello di non essere sostanze chimicamente semplici. Empedocle sosteneva che le cose sono fatte di terra, acqua, aria e fuoco, ma il termine ‘terra’ si riferiva a una vasta gamma di sostanze solide, il termine ‘acqua’ era in genere usato non solo per i vari liquidi ma anche per i metalli (data la loro fusibilità) e ‘aria’ era per i greci qualsiasi gas. Non bisogna quindi immaginare le radici di Empedocle come sostanze semplici analoghe all’ossigeno e all’idrogeno della chimica postlavoisieriana. D’altra parte questa precisazione ci consente di comprendere che la scelta degli elementi effettuata da Empedocle non fu affatto arbitraria come sembra a prima vista. Al di là di qualunque altro fattore che abbia potuto influenzare la sua teoria, terra, acqua e aria rappresentano, molto approssimativamente, lo stato solido, liquido e gassoso della materia: e il fuoco, inteso più come sostanza che come processo, fu naturalmente incluso come quarto ‘elemento’ allo stesso titolo degli altri tre.

L’uso del concetto di proporzione fatto da Empedocle costituisce il suo secondo importante contributo allo sviluppo della teoria fisica. Come si è visto, egli postulava quattro radici, di cui tutte le altre sostanze erano dei composti. Ma in risposta all’arduo problema di come un numero finito di radici potesse dar origine a un numero pressoché illimitato di sostanze diverse, egli avanzò un’ipotesi che non stentiamo a definire ispirata: egli affermò che le differenti sostanze sono costituite dalle radici combinate in diverse proposizioni e che ogni sostanza particolare è sempre formata dalle radici combinate in una proposizione fissa e determinata”.

(6) Anassagora era un profondo democratico  le cui concezioni erano invise ai reazionari aristocratici. Egli, criticando con durezza il praticato politeismo, metteva in discussione anche la credenza dell’origine divina delle famiglie nobili, dei loro averi e poteri. Fu questo il motivo per cui, mentre Anassagora poté vivere tranquillo nell’Atene di Pericle, alla sua caduta fu accusato di empietà proprio per le sue concezioni fisiche (un illustre predecessore di altri caduti sotto la difesa di privilegi). Nell’Atene di Pericle, Pindaro, Anassagora ed Aristofane, ove proprietà terriera ed aristocrazia sono fiere avversarie della democrazia, la vecchia religione dei padri rappresentava una consolante conservazione. E quella religione poteva spingere masse superstiziose ed incolte contro le idee che sono frutto ed alimento della democrazia medesima.

Abbiamo tracce di queste problematiche in Euripide, amico di Anassagora, che fece cantare ai suoi cori:

Beato l’uomo che ha conquistato la sapienza che nasce dallo studio della natura: nessun danno egli reca ai cittadini suoi, azioni ingiuste non compie, ma esamina !’immutabile ordine della natura immortale, di che sia composta, e come e perché: non v’è posto nel cuore di un tal uomo per il proposito di azioni ingiuste!

Anche nell’Apologia di Socrate di Platone abbiamo un riferimento esplicito all’empietà di Anassagora. Socrate, rivolgendosi al suo più accanito accusatore, Meleto Pitteo, dice:

– Tuttavia, Meleto, dicci: in che modo secondo te corrompo i più giovani? E’ evidente che, secondo l’accusa che hai scritto, li corrompo insegnando loro a non credere negli dei in cui crede la città, ma in altre e nuove divinità demoniche? Non dici che corrompo insegnando? –
– Dico proprio questo, decisamente. –
– Allora. Meleto, per questi stessi dei di cui stiamo discutendo, dillo ancora più chiaramente a me e a questi cittadini. Perché non riesco a capire se tu dici che insegno a credere che ci sono degli dei – e io stesso perciò credo che ci sono dei e non sono affatto ateo, né colpevole di questo – i quali però non sono certo quelli della città, bensì altri, e per questo mi citi in giudizio, oppure se sostieni che io non credo assolutamente agli dei e insegno agli altri a fare altrettanto. –
– Dico che tu non credi assolutamente negli dei. –
– Stupefacente Meleto, perché dici questo? Dunque non credo, come le altre persone, che il sole e la luna siano dei? –
– No, giudici, per Zeus, dato che dice che il sole è pietra e la luna terra! –
– Caro Meleto, credi di accusare Anassagora? Stimi così poco i giudici e li credi così poco familiari con la scrittura, da non sapere che di questi discorsi sono pieni i libri di Anassagora di Clazomene? Allora i giovani imparano da me cose che si possono  avere nell’orchestra [in piazza, ndr] per una dracma, talvolta, a dir tanto, così da mettere Socrate in ridicolo, se fa finta che siano sue perché sono strane in un modo o nell’altro? 
Ma per Zeus, ti sembro così? Non credo in nessun dio?

(7) Alcune idee di Democrito che lo fecero odiare particolarmente da Platone il quale ebbe a dire che le sue opere dovevano essere bruciate. E ciò avvenne puntualmente nel periodo imperiale (ciò che noi oggi sappiamo di Democrito è dovuto a faticose ricostruzioni dai suoi critici):

– “Il mondo non necessita di alcun principio ordinatore e di nessun fine” (dice Plinio: “Parve a Democrito che gli dei fossero due in tutto: la Pena ed il Beneficio“).

– “La religione nasce dall’ignoranza”.

– “Non si dà principio (cioè causa) dell’eterno e dell’infinito”.

– “Patria di uno spirito eletto è tutto il mondo”.

– “Chi usa contraddire e chiacchierare molto è inetto ad imparare”.

– “La povertà in regime democratico è da anteporsi alla cosiddetta prosperità elargita dai despoti”.

– “Il saggio non deve prestare ossequio alle leggi, ma vivere liberamente ‘poiché’ ciò che sembra giusto non è sempre tale”.

Aggiungo che la scuola degli atomisti avanzò idee evoluzioniste del tipo di quelle avanzate da Anassimandro), iniziò lavori di medicina ai quali si ispirò Ippocrate, elaborò questioni di matematica dai quali partì Archimede, teorizzò l’esistenza di infiniti mondi che nascono e muoiono (la cosa sarà ripresa da Cusano e Bruno) e di una Via Lattea  formata dalla luce di tante stelle.

(8) Ritengo utile dire due parole su questa rilevantissima personalità che, purtroppo, conosciamo solo attraverso l’aggettivo “dispregiativo” di epicureo. Epicuro ammise alla sua scuola, il Giardino di Atene, sia schiavi che donne (tra cui cortigiane). Egli era guidato da un principio generale: “Vana è la parola di un filosofo che non allevia qualche sofferenza umana“. E sosteneva che una vera conoscenza della natura delle cose è il miglior rimedio per i mali dell’umanità. Inoltre il sistema degli atomi serviva per dare spiegazioni naturali di fatti, contro ogni superstizione (dei, pene dell’anima, viscere, volo degli uccelli, stelle, sogni…). Ebbene, Epicuro è stato inviso per secoli come portatore di “piaceri”. Questi piaceri non erano altro che la libertà di pensiero. Il senato di Roma, nel 173 d.C, espulse gli epicurei perché avevano introdotto (?) i “piaceri”, frutto della calunnia che accompagna sempre i liberi pensatori, nel caput mundi. Già nel secolo scorso si cominciò a ristudiare seriamente il pensiero di questo grande. Martha nel 1860 ebbe a scrivere: “Ancor oggi, quando pensiamo all’educazione del popolo dobbiamo pensare ad elevarlo all’epicureismo nel campo della filosofia naturale“.

(9) Dice Preti:

Lo sviluppo dell’arte del discorso, sia esso concione politica o arringa forense, che la tradizione fa risalire a Empedocle agrigentino, porta all’approfondimento di tutti i lati formali del discorso,

Intanto quelli estetici (giungendo a codificazioni di norme estetiche del discorso) quanto quelli più propriamente logico-grammaticali (approfondimento che giungerà poi, con Aristotele, alla prima esposizione sistematica e codificata della logica). In questo movimento si accentua la tendenza a sottolineare l’importanza del linguaggio e degli elementi formali di esso: anzi, ciò porta a un certo disprezzo, diffuso nell’ambiente dei sofisti, verso le ricerche naturalistiche che avevano costituito il fulcro dell’interesse nei secoli precedenti.

(10) Ippocrate di Chio (da non confondersi con il medico Ippocrate di Cos) fu il fondatore della scuola geometrica ateniese ed è considerato il primo grande geometra greco. Due furono i problemi ai quali dedicò i suoi studi: la quadratura del cerchio con particolare attenzione alla quadratura delle lunule e la duplicazione del cubo. Scrisse un libro, gli Elementi, che doveva essere una prima raccolta sistematica di tutte le conoscenze geometriche ed in tale libro sembra dimostrasse i teoremi per assurdo e mediante la riduzione a teorema più semplice. Un teorema che gli è attribuito è quello secondo cui le aree di due cerchi stanno tra loro come i quadrati costruiti sui loro diametri.

Le lunule sono superfici, come quella colorata in figura, comprese tra due archi di circonferenza

La duplicazione del cubo è un problema complesso che ha un’origine mitologica. In una tragedia di Euripide, si racconta che Minosse aveva fatto costruire una tomba cubica per il figlio Gluaco. A lavori ultimati egli chiese di che dimensioni avevano realizzato il sarcofago cubico. La risposta non soddisfece Minosse che ritenne troppo piccolo quel volume per una tomba regale. Chiese allora che il sarcofago fosse duplicato mantenendo la forma di cubo. Ma la cosa fu molto più complessa del previsto ed in definitiva non fu realizzata, infatti i vari tentativi portavano il volume ad 8 volte quello iniziale (la soluzione si ebbe 200 anni dopo). Altra leggenda è analoga ma riferita all’Oracolo di Delo che per porre fine ad un’epidemia chiese alle popolazioni di raddoppiare l’altare di Delo mantenendo la sua forma cubica (questa vicenda è raccontata in una lettera di Eratostene a Tolomeo).

Eudosso di Cnido, allievo del matematico ed astronomo Archita di Taranto (che era stato allievo di Filolao), in astronomia dette il suo contributo principale nella risoluzione geometrica del moto simultaneo, con centro la Terra, del Sole, della Luna e dei cinque pianeti mediante il sistema delle sfere omocentriche. Prima di spiegare di cosa si tratta (perché anche di questo occorreva rendere conto), devo accennare ad una delle più grandi complicazioni che gli astronomi avevano nel descrivere le loro osservazioni, il moto retrogrado dei pianeti. Nella loro orbita intorno al Sole, vista dalla Terra, qualche pianeta ogni tanto non segue il suo moto in una precisa direzione di rotazione. Esso, sempre osservato dalla Terra, avanza nel suo moto ordinario poi, ogni tanto torna un pochino indietro per riprendere successivamente la sua marcia ordinaria. Straordinario, per chi non conosce il sistema copernicano ed è ancora legato alla Terra immobile. In linea di massima, in certi periodi dell’anno, un dato pianeta, osservato dalla Terra, può essere visto seguire la traiettoria di figura seguente:

Da Kuhn. La linea continua rappresenta la traiettoria del pianeta Marte, quella tratteggiata l’eclittica.

Sembrerebbe quindi che il pianeta, di tanto in tanto, torni indietro. Il tutto si spiegherà naturalmente con il sistema planetario di Copernico ma, mantenendo la Terra al centro dell’universo, la cosa era un rompicapo per il quale si tentarono varie spiegazioni e soluzioni. Una di queste è appunto quella delle sfere omocentriche di Eudosso. Leggo da Kuhn:

Nel sistema planetario di Eudosso ciascun pianeta era posto sopra la sfera interna di un gruppo di due o più sfere concentriche, fra loro collegate, la cui simultanea rotazione attorno ad assi differenti produceva il moto osservato dei pianeti. La figura (a) mostra una sezione trasversale di due sfere, fissate in questo modo tra loro, il cui centro comune è la Terra ed i cui punti di contatto sono le estremità dell’asse obliquo della sfera interna, che funge da perno. La sfera esterna è la sfera delle stelle, o almeno ha lo stesso moto di quella sfera. Il suo asse passa per il polo nord celeste e per quello sud compie una rotazione in direzione ovest attorno a questo asse ogni 23 ore e 56 minuti. L’asse della sfera interna tocca la sfera esterna in due punti diametralmente opposti, spostati di 23° e mezzo dai poli nord e sud celesti; pertanto l’equatore della sfera interna, visto dalla Terra, cade sempre sull’eclittica della sfera delle stelle, indipendentemente dalla rotazione delle due sfere. Ora se il Sole è posto in un punto sull’equatore della sfera interna e questa sfera vien fatta ruotare lentamente verso est attorno al suo asse, una volta all’anno, mentre la sfera esterna compie una rotazione al giorno attorno al suo asse, la risultante dei due moti riprodurrà il moto osservato del Sole. La sfera esterna produce il moto giornaliero verso ovest che osserviamo dall’alba al tramonto; la sfera interna produce il moto annuale più lento, in direzione est, lungo l’eclittica.

Secondo Eudosso soltanto le stelle fisse possedevano un’unica sfera. La Luna e il Sole, ad esempio, possedevano ben tre sfere ciascuno. Nel disegno si vede un corpo celeste che si trova inserito in un sistema di tre sfere legate tra loro da vincoli di rotazione. Infatti la sfera interna (rossa), sulla quale è fissato il corpo celeste, ruota su se stessa attorno un asse vincolato alla seconda sfera (blu), la quale a sua volta ha l’asse di rotazione vincolato alla terza sfera (verde), più esterna [da:  www.vialattea.net/pagine/astro1/p2Csfere.html].

Sistema planetario eudossiano o concentrico. La figura mostra lo schema di un solo pianeta, Saturno. La Terra sta immobile al centro. La sfera stellare S ruota attorno al centro della Terra. Al suo interno, e ad essa collegati, si trovano gli assi di una seconda sfera D1ruotante con velocità differente: in quest’arco vi sono gli assi di una terza sfera D2 che ne porta a sua volta una quarta D3. A quest’ultima è attaccato il pianeta il cui moto è perciò una combinazione delle rotazioni delle quattro sfere [Singer].
 

Analogamente, se la sfera interna compie una rotazione in direzione est ogni 27 giorni e un terzo, e se la Luna è posta sull’equatore di questa sfera, allora il moto di questa sfera interna genera lo spostamento medio della Luna attorno all’ec1ittica. Le deviazioni della Luna a nord e sud dell’ec1ittica ed alcune irregolarità relative al tempo

Sfere omocentriche. Nel sistema a due sfere, quello pre Eudosso (a), la sfera esterna produce la rotazione giornaliera e la sfera interna muove il pianeta (Sole o Luna) con velocità regolare verso est attorno all’eclittica. Nel sistema a quattro sfere, quello di Eudosso (b), il pianeta P giace fuori del piano del disegno, all’incirca su di una linea che va dalla Terra T all’occhio del lettore. Le due sfere più interne generano il moto a forma di nodo illustrato in figura 18, mentre le due sfere più esterne producono e il moto giornaliero e lo scorrimento medio del pianeta in direzione est.
 

Altra rappresentazione delle sfere omocentriche di Eudosso. Qui si può apprezzare la posizione del pianeta P rispetto alla Terra (vedi didascalia precedente). Per la comprensione di quella linea ad S che si trova su P, vedi il testo che segue.

che la Luna impiega per effettuare rivoluzioni successive possono essere approssimativamente riprodotte con l’aggiunta al sistema di un’altra sfera che si muova assai lentamente. Eudosso usò pure (sebbene non ve ne fosse la necessità) una terza sfera per descrivere il moto del Sole: cosicché erano necessarie sei sfere per riprodurre contemporaneamente il moto della Luna e del Sole.

Le sfere illustrate nella figura (a) erano note come sfere omocentriche, poiché hanno un centro comune: la Terra. Due o tre di queste sfere possono, con buona approssimazione, riprodurre il moto generale del Sole e della Luna; ma non sono in grado di spiegare i moti di retrocessione dei pianeti e il grandissimo ingegno di Eudosso, nel campo della geometria, si rivelò nelle modifiche che egli introdusse nel sistema trattando il comportamento apparente dei rimanenti cinque pianeti. Per ciascuno di questi, egli adottò un complesso di quattro sfere, rappresentate in sezione trasversale nella figura (b). Le due sfere esterne si muovono esattamente come le sfere della figura (a): la sfera più esterna ha il moto giornaliero della sfera delle stelle e la seconda sfera (a partire dall’esterno) compie una rotazione in direzione est nel tempo medio che il pianeta impiega per uno spostamento attorno all’eclittica. (La seconda sfera di Giove, ad esempio, compie una rotazione in 12 anni). La terza sfera è in contatto con la seconda in due punti diametralmente opposti sull’eclittica (l’equatore della seconda sfera), e l’asse della quarta sfera, ossia della più interna, è fissato alla terza sfera con un’inclinazione angolare che è funzione delle caratteristiche del moto che dev’essere descritto. Il pianeta stesso (Giove, nell’ esempio citato) è posto sull’equatore della quarta sfera.

Supponiamo ora che le due sfere esterne siano tenute ferme e che le due sfere interne ruotino in direzioni opposte, completando ciascuna una rotazione attorno al proprio asse nell’intervallo di tempo che separa due successive retrocessioni del pianeta (399 giorni nel caso di Giove). Un osservatore che osservi il movimento del pianeta sul fondo della seconda sfera, tenuta temporaneamente ferma, lo vedrà muoversi lentamente disegnando un otto i cui occhielli sono bisecati dall’eclittica. Questo moto è schematizzato in figura seguente; il pianeta passa lungo gli occhielli dalla

Da Kuhn. [La curva riportata, oggi nota come lemniscata, era allora chiamata ippopeda o ferro di cavallo, ndr].Il moto a forma di nodo generato dalle due sfere omocentriche più interne. Nel sistema completo a quattro sfere, questo tipo di moto nodale si compie con il moto regolare in direzione est della seconda sfera: moto che, di per se stesso, porterebbe il pianeta lungo l’ec1ittica a velocità uniforme. Quando si viene ad aggiungere il moto nodale, il moto generale del pianeta ha una velocità variabile e non è più legato all’ec1ittica. Mentre il pianeta si sposta sul nodo dal punto I al 5, il suo moto generale è più veloce del moto medio in direzione est generato dalla seconda sfera. Mentre il pianeta si sposta dal 5 all’1 sul nodo, il suo moto in direzione est diventa più lento di quello generato dalla seconda sfera, e, quando si trova vicino al punto 3, può in effetti spostarsi verso ovest, in retrocessione.
 

posizione 1 alla 2, dalla 2 alla 3, dalla 3 alla 4, … , impiegando lo stesso tempo fra ciascun punto numerato e il successivo e tornando al punto di partenza dopo l’intervallo fra le retrocessioni. Durante lo spostamento da 1 a 3 a 5, il pianeta si muove in direzione est attorno all’eclittica; durante l’altra metà di tempo, mentre si sposta da 5 a 7 e poi di nuovo all’1, il pianeta si muove in direzione ovest.

Ammettiamo ora che la seconda sfera ruoti in direzione est e trascini nel suo moto le due sfere interne ruotanti, e supponiamo che il moto generale del pianeta venga osservato sul fondale di stelle della prima sfera, tenuta ancora temporaneamente ferma. Per tutto il periodo il pianeta è portato a ruotare verso est dal moto della seconda sfera; per metà del periodo (mentre si sposta dal punto 1 al punto 5 della figura precedente, il pianeta riceve una spinta motrice addizionale in direzione est dalle due sfere interne, cosicché il moto risultante è diretto ad est e persino più veloce di quello della seconda sfera. Ma durante l’altra metà del periodo (mentre il pianeta si sposta dal punto 5 al punto 1 della figura, il moto in direzione est della seconda sfera è contrastato da un moto diretto ad ovest dovuto alle due sfere interne e, allorquando il moto diretto ad ovest è alla sua velocità massima (vicino al punto 7 in figura), il moto risultante del pianeta visto contro la sfera delle stelle può in effetti esser diretto verso ovest, nella direzione di retrocessione. Questa è esattamente la caratteristica dei moti planetari osservati che Eudosso cercava di riprodurre nel suo modello.

Un sistema di quattro sfere omocentriche, fra loro collegate, può riprodurre approssimativamente il moto di retrocessione di Giove ed una seconda serie di quattro sfere può spiegare il moto di Saturno. Per ciascuno degli altri tre pianeti, si rendono necessarie cinque sfere (questo sviluppo ulteriore venne realizzato dal successore di Eudosso, Callippo, attorno al 330 a. C.) e l’analisi dei moti risultanti diventa, conseguentemente, più complessa. Per fortuna, non abbiamo bisogno di andare avanti nell’esame di queste complesse combinazioni di sfere rotanti, in quanto tutti i sistemi omocentrici presentano un grave inconveniente che condusse presto, nell’antichità, al loro abbandono. Poiché la teoria di Eudosso pone ciascun pianeta su di una sfera concentrica alla Terra, la distanza fra un pianeta e la Terra non può variare. Ma i pianeti appaiono più luminosi e sembrano quindi più vicini alla Terra quando retrocedono. Nell’antichità, il sistema omocentrico venne spesso criticato per la sua incapacità di spiegare questa variazione di luminosità dei pianeti e fu abbandonato dalla maggior parte degli astronomi quasi subito dopo che fu proposta una spiegazione più convincente di ciò che si poteva osservare nei cieli.

Tuttavia, malgrado abbiano avuto vita breve come effettivo strumento astronomico, le sfere omocentriche hanno un ruolo di primo piano nello sviluppo del pensiero astronomico e cosmologico. Per un caso storico, il secolo durante il quale parve che esse fornissero la spiegazione più interessante del moto planetario comprese gran parte della vita del filosofo greco Aristotele, il quale le incorporò nella più vasta, particolareggiata e autorevole teoria cosmologica che sia stata sviluppata nell’antichità.

Questo sistema astronomico delle sfere omocentriche sarà perfezionato da Callippo di Cizico (370-325 a. C.) con l’introduzione di 7 sfere aggiuntive per correggere le discrepanze con il moto dei pianeti dal movimento più irregolare. Così Callippo aggiunge una sfera supplementare a Marte, Mercurio e Venere, mentre non ne aggiunge alcuna a Giove e Saturno. Invece, per spiegare meglio i moti del Sole e della Luna, specialmente in relazione alle eclissi, aggiunge a questi ben due sfere supplementari. Il numero di sfere passerà dalle 27 di Eudosso alle 34 di Callippo (Aristotele le porterà a 56).

Ma Eudosso fu anche un grande matematico. Sembrerebbe il vero fondatore del metodo che oggi chiamiamo di esaustione per il calcolo dei volumi, metodo che generalmente si attribuisce ad Archimede e che fu lo stesso Archimede a riconoscergli quando assegna a lui, in una famosa Lettera ad Eratostene, la prima dimostrazione soddisfacente del calcolo del volume del cono (1/3 del volume del cilindro con uguale base ed uguale altezza). Lavorò sui numeri, sulle proporzioni (affrontando il problema degli incommensurabili) stabilendo che esse erano applicabili solo a grandezze omogenee. Ad Eudosso viene attribuito praticamente l’intero Libro V degli Elementi di Euclide (il più ammirevole sotto tutti gli aspetti) e vari argomenti trattati nel Libro XIII (sezione aurea) e nei Libri XI e XII (vari teoremi di stereometria).

(11) Nel seguito Preti opportunamente avverte che sarebbe sbagliato vedere in Platone un pensatore che con le sue idee abbia intralciato la ricerca scientifica. Le conseguenze del platonismo saranno duplici, da un parte daranno grande impulso alla scienza, quando si intersecheranno con l’empirismo aristotelico nel Rinascimento e Barocco, che dalla pura razionalità trarrà spunto per i processi astrattivi e quindi idealizzati messi in campo, ad esempio, da Galileo e comunque a partire da Galileo. Dall’altra ostacoleranno la scienza quando si arroccheranno nel discorso medesimo che sarà vero in sé ed aperto ai soli iniziati, negando la fecondità dei rapporti tra scienza ed esperienza, tra empirismo e razionalità, tra mani e cervello. Platone avrà anche modo di sostenere esplicitamente il ruolo subordinato del lavoro manuale rispetto a quello intellettuale e, con i metodi che usava, a chiedere interventi da parte dei governanti:

No, nel nostro stato ciascuno deve svolgere soltanto un’unica attività, e da questa ricavare i mezzi per vivere. I responsabili della cosa pubblica devono far osservare questa legge e punire con ogni sorta di onta e di vergogna quel cittadino che sia più incline a svolgere una qualsiasi attività manuale che non a curare le sue virtù interiori, finché non lo avranno riportato sulla retta via. E se uno straniero intraprenderà insieme due attività, lo si dovrà parimenti punire con la prigione, la multa ed il bando, costringendolo così ad essere un solo uomo, non molti. [Platone, Leggi, VIII, II, 846].

(12) Alcune idee di Platone poco conosciute:

– lo Stato è diviso in caste e in questo Stato i “barbari” devono essere schiavi;

– ogni casta è rappresentata dalla purezza della sua razza, purezza che deve essere preservata;

– si deve credere negli dei, e chi non crede in essi va convinto ad opera dello Stato con i mezzi più severi, fino alla morte.

E’ utile riportare anche le idee di Platone sull’utilità del libro. Egli scrive nel Protagora che  “… i libri sono incapaci di rispondere e di porre essi stessi delle domande…”. La cultura veniva tramandata in modo essenzialmente orale  anche a causa dell’elevato costo dei papiri ed il basso tasso di popolazione in grado di leggere. A causa di tutto ciò i testi scritti, per intere generazioni, furono davvero pochi (gli unici libri esistenti furono le copie singole conservate nelle case degli autori o dei loro eredi e per questo detti “esemplari”). Fu Aristotele che si adoperò per diffondere il libro anche fondando una biblioteca presso il Liceo e fornendo tecniche per archiviare e catalogare libri. Questa prima biblioteca ed i metodi che la gestivano fu d’esempio per tutte le altre e particolarmente per quella di Alessandria.

(13) Riporto una opportuna considerazione di  Dijksterhuis.

Oggi ogni studente di fisica elementare deve lottare contro gli stessi errori e le stesse concezioni errate che si dovettero superare allora, e in scala ridotta, nell’insegnamento di questo ramo della conoscenza nelle scuole, la storia ripete se stessa ogni anno. La ragione è evidente: Aristotele formulò semplicemente come proposizioni scientifiche universali le esperienze più comuni e banali in materia di moto, mentre la meccanica classica, col suo principio d’inerzia e la sua proporzionalità tra forza e accelerazione, fa asserzioni che non soltanto non trovano mai conferma nell’esperienza d’ogni giorno, ma la cui diretta verifica sperimentale è fondamentalmente impossibile: non si può, infatti, introdurre un punto materiale tutto solo in un vuoto infinito e poi far sì che una forza, di direzione e grandezza costanti, agisca su di esso; non è neppure possibile dare alcun significato razionale a questa formulazione. E fra tutti gli esperimenti per mezzo dei quali i manuali di meccanica sono soliti dimostrare la legge fondamentale della dinamica non ve n’è uno solo che sia mai stato eseguito in pratica.

La fisica aristotelica ha così sulla meccanica classica il vantaggio di trattare situazioni concrete, che si possono osservare e incontrare quotidianamente. Ma da un punto di vista scientifico è proprio questo vantaggio a costituire la sua debolezza, giacché queste situazioni sono così complicate (il lettore pensi soltanto a un veicolo trainato attraverso l’aria su una strada malagevole, o a un corpo di qualsiasi forma gettato in alto) che anche con l’aiuto della meccanica classica perfezionata esse possono venire trattate matematicamente soltanto per approssimazioni e facendo ipotesi relativamente arbitrarie.

 La teoria del moto richiede un’idealizzazione non meno estrema di quella  per mezzo della quale la geometria euclidea viene dedotta da esperienze fisiche su corpi solidi. Il modo di pensare aristotelico doveva venire integrato con quello platonico per poter diventare veramente fecondo. Ma quest’unione delle due grandi scuole di pensiero antiche, così indispensabile per la meccanica e di conseguenza per l’intera fisica, fu realizzata dapprima in misura molto limitata; 1’Antichità la realizzò soltanto per la statica, e soltanto nel Seicento anche la dinamica ne poté trarre beneficio. 
 

(14) Non posso non dare un cenno alla teologia aristotelica per le conseguenze che avrà nel Cristianesimo, soprattutto nell’opera di San Tommaso. Dice Preti:

A questo punto si innesta la teologia aristotelica, che nel pensiero stesso dello stagirita non sappiamo che funzione compisse, ma che invece ha avuto un’influenza grandissima sulla filosofia della natura del Medioevo sia arabo sia cristiano. Mentre, come abbiamo detto, la materia pura è un’astrazione filosofica, invece (almeno nel libro XII della Metafisica) l’Atto puro ha realtà, anzi un’assoluta e suprema realtà: realtà che viene postulata perché, dal momento che il mondo appare come tutto un tendere e muoversi dalla potenzialità all’attualità, sembra ad Aristotele che questo tendere non possa andare all’infinito e alla fine debba acquetarsi in una pura attualità e perfezione. Puro Atto, Dio è immateriale; ed essendo attivo, deve dispiegare un’attività incorporea: quindi è pensiero; ma un’attività ha sempre un oggetto e un fine più perfetto (più in atto) dell’attore: però Dio è il perfettissimo; perciò il suo pensiero non ha altro oggetto che sé, è autopensiero. A noi però qui non interessa addentrarci nei meandri della problematica (filologica, storica e filosofica) implicita nelle apparentemente semplici asserzioni. Ci interessa di più vedere quale rapporto si viene a istituire tra questo Dio e la natura. Tale rapporto è stabilito in relazione alla teoria generale del moto e alla teoria delle quattro cause. Moto, per Aristotele, è ogni mutamento in generale: ed è inteso come passaggio da una potenzialità all’atto relativo. Questo passaggio però esige un motore: un ente più perfetto, più in atto, che con la sua presenza determina l’attuarsi della potenzialità. Perciò il moto è la risultante di quattro aspetti o momenti, che Aristotele chiama «cause»: la causa materiale (la materia che si muove durante il movimento o mutamento), la causa formale (la forma o paradigma che dirige il movimento e in esso si attua), la causa efficiente o motrice (la forza che imprime il moto alle parti materiali del corpo che si muta), e finalmente la causa finale (lo scopo o fine ultimo cui tende il movimento). Come per le potenze e gli atti (e anzi di conseguenza), anche per le cause si viene a stabilire una gerarchia: sì che si arriva a una causa motrice prima e finale ultima, le quali coincidono nell’atto puro o Dio. Questo dunque muove il mondo; non è però affatto chiaro come esplichi una tale azione (che non sarebbe d’altra parte possibile come attività divina, poiché ogni attività si deve rivolgere a qualcosa di più perfetto): sembra che Dio non faccia nulla, ma ispiri alla natura una «brama di Dio», onde essa si muove per assomigliare a Dio come proprio perfetto paradigma. Con il che saremmo di nuovo in pieno platonismo (e infatti … il libro XII della Metafisica sarebbe uno dei più antichi): ma per fortuna la discussione di tale spinosa questione esula dal nostro compito. 


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