LA BUFALA DELLA SACRA (?) SINDONE

        Quando la Chiesa è all’angolo, per qualunque motivo ma sempre indecente, richiama l’attenzione su altre cose che dovrebbero farla uscire dall’angolo. Cosa c’è di meglio che il miracolo ? la metafisica ? l’i8gnoto ? l’inspiegato ? In fondo i grandi sacerdoti hanno sempre vissuto su questo e, per la verità si sono ingrassati fino al punto di avere in omaggio dai fedeli loro figlioletti per differenti riti sacrificali.

        Il giorno di Pasqua del 2010, quando il Papa era chiamato in causa da decine di denunce non perseguite di pedofilia, divagava sull’aborto che è un dramma non suo né dei preti a vari livelli ma di chi lo subisce. Poiché le accuse continuano da varie parti del mondo e dalle più diverse fonti, l’attenzione da un incauto predicatore ufficiale vaticano, tal Cantalamessa (omen nomen), si spostava sull’olocausto e poco oltre da un altro campione di democrazia, perché fedele amico della giunta assassina argentina, cardinale Sodano, alle accuse per lui false a Pio XII. Insomma manca solo il comunismo e poi abbiamo Papa Berlusconi.

        Lo scandalo è però enorme perché vi sono documenti che mostrano questo Papa, allora cardinale, in combutta con il predecessore, ad assolvere i pedofili (violentatori di bambini a centinaia) per evitare lo scandalo (povero Gesù come è trattato da questi anticristo !). Che fare ? In questi casi la politica si rivolge agli eserciti per l’arma finale, quella atomica. La Chiesa all’enfasi alla Sindone, ad un lenzuolo che avrebbe impresse le immagini del corpo di Gesù.

        Poiché con la Sindone la Chiesa si è ingrassata parecchio e ha abusato della credulità popolare (ma vi è un giudice in Italia che accusi i responsabili di un tal reato ? O sono tutti credenti nei falsi ? O tengono famiglia ?), conviene fare chiarezza.

        Qualche piccolo dato storico che fa conoscere all’Occidente l’esistenza di un telo funebre appartenuto presumibilmente a Gesù:

  • nel 1353, a Lirey in Francia, il cavaliere Goffredo di Charny annuncia di essere in possesso del telo che avvolse il corpo di Gesù nel sepolcro.
  • nel 1453 Margherita di Charny, discendente di Goffredo, vende la Sindone ai duchi di Savoia, che la portano a Chambéry, loro capitale.

        Da questo momento la Sindone viene accettata come autentica con la benedizione definitiva di papa Giulio II nel 1506 in un momento storico delicatissimo per la Chiesa: era in corso lo scisma di Lutero.

        Prima del 1353 ? Solo leggende, le citazioni dei Vangeli che parlano di Gesù avvolto in un lenzuolo (sindon in greco) da Giuseppe di Arimatea, una citazione in un vangelo apocrifo (questo Vangelo va bene alla Chiesa e gli altri che parlano o di Gesù come un assassino di bambini o della Madonna che è una nobildonna palestinese o dei molti fratelli di Gesù con la verginità che sparisce, … non sono credibili) e leggende con nessuna valenza storica. Inoltre, dal fatto che vi sia stato un  lenzuolo ad avvolgere il corpo di Gesù, ad ammettere che quel lenzuolo di Torino sia il medesimo ce ne passa ! Infine, resta da capire come funzionò la Resurrezione …. un corpo nudo di Gesù sarebbe stato raccontato fino allo sfinimento.

        Si sa invece per certo che quella baldracca di Elena, madre di Costantino, Elena, che lavorava nei postriboli dei Balcani e che la Chiesa fece santa, iniziò a fare la collezione di reliquie di Gesù ed apostoli. Eravamo nel IV secolo dopo Cristo e figurarsi quante cose si ritrovano 400 anni dopo oltre ad immaginare quanti falsi si costruirono per vendere reliquie alla baldracca. Ma qui siamo ancora in fase artigianale. Il vero commercio di reliquie iniziò con le Crociate. Le truppe dei Re cattolici erano fatte di disperati in cerca di fortuna, a qualunque prezzo e capirono che le reliquie da portare in Occidente erano quanto di meglio si potesse immaginare. Nacque una vera industria delle reliquie che riempì Chiese, case, piazze, monasteri e cimiteri. Con i chiodi della croce si potrebbero costruire interi galeoni e con i legni di essa decine di case di montagna. Per non parlare del latte di Maria che doveva sgorgare a fiotti o del prepuzio di Gesù che doveva avere le dimensioni di un elefante. Eccetera con

l’asino della domenica delle palme

parti dei pannolini di Gesù

la cintura della Madonna, caduta mentre ascendeva al cielo

il pane piovuto dal cielo per gli ebrei nel Sinai

la scala del palazzo di Ponzio Pilato 

……

Tutto era buono per fare dei guadagni enormi e sistemarsi per tutta la vita.

Arriviamo, guardate un poco, al centro delle Crociate in Palestina dopo che Costantinopoli era stata saccheggiata, al 1353 ed un gran furbastro dice di avere  il telo sepolcrale di Gesù.

La Sindone dai Duchi di Savoia passa alla città di Torino e quindi alla Chiesa. Ora esiste questo telo e ciò è un dato di fatto. Ma questo telo ha qualcosa a che fare con il presunto Gesù ? Per esserlo occorrerebbe che avesse circa 2000 anni di età. Come fare a sapere ciò ? Qui arriva il più micidiale nemico delle bufale della Chiesa, la scienza, ciò che la Chiesa ha sempre osteggiato e combattuto furiosamente.

Esiste un metodo di datazione di ogni particolare sostanza di origine organica (ossa, legno, fibre tessili, semi, carboni di legno,…) noto come metodo del Carbonio 14, ideato e messo a punto tra il 1945 e il 1955 dal chimico statunitense Willard Frank Libby, che per questa scoperta vinse il Premio Nobel nel 1960. La datazione ottenuta con questo metodo è misurabile per materiali di età compresa tra i 50.000 e i 100 anni ed è sempre utilizzato in paleontologia, archeologia ed in ogni disciplina che voglia risalire all’età di un qualsiasi reperto.

        Prima di entrare nei dettagli di cosa è avvenuto con la Sindone, anticipo in breve che, dopo molte insistenze, dal telo furono tagliati tre piccoli quadratini che furono distribuiti ai tre più accreditati istituti di ricerca del mondo perché datassero i campioni. La datazione avvenne nel 1988 con il metodo suddetto ed i tre istituti di ricerca dettero gli stessi risultati: la Sindone risaliva all’Alto Medioevo, in un’epoca databile tra il 1260 ed il 1390 (si osservi che le date sono completamente compatibili con il ritrovamento nel 1353 del cavaliere Goffredo di Charny). Tutto risolto, quello era un telo di qualche persona morta in quegli anni con il suo telo sottratto per essere spacciato come favolosa reliquia dalla quale fare molti soldi.

        Ma figurarsi se la Chiesa accetta un dato scientifico ! Subito furono sollevate obiezioni di due tipi: la prima era che il telo era stato rattoppato dopo un incendio. Il 4 dicembre 1532, infatti, la Sindone venne danneggiata da un incendio che la bruciò in più punti. Tra il 15 aprile e il 2 maggio dell’anno successivo le suore clarisse di Chambéry la ripararono applicando alcune toppe e cucendola su un telo di sostegno. Purtroppo l’epoca delle toppe alla Sindone non è compatibile con la datazione del Carbonio 14 che è antecedente di circa 150 anni. La seconda obiezione era relativa al fatto che la Sindone era sporca ed aveva sopra tante impurità successive alla sua origine ed il Carbonio 14 avrebbe letto le impurità. Su questo transigo per non offendere gli idioti che dicono ciò e che non hanno neppure idea quantomeno del fatto che il Carbonio farebbe almeno una media sulle percentuali di materiale presenti. E, a meno che la Sindone non fosse tutta monnezza, l’età che avrebbe dato sarebbe stata al massimo intorno al VI secolo dopo Cristo. Il bello è che la Chiesa pur di smentire la scienza si avvale delle presunte ricerche di un russo noto falsificatore ed addirittura del KGB. Tutto un programma di fede ecclesiastica.

        Fin qui ciò che riassumo io. Passo ora ad articoli molto puntuali in proposito iniziando con quello del prestigioso CICAP, Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale.

Roberto Renzetti

PS. Estendendo non arbitrariamente i livelli di credulità popolare risulta evidente perché Berlusconi sia Presidente del Consiglio.


Indagine critica degli studi recenti sulla Sindone di Torino

di Antonio Lombatti

10 gennaio 2006 
 

Non è del tutto opportuno criticare analisi sulla Sindone fatte da chi non c’è più: lo so. Raymond Rogers non potrà rispondere, né replicare a chi – come me – ha sempre valutato discutibile un approccio religioso e fideistico alla controversia della Sindone. Rogers è morto l’8 marzo scorso dopo una lunga battaglia contro un tumore. Ma, nonostante anche lui cristiano convinto come quasi tutti quelli che si occupano della Sindone full o part-time, questo chimico aveva avuto posizioni piuttosto moderate e di aspra critica verso i suoi colleghi. Tuttavia, il suo ultimo articolo si presta a diverse osservazioni che cercherò comunque di esporre[1].

“In realtà non esiste nessuna “toppa” né “rammendo”. Durante le ultime verifiche, compiute nel 2002 durante l’intervento di conservazione e ripulitura, la dottoressa svizzera Mechthild Flury-Lemberg (la maggiore autorità mondiale nel tessuto antico) ha esaminato la Sindone con molta attenzione e non ha visto assolutamente alcun segno di aggiunta tessile”. “Non esiste senza alcun dubbio alcun rifacimento tessile in questo telo” e prosegue Ghiberti: “È stata rimossa anche la fodera e per la prima volta dopo 500 anni abbiamo visto il retro del Lenzuolo: non c’è nessun segno di rammendo. E poi una ricostruzione si fa solo dove esiste un buco, mentre il campione è stato prelevato in una zona d’angolo, dove è irragionevole pensare a qualunque “intessuto medievale””. Morale? “Mi stupisce che uno specialista come Rogers cada in tante imprecisioni nel suo articolo.” (Avvenire, 22 gennaio 2005, p. 23). Queste le inequivocabili parole del prof. Giuseppe Ghiberti, docente di Esegesi Biblica in diverse università, presidente della Commissione Diocesana per la Sindone, nonché uno dei più ascoltati consiglieri scientifici del cardinale di Torino Severino Poletto, custode vaticano della reliquia. Basterebbe solo questo per chiudere l’ennesimo tentativo di screditare il risultato del C14. Il responso unanime degli scienziati dei laboratori di Zurigo, Tucson e Oxford fu 1260-1390. E questo avveniva nel 1988[2].

Nei primi anni ’90, fu lanciato in tournée da vari centri di sindonologia – sia italiani che americani – lo scienziato russo Dimitri Kuznetsov, il quale sosteneva che l’incendio subito dalla Sindone nel 1532 aveva arricchito di carbonio il tessuto ringiovanendolo. Tuttavia, non solo la rivista che pubblicò il suo articolo, il Journal of Archaeological Science[3], aggiunse la precisa confutazione del suo esperimento sullo stesso numero[4], ma dopo l’illuminante articolo di Gian Marco Rinaldi sulle frodi pseudoscientifiche perpetrate dal russo[5], la pista Kuznetsov è stata definitivamente accantonata dai sindonofili.

A metà degli anni ’90, fu la volta del biochimico texano Leoncio Antonio Garza-Valdès, il quale affermava che sulle fibre di lino erano presenti diverse patine bioplastiche originate da microfunghi. Essi sarebbero stati la causa dell’errore nella datazione con il C14. Anche in questo caso, non solo lo studio di Garza-Valdès non fu mai pubblicato in alcuna rivista scientifica di settore, ma il cardinal Saldarini, durante il Convegno Mondiale a Torino del 1998, dichiarò ufficialmente che i campioni di tessuto sui quali Garza-Valdès aveva lavorato non provenivano dalla Sindone. La sua ricerca fu dichiarata invalida e non venne pubblicata negli Atti di quel convegno.

Dopo di che è calato il silenzio. Nessuno ha avuto più la sfrontatezza di citare Kuznetsov o Garza-Valdès, almeno in confronti pubblici. Ma nel gennaio di quest’anno, ecco l’ennesimo tentativo di attacco alla datazione con il C14[6]. Rinaldi ha già fornito un quadro estremamente chiaro di tutta la vicenda. Ci limiteremo, quindi, a fare luce su alcuni punti oscuri[7].


 

Indice 1 Punto numero 1: la provenienza dei fili usati da Rogers 2 Punto numero 2: il rammendo medievale “invisibile” 3 Punto 3: le analisi chimiche di Rogers 4 Note

Punto numero 1: la provenienza dei fili usati da Rogers


Ecco la spiegazione del chimico americano Ray Rogers in una email, che mi ha spedito il 9 febbraio 2005, relativa ai segmenti di lino sindonico del 1988 in suo possesso: “Furono prelevati da Gonella e successivamente inviati a Alan Adler. Egli, a sua volta, li mandò a Stephen Mattingly (collega di Garza-Valdès) [Mattingly mi disse in una email che ho conservato che non li aveva mai guardati] e Mattingly li rispedì dopo la morte di Adler. L’AM*STAR (American Shroud of Turin Association for Research) ha la nota scritta a mano da Adler a Mattingly e ha conservato tutte le buste usate per le spedizioni”.[8]
 

Il disegno che illustra zone e quantitá dei prelievi del 1973 e 1988

Curioso notare due aspetti. Primo, lo stesso Garza-Valdès conferma, in un articolo scritto nel 1993[9], di avere ricevuto i fili sindonici da Alan Adler , fibre di lino, però, prelevate nel 1978 e non durante il taglio del 1988. E, forse ancora più sconcertante, i presunti campioni trattenuti nel 1988 semplicemente non esistono ufficialmente, visto che il cardinale Saldarini lo aveva dichiarato inequivocabilmente nel 1998 durante il convegno mondiale di Torino. Quindi, ci si chiede: su quale materiale ha lavorato Rogers? Sui filamenti di Raes del 1973, su quelli del 1978 o sui fili inesistenti tanto da portare alla cancellazione della ricerca di Garza-Valdès dagli Atti del Convegno del 1998? È ovvio che non si tratta di una questione marginale, visto che in ambito scientifico gli esperimenti sono validi quando si conosce l’esatta provenienza del materiale e se con esso è possibile replicarli.

Da ultimo, ma non per questo meno importante, è un po’ sospetta la coincidenza che Rogers abbia deciso di fare analisi microscopiche pubblicate su Thermochimica Acta sui filamenti sindonici solo dopo 15 o 20 anni dopo averli ricevuti in casa sua[10].


Punto numero 2: il rammendo medievale “invisibile”


Una debolezza dell’articolo di Rogers è rappresentata dalla fonte, la quale sostiene che nel lino della Sindone sia presente un rammendo medievale “invisibile” localizzato proprio nella zona del prelievo per il C14. Come già detto in precedenza, il punto numero 2 è stato ufficialmente sconfessato da mons. Giuseppe Ghiberti nella sua intervista a Avvenire e, forse, non si dovrebbe andare oltre. Tuttavia, per dare un quadro completo di come sia viziata scientificamente in partenza anche questa ultima ricerca, bisogna ricordare da cosa scaturiscono i test effettuati da Rogers.
 

Un rammendo medievale sulla sindone

L’immagine jpeg ingrandita da Marino e Benford che rappresenterebbe la prova del rammendo medievale invisibile.

Dopo il fallimento delle pseudo-teorie di Kuznetsov e Garza-Valdès, si è lentamente affermato il convincimento – o la speranza, direi io – che il prelievo dei tre campioni di lino sindonico fosse stato effettuato in un’area in cui erano presenti dei rattoppi medievali. I più convinti sostenitori di tale congettura furono un ex monaco benedettino, Joseph Marino, e la sua compagna Sue Benford. Al Congresso Sindonico Mondiale di Orvieto nell’agosto del 2000 presentarono una relazione e del materiale fotografico per ribadire che l’età radiocarbonica della Sindone era errata, poiché erano presenti dei rammendi nella zona del prelievo[11]. Un anno più tardi la rivista Radiocarbon rifiutò di pubblicare il loro contributo. Perché? Semplice: Marino e Benford si erano basati sull’osservazione di fotografie e non su esami diretti sulla Sindone . Come è mai possibile stabilire la presenza di rammendi estranei “invisibili” dall’analisi di fotografie? Ecco l’altra grave anomalia pseudoscientifica. Gli scienziati che hanno effettuato lo studio del tessuto nel 1988 direttamente sul lino sindonico non avevano visto toppe, né rammendi e neppure fili medievali nella zona del prelievo proprio perché si trattava di un’area lontana dalle bruciature del 1532 e dalle successive cuciture di restauro. Poi, con tutto il rispetto per gli americani Marino, Benford e Rogers, gli scienziati presenti al taglio dei tre campioni di lino il mattino del 21 aprile 1988 erano: il prof. Renato Dardozzi, membro della Pontificia Accademia delle Scienze, il prof. Franco Testore, titolare della cattedra di Tecnologie Tessili al Politecnico di Torino, il dott. Gabriel Vial, direttore del Museo dei Tessuti Antichi di Lione, i professori Robert Hedges e Edward Hall, responsabili del Laboratorio di Radiodatazione dell’Università di Oxford, e il dott. Michael Tite, Direttore del Laboratorio di Ricerca del British Museum di Londra, i proff. P. Damon e D. Donahue dei dipartimenti di Geoscienze e Fisica dell’Università dell’Arizona e il prof. W. Woelfli del dipartimento di Fisica del Politecnico di Zurigo. Ecco, secondo Rogers questi illustri cattedratici non avrebbero visto i rammendi dopo un esame microscopico diretto sulla reliquia, mentre J. Marino e S. Benford lo avrebbero individuato da un’immagine in formato JPG a bassa risoluzione ingrandita a dismisura. Questa non è nemmeno pseudoscienza: è pura fantascienza[12].

Quindi, come abbiamo appena cercato di chiarire, mancano i prerequisiti per una qualsiasi ricerca scientifica relativamente alla certezza della provenienza del materiale analizzato e alla correttezza formale nella formulazione di una nuova ipotesi ).


Punto 3: le analisi chimiche di Rogers


Le principali “scoperte” di Rogers sui fili sindonici – dopo ben 15 anni che li aveva nel suo home laboratory (laboratorio di casa), come lo definisce lui stesso – sarebbero sostanzialmente tre: 1) identificazione di residui di vanillina; 2) fibre di cotone presenti nel lino; 3) identificazione di un pigmento colorante, mordente e collante per tintura di tessuti. Riguardo alla contaminazione da cotone, la notizia non è per niente nuova. Max Frei usò guanti di cotone e nastro adesivo da cartoleria (vedi foto accanto) lasciando ovviamente numerose fibre sulla Sindone. Inoltre, è documentato da più parti come impurità di cotone siano molto frequenti nel processo di filatura del lino. Ma non solo. Ci sono testimonianze storiche dirette di come fosse diffusa la produzione e la commercializzazione del lino in Francia nel XIII secolo: spesso invece dei tessuti più preziosi e costosi di purissimo lino venivano vendute stoffe di lino misto a lana o cotone[13].
 

Max Frei esegue in modo poco scientifico i prelievi dei pollini con guanti di cotone e nastro adesivo.

Sulle tracce di pigmenti coloranti, mordente e collante per tintura di tessuti rinvenuti da Rogers, la questione era già stata magistralmente sollevata da Walter McCrone, uno dei più illustri microscopisti di chimica analitica, che era stato inizialmente coinvolto dallo STURP nel 1978 prima di essere cacciato perché le sue indagini contrastavano con la teoria prevalente, vale a dire che la formazione dell’immagine fosse misteriosa e miracolosa[14]. Egli li aveva identificati in notevoli quantità sul tessuto sindonico[15]. Non è una novità, quindi, che possano essere stati individuati in varie zone del telo, visto che il microscopista americano non aveva escluso la presenza di tali pigmenti coloranti anche in altre zone del tessuto, in cui sarebbero state trasportate dal vapore e dall’acqua usata per spegnere l’incendio del 1532.

Ora l’ultima “scoperta”: la vanillina. Rogers ha sfruttato la presenza o assenza di tale sostanza chimica per determinare l’età della Sindone. Visto che la vanillina viene prodotta dalla lignina nei tessuti di lino col passare del tempo, la determinazione della quantità rimasta potrebbe aiutarci a capire quanto sia giovane o vecchio il tessuto. Tuttavia, per dimostrare l’efficacia di questo metodo di datazione e provare, quindi, la discrepanza tra età radiocarbonica ed età da vanillina residua, Rogers doveva prima datare in modo indipendente i suoi campioni sindonici. Inoltre, visto che la vanillina si disperde in base alla temperatura circostante, Rogers doveva stabilire con esattezza quali condizioni climatiche o di (sur)riscaldamento aveva subito la reliquia negli anni. Qui la sperimentazione del chimico americano è particolarmente debole.

Egli utilizza l’ Equazione di Arrhenius per stabilire, con un certo margine di approssimazione, la relazione vanillina-temperatura-tempo trascorso e stabilire quanti anni siano necessari per rilasciare tutta la vanillina presente nelle fibre di lino. Rogers calcola che ad una ipotetica temperatura costante di 25°C – sia all’interno del reliquiario, che durante le ostensioni – un lino prodotto nel 1260 d.C. avrebbe ancora il 37% di vanillina nel 2000, mentre la Sindone non ne ha più. Aggiunge, inoltre, che il fattore più rilevante per procedere in questo calcolo non sono le basse temperature, bensì quelle alte, visto che quanto maggiore è il riscaldamento che il lino ha subito, tanto più veloce è la dispersione della vanillina nell’ambiente. Proprio su questo punto, Rogers sorvola con troppa noncuranza su un evento determinante: l’incendio patito dalla Sindone la notte del 3 dicembre 1532 nella chiesa di Chambéry. Il calore delle fiamme fuse il coperchio del reliquiario, in cui era stata ripiegata più volte come una tovaglia ed il metallo fuso colò all’interno e ne distrusse un angolo e strinò un lato di piegatura[16]. Da esperimenti di laboratorio che miravano a replicare le condizioni chimico-fisiche di quell’incendio, si è ipotizzata una temperatura esterna di circa 500°C e interna di 180°C.[17] Ovvio, come tale condizione di surriscaldamento subita dal lino abbia potuto volatilizzare tutta la vanillina residua. Ed è proprio qui che le imprecisioni di Rogers hanno portato ad aspre critiche John Jackson, fisico americano dello STURP, anche lui convinto sostenitore dell’autenticità della Sindone: “Anzitutto, è essenziale comprendere che le Equazioni (1) e (2) nell’articolo su Termochimica Acta sono errate così come sono pubblicate” (“First, it is essential to realize that Equations (1) and (2) in the Termochimica Acta paper are incorrect as published”[18]). Infatti, Rogers assegna alla costante k due diversi valori. Dalle correzioni apportate da Jackson si deduce ancora meglio che il fattore temperatura è estremamente sensibile. Incrementando di soli 5°C l’ipotetico 25°C di temperatura costante, il tempo per volatilizzare il 95% della vanillina si abbassa vertiginosamente da 1319 a 579 anni. E, ancora più impressionante, ad una temperatura di circa 200°C – quella dell’incendio del 1532 – sono sufficienti 6,4 minuti per volatilizzare tutta la vanillina!

Inoltre, altri tipici segni di bruciature anteriori al 1516 ci suggeriscono che la Sindone venisse esposta vicino a delle torce accese. La documentazione ecclesiastica ricorda l’uso di tali strumenti d’illuminazione durante le ostensioni[19].

Infatti, lo stesso Rogers deve ammettere che “the storage conditions through the centuries are unknown” (“le condizioni di conservazione nei secoli sono sconosciute”): come si può, quindi, procedere ad un calcolo approssimativo per stabilire la vanillina residua, in cui il fattore temperatura è determinante, proprio se non si conoscono le temperature di esposizione e conservazione della Sindone e se si sottostima l’incendio del 1532?

Assurdo, infine, che Rogers abbia ignorato proprio un suo articolo. In Physics and Chemistry of the Shroud of Turin, A Summary of the 1978 Investigation del 1982 Rogers scrisse che l’analisi in fluorescenza a raggi X condotta su tredici fili del frammento Raes (la medesima zona del prelievo per il C14) aveva mostravo le stesse concentrazioni di calcio, stronzio e ferro rispetto al resto della Sindone. Elementi chimici che il tessuto aveva acquisito durante il processo di lavorazione e filatura. Lo stesso lino, dunque, senza rammendi o toppe, altrimenti non si spiegherebbe l’uniformità di tali composti in tutto il tessuto[20].

Ma c’è dell’altro. Secondo gli autorevoli pareri del prof. Malcom Campbell, ordinario di Botanica all’Università di Toronto, e del prof. Clint Chapple, docente di Biochimica alla Purdue University di West Lafaiette, Indiana, negli Stati Uniti, che definiscono l’articolo “very poor” (molto scadente), sono tre le imprecisioni di metodo scientifico commesse da Rogers, che avrebbero dovuto portare alla non pubblicazione dell’articolo:

1) Appropriatezza del metodo usato per verificare i residui di vanillina nei fili di lino: il test reagente Phloroglucinol-Hydrocloric-Acid (P-HCI) per lignina è una tecnica “qualitativa” e non “quantitativa”. Non si capisce, quindi, come esami qualitativi siano stati impiegati per ottenere risultati quantitativi. Inoltre, è stato dimostrato in letteratura come il test P-HCI richieda una quantità minima di lignina per essere impiegato: la concentrazione deve essere superiore a 4,4%, mentre non può essere utilizzata se è inferiore all’1,47%. Rogers ha usato il criterio di assenza di macchiatura P-HCI per stabilire un limite d’età dei suoi campioni. E questa è certamente una scorrettezza di metodo: come può uno scienziato fare calcoli precisi basati sull’assenza di qualcosa? Raramente è possibile farli, comunque nell’articolo in questione non c’erano i riscontri sperimentali necessari. Un metodo sensibile per la quantificazione di lignina avrebbe potuto essere usato: la pirolisi-spettrometria di massa, sfruttata da Rogers solo per caratterizzare i carboidrati nei suoi filamenti, ma non per caratterizzare la lignina, nonostante le numerose ricerche pubblicate per la sua identificazione nelle fibre del lino.

2) Appropriatezza di controlli: nella ricerca Rogers non ha usato campioni di controllo (con età diverse e provenienze geografiche differenti), come invece si richiederebbe per testare un metodo di calcolo dell’età del lino come quello da lui usato. Non ha verificato il comportamento di frammenti di lino trattati con diversi metodi di tintura, visto che la tintura può avere effetti sull’identificazione della lignina. Colpisce anche l’affermazione “Nessuna semplice relazione tra colore ed età può essere avanzata, poiché i metodi di tintura sono cambiati nei secoli” (p. 190). In questo caso, allora, ci dovrebbe anche essere un effetto squilibrato di ritenzione della vanillina anche nei campioni di Rogers, perché tale ritenzione sarebbe stata modificata dalla tintura. Dopo tutto, le tecniche di tintura sono impiegate per ridurre la quantità di composti che si possono ossidare (creando, così, i diversi colori), inclusa la vanillina.

3) Riproducibilità degli esperimenti: le analisi di Rogers sono state eseguite una sola volta e mancano, quindi, i controlli dovuti per calcolare un “margine d’errore” nella datazione.

In breve, per testare adeguatamente l’ipotesi descritta da Rogers si sarebbero dovuti usare metodi appropriati, controlli adeguati e necessarie verifiche. Tali criteri non sono presenti nell’articolo “so – scrivono i due professori – the article fails on scientific grounds” (“quindi l’articolo fallisce su basi scientifiche”).[21]

La Sindone ha fatto recentemente parlare di sé anche per un’altra ricerca. Nathan Wilson, docente di Retorica Classica al New St. Andrews College di Moscow, nell’Idaho, Stati Uniti, ha pubblicato un articolo corredato da materiale fotografico relativo ad un suo esperimento[22]. Nell’articolo ci sono molte inesattezze relativamente al presunto sangue, alle tracce di materiale organico, ai pollini e alle proprietà fisiche dell’immagine. L’americano si accoda acriticamente alla pubblicistica dello STURP. Anche senza accedere a tutti gli articoli pubblicati negli anni ’80 basta fare un minimo ragionamento critico. Lo STURP osservò che le proprietà fisico-chimiche dell’immagine erano identiche e uniformi con analisi a raggi X, infrarosso e luce ultravioletta. Ora, come è possibile che i presunti capelli e l’epidermide abbiano lasciato un’impronta con le medesime caratteristiche fisico-chimiche visibili nelle diverse bande spettrali?

Wilson ha replicato l’immagine sindonica in un modo del tutto singolare rispetto ai suoi predecessori dopo vari tentativi[23]. Ha preso un vetro e lo ha fatto dipingere da un amico con un volto sindonico utilizzando un colore a tempera bianco. Ha quindi collocato un tessuto di lino della dovuta consistenza sotto il vetro ed ha esposto il tutto ai raggi del sole per dieci giorni. La luce che filtrava attraverso il vetro dipinto ha ossidato/disidratato i fili superficiali del lino, creando un’immagine negativa molto simile a quella della reliquia torinese. Ovvio che occorrerà verificare al microscopio quali precise modificazioni chimiche abbia subito il tessuto e compararle a quelle della Sindone. Certamente, si tratta di un altro esempio di come un alchimista medievale potesse creare un’immagine di tipo sindonico con le conoscenze dell’epoca[24].
 

Il risultato ottenuto da Wilson grazie ai raggi del sole filtrati attraverso il vetro dipinto col volto sindonico (positivo e negativo fotografico).

Come per qualsiasi oggetto sottoposto all’analisi scientifica, anche chi studia la Sindone non può non utilizzare un appropriato e rigoroso metodo scientifico. In questi decenni, molte persone sono spesso giunte avventatamente alla conclusione che se il lino era del I secolo allora eravamo in presenza del telo funebre che aveva avvolto il corpo di Gesù nella tomba; oppure, se le macchie rosse erano sangue umano allora la Sindone era autentica. Tuttavia – come è stato recentemente evidenziato[25] – occorre seguire con scrupolo passaggi logici e sequenziali che devono tutti essere dimostrati:

a) la Sindone deve essere un lino originale del I secolo, epoca in cui visse Gesù; (mentre, le uniche analisi universitarie effettuate con il C14 lo hanno datato XIV secolo);
 

Il vetro dipinto usato da Wilson per realizzare la sua sindone.

b) le macchie rosse sono sangue umano (mentre, oltre al ferro e al calcio, non è mai stata identificata alcuna traccia di potassio, fondamentale per confermare che le sostanze identificate non appartengano ad altri composti chimici; inoltre, la sostanza rossa di cui è formato “il sangue” non si dissolve in glicerina, acqua ossigenata, acido acetico e essa dà esito negativo al test della benzidina e alla cromatografia, esami fondamentali per stabilire la presenza di sangue umano[26]);

c)la Sindone è il panno funebre in cui è stato avvolto un cadavere (mentre, un uomo [figura solida] produce un’immagine distorta su di un telo [figura piana]);

d)il telo è riconducibile proprio a Gesù Cristo e non ad un’altra persona (mentre, non se ne è sicuri perché i vangeli canonici hanno versioni differenti e contrastanti della sepoltura di Gesù);

e)se quello di Gesù Cristo è il corpo raffigurato sulla Sindone, è opportuno definire l’aspetto di Gesù;(mentre, nulla ci dice il Nuovo Testamento dell’aspetto di Gesù, tranne San Paolo che scrive che era indecoroso per un cristiano portare barba e capelli lunghi 1Cor. 11,7-14 e Atti 21,24);

f) dimostrare che i vangeli canonici sono cronache storiche oggettive relativamente alla morte e resurrezione di Gesù (mentre, essi sono narrazioni di parte incentrate sul messaggio di Cristo)

Chi sostiene l’autenticità della Sindone deve provare tutte e sei queste affermazioni, mentre la scienza le ha già confutate tutte.

Cosa aggiungere: questo, probabilmente, non sarà l’ultimo tentativo di screditare le analisi con il C14 che hanno messo la parola fine al dibattito. Troppo spesso la pubblicistica popolare a favore dell’autenticità della Sindone non cita deliberatamente che la controversia era già stata risolta per vie ufficiali da un Papa cattolico, Clemente VII, nel 1390. In riferimento all’ostensione della reliquia, il Pontefice aveva scritto in una Bolla papale in modo inequivocabile: “… et dicat alta et intelligibili voce, omni fraude cessante, quod figura seu representacio predicta non est verum Sudarium Domini nostri Ihesu Xpisti” (“e si dica ad alta e chiara voce, affinché cessi ogni frode, che la suddetta figura o rappresentazione non è il vero Sudario del Signore nostro Gesù Cristo”)[27]. Tuttavia, per coloro che sono fermamente convinti nell’autenticità della Sindone non c’è prova documentale per possa fare vacillare le loro certezze: sia esso il C14 o i testi medievali contemporanei alle prime ostensioni.

Proprio per questo, dopo i tanti contributi pseudoscientifici di questi anni, una buona dose di diffidenza e di scetticismo verso le presunte “scoperte” sindoniche sono d’obbligo.


Antonio Lombatti
Deputazione di Storia Patria, Sezione di Parma
 


Note
 

1) Un breve biografia, corredata con vari messaggi di condoglianze, si può leggere al sito http://www.shroud.com/latebrak.htm#rogers.

2) P.E. Damon, D.J. Donaue, B.H. Gore, A.L. Hatheway, A.J.T. Jull, T.W. Linick, P.J. Sercel, L.J. Toolin, C.R. Bronk, E.T. Hall, R.E.M. Hedges, R. Housley, I.A. Law, C. Perry, G. Bonani, S. Trumbore, W. Woefli, J.C. Ambers, S.G.E. Bowman, M.N. Leese, M.S. Tite, “Dating of the Shroud of Turin”, Nature, 337 (1989), pp. 611-615. Il carbonio, indicato col simbolo C, è un elemento chimico diffusissimo in natura e negli organismi viventi. Due sole forme sono stabili, il C12 e il C13, mentre vi è una forma instabile e radioattiva: il C14. Dopo la morte di un essere vivente, cessa l’equilibrio con l’ambiente esterno perché non è più possibile l’assunzione di nuovo C14 e quello presente nell’organismo comincia a decadere, emettendo raggi beta e gamma e trasformandosi in qualche decina di migliaia di anni nell’isotopo N14 dell’azoto. La datazione in laboratorio stabilisce, con metodi e tecniche particolari, il residuo presente di C14 determinando, così, l’età radiocarbonica di quell’organismo vivente.

3) D.A. Kuznetsov, A. Ivanov, P.E. “Veletsky, Effects of fires and biofractionation of carbon isotopes on results of radiocarbon dating of old textiles: The Shroud of Turin”, Journal of Archaeological Science, 1 (1996), pp. 109-122.

4) A.J.T. Jull, D.J. Donaue, P.E. Damon, “Factors affecting the apparent radiocarbon dating of old textiles: The Shroud of Turin by Kuznetsov et al.”, Journal of Archaeological Science, 1 (1996), pp. 157-160 e successivamente R.E.M. Hedges, G. Bronk Ramsey, G.J. van Klinken, “An Experiment to Refute the Likelihood of Cellulose Carbolxylation of the Shroud of Turin”, Approfondimento Sindone, 2 (2002), pp. 60-62.

5) G.M. Rinaldi, “Lo scienziato immaginario”, Scienza & Paranormale, 43 (2002), pp. 20-64.

6) R.N. Rogers, “Studies on the radiocarbon sample from the shroud of Turin”, Thermochimica Acta, 425 (2005), pp. 189-194; Rogers, tra l’altro, ha pubblicato gran parte dei suoi articoli su vari argomenti di chimica analitica proprio su Thermochimica Acta (R.N. Rogers, Thermochimica Acta, 11, [1975], p. 131; R.N. Rogers, L. C. Smith, Thermochimica Acta, 1 [1970], p. 1; R. N. Rogers, “Differential Scanning Calorimetric Determination of Kinetics Constants of Systems that Melt with Decomposition”, Thermochimica Acta, 3, [1972], p. 437; R.N. Rogers, G. W. Daub, “Determination of Condensed-Phase Kinetics Constants”, Thermochimica Acta, [1974], p. 855; R.N. Rogers, J. L. Janney, M. H. Ebinger, Thermochimica Acta, 59, [1982], pp. 287-298).

7) G.M. Rinaldi,”Medievale era il rattoppo”, Scienza & Paranormale, 59 (2005), pp. 11-14.

8) 8) “They were taken by Gonella, and they were subsequently transferred to Al Adler. He transferred the yarn segments I used to Stephen Mattingly [Mattingly stated to me in a retained e-mail that he never even looked at them.], and Mattingly sent them back after Al’s death. AM*STAR has the handwritten note from Al to Mattingly, and all of the shipping envelopes have been saved. I was specifically directed to save all of this material and return it”, email all’autore del 9 febbraio 2005.

9) L.A. Garza-Valdès, F. Cervantes-Ibarrola, “Biogenic varnish and the Shroud of Turin”, in L’identification scientifique de l’homme du Linceul, Jésus de Nazareth, éd. par A.A. Upinsky, Atti del Simposio Internazionale, Roma 1993, Paris 1995, p. 282.

10) Rogers, infatti, dichiara di avere alcuni fili sindonici della zona del prelievo del C14 dal 1979: quei fili facevano parte del campione di Raes (p. 189).

11) 11) J. Marino, M.S. Benford, “Evidence for the skewing of the C-14 dating of the Shroud of Turin due to repairs”, Sindone 2000, a cura di E. Marinelli, A. Russi, Atti del Congresso Mondiale, Orvieto 2000, San Severo (FG) 2002, vol. 1, pp. 57-64 e fotografie alle pp. 27-30, vol. 3.

12) S. Schafersman, “A Skeptical Response to Studies on the Radiocarbon Sample from the Shroud of Turin by Raymond N. Rogers” Thermochimica Acta 425:189-194, 2005, reperibile al sito http://www.skeptic.ws/shroud/articles/rogers-ta-response.htm. Ovvio, inoltre, come un’ipotetica – anzi, impossibile – tessitura di lino medievale (XIV sec.) mista a lino del I sec. avrebbe dato un’età radiocarbonica del VII sec.

13) J. Quicherat, Histoire du costume en France depuis le temps les plus reculés jusque à la fin du XVIIIe siècle, Paris1877, p. 188.

14) Per rendersi conto di che tipo di associazione fosse lo STURP – un misto di cristiani con incarichi in istituzioni militari – nato dall’iniziativa di J. Jackson e due sacerdoti cattolici si veda la ricostruzione di C. Papini, Sindone. Una sfida alla scienza e alla fede, Torino 1998.

15) W.C. McCrone, “The Shroud of Turin: blood or artist’s pigment?”, Accounts of Chemical Research, 23 (1990), pp. 77-83; W.C. McCrone, “The shroud image”, The Microscope, 48 (2000), pp. 79-85; W.C. McCrone, “Red ochre and vermillion on Shroud tapes?”, Approfondimento Sindone, 1 (1997), pp. 21-28. Si dimentica spesso che McCrone ha ricevuto l’ American Chemical Society’s National Award in Chimica Analitica proprio per il suo lavoro sulla Sindone. Né Rogers, né Heller o Adler hanno mai avuto un riconoscimento mondiale così prestigioso per il loro lavoro sulla reliquia torinese. Questo mi preme ricordarlo, perché ancora oggi molti sindonologi tendono addirittura a non considerare i risultati di McCrone opponendogli quelli di Rogers e Adler.

16) P. Baima Bollone, Sindone e scienza all’inizio del terzo millennio, Torino 2000, pp. 90-91.

17) M. Moroni, “The Age of the Shroud of Turin, in The Turin Shroud: Paste, Present, and Future”, Atti del Simposio Internazionale, Torino 2000, a cura di S. Scannerini, P. Savarino, Cantalupa (TO) 2000, p. 516. Per ottenere il tipico colore sindonico – un lino, infatti, non ha la stessa tonalità della Sindone – il tessuto deve avere subito una temperatura interna di circa 170°C: il calore è stato, quindi, la causa dell’ingiallimento del telo. Da questo punto di partenza si è cercato di calcolare la temperatura esterna. Il reliquiario di argento-piombo, con temperatura di fusione attorno ai 500°C, si deforma, fino a lacerarsi o scoperchiarsi, per la presenza dei gas della dilatazione termica all’interno del contenitore, M. Moroni, M. Bettinelli, “La vera età della Sindone”, Atti del Simposio Internazionale, Roma 1993, cit., pp. 141-147.

18) J.P. Jackson, K.E. Propp, commento nel forum di discussione “ShroudScience” di Yahoo dell’11 febbraio 2005. Anche le successive osservazioni matematiche sono tratte da questo commento di Jackson e Propp. “La costante k definita nell’equazione 2 contiene il fattore di Boltzmann exp(-E/RT), dove E=123800 e R=8.314: questa stessa combinazione non dovrebbe apparire di nuovo nell’equazione 1 per il calcolo cinetico, che usa k esplicitamente (Jackson e Propp citano I.N. Levine, Physical Chemistry, McGraw Hill 1994)”. L’equazione 2, che definisce la percentuale dipendente della costante k per la temperatura include anche un anomalo simbolo “e” che andava eliminato. Solo rimuovendo il fattore Ze-E/RT dall’equazione 1 può l’equazione 3 – corretta per una temperatura fissata arbitrariamente – essere calcolata matematicamente.”

19) Dictus pannus fuit in dicta ecclesia populo exhibitus et ostensus in solennitatibus et festis frequenter et alias manifeste, cum solennitate maxima et majori quam ibi ostendatur Corpus Domini nostri Jhesu Xpisti, videlicet duobus sacerdotibus albis indutis cum stolis et manipulis, quamplurimum reverenter, accensis torchiis in loco eminenti“, citato da U. Chevalier, Étude critique, Paris 1900, doc. G, p. IX.

20) R.N. Rogers, L.A. Schwalbe, “Phsysics and Chemistry of the Shroud of Turin”, in Analytica Chimica Acta, 135 (1982), pp. 3-49, in particolare la n. 6, p. 47.

21) Email all’autore dell’8 febbraio 2005.

22) N.D. Wilson, “Father Brown Fakes the Shroud”, Books and Culture, 2 (2005), p. 22.

23) V. Pesce Delfino, E l’uomo creò la Sindone, Bari 1982; J. Nickell, Inquest on the Shroud of Turin, Amherst (NY) 1987; E.A. Craig, R.R. Braisee, “Image Formation and the Shroud of Turin”, Journal of Imaging Science and Technology, 1 (1994), pp. 59-67; N.P.L. Allen, The Turin Shroud and the Crystal Lens, Port Elizabeth 1998; W.C. McCrone, Judgement Day for the Shroud of Turin, Chicago 1997.

24) Dagli ambienti sindonologi americani in particolare si è levata subito la critica relativa all’impossibilità di avere nel Medioevo una lastra di vetro di due metri per realizzare l’immagine sindonica. Tuttavia, questa critica non ha fondamento storico. C’è una fonte primaria fondamentale: il monaco benedettino Theophilus (1100-1140); egli scrisse un trattato sulla lavorazione del vetro, Schedula diversarum artium (E. Brephols (a cura di), Theophilus Presbyter und das mittelalterliche Kunsthandwerk, Köln 1999) Si tratta di un’opera preziosa, su cui si dice che anche i vetrai contemporanei basano ancora le varie fasi di realizzazione del vetro. A partire dall’XI secolo, la supremazia orientale nella lavorazione del vetro lasciò lentamente il passo a quella occidentale. Il motivo principale fu che chiese tardoromaniche e gotiche, ma anche le residenze feudali, richiedevano grandi lastre di vetro per vetrate e pannelli (M.P. Lillich, Studies in Medieval Stained Glass and Monasticism, London 2001). Le aree principali di lavorazione erano attorno a Venezia, nel sud di Francia e Germania e nella zona di Bruxelles. Theophilus scrive in un capitolo che per vetri di grandi dimensioni era usato un telaio di piombo (compages plumbeus), sul quale esso veniva direttamente soffiato. Osservando le stupende vetrate gotiche delle maggiori cattedrali si possono immediatamente individuare pannelli vitrei di grandi dimensioni formati da un’unica lastra (W.S. Stottard, Monastery and Cathedrals in France. Medieval Architecture, Sculpture and Stained Glass, Middletown 1966). Ora, è vero che queste vetrate possono presentare difetti di fabbricazione, dovuti a bolle d’aria o altre imperfezioni, ma ciò che non toglie che si potesse disporre di una lastra di vetro da due metri nel Medioevo. Inoltre, occorrerebbe provare come e in che modo tale impurità nel vetro possano impedire la realizzazione di un’immagine come quella di Wilson.

25) M. Magnani, Spiegare i miracoli , Bari 2005, pp. 82-83.

26) In proposito si veda l’ormai introvabile P. Caramello (a cura di), “La S. Sindone. Ricerche e studi della Commissione di esperti nominata dall’Arcivescovo di Torino, Card. Michele Pellegrino, nel 1969-1973”, Supplemento alla Rivista Diocesana Torinese, Torino 1976.

27) Bolla di Papa Clemente VII del 6 gennaio 1390 indirizzata ai canonici della collegiata di Lirey, dove di esponeva la Sindone (U. Chevalier, cit., doc. K, p. XV); la stessa terminologia è usata per le correzioni del 30 maggio 1390 (figura seu representatio), in cui il Papa ribadisce: “Figuram seu rapresentationem non ostendunt ut verum Sudarium D.N.J.C” (“Non si esibisca tale figura o rappresentazione come il vero Sudario del Signore nostro Gesù Cristo”).

Tratto da: Scienza & Paranormale N. 62


Ancora sulla Sindone

Un lettore pensa che la datazione al radiocarbonio sia sbagliata. E poi Medjugorie e una critica alla stampa nazionale 

16 luglio 2008

Ho visto, a pagina 71 del numero 76 della vostra rivista, che voi non ritenete di poter condividere le critiche che io muovo al modo col quale è stata fatta la datazione radiocarbonica della Sindone. Ho l’impressione, però, che non vi siate resi conto dei motivi che mi hanno indotto ad assumere quella posizione. Sono dell’avviso, innanzitutto, che quel che hanno datato non fosse un campione prelevato dalla Sindone, per cui il risultato da loro ottenuto non riguardasse quella tela. Il rapporto ufficiale della datazione pubblicato su Nature precisa che quell’analisi è stata effettuata su un campione di 150 mg di tela avente forma di rettangolo di 7×1 cm circa. Esistono però anche delle fotografie della Sindone che mostrano come la stessa fosse rimasta, dopo il prelievo di quel campione. Fotografie che consentono però di rendersi anche conto delle dimensioni del pezzo asportato. Che risulta avesse sempre un peso di 150 mg anche se era un rettangolo di circa 4×1,7 cm.
C’è da chiedersi pertanto da dove venisse quel campione di 7×1 cm che avevano datato e che aveva dato la Sindone come tela medievale.
Secondo punto. Asserite che il sottoscritto abbia accusato gli autori del rapporto ufficiale di aver intenzionalmente alterato un dato numerico relativo ai risultati del laboratorio di Tucson. Le cose non stanno proprio così. Il rapporto su Nature fornisce sia i risultati ottenuti da ognuno dei tre laboratori che hanno fatto la datazione, che le rispettive tolleranze. E tutto risulta perfettamente regolare. Quando però di quei dati si forniscono le medie, la situazione cambia. Mentre quella dei tre risultati è corretta, non lo è affatto quella delle tolleranze. Invece di essere pari a più o meno 17 anni diventa più o meno 31 anni. Par trattarsi di un banale errore di conteggio, che ha però notevoli conseguenze e che è curioso che mai nessuno, ad onta delle mie lettere, abbia tentato di spiegare o tantomeno di correggere.
Ernesto Brunati

Risponde Gian Marco Rinaldi:

Sul sito di Collegamento pro Sindone (www.shroud.it), si possono leggere due articoli dell’ingegner Brunati, del 2005 e 2006, che dovrebbero essere i suoi più recenti sull’argomento. Brunati muove gravi accuse verso gli autori della datazione della Sindone del 1988, configurando uno scenario che riassumiamo come segue. I responsabili dei tre laboratori (Arizona, Oxford, Zurigo), assieme all’esponente del British Museum che coordinava i lavori, ordirono una congiura e pianificarono la sostituzione del campione della Sindone con un campione preso da un tessuto medievale. Era inizialmente previsto che sarebbe stato prelevato dalla Sindone un campione delle dimensioni di 1 per 7 cm, da dividere poi in tre parti, e quindi i congiurati prepararono un strisciolina di quelle misure dal tessuto medievale. Ma il giorno del prelievo successe un imprevisto e fu tagliato un frammento di dimensioni diverse. Fu ugualmente dichiarato, nei comunicati e nelle pubblicazioni, che il prelievo era stato di 1 per 7 cm, forse per evitare che il personale dei laboratori si accorgesse della sostituzione. I laboratori procedettero a datare i frammenti, che non erano quelli della Sindone ma del tessuto medievale impiegato per lo scambio. Ma questo tessuto risultò un po’ troppo giovane rispetto alla data, circa il 1350, della comparsa della Sindone a Lirey. Se ne accorsero quando videro i risultati dei primi due laboratori che conclusero il lavoro, Arizona e Zurigo. (In realtà quei risultati, nell’insieme, si collocavano prima del 1350 e non creavano problemi, se si teneva conto di una anomalia nell’andamento della concentrazione di C14 nell’atmosfera durante quel secolo.) Per non correre il rischio di concludere con una data posteriore alla comparsa della Sindone nella storia, falsarono il risultato del terzo laboratorio, Oxford, spostando un po’ indietro la data. In questo modo, però, l’analisi statistica faticava a mettere d’accordo i risultati dei tre laboratori. Allora alterarono un dato numerico per il margine di errore, quello di Arizona, portandolo da 17 a 31 anni, rendendo così accettabile, sia pure al limite, l’analisi statistica. Per non creare sospetti, alterarono anche il corrispondente valore numerico per gli altri tre campioni di Arizona, quelli per gli altri tre tessuti, oltre alla Sindone, che venivano impiegati nell’esperimento (ci riferiamo, per il margine di errore, alla “deviazione standard” di una certa distribuzione che in pratica stima l’entità del possibile errore nel risultato).
Che dire di fronte a una simile trama da romanzo? Notiamo solo che gli altri sindonologi, salvo rare eccezioni, si astengono dall’avanzare accuse tanto pesanti. Nei suoi articoli, Brunati diceva esplicitamente che l’alterazione del dato numerico, da 17 a 31, era stata intenzionale. Ora, in questa lettera, sembra avere un atteggiamento più prudente e parla anche di un possibile errore involontario. D’altra parte, continua a ritenere che il campione che fu datato non provenisse dalla Sindone, formulando così un’accusa, quella di sostituzione del campione, che è ben più grave rispetto all’alterazione di un numero nell’analisi statistica.
Va anche detto che in effetti ci furono, nella vicenda della datazione, elementi tali da suscitare qualche perplessità, anche se certo non tali da giustificare lo scenario proposto da Brunati. È vero che all’epoca del prelievo ci fu una incredibile confusione nei dati che furono forniti per le dimensioni del campione, ma la responsabilità non va cercata presso i laboratori e comunque non c’erano indizi di una sostituzione del campione.
È anche vero che nel resoconto pubblicato su Nature non viene spiegato come sia stato trovato quel valore dei 31 anni per la stima del margine di errore, ma ciò non viene esplicitato per nessuno dei dodici risultati dei tre laboratori con i campioni dei quattro tessuti. Per gli altri due laboratori, si può constatare che quasi sempre i valori dichiarati, per quel dato numerico, si possono calcolare con un certo metodo a partire da dati parziali pubblicati nell’articolo nella Tabella 1. Brunati applica lo stesso calcolo per Arizona e trova un numero diverso, quel 17 al posto del 31. Questo significa solo che in quel laboratorio è stato usato un altro percorso, e infatti il calcolo di Brunati dà un risultato diverso, sempre inferiore, anche per i valori forniti da Arizona per i campioni degli altri tre tessuti.

Una differenza di procedura rispetto agli altri due laboratori si trova specificata su Nature. Per Arizona i dati di Tabella 1 non tengono ancora conto dell’incertezza nella correzione per il biofrazionamento, che invece è già inclusa per gli altri due laboratori. Però non sembrerebbe che questo fattore, da solo, abbia molta influenza. Non sappiamo se siano intervenuti altri fattori. Comunque il valore di 31, fornito da Arizona, non appare troppo grande se confrontato con i valori degli altri due laboratori per il campione della Sindone, che sono 24 e 30 anni.
Tuttavia c’è un aspetto che ci porta a spendere anche una parola in favore di Brunati e di qualche altro sindonologo che ha mosso critiche analoghe per quel dato numerico. Le polemiche su quel 31 vanno avanti da molto tempo. Non risulta, almeno per quanto appare nella letteratura sindonologica, che il laboratorio di Arizona sia mai intervenuto con una dichiarazione per fornire maggiori dettagli e far chiarezza sulla questione. È allora intuibile che possano sorgere sospetti, non dico sulla possibilità che ci siano state irregolarità gravi, ma anche solo che sia stata seguita una procedura un po’ stiracchiata nell’analisi statistica.
Forse nei calcoli si sono usati valori un po’ stretti per i margini di errore dichiarati, valori cioè che non tengono conto di tutte le possibili cause di errore. Piccoli errori sistematici sono ipotizzabili, e non sarebbero gravi, per qualcuna delle dodici misurazioni effettuate su altrettanti frammenti del tessuto della Sindone. Come Robert Hedges, del laboratorio di Oxford, ha scritto in seguito (Approfondimento Sindone, 1, 1997), gli errori sono forse stati sottostimati di 5 o 10 anni. Ampliando un po’ gli intervalli, si risolverebbero eventuali problemi di incompatibilità statistica fra i diversi singoli risultati ottenuti o fra i tre laboratori.
L’effetto finale sarebbe solo di allargare un po’ l’intervallo di fiducia, cioè la forbice entro cui collocare l’età della Sindone, e questo non avrebbe alcuna conseguenza sulla sostanza del risultato. Va ricordato che le dodici misurazioni effettuate, in totale, dai tre laboratori sui frammenti del lino della Sindone, rientrano nell’arco fra la seconda metà del Duecento e la prima metà del Trecento (trascurando apparenti date posteriori al 1350 che sono spiegabili, come si è detto, per una insolita variazione nel contenuto di C14 nell’atmosfera durante quel periodo). Partendo da tali dati, nessuna rielaborazione statistica (se non nei sogni dei sindonologi) potrebbe collocare la data di nascita del tessuto della Sindone al primo secolo dell’era cristiana.


Tratto da: Scienza & Paranormale N. 79


Gli “errori” del C14

Succede che i sindonologi cerchino di screditare il metodo di datazione al carbonio elencandone i presunti errori. Si tratta davvero di errori?

di Gian Marco Rinaldi    3 febbraio 2009

N.B.: nel testo i numeri indicati in apice si riferiscono alle note in calce, mentre quelli indicati tra parentesi quadre si riferiscono alla bibliografia [N.d.R.].


Da quando, nel 1988, tre laboratori del radiocarbonio (C14) datarono la Sindone al Medioevo, i sindonologi hanno tentato in tutti i modi di negare validità al risultato della datazione. Fra le altre strade, alcuni di loro hanno cercato di screditare il metodo stesso del C14 e hanno preteso di portare esempi di errori che nel corso degli anni sarebbero stati commessi. Abbiamo verificato alcune loro affermazioni.


 

Indice 1 Dalla foca ai coralli 2 La foca di McMurdo 3 Le conchiglie del Nevada 4 Il mammut di Chekurovka 5 I coralli di Barbados 6 Due mummie 6.1 La mummia 1770 di Manchester 6.2 La mummia dell’ibis 7 Un esperimento fantasma 8 Note 9 Bibliografia

Dalla foca ai coralli


In un libro del 2006, Pierluigi Baima Bollone scrive ([4], p. 258): «Sono ben noti non pochi casi di errore, come quello di alcune migliaia di anni per una pelliccia di mammuth, per alcuni coralli delle isole Barbados e per gusci di lumaca ancora vive e risultate invece antichissime». Frasi simili si trovano anche in altri suoi libri ([2], p. 196; [3], p. 133). Già nel 1990 ([1], p. 268) scriveva: «È stata enfatizzata la notizia che gusci di lumache ancora vive con questo metodo risultano vecchi di 26.000 anni, che una foca appena uccisa è risultata morta da 1300 anni e che una pelliccia di Mammut della presumibile età di 26.000 anni è risultata averne soltanto 5600». È da notare che in due di questi libri, ma non negli altri due, Baima Bollone aggiunge una precisazione in cui dimostra di sapere che non si tratta di errori.[1]
Le stesse notizie si trovano in un libro di Orazio Petrosillo ed Emanuela Marinelli ([5], p. 251): «La rivista scientifica Science riporta che alcuni gusci di lumache ancora vive al 14C apparvero vecchi di 26.000 anni. Il periodico di ricerche geo-biologiche delle terre polari Antarctic Journal rende noto che al 14C una foca appena uccisa risultò morta da 1300 anni. Su Radiocarbon si legge che una pelliccia di mammuth, vecchia di 26.000 anni, venne datata ad appena 5600 anni fa».
Così come vengono annunciati, con la datazione fuori bersaglio di migliaia di anni, questi sembrerebbero errori clamorosi. Proviamo ad analizzarli andando alle fonti originali.


La foca di McMurdo


Fu uccisa nel 1959 presso la base di McMurdo sul Mare di Ross, Antartide. Fu datata e diede una apparente età di 1300 anni. Chi ritenesse che sia un errore, mostrerebbe di non sapere che nelle acque degli oceani la concentrazione di C14 è inferiore rispetto all’atmosfera. Le foche mangiano pesci ed è scontato che nel loro corpo la concentrazione di C14 sia inferiore rispetto ad animali che si nutrono di vegetali o di animali terrestri. Ovviamente quella datazione non fu fatta per determinare l’età della foca, che era ben nota in quanto appena uccisa, ma come parte di un vasto progetto per misurare appunto il C14 degli oceani. Negli anni 1950, essendo divenuta disponibile la radiodatazione, furono avviati vasti progetti con navi che giravano i mari del mondo a tutte le latitudini per misurare il contenuto di C14 sia nell’acqua a varie profondità sia negli organismi marini. Le conoscenze acquisite erano importanti non solo per permettere di apportare le correzioni alle datazioni per gli organismi marini, ma anche per studiare il ciclo del carbonio negli scambi fra oceani e atmosfera. Risultò che mediamente, per le acque di superficie degli oceani, lo scarto per l’età apparente è di circa 400 anni. Si riduce a 300 per i mari caldi. È invece maggiore per i mari freddi. Nell’emisfero nord, si arriva a scarti di circa 700 anni sulle coste dell’Alaska, mentre nell’emisfero sud si hanno le differenze massime, che arrivano a oltre mille anni sulle coste dell’Antartide. Questo risultato fu interessante perché mostrò che attorno all’Antartide c’è un’ingente risalita di acque profonde che sono più povere di C14. La datazione della foca era comunicata in un resoconto (Radiocarbon 3, 1961, pp. 176-204) che comprendeva misurazioni effettuate su 230 campioni ed era l’ottavo di una serie. Si trattava di un vasto progetto mirante a campionare tutti i mari del pianeta. Ovviamente lo scopo non era quello di “datare” i campioni. Come è scritto all’inizio dell’articolo: «Questo elenco contiene solo risultati su campioni di età nota (per lo più formatisi durante gli ultimi dieci anni). Le misurazioni furono fatte principalmente per ottenere una comprensione della distribuzione del radiocarbonio entro la riserva dinamica del carbonio». Per tutti gli altri campioni esaminati nell’articolo, vengono riportati dati relativi alla distribuzione isotopica senza tradurli in un inutile dato di età apparente. Solo per questa foca, come commento supplementare, viene fatto notare quanto sarebbe forte la variazione nell’età apparente in base al basso livello di C14 osservato. Ecco allora che viene nominato quel 1300 che ha impressionato i sindonologi: «La bassa concentrazione di C14 in queste acque produce un’apparente età radiocarbonica di 1300 anni per gli organismi marini che vivono in questa area». Quindi non si stavano commettendo errori, come credono i sindonologi. Si stava facendo una interessante ricerca e si raccoglievano utili dati. Non c’è bisogno di aggiungere che il problema non riguarda il lino della Sindone che non ha preso il carbonio dai mari.
I testi dei sindonologi parlano solo di quella particolare foca, come se solo quella volta fosse stato commesso un errore. In realtà tutte le foche del mondo danno misurazioni più o meno “sbagliate” per gli stessi motivi.


Le conchiglie del Nevada


La fonte della notizia dovrebbe essere un articolo pubblicato su Science (224, 6 aprile 1984, pp. 58-61). Si riferisce a molluschi della specie Melanoides tuberculatus, che sono belle piccole conchiglie a forma di cono sottile che si avvolge a elica. Quei campioni furono presi in sorgenti artesiane nel Nevada meridionale. In una sorgente artesiana, l’acqua di una falda, costretta sotto pressione fra strati di roccia impermeabili, riesce a filtrare attraverso fessure nella roccia. Passando attraverso calcari o altre rocce, l’acqua può assorbire carbonio nella forma di ione bicarbonato, e a loro volta le conchiglie possono inglobare questo carbonio. Il carbonio minerale è privo dell’isotopo 14, quindi una conchiglia contenente carbonio proveniente dalle rocce avrà un’apparente età più antica del reale. In quel caso, in condizioni particolari, fra i vari campioni misurati si arrivò a un caso limite con una età apparente di 27.000 anni (i sindonologi parlano di 26.000 anni, probabilmente per un errore fatto da uno di loro da cui gli altri hanno copiato).


Il mammut di Chekurovka


Qui un mammut dell’età di 26.000 anni sarebbe stato datato a soli 5600 anni, quasi fosse un superstite di una specie ormai estinta. C’è una spiegazione ovvia come nei casi precedenti? No, non c’è spiegazione e non serve. Semplicemente, controllando l’articolo originale (Radiocarbon 8, 1966, pp. 292-323) si trova che non è vero che quel mammut sia mai stato datato a 5600 anni. Si tratta di una giovane femmina di mammut che fu trovata nel 1960 presso la località di Chekurovka, nel delta del fiume siberiano Lena che sfocia nel Mar Glaciale Artico. Fu datato un campione di pelliccia prelevato sulla carcassa a un metro e mezzo di profondità sotto la superficie del terreno. L’età risultò di circa 26.000 anni (parliamo di età non calibrata perché all’epoca non era ancora possibile calibrare per età così antiche). Fu anche datato un campione di torba prelevato nello stesso sito ma a un metro di profondità, cioè mezzo metro al di sopra della carcassa del mammut. L’età risultò di circa 5600 anni. Non c’è nessuna contraddizione. La torba (vegetale carbonizzato) non deve necessariamente essersi formata alla stessa epoca della morte del mammut. Fra l’altro, la torba si trovava in un sottile strato di 15 cm, sopra e sotto il quale c’erano strati di argilla. Quindi la torba era in uno strato ben separato da quello dove giaceva il mammut.


I coralli di Barbados


Qui il travisamento è tale che un importante progresso scientifico viene spacciato come se fosse un errore. Occorre una premessa per spiegare che cosa si intende per “calibrazione” nella pratica del radiocarbonio. Una volta misurata la percentuale dell’isotopo 14 nel carbonio del campione, si calcola dapprima l’età teorica nell’ipotesi che il contenuto di C14 nell’atmosfera non sia variato nel corso delle epoche passate. Poi bisogna apportare una correzione per tener conto che in realtà il contenuto di C14 può essere variato. Questa correzione si chiama in gergo “calibrazione”. Per conoscerne l’entità, e per costruire la curva di calibrazione, occorre conoscere quale fosse il contenuto di C14 nell’atmosfera nelle varie epoche. Questa informazione è stata dapprima desunta dallo studio degli anelli di accrescimento di vecchi alberi. Però con gli alberi si poteva andare indietro nel tempo fin quasi a 10.000 anni, non di più. Dato che il metodo del C14 potrebbe funzionare fino a età di circa 50.000 anni, rimaneva un ampio arco di tempo per il quale un’età non poteva venire calibrata ed era stimabile solo in modo approssimativo. Poi nel 1990 successe che alcuni ricercatori di un istituto geologico americano riuscirono d’un colpo a estendere la curva di calibrazione da 10.000 a 30.000 anni (poi si sarebbe arrivati anche oltre). Lavorarono su campioni di corallo confrontando le datazioni ottenute con due metodi, quello del C14 e quello dell’Uranio-Torio. Questi studi sono importanti non solo perché permettono la calibrazione di date più antiche, ma perché accrescono le nostre conoscenze sulla storia del pianeta e sui processi che vi si sono svolti nei millenni passati. Infatti il contenuto di C14 nell’atmosfera dipende da vari fattori quali l’attività solare, la conformazione del campo magnetico terrestre, il clima del pianeta. Con i nuovi risultati si vide che andando indietro nel tempo, il contenuto di C14 nell’atmosfera continua ad aumentare fino a circa 20.000 anni fa, quando raggiunge un valore del 40 per cento più elevato di quello attuale. Quindi anche la correzione da apportare per la calibrazione arriva a un massimo per una età di circa 20.000 anni, dove la correzione è di 3500 anni circa. Questo importante successo viene scambiato per un errore da Baima Bollone, che già nel libro del 1990 ([1], p. 268) scriveva: «Durante la stesura di questo capitolo, la rivista scientifica Nature, la medesima che, come vedremo, nel 1989 annuncia al mondo il risultato della datazione della Sindone col radiocarbonio, pubblica un articolo inquietante. L’Osservatorio Geologico della Columbia University di New York ha accertato che, per epoche precedenti ai 9000 anni radiocarbonici, coralli delle isole Barbados risultano di 3500-20.000 anni più giovani della reale età calcolata con un altro metodo di radiodatazione, quello dell’Uranio-Torio».
Abbiamo visto che la discrepanza raggiunge un massimo di 3500 anni per reperti vecchi di 20.000 anni. Come trova Baima Bollone una differenza che va da 3500 a 20.000 anni? Con un madornale errore di traduzione che è indicativo di quale sia la sua comprensione della materia. Lo si vede confrontando la sua frase con questa frase dal riassunto in testa all’articolo di Nature (345, 1990, pp. 405-10): «Before 9,000 yr BP the 14C ages are systematically younger than the U-Th ages, with a maximum difference of ~3,500 yr at ~20,000 yr BP». Significa che se ci spingiamo indietro a età più antiche di 9000 anni (cioè oltre il limite della calibrazione tradizionale), le età (non calibrate) calcolate col C14 sono più giovani delle età calcolate con l’Uranio-Torio, con una differenza massima di 3500 anni per un’età di 20.000 anni (il BP si riferisce a una scala temporale usata per il radiocarbonio e qui ci basta sapere che sta per “before present”, prima del presente). Torniamo ora a vedere come Baima Bollone traduce questa frase. Ignora quel “BP” e non si rende conto che “20,000 yr BP” si riferisce a una età, non a un errore o differenza fra due età. Poi le parole “of 3,500 yr at 20,000 yr” vengono intese come se quel “at” fosse un “to”, producendo un “da 3500 a 20.000 anni”. In seguito Baima Bollone non si è accorto dell’equivoco e ha continuato a citare i coralli di Barbados anche in libri del 2000 e del 2006. È inutile precisare che quei 3500 anni non sono un “errore” di datazione. Lo sarebbero se non si tenesse conto della variazione nella concentrazione di C14, ma appunto quegli studi servivano per conoscere tale variazione e per tenerne conto con la calibrazione. Quello studio pubblicato nel 1990 usava coralli provenienti dall’isola Barbados, ma potevano essere usati, e furono usati, coralli di altra provenienza. Baima Bollone cita sempre i coralli di Barbados, come se fosse stato commesso un errore solo in un particolare caso. Già che parliamo di traduzioni, notiamo che Baima Bollone non riesce nemmeno a tradurre la denominazione del metodo di radiodatazione oggi comunemente usato e che fu già usato anche per la Sindone, cioè del metodo che lui critica. Il metodo è di solito indicato con la sigla AMS, che sta per “Accelerator Mass Spectrometry”, ovvero, in traduzione letterale, “Spettrometria di massa con acceleratore”. Lo strumento è uno spettrometro di massa al quale è abbinato un acceleratore di ioni di tipo particolare. Nel suo ultimo libro del 2006, Baima Bollone traduce “spettrometria con l’accelerazione a massa”. Una simile combinazione di parole è un assurdo per chi conosca un minimo di fisica. Intanto scompare la spettrometria di massa, che è alla base del metodo di datazione. Poi c’è quell’espressione, “accelerazione a massa”, che non ha alcun significato. In altri quattro suoi libri precedenti che ho consultato, partendo dal 1990, Baima Bollone non indovina mai una traduzione corretta e usa “spettrometria con l’acceleratore di massa” o “spettrometria all’acceleratore di massa”, frasi quasi altrettanto assurde.


Due mummie



I sindonologi citano spesso i casi di due mummie come esempi di tessuti antichi che possono dare al C14 una età più giovane di quella reale.



La mummia 1770 di Manchester


È la mummia di una ragazzina, catalogata col numero 1770 al Museo di Manchester. Fu intensamente studiata negli anni 1970 da un gruppo di esperti sotto la guida della giovane egittologa Rosalie David. Corpo e bende furono datati e risultò una forte discrepanza. Come scrive per esempio Baima Bollone ([3], p. 135): «La letteratura specializzata indica un esempio singolare di incongrua radiodatazione di un manufatto tessile. Si tratta della Mummia 1770 del museo di Manchester, le cui bende alla prova con il radiocarbonio risultano di circa 1000 anni più recenti dello scheletro». Analogamente nel libro di Petrosillo e Marinelli ([5], p. 250-51): «Una mummia egiziana conservata nel museo di Manchester ha fornito date diverse per le ossa e le bende. Queste ultime sono risultate 800-1000 anni più “giovani” delle ossa». La storia delle datazioni di questa mummia è piuttosto accidentata. Infatti è stata datata da ben quattro laboratori con risultati incostanti. I sindonologi si sono limitati di solito a riferire soltanto i risultati della prima datazione. Qui seguiremo tutta la storia.[2] Come premessa, va detto che la datazione delle antiche mummie presenta problemi per il rischio di inquinamenti. Nella pratica dell’imbalsamazione potevano essere usati materiali bituminosi (catrame) contenenti carbonio fossile. Inoltre col passare dei millenni la mummia può subire decomposizioni e contaminazioni. Per trovare materiale meno inquinato si cerca in genere di estrarre e purificare collagene dall’interno di un osso. Stilisticamente, la mummia 1770 era databile al periodo Tolemaico (330-30 a.C.). Il corpo era in cattivo stato di conservazione. I prelievi dal corpo e dalle bende furono fatti nel 1975 quando la mummia fu spogliata e fu sottoposta a una sorta di autopsia. La prima datazione fu condotta in un laboratorio di chimica presso la stessa università di Manchester. I risultati furono pubblicati nel 1979. È vero che in quella prima datazione risultò una forte discrepanza di circa mille anni: 770 a.C. per il corpo della mummia e 380 d.C. per le bende. Sul sito della rivista Radiocarbon c’è l’elenco di tutti i laboratori per la radiodatazione, sia presenti che passati, cioè dei laboratori di riconosciuta competenza. Il laboratorio di Manchester non si trova nell’elenco, quindi non è da considerare affidabile come i laboratori riconosciuti. Probabilmente per la mummia ci furono degli inconvenienti dovuti alla mancanza di esperienza del laboratorio e i risultati non sono attendibili. Fra l’altro, le date sia del corpo che delle bende cadevano al di fuori del periodo stimato stilisticamente.
Poi nel 1980 furono forniti campioni per una nuova datazione al British Museum di Londra. Nel resoconto pubblicato (Radiocarbon 24/3, 1982, pp. 262-90) si legge (p. 275) che «il collagene estratto dal femore era in cattivo stato di conservazione e può essere stato contaminato con materiale più vecchio o più giovane», confermando le difficoltà per questo tipo di reperto. Lo scarto fra corpo e benda fu ridotto a 340 anni, ancora con la benda più giovane. Qualche anno più tardi, nel 1987, il British Museum dovette comunicare che tutte le datazioni, diverse centinaia, eseguite nel periodo 1980-84, incluse le due della mummia, erano andate soggette a un errore sistematico a causa di un difetto nella strumentazione. Si cercò di stimare la correzione da apportare, in genere di due o tre secoli, ciò che riuscì per una parte dei campioni ma non per tutti. La correzione fu apportata per il campione di benda della mummia, non per il campione di osso che rimase senza datazione.[3] Altri campioni della mummia furono forniti al laboratorio di La Jolla, California. Questo laboratorio era in fase di smantellamento e avrebbe cessato l’attività nell’estate 1982. Datò un campione del corpo e due delle bende. I risultati divennero ulteriormente confusi perché una benda risultò leggermente più giovane del corpo ma un’altra risultò molto più vecchia. Infine nel 2001 due campioni furono dati al laboratorio di Oxford, dove fu impiegato il metodo AMS mentre le altre datazioni erano state fatte col metodo tradizionale. Oxford trovò che il campione di osso era in un pessimo stato di conservazione, tanto da non poterne estrarre il collagene, e rinunciò a datarlo limitandosi a datare la benda. Lasciando da parte i risultati del laboratorio di Manchester, da considerare non attendibili, il quadro dei risultati degli altri tre laboratori è il seguente. L’unico campione del corpo, quello di La Jolla, fu datato al IV-III secolo a.C. Questo era un campione preso dalla pelle della mummia e quindi in teoria più esposto a inquinamento rispetto agli altri campioni che erano stati presi da pezzi di osso. I campioni di tre delle quattro bende, datati nei tre diversi laboratori, diedero risultati concordanti al II-I secolo a.C., ossia nel periodo Tolemaico in accordo con le considerazioni stilistiche. Risultarono così più giovani, di non più di due secoli, rispetto al campione della pelle del corpo. Un’altra benda fu datata a La Jolla e risultò molto più antica, XII-XI secolo a.C. Si può dare questa interpretazione. La benda risultata più antica poteva essere di un tessuto già vecchio riutilizzato all’epoca dell’imbalsamazione. Per le tre bende risultate un po’ più recenti rispetto al corpo della mummia, si può supporre che la mummia venisse sottoposta a una nuova fasciatura un secolo o due dopo quella originaria. Questa eventualità non è da scartare in quanto poteva succedere che una mummia mostrasse segni di decomposizione, dopo un certo tempo, e allora venisse sottoposta a una nuova fasciatura da parte di chi l’aveva in custodia. Nel caso della 1770, sembra che dallo stato della mummia ci siano motivi per pensare che al momento dell’ultima fasciatura il corpo fosse già in cattivo stato di conservazione e non fosse morto di recente. In alternativa si può anche supporre che quell’unico campione del corpo, datato a La Jolla, fosse inquinato con materiale bituminoso col risultato di una età apparente un po’ più antica di quella reale. Nel complesso, e tenuto conto dei problemi che si incontrano nella datazione delle mummie, il quadro è abbastanza plausibile.


La mummia dell’ibis

Questa ricostruzione in cera del volto della mummia 1770 è esposta al Museo di Manchester

La mummia 1770 è famosa presso i sindonologi perché la sua storia si incrocia con quella di Leoncio Garza-Valdes, un medico di San Antonio, Texas, che ha proposto una sua teoria, molto di moda per anni, per negare il risultato della datazione del 1988. Il lino della Sindone avrebbe un “rivestimento bioplastico” prodotto da microrganismi. Il rivestimento non verrebbe eliminato dai normali procedimenti di pulizia usati dai laboratori del C14 e quindi avrebbe falsato la datazione. Non possiamo occuparcene qui, ma basti dire che secondo Garza-Valdes oltre il sessanta per cento dell’attuale lenzuolo è costituito dal rivestimento, come dire che la plastica è il doppio del lino. I fili della Sindone sono stati esaminati a tutti gli ingrandimenti, anche col microscopio elettronico, ma mai nessuno, se non lui, ha visto il rivestimento bioplastico. Nel 1995 Garza-Valdes seppe della discrepanza nella datazione di corpo e bende della mummia 1770 e si mise in contatto con Rosalie David a Manchester. Si convinse che anche le bende della mummia risultavano più giovani perché ricoperte dalla bioplastica. Garza-Valdes aveva comprato la mummia di un ibis, uccello sacro per gli egizi. Anche sulle bende dell’ibis trovò naturalmente la bioplastica. In collaborazione con la David, fece datare corpo e bende dell’ibis. A quanto sembra, anche questa mummia era stilisticamente databile al periodo Tolemaico. Dalla datazione al C14 risultò che le bende erano infatti del periodo Tolemaico, mentre il corpo era di cinque secoli più vecchio. Per una volta, i sindonologi riportano correttamente questo dato. Però non c’è motivo di dare la colpa a un (inesistente) rivestimento bioplastico. Probabilmente la causa della discrepanza non era nelle bende ma nel corpo della mummia. Forse il campione era inquinato di carbonio fossile. Inoltre bisogna considerare che non fu felice la scelta dell’ibis come animale. Infatti l’ibis è tipicamente un uccello acquatico e si nutre di pesci o molluschi che potrebbero avere un contenuto ridotto di carbonio 14.


Un esperimento fantasma


Per provare la sua teoria, Garza-Valdes intendeva sottoporre le bende, per questo ibis come per la mummia di un gatto e per la stessa 1770, a un metodo di pulizia di sua invenzione che avrebbe separato il lino dal rivestimento bioplastico, per poi datare il lino senza l’inquinante. Contava così di trovare per le bende la stessa età del corpo della mummia. Non risulta che il tentativo sia mai stato condotto con successo. Analogo tentativo di purificazione era stato fatto da Garza-Valdes nel 1994 addirittura su un non piccolo campione del tessuto della Sindone, che Giovanni Riggi di Numana gli aveva portato a San Antonio senza il permesso e all’insaputa dell’allora vescovo di Torino. Quella volta l’esperimento fallì per un imperdonabile sbaglio durante le procedure di pulizia del campione. Se ci fosse stato del vero nella teoria di Garza-Valdes, la cosa sarebbe stata di grande interesse e avrebbe avuto importanti ripercussioni nel campo della datazione archeologica e non solo. Sono passati parecchi anni da quei tentativi con le mummie ma nessuno ne parla più. In realtà qualcuno ne parla. È Emanuela Marinelli che dà come avvenuto che Garza-Valdes abbia ripulito le bende della mummia 1770, che per lei datavano a mille anni più giovani del corpo, e le abbia poi ridatate trovando la stessa età del corpo. Ecco quanto scriveva nel 1998 ([5], p. 251): «Un interessante esperimento è stato condotto nell’Istituto di Microbiologia dell’Università di San Antonio (Texas) da Leoncio Garza-Valdes, il quale ha trattato un campione delle bende di quella mummia [la 1770] con uno speciale preparato enzimatico; questo rimuove il rivestimento batterico che copre i fili come una patina. Datando la stoffa dopo la pulizia speciale si è ottenuta la stessa età del cadavere». L’affermazione è ancora oggi contenuta sul sito di Collegamento pro Sindone, di cui la Marinelli è la principale esponente (www.shroud.it/studi.htm). La Marinelli raccontava la stessa storia sul Supplemento del Bollettino Salesiano nel 2000 e ne traeva questa conclusione: «La datazione radiocarbonica della Sindone perde dunque ogni valore e non esistono obiezioni all’autenticità della preziosa reliquia».
La notizia di un simile esperimento sarebbe davvero interessante, se fosse vera. Non mi risulta che sia vera, ma la Marinelli potrà provarla indicando dove si trova pubblicato il relativo resoconto di Garza-Valdes. In caso contrario, sarà utile se toglierà la notizia dal suo sito e informerà i lettori che si era sbagliata.

Gian Marco Rinaldi

Note

1) Nei primi due di questi suoi libri, del 1990 ([1], p. 268-69) e del 1997 (2, p. 197), Baima Bollone, dopo avere citato lumache, foca e mammut, scrive: «Questi risultati sono spiegabili, e pertanto non devono essere criminalizzati. Per rimanere in ambito di gusci di conchiglie, l’assurdo “invecchiamento” è ben conosciuto. I carbonati delle acque profonde possono avere un’età di diverse migliaia di anni a causa della loro lunghissima permanenza nell’ambiente. Le conchiglie che li assumono hanno un’apparente età anche di circa 400 anni per le latitudini intorno all’equatore, che arriva fino a valori dell’ordine di migliaia di anni per le acque oceaniche delle regioni nordiche, più vicine al polo. Pertanto, più che un risultato aberrante si tratta di una datazione coerente con la teoria del 14C, e che quindi conferma indirettamente la validità del metodo». ([2], p. 197) Qui l’autore fa una notevole confusione perché mette negli oceani le conchiglie di acqua dolce, comunque sembra aver capito che non si tratta di errori. Però nei successivi due libri, del 2000 e 2006, omette questa precisazione e lascia credere che di errori si tratti.
In una intervista rilasciata al giornalista Stefano Lorenzetto, apparsa sul Giornale e poi in un libro di Lorenzetto (Italiani per bene, 2002), Baima Bollone, a proposito della datazione del 1988, ripete: «Era la seconda volta al mondo che la radiodatazione al carbonio 14 veniva eseguita su di un tessuto. Quindi un metodo per nulla collaudato. È capitato che il carbonio 14 datasse come vecchi di 20000 anni gusci di lumache vive». Qui chiaramente porta le lumache come esempio per screditare il C14.

2) Ringrazio la dottoressa Jenefer Cockitt dell’Università di Manchester per le informazioni fornite sulle datazioni della mummia 1770 (commenti e interpretazioni sono solo miei).

3) I sindonologi si sono adoperati a cercare errori del C14 dove non ce n’erano, ma non si sono accorti, almeno in Italia, di questo grave smacco del British Museum. La notizia sarebbe stata anche più allettante per loro perché a coordinare i lavori del laboratorio del British Museum c’era quel Michael Tite che poi fu il coordinatore della datazione della Sindone.

Bibliografia


1) P. Baima Bollone: Sindone o no, 1990
2) P. Baima Bollone: Sepoltura del Messia e Sudario di Oviedo, 1997
3) P. Baima Bollone: Sindone: 101 domande e risposte, 2000
4) P. Baima Bollone: Il mistero della Sindone, 2006
5) O. Petrosillo, E. Marinelli: La Sindone: Storia di un enigma, 1998 (terza edizione).


Tratto da: Scienza & Paranormale N. 81


L’uomo che salvò la Sindone

di Gian Marco Rinaldi                                          14 agosto 2002

La pubblicazione dei lavori di Kuznetsov nel 1994-96, su autorevoli riviste scientifiche, liberò l’entusiasmo dei fautori della Sindone, i quali pensarono di disporre finalmente di un valido motivo per rifiutare il responso medievale del test del radiocarbonio. Vediamo qualche esempio di come la buona nuova fu propagandata in Italia.

L’esperimento della simulazione d’incendio venne annunciato in anteprima su Sette (supplemento al Corriere della Sera del 17 novembre 1994), col titolo “Sindone, e adesso il caso è riaperto”. Vi si leggeva: “Con la collaborazione di un sindonologo italiano, Mario Moroni, Kouznetsov ha preso un lino del primo secolo proveniente da En Gedi, in Israele. Per la “datazione” col C14 si è poi rivolto proprio a uno dei tre laboratori dell’88, quello di Tucson, Arizona. “Un periodo compreso fra il 100 a.C. e il 100 d.C.”, è stata la risposta. Quindi, Kouznetsov ha sottoposto il lino a un incendio identico a quello che la Sindone subì il 4 dicembre 1532 a Chambéry. … E infatti, dopo l’esperimento di Kouznetsov, il lino di En Gedi è stato nuovamente datato con il sistema del C14. E, a causa della presenza di argento fuso, è risultato più “giovane” proprio di tredici secoli”.

Si vede che qui viene introdotto un equivoco che sarà poi altre volte ripetuto dai sindonologi: si fa credere che Kuznetsov, per il suo esperimento, abbia fatto eseguire la datazione presso il laboratorio di Tucson. In realtà, non solo gli scienziati di Tucson non hanno collaborato con lui, ma hanno espresso aspre critiche contro il suo lavoro (Tucson aveva sì datato un campione dalla stessa partita di tessuto, ma in un contesto del tutto indipendente dai lavori di Kuznetsov).

Secondo la sindonologa Emanuela Marinelli, intervistata nell’articolo di Sette: “L’esame di Kouznetsov non dimostra che la Sindone sia autentica, ma distrugge in modo inconfutabile quella che era stata spacciata come la prova definitiva della sua falsità”.

In una “guida” alla Sindone diffusa dalle edizioni San Paolo nel 1997, in vista dell’ostensione, Lamberto Schiatti scriveva: “Lo scienziato russo Dimitri Kouznetsov ha dimostrato sperimentalmente che l’incendio di Chambéry ha modificato la quantità di carbonio radioattivo facendo risultare più giovane il tessuto”.

Vittorio Messori, assai noto giornalista e scrittore cattolico, interveniva sul Corriere della Sera del 13 aprile 1997 (all’epoca dell’incendio della Cappella del Guarini): “Nessuno, oggi, cita più quei test [del 1988], che sono contraddetti da centinaia di altri scienziati. Pensate che è stato proprio un fisico russo ex-comunista, già insignito del premio Lenin – parlo di Dimitri Kouznetsov – a dimostrare che un telo sottoposto a un grande calore, quale quello che la Sindone subì durante l’incendio di Chambéry nel 1532, quando fu aggredita dalle fiamme mentre era chiusa in una cassa d’argento, si arricchisce di carbonio, risultando più “giovane””.

Mario Cappi, in un libro pubblicato dall’editrice Messaggero di S. Antonio nel 1997, dice che Kouznetsov e Ivanov, al congresso di Roma nel 1993, presentano una relazione che è “la prova scientifica che il metodo usato dai laboratori di Oxford, Tucson e Zurigo è sbagliato”. Spiega poi che: “A smascherare, spiegare l’errore in cui erano caduti i tre laboratori non è un cattolico, proteso a cercare nel telo di Torino qualche traccia del Divino, ma è uno scienziato insignito delle onorificenze concesse dal regime sovietico, un “premio Lenin”: il professor Dimitri Kouznetsov”.

La rivista Il Messaggero di S. Antonio (febbraio 1998 nell’edizione inglese) ha un’intervista alla sindonologa Maria Grazia Siliato. Alla domanda su come si possa rifiutare il risultato della datazione, la Siliato risponde: “[Il risultato] è stato smentito dalla stessa scienza, in particolare da uno scienziato russo, Dimitri Kuznetsov, insignito del premio Lenin. Lui non aveva idea di che cosa la Sindone rappresentasse, ma è uno dei massimi esperti mondiali nella datazione di tessuti”. Segue il solito racconto e alla fine la Siliato conclude con un’acuta osservazione: “Chissà di quanto è ulteriormente ringiovanita la Sindone dopo l’ultimo incendio del 1997”!

Con la disavventura della sua carcerazione, nel 1998, il prestigio internazionale di Kuznetsov presso i sindonologi fu messo a dura prova, ma in Italia si è continuato a lodarlo. Ecco il teologo domenicano Padre Giovanni Cavalcoli, sulla rivista 21mo secolo – Scienza e Tecnologia (n. 3, 2000): “Riguardo alla datazione del tessuto sono state effettuate analisi con il metodo del radiocarbonio (14C) che hanno fornito dati interpretati in modo contraddittorio da diversi gruppi di ricerca. Alcuni valutano che il telo si possa datare tra il 1260 e il 1390. Altri, come Dimitri Kouznetsov, premio Lenin per la scienza, ritengono che gli eventi storici che hanno interessato il telo della Sindone possano averne alterato il contenuto di 14C provocandone un apparente ringiovanimento”.

Pier Giuseppe Accornero, sacerdote e giornalista, ripete la solita storia in un libro delle edizioni Paoline uscito nel 2000: “Dal 1988 a oggi numerosi ricercatori hanno confutato le conclusioni del C14. Fra gli altri il russo Dimitri Kouznetsov, “Premio Lenin per la scienza” e ricercatore del laboratorio fisico-chimico di Mosca, individua l’errore commesso dai carbonisti. Nel 1994 invia a Tucson un lino del secolo I dopo Cristo rinvenuto a En Gedi in Israele chiedendo di datarlo con lo stesso procedimento usato per il sudario. Tucson conferma: risale al secolo I. Kouznetsov sottopone il lino agli effetti di un incendio come quello di Chambéry. L’alta temperatura fa fondere il metallo della cassetta d’argento, produce effetti tali da arricchire di carbonio la stoffa e “ringiovanisce” la tela. Difatti il successivo esame del C14 attribuisce al lino di En Gedi un’età più giovane di 1300 anni”.

I sindonologi citano spesso l’onorificenza del premio Lenin, ma dimenticano sempre di darne la denominazione completa. Lo stesso Kuznetsov non ha mai nascosto che si tratta del “Lenin Komsomol”, cioè di un premio riservato ai membri dell’organizzazione giovanile del Partito comunista sovietico.

Infine, in una trasmissione televisiva su RaiTre, il 13 agosto 2000, nei giorni dell’ultima ostensione, il commento recita: “Lo studioso russo Dimitri Kuznetsov riapre la questione. Il C14, dice, ha dato uno pseudorisultato perché le alte temperature della Sindone nel 1532 hanno arricchito le fibre proprio di carbonio 14, ringiovanendo il lenzuolo. Quel lino può avere benissimo duemila anni, dunque”. Tratto da: Scienza & Paranormale N. 43


Dossier Kouznetsov

I risultati e i documenti di una clamorosa indagine

di Gian Marco Rinaldi        24 agosto 2002

Indice

1 Premessa

2 La biblioteca che non c’è

2.1 Evidenza di frode scientifica

2.2 Affiliazione

2.3 Finanziatori

2.4 Consulenti

2.5 Pubblicazione

3 I palazzi invisibili

3.1 Evidenza di frode scientifica

3.2 I musei

3.3 Affiliazione

3.4 Finanziatori

3.5 Consulenze

3.6 Pubblicazioni

4 Fantasmi irlandesi

4.1 Evidenza di frode scientifica

4.2 I campioni

4.3 I donatori

4.4 Le sepolture

4.5 Altri contributi

4.6 Una conferma dal National Museum of Ireland

4.7 Un articolo dalla Georgia

4.8 Affiliazione

4.9 Finanziatori

4.10 Consulenti

4.11 Pubblicazione

5 Ringraziamenti

6 Note

Premessa


Presento qui i risultati dell’indagine che ho condotto su presunti casi di frode in resoconti sperimentali pubblicati dal biochimico Dmitry Kuznetsov. Sarà sempre sottinteso, parlando di una possibile frode, che ci riferiamo esclusivamente a quella che viene definita come “frode scientifica”, cioè a un comportamento che, salvo eccezioni, non è passibile di conseguenze penali.[1]

Il dossier è diviso in tre parti, dove sono rispettivamente trattati un articolo del 1989, un gruppo di articoli del 1994-96 e un articolo del 2000.

Per la prima parte, la frode era già stata evidenziata da Larhammar; ho aggiunto qualche dettaglio. Per la seconda e la terza parte, l’evidenza è qui presentata per la prima volta, anche se, come vedremo, per un episodio (Protvino) la frode era stata adombrata, ma non espressa dichiaratamente, da Timothy Jull e colleghi nel 1996. Tutte le informazioni, dove non specificato altrimenti, sono state raccolte mediante corrispondenza scambiata fra la fine del 2000 e l’inizio del 2002 (per la maggior parte, entro i primi mesi del 2001). Sono indicati i nomi di tutte le persone che hanno collaborato.

Gli indizi di frode si basano su prove di tipo negativo, cioè sulla non esistenza, per esempio, di riviste scientifiche o di persone o di istituzioni. Come si sa, è difficile fornire prove in negativo. Ho fatto il possibile per raggiungere un livello ragionevole di evidenza, ma va tenuto conto che, prima di arrivare a una sentenza definitiva, occorre sentire che cosa ha da dire Kuznetsov in sua difesa.

Nel 2000, per un breve periodo, fui in corrispondenza per lettera con Kuznetsov. Quando cominciai a comunicargli i miei primi sospetti e a chiedere spiegazioni, lui non si fece più vivo. Non ha mai risposto alle lettere che continuai a inviargli nel corso di alcuni mesi, man mano che scoprivo nuovi indizi. Spero che vorrà uscire dal silenzio e, naturalmente, questa rivista ospiterà una sua eventuale replica.

Le accuse qui formulate sono molto serie, tali che, se dimostrate vere, sarebbero compromettenti per una eventuale prosecuzione di una carriera scientifica per Kuznetsov. Non temiamo di procurargli alcun danno ingiustificato. Infatti, nel caso che le accuse siano infondate, sarà facilissimo per lui dimostrarle tali. Potrà sempre far pervenire una smentita e gli sarà sufficiente, per esempio, produrre fotocopie della prima pagina di certi articoli, o fornire gli indirizzi (completi) di certe persone o certe istituzioni, in modo che se ne possa verificare l’esistenza.

Gli articoli del 1994-96 sono firmati anche da altri due autori, Andrey A. Ivanov e Pavel R. Veletsky. Non sono riuscito a mettermi in contatto con loro. Il primo nome, in tutti gli articoli, è sempre quello di Kuznetsov e quindi nel seguito, per semplicità, faccio riferimento soltanto a lui, ma è implicito che gli altri autori condividono le eventuali responsabilità.

Oltre all’evidenza di frode, ho considerato, per ciascuna delle tre parti, i dati forniti da Kuznetsov per la sua affiliazione, per i finanziatori e per i consulenti. Anche qui si trovano dati falsi o ambigui.

Ho poi cercato di capire come egli sia riuscito ad avere simili articoli pubblicati su riviste scientifiche di primario livello. A parte un paio di casi, non ho potuto far luce sui retroscena delle vicende editoriali, che come regola sono coperte da riservatezza.

Ho esaminato solo una frazione dei lavori pubblicati da Kuznetsov. Egli ha avuto due carriere come scienziato, prima come biologo, specializzato in neurotossicologia, poi come esperto di chimica archeologica, specializzato in antichi tessuti. Come biologo ha pubblicato una trentina di articoli di ricerca in inglese su riviste qualificate, oltre a numerosi altri in russo. Solo uno degli articoli viene qui ripreso in considerazione (nella prima parte), e del resto è l’unico che si distingue per la pretesa di portare prove a favore del creazionismo. Come chimico archeologico ha pubblicato una decina di articoli di ricerca in inglese, tutti considerati qui (seconda e terza parte).

Parallelamente, Kuznetsov si è cimentato in due campi, per così dire, di scienza non convenzionale, prima come attivo creazionista e poi, solo in certa misura, come sindonologo. Non ho preso in considerazione i lavori pubblicati sulle riviste dei creazionisti né le poche cose apparse su quelle dei sindonologi. Si è anche occupato di filosofia della scienza e ha pubblicato almeno tre libri, in russo, su vari argomenti. Non ho idea di quanti, fra tutti i suoi lavori, siano attendibili e quanti siano invece sospetti. Comunque è
la prassi, quando uno scienziato si rende responsabile di casi di frode così gravi come quelli illustrati (se comprovati), che l’intera sua opera sia invalidata.



La biblioteca che non c’è



L’articolo sotto esame è:

1 D.A. Kuznetsov: “In vitro studies of interactions between frequent and unique mRNAs and cytoplasmic factors from brain tissue of several species of wild timber voles of northern Eurasia, Clethrionomys glareolus, Clethrionomys frater and Clethrionomys gapperi: A new criticism to a modern molecular-genetic concept of biological evolution”. International Journal of Neuroscience, 49 (1989), 43-59.

L’articolo descrive una complicata e, direi, alquanto confusa sperimentazione di biologia molecolare su cellule cerebrali di topolini di campagna. Vi sarebbe dimostrato che esiste nelle cellule un meccanismo selettivo di inibizione della sintesi proteica, capace di bloccare l’espressione di quei geni che abbiano subìto una pur minima mutazione. Dato che le mutazioni nel materiale genetico sono alla base del processo evolutivo in senso darwiniano, il presunto risultato si potrebbe interpretare in senso favorevole alle tesi creazioniste.


Evidenza di frode scientifica


Diverse volte, nel corso dell’articolo, Kuznetsov dice di aver seguito procedure sperimentali che non descrive e per le quali rimanda ad articoli elencati in bibliografia. Infatti è normale che un autore non perda spazio a descrivere procedure per le quali può rinviare alla letteratura già pubblicata. Ma qui Kuznetsov rimanda ad articoli inesistenti: non ci sono gli articoli, non ci sono gli autori e nemmeno le stesse riviste. Si può quindi mettere in dubbio che abbia eseguito procedure sperimentali secondo metodi descritti in articoli inesistenti. Molte altre voci della bibliografia, anche non essenziali in relazione all’esecuzione del lavoro, sono comunque inventate.

Nella bibliografia ci sono 65 riferimenti (un numero insolitamente alto). Per la maggior parte si tratta di articoli di riviste. Ho controllato se le riviste e gli articoli sono presenti su PubMed, un grande archivio elettronico della letteratura medica e biologica (disponibile su Internet).

Su un totale di 53 riviste citate nella bibliografia, soltanto otto sono presenti su PubMed. Le altre 45 sono assenti. Naturalmente, PubMed non elenca proprio la totalità delle riviste pubblicate nel mondo, ma ne ha a migliaia, e tutte le più importanti. La mancanza di 45 su 53 non può essere spiegata.

Fra queste 45 riviste mancanti, ce ne sono 11 che furono già segnalate nel 1994-95 (otto da Dan Larhammar e altre tre da Paul Nelson),[2] e Kuznetsov non ha mai fornito prova della loro esistenza né ha speso una parola in sua difesa.[3]

Quanto alle otto riviste realmente esistenti, ce ne sono tre per le quali gli articoli (in numero di quattro) sono correttamente indicati, o quasi. Per una rivista non ho potuto controllare, perché la data di pubblicazione dell’articolo risale troppo indietro nel tempo. Per quattro riviste (cinque articoli) non c’è corrispondenza fra la numerazione del volume quale indicata da Kuznetsov e quella riportata su PubMed per il rispettivo anno di pubblicazione. Per un articolo, non c’è indicazione della rivista.

I restanti nove riferimenti bibliografici non sono articoli su riviste ma libri (o volumi con atti di congressi), e non si può fare il controllo su PubMed. In diversi casi, comunque, si resta perplessi per gli strani titoli dei libri.

Si può concludere che, per la grande maggioranza, le pubblicazioni elencate nella bibliografia non esistono.

Nell’inventarsi i titoli degli articoli o dei libri (che quasi tutti dovrebbero essere in inglese già nell’originale, cioè non tradotti da lui), Kuznetsov si è sbizzarrito con formulazioni strane o poco sensate, e inoltre ha commesso errori di grammatica (come già notava Larhammar). In particolare, ripete svariate volte lo stesso errore nell’uso dell’articolo indeterminato. Nella lingua russa non ci sono gli articoli, e forse per questo Kuznetsov stenta a farne un uso corretto in inglese. Ritiene che l’articolo indeterminato, a, possa servire sia per il singolare che per il plurale (come l’articolo determinato the). Quindi mette in fila, uno dopo l’altro, errori come i seguenti (che possiamo presentare in italiano, tradotti alla lettera, dato che anche per noi l’articolo un va solo al singolare): “funzioni di un siti di DNA”, “purificazione di un siti altamente immunogenici”,
“un antigeni ribonucleici”, “un tipi presumibili”, “una proteine”, “un gruppi”, “un regolatori”, e così via.


Affiliazione


Per la maggior parte degli articoli da lui pubblicati in quel periodo come biologo, Kuznetsov fornisce come affiliazione la Moscow City Station for Sanitation and Epidemiology (che qui indichiamo semplicemente come “Stazione sanitaria”
di Mosca). In 1 viene data invece una diversa affiliazione: “Comparative Biochemistry Group, DELFISON Division Laboratories, Inc., Moscow Central Narcological Hospital”, con relativo indirizzo. Ho scritto a questo ospedale. Il suo direttore, Yury Shuliak, ha risposto che nell’ospedale fu sperimentato un “metodo Delfison” come parte di un programma per il trattamento dell’alcolismo, attivo fra il 1986 e il 1990. Aggiunge che non è documentata un’attività di Kuznetsov come membro dello staff dell’ospedale, né in passato né oggi. Non c’è bisogno di dire che lo studio sui topolini non dovrebbe rientrare nel trattamento dell’alcolismo.

È da notare che, in nota in fondo alla prima pagina di 1, Kuznetsov fornisce il suo indirizzo privato e dice di inviargli a casa la corrispondenza.


Finanziatori


Sono decisamente insoliti per un lavoro scientifico. “Sono in particolare profondamente e sinceramente grato”, dice la nota in prima pagina, “alla Chiesa Battista di Mosca e alla Slavic Gospel Association”.[4] Inoltre ringrazia per “la concreta partecipazione” due ben noti creazionisti, Henry Morris ed Eugene Grossman.[5]


Consulenti


Kuznetsov ringrazia poi (per suggerimenti o discussione del lavoro), due scienziati russi. Uno è Leonid Korochkin, un biologo che per i suoi titoli accademici
è il più illustre fra i nomi che fecero parte dell’associazione di creazionisti fondata da Kuznetsov a Mosca. Non so se anche l’altro, Kirill Gladilin, fosse del gruppo.


C’è un ringraziamento anche per Sidney Weinstein, il direttore della rivista, che oggi ne farebbe volentieri a meno.


Pubblicazione


Le riviste scientifiche qualificate, come è noto, adottano severi criteri per la pubblicazione e si attengono a quella che viene chiamata “peer review”: ogni articolo deve ricevere l’approvazione di (almeno) due revisori (referees, arbitri) scelti dal direttore della rivista per la loro competenza nella specifica materia. Un articolo come questo, se esaminato con competenza (ciò che ha fatto Larhammar), difficilmente riceverebbe l’approvazione di un revisore. Ma Kuznetsov poteva fare a meno del processo di controllo: agiva lui stesso, in pratica, nel ruolo di direttore. Infatti Weinstein, direttore generale (editor-in-chief) dell’Intern. J. Neurosc., aveva conosciuto Kuznetsov e ne era rimasto così favorevolmente impressionato da nominarlo nel comitato di direzione (editorial board) della rivista. Mi scrive Weinstein che Kuznetsov, come membro del comitato, doveva procurarsi l’approvazione di un solo revisore, secondo la prassi adottata nella sua rivista. Forse, suppone Weinstein, Kuznetsov aveva scelto come revisore un suo amico creazionista, o forse ne aveva fatto a meno del tutto.

Come poteva il russo, poco più che trentenne, privo di una prestigiosa posizione accademica e con una carriera non eccezionale alle spalle, meritarsi di essere nominato in quel ruolo? Weinstein si è poi giustificato dicendo che certi “professori americani”, di cui non fa il nome, gli avevano parlato tanto bene del suo lavoro di tossicologo. Questo può essere vero. Non so se vada anche considerata la possibilità che Weinstein, in qualche misura, fosse rimasto vittima di quello che sembra uno spiccato talento del nostro: la sua capacità di farsi imbonitore di sé stesso.[6]

Kuznetsov pubblicò in tutto nove articoli sull’Int. J. Neurosc., usciti fra il 1987 e il 1990. Non so quanti siano quelli pubblicati in veste di quasi-direttore. L’articolo 1 è il sesto della serie, quindi almeno altri tre furono pubblicati dopo la nomina nel comitato direttivo. Non so se
è un caso, ma nel suo curriculum (2000)[7] Kuznetsov ha omesso di citare, nella propria bibliografia, gli ultimi cinque articoli della serie (incluso questo), apparsi fra il 1989 e il 1990. Non si tratta di lavori trascurabili, almeno dalle dimensioni, perché assommano a ben 130 pagine. Forse si troverebbe qualcosa di interessante andando a vedere gli altri quattro articoli, ma a questo punto il povero Kuznetsov non ha bisogno di dover sostenere altri esami.


I palazzi invisibili


Gli articoli apparsi nel 1994-96 sono in tutto nove, ma si tratta di soli tre lavori distinti, dato che Kuznetsov ha pubblicato ripetutamente, in diverse riviste, gli stessi risultati. Tutto quanto contenuto nei nove articoli è presente, per esempio, nei tre seguenti:

2a D.A. Kouznetsov, A.A. Ivanov, P.R. Veletsky: “Analysis of cellulose chemical modification: a potentially promising technique for characterizing cellulose archaeological textiles”. Journal of Archaeological Science, 23 (1996), 23-34.

3a D.A. Kouznetsov, A.A. Ivanov, P.R. Veletsky: “Effects of fires and biofractionation of carbon isotopes on results of radiocarbon dating of old textiles: The Shroud of Turin”. Journal of Archaeological Science, 23 (1996), 109-21.

4a D.A. Kouznetsov, A.A. Ivanov, P.R. Veletsky, V.L. Charsky, O.S. Beklemishev: “A laboratory model for studies on environment-dependent chemical modifications in textile cellulose”. New Journal of Chemistry, 19 (1995), 1285-89.

Altre altre due versioni di [2a] sono:

2b D.A. Kouznetsov, A.A. Ivanov, P.R. Veletsky: “Detection of alkylated cellulose derivatives in several archaeological linen textile samples by capillary electrophoresis/mass spectrometry”. Analytical Chemistry, 66 (1994), 4359-65.

2c D.A. Kouznetsov, A.A. Ivanov, P.R. Veletsky: “Analysis of cellulose chemical modification: a potentially promising technique for characterizing archaeological textiles”. In Orna, M.V., ed., Archaeological Chemistry, American Chemical Society Symposium Series, 1996, 254-68.

In 2b manca una sezione finale (con l’esperimento sui campioni di Samarcanda).

Le altre due versioni di [3a] sono:

3b D.A. Kouznetsov, A. Ivanov: Chambéry fire of 1532 as the unique event in the “chemical history” of the Shroud of Turin: An experimental approach to the radiocarbon dating correction”. Acta Archaeologica Academiae Scientiarum Hungaricae, 48 (1996), 261-79.

3c D.A. Kouznetsov, A.A. Ivanov, P.R. Veletsky: “A re-evaluation of the radiocarbon date of the Shroud of Turin based on biofractionation of carbon isotopes and a fire-simulating model”. In Orna, M.V., ed., Archaeological Chemistry, ACS Symp. Series, 1996, 229-47.

L’articolo 3c è un po’ abbreviato nelle parti discorsive ma presenta gli stessi risultati.

C’è inoltre un articolo che è una breve nota preliminare, incorporata poi negli altri tre articoli 3:

[3d] D.A. Kouznetsov, A.A. Ivanov: “Near-IR spectrophotometric technique for fast identification of carboxycellulose in linen fibres: A preliminary report”.
Textile Research Journal, 65 (1995), 236-40.

Possiamo trascurare [3d] perché, limitatamente al suo contenuto, non interviene l’evidenza di frode rilevata per gli altri articoli.

Infine, [4a] ha un equivalente in:

[4b] D.A. Kouznetsov, A.A. Ivanov, P.R. Veletsky, V.L. Charsky, O.S. Beklemishev: “A laboratory model for studying enviromently dependent chemical modifications in textile cellulose”. Textile Research Journal, 66 (1996), 111-14.

Tutti gli articoli sono lavori sperimentali che studiano alterazioni chimiche nella cellulosa dei tessuti di lino. In [2] si studia una alterazione (alchilazione) che interviene per semplice invecchiamento. In [3abc] è riportato, fra l’altro, l’esperimento che rese felici i sindonologi: un antico lino, dell’epoca di Cristo, fu messo in un forno per breve tempo per simulare l’incendio in cui fu coinvolta la sindone nel 1532. Radiodatato prima e dopo la cottura, il lino risulta ringiovanito di una dozzina di secoli per effetto del calore. Sarebbe cioè intervenuta una cospicua alterazione nella composizione isotopica del carbonio contenuto nella cellulosa (un risultato inverosimile). In [4] si trova ancora una alterazione (altrettanto inverosimile) della composizione isotopica del carbonio, dovuta questa volta all’azione di microrganismi presenti nell’atmosfera. Il lavoro in [4] viene svolto parallelamente in due diverse zone geografiche, lontane fra loro, per confrontare gli effetti di una diversa flora di microrganismi (si avanza anche l’ipotesi che studi come questo possano arrivare a permettere di determinare la zona geografica in cui un tessuto ha trascorso molto tempo, con possibili implicazioni, anche se non dichiarate, per la sindone).



Solo gli articoli [3abc] fanno diretto riferimento al problema della datazione della sindone di Torino. Tutti gli articoli, comunque, si inquadrano in una prospettiva generale in cui potrebbero rientrare gli studi sulla sindone.



Evidenza di frode scientifica


Negli articoli [2abc], il lavoro descritto si è svolto su campioni di antichi tessuti provenienti da diversi musei. Non risulta che questi musei esistano.

In [4ab], una metà del lavoro fu svolta presso una istituzione nel sud della Russia. Non risulta che questa istituzione esista.

In [3abc] e in [4ab] le misurazioni sugli isotopi di carbonio furono eseguite in una istituzione che non sembra esistere, e con l’impiego di un metodo che non sembra essere in uso in alcun laboratorio in Russia.

Per verificare l’esistenza dei musei e delle istituzioni, ho inviato lettere a molte persone in Russia e in altre repubbliche ex sovietiche. La mia corrispondenza era solo in inglese, e questo può spiegare perché molte lettere non hanno avuto risposta. Tuttavia ho trovato numerosi corrispondenti che hanno fornito utili informazioni.

L’evidenza raccolta è esposta nelle seguenti sezioni.


I musei


In [2] Kuznetsov descrive esperimenti condotti su antichi tessuti di lino, di età variabile dal XIII secolo avanti Cristo al 1600 dopo Cristo. Le sperimentazioni condotte sono due. La prima confronta i risultati per otto campioni. A parte un lino palestinese che qui non consideriamo,[8] gli altri sette campioni sarebbero stati forniti da cinque musei di Russia e Ucraina. Una seconda sperimentazione (descritta in [2ac], non in [2b]) confronta sette campioni, tutti forniti da un museo di Samarcanda, Uzbekistan. Kuznetsov specifica per ciascun museo la denominazione e la città, ma non l’indirizzo completo (con la strada), e inoltre fa il nome di un funzionario (curatore, vicedirettore ecc.) che ringrazia per avergli fornito i campioni.

Ho provato a verificare l’esistenza di questi sei musei. Occorre tener conto che possono esserci incertezze nell’identificare un museo dalla sola denominazione inglese, dato che c’è un margine di ambiguità nella traduzione dal russo o da altra lingua locale. (Per evitare di introdurre ulteriore ambiguità
traducendo in italiano, lascio tutte le denominazioni in inglese). Però Kuznetsov fornisce anche nome e cognome di un funzionario per ogni museo, e in più, per ciascun campione, indica area geografica di provenienza, età stimata e codice di catalogazione presso il museo. Questo dovrebbero bastare per risolvere ogni incertezza.

Vediamo i risultati città per città.

Mosca. Ho inviato lettere a molte persone dell’ambiente dei musei o delle istituzioni archeologiche. Solo pochi hanno risposto, e nessuno di loro conosce i nomi di musei o di persone citati da Kuznetsov. Ringrazio Evgenij Chernykh, Elena Godina, Valery Golikov, Natalia Shishlina, Denis Zhuravlev, Leonid Yablonskiy, tutti da Mosca, e Yuri Berezkin e Nikolai Bokovenko da San Pietroburgo.

Uno dei musei indicati da Kuznetsov è il Russian National Historical Museum (con Ivan Kappel come vice-curatore). Esiste a Mosca, sulla Piazza Rossa, uno State Historical Museum, il cui nome è molto simile. Due dei corrispondenti, Zhuravlev e la Shishlina, sono archeologi presso quel museo e mi scrivono che lì non c’è (né c’è stato) nessun Ivan Kappel.

Kuznetsov dice di avere usato due campioni, provenienti da questo museo storico, uno egizio e uno copto, molto antichi, uno addirittura del tredicesimo secolo avanti Cristo. La dottoressa Shishlina è curatrice della collezione di antichi tessuti dello State Historical Museum. Dice che non hanno i tessuti indicati da Kuznetsov. Ritiene che ci sia un solo altro museo a Mosca che dispone di simili reperti, il Pushkin Museum of Arts. Ha telefonato alla curatrice della collezione di tessuti egizi presso il museo Pushkin, e questa ha detto che non ha mai rilasciato tessuti a Kuznetsov.

Natalia Shishlina ha poi fornito un’informazione importante, che equivale a una “confessione” da parte di Kuznetsov. Infatti ha preso contatto con Kuznetsov stesso, gli ha parlato per telefono e lo ha posto di fronte alle mie accuse. Questo accadeva quando la Shishlina aveva ricevuto una mia prima lettera, contenente i dettagli dei campioni quali indicati da Kuznetsov (età, area di provenienza, sigla di catalogazione), ma non disponeva di copia di nessuno dei tre articoli 2. Ebbene, Kuznetsov negò di aver mai usato quei campioni quali descritti nella mia lettera. Allora la Shishlina mi scrisse chiedendomi di inviarle fotocopia di uno degli articoli, per verificare chi dicesse la verità. Ricevuta la fotocopia, e avendo constatato che l’articolo conteneva in realtà la descrizione che io le avevo riferito, si rese conto che Kuznetsov le aveva mentito.

Inoltre Kuznetsov cercò confusamente di discolparsi, facendo alla Shishlina il nome di un chimico italiano, Luigi Campanella, e dicendo che era stato lui a prelevare dei campioni nel 1992. Per quanto mi risulta, il professor Campanella
è stato in contatto con Kuznetsov, ma lo ha conosciuto solo dopo la pubblicazione di questi esperimenti, coi quali non ha avuto nulla a che fare. È vero che ha visitato Kuznetsov a Mosca ed è stato da lui introdotto presso qualche museo, ma ciò accadeva solo nel 1997.

La reazione di Kuznetsov alla telefonata della Shishlina è rivelatrice: era un affannoso tentativo di salvare la sua credibilità presso il personale del museo. Negli ultimi anni, cercando di ricostruirsi una carriera come specialista di chimica archeologica, aveva preso contatto con alcuni studiosi nei musei di Mosca, e si può supporre che ora per lui fosse grave perderne la fiducia. Quando fu messo di fronte alle accuse contenute nella mia lettera, avrebbe avuto tutto l’interesse a difendersi e dire dove aveva reperito i campioni, se davvero li aveva avuti. Invece fece ricorso a giustificazioni difficilmente credibili, negando di avere avuto i tessuti o invocando il nome di un chimico italiano. Dimostrò così che si era venuto a trovare in serio imbarazzo.

Quanto all’altro museo di Mosca, indicato da Kuznetsov come State Institute of Textile Museum (curatore Oleg Krutov), non c’è propriamente un museo con quel nome, ma c’è una Moscow Textile Academy, detta anche University, che forse in passato era anche chiamata Institute. È una scuola di tecnologia tessile che al suo interno ha anche un piccolo museo. Ho scritto per chiedere se hanno mai avuto un Oleg Krutov come curatore. Non ho ricevuto risposta.

Vladimir. È una città a est di Mosca. Kuznetsov dice di avere avuto un campione da Olga Nenasheva, vicedirettore del Museum of Slavic Applied Art di Vladimir. Il principale museo della zona è il Vladimir-Suzdal State Museum-Reserve. Il suo vicedirettore, N. Morozov, mi scrive che non c’è nessun museo con quel nome a Vladimir, né c’è mai stato. Là non conoscono il nome di Olga Nenasheva. Nel loro museo non vengono usati i codici di catalogo indicati da Kuznetsov, e non hanno mai dato campioni di tessuto a nessuno.

Ringrazio anche Ron Pope, Presidente di Serendipity-Russia.

Simferopoli. Per i due musei dell’Ucraina, ho avuto scarsa disponibilità da parte degli archeologi locali. In particolare, non ho avuto risposta alle numerose lettere che avevo inviato a diverse persone dell’Istituto di archeologia dell’Accademia della Scienze a Kiev, a dipartimenti presso varie università, a direttori di musei. In compenso, come vedremo, ho avuto una imprevista collaborazione da parte delle agenzie di viaggi.

Simferopoli è il capoluogo della Crimea. Kuznetsov dice di avere avuto un campione da Sergey Bychkov, vicedirettore del Crimean State Archaeological Museum.

Non trovando riscontro in patria, provai a rivolgermi a studiosi ucraini trasferiti all’estero. Le prime risposte mi sono arrivate dall’America. Inna Potekhina, un’archeologa proveniente dal citato Istituto di Kiev, Ksenya Kiebuzinski dell’Ukrainian Research Institute alla Harvard University e Maria Shust, direttore dell’Ukrainian Museum di New York, non conoscono quel museo di Simferopoli né il nome di Sergey Bychkov (analogamente per Ternopil).

Secondo le informazioni giunte dall’America, a Simferopoli c’è un solo importante museo, che abbia anche una sezione per l’archeologia. È il Crimean Regional Museum, anche conosciuto come Crimean Museum of Regional Ethnography o Crimean Ethnographical Museum (in Ucraina molte denominazioni ufficiali sono passate dalla lingua russa a quella ucraina, dopo l’indipendenza, e può esserci una certa varietà nei nomi). Pensai che la persona più
indicata fosse il direttore di questo museo, che poteva dirmi se esista in città il museo di Kuznetsov, o se il suo stesso museo si possa identificare con quello. Gli scrissi per posta, dato che non ha email. Non ricevetti risposta.

Non riuscendo ad avere notizie dagli studiosi, pensai di rivolgermi alle agenzie di viaggio locali. Per lo meno, hanno un indirizzo di email e sanno l’inglese. Ho trovato che gli agenti di viaggio ucraini sono tanto gentili e disponibili quanto gli archeologi sono inaccessibili. Naturalmente, un agente di viaggio non è la fonte più autorevole per notizie di archeologia, ma di notizie ne hanno date.

Un agente di viaggio di Simferopoli, Eugene Snezhkin, riferì che conosceva un archeologo, Valery Sidorenko, segretario scientifico della sezione per la Crimea dell’Institute of Oriental Studies dell’Accademia Nazionale. Gli aveva parlato e Sidorenko aveva detto che non esiste (né è mai esistito) il museo di Kuznetsov a Simferopoli, né si è mai sentito il nome di Bychkov come direttore di qualsiasi museo in Crimea.

Snezhkin mi dava anche l’indirizzo di un suo amico, Michael Nikolaenko, che non è un archeologo ma lavora ai servizi informatici in un grande museo e sito archeologico presso Sebastopoli, sempre in Crimea, dove sua madre è assistente del direttore. Nikolaenko mi ha risposto che là non conoscono i nomi che cercavo.

Ancora più fortunato sono stato con un altro agente di viaggio di Simferopoli, Gennady Rut, che è amico proprio del direttore del citato museo etnografico regionale di Simferopoli, Andrey Malgin, cioè della persona da cui attendevo una risposta per lettera. Rut telefonò a Malgin e questi gli confermò
che non c’è mai stato un Crimean State Archaeological Museum in città e che non ha mai sentito nominare Bychkov. Dissi a Rut che per me era preferibile avere una dichiarazione scritta dallo stesso direttore. Lui riferì la cosa al direttore, che promise che mi avrebbe scritto, cioè che avrebbe risposto alla mia nuova lettera che gli avevo nel frattempo inviato.

Intanto un’altra agente di viaggio, questa volta di Kiev, Larissa Riazantseva, incaricò un’agenzia di Simferopoli di prendere informazioni. La sua collega Julia Gaideeva disse che non c’era il museo che cercavo, e a sua volta riuscì a contattare il museo etnografico, dove le fu detto che avevano la mia lettera e che mi avrebbero presto risposto.

Dato che il tempo passava senza ricevere risposta, chiesi a Rut di sollecitare. Rut fu così gentile che, per guadagnare tempo, si fece inviare una lettera sulla sua email e la stampò e la portò a Malgin di persona. Malgin promise ancora di rispondermi, ma non lo ha fatto, nonostante un’altra lettera che gli ho ancora inviato.

Anche se avrei preferito avere conferme più dirette, appare certo che il museo di Kuznetsov non è affatto noto in Crimea.

Ritengo che la scarsa loquacità degli archeologi ucraini si spieghi con la scarsa dimestichezza con la lingua inglese, ed è mia la carenza se non usavo altre lingue. Ho ricevuto in seguito altre due lettere. Pietro Ivanenco, direttore della Riserva Statale di Storia e Cultura, una istituzione di Kerch (altra località della Crimea), mi ha scritto in buon italiano. Tatiana Krupa, archeologa all’università di Kharkov ed esperta di antichi tessuti, preferisce scrivere in francese o anche in uno stentato italiano piuttosto che in inglese. Nemmeno costoro, è inutile aggiungere, conoscono i nomi citati da Kuznetsov.[9]

Ternopil. L’altro museo ucraino sarebbe a Ternopil, piccola città della Galizia. Questa zona, storicamente, non faceva parte dell’Ucraina. Nel corso dell’ultimo secolo, è passata dall’impero asburgico alla Polonia, poi, trascorsa l’occupazione tedesca, all’Unione Sovietica, fino all’Ucraina indipendente nel 1991. Così la gente, in maggioranza di madrelingua polacca, ha dovuto imparare il tedesco, il russo e l’ucraino, ma forse non restava tempo per l’inglese. Penso che sia questa la spiegazione per il fatto che da Ternopil non sono riuscito ad avere alcuna risposta.

Kuznetsov dice di avere ricevuto un campione da Ignat Tyshko, curatore al West Ukrainian Museum of Ethnography and Archaeology. Ho avuto qualche notizia solo dalle citate fonti in America e da qualche agenzia di viaggio di Kiev (ringrazio Irene Trantina, Alexander Gordinsky, Irina Antoshevskaya, Olga Borisenko, oltre alla citata Riazantseva). A quanto sembra, a Ternopil, a parte una galleria di quadri, c’è un solo piccolo museo, o archivio, che quasi nessuno va più a visitare: il Ternopil Historical-Ethnographic Museum (anche noto come Ternopil Regional Museum).

Se appare certo che in città non c’è un museo con l’esatta denominazione fornita da Kuznetsov, però la variabilità dei nomi, con l’incertezza del giro di traduzioni dall’ucraino al russo e all’inglese, potrebbe lasciare aperta la possibilità che si tratti pur sempre del museo esistente. Naturalmente, il direttore di questo museo è la persona più adatta per sapere se lì hanno dato tessuti a Kuznetsov, e se hanno avuto un signor Tyshko come curatore. Gli ho scritto due volte senza avere risposta. Sperando di trovare qualcuno così gentile da muoversi sul posto per prendere informazioni, ho provato anche a scrivere all’ufficio comunale, all’unica scuola superiore, un politecnico, e a un locale club rotariano, ma sempre inutilmente. Alla fine, dopo un paio di tentativi presso gli ambienti universitari della vicina Leopoli, ho desistito.

Mi sembra che anche così ci sia evidenza sufficiente per dubitare che Kuznetsov abbia fatto l’esperimento. Infatti egli dice di avere usato il campione di Ternopil in un confronto con tutti gli altri tessuti discussi finora.

Samarcanda. Per la seconda sperimentazione [2ac], Kuznetsov usa sette campioni che afferma di avere ricevuto dal Middle-Asian Museum of Ethnography and Anthropology di Samarcanda, Uzbekistan, citando un Kamil-Djan Youldashev come curatore. I campioni proverrebbero da scavi nell’antica città di Bukhara.[10]

Rahim Kayumov, vicedirettore generale per gli affari scientifici al Samarkand State Amalgamated Reserve-Museum of History, Architecture and Arts, mi scrive specificando che il suo ufficio è responsabile per tutti i musei nella provincia di Samarcanda. Dichiara che il museo che cercavo non esiste e che non c’è nessun Youldashev nell’ambiente dei musei di Samarcanda.

Boris Marshak, curatore della Sezione Orientale al Museo dell’Hermitage di Pietroburgo, è stato a lungo il direttore degli scavi a Pianjikent, un importante sito non lontano da Samarcanda, ed è un’autorità per l’archeologia della zona. Gli ho spedito copia dell’articolo di Kuznetsov e anche la sua risposta è precisa. Non c’è il museo indicato da Kuznetsov, e non c’è una collezione di tessili scavati a Bukhara con le caratteristiche da lui indicate. Dato che per due campioni Kuznetsov dice che furono datati al radiocarbonio nel 1989 da un “Soviet Committee on Asian Studies”, il dottor Marshak specifica anche che non gli risulta l’esistenza di una simile istituzione.

Ringrazio anche: Nataliya Covalyova del Museum of the History and Culture of Uzbekistan, Samarcanda; Renata Holod della University of Pennsylvania, Philadelphia; Monika Shepherd del Forum for Central Asian Studies, Harvard University; Akram Khabibullaev, Tashkent; Dan Waugh della University of Washington. Come si vede, mi ero rivolto anche a persone al di fuori dell’Uzbekistan, scelte come competenti negli scavi archeologici della zona. Nessuno di loro conosce i nomi indicati da Kuznetsov. Ringrazio inoltre Madhu Ghose, Circle of Inner Asian Art di Londra, e Maurizio Tosi, direttore della missione archeologica italiana a Samarcanda

Abbiamo terminato con i musei. Passiamo alle altre due verifiche, che riguardano istituzioni scientifiche di Krasnodar e di Protvino.

KRASNODAR. Negli articoli [4] gli autori sono cinque, invece dei soliti tre. Il lavoro è un confronto fra sperimentazioni condotte in due diversi ambienti geografici (per paragonare i supposti effetti della diversa flora di microrganismi): i soliti tre autori lavoravano a Mosca, mentre i due nomi aggiunti lavoravano, nelle stesse settimane, a Krasnodar nel sud della Russia presso il mar Nero. Questi ultimi due vengono dati col seguente indirizzo: “Krasnodar Center for Environmental Studies, University of Rostov-on-Don, Krasnodar-2”. Dubitando che questo Centro esista davvero, ho cercato di verificarlo.

L’indirizzo è privo della indicazione della strada. Krasnodar non è una piccola città (conta oltre settecentomila abitanti). Questo Centro per gli studi ambientali non è così famoso da permettere al postino di raggiungerlo anche senza il nome della via. Ho inviato due lettere agli autori, Vyacheslav L. Charsky e Oleg S. Beklemishev, indirizzando come indicato da Kuznetsov, ma le lettere mi sono tornate indietro con la motivazione “destinatario sconosciuto”. (Nemmeno su Internet ho trovato traccia di tale Centro, ma va considerato che non ho accesso ai siti cirillici).

Il Centro è indicato come una istituzione della Università di Rostov, città che dista circa 250 km da Krasnodar. Non è un motivo di sospetto perché l’università di Rostov potrebbe avere dei centri distaccati a Krasnodar, e infatti ne ha almeno un paio.

Ho scritto alle due riviste che pubblicarono le due versioni di questo articolo. Denise Parent, direttore esecutivo del New Jounal of Chemistry, e Ludwig Rebenfeld, direttore del Textile Research Journal, hanno risposto che non hanno l’indirizzo completo dell’istituto di Krasnodar e che la loro corrispondenza si svolse solo con Kuznetsov, non con gli altri autori.

Per saperne di più, ho cominciato, naturalmente, scrivendo all’università di Rostov. Là dovrebbero conoscere quali sono le istituzioni che l’università ha distaccato a Krasnodar, e dovrebbero anche sapere se i due nomi sono quelli di loro dipendenti. Non ho avuto risposta alle due lettere inviate. Ho provato allora a rastrellare su Internet gli indirizzi di istituzioni e associazioni, in tutta la zona, che avessero a che fare con problemi ambientali. Dopo avere inviato molte lettere, non ho avuto risposte di qualche utilità.

Avendo poi trovato che l’università di Rostov ha un’istituzione a Krasnodar con un nome in certo senso simile, il Biosphere Research Institute, con sede presso la Kuban State University of Technology, ho scritto a questa università. Olga Musikhina mi ha risposto che i due nomi non figurano fra i dipendenti né dell’Università né dell’Istituto. Aggiunge che là hanno fatto qualche ricerca e possono dire che non ci sono centri statali con quella denominazione a Krasnodar.

Senza una fonte di informazione a Rostov, tuttavia, questo non bastava per escludere l’esistenza del Centro. Mi è venuta in aiuto Odile Eisenstein, ricercatrice chimica dell’Università di Montpellier, Francia. La Eisenstein era direttore del New Journal of Chemistry all’epoca della pubblicazione dell’articolo, e ora ci teneva a collaborare per verificare l’eventuale frode di Kuznetsov. Tramite conoscenze ad alto livello in campo scientifico, si mise in contatto con Vladimir Minkin, professore all’università di Rostov, direttore di un grande laboratorio chimico e membro dell’Accademia delle Scienze.

Minkin fu sollecito a indagare. Per cominciare chiamò Vladimir Alexeenko, il direttore del citato Biosphere Research Institute a Krasnodar, che non conosceva i nomi dei due supposti autori, Charsky e Beklemishev. Poi parlò con il vicerettore della Università di Rostov, A. Ushak, che lo assicurò
che non c’è alcuna divisione dell’Università denominata Krasnodar Center for Environmental Studies. Inoltre il Dr. Ushak interpellò diversi professori al dipartimento di Geologia (al quale farebbe capo un istituto di ricerca ambientale), e nessuno conosceva i nomi. Poi Minkin telefonò al Prof. Vladimir Babeshko, rettore della principale università di Krasnodar, la Kuban State University, e nemmeno lui conosceva i nomi del Centro o dei due autori.

Quindi tutte le fonti, da Rostov come da Krasnodar, concordano nel dare un risposta negativa. Un ringraziamento particolare a Odile Eisenstein e Vladimir Minkin, senza la cui intermediazione sarebbe stato per me difficile trattare questo caso.

Protvino. Cinque articoli [3abc, 4ab] presentano risultati che si basano, a quanto dichiarato, su misurazioni delle proporzioni degli isotopi del carbonio, condotte con il metodo noto come AMS (spettrometria di massa con acceleratore). Questo è un metodo avanzato, impiegato in particolare per la datazione al radiocarbonio, che ha vantaggi sul metodo tradizionale, specialmente quando si tratta di datare campioni molto piccoli. L’AMS, entrato in uso attorno al 1980, richiede un’apparecchiatura piuttosto costosa e metodi altamente specializzati. Sono relativamente pochi, nel mondo, i laboratori che ne dispongono (tre dei quali furono scelti nel 1988 per la datazione della sindone).

Kuznetsov non poteva certo dire di avere disponibile l’AMS nel suo laboratorio, e afferma che le misurazioni furono condotte a Protvino (città non lontana da Mosca), nel Center for Radiochemical Studies, una istituzione della Accademia delle Scienze di Russia (RAS). Ringrazia, come esecutori del lavoro, un Dr Ivan B. Shevardin per gli articoli [4] e un Dr. Sergey Bakhroushin per gli articoli [3ac].[11]

Dubitavo che le misurazioni fossero mai state condotte (i risultati sarebbero davvero strani). Vista la propensione di Kuznetsov a inventarsi istituzioni e personaggi inesistenti, ho cercato di condurre una verifica.

Questa parte dell’inchiesta non è stata facile. Protvino è una sorta di “città della scienza” dove sorgono molti impianti. Almeno ai tempi dell’impero sovietico, c’erano ricerche di interesse militare che venivano protette dal segreto. L’istituzione più importante è il grande Institute for High Energy Physics (IHEP). Yuri Ryabov, segretario scientifico dell’IHEP, mi scrive che non sa niente dell’istituzione e che i nomi delle due persone gli sono sconosciuti. Tre scienziati che lavorano all’IHEP, Sergei Denisov, A.K. Likhoded e Pavel A.Semenov, interpellati separatamente, hanno tutti risposto escludendo che a Protvino ci sia un Center for Radiochemical Studies.

Un’altra istituzione, a Protvino o nella vicina Serpukhov, è la Branch of the Institute of Nuclear Physics. Ha un buon sito web, con elencato lo staff e con una descrizione delle attività. Non sono presenti i nomi forniti da Kuznetsov e fra le attività non è indicato l’AMS.

Poi ho cercato informazioni presso altri laboratori del radiocarbonio in Russia. Va notato che tali laboratori non sono molti e i loro responsabili si conoscono e stanno in contatto fra di loro. Quindi, se esistesse un laboratorio per la radiodatazione a Protvino (con l’AMS oppure col più comune metodo tradizionale del conteggio dei decadimenti radioattivi), i colleghi di altri centri ne sarebbero al corrente.

Nel sito web della rivista Radiocarbon c’è un elenco aggiornato di tutti i laboratori di datazione al radiocarbonio operanti nel mondo, con l’indicazione se dispongono di AMS. Per la Russia sono indicati alcuni laboratori col vecchio metodo, nessuno con AMS. Ho scritto e ho ricevuto le risposte, concordi, da tre laboratori: Natalia Zaretskaia (Geological Institute, RAS, Mosca), Olga Chichagova (Institute of Geography, RAS, Mosca), e Ganna Zaitseva (Institute of the History of Material Culture, RAS, S. Pietroburgo). Confermano che in Russia non ci sono laboratori con AMS, nemmeno oggi (2001), e tanto meno potevano esserci qualche anno fa. Va notato che per gli scienziati che lavorano nel campo del radiocarbonio, il non avere disponibile l’AMS è un serio inconveniente (il metodo è superiore, o indispensabile, quando si tratta di datare campioni molto piccoli). Quindi, se loro non sanno dell’esistenza di AMS in Russia, si può tranquillamente ritenere che non c’è, almeno non come disponibilità per eseguire radiodatazioni.

La Zaitseva precisa: “Naturalmente, non viene usata la tecnica AMS in Russia e penso che non sarà in uso nemmeno in futuro. Solo la tecnica a scintillazione è usata nel nostro paese così come nelle repubbliche ex sovietiche”. E fornisce un elenco dei non molti laboratori in Russia e in altre repubbliche (nessuno a Protvino). Aggiunge che “considerando la situazione finanziaria della ricerca scientifica, posso supporre che nuovi laboratori non saranno creati entro breve tempo”.

Sembra quindi che ancora oggi sia impossibile eseguire l’AMS in Russia, a Protvino o in qualunque altro posto. Non si vede come Kuznetsov potesse disporne nel 1994.

Ho poi scritto ad alcune altre istituzioni della RAS.

Irina Titkova (Research council on charged particle accelerators) scrive che si è occupata di preparare un elenco di acceleratori, ma non conosce l’istituzione.

Dmitrij Koshkarev (Moscow Institute for Theoretical and Experimental Physics) dirige una sezione sulla progettazione di acceleratori per ioni pesanti, e scrive che non sa di un laboratorio AMS né a Protvino né altrove in Russia.

Marina Frontasyeva (dirige a Dubna un dipartimento del Frank Laboratory of Neutron Physics) non conosce l’AMS.

Inoltre Anatoly V. Lozhkin, del Quaternary Geology and Geochronology Laboratory di Magadan, dice che manda i suoi campioni in America per l’AMS. E la già citata Natalia Shishlina, del museo di Mosca, dice che per il suo lavoro di archeologia necessita di datazioni ma non esiste in Russia la possibilità di eseguire AMS.

Infine L. M. Kovrizhnykh, dal General Physics Institute, RAS, Mosca, risponde ancora negativamente a tutte le mie domande e non conosce né il Centro né i due nomi.

Ringrazio anche Valeria Rozenberg, una ricercatrice chimica di Mosca, che (su invito di Odile Eisenstein) aveva iniziato a sua volta a cercare informazioni. Ha poi dovuto interrompere il lavoro, fino a quel punto senza esito anche per lei.

Uscendo dalla Russia, già nel 1996 i tre principali responsabili del laboratorio AMS di Tucson, Arizona, Timothy Jull, Douglas Donahue e Paul Damon, pubblicando un lavoro di critica a Kuznetsov (sul quale torneremo), scrissero che il laboratorio da lui indicato “è nuovo e non generalmente noto agli scienziati russi o alla comunità internazionale dell’AMS”.[12] Ho scritto a Jull, il quale ha confermato che nemmeno in seguito hanno avuto notizia dell’esistenza di un simile laboratorio a Protvino.

Sembra quindi che si possa concludere che non c’è a Protvino il laboratorio indicato da Kuznetsov. Una certezza assoluta, però, non si può avere in quanto, forzando l’immaginazione, si potrebbe supporre che a Protvino ci sia un laboratorio AMS, all’interno di strutture militari, coperto da segreto assoluto, tanto da rimanere sconosciuto agli altri laboratori del radiocarbonio così come a scienziati e archeologi in Russia e fuori. Direi allora, però, che Kuznetsov sarebbe davvero fortunato, e molto ben introdotto, a poter disporre (per un uso così poco strategico come la datazione di tessuti) di un laboratorio che è segretissimo e inaccessibile agli archeologi e agli altri scienziati in Russia.


Terminiamo qui il capitolo sull’evidenza di frode negli articoli del 1994-96. Abbiamo un elenco di sei musei, due istituzioni scientifiche e dieci persone che risultano introvabili. Per quanto sia difficile provare una negazione, sarebbe davvero strano se tutti gli istituti e le persone esistessero ma nessuno fosse emerso dopo tante ricerche. Se Kuznetsov sa che i nostri sospetti sono infondati, lo potrà immediatamente dimostrare fornendo tutti gli indirizzi (completi).[13]


Affiliazione


Questi articoli del 1994-96 portano la seguente affiliazione a un laboratorio di Mosca: “E. A. Sedov Biopolymer Research Laboratories, Inc., 4/9 Grafsky Pereulok” (cioè viale Grafsky).[14] Non sono ancora riuscito a risolvere il mistero della vera natura di questo laboratorio. Verrebbe da pensare che non esista affatto e sia anch’esso un’invenzione di Kuznetsov. Ma c’è stato chi lo ha visitato. Guy Berthault mi scrive di esserci stato due volte (e circolano anche fotografie dove Berthault è in compagnia di Kuznetsov e Ivanov all’interno di un laboratorio). Inoltre un chimico della Sapienza di Roma, il professor Luigi Campanella, mi ha detto di aver fatto visita a Kuznetsov a Mosca, nel 1997, e di aver visto un laboratorio normalmente attrezzato con numerose persone che ci lavoravano.

Non si trovano, nella letteratura chimica, altri articoli con affiliazione al Sedov, se non questi nove di cui trattiamo.

Il curriculum (2000) di Kuznetsov riporta che il Sedov fu fondato nel 1992. Quando mi scrisse nel 2000, Kuznetsov spiegò che il Sedov aveva cessato di esistere nel 1998 (all’epoca della sua prigionia in America), ma per le sue lettere usava ancora una elegante carta intestata del laboratorio, in inglese, da cui si traggono i seguenti dati. Il direttore era lo stesso Kuznetsov, mentre Ivanov era il vicedirettore. La parte amministrativa era a nome di una signora N. A. Marina. Era poi elencato uno staff di altri sette ricercatori, in tutto nove. Otto di questi sono indicati con un PhD. Con un simile staff, dovrebbe trattarsi di un laboratorio di dimensioni notevoli. Per eseguire tutti gli esperimenti descritti negli articoli, il laboratorio dovrebbe poi disporre di moderne attrezzature e strumentazioni che sono alquanto costose.

La carta intestata riporta non uno ma tre indirizzi. Il primo è l’ufficio del direttore, ed è l’indirizzo privato di Kuznetsov. Il secondo è indicato come “Finanze” e dà l’indirizzo della signora Marina. Il terzo indirizzo, indicato come “Ricerca principale”, cioè, suppongo, il principale luogo in cui si fa ricerca, è appunto al numero 4/9 di viale Grafsky a Mosca.

Solo recentemente, a inchiesta ormai conclusa, un corrispondente dalla Russia, che si firma con lo pseudonimo “Atheologian”, mi ha fatto notare che allo stesso indirizzo di Mosca, al 4/9 di viale Grafsky, c’è proprio quella Stazione sanitaria presso la quale Kuznetsov aveva lavorato negli anni Ottanta. Naturalmente, l’attività della Stazione non ha niente a che vedere con la chimica degli antichi tessuti di lino.[15] Ho scritto alla Stazione chiedendo che cosa sanno di un laboratorio Sedov, ma non ho avuto risposta.

“Atheologian” non vive a Mosca ma ha incaricato un suo amico moscovita, Mikhail Eliseikin, di svolgere qualche indagine. Eliseikin si è recato alla Stazione cercando di avere notizie. Ha incontrato una certa reticenza. Gli è stato confermato che Andrey Ivanov lavorava alla Stazione in un laboratorio di chimica-fisica. Però non è riuscito a sapere se fosse realmente attivo un laboratorio col nome Sedov e quale fosse il ruolo di Kuznetsov.

In attesa di avere maggiori informazioni, l’ipotesi più probabile mi sembra la seguente. Kuznetsov aveva lavorato alla Stazione negli anni Ottanta e naturalmente conosceva il personale. Quanto a Ivanov, forse vi lavorava ancora negli anni Novanta, all’epoca della pubblicazione di questi articoli. Comunque sia, i nostri autori avevano accesso ai laboratori della Stazione ed è possibile che avessero disponibilità di un po’ di spazio e dell’uso di qualche strumento, se mai hanno davvero fatto un esperimento sui tessuti di lino. In questa ipotesi, si può immaginare che se un visitatore veniva dall’estero a far visita (senza conoscere la lingua russa), Kuznetsov e Ivanov lo conducevano in una stanza all’interno della Stazione e gli lasciavano credere che quello fosse il laboratorio Sedov di cui l’uno era direttore e l’altro vicedirettore. Non è escluso che, sulla carta, un laboratorio Sedov fosse davvero stato registrato come ditta privata, dato che questo sarebbe servito per ricevere finanziamenti ed emettere ricevute.

Mi sono anche chiesto chi fosse quell’E. A. Sedov a cui il laboratorio è intitolato. Avevo un indizio perché nel curriculum di Kuznetsov c’è in bibliografia un libro del 1993, in russo, i cui autori sono appunto Sedov e Kuznetsov. Il titolo è strano: La parola e il significato: Un approccio linguistico alla ricerca biomolecolare. È pubblicato da una casa editrice di propaganda cristiana (all’americana), di quelle con cui Kuznetsov collaborava all’inizio degli anni Novanta.

Viaggiando su Internet in una Russia dove cominciano a essere numerosi i siti in inglese, credo di avere identificato questo autore in Eugeni A. Sedov (1929-1993), un originale personaggio che viene definito come ingegnere, inventore, cibernetico, informatico, romanziere, poeta eccetera. Di lui non so molto, ma ho trovato notizie su suo figlio Alexander, un biologo che è coetaneo di Kuznetsov. Gli ho scritto ma non mi ha risposto.


Finanziatori


Nei ringraziamenti, sette degli articoli (2 e 3) indicano come finanziatore Guy Berthault (il francese che abbiamo incontrato nella biografia). Negli stessi articoli viene anche ringraziato il sindonologo italiano Mario Moroni per aver fornito un campione di antico lino proveniente da Israele.[16]

Per gli articoli [4] vengono indicate due fonti di finanziamento. Una è la Fourth World Foundation, di cui non ho notizie precise (possono esserci diverse fondazioni con un simile nome). L’altra è il Turin Shroud Center of Colorado, condotto, assieme alla moglie Rebecca, da John Jackson, un ben noto sindonologo americano.


Consulenze


A parte una menzione della Gastuche in 3, per avere avuto l’idea originaria della simulazione d’incendio, e a parte riconoscimenti marginali, ci sono tre nomi che vengono ringraziati in tutti gli articoli. Uno è Alan Adler, il noto sindonologo di Danbury di cui sappiamo che era amico di Kuznetsov.

Il secondo è Witold Brostow, scienziato americano di origine polacca, che ha una distinta carriera nel campo della fisica-chimica e dirige un laboratorio alla University of North Texas, Denton. Gli ho scritto per avere una conferma. Non ha negato di aver visto almeno qualche manoscritto prima della pubblicazione, anche se ha minimizzato il suo intervento: un controllo dello stile inglese o poco più. Non ho trovato indizi che colleghino Brostow agli ambienti dei sindonologi o dei creazionisti.

Il terzo è Alexander Volkov, un fisico dell’Università di Mosca. Non sono riuscito a mettermi in contatto con lui.


Pubblicazioni



Sei degli articoli sono apparsi su quattro riviste importanti che dichiarano di attenersi alla procedura di peer review. Ciò implica che due revisori (referees) hanno esaminato l’articolo, e che, sulla base del loro giudizio, un direttore ha deciso per la pubblicazione. (Quando ci riferiamo a un “direttore”, va inteso che può trattarsi di una delle diverse persone che, di volta in volta, possono assumere la responsabilità della decisione, e non è detto che si tratti del direttore “capo”).[17]

Si tratta di quattro riviste di primario livello. Analytical Chemistry è in assoluto una delle riviste più note nel campo chimico ed è pubblicata dalla American Chemical Association (ACS). New Journal of Chemistry è pubblicata dall’equivalente francese del nostro Consiglio nazionale delle ricerche. Journal of Archaeological Science, pubblicata da un grande editore privato (Academic Press), è una delle riviste più quotate nel suo specifico settore (l’applicazione di tecniche scientifiche nel campo archeologico, per esempio per la datazione o per l’analisi chimica di reperti). Textile Research Journal è pubblicato da un autorevole istituto di ricerca sui tessili con sede a Princeton.

Kuznetsov ha avuto stampati, in un solo colpo, sei articoli su queste riviste. È un’impresa che sembrerebbe irraggiungibile anche a un ricercatore con tutti i requisiti: lavori validi (e onesti), un dignitoso curriculum alle spalle e l’appartenenza a una istituzione prestigiosa. Kuznetsov presentava lavori che, nei casi in cui sono stati esaminati, hanno mostrato gravi carenze (a parte i sospetti di frode). Inoltre, non aveva un curriculum: la sua attività precedente era in un campo diverso, come biologo, e gli conveniva tenerla nascosta per evitare che qualcuno lo identificasse nel protagonista della frode dell’89. E la sua istituzione, il laboratorio Sedov, era totalmente sconosciuta.

Non posso escludere che, per fatalità, tutti i revisori, anche se scelti solo per la loro competenza, si siano espressi in modo favorevole. Però mi sembra ipotizzabile che, in qualche misura, Kuznetsov abbia ricevuto un trattamento di favore, almeno per qualcuna delle pubblicazioni, o comunque si sia avvalso di circostanze fortunate. Non ho la minima idea, va sottolineato, di quale sia stato, caso per caso, il corso degli eventi che ha portato alla pubblicazione: la procedura è coperta da riservatezza e, in particolare, i nomi dei revisori vengono come regola mantenuti segreti, quindi sarebbe inutile chiedere alla direzione di ciascuna rivista chi e perché ha deciso l’accettazione di ogni singolo articolo. Si possono solo fare delle ipotesi su quali siano state le agevolazioni di cui Kuznetsov potrebbe avere usufruito.

Una prima ipotesi è che egli sia intervenuto presso la persona che svolgeva la funzione di direttore perché accettasse l’articolo anche se i giudizi di qualche revisore erano negativi.

Una seconda ipotesi, solo per l’articolo 3a che si riferisce esplicitamente alla sindone, è che il direttore abbia ritenuto di scegliere i revisori fra le persone esperte nella specifica materia, e allora può essere caduto su qualche sindonologo che gli ha dato un giudizio entusiastico.

Una terza ipotesi, forse la più probabile, è che Kuznetsov abbia “pilotato” la scelta dei revisori in modo da farla cadere su sindonologi o su qualche suo amico. Direi che non è difficile riuscirci, perché in molte riviste è entrata in uso una prassi per cui l’autore stesso, quando invia il suo articolo, suggerisce i nomi di alcuni possibili revisori. È una prassi di fronte alla quale si può rimanere perplessi (occorre fidarsi dell’onestà degli scienziati), ma forse è stata adottata per ovviare alla difficoltà per il direttore di trovare ogni volta i revisori adatti.[18] Suppongo che Kuznetsov non fosse tipo da lasciarsi sfuggire questa possibilità che gli si presentava.

Passiamo alle due relazioni [2c, 3c] presentate da Kuznetsov al congresso di Anaheim, California, nell’aprile 1995, e apparse nel volume degli Atti stampato l’anno seguente. Si tratta di uno della serie di congressi organizzati dalla American Chemical Society (ACS). Le relazioni vengono pubblicate in volumi (ce ne sono centinaia) che hanno lo stesso rango delle annate di una rivista di prestigio. Qui possiamo sapere qualcosa di più, grazie alle informazioni che ho ricevuto da tre dei partecipanti: Mary Virginia Orna, che presiedeva il congresso e curò anche la pubblicazione degli Atti, e Marian Hyman e Timothy Jull che ebbero un ruolo per le loro critiche ai lavori del nostro.[19]

Quando Kuznetsov presentò la relazione [3c] sulla datazione della sindone, con l’esperimento sulla simulazione d’incendio, dalla platea si alzò subito Jull, esprimendo un severo dissenso e chiedendo di intervenire. La Orna acconsentì, anche se non era iscritto a parlare. Jull espose le sue critiche e Kuznetsov, secondo la Orna, si difese abilmente. Ne nacque una vivace discussione che rese la seduta tutt’altro che noiosa. L’altra relazione 2c fu invece presentata senza che al momento nascessero contestazioni.

Nelle settimane successive, si passò al processo di peer review che era necessario per la pubblicazione delle relazioni nel volume (non per la semplice partecipazione al congresso). La Orna dice che i revisori si espressero in modo molto positivo sull’articolo 3c. Non si può sapere chi fossero quei revisori.[20] Dato che c’era stato l’intervento di Jull, la Orna decise di pubblicare la relazione, accompagnandola però da una nota critica dello stesso Jull. Infatti la nota comparve nel volume, di seguito all’articolo di Kuznetsov, e fu firmata anche dai professori Douglas Donahue e Paul Damon, i direttori del laboratorio di Tucson.12 Una nota analoga[21] degli stessi autori era già pervenuta, fin dal gennaio 1995, al J. Archaeol. Sc., che aveva accettato per la pubblicazione la versione 3a del lavoro di Kuznetsov, e sarebbe apparsa un anno più tardi, nel gennaio 1996, assieme a 3a (oltre che a 2a) sullo stesso fascicolo della rivista.

L’articolo dei tre dell’Arizona contiene tutta una serie di critiche precise ed efficaci, che invalidano il lavoro di Kuznetsov senza possibilità di appello. Al di là dei modi cortesi con cui, diplomaticamente, gli scienziati si esprimono nelle loro discussioni, si legge tra le righe che un simile esperimento non poteva essere stato fatto con quei risultati.

Per l’altro articolo 2c, uno dei giudizi dei revisori fu negativo. Per una volta, è possibile sapere chi fosse il revisore: si tratta di Marian Hyman, che fin da allora non aveva fatto mistero delle sue critiche. Come mi ha spiegato in una sua lettera, espresse alla Orna tre obiezioni. Intanto, si accorse che il lavoro, sostanzialmente, era già stato pubblicato su un’altra rivista, An. Chemistry, e questo era per lei motivo sufficiente per non pubblicarlo di nuovo. (La terza versione 2a era in corso di stampa).[22] Poi si accorse che interi capoversi e uno dei grafici erano presi, parola per parola, da articoli di altri autori apparsi in precedenza; gli articoli erano citati in bibliografia, ma le frasi non erano virgolettate e non apparivano come citazioni.[23] La terza critica della Hyman era la più rilevante: secondo il suo parere, come mi ha scritto, il lavoro di Kuznetsov “non era realistico”. La sua impressione era che gli esperimenti descritti nel manoscritto non fossero realmente stati condotti con quei risultati. Complimenti alla Hyman per la diagnosi, che la presente inchiesta sembra dimostrare esatta.

La Orna, informata dalla Hyman, fece presente a Kuznetsov che il lavoro era già stato pubblicato su An. Chemistry. Lui fece notare che c’era una sezione in più sul manoscritto, ciò che è vero (si tratta dell’esperimento coi lini di Samarcanda, ma c’era in corso di stampa la terza versione con gli stessi dati, Samarcanda compresa).

Con un simile giudizio, la Orna procedette ugualmente alla pubblicazione. Oggi appare sinceramente rammaricata per aver preso quella decisione. Per di più, dice che il lavoro di curatrice fu molto laborioso perché i testi presentati da Kuznetsov erano scritti male, sia per il cattivo inglese sia perché non se ne capiva il senso: lei dovette tanto faticare per revisionarli che qualcuno le disse, scherzosamente, che aveva diritto di mettere il suo nome fra gli autori. Per lo meno, questo servì per salvare in parte le apparenze, dato che alla fine le frasi non erano del tutto identiche a quelle delle altre due versioni dell’articolo 2ab.

Nessuno, né la Orna né Jull o la Hyman, sapeva allora che Kuznetsov era stato protagonista dello scandalo dell’articolo del 1989. Lo hanno appreso solo ora dalle mie lettere.

Passiamo infine alla pubblicazione di 3b sulla rivista ungherese. È una rivista che si occupa di archeologia tradizionale più che di innovazioni nei metodi scientifici. Con un articolo irto di dati tecnici come quello di Kuznetsov, forse a Budapest furono presi alla sprovvista. Il direttore Dénes Gabler mi scrive: “Dato che noi non siamo specialisti di chimica, nel 1994 demmo questo articolo per un controllo a un esperto ungherese, che confermò che questo approccio sperimentale era un importante contributo alla datazione della Sindone di Torino, e che i risultati non erano stati pubblicati da alcun altro”. Non sappiamo chi fosse quell’esperto, ma possiamo supporre che si trattasse di qualcuno con simpatie per la sindone. Gabler aggiunge che non sapeva niente del passato di Kuznetsov e aveva appreso solo dalla mia lettera che l’articolo era stato pubblicato altre due volte (se avessero saputo che era in stampa altrove, fa notare ironicamente, non avrebbero speso denaro per un traduttore che corresse il testo inglese). Nemmeno sapeva che le altre due versioni erano state accompagnate dalla nota critica di Jull.



Fantasmi irlandesi


L’articolo sotto esame è:

5 D.A. Kouznetsov: “Biochemical methods in cultural heritage conservation studies: An alkylation enzyme, S-adenosylmethionine transmethylase”. Studies in Conservation, 45 (2000) 117-26.

Si tratta di un resoconto sperimentale. L’autore espone un metodo, del tutto nuovo e finora inesplorato, che, ritiene, potrebbe servire sia per la datazione di antichi tessuti o altri reperti contenenti cellulosa, sia per una migliore conservazione. Il nuovo metodo di datazione sarebbe importante perché permetterebbe di datare un campione di tessuto senza doverlo distruggere.

Il metodo consiste in questo. Kuznetsov prepara un particolare enzima, estraendolo da un microrganismo, e ne applica l’azione all’antico tessuto. L’enzima libera certi gruppi chimici che nel corso del tempo si sono associati alle molecole di glucosio della cellulosa. Permette quindi di misurare l’entità della modificazione, tanto maggiore quanto maggiore è l’età, fornendo così una datazione.

L’articolo compare su una rivista pubblicata da un istituto di Londra che si occupa di problemi di conservazione di beni artistici e storici: International Insitute for Conservation of Historic and Artistic Works.


Evidenza di frode scientifica


Kuznetsov dice di aver lavorato su quattro campioni di tessuto provenienti da antiche tombe in Irlanda. Fornisce l’identità di coloro che gli hanno dato i tessuti, i luoghi delle sepolture e i nomi di tre delle persone sepolte. Ho condotto una verifica rivolgendomi per corrispondenza a esperti in Irlanda. Stando alle informazioni ricevute, Kuznetsov non sarebbe mai stato in possesso di quei tessuti. Dato che tutta la sperimentazione è stata condotta, a suo dire, su quei quattro campioni, si dovrebbe dedurre che nessuna sperimentazione
è stata fatta e che Kuznetsov si è inventato l’intero resoconto sperimentale. L’evidenza raccolta è esposta nelle seguenti sezioni.


I campioni


I tessuti irlandesi sono così descritti nell’articolo (p. 118):

“Piccole porzioni di diversi lini sepolcrali (10-12 g), di colore grigio chiaro (non tinteggiati), di aspetto pulito e ben conservati, furono acquisiti, dopo essere stati storicamente e stilisticamente datati, dalle seguenti fonti:

Campione #1. A.D. 640, sepoltura di Scanlan Mor, capo di Ossory; scavato nel sito di Ballyknockane nella contea di Limerick, Irlanda; donato dalla Irish Heritage Foundation, Lanesboro, Irlanda.

Campione #2. A.D. 680-720, sepoltura di un monaco non identificato; scavato nel sito necropoli del monastero di St Domanagart, Slive Donard nei Monti Mourne, Irlanda; donato dalla Irish Heritage Foundation, Lanesboro, Irlanda.

Campione #3. A.D. 1110-1135, sepoltura di Liam Doughan, Lord Gillemore; scavato nel sito di Castelgarde presso Pallasgreen, contea di Limerick, Irlanda; donato da Sir Arthur Luttrell, Clogheen, Irlanda.

Campione #4. A.D. 1585, sepoltura di Garrett Og Fitzgerald, undicesimo Conte di Kildare; cattedrale di S. Brigida, Kildare, Irlanda; donato dal Prof. Sean Laoghaire, Westmeath College of Arts, Westmeath, Irlanda”.

Come si vede, sono citati per nome tre donatori (fra cui una istituzione). Ho cercato di verificare se essi esistono realmente. (Naturalmente, ho cominciato con una ricerca su Internet e sugli elenchi telefonici, senza risultati). Sono inoltre indicati per nome i personaggi sepolti in tre delle tombe. Ho provato a verificare se le tombe esistono, se sono state aperte ed esaminate, se ne sono stati asportati campioni di tessuto. Ho raccolto le informazioni da numerosi corrispondenti irlandesi, ai quali mi ero rivolto scegliendoli fra esperti di archeologia o di storia locale.


I donatori


Irish Heritage Foundation. Lanesboro è una piccola cittadina nella contea di Longford. Il termine Heritage indica che questa presunta fondazione si occupa di storia locale, genealogia, conservazione di archivi o di monumenti. Due esperti di storia locale, J. P. Kilcline e Vincent Byrne, non conoscono alcuna fondazione con quel nome. Ho poi scritto alla County Longford Historical Society, e Seamus Mulvey ha confermato che la fondazione non esiste.

Sir Arthur Luttrell. Clogheen è un piccolo paese nella contea di Tipperary. Edmund O’Riordan vive a Clogheen da cinquant’anni e ha compilato una storia del luogo. Non conosce un Sir Arthur Luttrell ed è sicuro che ne avrebbe sentito parlare se abitasse in zona.

Prof. Sean Laoghaire. Il suo indirizzo viene indicato da Kuznetsov come Westmeath College of Arts, Westmeath, Irlanda. Westmeath è il nome di una contea, ma non di una città. Di solito, le contee irlandesi portano lo stesso nome della città principale, ma non in questo caso. Ho fatto il possibile per accertare se, in qualunque località irlandese, esista un Westmeath College of Arts. Ho interpellato uffici o persone, a partire dalle amministrazioni centrali a Dublino, che dovrebbero essere al corrente dell’esistenza di scuole d’arte. Nessuno ha mai sentito nominare questo College. Ringrazio i seguenti corrispondenti: Gerardette Bailey, Pauline Delaney, Brian Harten, Ann Howley, Sharon McGrane, Gerry O’Sullivan, Sarah Ryan.


Le sepolture


Scanlan Mor, capo di Ossory. Quello di Ossory era uno dei diversi piccoli regni in cui l’Irlanda era divisa all’epoca. Gli Annals of the Four Masters, un’importante fonte di informazioni per l’antica storia irlandese, riportano per l’anno 640: “Scannlan Mor, figlio di Ceannfaeladh, capo di Osraighe [Ossory] , morì”. È quasi tutto ciò che si sa del personaggio. Scannlan Mor, cioè
Scannlan “il Grande”, fu un chief, un capo, una sorta di re tribale. Sono relativamente scarse le conoscenze su quell’epoca della storia irlandese, quindi il ritrovamento della tomba di un re sarebbe di grande interesse. Nessuno, fra gli studiosi che ho consultato, sa dell’esistenza di una tomba di Scannlan Mor. Se una tomba esistesse, sarebbe difficile pensare che un tessuto in essa contenuto sia stato ritrovato “ben conservato”. Se un tessuto fosse stato recuperato, è difficile immaginare che sia in possesso di una Fondazione di Lanesboro che ne può disporre regalandolo a un chimico straniero.

Un corrispondente molto ben informato su dettagli storici, Larry Walsh (del Museo di Limerick, e direttore della rivista The Old Limerick Journal), mi scrive a proposito del luogo del presunto ritrovamento. Ballyknockane House, nella contea di Limerick, fu costruito da un Michael Scanlan. La coincidenza del nome, giunta in qualche modo a Kuznetsov, può averlo indotto a collocare lì la tomba. Ma questo Michael Scanlan, che si sappia, non aveva alcuna parentela con l’antico sovrano, e Ballyknockane House fu costruita soltanto nel 1793-94. Inoltre il luogo non è vicino alla zona dell’antico regno di Ossory, che si estendeva all’incirca dove oggi c’è la contea di Kilkenny, non in quella di Limerick.

Monastero di St Domanagart. Ai corrispondenti non risulta che in questo monastero siano stati ritrovati tessuti così antichi. Qualcuno ritiene che in realtà non siano state scavate tombe nella zona. Comunque, dato che Kuznetsov parla di un monaco non identificato, è difficile arrivare a conclusioni.

Liam Doughan, Lord Gillemore. Il già citato Larry Walsh ha fornito utili informazioni sulla storia dei Lord Gillemore (o Lord Guillamore, come di solito il nome viene scritto). Altre notizie le ho ricavate da Internet. Il nome di famiglia di questi lord è O’Grady. Ma il primo Lord Guillamore fu creato soltanto nel 1831, quando Standish O’Grady fu nominato visconte. Gli O’Grady non ebbero alcuna relazione con i possedimenti di Guillamore fino al XVIII secolo, quando il nonno del primo visconte sposò una donna che li portò in dote. La residenza di Castlegarde fu abitata da qualcuno della famiglia, ma questo accadde soltanto in epoca recente. Infatti Castlegarde fu abitata per la prima volta da un membro della famiglia O’Grady nel XIX secolo, quando un parente del primo visconte costruì una casa presso una vecchia torre. Negli anni seguenti, altri visconti Guillamore vi tennero residenza. Non sono riuscito a rintracciare alcun personaggio storico col nome di Liam Doughan.

Ho trovato che Castlegarde, cioè la parte della vecchia torre, viene talvolta descritta come la più antica casa abitata nella contea di Limerick. Forse Kuznetsov ha rilevato questa informazione (per esempio su Internet, come me), e ha anche letto che Castlegarde fu la residenza dei Lord Guillamore. Non sapendo, però, che questi Lord arrivarono lì non prima del XIX secolo, ha immaginato che quella fosse la loro residenza ancestrale. Quanto al nome di Liam Doughan, non so dove lo abbia reperito (o forse se lo sarà inventato).

Presso la East Clare Heritage si sta compilando un archivio per la storia della famiglia O’Grady. Da quella associazione, Gerard Madden mi informa che le tombe di entrambi i rami della famiglia si trovano in altre località (Aney e Knockainy), ma non a Castlegarde.

Garrett Og Fitzgerald, undicesimo Conte di Kildare. La scelta di questo nome è stata quanto mai infelice da parte di Kuznetsov: i conti di Kildare furono personaggi molto importanti nella storia irlandese, e l’idea che qualcuno in Irlanda possa regalare a un russo un pezzo di stoffa proveniente da una tomba di un Kildare è tanto inverosimile da far nascere da sola dei sospetti. L’ottavo conte, nonno di questo Garrett (o Gerald), fu una sorta di vicerè dell’Irlanda. Il padre, nono conte, incontrò l’opposizione del re Enrico VIII e morì a Londra suo prigioniero. Il fratello maggiore, divenuto, giovanissimo, il decimo conte, guidò una ribellione degli irlandesi contro la corona britannica; fu sconfitto e fatto impiccare dal re assieme a cinque suoi zii. Il nostro Gerald, ancora un ragazzo, si salvò perché fu fatto fuggire e portato a Roma. Visse in esilio per molti anni fin dopo la morte di Enrico. Sotto la regina Maria poté tornare in Irlanda, ma poi, sotto Elisabetta, fu ancora perseguitato e gli furono in parte espropriati i possedimenti. (Era il periodo in cui Elisabetta schiacciava ogni velleità di indipendenza con quella che gli storici, dell’una o dell’altra sponda, hanno poi chiamato inflessibile determinazione oppure inaudita ferocia). Trascorse diversi anni in prigionia, ed era prigioniero della regina quando morì a Londra nel 1585.

Garrett si dedicava a studiare le arti magiche nel suo castello di Kilkea, e per questo è noto come il Conte Mago. La gente d’Irlanda continuò, dopo la sua morte, a coltivare le speranze di rivincita che aveva investito sulla sua dinastia. Si formarono leggende secondo le quali l’imponente castello era infestato dal fantasma del Conte Mago. In una delle versioni (c’è una certa confusione), il fantasma arriva al castello su un cavallo con gli zoccoli (cioè i “ferri”) d’argento. Quando l’argento sarà tutto consumato, il Conte si risveglierà dal sonno della morte, piomberà fra i vivi già vestito della sua armatura, e guiderà gli irlandesi in una vittoriosa battaglia contro gli inglesi. Ridarà l’indipendenza a tutta l’Irlanda e ne sarà il re.

Oggi gli irlandesi non stanno più aspettando che il Conte Mago risorga dal sepolcro per liberarli dagli inglesi. Ma di certo non sarebbero contenti se sapessero che qualcuno ha profanato la sua tomba e gli ha strappato un lembo della camicia per regalarlo a un russo.

Sarebbe comunque difficile prelevare un tessuto dalla sua tomba, perché la tomba non esiste più. Il Conte morì a Londra nel 1585, infatti, e in seguito la salma fu trasferita a Kildare (la città nell’omonima contea irlandese). Ma la sua tomba è oggi introvabile. Adrian J. Mullowney, di Kildare, che mi era stato indicato come il più autorevole esperto di storia locale, mi informa che la cattedrale di Santa Brigida andò parzialmente in rovina durante le guerre del XVII secolo, e molte tombe furono distrutte. La chiesa fu ricostruita nel XIX secolo, ma né allora né in seguito si è scoperta una tomba dell’undicesimo conte. Oggi nella chiesa, come in una adiacente cripta in cui, secondo la tradizione, alcuni Kildare erano in origine tumulati, non c’è traccia di una sepoltura, né c’è una lapide o una iscrizione relativa all’undicesimo Conte.

Ringrazio anche un altro storico locale, Karel Kiely, della Kildare Heritage & Genealogy Co, che si è pure avvalso della consulenza di Con Costello, della Kildare Archaeological Society. Ringrazio poi Hermann Geissel.


Altri contributi


Oltre a quelli fin qui citati, numerosi altri corrispondenti, archeologi o esperti di storia locale, mi hanno risposto dicendo che non sono al corrente dell’esistenza dei personaggi citati da Kuznetsov, né del fatto che siano stati effettuati scavi o siano stati recuperati tessuti nei termini da lui descritti. Ringrazio i seguenti: Elizabeth O’Brien, William O’Brien, Oliver Cassidy, Eamonn Cotter, Maria FitzGerald, Cathy Daly, Margaret Gowen, Annaba Kilfeather, Martina Malone, Conor McDermott, John O’Neill, Claire Walsh, Elizabeth Wincott Heckett. Ringrazio in particolare Richard Warner, curatore per l’archeologia e l’etnografia dell’Ulster Museum, Belfast, per le sue risposte circostanziate.
Se tante persone dell’ambiente, in un paese piccolo come l’Irlanda, sono concordi nel non aver mai sentito nominare le persone o i fatti citati da Kuznetsov, è difficile pensare che tutte le sue affermazioni siano vere.



Una conferma dal National Museum of Ireland


Quando questa parte dell’inchiesta era terminata, da Dublino mi giunse una conferma da parte del principale museo irlandese, dove i funzionari avevano condotto una inchiesta parallela, dopo che avevo loro segnalato il caso. Le conclusioni raggiunte dal Museo sono importanti, sia perché potevano essere svolte indagini da posizione autorevole e ben informata, sia perché, secondo le norme da tempo vigenti in Irlanda, nessun reperto archeologico può essere portato fuori dal paese senza una speciale autorizzazione del Museo.

Mary Cahill, Assistant Keeper della Irish Antiquities Division presso il museo, mi ha spedito copia di una lettera da lei inviata all’Institute for Conservation londinese, l’editore della rivista che aveva pubblicato l’articolo. La riporto:

“Siamo stati contattati da Mr Gian Marco Rinaldi in relazione a un articolo di Dmitri A. Kuznetsov, pubblicato nel vol. 45, n.2, della rivista dell’Istituto. Nell’articolo l’autore pretende di usare alcuni campioni di tessuto provenienti dall’Irlanda per sostenere la sua asserzione che “esiste una correlazione positiva diretta fra campioni di diverse età di calendario e il loro grado di metilazione della cellulosa…”

“Avendo controllato l’articolo, mi spiace dovervi informare che, per quanto riguarda i campioni di tessuti dall’Irlanda, non c’è alcuna base per l’ipotesi avanzata dall’autore. Le sepolture che descrive, contenenti i resti di alcuni individui nominati, sono sconosciute all’archeologia irlandese. Le istituzioni e gli individui che egli nomina come fornitori dei campioni, non esistono.

“Inoltre, sia lo scavo archeologico che l’alterazione di oggetti archeologici (inclusa la rimozione di campioni per esami) sono strettamente controllati dalla legislazione. Permessi di alterazione sono rilasciati dal Minister for Arts, Heritage, Gaeltacht and the Islands attraverso il National Museum of Ireland. Non c’è traccia di richieste o del rilascio di permessi per i campioni descritti. Non hanno avuto luogo scavi nei siti descritti.

“L’autore sembra essersi dato da fare per “identificare” siti e nomi di persone che sono chiaramente di origine irlandese, ma sono immediatamente sospetti per chiunque abbia familiarità con l’archeologia e la storia della nazione. Potrei trattare in dettaglio ogni nome di luogo o di persona, ma probabilmente non è necessario. Basti dire che l’informazione sull’Irlanda data nell’articolo non ha alcuna base nella realtà”.


Un articolo dalla Georgia


Un riferimento nella bibliografia, il n. 17, rimanda a un articolo pubblicato nel 1980 sui Proceedings of the Georgian Soviet Socialist Republic Academy of Sciences, a firma di tre autori, V. G. Archilashvili, A. V. Tkhavaberidze e O. B. Pachkhelavia. È un riferimento chiave perché Kuznetsov rimanda a quell’articolo per la descrizione del metodo da lui impiegato per coltivare i microrganismi da cui viene estratto l’enzima per gli esperimenti. Se quell’articolo non esiste, non esiste il metodo e non si possono fare gli esperimenti. Da Tbilisi ho ricevuto la lettera di Dali Suladze, Segretario Scientifico della Biblioteca Centrale Scientifica dell’Accademia delle Scienze della Georgia. Mi informa che non esiste quell’articolo sulle pubblicazioni dell’Accademia, Proceedings o Bulletin. Nemmeno i numeri dei volumi, per il 1980, corrispondono col volume n. 54 indicato da Kuznetsov. Inoltre Suladze ha interpellato tre scienziati che lavorano nel campo biologico (gli accademici M. Zaalishvili, V. Okudjava, T. Dekanosidze), i quali non conoscono i nomi dei presunti autori dell’articolo.

Ringrazio anche la Dr.ssa Adelaide Piccolomo, bibliotecaria alla Sapienza di Roma, che aveva a sua volta condotto ricerche sulle annate delle riviste georgiane.


Affiliazione


Alla fine dell’articolo c’è una breve nota biografica, dove Kuznetsov, dopo avere enumerato i suoi titoli, dice di sé: “Attualmente è professore di biochimica, Nesterova College, University of Moscow, e direttore degli SBR Laboratories, Inc., Mosca”. Indica poi l’indirizzo del laboratorio, dove le iniziali sono quelle da lui solitamente usate come abbreviazione per Sedov Biopolymer Research Laboratories: “S. B. R. L., 25-44 Menzhinski Street, Moscow 129327”, ma questo non è altro che il suo indirizzo privato.

Oltre al Sedov, Kuznetsov dà qui una nuova affiliazione: Nesterova College dell’Università di Mosca. Dire Università di Mosca, senza altre specificazioni, significa intendere la grande università statale di quella città. Non sono riuscito a localizzare un Nesterova College in quella università, anche se può essere difficile comprovare che non c’è. La cosa è più sospetta per un curioso alternarsi di maschile e femminile. Infatti, scrivendomi nell’ottobre del 2000 (ad articolo già pubblicato), Kuznetsov diceva di essere part-time professor di chimica e biochimica al Nesteroff College della Università di Mosca. Anche una nota di aggiornamento al suo curriculum riporta, al maschile, Nesteroff College.

Mikhail Nesterov è stato un pittore russo abbastanza noto, cento anni fa, e ci potrebbe essere un college a lui intitolato. C’è però a Mosca una scuola privata, denominata a volte come “università”, condotta da una Natalia Nesterova. È un complesso di scuole di vario tipo: lezioni di inglese, corsi di computer, scuola di belle maniere per signorine, fino a una “università umanistica”. Ritengo possibile che Kuznetsov abbia trovato un lavoro presso questa scuola, ma dubito che la si possa far passare come undell’università statale di Mosca. Ho scritto a questa Natalia Nesterova ma non ho avuto risposta.


Che si tratti di questa scuola, è probabile per un analogo balletto di maschile e femminile con cui Ivanov si presentò a Torino nel 2000 per un congresso sulla sindone organizzato dal vescovo. Nella relazione preliminare inviata al congresso, come nella presentazione sul sito Internet del vescovado, Ivanov si dice affiliato a una “Nesteroff University” di Mosca. Scrissi alla segreteria dell’Ostensione, presso il vescovado di Torino, chiedendo che mi dessero l’indirizzo di quella università, o che inoltrassero a Ivanov una mia lettera dove lo pregavo di mettersi in contatto con me. Mi risposero di avergli spedito la mia richiesta. Non ottenendo una risposta da Ivanov, sollecitai l’ufficio torinese che gli inviò una seconda richiesta. Nessuna risposta. La segretaria disse che non potevano darmi l’indirizzo privato di Ivanov, dato che lui aveva vietato. In realtà non chiedevo un indirizzo privato, ma quello dell’Università Nesteroff. Infine, nella edizione a stampa degli Atti del convegno che è poi stata pubblicata, l’affiliazione di Ivanov ha cambiato sesso ed è diventata la “Natalia Nesterova University” di Mosca. Suppongo quindi che anche per Kuznetsov si tratti di un impiego presso questa scuola, e che sia una scuola privata non connessa con l’Università di Mosca.


Finanziatori


Nella sezione finale dei ringraziamenti, Kuznetsov scrive: “La maggior parte di questo lavoro è stata finanziata dall’ATLAS Research Program Grant fornito dalla Guy Berthault Foundation, Meulan, Francia, nel 1996-97. La procedura di isolamento/purificazione dell’enzima è stata finanziata dal Marc Antonacci Fund for Turin Shroud Research, St Louis, Missouri”. Dunque ancora Berthault, anche se si riferisce al periodo anteriore alla carcerazione. Poi c’è un ringraziamento per Marc, in realtà Mark, Antonacci.
È un avvocato americano, appassionato sindonologo, che recentemente ha pubblicato un libro con il titolo La resurrezione della Sindone. Gli ho scritto per sapere se realmente ha finanziato Kuznetsov, ma non ho avuto risposta.


Consulenti


Proseguendo nella sezione dei ringraziamenti, Kuznetsov cita due consulenti principali: “Un ringraziamento speciale al Professor Shane Leslie Healy della University of Dublin e a Monsignor Denis Meehan della Irish Heritage Foundation, Lanesboro, Irlanda, per le loro consulenze sui dettagli stilistici relativi alle età degli antichi tessuti irlandesi”. Ho controllato se esistono.

Professor Shane Leslie Healy della University of Dublin. Non esiste a Dublino una università che porti questa denominazione ufficiale, ma per uno straniero potrebbe concedersi che usi un termine generico per una delle università della città. Ho richiesto informazioni all’Ufficio del personale per ciascuna delle tre università di Dublino: Dublin City University, University College Dublin, Trinity College Dublin. Tutti hanno risposto che non conoscono alcun Shane Leslie Healy.

Monsignor Denis Meehan della Irish Heritage Foundation, Lanesboro. Denis Meehan è un nome comune in Irlanda, ma ai corrispondenti del luogo, quelli già citati in relazione alla Fondazione, non risulta che a Lanesboro ci sia un monsignore con quel nome, tanto meno associato a una fondazione che non sembra esistere.

Di seguito ancora, Kuznetsov scrive: “Il Dr Patrick O’Callaghan della University of Dallas; il Dr Elliot Byrne e il Dr Kevin O’Toole della Sacred Heart University a Fairfield, CT; il Professor Alan O’Donnell e il Dr Dylan O’Phelan della Fordham University a New York; Padre Patrick Guilhooley dell’Albertus Magnus College a New Haven, CT; il Dr Claude Maistre e il Professor Kenneth Ryan della Loyola University di Chicago; il Dr Paul de Caussade della University of Notre Dame, Notre Dame, IN; e il Professor Arthur McGeady del Quinnipiac College a Hamden, CT, sono da ringraziare per le loro utili osservazioni critiche e per la gentile attenzione a questo studio”.

Si tratta di dieci nomi di dottori o professori presso sette università americane. Tutte, tranne l’ultima, sono scuole private confessionali cattoliche. Queste università hanno siti su Internet con l’elenco completo del personale docente. Ho controllato ma non ho trovato i nomi indicati. Ho comunque scritto a tutte le università, chiedendo se hanno, o hanno avuto negli anni scorsi, questi nomi nel loro staff. Cinque delle sette università hanno risposto di non conoscere i nomi. Una non ha risposto. Una ha risposto che non possono dare informazioni sui dipendenti senza il permesso degli interessati. Ho replicato che mi serve solo sapere se gli interessati esistono, ma non ho avuto risposta. Ritengo di poter concludere che, almeno per la maggior parte, quelle persone non esistono.

Kuznetsov continua: “Assistenza tecnica essenziale nella spettrofotometria in reflettanza UV-VIS è stata gentilmente fornita da Mrs Anne-Marie Toussaint, St Vincent College a Bridgeport, Connecticut”.

Il St Vincent College è un’altra scuola cattolica, ma la sua sede è in Pennsylvania, non in Connecticut. Ho scritto chiedendo se esista una sede staccata a Bridgeport, e se abbiano una Anne-Marie Toussaint fra i dipendenti. Hanno risposto che non esiste una sede a Bridgeport e che non conoscono una Toussaint. (Kuznetsov dovrebbe ben sapere dove si trovi Bridgeport, la città dove rimase in carcere per mesi).

Infine, l’ultima frase dalla sezione dei ringraziamenti: “Mr Ignat Peremyshlo, Institute for Applied Microbiology di Mosca, va ringraziato per la sua continua assistenza nella preparazione dei campioni di enzima per il trattamento dei tessuti”.

Mi è stato impossibile rintracciare l’istituto di Mosca, che ha un nome troppo generico. Credo che a questo punto possiamo solo augurare al signor Peremyshlo di esistere.

Mi pare evidente che Kuznetsov, con questo articolo, intendeva suscitare interesse in ambienti religiosi cattolici: non c’era altro motivo per selezionare tante università confessionali.


Pubblicazione


Non so quali siano i criteri adottati da questa rivista per accettare gli articoli. La rivista conta sei direttori, tutti paritetici. Appartengono per lo più all’area britannica e tutti si occupano di cose antiche e di musei. Trovo quindi strano che abbiano visto l’articolo senza accorgersi delle incongruenze che contiene.



Ringraziamenti


Nel concludere il resoconto dell’inchiesta, ringrazio caldamente i tanti corrispondenti che mi hanno permesso di realizzarla. Diversi di loro hanno condotto ricerche o si sono prodigati con notevole impegno per procurare le informazioni che richiedevo. In alcuni casi si è sviluppata una corrispondenza che è proseguita con lo scambio di numerose lettere.

Nel corso dell’esposizione ho citato i nomi di tutti coloro che hanno fornito particolari elementi utili ai fini dell’evidenza raccolta. Alcuni dei nomi già citati vanno di nuovo ringraziati per la disponibilità con cui hanno collaborato: si tratta di “Atheologian”, Luigi Campanella, Odile Eisenstein, Marian Hyman, Mary Virginia Orna, Denise Parent, Sidney Weinstein e Ian Wilson, oltre a Malcom Bowden e Carl Wieland.

È stato un piacere entrare in contatto con gli esponenti di organizzazioni scettiche di vari paesi. Ringrazio Jon Blumenfeld (Connecticut), Dan Larhammar (Svezia), Barry Williams (Australia), e in particolare Paul-Éric Blanrue (Francia). Qui da noi, Luigi Garlaschelli si è reso utile in varie circostanze.

Mi scuso se, fra tanti nomi, ho dimenticato di citarne qualcuno. Estendo i ringraziamenti ad altri corrispondenti che, pur senza trovarsi in condizione di fornire contributi di rilievo, si erano comunque gentilmente resi disponibili.

Ringrazio infine lo stesso Kuznetsov che, suo malgrado, mi ha dato lo spunto per iniziare l’indagine. Infatti mi inviò spontaneamente (ottobre 2000), fra altre cose, una copia del suo articolo più recente, quello dei tessuti irlandesi. Non conoscevo il lavoro e probabilmente non lo avrei mai visto se non fosse stato lui a spedirmelo. Fu proprio la lettura di quell’articolo che mi fece sorgere i primi sospetti. Kuznetsov va anche ringraziato per avere fornito alcune delle fotografie qui pubblicate.


Note

1) Un esempio tipico di frode scientifica è appunto quello che consideriamo: la dichiarazioni di dati sperimentali falsi o inventati. Questo comportamento è contrario all’etica professionale degli scienziati ma non è tale da violare qualche articolo del codice penale. Chi se ne rende responsabile rischia sul piano della sua carriera di ricercatore ma non dovrà comparire in tribunale.

2) Degli interventi di Larhammar abbiamo già detto nella biografia. Quanto a Nelson, pubblicò una nota in una rivista creazionista, Bible-Science News, 33 (1995), 15-16. Nelson mi scrive che all’epoca furono inutili i suoi tentativi di mettersi in contatto con Kuznetsov per avere spiegazioni. Come per altri creazionisti e come per Larhammar, il russo risultava introvabile.

3) Kuznetsov avrebbe avuto tutto l’interesse a difendersi, perché in conseguenza dello scandalo dovette interrompere la sua carriera di creazionista. Le associazioni creazioniste si sganciarono da lui quando la notizia della falsa bibliografia fu diffusa dalle organizzazioni degli scettici. Abbiamo già visto che Larhammar pubblicò una articolo sullo Skeptical Inquirer nel 1995 (“Severe flaws in scientific study criticizing evolution”, Vol. 19, n. 2). Nello stesso anno, la rivista degli scettici australiani, The Skeptic, pubblicò due articoli sulla vicenda (Ken Smith, “Creationist’s Chicanery Exposed”, Vol. 15, n. 1; Steve Roberts, “TheStrange mind of Dr Kouznetov”, Vol. 15, n. 3). In America ci furono scettici, come James Lippard o Richard Trott, che ne parlarono su siti Internet. (Lippard mi informa che apparvero critiche anche sulle pubblicazioni del National Center for Science Education, che non ho visto.)
Nei citati articoli di Roberts e Smith, si legge che gli scettici australiani avevano già avuto nel mirino Kuznetsov nel 1991, quando ci fu un suo ben reclamizzato giro di conferenze in Australia. Si erano allora accorti che nel suo curriculum diceva di essere nel comitato di direzione di tre riviste scientifiche, due delle quali risultarono inesistenti (la terza era l’Intern. J. Neurosc.).

4) All’epoca c’era già a Mosca una chiesa battista (con pastori americani). La Slavic Gospel Association, fondata in America negli anni ’30 da un emigrato russo, si dedicava alla evangelizzazione della Russia e di altre nazioni slave. Stampava la Bibbia, tradotta in russo e nelle altre lingue locali, e la distribuiva in milioni di copie. Nel 1983 stampò in diecimila copie la prima traduzione russa di un libro creazionista (di Henry Morris). Fu la lettura di questo libro a produrre la “conversione” del nostro Kuznetsov.

5) Henry M. Morris è stato definito il padre del moderno creazionismo. Vi si dedica da mezzo secolo. Fondò l’Institute for Creation Research, di cui oggi è il presidente emerito. Conseguì un Ph.D. in ingegneria idraulica che gli servì per inventare una nuova disciplina scientifica, l’idrodinamica diluviana, cioè lo studio del modo in cui il deflusso delle acque del diluvio modellò la crosta terrestre quale la vediamo. Ha scritto una cinquantina di libri e innumerevoli articoli.
Eugene Grossman (o Grosman) è un russo che, ancor prima di Kuznetsov, fece la sua stessa scelta e diventò battista e creazionista. Emigrò in America dove fu attivo nell’ambiente e lavorò in particolare per la Slavic Gospel. Fu lui a tradurre in russo il libro di Morris che nel 1983 convertì Kuznetsov. In anni recenti, Grossman è rientrato stabilmente in Russia.

6) Fu Weinstein ad aprire a Kuznetsov le porte dell’America (era forse il 1988, ma non ho la data precisa). Kuznetsov, per uscire dalla Russia, aveva bisogno che uno scienziato straniero lo invitasse nel suo laboratorio. Weinstein lo invitò nel laboratorio privato che possiede a Danbury, Connecticut. Andò
a prenderlo di persona al suo arrivo all’aeroporto Kennedy. Lo ospitò a casa sua per diverse settimane. Lo portò anche a far visita al laboratorio di tossicologia del New York Medical College a Valhalla, dove, dice, fece ottima impressione. Weinstein sapeva dell’insolita posizione religiosa del russo, perché fu così gentile da presentarlo al ministro battista del posto, col quale Kuznetsov fece amicizia. Lo assistette anche per aprire un conto corrente presso una banca, dove i fedeli della chiesa avrebbero versato le loro offerte per la sua opera di scienziato cristiano. In seguito lo introdusse anche in ambienti cattolici interessati alla datazione della sindone. (Questi dettagli sono ripresi da una lettera che Weinstein ha inviato ad “Atheologian”, un mio corrispondente russo che si interessa anche lui di Kuznetsov).
I due rimasero in contatto per anni, non si sa quanto a lungo: Weinstein dice di non ricordare le date esatte, come si può comprendere. In una lettera che mi ha scritto, si riferisce al fatto che Kuznetsov gli illustrò i suoi lavori sulla datazione della sindone e gli mostrò articoli con le discussioni che ne erano nate. Questo doveva essere non prima della fine del 1993, in prossimità con l’epoca dell’intervento di Larhammar.
Verrebbe da pensare che forse Weinstein aveva simpatie per il creazionismo, ciò che spiegherebbe un trattamento di favore verso Kuznetsov. In realtà non sembra che fosse in alcun modo legato agli ambienti creazionisti. D’altra parte, Weinstein poteva essere in contiguità con ambienti genericamente religiosi, a giudicare dal fatto che è stato in seguito nominato Cavaliere di Malta (e perciò si fregia di un Sir davanti al suo nome). Si tratta non del Sovrano Militare Ordine di Malta, che (per quanto ne so) è controllato dal Vaticano ed è paragonabile a un ordine religioso, ma di un Imperiale Ordine di San Giovanni di Gerusalemme Ecumenico, un altro dei rami dei cavalieri di Malta, che suppongo pur sempre in sintonia con qualche fede religiosa.
Se Sir Sidney fu troppo indulgente verso Kuznetsov, si è poi riabilitato quando, nel 2001, come abbiamo visto nella biografia, ha forse contribuito a mandare a monte la collaborazione del nostro con i servizi segreti russi.

7) Ho attinto a una copia del curriculum che lo stesso Kuznetsov mi ha gentilmente inviato. Si tratta di fotocopia di un testo tirato da stampante di computer, con l’aggiunta di note scritte a penna (in tutto dieci pagine). Il testo stampato appare aggiornato alla fine del 1998 o al 1999. Le aggiunte furono apposte al momento di inviarmelo, nell’ottobre 2000. La bibliografia contiene 57 voci (36 in inglese e 21 in russo), dal 1978 al 2000.

8) Si tratta di un lino dell’epoca di Cristo, proveniente da un museo israeliano, che Kuznetsov dice di avere avuto da un sindonologo italiano, Mario Moroni. Infatti il signor Moroni mi conferma di avergli fornito il tessuto. Si può dubitare, però, che Kuznetsov lo abbia usato per questo esperimento che è un confronto con altri sette tessuti la cui esistenza appare dubbia. Moroni dice di avere inviato il campione il 4 gennaio 1994. Il manoscritto del primo 2b degli articoli giunse alla redazione della rivista il 7 marzo. Questo è anche il lino che Kuznetsov dice di avere usato per gli esperimenti della simulazione d’incendio 3. Moroni non mi ha specificato quale fosse il peso del campione.

9) Il nome della Krupa mi era stato fatto da un’altra Tatiana, la figlia di Larissa Riazantseva, fresca di dottorato in lettere, incaricata dalla madre di informarsi sui contatti più opportuni. Mi ha procurato indirizzi di archeologi specialisti nel campo degli antichi tessuti. È sorprendente la gentilezza di queste agenzie di viaggio, che sapevano che io non avrei pagato niente per i loro servizi. Per chi avesse in programma un viaggio in Ucraina, mi si lasci consigliare i nomi delle agenzie dei due corrispondenti più
solerti: la “Gate to Crimea” (Simferopoli) di Gennady Rut e la “Ukrointour” (Kiev) della Riazantseva.

10) In una precedente relazione a un congresso di sindonologi a Roma nel 1993 (che non ho preso in esame per l’indagine), Kuznetsov dice di avere sperimentato su un antico tessuto, proveniente sempre da Bukhara, fornitogli dal Middle Asian Ethnographical Museum di Tashkent, la capitale dell’Uzbekistan. Per i successivi articoli, ha usato un nome analogo spostando il museo a Samarcanda.

11) Kuznetsov fornisce questi nomi in maniera confusa. In 3a cita il nome di Bakhroushin e della istituzione di Protvino. In 3c cita Protvino ma non la denominazione dell’istituto, e cita il nome di Bakhroushin assieme ad altri nomi nella sezione dei ringraziamenti, senza però specificare che ha lavorato sull’AMS. In 3b non cita niente, né la città né l’istituzione né l’uomo.
Anche in 4a e 4b le due citazioni, uguali fra loro, di Shevardin e della istituzione di Protvino compaiono solo nella sezione dei ringraziamenti. Nel testo viene semplicemente detto, in una riga, che è stato usato l’AMS per misurare la composizione isotopica, senza specificare come e dove, e apponendo un rimando bibliografico a un altro articolo di Kuznetsov e soci 1a, dove però non c’è traccia dell’uso dell’AMS. Leggendo il testo, quindi, si ha l’impressione che la misurazione in AMS sia stata condotta dagli stessi autori, in conformità a un metodo da loro descritto in un altro articolo.

12) A. J. T. Jull, D. J. Donahue, P. E. Damon: “Factors that affect the apparent radiocarbon age of textiles”. In Orna, M.V., ed., Archaeological Chemistry, ACS Symp. Series, 1996, 248-53.

13) Si può aggiungere che nella bibliografia di [4ab], al n. 6, c’è una voce sospetta. Rimanda a un articolo dello stesso Kuznetsov, assieme ad altri tre autori, in un volume di Atti di un Simposio tenutosi a Praga nel 1993. L’editore del volume è indicato come University of Prague Press. Non esiste a Praga una editrice con questo nome. Le edizioni universitarie sono indicate come Charles University Press o Karolinum Press. Ho scritto a questa editrice e hanno risposto che gli Atti di quel congresso furono pubblicati da un’altra casa editrice di Praga, la Academia, come supplemento alla rivista Folia Microbiologica. Ho scritto sia alla Academia che alla redazione della rivista, senza avere risposta. Tuttavia la rivista è presente nel database di PubMed e non vengono elencati supplementi nel 1993 o negli anni successivi. Inoltre, in tutto PubMed non figurano i nomi di nessuno dei tre co-autori, né del curatore del volume. Né l’articolo né
la partecipazione al congresso compaiono nel dettagliato curriculum personale compilato da Kuznetsov.

14) Nei due articoli [4ab], quelli con cinque autori, l’indirizzo non è completo, cioè manca l’indicazione di viale Grafsky. Forse Kuznetsov pensava che, se metteva il nome della via per l’indirizzo di Mosca, doveva farlo anche per l’indirizzo di Krasnodar. Fu questo dettaglio che mi fece venire il primo sospetto sulla reale esistenza dell’istituzione di Krasnodar.

15) Kuznetsov pubblicò parecchi lavori di tossicologia, negli anni ’80, con l’affiliazione di questa “Moscow Station for Sanitation and Epidemiology”, che qui per brevità chiamiamo Stazione sanitaria. (Oggi la si trova anche citata con una denominazione traducibile come “Centro statale di Mosca per la supervisione sanitaria ed epidemiologica”). La sua funzione è
di esercitare un controllo, per esempio, sull’igiene di acqua, cibi, luoghi di lavoro, monitorare il possibile diffondersi di epidemie, svolgere funzioni burocratiche per quanto riguarda gli aspetti sanitari. Simili Stazioni sono sparse nelle città su tutto il territorio della federazione russa. Nell’era sovietica, a quanto sembra, la rete delle Stazioni serviva al potere centrale, cioè al Partito comunista, per esercitare un controllo, suppongo anche politico, sui medici, gli ospedali e tutto l’apparato sanitario.

16) Forse Moroni ha fornito anche denaro, oltre al tessuto, come si desume da un passo tratto da un articolo (che cito anche nella biografia) in una rivista sindonologica: “L’enorme interesse e l’entusiasmo suscitati dallo scienziato moscovita testimoniano il grande valore delle sue ricerche, condotte con serietà e rigore scientifico e pubblicate lo scorso gennaio dal prestigioso Journal of Archaeological Science. Dobbiamo essere veramente grati a Guy Berthault, il geologo francese che ha introdotto Kuznetsov agli studi sindonici ed ha finanziato la maggior parte dei suoi esperimenti, e a Mario Moroni, che ha fornito preziosi campioni [di tessuto] ed un cospicuo supporto finanziario per le loro analisi”. (Maurizio De Bortoli ed Emanuela Marinelli, “Dmitri Kouznetsov in Italia”, Collegamento pro Sindone, marzo-aprile 1996, pp. 49-53).

17) Accanto al direttore “in capo” (editor-in-chief), ci sono alcuni direttori associati e un più largo numero di membri di un comitato di direzione (editorial board) o di consulenza. A seconda delle situazioni, e a seconda della prassi adottata in ciascuna rivista, ci può essere una delega a un numero abbastanza ampio di persone, ciascuna delle quali, in pratica, si trova ad assumersi il ruolo principale nella decisione se pubblicare oppure no.

18) Ho provato a inserire le parole “suggested referees” in un motore di Internet e sono uscite in gran quantità le pagine di “Istruzioni per gli autori” di riviste scientifiche. Ci sono riviste che non solo consentono, ma chiedono obbligatoriamente che lindichi i possibili revisori. A volte il numero dei nomi suggeriti non è specificato, altre volte si richiede un numero preciso, in genere fra tre e cinque. Il J. Archaeolog. Sc., nelle sue istruzioni per gli autori, richiede i nomi di cinque revisori suggeriti. Il New J. Chem. permette che vengano suggeriti i nomi, senza indicare il numero. Si può supporre che, essendo ormai invalsa la prassi, anche altre riviste, se pure non lo specificano nelle istruzioni, consentano che l’autore suggerisca i nomi dei revisori.

19) La Orna si occupa di ricerche sul confine fra la chimica e la storia dell’arte. È una suora delle Orsoline e insegna al College of New Rochelle (stato di New York), una università cattolica. La Hyman è ricercatrice di chimica archeologica alla Texas A&M University. Già conosciamo Jull, ricercatore anziano al laboratorio AMS dell’Università dell’Arizona a Tucson.

20) Al congresso partecipava anche Alan Adler, il sindonologo amico di Kuznetsov. Pure Adler ebbe una relazione sulla sindone pubblicata nel volume. Non mi meraviglierei se avesse avuto un ruolo in favore del russo. È deceduto nel 2000 e non ho potuto interpellarlo.

21) A. J. T. Jull, D. J. Donahue, P. E. Damon: “Factors Affecting the Apparent Radiocarbon Age of Textiles”. Journal of Archaeological Science, 23 (1996), 157-160.

22) La “pubblicazione multipla” è deprecata in ambiente scientifico. Potrebbe, in teoria, essere anche passibile di conseguenze legali. Infatti un autore, quando viene stampato un suo lavoro, di regola deve firmare una cessione dei diritti all’editore della rivista. Se in seguito un’altra rivista pubblica lo stesso lavoro, è responsabile di violazione del copyright. Kuznetsov, per questi articoli, ha sfruttato sistematicamente la pubblicazione multipla. Ha spedito i lavori a coppie, contemporaneamente, come si rileva dalle date di arrivo nelle redazioni: si comincia con 2b e 2a, che giungono il 7 e il 14 marzo 1994, fino a 4b e 4a, 30 settembre e 5 ottobre. Ciascuna delle due riviste, ogni volta, pubblicava un lavoro senza sapere che contemporaneamente un lavoro gemello era in stampa. Quella delle due che usciva per seconda, diventava responsabile di violazione del copyright. L’anno dopo, nell’aprile 1995, partecipando al congresso, Kuznetsov ripresenta due dei lavori, quando già sa che sono stati accettati (e uno è già stampato) da altre riviste. Nelle varie versioni, oltre a presentare gli stessi metodi e stessi dati dei risultati, Kuznetsov usa per larghi tratti anche le stesse parole; piccole differenze sono probabilmente dovute al lavoro di revisione e di correzione dell’inglese, condotto indipendentemente nelle varie redazioni.

23) Anche nell’articolo gemello già apparso su An. Chemistry figuravano i passaggi copiati. La Hyman lo comunicò al direttore di quella rivista, che in seguito pubblicò una breve nota (vol. 68, 1996, p. 1071), a firma di Kuznetsov e colleghi, dove ci si scusava perché 17 capoversi erano stati inseriti senza le virgolette. Cioè, non è che avessero copiato parte del lavoro, semplicemente si erano dimenticati di virgolettare!



Gian Marco Rinaldi
e-mail:zzpuy@tiscalinet.it

Tratto da: Scienza & Paranormale N. 43


Quello strano silenzio sulla frode di Kuznetsov

di Gian Marco Rinaldi      14 luglio 2006

Torino. Sono passati ormai quattro anni dalla pubblicazione del resoconto dell’inchiesta su Dmitrij Kuznetsov (S&P n. 43), ma sembra che i sindonologi, in Italia come all’estero, ritengano che sia ancora troppo presto per darne notizia ai loro lettori, almeno a giudicare da quanto si trova, cioè non si trova, nei loro siti in rete. Vediamo come si sono comportate le due principali associazioni sindonologiche italiane.

Lo storico Centro Internazionale di Sindonologia, con sede a Torino, non si è accorto di niente e continua a citare Kuznetsov sul suo sito (www.sindone.it):

“Tale dibattito [sulla datazione del 1988] ha coinvolto tutti i gruppi di ricerca sulla Sindone esistenti al mondo e si è concretizzato in vari convegni internazionali. Recenti studi sperimentali (effettuati in questi anni da Leoncio A. Garza-Valdès a San Antonio (Texas) e da Dmitrij A. Kuznetsov e Andrej Ivanov a Mosca) hanno ulteriormente riaperto il dibattito scientifico sulla datazione del tessuto, fornendo risultati che sembrano provare una possibile non trascurabile contaminazione chimica e biologica del tessuto sindonico e rendendo indispensabile pertanto la realizzazione di un ulteriore ampio programma di ricerche e di nuovi esami allo scopo di studiare e valutare il problema dell’introduzione di un opportuno fattore di correzione alla data radiocarbonica del tessuto sindonico”.

La frase non è rimasta lì per una dimenticanza. Infatti il sito è stato ristrutturato e viene regolarmente aggiornato.

Passiamo a Roma, dove il sito di Collegamento Pro Sindone (www.shroud.it) è stato invece solerte nel cancellare il nome di Kuznetsov già all’inizio del 2001, quando le prime notizie sulla mia inchiesta potevano essersi diffuse nell’ambiente. Però ha cancellato il nome del russo, ma non la notizia dei presunti risultati delle sue ricerche. Sarà interessante confrontare il prima e il dopo per due passaggi nelle pagine del sito.

Nella pagina sui “principali avvenimenti”, in un elenco cronologico, prima del 2001 si leggeva:

“1988 – Il 21 aprile dalla Sindone viene prelevato un campione di tessuto per sottoporlo alla datazione con il metodo del Carbonio 14. In base a questa analisi, la Sindone risalirebbe al Medioevo, ad un periodo compreso tra il 1260 ed il 1390. Le modalità delldi prelievo e l’attendibilità del metodo per tessuti che hanno subito vicissitudini come quelle della Sindone sono ritenute insoddisfacenti da un numero rilevante di studiosi. Tra questi lo scienziato russo Dmitrij Kuznetsov il quale, negli anni successivi, dimostra sperimentalmente che [Infatti,]l’incendio del 1532 ha modificato la quantità di carbonio radioattivo presente nella Sindone, alterandone così la datazione che va invece ricondotta al I sec. d.C. Contemporaneamente [Inoltre] lo scienziato statunitense Leoncio Garza-Valdès ha verificato la presenza di un complesso biologico composto da funghi e batteri che ricopre i fili sindonici come una patina e che non è eliminabile con i normali sistemi di pulizia. Usando un trattamento a base di enzimi particolari, si riesce a rimuovere questo inquinante e [Tutto] ciò permette di ricondurre la datazione della Sindone al I sec. d.C.”.
 

Un’incisione del 1739 che ritrae la Sindone così com’era nota allora.

 Nella versione purgata, tuttora presente sul sito, le frasi che ho messo in corsivo sono state eliminate e sostituite con le parole in parentesi quadra. Tutto il resto è rimasto identico. L’affermazione circa l’incendio che avrebbe modificato la datazione, è stata fatta, nel corso degli anni, solo da Kuznetsov. Se si riteneva valida l’affermazione, si poteva lasciare il suo nome. Se invece, dopo lo smascheramento, non la si riteneva più valida, allora anche l’affermazione andava cancellata. Ma quelli di Collegamento si sono ricordati di un celebre proverbio: si dice il peccato ma non il peccatore…

Analogamente, nella pagina sulle “principali ricerche”, da questo lungo passaggio sono state cancellate le frasi che ho messo in corsivo mentre le frasi residue sono rimaste identiche.

Lo scienziato russo Dmitrij Kuznetsov, direttore dei E.A. Sedov Biopolymer Research Laboratories di Mosca, premio Lenin, analizzando i dati pubblicati su Nature ha rilevato che i tre laboratori non hanno tenuto conto di tre fattori fondamentali:

Nella lavorazione della pianta di lino viene eliminata la parte composta di lipidi (grassi) e proteine che è meno ricca di carbonio radioattivo rispetto alla fibra tessile, per cui quando questa viene sottoposta a datazione risulta più giovane della pianta viva dalla quale è stata estratta.

L’alta temperatura raggiunta durante l’incendio di Chambéry (la cassetta con la Sindone fu avvolta dalle fiamme nell’incendio del 4 dicembre 1532) provoca scambi di isotopi che portano ad un arricchimento persino del 40% di carbonio radioattivo facendo risultare in proporzione più “giovane” il tessuto. La reazione è favorita dalla presenza dell’argento che ricopriva la cassetta.

Alcuni batteri operanti sulla superficie del lino possono, attraverso la loro attività enzimatica, legare chimicamente gruppi alchilici alla cellulosa. Questi gruppi contengono carbonio derivato dall’ambiente locale. Anche quando i batteri vengono rimossi dalla pulizia, le modificazioni della cellulosa restano.

Va sottolineato che le trasformazioni del lino dovute all’incendio e all’azione microbica sono di natura chimica e non fisica: perciò i solventi e le tecniche di pulizia usati dai laboratori della radiodatazione, che rimuovono la contaminazione di tipo fisico, come la sporcizia, non rimuovono i gruppi contenenti carbonio che si sono aggiunti, perché questi gruppi formano legami chimici direttamente con le molecole della cellulosa stessa.

Il combinato ritocco dovuto ai tre fattori ha portato D. Kuznetsov a spostare indietro di tredici secoli la datazione medievale dei tre laboratori e dunque a collocare nel primo secolo l’età della Sindone.”

Collegamento Pro Sindone pubblica regolarmente notizie su tutto quanto succede di interesse per l’argomento. Non ha mai nominato l’inchiesta su Kuznetsov.

Cambierà qualcosa nei prossimi quattro anni? Vi terremo aggiornati.

– Gian Marco Rinaldi

Nota

Naturalmente, a suo tempo il CICAP aveva informato queste e le altre associazioni e gruppi di studio che si occupano della Sindone, che le affermazioni di Kuznetsov si basavano unicamente sulla frode. Avevamo inviato loro copie del n. 43 di S&P. Viene da pensare che quella rivista e quei comunicati, ripresi anche sui giornali, non siano mai arrivati loro. Per questo, abbiamo deciso ora di rendere ancora più semplice sapere come stanno veramente le cose sul caso Kuznetsov, rendendo l’intera inchiesta di Gian Marco Rinaldi accessibile a tutti.

Tratto da: Scienza & Paranormale N. 65


Caso Ramsey: disinformazione a oltranza

Un aggiornamento sulle presunte nuove prove che dimostrerebbero l’inconsistenza scientifica della datazione della Sindone

di Gian Marco Rinaldi                                                3 febbraio 2009

Sul n. 78 di S&P abbiamo visto come, a partire dagli ultimi giorni di gennaio 2008, sui nostri media si sia diffusa la voce che il professor Christopher Ramsey, direttore del laboratorio del radiocarbonio di Oxford, avesse forse ammesso che la datazione della sindone condotta nel 1988 era sbagliata. Ramsey stava

John e Rebecca Jackson con il loro manichino dell’uomo della Sindone

conducendo nuovi esperimenti, si diceva, e i risultati sarebbero stati resi noti in un documentario sulla Sindone programmato per il 22 marzo, sabato di Pasqua, sul secondo canale della BBC inglese. Probabilmente per il clamore dei giornali, la Rai si affrettava ad acquistare i diritti del documentario inglese e a doppiarlo in italiano per metterlo in onda la sera del lunedì di Pasqua all’interno del programma Porta a Porta. Nonostante le smentite subito diramate da Ramsey, il tam tam è continuato sulla stampa italiana e si è esteso anche all’estero in diversi paesi. Ancora quel sabato di Pasqua, a poche ore dalla trasmissione del documentario, il telegiornale Studio Aperto (Italia 1) delle 12,25 trasmetteva un servizio dove si diceva: «La sacra Sindone potrebbe risalire ai tempi di Gesù e non essere affatto un falso medievale. Ora lo ammette anche il direttore del laboratorio di Oxford che diciannove anni fa condannò il lenzuolo funebre come non autentico. Dopo due decenni di polemiche e recriminazioni, il professor Ramsey dichiara oggi che l’esame al carbonio 14 potrebbe essere stato clamorosamente sbagliato. Per questo lo scienziato raccomanda nuove analisi. Il dietrofront dell’università di Oxford è il punto forte dell’atteso documentario sulla Sindone che la Bbc trasmetterà stasera, vigilia di Pasqua: una lunga inchiesta condotta assieme ai maggiori esperti di datazione con il carbonio. La loro conclusione fa scalpore. Tecniche nuove e più precise dimostrerebbero un errore nel test del 1989, e a certificarlo ora è lo stesso laboratorio che lo eseguì. Si riapre il caso del misterioso telo di lino ritenuto dalla tradizione quello che avvolse il corpo di Gesù. Per anni studi storici e scientifici hanno accumulato prove di autenticità di quell’impronta di uomo crocifisso. Ora anche i paladini dell’esame al carbonio dicono che sì, forse è tutto autentico».

Su Libero dello stesso 22 marzo, Antonio Socci scriveva: «Oggi, in Gran Bretagna, la Bbc trasmetterà l’annunciatissimo film-inchiesta sulla Sindone intitolato “Shroud of Turin. A conflict of evidence” con cui si riaprirà tutto il dossier relativo all’analisi al C14 fatta nel 1988. Tali e tante sono le scoperte e gli studi che, grazie ai più elaborati mezzi tecnico-scientifici, hanno dimostrato la fallacia di quella datazione medievale e la provenienza del Lenzuolo, con certezza, dalla Giudea e dal I secolo d.C., che pure il professor Christopher Ramsey, direttore del laboratorio di Oxford che fece quelle analisi, dichiara: “i miei colleghi potrebbero essersi sbagliati”. E ora intende riaprire la questione per capire quali elementi possano aver falsato i risultati. Siamo solo agli inizi di un clamoroso ristabilimento della verità». Il numero del settimanale Oggi in edicola quel giorno, titolava: «Un programma della BBC smentisce l’origine medievale del telo. Sindone, allora non è un falso? Nuovi studi ribaltano il test al carbonio 14 del 1988».


Il monossido



Finalmente fu trasmesso il documentario e si seppe quale doveva essere la nuova rivoluzionaria ipotesi. A proporla era John Jackson, un veterano della sindonologia che vive a Colorado Springs e continua a dedicarsi ai suoi studi assieme alla moglie Rebecca.
Jackson fu a suo tempo un seguace e collaboratore di Dmitry Kuznetsov (il biochimico le cui frodi scientifiche sono state raccontate su S&P 43). Anche dopo il declino del russo, non ha smesso di pensare all’incendio che coinvolse la Sindone nel 1532. Rendendosi conto che la quantità di carbonio incorporato nel 1532 dovrebbe essere ingente per produrre uno spostamento di data di tredici secoli, ha provato a immaginare un inquinamento con una sostanza arricchita in C14 in modo che ne basti una piccola quantità per falsare la datazione. Ritiene che il magico inquinante sia il monossido di carbonio (CO, non il biossido o anidride carbonica). Per mettere alla prova l’ipotesi, Jackson, a Colorado Springs, ha incubato campioni di tessuto di lino in atmosfera ricca di monossido di carbonio e li ha forniti a Ramsey per un test. Ecco il responso di Ramsey, da lui pronunciato nel documentario: «I campioni che abbiamo testato finora, campioni di lino riscaldati e conservati con monossido di carbonio, non hanno rivelato alcuna reazione con questo gas. Perciò, fino a questo momento, non c’è nulla nell’ipotesi del dottor Jackson che possa confutare i risultati della precedente datazione». La frase è molto breve e poteva sfuggire all’ascoltatore, ma Ramsey ha contemporaneamente pubblicato sul sito del suo laboratorio (all’indirizzo http://c14.arch.ox.ac.uk/embed.php?File=shroud.html) un più ampio comunicato che riassumiamo. Ramsey spiega perché l’ipotesi non appare verosimile. Primo, il monossido di carbonio è presente in quantità molto piccola nell’atmosfera. Secondo, la molecola è piuttosto inerte e non ci si aspetta che reagisca con la cellulosa del lino. Terzo, nessuna contaminazione di questo tipo è mai stata scoperta, nemmeno in reperti vecchi fino a 50 mila anni per i quali l’effetto sarebbe molto più marcato. Quindi è logico che una simile ipotesi non fosse mai stata presa in considerazione. Essendo comunque disposto a mettere alla prova l’ipotesi, Ramsey ha misurato il C14 nei campioni forniti da Jackson ed ecco il risultato: «Finora i campioni di lino sono stati sottoposti a condizioni normali (ma con concentrazioni molto alte di monossido di carbonio). Questi test iniziali non mostrano alcuna reazione significativa – anche se la sensibilità delle misurazioni è sufficiente per scoprire una contaminazione che sposterebbe l’età di meno di un singolo anno. Questo è quanto ci si deve aspettare e conferma perché questo tipo di contaminazione non sia stato finora considerato un problema serio». Dunque Ramsey era in grado di vedere uno spostamento di data di meno di un anno, ma non ha visto niente. I sindonologi si aspettano uno spostamento di 1300 anni. Ramsey aggiungeva anche che gli esperimenti sarebbero continuati perché Jackson doveva preparare campioni in condizioni particolari per simulare le condizioni in cui si è trovata la Sindone nel corso dei secoli. Probabilmente Jackson cercherà di sottoporre i campioni ai fumi di un incendio, tornando alla vecchia idea di Kuznetsov. Se finora non è riuscito a far combinare il monossido con il lino, non si prevede che ci riuscirà simulando un incendio. Comunque l’eventuale monossido prodotto dall’incendio del 1532 non poteva contenere carbonio arricchito dell’isotopo 14. Infatti il C14 si forma nell’alta atmosfera per l’azione dei raggi cosmici, mentre nell’incendio di Chambéry a bruciare era il legno degli arredi della chiesa, legno che aveva la stessa composizione in C14 del biossido nell’atmosfera (o un po’ inferiore se il legno era vecchio).
Il contenuto del comunicato, prevedibilmente, è stato taciuto dai sindonologi e ignorato dalla stampa, ma Ramsey chiudeva con una frase che è stata ripetuta molte volte. Diceva: «C’è una quantità di altra evidenza che suggerisce a molti che la Sindone sia più vecchia di quanto concesso dalle date radiocarboniche e quindi è certamente necessaria ulteriore ricerca». E concludeva con una esortazione, rivolta a tutte le parti, a riesaminare l’evidenza in modo da arrivare a una conclusione comune.


Il dopo-documentario


A questo punto, ci si aspettava che i giornali che nei mesi precedenti avevano creato le attese e annunciato le novità, si sentissero in dovere di informare i lettori che era stato tutto un equivoco. Non mi risulta che nessun giornale lo abbia fatto (con una eccezione di cui diremo alla fine). Al contrario, alcuni giornali hanno rilanciato e sono usciti con ulteriori notizie come se le novità fossero confermate. Documentiamo con alcuni esempi.
Sulla Stampa del 23 marzo, una corrispondenza da Londra di Vittorio Sabadin (lo stesso giornalista che era stato fra i primi ad aprire il caso con un articolo del 26 gennaio) titola: «La scienza ammette: “Forse sulla Sindone abbiamo sbagliato”. Esperti americani ed europei confidano alla Bbc: “Gli esami dell’88 non soddisfano, bisogna rifarli”. Una svolta nel dibattito sulla datazione». L’articolo si apre così: «Per vent’anni, dopo la datazione con il Carbonio 14 effettuata in tre laboratori diversi arrivati alla stessa conclusione, abbiamo pensato che la Sindone di Torino fosse una delle tante false reliquie medioevali, solo un poco più misteriosa e complessa. Ma ora un autorevole gruppo di scienziati americani ed europei, alcuni dei quali parteciparono agli esami condotti a Oxford, Zurigo e Tucson nel 1988, afferma che quegli esami potrebbero avere dato un risultato distorto e sollecita una nuova definitiva indagine sul lenzuolo di lino più famoso e discusso della storia». Altri articoli più brevi, tutti volti a spiegare che la Sindone non è medievale, riempiono le due pagine che il giornale dedica alla vicenda.
 

Un’immagine delle apparecchiature utilizzate per fotografare la Sindone.
Immagine tratta dal sito di Nital

Sul Corriere della Sera, sempre il 23 marzo, i titoli: «Grazie a tecniche al carbonio 14 più sofisticate. Bbc riapre mistero su Sacra Sindone. In un documentario nuove prove che confutano la datazione medievale fatta nel 1989».

Lo stesso giorno su Avvenire: «Speciale della BBC. TV, nuove rivelazioni sugli studi della Sindone. L’inchiesta, in onda domani su Raiuno, rivela: “Gli esami fatti nel ’78 sono sbagliati. La scienza non spiega questo grande mistero” ».
Sull‘Eco di Bergamo del 26 marzo, l’articolo di Pier Giuseppe Accornero ha il titolo: «Bbc: cade la datazione medievale della Sindone». Nel testo: «E adesso tocca agli scienziati, che per due decenni hanno sostenuto l’inattendibilità e la non storicità della Sindone di Torino, dimostrare che essa è un falso medievale. (…) È quanto emerge dal documentario-inchiesta “Shroud of Turin” che il secondo canale della Bbc ha mandato in onda la sera del Sabato Santo, 22 marzo, e che Porta a Porta ha ritrasmesso lunedì 24. Il filmato mette fortemente in dubbio la validità della datazione medievale effettuata nel 1988 con il radiocarbonio. (…) La conclusione della Bbc contesta l’arroganza dei “carbonisti”: il misterioso lino potrebbe davvero essere il lenzuolo che avvolse il corpo morto di Cristo deposto dalla croce».
Passiamo alla televisione. Il 23 marzo, nel Tg2 delle 13, il corrispondente da Londra diceva: «Un colpo di scena che riapre la possibilità che la sacra Sindone, conservata nel duomo di Torino e venerata da generazioni di credenti, sia davvero il lenzuolo funebre in cui venne avvolto Gesù Cristo dopo la crocifissione. Il sipario si rialza clamorosamente dopo vent’anni, grazie a un documentario trasmesso ieri sera da BBC2, che verrà riproposto domani da Porta a Porta: non è affatto detto che il misterioso tessuto di lino sia un falso medievale creato ad arte fra il 1265 e il 1385. L’inchiesta della Tv britannica smonta laohn di LA7 se ne è occupato la sera del 23 marzo, ma ho perso il servizio e ho solo visto scorrere, nella striscia in basso sullo schermo, l’annuncio: “Sindone: film della BBC riapre il mistero”.
Il giorno successivo, il Tg2 delle 20,30 diceva: «I risultati dell’esame scientifico condotto nel 1988, il cosiddetto carbonio 14, che datavano quel pezzo di stoffa al Medioevo, erano insieme anche la prova inoppugnabile che la Sindone non proviene dal sepolcro di Cristo, e dunque non riproduce, a mo’ di negativo fotografico, le fattezze reali di Gesù. Senonché, per bocca degli stessi scienziati interpellati in uno speciale della tv inglese BBC, quell’esame non è poi così preciso. Il mondo dei sindonologi, un bizzarro ring di credenti e di atei che da decenni si combattono a colpi di prove scientifiche, è in subbuglio. La partita si riapre. Il carbonio 14, uno scacco matto per i fautori della tesi della falsa reliquia, è stato revocato, perché?» Segue l’intervista a una sindonologa che dice: «Finalmente verrà presa in considerazione l’ipotesi che quel risultato sia stato falsato dalle contaminazioni presenti sulla Sindone, contaminazioni dovute alle vicissitudini storiche a cui la Sindone è stata sottoposta nei secoli». Mi è sfuggito pure un servizio trasmesso il 29 marzo da Mizar, rubrica culturale del Tg2, col titolo “Sindone, il caso è riaperto” e con una intervista alla sindonologa Emanuela Marinelli.
Il 24 marzo, in seconda serata su Raiuno, la trasmissione Porta a Porta era dedicata alla Sindone. Al suo interno venne trasmesso per intero il documentario della Bbc doppiato in italiano. A commentare il documentario, Bruno Vespa aveva chiamato sei ospiti, tutti sindonologi o favorevoli all’autenticità della Sindone. Non c’era alcuna voce critica. Nella discussione, dove tutti erano d’accordo, si è parlato della Sindone dando per scontato che sia una reliquia autentica. Nessuno ha fatto notare che il test di Ramsey, come comunicato nel documentario, era stato negativo.
Quella puntata di Porta a Porta dedicata alla Sindone fu il programma con il maggior numero di spettatori nella seconda serata televisiva del 24 marzo. Per inciso, il documentario (a parte il caso Ramsey) è stato mistificante a un livello raramente visto.

Nei mesi successivi, la tesi di Jackson è riapparsa su alcuni giornali americani. Jackson, intervistato assieme alla moglie Rebecca, si è sempre dichiarato fiducioso che la sua ipotesi verrà confermata, anche saranno necessari mesi o anni di lavoro. Non ha mai accennato ai risultati negativi del test di Ramsey. Anche in un comunicato a sua firma apparso sul principale sito sindonista (www.shroud.com/pdfs/jackson.pdf), Jackson ribadisce la sua tesi e tace sui risultati negativi di Oxford.
In agosto un lungo articolo del Los Angeles Times ha avuto un’eco anche in Italia. Diversi giornali pubblicavano una breve nota il 18 agosto. Sul Corriere della Sera: «Il mistero della Sacra Sindone si riapre: l’Università di Oxford è pronta a riconsiderarne la datazione». Su Repubblica in cronaca di Torino: «”[Jackson dice:] Non avevo mai creduto agli esiti dell’epoca [1988] (…) Gli alti livelli di monossido di carbonio hanno alterato i test.” Jackson, a distanza di 20 anni, è pronto ad invalidare la data, incassando anche il via libera dell’Università di Oxford, pronta a collaborare». Sul sito della Stampa: «Lo smog ha “sporcato” la Sindone, la datazione al carbonio va ripetuta. John Jackson, docente di fisica all’università del Colorado: “Restano molte prove che la Sindone sia in realtà più vecchia”». Sul Giorno e i due giornali collegati: «Potrebbe riaprirsi il mistero della Sacra Sindone: John Jackson, fisico dell’ateneo del Colorado ha incassato l’appoggio dell’università di Oxford per riconsiderare l’età del sudario di Cristo. Nel 1989 la Sindone (con la consulenza scientifica proprio di Oxford) era stata datata 1325: cioè come un falso medievale. Ma Jackson non ha mai creduto a quegli esami, sostenendo che il lenzuolo è molto più vecchio e che la datazione è stata alterata a causa degli elevati livelli di monossido di carbonio durante i test. Oxford ha ammesso che può essere vero: e che se Torino concederà la Sindone, rifaranno gli esami».
Concludiamo su una nota positiva. Sul Corriere della Sera del 31 maggio, in una sezione culturale, si faceva sentire una solitaria voce dissonante, non di un cronista del giornale ma di un illustre collaboratore, Giorgio De Rienzo. Riportiamo integralmente il breve testo di De Rienzo perché è un incisivo commento a tutta la vicenda: «Sulla Repubblica, con gran rilievo, si annuncia una nuova ostensione della Sindone di Torino, per altro già promessa dalla Stampa da quasi un mese. Secondo l’articolista, a volerla più che il popolo dei fedeli “sarebbe la comunità scientifica” per proporre “nuovi esperimenti” sulla datazione del telo “di più agevole realizzazione nel corso di una Ostensione”. Nell’inverno scorso i due giornali avevano anticipato, con intere pagine, le rivelazioni di uno degli scienziati di Oxford impegnati nel 1988 a eseguire l’esame del carbonio 14 che datava, nella delusione generale, il funebre lenzuolo tra il 1260 e il 1390. In un documentario della BBC lo scienziato in questione avrebbe sconfessato i risultati di quegli esami. Chi ha visto il documentario, lanciato in un clima d’avvento da Porta a Porta e passato poi in prima serata qualche mese fa, ha potuto constatare come non ci fosse nessuna smentita, ma solo un abile montaggio giornalistico di supposizioni, che Vespa dava per certe sprizzando pia gioia nel proprio sguardo illuminato, quasi volesse comunicare entusiasmo ai cauti ospiti in abito talare. La Chiesa non ha mai affermato ufficialmente che la Sindone sia una reliquia autentica (anzi in passato, per voce autorevole di due papi, l’ha dichiarata apertamente falsa), ma ha lasciato che esperti al suo servizio lo sostenessero e tentassero di dimostrarlo pateticamente, trovando sul telo ora tracce di polline palestinese, ora improbabili impronte di monetine d’epoca adatte a una precisa autentificazione cronologica. Obiezione da sprovveduto uomo della strada: la scienza forse potrebbe togliere qualche velo a un fitto mistero, ma non sarebbe mai in grado di dimostrare un miracolo. Sarebbe un ossimoro concettuale».

Gian Marco Rinaldi

Tratto da: Scienza & Paranormale N. 81


La farsa delle monetine sugli occhi

Ecco quale sarebbe la “prova” dell’antichità della Sindone

 di Gian Marco Rinaldi                                   3 febbraio 2009

N.B.: nel testo i numeri indicati in apice si riferiscono alle note in calce, mentre quelli indicati tra parentesi quadre si riferiscono alla bibliografia
[N.d.R.].


Ponzio Pilato, procuratore romano della Giudea (Palestina), emise due monetine di bronzo raffiguranti ciascuna un simbolo della religione romana, il simpulum (sorta di mestolo o tazza con manico per libagioni rituali) e il lituus (o lituo, il bastone degli àuguri con una estremità ricurva). Sull’altra faccia hanno rispettivamente tre spighe e una corona di alloro.

Fig.1 – La moneta del simpulum
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La prima fu coniata nell’anno sedicesimo dell’imperatore Tiberio, corrispondente al 29/30 d.C. (fig. 1), la seconda nei due anni successivi (fig. 2). Le due monete sono oggi abbondanti sul mercato numismatico e si possono acquistare per piccolo prezzo. Hanno un diametro di circa 16 mm, la stessa dimensione del nostro centesimo di euro.[1]

I sindonologi (s’intende non tutti loro) hanno visto le impronte di entrambe le monete sulle fotografie del volto della Sindone: il lituo sull’occhio destro e il mestolo sul sopracciglio sinistro (oltre alle tre spighe sull’occhio sinistro). Le hanno visto tanto bene da leggere perfino alcune lettere delle iscrizioni, identificando così le due particolari monete fra tutte quelle emesse nella storia. Ritengono perciò di avere perfettamente datato la Sindone all’epoca della morte di Cristo.
Di solito hanno usato le fotografie in bianco e nero (su emulsione non pancromatica) prese da Giuseppe Enrie nel 1931, anche in riproduzioni di qualità scadente, invece delle fotografie molto migliori prese in anni più recenti.

 

Fig.2 – La moneta del lituus.
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Diciamo subito che basta guardare una foto della Sindone, in una riproduzione ingrandita e con sufficiente definizione, per constatare che non c’è nessuna impronta di moneta. Se esamineremo questo caso in dettaglio, non sarà per dimostrare che le monete non ci sono, ciò che è evidente, ma per dare un esempio di quali siano i metodi di indagine dei sindonologi.
Non discuteremo qui sull’assunto (infondato) di alcuni sindonologi secondo cui presso gli antichi ebrei c’era l’usanza di porre monete sulle palpebre dei cadaveri. Questa delle monetine è l’unica evidenza che i sindonologi sanno proporre per l’antichità della Sindone. Ne sono soddisfatti. Un esempio per tutti con Pierluigi Baima Bollone che ha scritto in un suo recente libro ([8], p. 328): «In conclusione la indiscutibile presenza di due monetine di Ponzio Pilato del 29-30 d.C. sul volto del cadavere che fu racchiuso nella Sindone prova una stretta concordanza con l’epoca della morte di Gesù. Nessun falsario medievale poteva conoscere queste monetine identificate soltanto dagli studi numismatici agli inizi del secolo scorso».

 

Indice 1 Il lituo 2 Un’iscrizione ballerina 3 Il lituo a rovescio 4 Le spighe 5 Il simpulum 6 Note 7 Bibliografia

Il lituo


Su tutte le monete pervenute, salvo rare eccezioni di cui diremo, il lituo si incurva in alto verso destra come nella parte alta di una S maiuscola (ci riferiamo alla moneta posizionata, come in fig. 2, con il bastone in verticale e l’estremità superiore ricurva). L’impronta sul telo, secondo quanto supposto dai sindonologi, sarebbe speculare. Quindi nella fotografia in positivo del volto della Sindone si dovrebbe vedere il lituo con la curva al contrario, cioè verso sinistra come in un punto interrogativo. Nel negativo fotografico, invece, il lituo avrebbe la curva a destra come sulla moneta. Occorre tenere presenti questi ribaltamenti perché mostreremo fotografie sia in positivo che in negativo.
 

Fig.3 – Il negativo di Filas e la sua prima moneta


In cerchio lungo il bordo, la faccia della moneta reca l’iscrizione “di Tiberio Cesare” in greco. Le lettere sono in alfabeto greco maiuscolo ma si possono tutte rendere in buona approssimazione con i nostri caratteri TIBEPIOY KAICAPOC (da leggere “Tiberioy Caisaros”). Solo la lettera che abbiamo indicato con E veniva scritta in modo un po’ diverso, cioè simile a una C con un trattino orizzontale a mezza altezza. A volte il trattino manca o è stato eroso e allora la lettera ha l’aspetto di una C. La prima parola comincia in basso, a sinistra del piede del lituo, e sale lungo il semicerchio di sinistra. La seconda parola scende lungo il semicerchio di destra e finisce alla destra del piede del lituo. Il primo a vedere l’impronta di questa moneta, sull’occhio destro della Sindone (a destra per chi guarda l’immagine), fu Francis Filas, professore di teologia alla Loyola University di Chicago, che diede l’annuncio nel 1979. La vide su un ingrandimento del negativo di una foto del 1931, quello in fig. 3 a sinistra. La copia di cui disponeva era già passata attraverso diverse riproduzioni successive ed era di scarsa qualità. Il contrasto è forte e la definizione è molto bassa, tanto che questa foto ha un aspetto notevolmente diverso rispetto ad altre riproduzioni dello stesso originale del 1931, per non parlare delle foto più moderne in buona definizione.[2]
 

Fig.4 – Elaborazione tridimensionale del negativo di Filas

 
Nella sua fotografia, Filas vide un’asta verticale che era semplicemente un effetto della tessitura. Di simili linee verticali, nel senso dell’ordito, ce ne sono tante sulla Sindone, anche su tratti molto più lunghi.[3] La interpretò come il gambo del lituo, in cima al quale vedeva un arco verso destra. L’arco non c’è sulla fotografia di Filas, tanto meno su fotografie migliori. Poi vedeva quattro lettere dell’iscrizione, e questo era il dettaglio determinante. Proprio la presenza delle quattro lettere doveva permettere l’identificazione con quella particolare moneta di Ponzio Pilato.
In alto a sinistra nella fotografia di Filas si notano alcuni segni bianchi. Trattandosi di un negativo, corrispondono a segni più scuri che il forte contrasto della riproduzione e la scarsa definizione della foto hanno reso bianchi e indistinti. Filas vide in quei segni le lettere UCAI, disposte lungo il bordo della parte alta del lituo e alla sua sinistra.

Filas si convinse che la sua foto riproduceva la moneta del lituo. Subito in quel 1979, si procurò un esemplare della moneta che gli fu regalato da un sindonologo collezionista. È quello a destra in fig. 3. La moneta è molto consumata, ha l’iscrizione quasi illeggibile ed è fortemente erosa su un fianco. Confrontando la sua foto con quella moneta, Filas trovò 24 coincidenze e concluse che «la semplice probabilità matematica indicava una probabilità di meno di uno su 10 elevato a 42 del verificarsi casuale di tante coincidenze» ([10], p. 136). È inutile cercare di rifare il calcolo.
 

Fig.5 – L’area dell’occhio destro in negativo
© Sindon

Filas pubblicò anche una “elaborazione tridimensionale”, quella in fig. 4, che probabilmente gli era stata fornita dal nostro sindonologo Giovanni Tamburelli. Ha un’immagine lontana da quella reale e quasi non ha più relazione con quanto si trova davvero sulla Sindone. Emergono segni somiglianti alle lettere ma non si vede il lituo. Questa elaborazione è stata sempre ripubblicata dai sindonologi come prova della presenza dell’impronta della monetina. La si trova tuttora sul sito del Centro Internazionale di Sindonologia (CIS) di Torino [21].

In fig. 5 c’è un dettaglio da una foto sempre del 1931, in negativo, riprodotta con minore contrasto rispetto a quella di Filas. Osservando con attenzione nella parte alta al centro, si possono localizzare le tre lettere. Si vede che i segni sono principalmente dovuti all’andamento a spina di pesce (o spigato) della tessitura. Si noti in particolare che la lettera A vista da Filas è semplicemente dovuta a due linee oblique dello spigato che in quel punto sono leggermente convergenti. La lettera I è una successiva linea parallela. Questa foto fu mostrata dal sindonologo Edoardo Garello a un congresso del 1981 ed è pubblicata con una didascalia che spiega che «le lettere (U)CAI sono dovute alla disposizione e al rilievo normale dei fili della struttura spigata del tessuto». ([12], p. 154)

 

Fig.6 – Due negativi a confronto: del 1931 (asinistra) e del 1998
©Linteum

In riconoscimento di quei rari sindonologi che denunciano l’abbaglio, va segnalata anche la doppia foto in fig. 6 che è apparsa su una rivista sindonologica spagnola in un articolo ripreso anche in rete [18]. A sinistra si vede un ingrandimento da un negativo del 1931 e a destra, sempre in negativo, lo stesso dettaglio in una foto del 1998. Si nota che con una migliore definizione cambia notevolmente l’aspetto della fotografia (la differenza può in parte anche dipendere dall’illuminazione sotto cui fu presa la foto). Non meraviglia che Filas, che morì nel 1985 e avrebbe avuto a disposizione le buone foto a colori prese nel 1969 e nel 1978, non riuscì più a vedere la sua moneta se non nella sua vecchia foto. Analizzando una buona foto recente non si vede, in quella zona dell’occhio destro, niente che la distingua dalle zone circostanti. [4] Il discorso potrebbe finire qui, ma la farsa comincia adesso.


Un’iscrizione ballerina


Filas identificò la moneta del lituo per merito delle presunte lettere UCAI dell’iscrizione, ma quella successione di lettere non compare nelle parole TIBEPIOY KAICAPOC! Eppure era così sicuro che non si arrese. Riteneva che quelle fossero l’ultima lettera della prima parola e le prime tre della seconda, ma allora avrebbe dovuto vedere YKAI. Sorvolò sulla U che è simile a una Y (a parte che quel segno non somiglia nemmeno a una U). Si preoccupò invece per la C che doveva essere una K. Si convinse che la moneta che aveva lasciato l’impronta sulla Sindone doveva avere un errore di conio con la C al posto della K. Si mise allora alla ricerca di un esemplare con la C consultando esperti di numismatica. Non ne trovò e gli esperti dicevano che non ne esistevano. Filas continuò a credere che dovevano essercene stati. Insomma postulò l’esistenza di una moneta che nessuno aveva mai visto e che lui vedeva per la prima volta come impronta sulla Sindone. È vero che fra quelle monete di Pilato se ne trovano con lettere sbagliate, ma questo particolare errore non era mai stato riscontrato. In effetti sarebbe stato improbabile, per coloro che incidevano il conio, incorrere in quello scambio, dato che erano abituati a usare la lettera greca C (“sigma lunato”) per quella che è la nostra esse, e ci sono due esempi sulla stessa moneta nella parola KAICAPOC.

Fig.7 – La moneta di Filas con la sua interpretazione dell’iscrizione



Passarono così due anni. Poi nel 1981 Filas doveva preparare ingrandimenti della foto del suo esemplare della moneta da usare per un servizio televisivo. Fece fare un ingrandimento a 25 volte le dimensioni reali della moneta. Allora guardando l’ingrandimento ebbe la sorpresa di scoprire, così credette, che la sua moneta, proprio quella, aveva una C nel posto desiderato. La freccia in fig. 3 indica il punto dove ci sarebbe la C. Quindi Filas aveva in casa da due anni proprio quella moneta che cercava inutilmente fra i numismatici e sul mercato! E quale fortuna aveva avuto nel 1979 quando casualmente si procurò la moneta, trovando proprio quell’esemplare con un errore di conio che nessuno aveva mai osservato. Non solo, Filas si convinse che la moneta in suo possesso era, se non proprio la stessa, però gemella di quella impressa sulla Sindone, cioè battuta con lo stesso conio, anche se sappiamo quanto ciò sia improbabile essendo moltissimi i conii che vennero usati.1 Poteva considerarsi fortunato.

In realtà osservando quella moneta, anche in una fotografia ingrandita, appare ovvio che in quel punto non c’è nessuna C. Del resto lo stesso Filas non se ne era accorto per due anni. Si può supporre che nemmeno i sindonologi, a parte Filas, siano mai riusciti a vederci una C.
 

Fig.8 – Un esempio di iscrizione regolare

Anche volendo supporre che la C sia presente, resta un’altra difficoltà perché la sua collocazione, circa alle 10 del quadrante di un orologio, non è quella giusta. Infatti le monete sono tutte un po’ diverse l’una dall’altra ma rispettano qualche regola. La prima parola dell’iscrizione è disposta a salire sul semicerchio di sinistra, la seconda parola
a scendere sul semicerchio di destra. Quindi la K, ovvero la C di Filas, che è l’iniziale della seconda parola, dovrebbe essere in alto e un po’ a destra. Mettendola dove la vede Filas, non rimane il posto, più in basso sulla sinistra del lituo, per farci stare tutta la parola Tiberioy. Filas risolse il problema eliminando quattro lettere. In un articolo del 1983 [11] mostra la sua moneta (che considera gemella di conio di quella impressa sulla Sindone) con attorno indicate le lettere quali le legge lui, come si vede in fig. 7. La parola mutilata diventa TIOY invece di TIBEPIOY. È vero che si trovano monete di Pilato con lettere mancanti, ma non ci si aspetta che l’inizio della seconda parola possa essere così arretrato. Fra l’altro, il semicerchio di destra rimarrebbe quasi vuoto.

Fig.9 – La seconda moneta di Filas

 

Comunque non c’è motivo di inventarsi una iscrizione così strana. Per quel che si può vedere sulla moneta di Filas, limitatamente alle prime lettere che sono le uniche parzialmente visibili, l’iscrizione è quella usuale, senza lacune e senza errori. Su quel bordo di sinistra le lettere sono erose nella parte alta e si vede solo la parte bassa di ciascuna. Dopo le prime due lettere, quel segno rotondo che Filas interpreta come una O è la parte bassa della B, che è seguita dalla parte bassa della E (che sappiamo scritta simile a una C). Poi c’è la parte bassa ovvero il gambo della P, nel punto dove Filas vede una C che in ogni caso non c’è. Le lettere successive sono praticamente invisibili. Che questa sia la ovvia interpretazione da dare, lo si vede confrontando per esempio con la moneta di fig. 8 dove l’iscrizione in quel tratto è ben visibile.
Poco dopo aver fatto la scoperta della C sulla sua prima moneta, Filas entra in un negozio numismatico di Chicago, sempre in quel 1981, e ci trova una seconda moneta che secondo lui ha la C al posto della K. La moneta è così brutta che il commesso non si azzarda a dire un prezzo e gliela regala. A quel punto Filas ha la fortuna di possedere le uniche due monete conosciute con l’errore della C, due eccezionali rarità, e non ha speso un centesimo per procurarsele! Questa seconda moneta è in fig. 9. È mal riuscita e ha figure confuse. Si vede quella che potrebbe essere una C, presso la testa del lituo, ma non è in linea con le altre lettere dell’iscrizione lungo il bordo ed è spostata verso il centro. Probabilmente si tratta di un caso di doppia battitura, con una delle C dell’iscrizione che è stata ribattuta fuori posizione.1 D’altra parte non si può escludere che quella moneta sia stata così sfortunata da subire il doppio errore di una lettera sbagliata e collocata fuori posizione. Comunque sia, non si può concludere, da una moneta con una immagine così confusa, che lì ci sia la prova di una variante che non è mai stata altrimenti osservata.

Fig.10 – La terza moneta di Filas

 
Nell’articolo del 1983, Filas mostra anche una terza moneta (questa scoperta da un altro sindonologo americano) che secondo lui ha la C. È riprodotta in fig. 10. Qui si vedono chiaramente le lettere CA, ma si vedono anche, a seguire, le lettere POC. Quindi quelle lettere CA sono la quarta e la quinta di KAICAPOC, non le prime due. L’inizio della parola non si vede affatto, essendo l’iscrizione erosa in quel punto. Si legge che sono state trovate anche altre monete con la C, ma non vengono fornite le fotografie. Naturalmente l’esistenza o meno di una simile moneta non ha alcuna influenza sul problema se ci sia l’impronta della moneta sulla Sindone. L’impronta non c’è e la cosa non cambierebbe anche se si trovasse quella moneta. Ciò che importa notare è che Filas non ha trovato monete con la C, a parte un caso molto dubbio, ma i sindonologi divulgano regolarmente la notizia che ne ha trovate. Ecco alcuni esempi italiani. Emanuela Marinelli scrive ([13], p. 65): «Filas riuscì a trovare due monete di Pilato con lo stesso errore ortografico rilevabile sulla Sindone ed ebbe così la conferma indiscutibile che una tale moneta poteva aver lasciato la sua impronta sul telo». Baima Bollone ([4], p. 167): «Senonché ben presto padre Filas riesce a reperire dapprima uno e poi altri esemplari in cui invece della lettera K è scritta erroneamente la C». Nello Balossino ([1], p. 33): «In alcuni esemplari si può chiaramente distinguere la scritta TIBERIOY CAICAPOS in cui la lettera greca K è stata sostituita dalla C latina che ha la stessa pronuncia». Di nuovo Baima Bollone nel suo libro più recente sulla Sindone ([8], p. 323): «L’esemplare che ha impresso la Sindone contiene un errore che consente una datazione precisa. Vi è infatti scritto “CAICAROS” invece di “KAICAROS”. (…) È stato ritrovato un esemplare giunto sino ai nostri tempi che contiene lo stesso errore e che quindi, con ogni verosimiglianza per non dire addirittura con certezza, proviene dal medesimo conio». In un articolo del 2000 ([7], p. 131) Baima Bollone dice che una moneta con la C è stata trovata nel 1992 ma non fornisce particolari né mostra una fotografia. La tesi di Filas incontrò dapprima resistenze nell’ambiente dei sindonologi, ma presto arrivarono altri colleghi in suo soccorso. Uno fu Alan Whanger (professore di psichiatria alla Duke University di Durham, North Carolina), un sindonologo dalla vista molto acuta che, assieme a sua moglie Mary, ha scoperto le immagini di mille cose sulla Sindone. Nel 1982 confrontò la foto e la (prima) moneta di Filas, usando una sua particolare tecnica, e concluse confermando che si trattava proprio dello stesso conio, cioè che la moneta di Filas era gemella di quella che ha l’impronta sul telo.[5] Lo provò trovando un gran numero di “punti di congruenza” fra la foto della Sindone e la foto della moneta. Ecco quindi che la Marinelli scrive ([13], p. 65): «Whanger contò settantaquattro punti di congruenza tra la moneta [del lituo] di Pilato e l’immagine sull’occhio destro. Come paragone si può tenere presente che per dichiarare identiche due impronte digitali sono sufficienti quattordici punti di sovrapponibilità». È inutile dire che il paragone con le impronte digitali è privo di senso. Ma il conteggio indicato dalla Marinelli va aggiornato perché Whanger è arrivato a contare ben 211 punti di congruenza per quella moneta piccola come un centesimo di euro.

Poi, continua Whanger, «ci fu un altro sorprendente sviluppo». Fino ad allora si era creduto che la moneta del lituo fosse stata prodotta solo negli anni 17 e 18 del regno di Tiberio, ma lui scoprì che l’esemplare di Filas portava la data dell’anno sedicesimo. La data compare sull’altra faccia della moneta, al centro della corona di alloro, ed è espressa da tre lettere greche. Tiberio divenne imperatore nel settembre dell’anno 14 d.C. e l’anno 17 del suo regno comincia dal settembre del 30 d.C. Secondo alcuni sindonologi la data della morte di Gesù è da ritenere nell’aprile del 30 d.C., quindi anteriore all’anno 17 di Tiberio, così che sarebbe benvenuto lo spostamento a un anno prima per la data della moneta del lituo.[6]

Fig.11 – Positivo mostrato da Moroni
 


A questo punto la moneta che casualmente era stata regalata a Filas nel 1979 si trovava a vantare una serie di singolarità, oltre a essere proprio gemella di conio di quella della Sindone: mancava di quattro lettere nell’iscrizione, aveva una C al posto della K (e una U al posto della Y) ed era stata coniata con un anno di anticipo.
Whanger riuscì addirittura a vedere che su questa moneta c’è un difetto di conio alla base della A e che lo stesso difetto si riscontra “chiaramente” sulla Sindone. Quando fu fatta l’obiezione che l’impronta non si vedeva nelle fotografie a colori prese nel 1978, Whanger trovò una spiegazione. Alcuni fili erano stati spostati o ruotati durante l’esposizione televisiva del 1973!
Altri sindonologi cominciarono a entusiasmarsi all’idea che sulla Sindone ci fossero impronte di monete. Un italiano, Giovanni Tamburelli, specialista nell’elaborazione elettronica delle immagini, pubblicò un articolo nel 1985 [19] con le sue elaborazioni “tridimensionali” e sostenne la tesi di Filas.
L’aiuto più sorprendente arrivò a Filas, nel 1983, da Robert Haralick. Sorprende perché Haralick ha avuto una brillante carriera nel campo dell’analisi di immagini al computer. Ha ricoperto importanti incarichi in laboratori del settore negli Stati Uniti. All’epoca dirigeva un laboratorio, presso un istituto universitario della Virginia, per l’analisi delle immagini inviate dai satelliti, e quindi sembrava proprio la persona adatta per scoprire che cosa si nasconde nelle fotografie della Sindone. Haralick non solo confermò la scoperta di Filas, ma vide altre due lettere dell’iscrizione. Fu intervistato dal settimanale Oggi (18 gennaio 1984) che nei titoli aveva frasi come queste: «”Posso dimostrarvi che quell’uomo era Cristo”. Un ricercatore spaziale americano dice di avere la prova inconfutabile dell’autenticità della Sindone. “Attraverso un nuovo metodo, chiamato analisi delle immagini digitali,” spiega il professor Robert Haralick, “ho individuato sul sacro lenzuolo alcuni dettagli che finora erano sfuggiti all’osservazione umana. Sull’occhio della persona che venne avvolta nel telo fu messa, come si usava allora, una moneta che, senza ombra di dubbio, è dei tempi di Pilato.”» Forse non siamo sorpresi se il professor Haralick, oggi in pensione, è uno dei più noti esponenti nel campo degli studi sul cosiddetto “Codice della Bibbia” e applica le sue capacità matematiche per scoprire le profezie racchiuse nel testo sacro.
Francis Filas è morto nel 1985 ma è rimasto nella storia della sindonologia come il pioniere delle monetine.


Il lituo a rovescio


Il secondo atto della farsa del lituo è tutto italiano. Comincia con una scoperta di Mario Moroni, un sindonologo che, a dire dei suoi colleghi, è anche esperto di numismatica.[7] Osservando come sempre una fotografia del 1931, Moroni si convinse che c’era sì un lituo, ma che il lituo aveva la curva girata dalla parte opposta rispetto a come l’avevano visto tutti gli altri a partire da Filas!
 

Fig.12 – Ulteriore ingrandimento del positivo di Moroni

  Quindi la moneta che aveva lasciato l’impronta doveva avere la curva in alto girata a sinistra anziché a destra. Sicuro che quella anomala moneta dovesse esistere, iniziò “una estenuante ricerca” e arrivò a trovare alcuni esemplari col lituo a rovescio. In realtà era già noto che esistono, sia pur rari, esemplari che hanno di solito tutta la figura, compresa l’iscrizione, invertita e speculare. Si tratta di un singolare errore di chi fabbricò il conio incidendo la figura in positivo anziché in negativo come avrebbe dovuto. Moroni si procurò alcuni esemplari di moneta con lituo speculare. Nel 1987, in un congresso di sindonologi a Siracusa, annunciò la sua scoperta [14]. Presentò un dettaglio da una fotografia del 1931, in positivo e in una riproduzione migliore rispetto a quella usata da Filas, dove sarebbe visibile il profilo del lituo. È riprodotta in fig. 11, a confronto con una delle monete col lituo a rovescio, e anche, più ingrandita, in fig. 12. Vi si vede una linea verticale che è chiaramente un andamento dell’ordito, e che del resto esce in basso dal profilo (immaginario) della moneta, con in cima un ricciolo molto piccolo, più piccolo di come si trova il lituo sulle monete nelle diverse varianti. I segni corrispondono all’andamento della tessitura a spina di pesce, con inserita qualche presenza casuale di zone più scure. Moroni non indica dove siano le lettere dell’iscrizione nella sua versione.

Anche Moroni, sul retro della sua moneta, quella mostrata nel confronto con la foto, legge la data dell’anno 16 di Tiberio. I sindonologi hanno una straordinaria fortuna nel trovare esemplari anomali.
In questo articolo appaiono serie incongruenze che rimarranno e si aggraveranno nelle successive pubblicazioni di Moroni e in quelle di altri sindonologi. Moroni non dice che la sua versione è in contrasto con quella di Filas, benché apra il suo articolo proprio con riferimento a Filas ([14], p. 329): «Un attento esame della zona orbitale destra dell’Uomo della Sindone ci permette di consolidare la singolare tesi del prof. Filas, di offrire un valido supporto con ulteriore materiale storicamente accreditato e di confermare che è proprio l’impronta di una moneta, coniata da Ponzio Pilato, quella lasciata sulla tela sindonica, in corrispondenza della parte centrale dell’occhio destro di quel cadavere».
Moroni non si accorge che la sua versione è incompatibile con la presenza delle lettere viste da Filas. Infatti nella versione di Filas il lituo gira a destra e le lettere si trovano lungo il suo bordo di sinistra, mentre nella versione di Moroni il lituo in quel punto gira a sinistra e va proprio a sovrapporsi alle lettere. Anzi, se si guarda la figura 12 pubblicata dallo stesso Moroni, si vede bene che la parte terminale del ricciolo coincide con la C di Filas (tener conto che quella di Moroni è una foto al positivo), mentre poco più in alto ci sono le due linee della A (che sono andamenti diagonali dello spigato, come abbiamo già visto) che vanno a toccare l’arco del lituo quale supposto da Moroni. Più oltre, in parte nascosta dal triangolo nero sovrapposto, c’è la I. Naturalmente, per quanto distratti fossero gli incisori dei conii, sarebbe difficile pensare che qualcuno abbia fatto una moneta con le lettere dell’iscrizione sovrapposte alla figura del lituo. Le lettere stavano intorno al lituo. Quindi Moroni e i suoi seguaci dovrebbero accorgersi che c’è qualcosa che non quadra. Nel 1987 Moroni non indica dove si dovrebbero trovare le lettere sulle sue figure e sembra non accorgersi del problema.
 

Fig.13 – Moneta con lituo e iscrizione speculari

 Infine Moroni non accenna a un’altra difficoltà dovuta al fatto che di solito sulle monete col lituo invertito, di cui sono noti numerosi esemplari, anche l’iscrizione, quando è leggibile, appare invertita e speculare. Un esempio è in fig. 13. Vediamo ora tre successive pubblicazioni di Moroni per seguire come si evolve la sua idea. In un suo capitolo per un libro del 1991 [15], riproduce la stessa fotografia del 1987 ma con disegnato sopra un contorno diverso della moneta per evitare che la gamba del lituo esca troppo vistosamente dal bordo. Quanto alle lettere, cambia tutto rispetto a Filas. Infatti ignora le famose lettere UCAI e vede solo una K in posizione di ore 12 dell’orologio. Vede proprio quella K che aveva creato problemi a Filas, rendendo così inutile la ricerca di una moneta con l’errore della C. Aggiunge a sua volta un difetto di fabbricazione perché vede, in basso sul gambo del lituo, quello che secondo lui sarebbe il segno delle pinze che furono usate per afferrare il tondello riscaldato. Nella parte bassa del lituo si vede infatti una doppia linea verticale, dovuta semplicemente a una parallelo filo di ordito. Immaginando il segno delle pinze, Moroni ripara forse al fatto che il gambo del lituo sarebbe troppo lungo.
Passiamo a un libro di Moroni (con Francesco Barbesino) uscito nel 1997 [16]. Qui c’è un totale ribaltamento rispetto al 1991. Moroni si dimentica della K e ripristina le lettere di Filas. Fa il racconto della scoperta di Filas e della C al posto della K (p. 66): «Solo due anni dopo, quando padre Filas riuscì a trovare una moneta da collezione che mostrava una C al posto della K, questa obiezione venne archiviata». Poi enuncia la sua propria obiezione a Filas, cioè che il lituo dovrebbe essere a rovescio. Però lascia credere che l’immagine sulla Sindone vista da Filas sia la stessa vista da lui, con la sola differenza che Filas non aveva dedotto che la moneta stessa doveva essere speculare rispetto all’impronta. In questo modo nasconde la contraddizione fra quanto visto da Filas (e da tutti gli altri) e quanto visto da lui.
Moroni dice anche che Haralick ha scoperto altre due lettere formando in totale la successione OYCAIC. Non indica dove siano collocate tutte queste lettere in relazione alla figura del lituo a rovescio e nasconde il fatto che nella sua versione il lituo andrebbe a sovrapporsi alle lettere. Continua anche a tacere sul problema dell’iscrizione che dovrebbe essere speculare. Infine ripete che c’è il segno delle pinze. Veniamo a una relazione di Moroni (con Barbesino e Maurizio Bettinelli) a un congresso in Brasile nel 2002, riprodotta nel suo sito [17]. Anche qui rifà la storia della scoperta di Filas: «Ma la scoperta più significativa è da attribuire al prof. Francis Filas». Descrive le quattro lettere viste da Filas e ripete il racconto dello scambio della C con la K: «Tuttavia come prima lettera della seconda parola v’era una C anziché la K. Questo naturalmente creava un grave problema che si risolse solo dopo lunghe ricerche quando in un grande negozio di numismatica di Chicago padre Filas poté rintracciare un dilepton di Ponzio Pilato con la lettera C al posto della K». Riproduce anche la figura della elaborazione tridimensionale che era stata pubblicata da Filas, con la didascalia: «In alto a sinistra le quattro lettere dell’alfabeto individuate da Padre Filas». Quindi fissa esattamente la posizione in cui dovrebbero trovarsi le lettere, ma è una posizione incompatibile con la sua versione del lituo.

È inutile dire che Moroni (come gli altri autori che incontreremo) non avrebbe alcun motivo di soffermarsi sulle scoperte di Filas, considerando che lui, Moroni, ha scoperto tutt’altra cosa.
Poi finalmente Moroni dice, in un breve accenno, che si è accorto che le lettere sono sovrapposte al lituo, anche se fa risalire la scoperta all’aprile 1996 per merito di una elaborazione elettronica di Nello Balossino. Scrive: «Questa elaborazione permise anche di rilevare che alcune lettere della dicitura non erano disposte circolarmente intorno al pastorale [lituo]: la C ed un estremo della A risultano chiaramente collocate sopra la parte ricurva del lituo “riverse” [reverse] sottostante che presenta interruzione nelle zone di sovrapposizione». Non c’era bisogno di una elaborazione elettronica per vedere quello che è evidente nelle fotografie pubblicate da Moroni fin dal 1987. Come spiega la presenza delle lettere in posizione anomala? Alla maniera dei sindonologi, che trovano sempre una scusa per tutto. Di seguito dice infatti: «Se ne può dedurre che la moneta è stata ribattuta imprimendo in un primo momento il pastorale rovesciato poi le lettere Y CAI». Dunque si tratterebbe di una moneta con doppia battitura.[8] Però non ci dice se da qualche parte, nell’impronta sulla Sindone, ci sono anche le lettere di una prima battitura. Né ci dice se quelle lettere in posizione anomala sono le stesse lettere viste da Filas e tutti gli altri. Insomma nasconde le incongruenze.
È da notare la data, aprile 1996, dell’elaborazione di Balossino da cui sarebbe emerso il problema delle lettere sovrapposte al lituo. Nel libro del 1997, quindi posteriore, Moroni, come abbiamo visto, non accenna al problema.
 

Fig.14 – elaborazione del sopracciglio sinistro

 Sempre nel 1996 Moroni e Balossino sembrano essersi accorti anche del problema dell’iscrizione speculare. Come dicevamo, almeno dall’esame di diverse monete con lituo a rovescio sulle quali alcune lettere dell’iscrizione siano almeno in parte chiaramente visibili, si nota che anche l’iscrizione, cioè tutta la faccia della moneta e non solo il lituo, è invertita e speculare (come in fig. 13). In questo articolo del 2002, riferendosi alla stessa elaborazione elettronica di Balossino del 1996, Moroni scrive: «A questo punto emerse un particolare del quale nessuno si era accorto: se il pastorale [lituo] risultava invertito anche la dicitura letta sul negativo avrebbe dovuto essere tale. Infatti i litui riverse [”reverse”] noti portano invertita anche la leggenda. L’obiezione apparve in evidenza solo durante una nuova elaborazione elettronica eseguita dal professor Balossino nell’aprile del 1996». Non si capisce se Balossino abbia fatto l’elaborazione elettronica sulle fotografie delle reali monete, oppure se abbia scoperto un’iscrizione invertita sul lino della Sindone. Però ancora in questo articolo Moroni riproduce la figura dell’elaborazione tridimensionale di Filas, dove chiaramente le presunte lettere non sono speculari. Infatti con l’iscrizione invertita le quattro lettere YCAI dovrebbero succedersi in ordine inverso, cioè la Y più in alto, seguita a scendere verso sinistra dalle altre tre. Inoltre la lettera che non ha forma simmetrica, cioè la C, dovrebbe apparire scritta specularmente. Ciò non appare nelle lettere viste da Moroni, Balossino e gli altri, che sono sempre quelle viste da Filas. Moroni non ci dà alcuna spiegazione su questa incompatibilità. Va aggiunto che non si può escludere che qualche moneta venisse fatta con il lituo invertito ma con l’iscrizione regolare, però Moroni sembra accettare che l’iscrizione sia invertita e non ne tira le conseguenze. Infine Moroni torna a dire che c’è il segno delle pinze alla base del lituo. Fin qui le varie versioni di Moroni. Come hanno reagito gli altri sindonologi? All’estero nessuno si è accorto della tesi di Moroni e si continua a presentare la moneta regolare con la curva a destra. In Italia diversi dei più noti sindonologi hanno accettato il lituo a rovescio. Ci si aspetterebbe almeno che abbiano cercato di ovviare alle ambiguità di Moroni. Al contrario, hanno fatto anche di peggio e vedremo subito alcuni esempi. Soprattutto, hanno continuato a presentare la storia della scoperta della moneta del lituo partendo sempre da Filas e da Whanger, quindi col lituo regolare, arrivando poi al lituo a rovescio di Moroni ma nascondendo che le due versioni sono in contraddizione fra loro (fa eccezione Giulio Fanti che nel suo recente libro ([9], p. 486) ha mostrato chiaramente il problema disegnando su una stessa figura le due versioni del lituo). Infatti questi autori danno l’impressione che Moroni abbia visto la stessa figura che aveva visto Filas, con la sola differenza che Filas non si era accorto che per specularità doveva presupporre un lituo a rovescio sulla moneta. In realtà Filas non si era sbagliato e aveva tenuto conto della specularità. Il fatto è che l’impronta del lituo vista da Filas e dagli altri era al contrario rispetto all’impronta vista da Moroni e accettata da questi suoi seguaci. Ciò era ben chiaro e i nostri sindonologi non potevano non saperlo.

Baima Bollone in un suo libro del 1985 [4] aveva presentato il lituo regolare dedicandogli diverse pagine e quattro disegni, tutti con la curva a destra e le lettere in alto a sinistra a fianco del lituo. Nel libro del 1990 [5] riusciva a presentare entrambe le versioni contemporaneamente senza dire che sono diverse fra loro. Nelle tavole a colori delle figure, presenta in fig. 47 la prima moneta di Filas, col lituo regolare, e subito a fianco, alla figura 48, ha una foto della moneta col lituo invertito di Moroni. Nel testo (p. 223-27), si dilunga a presentare la scoperta di Filas, incluso lo scambio della C con la K, e aggiunge le successive conferme, quella di Whanger con i 74 punti di congruenza, quella dell’elaborazione tridimensionale da parte di un istituto americano, quella da parte di Haralick che trova altre due lettere. Mostra anche disegni con la curva regolare a destra. Poi di colpo, nella stessa pagina dei disegni, passa a presentare la tesi di Moroni (p. 227): «Arriviamo al 1986. Il numismatico lombardo Mario Moroni, grande esperto di Sindone, formula un’importante osservazione. La sagoma del bastone impressa sul lenzuolo è quella di un punto interrogativo al rovescio. Questo significa che sulla moneta deve avere la forma di un “punto interrogativo” e in effetti riesce a reperire qualche esemplare di questo tipo». Poi conclude: «Tutti questi elementi concordano a dimostrare che nell’orbita destra del volto sindonico vi è effettivamente l’immagine di una piccola moneta di bronzo coniata da Ponzio Pilato». Occorre un certa abilità per presentare in una stessa pagina due versioni in contrasto fra loro e dire che “concordano”. Si aggiunga che Baima Bollone non accenna al problema delle lettere sovrapposte al lituo né a quello dell’inversione speculare dell’iscrizione. Nel suo libro del 1998 [6], Baima Bollone presenta nel testo (p. 239-40) un disegno con la curva regolare a destra e non parla di lituo invertito, ma nomina Moroni fra quelli che hanno confermato la scoperta di Filas (come se non avesse visto il contrario di Filas). Poi nelle tavole fuori testo (di fronte a p. 89) mostra una illustrazione pubblicata da Moroni (quella riprodotta qui in fig. 12), a cui affianca la foto di una moneta col lituo a rovescio. Ancora due versioni in contrasto fra loro presentate come se fossero vere entrambe.
Nelle sue ultime pubblicazioni, Baima Bollone sembra avere abbandonato Moroni. In un libro e in un articolo del 2000, come nel libro del 2006, ignora il problema e non nomina Moroni. Non spiega perché abbia cambiato versione rispetto ai libri precedenti e non accenna al fatto che intanto altri sindonologi presentano il lituo invertito. La Marinelli nel suo libro del 1996 [13] presenta nel testo (p. 65) i risultati di Filas e Whanger come assodati, inclusi i 74 punti di congruenza, e non nomina Moroni, quindi sembrerebbe accettare il lituo regolare. Ma nelle tavole fuori testo mostra la stessa illustrazione usata da Moroni, con una foto del dettaglio della Sindone affiancata a una moneta col lituo a rovescio (la nostra fig. 11), e nella didascalia dice: «La scoperta di F. Filas fu a lungo contestata, perché il lituus delle monete non era speculare ma identico all’immagine sindonica; recentemente s’è rinvenuta qualche moneta come quella in foto con il lituus rovesciato, speculare alla Sindone». Quindi anche la Marinelli come Moroni accetta il lituo a rovescio e non solo lascia intendere ma dichiara esplicitamente che anche Filas avrebbe dovuto pensare a una moneta col lituo a rovescio ma non lo ha fatto perché si è dimenticato di tener conto della specularità fra l’immagine sulla moneta e l’immagine ricalcata sul telo. Questo è assolutamente falso perché Filas teneva ben conto della specularità. Cerchiamo di spiegare: Moroni vede sul telo il lituo con la curva a destra e deduce per il lituo sulla moneta la curva a sinistra; Filas vedeva sul telo la curva a sinistra (il contrario di Moroni) sertita a sinistra, si basa sull’evidenza trovata da Whanger per la curva a destra. Se Whanger avesse confrontato con una moneta che ha il lituo e l’iscrizione invertiti, quanti punti di congruenza avrebbe trovato? Balossino, l’esperto nell’analisi delle immagini al computer, sposa la tesi di Moroni in tre pubblicazioni, simili fra loro, del 1997 [1], 1998 [2] e 2000 [3]. Un testo analogo si trova tuttora sul sito del CIS (di cui Balossino è vicedirettore) [21]. Ma sposa la tesi di Moroni senza divorziare da quella di Filas! In tutte queste pubblicazioni, Balossino comincia col presentare la scoperta di Filas, racconta della C al posto della K, mostra negativi analoghi a quello di Filas e dice di vederci le lettere YCAI.[9] Presenta anche la solita “elaborazione tridimensionale” già mostrata da tutti gli autori a partire da Filas, quella di Fig. 4 dove non si vede da quale parte sia girato il lituo né dove sia. Poi dice ([1], p. 34): «Poiché l’elaborazione tridimensionale del negativo fotografico mette in risalto una forma a bastone di comando [lituo] rovesciato [rispetto alle usuali monete], possiamo dedurre che il conio [si deve intendere la moneta] doveva presentare un punto interrogativo. Infatti, ponendo una moneta con il simbolo di punto interrogativo sul volto, per effetto del decalco si forma sul telo un bastone di comando, che nel negativo fotografico appare nuovamente come un punto interrogativo. Ne segue che occorre ipotizzare l’esistenza di una moneta con il bastone di comando rovesciato speculare rispetto a quella presa in considerazione da padre Filas». Insomma anche Balossino gioca sul solito equivoco dell’inversione speculare. Mostrando fotografie analoghe a quella di Filas e la stessa elaborazione tridimensionale, e dicendo di vedervi le stesse lettere che vi vedeva Filas, accetta in pieno il risultato dell’americano che si basava su una moneta con la curva regolare a destra, ma contemporaneamente sostiene la tesi di Moroni e mostra la fotografia di una moneta con la curva invertita a sinistra. Possiamo dire che la situazione è grottesca?
Abbiamo visto che nel suo articolo del 2002 Moroni dice che fu Balossino, con una analisi informatica dell’aprile 1996, a rivelare la sovrapposizione fra lettere e lituo nonché la specularità dell’iscrizione. Le pubblicazioni di Balossino del 1997-2000 sono tutte posteriori a quell’analisi. A quel punto Balossino doveva essersi accorto dei problemi, e del resto non occorrevano elaborazioni informatiche per accorgersene. Eppure non ne fa cenno. Al contrario, fa intendere che le lettere stiano a fianco del lituo e non sovrapposte. Per esempio, a proposito di un negativo scrive ([1], p. 33): «È riconoscibile una forma che richiama l’aspetto del lituo, circondato dalla lettera Y, che potrebbe essere la lettera terminale della parola TIBERIOY, separata dalle lettere CAI facenti parte della parola CAISAROS o CAICAPOC». Dal negativo mostrato, non è chiaro per il lettore dove si debbano collocare le lettere, ma Balossino ci vede le lettere da cui è “circondato” il lituo. Quindi il lettore deve pensare che ovviamente, come nelle monete reali, l’iscrizione circonda il lituo. Poi Balossino ripete la descrizione per l’elaborazione tridimensionale dove si vedono le lettere ma non si capisce dove sia il lituo e da quale parte sia girato. In entrambi i casi nasconde il fatto che, con la sua versione a sinistra, il lituo si sovrappone alle lettere.
Si vede anche che Balossino continua a scrivere la C al posto della K, ma ora dovrebbe essersi accorto che la presunta C non è una lettera ma il ricciolo del lituo. Infine, Balossino non accenna al problema dell’iscrizione benché le lettere che vede siano chiaramente non speculari.
Notiamo ancora che nessuno di questi autori, descrivendo la scoperta di Filas, informa il lettore del fatto che Filas dovette tagliare quattro lettere dell’iscrizione per far quadrare i suoi conti.
Chiudiamo qui la trattazione della moneta del lituo. Abbiamo visto a quale grado di confusione possano arrivare i sindonologi. A proposito, se un fabbricante di monete false vuol produrre una moneta davvero originale, potrà fare un lituo di Ponzio Pilato con queste caratteristiche: quattro lettere mancanti nel nome di Tiberio; una C al posto di una K; le lettere addensate a sinistra; la data sbagliata; il lituo a rovescio; una doppia battitura con lettere fuori posizione; alcune lettere non invertite specularmente anche se il resto della figura è invertito; e in più il segno di una pinzata. Potrà vendere la moneta a caro prezzo ai sindonologi.


Le spighe


Già Filas intravide una moneta anche sull’occhio sinistro (a sinistra per chi guarda l’immagine). Credette di vedere l’altra moneta di Pilato nella faccia con le tre spighe. Non ne era sicuro ma intervenne Whanger che con il suo metodo infallibile trovò 73 punti di congruenza fra la foto della Sindone e la moneta delle spighe. Ce lo ricorda la Marinelli nel libro del 1996 ([13], p. 65-66): «Whanger ha confermato l’identificazione di questa moneta [delle spighe] riscontrando settantatré punti di congruenza». Ma in quel 1996 Balossino e Baima Bollone scoprirono l’altra faccia di questa moneta sul sopracciglio sinistro, come vedremo subito. Tre monete sarebbero state troppe, e da allora la moneta delle spighe non viene più citata, almeno in Italia, nonostante i suoi 73 punti di congruenza. Baima Bollone aveva presentato la moneta delle spighe in almeno due suoi libri anteriori al 1996, ma poi non ne parlò più.
Moroni pensò che se la moneta dell’occhio sinistro non era più al suo posto ma era scivolata sul sopraccilio, allora la palpebra poteva essersi aperta non essendo tenuta chiusa dal peso (un paio di grammi!) della moneta. Quindi chiese a Balossino di approntare una delle sue elaborazioni. Moroni scrive nell’articolo del 2002 [17]: «Fu così che una indagine specifica sul punto permise di accertare che effettivamente la palpebra non era chiusa completamente e mettere chiaramente in evidenza la pupilla che sporge da essa». Non ce la sentiamo di mostrare qui una raffigurazione mai azzardata in tutta la storia dell’arte, quella di un Cristo che strizza l’occhio, ma chi volesse vederla può andare sulla pagina del sito di Moroni [17] dove in figura 15 c’è l’immagine elaborata da Balossino con il volto della Sindone che ha un occhio chiuso e uno aperto.


Il simpulum


La scoperta della moneta del simpulum, o mestolo, sul sopracciglio sinistro è un vanto italiano. La trovarono Balossino e Baima Bollone nel 1996 (direi che la scoperta va attribuita principalmente a Balossino perché l’impronta della moneta si vede, se si vede, solo nelle elaborazioni da lui approntate). I due ne diedero notizia non con la pubblicazione di un articolo scientifico ma con un breve comunicato stampa che ebbe subito diffusione in Italia e qualche eco anche all’estero. L’8 luglio su Rai2 una puntata di Speciale Mixer di Giovanni Minoli fu dedicata alla moneta. Minoli ospitò Baima Bollone e Balossino con tutti gli onori.

In quei giorni i principali giornali italiani diedero rilievo alla notizia. Cominciò Avvenire che definì la scoperta “sensazionale e definitiva”. Ecco alcune citazioni dai giornali del 7 luglio. Sul Corriere della Sera i titoli erano: «Scoperta: risalirebbe al 29 d.C. Una moneta sul sudario proverebbe l’autenticità della Sacra Sindone». L’articolo si apriva così: «La Sacra Sindone potrebbe essere davvero il lenzuolo che avvolse Gesù Cristo dopo la sua crocifissione. Lo proverebbe una moneta individuata sul sopracciglio sinistro del viso impresso sul sudario. Una moneta su cui è riconoscibile la data di emissione: anno XVI dell’imperatore Tiberio. Ovvero 29 dopo Cristo. Gli autori della scoperta, che sembra smentire la datazione medievale della reliquia, sono il professor Pier Luigi Baima Bollone, docente di medicina legale e uno dei massimi esperti mondiali della Sindone, e il professore di informatica Nello Balossino». Sempre il Corriere, con riferimento a un articolo in difesa della datazione medievale apparso pochi giorni prima sul francese Le Monde, riporta: «”Quattro a zero, palla al centro, ha commentato ieri Giovanni Minoli, che alla scoperta dedica lo Speciale Mixer in onda domani sera su Raidue. Il lavoro di Bollone e Balossino è una rivoluzione completa, un ribaltamento di 180 gradi che distrugge la credibilità della datazione difesa da Le Monde appena mercoledì scorso”».

Fig.15 – L’esemplare di simpulum usato per il confronto

 
I titoli sulla Stampa: «Una nuova prova di autenticità. Sindone, una moneta del periodo di Cristo. L’impronta vicino all’occhio sinistro. Individuata dal prof. Baima Bollone».
Su Repubblica: «La Sindone ha l’età di Cristo». «Una moneta dell’antica Roma potrebbe essere la prova dell’autenticità della sindone. Lo sostengono due docenti universitari di Torino, Pier Luigi Baima Bollone e Nello Balossino che, sul lenzuolo sacro, hanno trovato le tracce di un soldo, con una data impressa abbastanza chiaramente: quella dell’anno XVI dell’imperatore Tiberio. In altre parole, 29 dopo Cristo». Sul Messaggero: «La Sindone risale a Tiberio»

I giornali tornavano sull’argomento anche negli anni successivi. Per esempio, il 27 gennaio 1998 il Corriere della Sera scriveva: «Sindone: due monete sulle palpebre ne proverebbero l’autenticità».
«”La loro presenza fa cadere senza ombra di dubbio l’ipotesi di un falso costruito ad arte nel Medioevo”. Ne è sicuro Nello Balossino che insegna informatica all’Università di Torino, fondando le sue certezze non sulle provette della chimica o sulle radiazioni emesse dal carbonio, ma sui computer».
Il 26 aprile 1998 sulla Stampa: «Una prova. Forse la prova, con la P maiuscola. Le tracce lasciate da quelle due monete del diametro di poco più di un centimetro potrebbero davvero essere la garanzia che la Sindone avvolse il cadavere di un uomo morto all’incirca nell’anno in cui morì Gesù. E proprio in Galilea. Nessuno, tuttavia, può dire se si tratti davvero dell’uomo di cui parlano i Vangeli. “Ma quelle monete – spiega Pierluigi Baima Bollone – hanno il pregio di datare con certezza la Sindone”. Ovvero: dal 29 al 30 dopo Cristo». Baima Bollone aggiunge: «Poiché la scienza numismatica ha identificato con certezza le piccole monete di Ponzio Pilato soltanto nel secolo scorso, è assolutamente inverosimile che un falsario medievale non solo le conoscesse, ma addirittura le possedesse».
Fra i rotocalchi, il 19 luglio 1996 Epoca aveva un’intervista con Baima Bollone coi titoli: «Così ho riaperto il giallo della Sindone. Cronaca, raccontata dai protagonisti, di una straordinaria scoperta. Che mette a soqquadro cinque secoli di ricerche». Baima Bollone racconta di come fece visita al numismatico Cesare Colombo che gli diede alcuni esemplari della moneta. «”Il caso ha voluto”, dice Baima Bollone, “che fra quelle monete ce ne fosse una corrispondente all’impronta sul sopracciglio sinistro, una che aderisce al millesimo di millimetro, sembra quasi che si tratti dello stesso conio.”»

Su Chi del 9 maggio 1997 è la volta di Balossino: «Finalmente abbiamo la conferma che la Sindone risale al tempo di Gesù. Grazie agli studi fatti con il computer abbiamo trovato l’impronta di una moneta romana sul telo che risale al 29 d.C.» Alla domanda su quali siano le conseguenze della scoperta, Balossino risponde: «Dimostra che chi si prese cura del corpo dell’uomo della Sindone, oltre a lavarlo e a cospargerlo di aloe e mirra, gli ha posto due monete sugli occhi, secondo un’usanza ebraica che è stata confermata da alcuni ritrovamenti recenti. Ma nello stesso tempo, collocando monete dell’età di Tiberio, ci ha lasciato la “data” dell’avvenimento, confermando l’autenticità del lenzuolo. È impensabile che un ipotetico falsario medievale, digiuno di archeologia, potesse prevedere un simile dettaglio».
Sembrava quindi assodato che ci fosse l’impronta del simpulum sul sopracciglio. Si diceva che erano anche state identificate alcune lettere dell’iscrizione, in particolare le tre lettere che denotano la data, l’anno sedicesimo di Tiberio (che questa volta sarebbe la data giusta, essendo quello l’unico anno in cui la moneta fu coniata). Anche nei libri scritti in seguito dai due autori, la scoperta è data per sicura. Nel 1990 Baima Bollone pubblica un libro col titolo Sindone: La prova dove in copertina c’è un’immagine del volto della Sindone con un cerchio e una freccia che evidenziano il sopracciglio sinistro. Nel testo si legge (p. 240-41): «In effetti l’identificazione elettronica mostra un corpo di forma e dimensioni corrispondenti a quella moneta, il simpulum e la parte iniziale e terminale della scritta, vale a dire TIB…LIS». Le ultime tre lettere (dove la S è in realtà lo “stigma”) designano appunto la data.

Quale evidenza è stata presentata per questa scoperta? Nessuna evidenza nelle pubblicazioni di Baima Bollone o Balossino, per quanto ho potuto vedere. Per contro, troppa evidenza in un libro di altri autori di cui diremo subito. Su una normale foto della Sindone, in quel punto non si vede niente se non alcune striature orizzontali chiaramente dovute alla tessitura, che del resto hanno dimensioni maggiori rispetto alle linee orizzontali del mestolo sulla moneta. Una eventuale impronta, se venisse mostrata, sarebbe emersa come per magia nelle elaborazioni che Balossino ha fatto sul suo computer, partendo come sempre da una foto del 1931. Balossino pubblica nel 1997 ([1], p. 36) la “elaborazione bidimensionale” di fig. 14, riportata anche sul sito del CIS. Non dice se sia un positivo o un negativo. Dovrebbe trattarsi di un positivo con inversione destra/sinistra. Mette a confronto la sua elaborazione con la moneta di fig. 15, forse un esemplare in possesso di Baima Bollone. Nell’elaborazione non c’è niente di simile alla moneta, a parte gli scontati andamenti orizzontali, e non vi si scorge nessuna lettera. Poi Balossino pubblica nel 1998 ([2], p. 246) la stessa elaborazione ma ruotata di 180 gradi, benché a confronto con la moneta nella solita posizione. Nessuno se ne sarà accorto perché entrambe le immagini, quella diritta e quella rovesciata, assomigliano altrettanto poco alla moneta. Nel 2000 non pubblica illustrazioni per questa moneta.
In queste pubblicazioni, Balossino non spiega in alcun modo come ha prodotto le elaborazioni al computer, cioè per quali passaggi e con quali procedure tecniche. Non escludo che ne parli altrove.

Baima Bollone pubblica nel 1998 ([6], di fronte a p. 89) altre due elaborazioni di Balossino, a colori, dove si vede ancor meno. Poi pubblica nel 2006 ([8], p. 192) le stesse due elaborazioni, ma entrambe ruotate di 180 gradi rispetto al libro del 1990, sempre a confronto con la stessa moneta di fig. 15. Nemmeno si capisce quali immagini siano da considerare diritte e quali rovesciate, e anche qui nessuno si sarà accorto della discrepanza.
Finora non abbiamo incontrato alcuna evidenza. Ma ecco che si scopre in un libro del 1997 di altri due autori, Moroni e Barbesino (16a, penultima tavola a colori), una interessante immagine in falsi colori (che sembra presa da un video di una trasmissione televisiva perché in un angolo c’è la scritta “Raidue”). Su un fondo giallo o verdognolo, spicca chiaramente, in blu, il rilievo della moneta, proprio dell’esemplare di fig. 15. Esattamente uguale, a parte che i contorni sono più sfocati e indistinti. C’è il simpulum con lo stesso profilo. Ci sono tutte le lettere dell’iscrizione visibili sulla moneta. Otto lettere sono indicate con una didascalia attorno al bordo della moneta. Altre sono parzialmente visibili. In basso a sinistra, a seguire dopo TI, c’è la protuberanza circolare della parte bassa della B, poi si scorge appena la parte bassa della E (che era fatta come una C, mancando in questo esemplare il trattino a metà altezza), poi si vede sporgere il gambo della P, posizionato esattamente rispetto alla figura del simpulum, come sulla moneta, all’altezza della terza linea orizzontale dal basso. Le lettere delle iscrizioni, come sappiamo, sono diverse fra i diversi esemplari della stessa moneta per le differenze fra i conii, ma qui tutte le lettere, sia nella forma, sia nelle posizioni relative fra di loro, sia nelle posizioni relative al simpulum, sono esattamente quelle della moneta di fig. 15 e non si adatterebbero a nessuna delle tante altre monete del simpulum che si possono trovare su internet. Per vedere questa immagine, non riproducibile in bianco e nero, basta andare sul sito di Moroni e Barbesino alla pagina dove sono riprodotte le illustrazioni del libro 16b. Poco sotto metà pagina c’è la foto della moneta di fig. 15 e subito sotto, comoda per un confronto, c’è l’elaborazione in falsi colori di cui parliamo.[10]
La didascalia, nel libro e nel sito, è la seguente: «Il simpulum evidenziato mediante elaborazione elettronica dell’immagine sindonica dai proff. Baima Bollone e Balossino (pseudo colori)». Quindi viene dichiarato che si tratta di una elaborazione a partire da una foto della Sindone. La prima reazione è di pensare che la didascalia sia sbagliata, forse per uno scambio di immagini in tipografia durante la stampa del libro. Infatti questa appare essere una elaborazione ottenuta direttamente dalla foto della moneta di fig. 15. Quindi ho scritto a Moroni e Barbesino che hanno affermato che la didascalia è giusta. Potrebbe allora esserci stato un errore più a monte, per esempio nella trasmissione televisiva da cui sembra tratta l’immagine, e gli unici a poter dare una risposta definitiva sono gli stessi Baima Bollone e Balossino. Ho scritto anche a loro ma non ho avuto risposta. Va comunque considerato che in quel periodo, attorno al 1996, Moroni e Barbesino, o almeno Moroni, collaboravano con Balossino appunto per elaborazioni di immagini delle monete e dovrebbero quindi essere informati. Inoltre è strano che ancora oggi, a più di dieci anni dalla pubblicazione del libro, nessuno si sia accorto dello sbaglio, nemmeno gli stessi autori del libro. Lasciamo comunque aperta la questione finché non ci saranno conferme ufficiali che l’immagine è stata presentata da Baima Bollone e Balossino come una elaborazione di una fotografia della Sindone e non di una fotografia della moneta. Se fosse vera la prima alternativa, occorrerebbe esaminare questo caso con molta attenzione.
Che almeno Baima Bollone fosse convinto, nel 1996, che l’impronta elaborata da Balossino è tanto simile alla moneta, lo si capisce dalla frase citata sopra dall’intervista a Epoca. Baima Bollone diceva che c’era una moneta “che aderisce al millesimo di millimetro, sembra quasi che si tratti dello stesso conio.” Se si riferiva alla elaborazione elettronica di cui parliamo, allora non c’è bisogno di un “quasi”: la moneta è proprio quella! La sua moneta di fig. 15 non è solo gemella di conio: è proprio la stessa, quella che fu messa sull’occhio sinistro di Gesù per poi scivolare sul sopraccilio e lasciare l’impronta sulla Sindone! Infatti anche le monete impresse dallo stesso conio mostrano piccole differenze che permettono di distinguerle. In questo caso, la moneta di fig. 15 è un po’ fuori centro con la figura spostata a sinistra, tanto che rimane spazio a destra al di là dell’iscrizione, mentre sulla sinistra l’iscrizione deborda. Lo stesso si riscontra sull’immagine dell’elaborazione, cioè sulla Sindone. Sulla moneta ci sono lettere ben visibili e altre meno, esattamente come nell’elaborazione. E sulla moneta c’è una macchia scura a sinistra del manico del mestolo, proprio come nella elaborazione, e possiamo dedurne che la macchia c’era già nell’anno 30 d.C. benché allora la moneta fosse nuova di zecca. Questo, beninteso, se fosse vero che l’elaborazione in falsi colori proviene da una foto della Sindone, ma ci auguriamo che prima o poi arrivi una smentita…

Gian Marco Rinaldi

Ringrazio Gaetano Ciccone, Luigi Garlaschelli e Antonio Lombatti per la collaborazione.

Note

1) Sarà utile accennare a come venivano battute quelle monete. Si preparavano i due conii, cilindretti di ferro che a una estremità avevano l’incisione (speculare e in incavo) di una faccia della moneta. Un tondello di bronzo riscaldato veniva posto fra i due conii, tenuti in verticale, e si batteva sopra con un martello imprimendo le figure dei conii sul tondello. Il conio inferiore stava infisso in un basamento. Il conio superiore veniva tenuto in mano dall’operaio che batteva con il martello. I conii si rompevano o si consumavano in fretta e dovevano essere spesso sostituiti. Chi incideva le figure sui conii lavorava a mano, di solito in modo grossolano, e ogni volta le figure risultavano un po’ diverse. Quindi le monete in circolazione provenivano da un gran numero di conii non identici.
Anche le monete battute con la stessa coppia di conii erano un po’ diverse l’una dall’altra. La figura era spesso fuori centro perché sia il tondello sul conio inferiore, sia il conio superiore sul tondello erano posizionati a mano e in modo non preciso. Altre differenze erano dovute per esempio al metallo del tondello più o meno tenero in funzione della temperatura o della particolare composizione della lega, o alle condizioni dei conii che potevano essere più o meno consumati. In pratica, fra le monete uscite dalla zecca non se ne trovavano due che fossero perfettamente uguali. Quelle monete di Pilato, di piccolo valore, erano prodotte in modo frettoloso e con qualità di lavorazione spesso scadente. Si trovano a volte monete con errori grossolani, anche lettere sbagliate o mancanti nelle iscrizioni.

Un difetto che si può incontrare, sia pure raramente, è la “doppia battitura”. Una moneta già battuta veniva battuta di nuovo con la posizione del tondello, relativamente a uno o a entrambi i conii, spostata o ruotata rispetto alla prima battitura. Ne risultavano immagini confuse con la figura doppia e sfalsata. Oggi, dopo duemila anni, le monete pervenute sono più o meno consumate ed erose. È raro che si legga bene tutta l’iscrizione.

2) Per avere un’idea del grado di ingrandimento in questa e in altre fotografie, va considerato che sulla Sindone la distanza fra due linee verticali dove si inverte l’andamento dello spigato è di circa un centimetro o appena superiore. Intendiamo la verticale, per il lenzuolo della Sindone, così come è verticale la figura anteriore dell’uomo.

3) I fili di ordito sono paralleli ai lati lunghi della Sindone. I fili di trama sono trasversali. Nella Sindone il filo di trama passa sopra a tre fili di ordito, sotto a uno, sopra a tre e così via.

4) Si noterà che i sindonologi cercano di vedere l’impronta non nelle riproduzioni fotografiche di buona qualità, come sarebbe logico, ma in quelle peggiori. Baima Bollone ha questa spiegazione ([5], p. 224): «Il fatto poi che le lettere della scritta spicchino soprattutto sulle copie di terza-quarta generazione è facilmente spiegabile. Infatti la ripetuta riproduzione non fa altro che esaltare i contrasti, deprimendo i toni deboli e accentuando quelli forti, con il risultato di esaltare le più fini particolarità». Anche per l’altra moneta, quella sul sopraccilio sinistro, che nessuno ha mai visto in una fotografia normale e si rivela solo nelle elaborazioni elettroniche, Baima Bollone ha detto ([7], p. 133) che il risultato si ottiene solo con la fotografia di Enrie del 1931, non con le fotografie recenti, nemmeno con quelle scattate da lui stesso.

5) Whanger commenta che «ciò è stupefacente come tutto quanto in questa saga delle monete perché è così improbabile». Infatti si rende conto di quanto fosse improbabile trovare proprio una moneta gemella di conio e spiega ([20], p. 27): «I conii di ferro duravano solo per forse mille o duemila monete e poi si deformavano o si rompevano e si doveva fare un nuovo conio. Quindi ci sono innumerevoli variazioni dello stesso disegno, molti errori e molte variazioni di posizione. Abbiamo osservato centinaia di esemplari e non ne abbiamo mai visti due uguali, nemmeno con lo stesso disegno. Quanto è davvero straordinario, quindi, trovare una moneta che è gemella di conio di quella la cui immagine è sulla Sindone!» Non gli viene il sospetto che la fortuna sia troppa.

6) Qualche numismatico ritiene che siano state trovate rarissime monete del lituo che portano la data dell’anno 16 di Tiberio, ma la questione sembra essere incerta. L’iscrizione per l’anno 17 è LIZ ma la Z si trova anche scritta simile a una S. L’iscrizione per l’anno 16 al posto della Z ha uno “stigma”, un carattere arcaico dell’alfabeto greco che a volte non è chiaramente leggibile. Comunque l’eventuale variante di moneta del lituo con la data dell’anno 16 è così rara che ne sarebbero stati trovati solo cinque esemplari. I sindonologi ne hanno già trovati almeno altri tre: la prima moneta di Filas, quella trovata nel 1992 con l’errore della C secondo Baima Bollone, un’altra col lituo speculare posseduta da Mario Moroni di cui diremo. Si deve supporre che sbaglino a leggere l’iscrizione della data.

7) In almeno due pubblicazioni, Moroni dice che le monetine di Pilato erano coniate per fusione. Non c’è bisogno di essere esperti di numismatica per vedere che le monete erano ottenute per battitura.

8) Come esempio di moneta con doppia battitura, Moroni mostra proprio la foto della seconda moneta di Filas (nostra fig. 9), senza dire che per Filas si trattava invece di un esempio di una moneta con la C al posto della K.

9) Nel 1998 [2] e nel sito del CIS, Balossino mostra una foto di bassa qualità in negativo, analoga a quella di Filas ma diversa se si guarda al fine dettaglio. Nel 1997 presenta un negativo di qualità ancora peggiore (già pubblicato da Tamburelli), che nel dettaglio è a sua volta diverso dal precedente e da quello di Filas. Questo conferma che nelle foto di cattiva qualità, o che sono passate per diverse riproduzioni, le immagini risultano alterate.

10) Si vede che anche questa moneta del simpulum, come già quella del lituo, viene immaginata con l’impronta sulla Sindone ben diritta con l’asse in verticale, non ruotata, per poter far corrispondere gli andamenti orizzontali (o verticali nel caso del lituo) della tessitura con le linee orizzontali nella figura del simpulum. Baima Bollone non si meraviglia e ripete in diversi suoi libri (per esempio 8, p. 327): «Resta tuttavia il fatto indiscutibile che l’impronta delle due monete spicca con estrema chiarezza e che la loro disposizione, esattamente secondo l’asse verticale, implica l’intenzionalità di chi le ha messe a far sì che esse, con i loro simboli, si mostrassero con tutta evidenza». Quindi dobbiamo immaginare che chi mise le monete sugli occhi fece attenzione a collocarle diritte. Si deve anche supporre che quella che era sulla palpebra sinistra sia scivolata sul sopracciglio conservando l’asse verticale.

Bibliografia


1) N. Balossino: L’immagine della Sindone. 1997.
2) N. Balossino: pp. 231-53 in Sindone: Cento anni di ricerca, a cura di B. Barberis e G.M. Zaccone, 1998
3) N. Balossino: Sindon, giugno 2000, 111-24
4) P. Baima Bollone: L’impronta di Dio, 1985
5) P. Baima Bollone: Sindone o no, 1990
6) P. Baima Bollone: Sindone: La prova, 1998
7) P. Baima Bollone: Sindon, giugno 2000, 125-35
8) P. Baima Bollone: Il mistero della Sindone, 2006
9) G. Fanti: La Sindone, 2008
10) F. Filas: Biblical Archeologist, estate 1981, 135-37
11) F. Filas: Sindon, dicembre 1983, pp. 65-73
12) E. Garello: pp. 153-55 in Sindone: Scienza e fede. Atti del Convegno nazionale di sindonologia, Bologna 1981.
13) E. Marinelli: La Sindone: Un’immagine “impossibile”, 1996
14) M. Moroni: pp. 329-43 in La Sindone: Indagini scientifiche, Atti del IV Congresso Nazionale di Studi sulla Sindone, Siracusa 1987
15) M. Moroni: pp. 43-49 in La Sindone questo mistero, a cura della Delegazione Lombarda del “Centro Internazionale della Sindone di Torino”, 1991
16a) M. Moroni e F. Barbesino: Apologia di un falsario, 1997
16b) http://xoomer.alice.it/sacrasindone/immagini.htm
17) M. Moroni, F. Barbesino e M. Bettinelli, 2002: http://xoomer.alice.it/sacrasindone/brasile2002_monete.htm
18) J.-M. Orenga e C. Barta, Linteum, 41, 2006. www.redentoristas.org/sabanasanta/monedas.PDF
19) G. Tamburelli: Sindon, dicembre 1985, 15-20
20) M. e A. Whanger: The Shroud of Turin: An Adventure of Discovery, 1998
21)www.sindone.it/ricerche_immagine_monete.asp?sm=sindone&check=null&ss=6&pic=info6

 

Tratto da: Scienza & Paranormale N. 81


Molti altri articoli di collaboratori del CICAP sullo stesso argomento si trovano in differenti link all’indirizzo:

http://www.cicap.org/new/articolo.php?id=102011


Di seguito riporto un articolo da L’ItaloEuropeo che ammette la datazione del telo ma aggiunge che tanto i cristiani, anche si dimostrasse definitivamente che è falso, crederebbero ugualmente ad esso. Ed allora, con una logica ferrea l’autore dice che tanto vale continuare a ricercare.


L’età della Sindone per ora rimane quella medioevale fino a nuovi esami.

L’età della Sindone per ora rimane quella medioevale fino a nuovi esami.

Lunedì 28 gennaio 2008

Aspettiamo nuovi accertamenti per dire di che epoca è la Sindone. Per ora resta medioevale, con tutti i problemi e i misteri del caso…

Pochi giorni fa, la televisione e alcuni giornali hanno dato la notizia che l’esame del Carbonio 14 fatto sulla sindone era sbagliato, ossia questa non era di epoca medioevale come risultato nel 1988.

Anche l’Italoeuropeo ha preso atto della cosa e ne ha dato notizia, riservandosi di approfondire il tema. Abbiamo contattato il prof Christopher Bronk Ramsey, che nel 1988 seguì gli esami per la datazione (sottolineamo il fatto che egli nel 1988 era ancora uno studente laureando, sebbene avesse pubblicato l’articolo scritto a quattro mani con il prof Hedges su “Radiocarbon”), e che secondo alcune testate avrebbe considerato la possibilità che l’esame al C14 fosse “sbagliato”. Orbene, ci ha detto che in realtà non è proprio così, e che la stampa italiana ha non solo travisato ma alterato la notizia – vedasi intervento spedito a un blog dove si avverte una certa irritazione da parte dello stesso Ramsey.

Abbiamo chiesto direttamente alla fonte, dunque vi offriamo la risposta pervenuta in redazione:

From: “Christopher Ramsey”

To: “Filippo Baglini”

Sent: Sunday, January 27, 2008 10:48 PM

Subject: Re: to the polite attention of the prof Ramsey

Dear Dr Baglini
This is just to say that the press reports circulating in Italy are  quite wrong, the journalists involved did not check their sources as they should have done.  I consider it very unlikely that the original radiocarbon measurements made in 1988 are incorrect in any significant  way.

The press reports are rumours reported third hand and do not in any way reflect my views.  I do not wish to be interviewed over this matter at this point.

Best wishes

  
Christopher Ramsey

Abbiamo voluto pubblicare la risposta del professore per correttezza verso tutti i lettori, perché riteniamo che prima di ogni altra cosa si debba riportare la verità.

La Sindone è senza dubbio un oggetto affascinante, discutibile da tutti i punti di vista ed è facile, molto facile, incappare in false interpretazioni. Non è nemmeno semplice non lasciarsi coinvolgere da quella figura enigmatica che interroga le nostre coscienze, ma proprio per questo bisogna ricercare la verità più che la notizia.

Nella nostra inchiesta abbiamo dato voce ad entrambi gli “ schieramenti”: quelli che ritengono che la Sindone sia un falso, e quelli che la ritengono appartenere a Cristo. Abbiamo realizzato ciò per obbiettività e per dare un quadro completo ai lettori. Non sappiamo se ci siamo riusciti oppure no, ma ciò che conta è che ognuno può trarre le proprie conclusioni su fatti e notizie vere, non su reportages di terza mano, spesso poco corretti o del tutto erronei.

L’esame del Carbonio C14 può avere dei limiti, e sicuramente in futuro ci potranno essere altri esami molto più precisi; grazie alle nuove tecnologie questo non lo si può escludere, (siamo in contatto con un Chimico di Roma che sta cercando nuovi metodi), ma attualmente il C14 è l’esame con cui vengono datati i reperti archeologici di tutto il mondo.

Si potrebbe spezzare una lancia a favore della Sindone, poiché secondo una mia teoria l’esame del Carbonio 14 potrebbe essere stato alterato a causa della sporcizia trovata sul lino presa nel duemila, nonché quella accumulata in otto anni di viaggi per il mondo. Sono fattori da non sottovalutare. L’esame fatto vent’anni or sono collocherebbe il sacro oggetto fra il 1260 e il 1390, ma tanto basta per definirlo un falso? 

Alla luce dei fatti sarebbe utile ripetere l’esame, magari prelevando un campione di lino in un’area diversa, più vicino all’impronta, sottoporlo a un esame approfondito e ripetuto più volte. Ciò che a molti non è chiaro è che qualunque sia la datazione del lino, nulla cambierebbe nella coscienza dei cristiani: la fede è un percorso dello spirito che non necessita di alcuno strumento scientifico.

Il mistero della Sindone continuerà a esistere, continuerà a interrogare le nostre menti e i nostri cuori, e a noi non rimane altro che cercare di approfondire la questione senza arroganza o pregiudizi; giornalisti o scienziati, con la prudenza e la curiosità della verità […].



Categorie:SCIENZA E FEDE

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