I PAPI: LA VIA CRIMINALE A DIO 3. DALLA RIFORMA PROTESTANTE ALLA VIGILIA DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE

Roberto Renzetti

Agosto 2010

IL SACCO DI ROMA

        Gregorovius commenta nel modo seguente l’uscita di scena di Leone X:

Il clamore degli adulatori e dei cortigiani — né mai altro papa ne ebbe tanti e tanto facondi — non può più trarre in inganno l’opinione dei posteri, che devono dissociarsi da queste esaltazioni di Leone X e rifiutarsi di collocarlo tra i grandi uomini della storia. Egli ereditò il papato così come lo avevano forgiato e tramandato i Borgìa e i Della Rovere e vi aggiunse quella perfetta arte diplomatica medicea nella quale era maestro. Questo sistema dell’intrigo larvato, dell’ipocrisia e della ambiguità politica, lo lasciò poi a sua volta ai suoi successori facendone quasi un patrimonio dogmatico della Santa Sede nel suo aspetto temporale. Il gesuitismo entrò allora per la prima volta a far parte della politica ecclesiastica. Leone tenne saldamente il papato al centro dei rapporti europei e gli conferì senza dubbio la supremazia in Italia. Accrebbe inoltre il prestigio spirituale della Santa Sede, alla quale rese soggetta anche la Francia; ma in Germania lo stesso tentativo non gli riuscì. Si dice solitamente che egli coltivò idee grandiose, quali la cacciata degli stranieri dall’Italia, l’unificazione di questo paese sotto la signoria pontificia, la restaurazione della pace e dell’equilibrio in Europa e la guerra contro l’Oriente; tuttavia, nelle sue azioni, queste idee appaiono così pallide e frammentarie, oppure così male architettate, che attribuirgli il merito di tanto grandi disegni appare veramente artificioso.
Quanto alla Chiesa, Leone X la lasciò nell’abisso della rovina. Immerso in piani di splendore e di magnificenza, in abbandoni estetici, egli non mostrò neppure la più superficiale comprensione per la crisi della Chiesa. Inebriato dalla sua magnificenza, godette in lei tutta la grandezza e la pienezza della potenza spirituale come una felicità abbracciante il mondo: il papato era immerso nel suo godimento come l’impero di Roma. Egli immerse questo papato nella pompa del paganesimo neolatino. Non comprese il suo dovere cristiano, perché, come tutti i papi della Rinascenza, egli confuse la grandezza dei papato con quella della Chiesa, e questa falsificazione romana dell’ideale cristiano, il più lungo e il più terribile degli errori dei papi, generò la Riforma tedesca.

        Alla sua morte, con la Chiesa ridotta in così male che Baldassar Castiglione ebbe a dire che a descriverla come era nessuno vi avrebbe creduto, ci si rese conto che le finanze erano disastrose e che Leone si era venduto tutto, le tiare, le mitre, gli arazzi, i gioielli, i preziosi e financo le posate d’argento. Situazione drammatica che rendeva l’elezione del nuovo pontefice molto complessa per il ruolo impegnativo del nuovo Papa soprattutto per far fronte a sopravvenuti impegni di politica estera.

        La situazione europea vedeva tre grandi potenze in contrasto tra loro che è utile situare nelle linee generali.

        Da una parte vi era Enrico VIII d’Inghilterra, già incontrato nell’articolo precedente, che  premeva perché fosse eletto il suo candidato, il cardinale inglese Wolsey che era stato il principale consigliere di Enrico a partire dal 1511. Enrico VIII era salito al trono d’Inghilterra nel 1509 (aveva 18 anni) e nove settimane dopo aveva contratto matrimonio con Caterina d’Aragona, quinta figlia dei Re Cattolici di Spagna (Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia) e vedova del fratello Arturo che aveva sposato nel 1501 e che era subito morto prima che si consumasse il matrimonio, seguendo la volontà del padre, Enrico VII, che voleva creare una forte alleanza tra Inghilterra e Spagna. La celebrazione di tale matrimonio, la cui promessa risaliva alla morte di Arturo, aveva fatto esprimere dei dubbi sulla sua validità da parte del Papa Giulio II e dell’arcivescovo di Canterbury. Solo le insistenze di Isabella con il Papa, che si protrassero fino alla sua morte nel 1504, avevano prodotto una Bolla in cui il matrimonio veniva ammesso come legittimo con una dispensa. Ancora nel 1511 Enrico, con l’Imperatore Massimiliano del Sacro Romano Impero, con la Repubblica di Venezia e con il Re Ferdinando di Spagna aveva aderito alla Lega Santa fortemente voluta dal Papa Giulio II contro le mire egemoniche della Francia di Luigi XII. Alla morte di Giulio II (1513) Venezia abbandonò la Lega, alleandosi con i Francesi. Stessa cosa fece anche l’Inghilterra nel 1514 e queste defezioni portarono la Lega alla sconfitta di Marignano del 1515. Con l’avvento del nuovo Papa Leone X nel 1513 (prima dell’abbandono dell’Inghilterra della Lega Santa), Enrico aveva mostrato profonda ripulsa per le azioni scissioniste di Lutero tanto che il Papa gli aveva dato il titolo di Defensor Fidei. Intanto Enrico aveva il grave problema dell’erede al trono che doveva essere maschio perché gli inglesi ritenevano disastroso avere una don a al potere. Con Caterina i figli si succedevano (fino a sei) ma o morivano prematuramente o erano femmine. Alla fine sopravvisse una sola femmina, Maria Tudor, e questa situazione creò moltissimi problemi. Intanto era morto Ferdinando d’Aragona (1516) al quale successe suo nipote Carlo V d’Asburgo. Cerchiamo di mettere ordine. Tra i figli dei Re Cattolici vi era, oltre Caterina d’Aragona, anche Giovanna d’Aragona detta la Pazza(1). Costei, all’età di 17 anni (1496), aveva sposato l’arciduca Filippo d’Asburgo detto il Bello, figlio di Massimiliano d’Asburgo, Imperatore del Sacro Romano Impero. Carlo V d’Asburgo fu il primo erede maschio della coppia con pieno diritto di successione. Nel 1506 scomparve anche Filippo, padre di Carlo, per cui, quest’ultimo, all’età di soli sei anni, si trovò ad essere il potenziale erede non solo dei beni di Castiglia comprendenti anche le Americhe, ma anche di quelli d’Austria, del Sacro Romano Impero e di Borgogna; questi ultimi in quanto il nonno Massimiliano d’Asburgo aveva sposato Maria Bianca di Borgogna, ultima erede dei Duchi di Borgogna. Si profilava un sovrano che aveva davanti un potere ed un territorio enormi tanto che sul suo impero non tramontava mai il Sole, e ciò si realizzò nel 1516, quando aveva solo 16 anni, con la morte del nonno Ferdinando II d’Aragona (in realtà era la madre Giovanna l’erede del trono di Spagna ma a seguito dei suoi problemi mentali(1) la gestione del potere fu di Carlo che sostituì la madre fino alla sua morte nel 1555). Da notare che uno tra gli istitutori di Carlo V (in seguito anche consigliere insieme ad Erasmo da Rotterdam) era Adriaan Florensz di Utrecht, che sarebbe poi diventato Papa Adriano VI. E Carlo V aveva anche Caterina d’Aragona, sposa di Enrico VIII, come zia. Queste parentele con le corna annesse rappresentarono la politica europea per secoli con le continue benedizioni della Chiesa che di potenti se ne intendeva mentre manteneva la popolazione nella più infima ignoranza.

        D’altra parte vi era Francesco I Re di Francia che, scomparso Luigi XII nel 1515, ne aveva ereditata la corona. Il nuovo Re aveva ereditato dal predecessore anche le mire espansioniste sull’Europa e, essendo sposato con una Visconti, credette di avere diritti su Milano tanto che, appena eletto al trono, iniziò (alleato con Venezia) con una discesa in Italia dove scorrazzò per molto tempo provocando lutti e distruzioni fino ad impadronirsi del Ducato di Milano (1515). Ma Francesco puntava molto più in alto, al posto di Imperatore del Sacro Romano Impero, che si era liberato con la morte di Massimiliano I d’Asburgo (il nonno di Carlo V). I Principi Elettori si riunirono a Francoforte nel giugno del 1519 e, con l’imponente sostegno dei banchieri Fugger (quelli che gestivano le indulgenze di Leone X) che corruppero molti principi, elessero Carlo V (egli andava bene ai principi perché, dovendo operare anche in Spagna, sarebbe stato lontano dall’Europa centrale lasciando loro molta maggiore possibilità di manovre). E così Carlo V fu incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero nel 1520 nella Cattedrale di Aquisgrana. Lo smacco fu duro da digerire per Francesco che tentò subito di ampliare le sue alleanze con l’Inghilterra di Enrico VIII anche tramite gli uffici del cardinale Wosley che era diventato primo ministro del Re d’Inghilterra. Francesco mirava ad un matrimonio di suo figlio Francesco di Valois, erede al trono, con la figlia di Enrico VIII e Caterina d’Aragona, Maria Tudor. I piani non andarono a buon fine. Nessun matrimonio e nessuna alleanza. Anzi, Enrico VIII si alleò con Carlo V. Francesco si sentì sempre più accerchiato da un sovrano, Carlo V, che ormai dominava l’Europa. Ciò dette inizio ad una serie di scontri armati che si conclusero con la dura sconfitta francese nella Battaglia di Pavia nel 1525, battaglia nella quale lo stesso Francesco fu fatto prigioniero, condotto a Madrid e liberato un anno dopo dietro il pagamento di un forte riscatto e dietro la firma di un impegno (Trattato di Madrid) a rinunciare a determinati possedimenti. In garanzia di quest’ultimo impegno lasciò due figli a Madrid in ostaggio. Ma, una volta libero, Francesco denunciò tali accordi facendosi forte di un’altra alleanza, la Lega di Cognac (alla quale avevano aderito la monarchia inglese, la monarchia francese, Venezia, Genova, Firenze e Milano contro il potenziale pericolo di Carlo V), promossa da un altro Papa (1526), in questo caso Clemente VII, che era nel frattempo andato in rotta di collisione con Carlo V. Vi assicuro che è estremamente difficile seguire e riassumere queste vicende non marginali della storia di Europa.

        Serviva avere questo quadro di riferimento che situa le due fazioni nel conclave del 1522 che doveva eleggere il successore di Leone X. Nel parlare dei due principali contendenti di quel conclave abbiamo anche parlato di Carlo V fino alla vigilia dello scontro con la Chiesa che avverrà nel 1527.

        Quindi nel conclave vi erano almeno tre fazioni che si contendevano il Papa. Le due correnti prevalenti erano quelle che facevano capo a Carlo V e a Francesco I. Vi era poi Edoardo VIII. Quest’ultimo, come già detto, puntava sul suo primo ministro, il cardinale Wolsey. Carlo V aveva come preferito il cardinale Giulio de’ Medici, nipote di Lorenzo il Magnifico (perché figlio del fratello Giuliano) e quindi cugino del papa Leone X. Sembrava questa la strada che sarebbe stata seguita dal conclave ma Francesco I inviò una lettera a tutti i cardinali del conclave per avvertirli che, se avessero votato per Giulio de’ Medici, egli avrebbe provocato uno scisma nella Chiesa. La situazione sembrò paralizzarsi finché non fu risolta dallo stesso Medici che si tirò indietro proponendo l’elezione di un cardinale non conosciuto al conclave e neppure presente, Adriaan Florensz di Utrecht. La mediazione fu accettata perché quasi nessuno era a conoscenza del fatto che questo candidato era stato istitutore di Carlo V e ne era attualmente consigliere. Insomma con l’intervento del Medici aveva vinto ancora Carlo V. Ma l’incertezza restava grande in una situazione in cui, per la prima volta che si sappia, chiunque poteva aspirare ad essere pontefice se l’ambasciatore di Venezia aveva contato ben 18 candidati su 39 cardinali. Il cardinale Adriaan Florensz fu eletto ed assunse il nome di Papa Adriano VI (1522-1523). Il nuovo Papa era persona colta ed integra tanto che, oltre a Francesco I e Enrico VIII, anche lo stesso Carlo V tentò di accattivarselo con invito alla sua corte.  Adriano non volle saper nulla essendo anche preoccupato per il ruolo che avrebbe assunto in una Chiesa allo sfacelo in uno Stato Pontificio in lotte perenni tra vari potentati e pieno di corruzione ad ogni livello ma anche perché i suoi compiti avrebbero previsto: riportare la pace in Italia; mettere d’accordo le grandi potenze;  risolvere il problema della Crociata contro i Turchi (che avevano già occupato Belgrado ed assediavano Rodi); estirpare l’eresia luterana che si diffondeva rapidamente in Germania ed in Svizzera; riformare la Chiesa per non portarla all’autodistruzione. Dalla Spagna dove si trovava Adriano arrivò a Roma in agosto, sette mesi dopo l’elezione ed entrò a Roma da Civitavecchia, incurante della peste che infieriva colpendo ancora la città. Appena giunto seppe che si stava organizzando la costruzione di un arco trionfale in suo onore. Rifiutò l’onore perché l’onere risultava molto elevato. Ciò gli restituì il favore del popolo che invece aveva protestato e rumoreggiato (anche con lancio di sassi sul Ponte di Castel Sant’Angelo ai cardinali che uscivano dal conclave) al sapere che era stato eletto uno straniero. La gioia però durò poco perché Adriano impose una vita morigerata a tutti, a cominciare dal taglio delle spese folli della Curia per arrivare ad impedire elargizioni di denaro a fini clientelari di molti cardinali (abolì molte rendite derivanti da privilegi ecclesiastici venduti e pagati a caro prezzo che ora creavano aspettative di lauti guadagni, tanto che alcuni, sentendosi rovinati, pensarono di attentare alla vita del Papa. Qualcun altro scrisse: In verità Roma non è più Roma. Usciti da una peste siamo entrati in una maggiore. Questo pontefice non conosce nessuno, non si vedono Grazie). Per Adriano la vita di corte doveva diventare consona  ad un ambiente ecclesiastico e quindi decise di togliersi di torno tutti i portaborse, i parassiti e postulanti, oltreché le donne, le cortigiane, i buffoni ed i poeti. Ma il clima di Roma e più che mai i costumi della corte papale, la sua moralità inesistente, fiaccarono i buoni propositi di Adriano. Non aveva persone di cui fidarsi e da solo non riusciva a fare nulla in un ambiente che, privato di benefici secolari, delle sue cortigiane, dei suoi fasti, dei suoi sodomiti, era diventato inesistente e quindi nemico acerrimo. Tutti qui personaggi che si aggiravano nella corte del papa e che erano ecclesiastici a qualsiasi titolo, avevano in massima parte scelto quella strada per quelle note uscite di benessere, lussi, vizi ed impunità (come del resto accade oggi in cui non vi è mondo migliore per un pedofilo entrare in un seminario e proseguire con la cura dei bambini in asili e parrocchie). Adriano capì che massima parte del potere papale derivava proprio da tutta quella congerie di privilegi, di favori, di indulgenze, di simonia, di corruzione, di sodomia, di peccato nel senso più lato del termine (ed ancora oggi in Italia abbiamo ereditato tutto questo, che non riusciamo a toglierci di dosso, da secoli di papato criminale). I consiglieri curiali, che erano stati di leone X, spiegavano al pontefice tutto questo che iniziò ad essere vittima di dubbi su dubbi. Mentre la corte dei cardinali lo disprezzava ed ironizzava sulla sua pedanteria. Ma la cosa li toccava marginalmente perché, lor signori, continuavano imperterriti a spassarsela con prostitute, sodomiti, banchetti (anche di 75 portate con ognuna di esse costituita da tre pietanze diverse, il tutto in bellissimi argenti ed in gran quantità, mentre provetti musici allietavano degustazione e digestione), sollazzi, battute di caccia (con preziosi cavalli andalusi), gioco (con vincite e perdite di intere fortune ed il passaggio di intere cittadine da un cardinale ad un altro). Sempre per maggior gloria di Gesù, con Adriano che sembrava lo scemo della comitiva, per di più insultato e disapprovato in ogni sua piccola scelta intenzionalmente moralizzatrice ed anche politica. Quando per la Crociata contro i Turchi non volle ricorrere ad indulgenze ma propose di aumentare di poco le tasse, vi fu una specie di ribellione. In questo clima anche la sua azione tesa a fermare la Riforma in terra tedesca non ebbe la forza necessaria. A ciò si aggiunga che nel marzo del 1523 venne scoperta una corrispondenza del cardinale Soderini nella quale risultava il tentativo di Francesco I di impadronirsi del Regno di Napoli. Soderini fu arrestato e Francesco I ruppe le relazioni con la Chiesa. Adriano reagì con l’adesione ad una lega antifrancese costituita con Carlo V, Enrico VIII e Venezia. A ciò seguiva l’invasione dell’Italia settentrionale da parte di Francesco I. Proprio quando Adriano moriva improvvisamente nella felicità, neppure repressa, della Curia romana con cortigiane, prostitute e buffoni.

        Il terreno era stato preparato all’elezione di qualcuno che avesse ripristinato i costumi del passato. Il Papato non avrebbe potuto sopravvivere con l’andare avanti della moralizzazione di Adriano. Non importavano le beghe con i Turchi o con chiunque altro. La prima osa da difendere era il dispiegarsi completo di ogni vizio e corruzione senza censure e benpensanti.

        Il conclave che seguì fu molto combattuto tra Giulio de’ Medici sempre sostenuto da Carlo V, ancora da Francesco I che sosteneva il cardinale Alessandro Farnese e tra i voti disponibili al miglior offerente controllati da Pompeo Colonna. Dopo la solita simonia fu eletto Giulio de’ Medici che scelse il nome di Papa Clemente VII (1523-1534), un’altra tragedia di crimine e corruzione.

        L’inizio sembrò eccellente con la proclamazione della pace universale tra Francia, Spagna ed Inghilterra. Ma fu un fallimento completo con Francesco I che invase l’Italia e con il Papa che si convinse (1525) che era quello il migliore alleato (insieme a Venezia), lasciando da parte il sodalizio, che lo aveva portato al trono di Pietro, con l’Imperatore Carlo V. La Chiesa ebbe dei vantaggi immediati come la cessione da parte francese delle città di Parma e Piacenza dovendo cedere il passo all’esercito di Francesco I verso la conquista di Napoli. Il tutto finì con varie giravolte papali: come già accennato Francesco I fu sconfitto a Pavia e fatto prigioniero e Clemente si sentì perso anche se le risorse di un Papa sono quasi infinite. Egli, mentre celebrava come se nulla fosse il Giubileo del 1525 con ancora irrisolto il problema delle indulgenze, cambiò alleanze addirittura schierandosi con il vicerè di Napoli al fine di tutelare lo Stato Pontificio e la signoria dei Medici a Firenze, ma ammettendo che gli spagnoli potessero puntare su Milano. Gli eventi portarono alla citata Lega di Cognac contro Carlo V nella quale il Papa si trovò alleato a Francesco I e Venezia. Da tutto ciò venne fuori che Carlo V non riuscì più a fidarsi di un personaggio come Clemente, vago e mutevole soprattutto in un momento in cui egli doveva tenere a bada l’avanzata del comandante turco Solimano e non poteva distrarre truppe. Tentò comunque un riavvicinamento nel giugno del 1526 che nella sua incapacità Clemente non seppe cogliere rispondendo a Carlo in modo che risultò offensivo. Carlo rispose in modo molto duro screditando completamente la natura pastorale di Clemente e minacciando un Concilio ecumenico che discutesse addirittura le ragioni di Lutero. Carlo scrisse anche ai cardinali dicendo loro che avrebbero dovuto bandire un Concilio perché in caso contrario non si sarebbe più potuto frenare il movimento luterano con il rischio che la Germania si sarebbe staccata dalla Chiesa di Roma. Si deve osservare con Gregorovius quanto fosse avventata e stupida la politica papale se commisurata con gli interessi della Chiesa. L’alleanza con la Francia, di fatto, aveva indotto Carlo V ad allearsi con i luterani che, contrariamente alla Chiesa cattolica, lo riconoscevano come Imperatore

        In seno alla Curia vi fu il tentativo del Cardinale Pompeo Colonna, con i metodi soliti dei Colonna (violenze e saccheggi), di riportare il papa all’alleanza con Carlo V. Clemente VII, assediato a Roma dalle soldataglie dei Colonna fu costretto a chiedere aiuto all’Imperatore con la promessa di cedere in cambio la propria alleanza ai danni del Re di Francia, rompendo la Lega di Cogna. Pompeo Colonna si ritirò allora verso Napoli. Clemente VII, senza più la pressione di Colonna non mantenne il patto e chiamò in suo aiuto l’unica forza che poteva difenderlo, ancora il Re di Francia. Non vi fu nulla da fare ed alla fine di questo tentativo Clemente si trovò ad essere un ferreo alleato della Francia contro l’Impero di Carlo V. A questo punto Carlo V ordinò alle sue truppe di marciare su Roma. Il 12 novembre del 1526 partì da Trento un contingente di Lanzichenecchi comandati da un generale francese in rotta con Francesco I, Carlo III di Borbone-Montpensier e le truppe sul campo di battaglia avevano come diretto comandante Georg von Frundsberg (qui vi sono giustificazioni storiche che raccontano di quest’ultimo che, ammalatosi, dovette tornare in Germania prima dell’attacco a Roma). Ad essi si unirono gli spagnoli provenienti da Milano e molti italiani provenienti da vari statarelli dominati dalla Chiesa in modo da formare un contingente di 35 mila uomini. La città di Roma che era in totale decadenza (aveva circa 50 mila abitanti contro il milione di era imperiale) e che aveva una difesa di circa 5000 uomini tra cui un contingente svizzero, con il Papa nascostosi nella fortezza di Castel Sant’Angelo, fu attaccata (6 maggio) ed espugnata il 6 giugno del 1527. Fino a febbraio del 1528 fu messa al sacco da parte dell’esercito imperiale e subì infiniti danni al suo patrimonio artistico. In una relazione dell’epoca si legge: gli imperiali hanno preso le teste di San Giovanni, di San Pietro e di San Paolo; hanno rubato l’involucro d’oro e d’argento e hanno buttato le teste nelle vie per giocare a palla; di tutte la reliquie di santi che hanno trovato, hanno fatto oggetto di divertimento. Carovane di carri cariche di ogni genere di ricchezze lasciavano la città. Erano i beni della nobiltà e del clero. Gli occupanti quando si ritirarono lo fecero perché colpiti e decimati da varie malattie che erano diventate endemiche nella città per la mancanza di ogni cura igienica da 1500 anni, da quando era dominio della Chiesa. Il raddoppio della popolazione per circa un anno, quello del sacco, a fronte delle stesse fogne fatiscenti e della malaria regnante, ridusse gli abitanti di Roma a circa 20 mila. Nell’attacco il comandante francese fu ferito a morte da Benvenuto Cellini che difendeva la città. Il Papa si salvò chiudendosi in Castel Sant’Angelo dove riuscì ad uscire dopo patteggiamenti e la promessa del pagamento di un riscatto che lo portò per sette mesi in una prigione nell’attuale quartiere Prati. Da questa con la compiacenza di alcuni ufficiali, riuscì a fuggire travestito da povero ortolano, prima ad Orvieto quindi a Viterbo. Così fu senza che si pagasse quel riscatto ma dovendo pagare profumatamente gli ufficiali che lo fecero evadere e per corrompere e pagare qua e là. Intanto le truppe tedesche continuavano a dilagare su Roma distruggendo tutto, saccheggiando la città a fondo, uccidendo, violentando e stuprando con la distruzione della Roma rinascimentale e di molte opere d’arte (le ragioni che indussero i mercenari germanici ad abbandonarsi ad un saccheggio così efferato e per così lungo tempo risiedono, soprattutto, nell’acceso odio che la maggior parte di essi, luterani, nutrivano per la Chiesa che consideravano come la Babilonia corruttrice guidata da un Papa che era l’Anticristo). Scriveva Guicciardini nella sua Storia d’Italia:

«Tutte le cose sacre, i sacramenti e le reliquie de’ santi, delle quali erano piene tutte le chiese, spogliate de’ loro ornamenti, erano gittate per terra; aggiugnendovi la barbarie tedesca infiniti vilipendi. E quello che avanzò alla preda de’ soldati (che furno le cose più vili) tolseno poi i villani de’ Colonnesi, che vennero dentro. Pure il cardinale Colonna, che arrivò (credo) il dì seguente, salvò molte donne fuggite in casa sua. Ed era fama che, tra denari oro argento e gioie, fusse asceso il sacco a più di uno milione di ducati, ma che di taglie avessino cavata ancora quantità molto maggiore».

Ed il Gregorovius fornisce maggiori dettagli che io riporto in minima parte, quella relativa ai primi giorni del Sacco:

[…] lo spettacolo che Roma offriva di sé era più orribile di quanto si possa immaginare: le strade ingombre di rovine, di cadaveri e di moribondi; case e chiese divorate dal fuoco dalle quali uscivano grida e lamenti; un orribile trambusto di gente che rubava e che fuggiva; lanzichenecchi ubriachi, carichi di bottino o che si trascinava dietro prigionieri. Diritto di guerra a quel tempo significava licenza di saccheggiare una città conquistata ma anche facoltà di considerare tutta la popolazione vinta niente altro che carne da macello. Nessun lanzichenecco avrebbe capito che era disumano trattare dei cittadini inermi come degli schiavi di guerra. Chi aveva cara la vita doveva riscattarla. Con la più rozza ingenuità il cavaliere Schertlin scriveva nelle sue Memorie: «Il 6 maggio prendemmo d’assalto Roma; gli uccisi furono più di seimila, tutta la città fu saccheggiata, nelle chiese e sopra terra prendemmo tutto ciò che trovammo e una buona parte della città fu incendiata».
Niente e nessuno fu risparmiato. Le case degli spagnoli e dei tedeschi furono saccheggiate come quelle dei romani. In molti palazzi che appartenevano a partigiani dell’imperatore si erano rifugiate persone di ogni ceto, a centinaia; gli spagnoli vi irruppero depredando e incendiando. Così accadde la prima notte sia nella casa del marchese di Mantova che in quella dell’ambasciatore portoghese, dove i lanzichenecchi avrebbero fatto un bottino di 500.000 ducati. Alcune centinaia di persone trovarono scampo nel grande palazzo del cardinal Andrea della Valle che evitò il saccheggio consegnando a Fabrizio Maramaldo parecchie migliaia di ducati. Come sempre accadeva in casi del genere, con un atto notarile le persone ospitate si impegnavano a restituire al proprietario del palazzo somme di denaro adeguate alla taglia di ciascuno.
Più sventurata fu la fine degli edifici che osarono opporre resistenza. Furono fatti saltare in aria con mine, e una torre del Campidoglio andò così distrutta. A Campo-marzio il palazzo Lomellina resisteva: i lanzichenecchi lo presero d’assalto, e a colpi di fucile uccisero la padrona di casa che tentava di fuggire calandosi nel cortile con una corda. Ricchissimo bottino fornirono le chiese e i conventi, dove gli imperiali rubarono anche gli oggetti preziosi che i cittadini vi avevano custodito. Il saccheggio fu generale: non furono risparmiate né S. Maria dell’Anima, chiesa nazionale dei tedeschi, né la chiesa nazionale degli spagnoli, S. Giacomo in piazza Navona dove giaceva la salma del Borbone. S. Maria del Popolo fu spogliata in un baleno di tutto quanto vi si trovava e i frati furono tutti trucidati. Le monache dei conventi di S. Maria in Campomarzio, di S. Silvestro e di Montecitorio furono vittime di indescrivibili atrocità. Quando i conventi in cui irrompevano si rivelavano poveri, i soldati sfogavano la loro delusione abbandonandosi ad atti di ferocia inaudita.
E’ necessario aver presente la grande quantità di oggetti preziosi custoditi nelle sacrestie di Roma per immaginare quale immenso bottino fruisse nelle mani degli imperiali. Tutto fu rubato, distrutto, profanato. Lo stesso destino subirono le teste degli apostoli, quella di Andrea a S. Pietro e quella di Giovanni a S. Silvestro. Un soldato tedesco fissò all’estremità della sua picca la punta della cosiddetta lancia santa. Il sudario di S. Veronica passò di mano in mano per tutte le taverne di Roma. La grande croce di Costantino, strappata da S. Pietro, fu trascinata per il Borgo e andò perduta. A ricordo di questa impresa, i tedeschi conservarono parecchie reliquie, ma il bottino più ridicolo fu la corda, piuttosto spessa e lunga dodici piedi, con la quale si sarebbe impiccato Giuda. Lo Schertlin la rubò a S. Pietro e la portò con sé in patria. Anche la cappella Sancta Sanctorum, la più venerata di Roma, fu saccheggiata.
Neppure al tempo dei Saraceni S. Pietro era stata devastata tanto ferocemente. Gli spagnoli vollero frugare anche nei sepolcri, persino in quello di Pietro, come un tempo avevano fatto i Mori. Fu spogliato il cadavere di Giulio II, che era sepolto in un sarcofago, e la salma di Sisto IV non fu profanata solo grazie alla pesantezza della sua tomba di bronzo. I soldati giocarono a dadi sugli altari sbevazzando nei sacri calici in compagnia di laide prostitute. Nelle navate e nelle cappelle, così come nel palazzo Vaticano, furono approntate stalle per i cavalli ma al posto della paglia furono usate le bolle e i manoscritti che un tempo i papi umanisti avevano raccolto con tanta passione. Quanto alla biblioteca Vaticana, solo a fatica l’Orange poté salvarla dalla distruzione, fissandovi la propria dimora. Nelle strade tuttavia si vedevano sparsi brandelli di scritti e di registri pontifici. Molti archivi di conventi e di palazzi, infatti, andarono distrutti e la storia del Medioevo di Roma ne subì perdite irreparabili. Quel saccheggio spiega anche la penuria di documenti dell’archivio Capitolino.
Anche molte opere d’arte andarono perdute. I tappeti fiamminghi di Raffaello furono rubati e venduti, mentre le magnifiche pitture su vetro di Guglielmo di Marcillat furono fatte a pezzi. Più tardi un insensato odio nazionale ha attribuito ai lanzichenecchi distruzioni che essi non compirono mai. Non è affatto vero, ad esempio, che con il fuoco delle loro fiaccole essi annerissero gli affreschi di Raffaello, ed è assolutamente infondata l’odiosa accusa che i tedeschi abbiano premeditatamente fatto a pezzi le statue più belle, dato che i più grandi capolavori dell’antichità e del Rinascimento sono giunti intatti sino a noi. Dopo i primi tre giorni il principe di Orange ordinò che il saccheggio fosse sospeso e che le truppe si ritirassero nel Borgo e a Trastevere. Nessuno gli obbedì. I soldati continuarono a far prigionieri e a saccheggiare tutte le case, comprese le modestissime abitazioni dei portatori di acqua. Vennero in città, dai fondi dei Colonna, anche i contadini, i quali seguirono le orme degli assalitori spigolando dove essi avevano mietuto. Avidamente accorse lo stesso Pierluigi Farnese, vero epigono di Cesare Borgia e abominevole bastardo del cardinale che, divenuto successivamente papa, lo avrebbe reso potente. Per puro e semplice desiderio di rubare egli si era unito al partito imperiale e si allontanò da Roma per nascondere in un castello del Patrimonio appartenente alla propria famiglia un bottino valutato ventìcinquemila ducati. Per strada, la carovana del Farnese fu però assalita e derubata dal popolo del Gallese.
Per otto giorno i palazzi dei cardinali Valle, Cesarini, Enkevoirt e Siena furono risparmiati sia perché avevano ospitato i capitani spagnoli sia perché i loro proprietari avevano pagato più di trentacinque mila ducati. Senonché, quando i lanzichenecchi videro che gli spagnoli si impadronivano delle case migliori montarono su tutte le furie. Assalirono per quattro ore il palazzo di Siena, lo saccheggiarono, presero tutto quello che vi si trovava e trascinarono nel Borgo, prigioniero, il cardinal Piccolomini. Allora anche gli altri cardinali si rifugiarono nel palazzo di Pompeo, aprendo in tal modo ai lanzichenecchi la via del saccheggio delle loro case. Il bottino di casa Valle dovette ammontare a duecentomila ducati; non inferiore fu quello fatto a palazzo Cesarini, mentre da casa Enkevoirt furono prelevare ricchezze per centocinquantamila ducati. Si aggiunsero poi, le taglie imposte ai prigionieri. Isabella Gonzaga uscì fortunatamente incolume da quelle atrocità. Il 5 novembre aveva comprato dal papa il cappello cardinalizio per suo figlio Ercole e Clemente glielo mandò a palazzo Colonna, dove ella abitava dopo aver lasciato la dimora di palazzo Urbino, vicino a S. Maria in via Lata. Messa in guardia da tempo dal secondogenito don Ferrante, generale della cavalleria nell’esercito del Borbone, la marchesa aveva provvisto questo palazzo di vettovaglie e di armi, lo aveva fatto rafforzare di mura e vi aveva ospitato tremila fuggiaschi, tra i quali Domenico Massimo. Nella sua casa si salvarono anche quattro ambasciatori italiani, Francesco Gonzaga, i rappresentanti dì Ferrara e di Urbino e il rappresentante di Venezia, Domenico Venier il quale non aveva fatto in tempo a raggiungere Castel S. Angelo. Fin da quella orribile prima notte di saccheggio vi si erano recati il conte Alessandro di Nuvolara, la cui bellissima sorella Camilla si trovava già presso la marchesa, e un parente del duca di Sessa, don Alonso de Cordoba, cui il Borbone aveva raccomandato di provvedere alla difesa della principessa. Questi capitani, fatti salire nel palazzo mediante una fune, chiesero cinquantamila fiorini d’oro: diecimila dovevano essere versati dai fuggiaschi veneziani e diecimila da don Ferrante. Questi accorse verso le due di notte lasciando la guardia di Castel S. Angelo che gli era stata affidata e il Nuvolara e don Alonso si rifiutarono di farlo entrare finché egli non promise che nessuno, oltre alla propria madre, sarebbe stato esentato dal riscatto. Più tardi, scrivendo al fratello che si trovava a Mantova, don Ferrante diceva quanto fosse difficile assicurare protezione alla marchesa, poiché nel campo correva voce che in quel palazzo si trovassero due milioni e che, a causa della generosità della signora, vi avessero trovato rifugio più di milleduecento gentildonne e mille uomini. Tutti gli altri prigionieri dovettero riscattarsi con sessantamila ducati. Il Venier, che si era consegnato al Nuvolara, ne diede cinquemila e diecimila furono versati da Marcantonio Giustiniani. Come convenuto, un distaccamento di spagnoli fu messo a guardia del palazzo, ma i lanzichenecchi minacciarono di assalirlo e l’Orange e il conte di Lodrone durarono fatica a trattenerli. Allora spaventata, il 13 maggio Isabella lasciava il palazzo insieme con la propria corte e con gli ambasciatori italiani. Mediante una barca, suo figlio la accompagnò a Ostia e di lì’ i fuggiaschi, tra i quali era anche il Venier travestito da facchino, proseguirono a cavallo per Civitavecchia.
Ad Ostia il Venier trovò altri fuggitivi, il Caraffa e il Thiene con i teatini. Dopo molti maltrattamenti subiti, prima nel loro convento al Pincio poi come prigionieri, anch’essi erano fuggiti per il Tevere. L’ambasciatore li convinse a imbarcarsi su una nave della repubblica veneta e così i teatini trovarono asilo a Venezia. A Civitavecchia fuggirono anche Domenico de Cupis, cardinale di Trani, e i figli di donna Felice Orsini che avevano dovuto pagare un forte riscatto nella casa dell’Enkevoirt. Essi percorsero molte miglia a piedi per raggiungere il porto che le navi del Doria difendevano da ogni pericolo. Vi si trovava anche il cardinale Scaramuccia Trivulzio che poco prima della catastrofe aveva lasciato Roma alla volta di Verona. Era presente anche il Machiavelli inviato ad Andrea Doria dal Guicciardini.
Lo stesso cardinal Gaetano, che ad Augusta aveva trattato Luterò con tanta alterigia, fu trascinato per Roma dai lanzichenecchi spinto a percosse e a calci e portato in giro con berretto da facchino in testa. Così gli imperiali lo trascinarono da banchieri e amici perché col loro denaro potesse raccogliere la somma necessaria al suo riscatto. Il papa pianse quando seppe dei maltrattamenti subiti dal cardinale e fece pregare i tedeschi affinché «non spegnessero la lampada della Chiesa». Anche l’anziano cardinale Ponzetta di S. Pancrazio, sebbene partigiano dell’imperatore, fu derubato di ventimila ducati che aveva tentato di nascondere e poi fu trascinato per Roma con le mani legate dietro la schiena. Quattro mesi dopo moriva in miseria, nella sua casa rimasta completamente spoglia. Cristoforo Numalio, cardinale francescano, fu strappato dal suo letto, posto su una bara e portato in processione dai lanzichenecchi che, con delle candele accese in mano, gli cantavano grotteschi inni funebri. Giunti all’Aracoeli, i soldati deposero a terra il feretro, pronunciarono un’orazione funebre dopo di che, scoperchiata una tomba, minacciarono il cardinale di seppellirlo là dentro se non avesse pagato la somma richiesta. Il prelato offrì tutti i suoi averi ma i suoi tormentatori, insoddisfatti, lo riportarono nella sua casa per poi trascinarlo nuovamente nelle abitazioni di tutti coloro dai quali poteva sperare di ricevere denaro.
Di fronte alle atrocità commesse dall’esercito di Carlo V, si può dire che i saccheggi di Roma avvenuti ai tempi di Alarico e di Genserico non furono privi di moderazione e di umanità. Vi fu pure il trionfo della religione cristiana in mezzo al caos di Roma saccheggiata dai Goti; mentre nessun episodio del genere introdusse una nota di pietà negli orrori del 1527. Allora, infatti, la città non offrì altro spettacolo che quello di bacchiche comitive di lanzichenecchi i quali, in compagnia di etere seminude, si recavano a cavallo in Vaticano per brindare alla morte o alla prigionia del papa. Luterani, spagnoli e italiani si divertivano a scimmiottare le cerimonie religiose. Si vedevano lanzichenecchi che a dorso di somari imitavano i cardinali mentre in mezzo a loro un soldato travestito faceva la parte del papa. Così camuffati si spinsero più volte davanti a Castel S. Angelo dove gridarono che, d’ora in poi, avrebbero scelto come papi e cardinali solo persone pie, obbedienti all’imperatore, e tali che non intraprendessero più guerre, e dove proclamarono Lutero papa. Alcuni soldati ubriachi bardarono un asino con paramenti sacri e costrinsero un sacerdote a dare la comunione all’animale che avevano fatto inginocchiare. Lo sventurato prete inghiottì uno dopo l’alta tutte le ostie finché i suoi aguzzini non lo tormentarono a morte. Ad altri sacerdoti fu estorta con orribili torture la confessione di delitti veri o presunti.
Le condizioni di Roma nella prima settimana di assedio avrebbe forse impietosito le pietre ma lasciarono del tutto indifferente quell’esercito efferato. Il francese Grolier, che si era salvato nella casa del vescovo spagnolo Cassador, ha espresso in queste parole ciò che udì e vide dal tetto del palazzo : «Dappertutto grida, frastuono d’armi, lamenti di donne e di fanciulli, crepitio di fiamme, fragore di case che crollavano; noi rimanevamo paralizzati dalla paura e tendevamo l’orecchio come se fossimo gli unici risparmiati dal destino per assistere alla rovina della patria». Ora, vestito di sacco e col capo cosparso di cenere come Giobbe, Clemente avrebbe potuto tendere le mani al cielo dall’alto di Castel S. Angelo e chiedere piangendo perché un giudizio così tremendo aveva colpito il papato caduto tanto in basso da idolatrare se stesso. Di lì egli vide le fiamme avvolgere la sua bella villa di monte Mario alla quale il cardinal Pompeo aveva appiccato fuoco per vendicare i propri castelli distrutti. Che cosa erano mai quelle fiamme in confronto alle colonne di fuoco che si alzavano in tutta la città?
Per difendersi dalle artiglierie di Castel S. Angelo, da torre di Nona, davanti a ponte S. Angelo, fino a palazzo Altoviti gli imperiali avevano scavato una trincea dalla quale facevano fuoco incessantemente. In quei giorni il castello era teatro di una confusione indescrivibile: tremila cittadini, il papa e tredici cardinali. Sulla sua sommità sventolava, accanto all’angelo di pace, la rossa bandiera dì guerra, e ogni ora i colpi di cannone che venivano sparati lo avvolgevano di fumo. Novanta svizzeri e quattrocento italiani ne costituivano la guarnigione; il comando dell’artiglieria era stato affidato al romano Antonio S. Croce e sotto di lui serviva come bombardiere Benvenuto Cellini. Mancavano i viveri; la carne di asino era diventata una leccornia per i cardinali e per i vescovi. Gli spagnoli tagliavano i rifornimenti da qualunque parte venissero. A colpi di archibugio uccisero alcuni bambini che dalla fossa del castello facevano salire delle erbe, agli affamati, e un capitano impiccò di propria mano una vecchia che portava un po’ di insalata per il papa. […]

        Tutta l’Europa cristiana si indignò per la barbarie delle distruzioni e lo stesso Carlo V risultò isolato da tutti i sovrani. Fu allora che si giustificò con i soldati restati senza comandante che agirono di loro iniziativa. Il Papa ritornò a Roma solo nell’autunno del 1528 per vedere con i suoi occhi quel flagello che il popolo aveva interpretato come punizione per i peccati indicibili ed esecrabili della Chiesa. Nel 1529 si addivenne alla Pace di Barcellona con la quale si siglava una tregua tra Francesco I e Carlo V, Firenze tornava ai Medici, lo Stato Pontificio riprendeva possesso di varie terre perse nelle azioni lanzichenecche. Naturalmente veniva anche sancita la pace tra l’Impero e la Chiesa anche attraverso uno dei matrimoni risolutori di controversie, quello tra la figlia bastarda di Carlo V, Margherita, ed il figlio bastardo di Ludovico Duca di Urbino, Alessandro de’ Medici (che era noto a tutti come il figlio del Papa). E fu proprio ad Alessandro che venne consegnato il governo di Firenze, a quell’Alessandro che immediatamente abrogò la costituzione repubblicana della città (1532). L’accordo prevedeva anche l’incoronazione di Carlo V come sovrano del Sacro Romano Impero, incoronazione che fece Clemente a Bologna il 22 febbraio del 1530 (ultima incoronazione). A questo punto il Papa dovette anche accettare la convocazione di un Concilio che discutesse della Riforma di Lutero (questa era la politica ufficiale, ma il sottobosco degli intrallazzi tentava di evitare l’evento aborrito dal Papa)  anche perché i luterani si organizzavano rapidamente e avevano trovato il loro punto di massima forza nella formazione della Lega di Smalcalda nel 1531. I raffinati preti che consigliavano Clemente trovarono una formula: il Concilio si farà quando tutti gli Stati cristiani saranno in pace. E l’alleato di Clemente VII, il Re di Francia Francesco I, naturalmente non era d’accordo con la pace e, senza di essa, la politica del papa aveva il sopravvento. Intanto, dopo il Sacco e la peste, come altro segno divino, il 7 ottobre del 1530 Roma subì una delle più gravi inondazioni della sua storia. Centinaia di case e ponti furono distrutti dalle acque del Tevere e moltissimi furono i cadaveri che il fiume si portò a mare. Quando le acque si ritirarono le centinaia di cadaveri insepolti originarono una nuova esplosione della peste. Ludovico Muratori scriveva allora che non fece caso a tali avvisi il pontefice, che fece piangere chi voleva, mentre egli si preoccupava di sempre maggiore ingrandimento e lustro i Casa sua.

        E davvero Clemente fu incapace di gestire la politica estera della Chiesa. Non riusciva proprio a capire l’importanza di un Concilio che non avrebbe solo avuto una valenza religiosa ma anche politica con il sostegno a Carlo V che si dibatteva, da cattolico, nella crescita imponente del movimento luterano da una parte e dalle pressioni militari dei Turchi di Solimano dall’altra. Francesco I era con il Papa in questo poiché il Concilio avrebbe favorito l’unità dell’Impero. La cosa straordinaria era che il Papa vedeva con favore sia il movimento luterano che i Turchi come strumenti per indebolire Carlo V. Ma poi un Concilio poteva nascere con alcuni argomenti da trattare e passare poi attraverso tutte le bestialità papali dal nepotismo, alla rovina di Roma, alla perdita di libertà di Firenze. Occorreva però mostrare a Carlo che vi era un qualche impegno per convocare il Concilio e Clemente usò quanto sostenuto già in passato, e cioè che il Concilio si sarebbe fatto quando vi fosse stata la pace tra tutti i Paesi cattolici, per andare di nuovo ad incontrare Francesco I. Visto il fine Carlo non poté protestare. Fu così che Clemente si recò a Marsiglia in Francia dove, secondo i suoi parametri politici, realizzò il suo capolavoro: celebrò di persona il matrimonio di sua nipote Caterina de’ Medici con il secondogenito, Enrico, di Francesco I e sua moglie la regina Eleonora che era sorella di Carlo V (il matrimonio di Caterina ed Enrico ci farà discutere fra trentotto anni, quando parleremo della Strage degli Ugonotti nella Notte di San Bartolomeo). Sfarzi, lussi e banchetti che andarono avanti per molti giorni al posto del Concilio. Naturalmente Clemente intrecciò di nuovo e segretamente patti con Francesco, patti che riguardavano il dominio su vari territori in Italia.

        Intanto in Inghilterra, dove Enrico VIII aveva goduto per un certo periodo delle lotte tra Francesco I e Carlo V, perché aveva potuto porsi come ago della bilancia, non si era ancora risolto il problema dell’erede maschio al trono. Vi era solo quella femmina, Maria, che non avrebbe mai garantito la continuità del trono d’Inghilterra. Enrico capì che con Caterina d’Aragona non avrebbe mi potuto avere il desiderato maschio e, a partire dal 1526, iniziò ad avere rapporti con un’amante, Anna Bolena. Ma l’erede non poteva discendere da un more extraconiugale e Edoardo iniziò a pensare al divorzio da Caterina. Indagini riservate su tal possibilità furono fatte dal cardinale Wolsey e dall’Arcivescovo di Canterbury, William Warham. Risultò che quel matrimonio era difficilmente impugnabile sul piano del diritto. Intanto Edoardo, senza chiedere consiglio a Wolsey, si rivolse direttamente a Clemente VII per chiedere una dispensa che gli permettesse di sposare Anna Bolena. Clemente, non era favorevole all’annullamento del matrimonio, ma concesse ugualmente la dispensa voluta, probabilmente pensando che tale concessione non sarebbe servita a nulla finché Enrico fosse rimasto sposato a Caterina. A questo punto entrarono in gioco forti pressioni politiche da parte delle diverse potenze. La Spagna cattolica non avrebbe potuto accettare il ripudio di Caterina d’Aragona e una tale mancanza di rispetto verso Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero, che era figlio della sorella di Caterina, Giovanna. Stessa posizione era quella di Carlo V. Il Papa che già aveva subito il Sacco della città da parte di quest’ultimo, non voleva irritarlo ulteriormente e tergiversò allungando i tempi in vane trattative. Nel 1531, quando l’irritazione era cresciuta per 4 anni, Enrico VIII fece votare dal Parlamento un atto di supremazia in cui egli proclamava se stesso Capo della Chiesa d’Inghilterra. La parte più dura per la Chiesa, allora come ora, venne nel 1532, quando stabilì che i tributi non dovevano essere più pagati alla Chiesa ma direttamente alla corona. Finalmente nel 1533 Enrico VIII sposò Anna Bolena (Elisabetta I d’Inghilterra era nata da questo matrimonio), dalla quale già aspettava un figlio, facendosi sciogliere dal precedente vincolo dal suo rappresentante presso la Chiesa inglese, Thomas Cranmer. Nel luglio 1534, due mesi prima di morire, Clemente VII scomunicò il Re, la moglie ed il rappresentante Cranmer (interdisse pure l’Inghilterra ma della cosa non si accorse nessuno). Il problema venne preso in mano da Paolo III, successore al soglio pontificio di Clemente, quando già Enrico VIII, nel novembre dello stesso anno aveva decretato, oltre alla chiusura dei monasteri ed al sequestro di ogni bene ecclesiastico:

  • Un ulteriore atto di supremazia (il re era il Capo Supremo sulla Terra della Chiesa di Inghilterra) con il diritto di reprimere le eresie e di scomunicare;
  • L’obbligo per tutti gli inglesi di giurare solamente davanti al re, e non davanti a qualche autorità straniera come era la Chiesa;
  • La condanna per tradimento per chi osasse sostenere che il re fosse eretico, tiranno o scismatico.

        Nasceva così la Chiesa Anglicana che era un’altra pezzo che si aggiungeva allo scisma di Lutero ed a quello che sarebbe seguito di Calvino. Solo due persone si opposero: l’umanista autore de l’Utopia Thomas More ed ex Lord Cancelliere e l’ex confessore di Caterina, il vescovo di Rochester John Fisher. Ambedue furono decapitati.

        Sembrava che Clemente avesse avuto grandi successi ma in realtà aveva seminato solo disastri, che si misureranno negli anni a venire. Anche i nipoti da lui graziati per affari di nepotismo morirono molto presto (uno, Ippolito, da lui fatto cardinale, avvelenato nel 1535 e l’altro, Alessandro, da lui imposto al governo di Firenze, assassinato nel 1537) mentre molti avvenimenti nefasti si accumulavano sulle sorti della Chiesa. Ma Clemente VII (2) morì nel 1534 prima di poter assistere a tutti i disastri che la sua politica aveva provocato.

IL CONCILIO DI TRENTO

        Nel 1534, come visto, Clemente VII lasciava questa valle di lacrime e saliva al trono di Pietro il Papa Paolo III Farnese (1534-1549) che si disse subito disposto alla convocazione del Concilio tra l’incredulità generale. Eppure il nuovo Papa  costituì subito una commissione che si occupasse di riforma della Chiesa che arrivò nel 1537 a pubblicare un importante documento: Consilium ad emendanda Ecclesia. Intanto Paolo III riconosceva la Compagnia di Gesù, le truppe di élìte del Papa, a difesa dell’ortodossia della Chiesa di Roma che egli utilizzerà appunto come utile strumento al servizio dell’Inquisizione. I gesuiti erano e sono teorici, in base ai dettami del loro fondatore, dell’uso ed abuso fino alla paranoia, dell’esame di coscienza. Nel loro emblema incombe minacciosa la croce-spada ad indicare una giustizia intransigente e temibile. Condussero una campagna contro i diversi che “infestavano” città e contadi, tra cui eretici, stranieri, ebrei ma anche donne, magari già emarginate dal consorzio sociale (ad es. ragazze madri cacciate di casa) che conducevano vita dura vendendo filtri terapeutici o ritenuti capaci di far innamorare chi li bevesse (pocula amatoria) od anche di far impazzire se non addirittura di uccidere).

        Il nuovo Papa, che aveva 66 anni al momento dell’elezione, si era rapidamente imposto nel conclave per la sua equidistanza tra le due fazioni ancora esistenti ed agguerrite (Francesco I e Carlo V) e perché aveva ben 40 anni di esperienza curiale. Era stato fatto cardinale da Alessandro VI per una cortesia verso la bella sorella Giulia Farnese che era sua amante favorita. Anch’egli era un libertino dissoluto che ebbe molti figli dei quali solo tre riconosciuti, Pier Luigi, Paolo e Costanza. Questo suo passato garantiva alla Curia la possibilità di seguire con dissolutezze, orge e libagioni. Infatti non mancarono durante il suo pontificato, pur in una Roma distrutta ed in completa miseria, balli in maschera, banchetti, buffoni di corte, spettacoli licenziosi ai quali il papa si divertiva un mondo. Ma garantiva anche il suo sfrenato nepotismo che lo spingeva a voler rendere la famiglia Farnese tra le più potenti d’Italia. Iniziò con il fare cardinali sia Alessandro, il quindicenne figlio di Pier Luigi, sia Ascanio, il sedicenne figlio di Costanza che con gli anni risultarono essere dei mecenati. Passò quindi a fare cardinali il fratello minore di Alessandro, Ranuzio, ed il fratellastro di Costanza fermo restando che il prediletto (come dice Rendina, il Cesare Borgia del Papa Farnese) rimaneva il primogenito Pier Luigi. Fu riempito di onori e di possedimenti. Fu fatto Confaloniere dello Stato Pontificio e comandante delle truppe del Papa. Per lui creò un ducato vicino Roma con capitale Castro. A lui assegnò varie cittadine nei dintorni di Roma (Nepi, Ronciglione, Caprarola). Per lui separò due città dallo Stato Pontificio, Parma e Piacenza, per assegnargliele come ducato (1545) che resterà poi ai Farnese per circa 200 anni. Pier Luigi non fu in grado di mantenere tutto questo tentando di farlo con la tirannia. Ciò fece ribellare i suoi sudditi che dettero lo spunto ad una congiura capitanata da Ferdinando Gonzaga ed appoggiata da Carlo V (in quanto Pier Luigi risultava essere filofrancese) che portò al suo assassinio nel 1547 (fu riempito di coltellate e gettato dalla finestra). Gonzaga si impadronì per breve tempo del ducato che fu però liberato da Ottavio, figlio di Pier Luigi, accorso da Roma. Anche Ottavio Farnese fu nelle grazie del nonno, il Papa. A soli 14 anni fu fatto sposare con Margherita d’Austria la diciannovenne vedova di Alessandro de’ Medici, che ebbe in odio tale matrimonio d’interesse (il Papa si recò spesso a parlare con Margherita e da qui nacquero dicerie sugli amori senili di Paolo III con la giovane Margherita).

        Nonostante fosse occupato da tante ambasce familiari, il pover’uomo pensò anche ad alcune opere memorabili in Roma come la sistemazione della piazza del Campidoglio fatta da Michelangelo con la statua di Marco Aurelio al centro  e come il completamento della Cappella Sistina, sempre ad opera di Michelangelo con il Giudizio Universale. Ebbe tempo anche per questioni religiose come quel famoso Concilio, tanto atteso. che finalmente fu convocato il 2 giugno 1536. Si sarebbe dovuto tenere a Mantova (città in cui vi erano molti sostenitori di Carlo V) a partire dal 23 maggio 1537. Sembrava proprio che la Chiesa avesse deciso di riformarsi. Intanto Lutero pubblicava tradotto in Germania il Consilium arricchito da commenti sarcastici e ridanciani. La Curia di Roma che non voleva sentir parlare di riforme si oppose ad ogni seppur minima intenzione di cambiamento con il buon argomento che se avessero fatto qualcosa avrebbero dato motivi agli avversari che Lutero aveva ragione. Quel Consilium fu nascosto e dimenticato ed anche il Concilio fu rimandato perché Francesco I non lo voleva. Si tentò ancora per ben 5 volte di fissare data e luogo ma niente. Si tentarono accordi sotterranei con i luterani per cercare di capire cosa fare nel Concilio per riunificare la Chiesa. Vari incontri furono organizzati e niente si riuscì ad organizzare. Un prestigioso mediatore, il patrizio veneziano Gaspare Contarini, che stava conseguendo dei risultati fu cacciato da Roma con l’accusa di essere luterano. La fazione romana della Curia era la più forte ed essa vedeva un Concilio solo addomesticato in cui si riformasse molto poco ma in modo tale da far apparire ciò come grande concessione, senza comunque toccare l’autorità del Papa e la struttura gerarchica di Roma, ed in cui si condannassero con durezza le tesi luterane. Fu questa la strada che si scelse alla quale, come evidente, si accompagnò una dura repressione di ogni dissenso. Ora era chiara la strada che un Concilio avrebbe dovuto percorrere e fu così che venne convocato a Trento da Paolo III il 22 maggio del 1542 con la bolla Initio nostri huius pontificati. Fu necessaria una seconda bolla del novembre 1544, Laetare Jerusalem, per fissare al 15 marzo 1545 l’inizio dei lavori (che poi slittarono al 13 dicembre 1545 per la vigorosa iniziativa politica e militare di Carlo V). Le 25 sessioni generali del Concilio si svolsero nella Cattedrale di San Vigilio ed interessarono, dopo il Papa Paolo III, Giulio III, Marcello II, Paolo IV, Pio IV; i lavori terminarono il  4 dicembre 1563. Il Papa Pio IV con la Bolla Benedictus Deus del 30 giugno 1564 approvò integralmente i decreti conciliari e nominò una commissione per vigilare sulla corretta interpretazione e attuazione degli stessi. Tornerò su questo quando arriverò a trattare Pio IV. Per ora basti dire che il Concilio nasceva con il fine di sanare gli Scismi di Lutero e della Chiesa Anglicana oltre, come sempre, di trovare una unità tra Paesi cristiani contro i Turchi. Alla fine del Concilio niente di quanto ci si proponeva fu conseguito ma se possibile, il Concilio stabilì definitivamente la rottura con gli scismatici.

Il Concilio di Trento

        Nel primo periodo di Concilio, quello che si svolse sotto Papa Paolo III, si stabilirono alcune cose: le Scritture dovevano essere interpretate dalla Chiesa e non erano ammesse loro libere letture come teorizzavano i luterani; si definirono i concetti di grazia divina e libertà umana; si fissarono i sacramenti proclamando quelli del battesimo e della cresima; si regolò l’accesso all’episcopato e quello ai benefici. Sembrava si procedesse sulla buona strada quando Carlo V, convintosi del fatto che mai i protestanti avrebbero accettato le conclusioni del Concilio, decise di risolvere il problema dello scisma con la guerra. L’Imperatore dichiarò che la Lega di Smalcalda che, come accennato, era stata organizzata con fini difensivi dai principi protestanti, era ribelle e mobilitò l’esercito. I partecipanti al Concilio ebbero paura vedendo movimenti di truppe. Il Papa pensò di spostare l’assemblea in una città dello Stato Pontificio come Bologna, abbandonando la città imperiale di Trento. Contrari a questa soluzione erano i filoimperiali, i vescovi e cardinali di Napoli e spagnoli. Vinsero coloro che auspicavano lo spostamento a Bologna anche per lo scoppio di un’epidemia di tifo che uccise uno di loro. Dopo varie tergiversazioni nel marzo del 1547 fu deciso lo spostamento del Concilio. La prima sessione a Bologna iniziò ad aprile del 1547 e durò poco più di un anno. Si discusse di: eucarestia, contrizione, confessione, estrema unzione e consacrazione sacerdotale. Tra i teologi si aprirono ampie discussioni sulle indulgenze e sul Purgatorio. In tema di riforma della Chiesa furono affrontati i problemi derivanti dal cumulo di benefici, della poca preparazione dei confessori e dei dilaganti abusi del clero. La successiva sessione, su forte spinta di Carlo V, riprese di nuovo a Trento nel 1551. Come osserva Rendina, lo spostamento del Concilio a Bologna “fu un grave errore che compromise in maniera determinante una riforma generale a cui aderissero anche i luterani aumentando al contrario i termini già netti dello scisma”. Vi fu contrarietà da parte di Carlo V che credeva di risolvere tutto con le armi ma, di fatto, i luterani non sarebbero mai intervenuti in un’assemblea convocata nello Stato Pontificio. Paolo III aveva il problema della morte del figlio Pier Luigi e la cosa lo interessava poco. Sospese il Concilio nel 1548 e lo sciolse definitivamente l’anno seguente. Finiva la possibilità di una Riforma cattolica e, alla ripresa dei lavori, il Concilio divenne un’assemblea che avviò la Controriforma. Questa scelta non era comunque improvvisa perché maturava già in chi aveva istituito la Santa Romana e Universale Inquisizione. L’Inquisizione Romana era stata pensata prima che il Concilio si aprisse, tanto per mostrare l’apertura con cui la Chiesa si apprestava a riconciliarsi. Il 21 luglio 1542, Papa Paolo III emanò la bolla Licet ab initio con la quale creava l’ Inquisizione Romana Sant’Uffizio(2) sotto la guida di Giovanni Pietro Carafa che (dal 1555) sarà il futuro Papa Paolo IV. Si trattava della riorganizzazione della vecchia Inquisizione Medioevale che, pur non avendo mai smesso di funzionare, non aveva ora strumenti culturali e materiali per intervenire contro le nuove eresie e contro quel grave male che era la cultura in espansione. Era un problema di efficienza della struttura repressiva che aveva fatto pensare ad una commissione permanente di cardinali e alti prelati diretta dal medesimo Papa che doveva mantenere e difendere l’integrità della fede, esaminare e proscrivere gli errori e le false dottrine. Il Carafa, lasciata al Papa la sola possibilità di concedere la grazia, dette tutto se stesso per rendere la nuova Inquisizione uno strumento repressivo di somma efficacia. Prima requisì un edificio romano e lo dotò di una prigione, quindi emanò 4 norme di procedura  per gli inquisitori: punire anche solo per sospetto; non avere alcun riguardo per i potenti; essere intransigente con chiunque avesse trovato rifugio da un potente; nessuna accondiscendenza con i calvinisti. Il futuro Paolo IV era convinto che l’azione sarebbe stata più efficace quanti più potenti si colpivano perché la salvezza delle classi inferiori dipende dalla punizione dei grandi. Inoltre, ma non lo disse, quanti più potenti si colpivano, meno avversari avrebbe avuto. In ogni caso si dette il via ad un’epurazione massiccia in ogni istituzione, ecclesiastica o laica. Ma il crudele maniaco Carafa vedeva con rabbia quella possibilità di grazia che aveva il Papa e riuscì ad arrivare al pieno della sua crudeltà, inaugurando roghi di ebrei convertiti ad Ancona e di eretici a Roma, solo quando divenne egli stesso Papa imponendo come Grande Inquisitore Michele Ghislieri che alla sua morte, come no!, divenne a sua volta Papa, l’altro criminale chiamato Pio V (e per questo santificato). Una festa di inquisitori che diventano Papi.

        Prima di concludere con questo Papa è utile riportare una sua posizione analoga a quella di Leone X sulla Favola di Cristo. Secondo una testimonianza di Diego de Mendoza, ambasciatore di Spagna presso il Vaticano, Paolo III “osava spingere la sua irriverenza verso Cristo fino al punto di affermare che non era altri che il sole, adorato dalla setta mitraica, e Giove Ammone rappresentato nel paganesimo sotto forma di montone o di agnello. Egli spiegava le allegorie della sua incarnazione e della sua resurrezione mettendolo in parallelo con Mitra. Diceva ancora che l’adorazione dei Magi non era altro che la cerimonia nella quale i preti di Zaratustra offrivano a Mitra oro, incenso e Mirra, le tre cose attribuite all’astro della luce. Egli sosteneva che la costellazione della Vergine o, meglio, della dea Iside che corrisponde al solstizio in cui avvenne la nascita di Mitra (25 dicembre), erano state prese come allegorie per determinare la nascita di Cristo, per cui Mitra e Gesù erano lo stesso dio. Egli affermava che non c’era nessun documento valido per dimostrare l’esistenza di Cristo per cui la sua convinzione era che non era mai esistito”.

        In linea teorica l’azione della nuova Inquisizione riguardava tutta la cristianità (meno il Papa) ma, nella pratica, proprio per quella territorialità che la Chiesa individuava nell’Italia, il suo operato fu quasi esclusivamente in questo Paese. Si può ben capire, comunque, come suonasse la finalità del Sant’Uffizio alle orecchie luterane alla vigilia dell’apertura del Concilio di Trento. L’iniziativa trovò subito dei ferventi sostenitori e tra essi, oltre il citato Carafa, i Gesuiti con Ignazio di Loyola.

IN ATTESA DELLA NUOVA SESSIONE DEL CONCILIO

        Il conclave per eleggere il successore di Paolo III fu un vero e proprio mercimonio principalmente tra le due eterne fazioni, quella francese e quella imperiale. Ma si verificò anche che non si ebbe a che fare con un vero e proprio conclave perché quella elezione fu fatta con le porte aperte, con i cardinali cioè che potevano muoversi liberamente per la città di Roma con lo spettacolo eccellente di trattative a cielo aperto. Dopo oltre due mesi di estenuanti trattative risultò eletto il romano Giovanni Maria Ciocchi del Monte che assunse il nome di Papa Giulio III (1550-1555). Il fatto che dopo oltre 100 anni di nuovo si aveva un pontefice romano scatenò la gioia della città che festeggiò compatibilmente con le povere disponibilità. Furono comunque feste pagane, tra cui l’uccisione di vari tori in Piazza San Pietro, molto gradite dal nuovo Papa che ebbe inoltre l’occasione di intersecarle con il nuovo Giubileo del 1550.

        Ed i banchetti in feste di lusso furono una costante del suo pontificato. Erano allietati da buffoni di corte che divertivano con licenze piccanti molto gradite, così come il teatro piccante, al Papa. Amava lusso e bella vita e per questo si fece costruire la imponente Villa Giulia, con un parco gigantesco, fuori Porta del Popolo. Naturalmente fu un nepotista accanito: ogni parente del Papa ebbe un incarico estremamente redditizio negli affari vaticani sia a Roma che nello Stato Pontificio. Anche il suo supposto figlio, Innocenzo del Monte, che passò da quindicenne depravato e guardiano di scimmie alla porpora cardinalizia ed alla responsabilità della Segreteria di Stato (era nominale perché il piccolo selvaggio era assolutamente incapace di assolvere quel compito).

        Unica parte di rilievo nell’operato di questo inutile fu la riconvocazione del Concilio di Trento proprio a Trento per il 1° maggio 1551. Ad esso invitò i principi tedeschi che già si erano espressi in favore di Lutero. Si discusse di eucarestia, confessione ed estrema unzione. Quando però intervennero i protestanti saltò ogni possibilità di accordo con le posizioni dogmatiche della Chiesa. Il Concilio fu sospeso nell’aprile del 1552 e non fu riconvocato per circa 2 anni. A lato delle divergenze insanabili in sede di Concilio era iniziata una nuova controversia tra Carlo V ed il Papa. Si trattava del ducato di Parma alla cui testa vi era, come si ricorderà, Ottavio Farnese. Carlo voleva riprendere a sé la città di Piacenza. Ottavio chiese l’aiuto del nuovo Re di Francia, Enrico II. Il Papa prima accondiscese alle richieste di Carlo V, quindi, dopo le minacce di Enrico II, accondiscese alle sue richieste. Niente di nuovo rispetto a giravolte già note che screditavano sempre più lo Stato Pontificio. Vi fu comunque un avvenimento che sembrò andare nel senso degli interessi della Chiesa. In Inghilterra l’unica figlia di Enrico VIII con Caterina d’Aragona, Maria (nata nel 1516) era stata reinserita nella linea di successione di Enrico VIII da una legge del Parlamento del 1544. Prima di lei vi era Edoardo troppo piccolo per poter governare, quindi vi era lei e, dopo di lei, quella che sarà Elisabetta I. Edoardo ereditò ufficialmente la corona e divenne Edoardo VI. Ma aveva nove anni. A norma della legge citata del 1544 e secondo le volontà di Enrico VIII, a Edoardo (in mancanza di una sua discendenza) sarebbe succeduta Maria. Se Maria non avesse avuto figli, la corona sarebbe passata alla figlia avuta da Anna Bolena, Elisabetta. E se anche Elisabetta non avesse avuto figli, la successione sarebbe tornata ai discendenti della sorella defunta di Enrico VIII, Maria Tudor. Edoardo morì nel 1553 e, anche se vi furono manovre per non rispettare la legge del Parlamento  (Edoardo prima di morire aveva indicato in un’altra persona, Lady Jane, l’erede al trono ma senza che il Parlamento avesse legiferato in proposito) Maria salì al trono d’Inghilterra come Maria I d’Inghilterra. Sembrava quindi che fosse possibile, con Maria I, riportare la Chiesa inglese nell’alveo di quella di Roma. Il Papa morì nel 1555 e non fece in tempo a vedere come andarono le cose: Maria morì nel 1558 ed in base alla legge del 1544 fu Elisabetta I a divenire Regina d’Inghilterra (anche qui con intrighi, condanne a morte ed anche questioni religiose che avevano fatto maturare l’idea che in Inghilterra non vi fosse più posto per sovrani cattolici).

        A questo ennesimo campione di Santa Romana Chiesa seguì un Papa che, per le sue doti di rigore ed onestà, riconosciute da tutti, fu scelto per portare avanti la Riforma.  Aveva presieduto il Concilio di Trento con la sua spiritualità ed illibatezza. Era il cardinale Marcello Cervini che, quando fu eletto, non cambiò il nome per mostrare che non cambiava di costumi. Assunse quindi il nome di Papa Marcello II (1555). Era un antinepotista che addirittura vietò ai suoi parenti di venire a Roma. Sembrava un vero miracolo, anche il vasellame prezioso fece togliere dalla tavola e sembrava che finalmente vi fosse un rappresentante evangelico. Ma i veri riformisti riuscirono a sperare in lui solo 20 giorni, dal 10 aprile al 1° maggio. Poi morì. Evidentemente Dio doveva essere quello malvagio del Vecchio Testamento: ogni volta che sembrava annunciarsi un Papa evangelico Egli lo ammazzava (era già successo con Pio III ed Adriano VI). E proprio per rendere ragione al Dio malvagio del Vecchio Testamento il successore fu quell’indegna figura del cardinale Gian Piero Carafa, già incontrato nella fondazione dell’Inquisizione Romana e notoriamente avverso a Carlo V, che assunse il nome di Papa Paolo IV (1555-1559). Anche qui i riformatori furono contenti per questa scelta ed a noi resta da chiedersi come sia stato possibile festeggiare l’elezione di Marcello II e un mese dopo quella di Paolo IV.

        I riformatori capirono presto che questo Papa non aveva interesse per l’unità dei cristiani e che tese tutte le sue energia alla politica, bieca e profondamente reazionaria (di lui i romani dicevano che se sua madre avesse previsto il suo futuro lo avrebbe strangolato nella culla). L’elezione vide il ritorno dei riti sfarzosi, degli ori e degli argenti, perché, come egli argomentava, occorreva incutere timore e rispetto agli altri e particolarmente ai sovrani in visita che avrebbero dovuto ascoltarlo a bocca aperta ed in ginocchio. Scrive in proposito Rendina: “Il papa-re emergeva nella figura di chi oltretutto non può sbagliare, col tono di superbia e sicumera di chi si ostentava a «duce» mentre «vagheggiava un ideale grande e nobile: liberare l’Italia ed il papato dalla opprimente preponderanza spagnola» come scriveva il Castiglioni durante il ventennio fascista su questo Papa, sottolineando con orgoglio come egli «mirava a stringere in un fascio (sic!) tutti i principi d’Italia contro la Spagna» e ricordando che, di fronte al venir meno della sognata coalizione patriottica dei sovrani italiani, «con fierezza d’animo protestava, senza perdersi d’animo quel pontefice nazionalista […]»”. Finalmente uno storico, il Castiglioni, che aveva capito tutto e confondeva allegramente Italia con Stato Pontificio.

        Dato il discredito del papato e l’ormai obsoleta dipendenza dalle incoronazioni e dalle autorizzazioni papali, Carlo V aveva firmato il 25 settembre 1555 la Pace di Augusta, senza appunto farne partecipe la Chiesa. Era una pace religiosa tra tutti i principi tedeschi secondo la quale era possibile nei territori del Sacro Romano Impero scegliere tra cattolicesimo e luteranesimo (e basta). Inoltre la popolazione doveva aderire alla religione del principe di quel territorio oppure doveva cambiare regione. Infine i beni ecclesiastici passavano nella disponibilità dei vescovi che passavano al luteranesimo senza che il principato potesse incamerarli. Contestualmente a ciò Carlo V abdicò a favore di suo figlio Felipe II in Spagna e di suo fratello Ferdinando I d’Asburgo come successore imperiale. Il Papa era furioso perché veniva decretata la sua marginalità oltre alla presa d’atto dello scisma luterano che, alla fin fine, rendeva superfluo il Concilio per una qualche pace religiosa tanto più che Ferdinando aveva accettato tutto il contenuto della Pace di Augusta. Tentò mosse tanto disperate quanto stupide: decretò in un concistoro che l’atto di abdicazione di Carlo non era valido e quindi che Ferdinando non era legittimato al trono dell’Impero. Per portare avanti questa crociata non si servì dei vari uomini della Chiesa ma solo dei suoi parenti. Un «duce» agisce così, per Giove ! Il fatto è che il poveretto non capiva nulla di politica ed era guidato solo dal suo egocentrismo che si coniugava con uno sfrenato nepotismo (i parenti non offuscano il padre padrone). Anche qui Rendina coglie bene la situazione: “Appare gratuito giustificare questo nepotismo di Paolo IV, adducendo motivi di stampo patriottico [come aveva fatto quello storico fai da te, ndr], perché il fatto che egli abbia costituito possedimenti per i nipoti con territori ecclesiastici, che abbia innalzato un soldato alla direzione degli affari religiosi, che abbia compiuto atti di guerra e versato del sangue è pur sempre lontano dallo spirito puro del cristianesimo. L’etichetta patriottica è una maschera che nasconde ragioni ecclesiastico-personali”.

        Rendina, quando parla del soldato elevato alla direzione degli affari ecclesiastici, si riferisce al nipote (siamo certi ?) Carlo Carafa, suo preferito. Era uno sregolato capitano di ventura, spregiudicato e di malaffare, che lo zio fece subito cardinale (assolvendolo a priori dei mali che aveva fatto e avrebbe potuto fare) per passarlo poi a Segretario di Stato (Primo Ministro) del Vaticano. ERa un abile personaggio che seppe tenere in pugno Paolo trattandolo da marionetta. Le gestioni fallimentari dei rapporti di Felipe II con Ferdinando I furono opera sua. Riuscì a creare un incidente nel porto di Civitavecchia, invischiando con alcune lettere, che avrebbe scritto a Ferdinando I, il cardinale Ascanio Colonna che mise l’uno contro l’altro i due eredi di Carlo V e condì il tutto con un’alleanza dello Stato Pontificio con la Francia (fine del 1555), che s’impegnava a difendere lo Stato Pontificio, anche se il Papa aveva un pessimo giudizio sia di spagnoli che di francesi con i quali ultimi avrebbe, secondo lui, regolato le cose a suo tempo. Ed anche se mostrò di avere una memoria cortissima che gli aveva fatto dimenticare il Sacco di Roma. L’utile immediato fu la confisca delle terre dei cardinali legati all’Impero, terre che passavano al nipote.

         La Spagna colse l’imbroglio della politica casereccia del Papa e da Napoli fece partire un esercito, guidato dal Duca d’Alba, verso Roma. Le truppe francesi dovettero ritirarsi per impegni su altri fronti (battaglia di San Quintino). Di nuovo Roma era potenzialmente in balìa di un esercito invasore per colpa di alcuni imbecilli che operavano per maggior gloria di Gesù. Per una provvidenziale mediazione di Venezia l’esercito spagnolo si fermò sotto le mura della città ma il Papa dovette riconoscere Felipe II come buon sovrano cattolico e dovette rinunciare all’alleanza con la Francia dichiarandosi neutrale (Pace di Cave del settembre 1557).

        Altra bestialità la fece Paolo IV con l’Inghilterra. Nel 1559 l’ambasciatore inglese Edward Carne lo informò che Elisabetta I Tudor aveva seguito Maria I sul trono d’Inghilterra. Paolo che odiava tutte le donne, ritenendole come Tommaso d’Aquino uomini “abortiti”, e che aveva avuto un debole per Maria, perché  aveva riesumato e bruciato il cadavere del padre in quanto eretico, ed operando con il rogo con i protestanti. Paolo chiese all’ambasciatore se Elisabetta si rendeva conto che l’Inghilterra era una proprietà della Santa Sede fino dall’epoca di Re Giovanni? Sapeva che un illegittima non può ereditare? Non aveva letto la sua ultima Bolla? Capiva che era pura audacia la sua di pretendere di governare l’Inghilterra, che apparteneva di diritto al papa? No, non poteva permetterle di continuare. Forse se la bastarda, l’usurpatrice, l’eretica avesse rinunciato alle sue ridicole pretese e si fosse presentata immediatamente a lui per chiedere perdono…. Elisabetta, due mesi dopo, ruppe le relazioni diplomatiche con Roma.

        Intanto Carlo Carafa, il cardinale condottiero ed imbroglione, spopolava in Curia e la sua omosessualità era divenuta intollerabile scandalo denunciato a più riprese dal cardinale di Lorena(3). Questo fatto (e non altri !) fece cambiare atteggiamento a Paolo che nel concistoro del gennaio 1559 condannò pubblicamente il comportamento dei nipoti e riprese i propositi di Riforma sia dello Stato che della Chiesa. E come fece il ducetto a riformare ? Non certo riprendo le sessioni del Concilio ma affidandosi ad un potenziamento ed inasprimento feroce dell’Inquisizione Romana ed ad uno dei peggiori crimini contro l’umanità, l’introduzione dell’Indice dei Libri Proibiti.

        Una delle prime iniziative dell’Inquisizione Romana sotto la direzione di Paolo IV, insieme al problema del catechismo(4)e della riforma dei libri liturgici, riguardò la redazione dell’Index librorum prohibitorum(5) (noto come Indice Paolino) il primo dei quali venne pubblicato nel 1559. Ad esso seguirono nel 1564 quello realizzato da Pio IV e nel 1596 quello di Clemente VIII (l’Indice clementino), il Papa antisemita che fece assassinare Giordano Bruno. Per completezza devo dire che un Indice era richiesto anche da insospettabili come quel Francesco Maurolico, matematico e meccanico, che ebbe a che fare con la formazione di Galileo. Questi proponeva non solo l’eliminazione di tutti i libri di autori sospetti ma anche l’auspicio che da Roma si portasse avanti l’edizione di opere di autori ortodossi perché in Italia si era diffusa la peste degli scritti luterani, eretici ed antropophagi tedeschi. Ma di Indici ve ne erano stati dei precedenti pubblicati a Roma (Cathalogus librorum Haereticorum con libri luterani ed anche con i Commentari di Pio II al Concilio di Basilea), Venezia (1549), Milano, Parigi e Lovanio nel 1554 (ma anche altri in epoca precedente e successiva comunque antecedente al 1559). Questi Indici avevano comunque validità locale molto limitata e non si avevano pene come quelle previste per l’indice del 1559.

        L’operazione era perfettamente in linea con l’avanzare inarrestabile della cultura, della conoscenza che son0o sempre state le peggiori nemiche della Chiesa che vive in un’abissale ignoranza del gregge. Occorreva stroncare le fonti e l’Index serviva a questo(6). I decreti che definivano l’Index contenevano, tra le altre cose, il divieto di stampare, leggere e possedere versioni della Bibbia in lingua volgare senza previa autorizzazione personale e scritta del vescovo, dell’inquisitore o addirittura dell’autorità papale (nel primo indice venivano vietate 45 versioni della Bibbia e del Nuovo Testamento in lingua volgare; tale divieto resterà fino al 1758 quando fu abrogato da Papa Benedetto XIV). Come conseguenza di questo provvedimento la produzione di Bibbie in italiano subì un brusco arresto. E’ utile avere un qualche riferimento degli autori che comparivano nel primo Index: Luciano di Samosata, Dante, Petrarca, Boccaccio, Ockham, Machiavelli, Erasmo, Rabelais. Più in generale erano all’Indice tutti gli autori non cattolici, 126 testi di 117 autori cattolici, 322 opere anonime, tutte le opere di astrologia e magia. La Bibbia si poteva leggere solo su permesso scritto di qualche prelato ed il permesso era concesso ai soli uomini che conoscessero il latino. Nel 1564, dopo la chiusura del Concilio, l’Indice viene aggiornato e diventa Indice Tridentino. La novità qui consisteva nella possibilità di togliere dai libri i passi ritenuti offensivi alla fede cattolica. Ciò comportò un altro elenco di libri da affiancare a quello dei libri proibiti, quello dei libri da espurgare, l’Index Librorum Expurgatorius, con la conseguenza che molti libri così ritagliati risultavano incomprensibili e contraddittori. Si e avanzavano qualche teoria in disaccordo con l’Aristotele della Scolastica, quello di Tommaso d’Aquino che, proprio in quegli anni (1567), veniva da Pio V nominato Dottore della Chiesa. Un’altra bolla del 1564 si inseriva in una questione estremamente delicata, il controllo di coloro i quali iniziavano ad alfabetizzarsi attraverso il controllo degli insegnanti da parte di esami del vescovo, dei luoghi in cui si svolgeva e dei testi che utilizzavano (la Chiesa, come accennavo, è sempre stata contraria all’alfabetizzazione di massa ritenuta un grave pericolo).

        La costruzione di un Indice non era però cosa facile che potesse fare qualcuno di sua iniziativa. Fu necessario istituire un gruppo di persone che fosse in grado di decidere cosa proibire o espurgare. Nel 1571 Papa Pio V, il Papa che vietò la pubblicazione di opere nelle lingue volgari (1567), che abrogò il carnevale, che con una bolla fece chiudere tutte le sinagoghe di Roma, che fece convocare il Veronese perché desse spiegazioni sul suo dipinto Cena in casa di Levi obbligandolo alla modificae che espulse gli ebrei dai territori dello Stato della Chiesa, organizzò ed istituì la  Congregazione per l’Indice, costituita da alcuni cardinali e vari consultori esterni, con lo scopo di tenere aggiornato l’Indice e di diffonderlo in ogni luogo della cristianità attraverso gli inquisitori locali (tanto per mostrare la valenza dell’Indice). Per parte sua il Sant’Uffizio, che aveva preso il posto dell’Inquisizione, voleva gestire in proprio la scelta dei libri da porre all’Indice. Riuscirà nel suo scopo solo nel 1916 quando la Congregazione verrà abolita con il Sant’Uffizio ancora vivo e vegeto (con un cambiamento di nome nel 1965, Congregazione per la Dottrina della Fede.

        Questo Papa ebbe molto di più da fare contro gli ebrei, gli assassini [loro ! ndr] di Gesù.  Il 12 luglio del 1555 emise la Bolla Cum nimis absurdum che istituiva la creazione del Ghetto di Roma, il serraglio degli ebrei; gli ebrei vennero quindi costretti a vivere reclusi in una specifica zona del rione Sant’Angelo. Anche in altre città dello stato pontificio gli ebrei furono rinchiusi in ghetti e obbligati a portare un copricapo giallo (glauci coloris), per essere immediatamente individuati. Agli ebrei veniva  proibito di esercitare qualunque commercio ad eccezione di quello degli stracci e dei vestiti usati. Inizialmente erano previste due porte che venivano chiuse al tramonto e riaperte all’alba. Paolo IV fu un acceso antisemita che impose conversioni forzate, in alternativa all’espulsione, battesimi di bimbi ebrei e altre infamità. Aveva addirittura mandato ad Ancona due commissari straordinari per arrestare e processare gli ebrei apostati che dal 1540 erano fuggiti dal Portogallo e si erano stabiliti in città. Nel 1556 furono impiccati e bruciati al rogo 24 marrani che si erano rifiutati di convertirsi alla religione cattolica. Per maggiore gloria di Gesù.

        Queste erano le armi che Paolo IV voleva utilizzare per la Riforma che però, in tal modo, divenne solo una Controriforma che volle imporre il credo (non quello religioso) della Chiesa a tutta l’umanità e chi non si adattava doveva essere affidato all’Inquisizione come eretico. L’operazione sarebbe servita forse a rafforzare la Chiesa al suo interno ma certamente ad escludere più che ad unire.

        Ancora in cose di Chiesa nel 1558 fece un ripetitivo ed inutile intervento. Con la bolla Cum secundum Apostolorum tentò di evitare che la scelta di un pontefice avvenisse al di fuori del Conclave evitando in sommo grado la simonia.

        E da ubriacone qual era diventato lasciò questa valle di lacrime(7) con Pasquino che scrisse di lui:

Carafa in odio al diavolo e al cielo è qui sepolto

col putrido cadavere; lo spirto Erebo ha accolto.

Odiò la pace in terra, la prece ci contese,

ruinò la chiesa e il popolo, uomini e cielo offese;

infido amico, supplice ver l’oste a lui nefasta.

Di più vuoi tu saperne? Fu papa e tanto basta.

        Fece posto ad un candidato di compromesso mite e schivo, infatti il conclave che seguì, durato 4 mesi, elesse al Soglio Pontificio Giovan Angelo de’ Medici che assunse il nome di Pio IV (1559-1565). Va subito detto che questo Papa non aveva nulla a che fare con la famiglia Medici di Firenze che aveva dato prove tanto disastrose nel papato. Egli proveniva da umile famiglia milanese che aveva raggiunto un certo grado di agiatezza grazie all’abilità ed al lavoro del fratello maggiore che si era distinto in una brillante carriera militare fino a diventare marchese e sposare una Orsini, cognata del cardinale Farnese. Ma i romani, sentito che l’eletto era un Medici, pensarono di tornare alle vacche grasse di Leone X e si scatenarono in riti sacrileghi per le strade. Appena eletto, il nuovo Papa, da persona comprensiva qual era, perdonò gli eccessi e, fatto molto più importante, criticò l’operato dell’Inquisizione riportandola all’ambito originale e moderò le iniziative dell’Indice. Egli era un assertore della Riforma da fare con il Concilio, che fece riaprire e che sotto il suo pontificato si concluse, e non con i metodi dell’Inquisizione.

IL CONCILIO SI CONCLUDE

        Pio IV iniziò a muoversi con vero spirito ecumenico. Non ebbe da rivendicare nulla con i sovrani cattolici. Li riconobbe tutti come entità esistenti indipendentemente dalla volontà della Chiesa e con loro iniziò a cercare accordi per riprendere le sessioni del Concilio di Trento. Dopo aver contattato Ferdinando I e Felipe II ed avere preso atto che tra Asburgo (corona imperiale) e Valois (corona francese) si era stabilita la pace tra cristiani sottoscritta nel 1559 nel Trattato di Cateau-Cambrésis, alla fine di novembre del 1560 annunciò con una Bolla la riapertura del Concilio di Trento per la Pasqua del 1561 anche se poi di fatto riaprì solo a gennaio del 1562. Uno dei motivi che spinsero Pio alla convocazione rapida della terza sessione del Concilio fu la nascita del movimento calvinista in Svizzera che stava dilagando anche in Francia. Nei colloqui tra Felipe II e Pio IV era nata la preoccupazione che in Francia si sarebbe potuto convocare un Concilio Nazionale per sanare i contrasti che dividevano lo Stato e ciò avrebbe potuto significare una nuova lacerazione nella Chiesa (quel Concilio Nazionale fu poi convocato a Poissy nel 1561 ma i vescovi francesi non furono d’accordo con il Re nel riformare la Chiesa in Francia in modo da trovare accordi con i calvinisti). Insomma vi erano contagi in tutta Europa ma Pio confidava di mantenere l’integrità di Italia e Spagna. E la Francia si accodò mandando suoi rappresentanti a Trento. Vi furono infinite dispute iniziali anche relative all’accettazione o meno di quanto già deciso. Ci volle molto tempo, con un paio di presidenti del Concilio (Ercole Gonzaga e Seripando), che morirono essendo fisicamente esausti, prima di incanalare, con la presidenza del cardinale Morone, il Concilio su una strada fruttifera. Servì una trattativa con i sovrani dei maggiori Paesi cattolici per stabilire che gli argomenti all’ordine del giorno erano di competenza autonoma della Chiesa e non emanazione di cardinali al servizio di quei Paesi. Dopo estenuanti incontri e scontri di lavoro nelle diverse commissioni religiose e teologiche, che evidenziarono l grande divisione tra la Curia ed i Vescovi, il Concilio arrivò a conclusione, sotto la spinta di Morone anche per voci che davano il Papa in fin di vita.

        Tra i vari possibili temi vennero affrontatati quelli: del sacrificio della Messa come “ripresentazione” del sacrificio di Gesù, condannando con ciò le idee luterane e calviniste della Messa come semplice “ricordo” dell’ultima cena e del sacrificio di Cristo; della Chiesa come gerarchia che discende da Pietro, con il Papa vicario di Cristo e con i vescovi successori degli apostoli; dell’indissolubilità del matrimonio e del celibato degli ecclesiastici; della natura del Purgatorio; del culto dei santi, delle reliquie e delle immagini sacre; delle indulgenze. Altre questioni non trattate per mancanza di tempo, tra cui quella dell’Indice, furono demandate alla Curia.

        A giugno del 1564 il Concilio fu dato per concluso con la Bolla Benedictus Deus, e Pio IV approvò tutti i decreti conciliari incaricando una commissione di vigilare sulla corretta interpretazione e attuazione degli stessi.

        Tutto era andato secondo i voleri della Curia romana che aveva vinto sui vescovi. Riforme marginali (ma in ben 250 punti rispetto ai vari diritti precedentemente in vigore), rafforzamento dell’ortodossia e della centralizzazione di ogni minima decisione a Roma e dura condanna del protestantesimo. Seppur vi fosse stato un qualche cambiamento nel senso dell’apertura e della riconciliazione, venne fagocitato dal Papa che, con il solito metodo pretesco, di fronte a chi interpretava alcuni dettami conciliari in senso vicino a chi voleva cambiare e chi in senso vicino alla curia romana, decise salomonicamente che ogni interpretazione poteva essere solo demandata a LUI. Ed un primo risultato si ebbe subito: gli atti del Concilio furono bloccati alla pubblicazione e si seppe di loro solo alla fine del XIX secolo (!). Ciò permise al Papa completa discrezione anche perché quella commissione che doveva vigilare sulla corretta interpretazione e attuazione dei decreti conciliari, era fatta da cardinali e personale della curia romana e chi avesse voluto protestare per la non applicazione di qualche decreto, non poteva farlo perché non lo conosceva. In ogni caso la fine del Concilio di Trento segnava la data d’inizio della Controriforma(o Riforma Cattolica). Il Concilio comunque riformulò e ribadì la dottrina cattolica riguardo ai punti che erano stati posti in discussione: la giustificazione (ossia i mezzi per la salvezza dell’anima), l’interpretazione delle Sacre scritture da parte della chiesa, i sacramenti (in particolare, si riaffermò la transustanziazione, secondo cui nell’Eucarestia si ha la presenza reale del corpo e del sangue di Cristo nel pane e nel vino consacrati), la liturgia, il culto dei santi e della Madonna, l’uso delle indulgenze e l’obbedienza alla chiesa e al pontefice. E fece qualcosa di gravissimo, equiparò le Sacre Scritture alla tradizione della Chiesa elevando quest’ultima ad una Sacra Scrittura, con cioè una medesima autorità. 

Il Concilio di Trento in una sessione conclusiva

        Dalla Germania venne subito nel 1565 una risposta con l’Examen Concilii Tridentini del luterano Martin Chemnitz. Era una totale stroncatura del Concilio, che ebbe profonda influenza per secoli, che, in più, con citazioni teologiche molto dotte entrava in polemiche dottrinali sui sacramenti divaricando sempre più il solco tra le due Chiese. I difensori dell’ortodossia cattolica (domenicani e gesuiti) non sapevano bene cosa rispondere perché non conoscevano i decreti conciliari … che non potevano conoscere perché non potevano accedervi. Intanto gli anni passavano ed anche gli anziani testimoni conciliari sparivano con la conseguenza che ogni memoria del Concilio spariva. Intanto i luterani, a cui si associarono i calvinisti, già del 1562 negarono ogni validità al Concilio il cui scopo era perfettamente raggiunto, la divisione tra le Chiese era definitiva e sempre più incarognita. Ed anche l’Impero, Sacro e Romano, con Ferdinando I, per la prima volta non accettò il responso di una istituzione ecclesiastica.

        E non sembri che tutto marciava con dispute, magari violente, ma solo con manifestazioni verbali. Le guerre, soprattutto se di religione, sono le peggiori e chi ha forza e mezzi li usa. E la seconda metà del Cinquecento fu un terreno fertile per farne. Nel 1562 i cattolici massacrarono la comunità protestante di Vassy in Francia; nel 1572 ancora i cattolici massacrarono i protestanti Ugonotti (erano i francesi protestanti di tendenza calvinista) nella Notte di S. Bartolomeo (sette guerre fossero necessarie prima che terminasse in Francia la contesa tra cattolici e ugonotti); nel 1587 la protestante Elisabetta I di Inghilterra fece uccidere la cattolica Maria Stuart per problemi di successione al trono.

        Oltre a questo compito molto importante anche se fallimentare per l’unità della Chiesa (e non per colpa di Pio IV) vi sono altre vicende di questo Papa che meritano attenzione.

        Durante la sede vacante che portò all’elezione di Pio IV, Giovanni Carafa, fratello del più volte citato Carlo, ambedue nipoti di Paolo IV, aveva ammazzato personalmente il presunto amante di sua moglie che aveva avuto uguale sorte essendo stata fatta strangolare. Pio IV volle dare una punizione esemplare ai nipoti, più delinquenti che sregolati, del suo predecessore. Li fece arrestare tutti con l’accordo di tutti i cardinali meno uno, Ghisleri, che era stato l’Inquisitore Generale con Paolo IV. Vennero tutti condannati a morte con il sequestro di ogni loro bene e solo il più giovane, il cardinale Alfonso, ottenne la grazia (anticipo solo che Ghisleri sarà il successore di Pio IV con il nome di Pio V e che rivedrà il processo annullando la sentenza e, soprattutto, restituendo i beni ai Carafa). Non era comunque un processo al nepotismo perché, quando ho parlato bene di questo Papa, non ho detto che fosse contrario al nepotismo. Anzi ! Egli fu nepotista come gli altri estendendo il nepotismo non solo alla sua famiglia m anche a quelle in qualche modo legate alla sua: i Serbelloni, gli Hohenems ed i Borromeo. Sull’ultima famiglia in particolare andarono moltissimi favori ed in modo rilevante a Carlo Borromeo, fatto cardinale e fiduciario di Pio IV (fu Borromeo che spinse nel senso della Restaurazione cattolica). Anche Roma ebbe qualche beneficio, ancora con l’opera di Michelangelo, che dalle Terme di Diocleziano ricavò la Basilica di Santa Maria degli Angeli (anche Borgo Pio, il quartiere che lega Castel Sant’Angelo con la Basilica di San Pietro, sorse sotto il suo pontificato).

        Amava il lusso e lo sfarzo ma si sa che donò ai poveri e morì senza arricchimenti personali. Suo successore sarà un altro criminale ed incallito assassino, l’Inquisitore Generale sotto Paolo IV, il cardinale domenicano Michele Ghisleri.

L’INQUISITORE SUL TRONO DI PIETRO

        Alla morte di Pio IV il conclave era in mano all’abile tessitore Carlo Borromeo e, come stabilito da Pio, il conclave tornò ad essere chiuso senza influenze dall’esterno. Carlo Borromeo (anche con il sostegno del cardinale Farnse) portò a far vincere nel conclave la linea della piena restaurazione contro quella opposta che prevedeva una linea dialogante e conciliante. Il massimo rappresentante di una dura controriforma non poteva che essere l’ex Grande Inquisitore Michele Ghisleri che fu eletto assumendo il nome di papa Pio V (1566-1572).

        Si presenta da umile e rigoroso Pio V in accordo con la sua origine di pecoraio. Niente festeggiamenti all’elezione con il denaro dato ai poveri. Fa vita da asceta con abiti non sfarzosi coprendo con l’abito da Papa quello povero da domenicano, nutrendosi poco e dormendo su un pagliericcio, andando scalzo ed a capo scoperto in processione. Sembrava proprio un Papa che tornava al Vangelo che non si occupava di guerre pensando che la Chiesa non cresce con i cannoni ed i soldati e che ha solo bisogno di preghiere, di ascetismo e di Testi Sacri. Anche il nepotismo non lo riguardò e furono gli altri cardinali a consigliargli di fare cardinale un suo nipote, il domenicano Michele Borelli, perché lo aiutasse in un rapporto di fiducia (come degnamente fece). Un altro nipote che fece capitano delle guardie fu da lui cacciato perché si comportava in modo indegno. Eliminò sfarzi e divertimenti dalla corte pontificia, riformò la Curia obbligando i vescovi a risiedere nei loro territori, introdusse pene severe per i peccatori del non rispetto del riposo domenicale, per quelli che bestemmiavano, per i concubini e gli adulteri (questi ultimi venivano frustati in pubblico). E già che c’era, abolì il peccaminoso Carnevale, vietò con due bolle (1567 e 1570) la questua ed il virgiliano dirum nefas cioè l’esecrabile vizio libidinoso e l’infamia contronatura (1568), vietò rigorosamente ogni discussione sul miracolo dell’Immacolata Concezione (1570) e, con un provvedimento che avrà molta importanza nei futuri processi dell’Inquisizione, l’11 aprile 1567 concesse il titolo di dottore della Chiesa a Tommaso d’Aquino. Naturalmente tentò seri provvedimenti contro le prostitute o cortigiane che continuavano ad essere un numero enorme (intorno alle 7000 quelle censite) a Roma che faceva circa 50 mila abitanti. Il fatto è che Roma è sempre stata piena di preti e chierici d’ogni tipo e, come oggi vicino alle caserme, la prostituzione è un grande affare. Oltretutto la Chiesa guadagnava molto da esse per le tasse che imponeva e le tangenti che riscuoteva dai protettori. Come al solito, di fronte ai decreti di espulsione, le prostitute di basso rango se ne andarono con tutti i loro averi essendo poi derubate di ogni bene appena fuori città, molte gettate nel Tevere ed altre semplicemente ammazzate, molte sopravvissute morirono di miseria e fame. Queste notizie e l’intercessione di ambasciatori e nobili fecero tornare indietro il Papa dalla sua decisione riprendendo le prostitute a Roma ma con obbligo di risiedere solo in un determinato quartiere e pene severe in caso contrario. Per le prostitute d’altro bordo, il problema non si pose. In ogni caso Roma sembrava diventata un convento, in accordo con l’idea di una dura restaurazione interpretata da Pio V. Dati i precedenti da Inquisitore sotto Paolo IV (mentre Pio IV lo aveva liquidato come tale) grande occupazione dette il Papa a questa istituzione che potenziò all’inverosimile a cominciare dalla ricostruzione del Palazzo dove aveva sede e delle carceri annesse distrutto dalla collera popolare dopo la morte di Paolo IV (i lavori iniziarono nel 1566 e terminarono nel 1569). L’Inquisizione doveva servire a moralizzare i cittadini, le singole persone che non pensavano come il Papa, a spegnere ogni minima idea di critica e di diversità. O con la Chiesa o eretici.

        La popolazione, i primi tempi incredula di un Papa così pio, iniziò a vivere nel vero e continuo terrore perché l’Inquisizione arriva ovunque con minimi sospetti e vaghe delazioni e ti tortura ed uccide, privandoti di ogni bene. E Pio V risultava essere un vero mostro sanguinario. E vescovi e cardinali in giro per l’Italia non trovarono di meglio che imitarlo trasformando l’intera Italia in un incubo per ogni persona, pur lontana da ogni peccato. Il più bravo criminale imitatore di Pio V fu il cardinale Carlo Borromeo. Apro in proposito una brevissima parentesi per ire che la Chiesa non trovò di meglio che santificare questi due incalliti criminali  e magari non Pio IV che volò molto ma molto più in alto di questi due assassini. Anche i sovrani cattolici iniziano a cogliere il nuovo spirito. Più si è assassini più si è premiati, come Cosimo de’ Medici che venne promosso a granduca, come Massimiliano II d’Asburgo, successo al padre Ferdinando I nel 1564, che per il suo impegno controriformista venne elevato a arciduca. Pio V, da vero sadico, scrisse anche a vari sovrani stranieri per chiedergli durezza e nessuna pietà contro l’eresia (figurarsi la felicità di chi può eliminare i nemici politici incriminandoli di eresia). In particolare questo papa assassino scrisse a Felipe II affermando: “Riconciliarsi mai; non mai pietà; sterminate chi si sottomette e sterminate chi resiste; perseguitate ad oltranza, uccidete, ardete, tutto vada a fuoco e a sangue purché sia vendicato il Signore; molto più che nemici suoi sono nemici vostri“. Uno così dovrebbe essere rinchiuso in un  manicomio criminale ed invece la Chiesa, nel suo insieme lo ha fatto santo ! Ma non basta, con somma coerenza, colui che diceva non aver bisogno la Chiesa di cannoni e soldati, inviò truppe in aiuto dei cattolici francesi nella guerra e le stragi contro gli Ugonotti, truppe che avevano l’ordine di non prendere prigioniero nessun ugonotto e di uccidere subito chiunque gli capitasse tra le mani(8). Rendina riporta il giudizio di uno storico come Giovagnoli che scriveva: s’inebriò delle stragi di Cahors, di Tours, di Amiens, di Tolosa e al Duca d’Alba mandò in premio il cappello e la spada benedetti.

        Riuscì a mettere insieme una Lega Santa contro i Turchi formata da Genova, Venezia e Spagna. I Turchi furono battuti al largo di Lepanto il 7 ottobre 1571. L’importantissima vittoria che fermò l’avanzata ottomana fu appunto solo finalizzata a quello scopo. Pio non fu soddisfatto perché avrebbe voluto la liberazione dei Luoghi Santi.      

        Altre imprese di Pio V erano dirette sempre alla sua ossessione di sterminare l’eresia. In Inghilterra appoggiò Maria Stuart perché cattolica contro l’anglicana Elisabetta I che scomunicò nel 1570 (i massacri papali nel continente comportarono odio in Paesi non cattolici e proprio in Inghilterra vi furono persecuzioni e morte per i cattolici). Ancora in Italia nel 1569 emanò una sciagurata Bolla contro gli ebrei, la Hebraeorum gens sola quondam a Deo dilecta, con cui gli ebrei vennero espulsi da ogni luogo nello Stato Pontificio meno che da Roma ed Ancona dove vi erano i ghetti per rinchiuderli. Gli ebrei di Bologna passarono nel vicino territorio estense; ma siccome la bolla ordinava anche la distruzione di tutto ciò che potesse ricordare l’esistenza di una comunità ebraica, compresi i cimiteri, gli ebrei di Bologna abbandonarono la città portando con sé anche i loro morti. In seguito scomparvero per sempre alcune comunità ebraiche italiane: quelle di Ravenna, Fano, Camerino, Orvieto, Spoleto, Viterbo, Terracina, che mai più risorsero. Gli ebrei abitanti presso Roma si rifugiano nel già sovrappopolato ghetto romano.

        Ed il suo Dio, quello ancora del Vecchio Testamento, geloso di tanto uomo, se lo riprese vicino a sé nel 1572. E qui si dimostra che quel Dio è buono.

LA CONTRORIFORMA IN AZIONE

        Alla morte di Pio V il conclave iniziò ad essere manovrato da Alessandro Farnese che puntava ad essere eletto. Poiché Farnese era un falco della stirpe di Pio V e Borromeo, Felipe II fece discretamente sapere a Farnese che era meglio si ritirasse per ricercare la possibilità di avviarsi verso la pace. Farnese ubbidì aprendo così la strada all’elezione di Ugo Boncompagni che assunse il nome di Papa Gregorio XIII (1572-1585). Si trattava di persona più mite e blanda che non il predecessore ma era estremamente tentennante, indeciso sì che faceva una norma e poi non la faceva applicare (Pasquino ebbe subito a dire: Habemus papam negativum). Comunque anch’egli proveniva da una vita licenziosa ed aveva un figlio, Giacomo. La novità è che, quando arrivò al pontificato, la sua vita divenne ligia, seria ed ineccepibile. Tentò con impegno di applicare la Controriforma conciliare servendosi, ahimé !, ancora dell’influente consiglio di Carlo Borromeo. I Romani ritrovarono modo di respirare perché era andata via l’orrida cappa di Pio V. [Quelle che seguono virgolettate sono il mio riassunto di alcune delle cose che scrisse Montaigne in viaggio a Roma] “Si respirava tanto che Roma divenne la città più insicura del mondo, visto l’espandersi a macchia d’olio di bande di briganti che aggredivano tutto e tutti non solo di notte ma anche di giorno. Quindi da una parte i banditi di strada e dall’altra i nobili che avevano bande armate per la loro difesa ma anche per attaccare le bande di altri nobili. Si era creato un dualismo ributtante, da un lato il Papa con i suoi dogmi e la sua moralità, dall’altro la massima corruzione ed il massimo libertinaggio. Le cortigiane non erano più quelle di una volta, avevano perso rango dopo le cure di Pio V ed ora erano semplici prostitute da strada. Gli omosessuali erano cresciuti in città ed avevano acquisito il costume di sposarsi in chiesa. Quando vi era un matrimonio ordinario una coppia di omosessuali ripeteva le stesse frasi che l’ecclesiastico richiedeva a chi era vicino all’altare ed alla fine si davano per sposati con un bacio e con i festeggiamenti normali. Poi andavano regolarmente a convivere”.

        Il tentativo bonaccione di ecumenismo tra i cittadini non andò a buon fine ed anche il figlio che, nominato a cariche importanti ne approfittò liberando dal carcere un suo amico, tradì suo padre. Ed anche l’espressione bonaccione deve essere immediatamente corretta se si pensa ai massacri che l’Inquisizione continuò imperterrita a compiere(9).

        Comunque era intenzione di Gregorio di far uscire la Chiesa da una angusta romanità. Volle aprirsi al resto dell’Europa a partire dal’Anno Santo del 1575, per celebrare il quale aveva fatto costruire vari collegi per stranieri dove accogliere i pellegrini ecclesiastici. Particolare attenzione ebbero i Gesuiti che operavano già nel mondo come evangelizzatori. Fece ampliare di molto il loro Collegio Romano che acquisì il rango di Università Gregoriana. Ma l’impresa per la quale egli è ancora oggi ricordato nel mondo intero è quella della Riforma del Calendario che appunto si chiama Gregoriano. All’inizio solo Italia, Spagna e Portogallo accettarono quello spostamento di un colpo di 10 giorni, ma poi, piano piano aderì tutto il mondo [questo tema l’ho trattato diffusamente altrove, ndr].

        Per il resto lascia sconcertati il suo agire in occasione di una tragedia immane, quella della Notte di San Bartolomeo (tra il 23 ed il 24 agosto del 1572). Ma il mio è ancora un giudizio di chi penserebbe alla buona fede che non c’è mai perché c’è la facciate e l’agire sporco che è una delle caratteristiche degli uomini della Chiesa. In quel frangente in cui i cattolici sotto l’esaltazione della vittoria a Lepanto contro gli ottomani, dopo aver chiuso le porte di Parigi, diedero ordine di ammazzare tutti i protestanti vi era poco di religioso e molto di politico. Era una guerra di successione al trono di Francia che marciava per vie proprie e con i metodi con cui i cattolici regolavano i conti con gli avversari politici. L’orrenda strage non era da considerarsi comunque una vittoria della vera fede contro i protestanti. Eppure Gregorio gioì del massacro ritenuto come una vittoria dei cattolici sui protestanti, benedisse gli esecutori, celebrò una messa di ringraziamento, fece feste in città, illuminò Roma e fece coniare una medaglia. Mentre Gregorio gridava tutta la sua soddisfazione per l’operato dei suoi sanguinari correligionari, assolveva un assassino di strada come Guercino che aveva ammazzato solo 44 persone. Stesso spirito sanguinario espresso a chi gli proponeva l’assassinio di Elisabetta I d’Inghilterra: “Chiunque la toglie dal mondo, al debito fine del servizio di Dio, non solo non pecca, ma si acquista un merito, soprattutto tenendo conto della sentenza lanciata contro di lei da Pio V“. D’altra parte vi era stata la Bolla del criminale Pio V, Regnans in excelsis (1570), nella quale Elisabetta era bollata come eretica e di lei si diceva:

« … La stessa donna, acquistato ed usurpato in proprio favore il posto di supremo capo della Chiesa in Inghilterra, deve essere punita…Noi dichiariamo che la predetta Elisabetta è un’eretica e produttrice e sostenitrice di eretici … che lei ed i suoi sostenitori sono incorsi nella sentenza di scomunica … la dichiariamo privata di ogni diritto e potere, dignità e privilegio. Dichiariamo tutti i Nobili, soggetti e popolo e tutti gli altri che le obbediscono, sciolti da ogni vincolo di fedeltà ed obbedienza verso di lei … proibiamo a chiunque di obbedirle … e scomunichiamo chiunque farà il contrario»(10).

         Vero cristiano, Gregorio XIII, anzi cattolicissimo. In linea con Pio V. Finalmente l’assassinio politico aveva il suo pieno riconoscimento religioso e finalmente Gregorio XIII si riuniva idealmente al suo criminale predecessore, Pio V. Il nostro tentò anche delle spedizioni militari verso l’Inghilterra, attraverso l’Irlanda, che non ebbero alcun seguito oltre quello di un aumento spropositato delle tasse che fece imbestialire i romani.

        Alla morte di Gregorio XIII seguì l’elezione di Papa Sisto V (1585-1590). Qualcuno racconta che il cardinale Felice Peretti si presentò in conclave dando l’idea di un moribondo che si trascinava e la commedia sarebbe stata costruita per favorire la propria come l’elezione di un Papa di transizione e comunque in balìa della Curia. E’ invece accertato che vi furono molti maneggi di due potenti cardinali per far eleggere questo cardinale di umili origini come Pio V (quello pastore di pecore questo addetto ad una porcilaia): Ferdinando de’ Medici e Luigi d’Este. Entrerà nell’Ordine dei Minori e sarà subito severissimo con ogni devianza tanto che sarà notato e fatto subito Inquisitore con ogni elogio prima di Paolo IV poi di Pio V. Fu tenuto al margine da Gregorio perché troppo duro e rigido nei riguardi dei costumi della Curia. In questo periodo stette in  silenzio e sopportò anche l’assassinio di suo nipote Francesco Peretti da parte di Paolo Giordano Orsini, amante della moglie Vittoria Accoramboni. Appena eletto, divenne subito un Papa della Controriforma, a parte il nipote quindicenne Alessandro fatto cardinale ed il solito abominevole nepotismo con i suoi parenti. Iniziò a scatenare i suoi anatemi e le sue vendette contro tutti, anche contro quella coppia di amanti che si erano sposati durante il conclave immaginando che l’assassinio compiuto fosse andato dimenticato (tutte le famiglie nobili ebbero posti di prestigio e ben remunerati ma quell’Orsini e sua moglie dovettero tenersi lontani da Roma scappando prima a Bracciano e poi a Venezia inseguiti dai sicari del Papa. L’Orsini si salvò perché morì per una infezione ma Vittoria fu pugnalata dal sicario di Sisto, Ludovico Orsini). Sisto si scatenò contro ogni attività ritenuta illecita: banditismo, vizio, gioco, duelli e prostituzione. Istituì la pena di morte per chiunque portasse armi e per chi desse asilo, nobili ed ambasciatori che fossero, ai banditi ed ai portatori di armi. Per i cardinali vi era il carcere in Castel Sant’Angelo. Ed il fatto che non era un tentenna come il predecessore lo mostrò appena eletto con 4 giovani impiccati a Ponte Sant’Angelo perché trovati con delle armi. A Roma si instaurò un vero e proprio regime di polizia che operava ad imitazione dell’Inquisizione. Non vi era alcuna garanzia per nessuno. Bastava una spiata, una delazione anche falsa, per essere ammazzati senza alcuna pietà per circostanze o fatti particolari.

        Con lo stesso spirito portò avanti la riforma della Curia, del conclave (massimo 70 cardinali), delle finanze (gli introiti aumentarono insieme alle tasse, che colpirono praticamente ogni cosa, con odio montante tra i romani che non solo potevano più darsi ai vizi preferiti ma dovevano pure pagare per questo). Comunque Sisto dette il via alla sistemazione urbanistica di Roma. Restaurò l’acquedotto di Alessandro Severo che da allora divenne l’Acquedotto Felice. Con questa opera divennero abitabili altri coli di Roma precedentemente deserti, come l’Esquilino, il Viminale ed il Quirinale. Ma ciò fece danni enormi perché la gestione di Sisto era di persona che si disinteressava completamente dell’antichità classica. Furono sventrati interi edifici antichi e monumenti, opere eccellenti del passato furono utilizzate come cave di marmo per gli edifici ecclesiastici. Come furono distrutte delle colonne di Traiano e Marco Aurelio per farne i piedistalli delle statue di San Pietro e San Paolo. Sotto il suo pontificato furono innalzati (imprese architettoniche gigantesche) gli obelischi in Piazza del Popolo, in Piazza San Giovanni in Laterano, in Piazza San Pietro(11), in Piazza Santa Maria Maggiore. L’architetto Domenico Fontana fu l’artefice di queste sfide impressionanti. Altrove vi era la pena di morte per tutto e tutti: per i protettori di prostitute e per le madri che vendevano le giovani figlie. Di nuovo le prostitute furono sistemate in un luogo delimitato della città. Anche la Curia viene controriformata: i cardinali non possono più avere amanti, figli e nipoti (è praticamente Sisto che equipara le due parole riferendole ai cardinali, conscio di ciò che era davvero suo nipote), i cardinali debbono essere preferibilmente italiani, i cardinali debbono giurare fedeltà al papa perché sono come gli apostoli intorno a Cristo (sic!). La Chiesa solo evangelica non interessa più e non deve esistere più per far posto all’ordine ed alla restaurazione politica secondo gli interessi del mantenimento della struttura Chiesa in sé. E’ il demonio Lutero che giustifica la dittatura del Papa.

Progetti dell’architetto Fontana per imbragare l’obelisco di San Pietro e sollevarlo.

Ricostruzione dell’operazione con il migliaio di operai addetti all’opera di innalzamento.

        In politica estera assisterà dall’esterno alla lotta per il trono di Francia nota come Guerra dei Tre Enrichi (Enrico III di Francia, Enrico di Borbone, Enrico di Guisa), regnante Enrico III. Questa guerra, non combattuta con le armi ma con le delazioni, i sotterfugi e lo spionaggio, scoppiò nel 1584 quando fu designato erede al trono Enrico di Borbone che era un fervente ugonotto (alla fine la guerra fu vinta da Enrico di Borbone che divenne Enrico IV e che, per diventare re di Francia dovette rinunciare alla sua religione ugonotta. E’ in questa occasione che egli ebbe a dire: Parigi vale bene una messa). Riguardo all’Inghilterra si rese conto che Elisabetta I era un grande personaggio quando decise di giustiziare la cattolica Maria Stuart. Capì che non si poteva solo demonizzare perché se fosse stata cattolica sarebbe stata la sua favorita per il polso che mostrava in ogni situazione. E, pur essendo alleato a Felipe II, non aveva troppa fiducia nella sua Armada Invencible (130 navi con 24000 uomini) che andava ad attaccare l’Inghilterra (1587) per mettere fine alle depredazioni inglesi nei Caraibi delle navi spagnole cariche d’oro, tramite pirati della Corona Britannica (ed anche perché la potenza marittima inglese era in pericolosa crescita). Ed infatti l’Armada andò a fondo per una eccellente manovra della più modesta flotta inglese e per una provvidenziale tempesta e da questo momento iniziò l’inarrestabile declino della Spagna fino alla conquista della democrazia nel 1975.

        Dopo Sisto V si ebbero tre Papi che rapidamente scomparvero in meno di un anno:

228. — Urbano VII, Romano, Giambattista Castagna, 15.IX.1590 — 27.IX.1590.
229. — Gregorio XIV, di Somma Lombarda, Niccolo Sfondrati, 5, 8.XII.1590 — 16.X.1591.
230. — Innocenzo IX, Bolognese, Giovan Antonio Facchinetti, 29.X, 3.XI.1591 — 30.XII.1591.

in linea di principio ed in accordo con quanto già accaduto solo il primo era un uomo probo che distribuì gran parte del suo patrimonio ai poveri della città. E probabilmente sarebbe stato un Papa degno.  Il secondo fu un criminale che ammazzò in un solo anno molti eretici con l’Inquisizione oltre alla solita scomunica contro Enrico IV ed al nepotismo. Il terzo non si alzò quasi mai dal letto dove era malato, lo fece tra l’altro per incitare alla guerra contro Enrico IV. Ma, appunto, le loro repentine scomparse non ci permettono di aggiungere altro.

        Ad Innocenzo IX i cardinali del conclave pensarono dovesse seguire un Papa in buona salute. Comunque anche le posizioni politiche (sic!) sarebbero state importanti perché vi erano almeno due fazioni: quella che voleva una rigida applicazione della Controriforma o una qualche mediazione più blanda sulle due questioni sul tappeto: la politica da seguire con la successione in Francia e l’atteggiamento da avere con i protestanti. Il partito dell’estremo rigore aveva il cardinale di Sanseverino, amico della Spagna, come crudele candidato e spietato inquisitore. L’altro partito non aveva candidati. Riuscì comunque a non far eleggere Sanseverino ma l’ultimo tra i candidati graditi alla Spagna Ippolito Aldobrandini che assunse il nome di Papa Clemente VIII (1592-1605). 

        Clemente iniziò con digiuni, con pellegrinaggi alle basiliche di Roma quindici volte l’anno, con la confessione e comunione quotidiana. Si emozionava e piangeva alla messa, ogni volta che assisteva alla consacrazione. Ma questi bigotti, alla Pio V, sono sempre stati i più pericolosi. Fu certamente un fiero sostenitore della Controriforma. Come tale vietò il Carnevale e lo volle sostituito con spettacoli coreografici e rappresentazioni sacre di crocifissioni, passioni e consimili, sempre fatte con ricchezza di costumi e mezzi che ancora oggi allietano le sagre paesane e rendono qualche soldo ad osti ed amministrazioni comunali. Sembrava un asceta ma gli piaceva sfarzo e lusso, andando a vivere al Palazzo del Quirinale anche se non ancora finito ma già a buon punto e viaggiando spesso non privandosi di conforti tanto da portare alla rovina le finanze del Vaticano- Naturalmente inventò nuove tasse che fecero di nuovo imbufalire i romani. Tuonò contro il nepotismo e dei 3 nipoti che aveva due li fece cardinali (Cinzio e Pietro) e dell’altro (Gian Lorenzo) fece cardinale il figlio quattordicenne. A tutti e 3 dette incarichi e compiti molto redditizi. Pietro, tra l’altro, costruì una sontuosa villa a Frascati servendosi dell’opera dell’architetto preferito del Papa, Carlo Maderno. Villa sfarzosa certamente ma in grado di azzerare le finanze della Curia. L’altro divenne protettore del Tasso, il cantore a pagamento della Controriforma, ormai vecchio rimbambito.

        In politica estera tentò di rendere la Chiesa sempre più indipendente dalla Spagna e, sul fronte francese, si riappacificò con Enrico IV, togliendogli nel 1595 la scomunica di Sisto V e riconoscendolo come legittimo sovrano di Francia, subito dopo la sua conversione al cristianesimo (1593). Riuscì poi a far firmare  la pace tra Francia e Spagna (1598). E visto che la Francia era ormai amica del Papa, quest’ultimo ne approfittò per riuscire ad annettere allo Stato Pontificio il Ducato di Ferrara (con le città di Modena e Reggio) governato da Alfonso II d’Este. In politica interna ripristinò leggi che aveva abolito o reso più blande Sisto V, in particolare quelle che colpivano gli ebrei con molte vessazioni economiche e sociali; e queste leggi restarono in vigore fino a Pio IX. Naturalmente l’Inquisizione funzionava senza sosta(12). Ma il pezzo forte del suo operato fu l’organizzazione del Giubileo del 1600. Per incanalare il maggior numero di pellegrini già ad ottobre del 1599 sospese ogni indulgenza in modo che i fedeli dovessero recarsi a Roma per ottenere l’auspicata indulgenza plenaria. Roma, che all’epoca era arrivata ad avere all’incirca 100 mila abitanti, nel 1600 ricevette 3 milioni di pellegrini che avrebbero ottenuto l’indulgenza ambita a patto di visitare 15 volte, se straniero, o 30 volte, se romano, le basiliche della città. A queste peregrinazioni si accodò spesso Clemente che fece anche 60 visite di basiliche (la fede attraverso un numero è pura stregoneria !). Occorreva anche sfruttare quel clamoroso evento per dare un esempio a tutto il mondo: con la Chiesa non si scherza essa è l’unica autorizzata a parlare, è l’unica che ha la verità, che è in grado di stabilire ciò che è vero e ciò che è falso e quindi chi è in santità o eretico. All’inizio di quell’anno, il 17 febbraio, fu compiuto il più odioso crimine della Chiesa su ordine dello stesso Papa. Mentre l’Inquisizione funzionava a pieno ritmo e che prima ammazzava e poi bruciava gli eretici, con Giordano Bruno non vi fu questo trattamento di favore. Il grande pensatore, dopo aver passato anni di torture nelle segrete dell’Inquisizione romana, fu bruciato vivo in Campo de’ Fiori. Fu trascinato dalle carceri di Tor di Nona con la mordacchia, un bavaglio di cuoio sulla bocca, bavaglio nel quale era inserito un grosso chiodo ricurvo che andava infilato in mezzo alla lingua in modo che essa restasse sospesa in mezzo alla bocca senza che il povero Bruno potesse profferire una sola parola. Lo ammazzavano e ne erano terrorizzati. Lo stesso Bruno, quando fu pronunciata la condanna contro di lui, ebbe a dire: “Avete più paura voi a pronunciare la sentenza di quanta ne abbia io ad ascoltarla“. Di questo grande pensatore, che è diventato un martire del libero pensiero, ho scritto molto e rimando ad un articolo che parla di lui nell’ambito dei processi celebri dell’Inquisizione Romana. Altro episodio, meno noto, è quello che ha riguardato Beatrice Cenci. Nella nota(13) riporto notizie più dettagliate, qui dico alcune cose in breve. Beatrice Cenci e la sorella erano due giovanette delle quali abusava il padre, un violento delinquente che però conosceva il Papa e che da lui aveva garantita la salvezza, fatto che comportava il seguito delle violenze e degli abusi sulle bambine. Alla fine della storia Beatrice ed alcuni fratelli, con una complicità esterna, ammazzarono il padre delinquente, incestuoso e pedofilo. Scoperta la cosa fu anche qui il buon Clemente che ordinò la decapitazione di tutti (eccetto un giovanetto di 15 anni, Bernardo, che però fu costretto ad assistere alle esecuzioni).

        Insomma quest’altro esemplare di Papa, dopo queste prove di amore cristiano, morì. E meno male ! Seguì l’elezione di Alessandro de’ Medici che assunse il nome di Papa Leone XI (1605), che però morì prestissimo. Meglio così, era anche lui un ascetico e chissà cosa avrebbe potuto combinare !

        Il conclave seguente vide eletto un indipendente, rispetto alle varie pressioni di Francia, Spagna ed Austria, il cardinale, ex inquisitore e zelante controriformista, Camillo Borghese che assunse il nome di Papa Paolo V (1605-1621). Operò subito in accordo con la Controriforma con una serie di provvedimenti interni alla Chiesa come il riconoscimento di alcuni ordini (San Filippo Neri e San Camillo de Lellis), l’importanza assegnata ai Cappuccini, l’obbligo della clausura per gli ordini che la prevedevano, l’invio di molte missioni in giro per il mondo e la concessione della Cina ai Gesuiti dove, per la prima volta, si poterono diffondere i Testi Sacri in lingua locale (e non in latino). A queste azioni, che possono apparire evangelizzatrici, di uno spirito rigoroso ma aperto al rinnovamento, corrispose un operato del Papa qualificabile come rigido assolutismo. Ne dette prova immediatamente mandando a morte una persona che in un libello non pubblicato aveva criticato Clemente VIII per le sue atrocità e dando l’interdetto a Venezia perché non voleva assoggettarsi alle norme ecclesiastiche(14).

         Altro fallimento in politica estera riguardò i rapporti con l’Inghilterra. Paolo V ed i suoi consiglieri avevano intravisto nella successione al trono d’Inghilterra la possibilità di tornare ad un’Inghilterra cattolica. Alla morte di Elisabetta I era salito al trono Giacomo I Stuart (1603), figlio della cattolica Maria Stuart fatta giustiziare da Elisabetta. Il Papa scrisse una lettera al nuovo Re (1606) con la quale tentava di proporsi come suo unico referente religioso. Giacomo non volle aderire a tale richiesta ed esplicitamente propose se stesso come pacificatore tra cattolici e protestanti in Inghilterra. Richiese un giuramento di fedeltà ai suoi sudditi ai quali chiedeva di riconoscere lui come prima autorità rispetto ad ogni altra. Paolo V non digerì questo affronto e lo condannò ufficialmente (nel 1606 e nel 1607). Ciò creò dei problemi ai medesimi cattolici inglesi perché, da questo momento si divisero in due categorie, coloro che ubbidivano al Re (i lealisti) e coloro che anteponevano il Papa (i papisti). In ogni caso i rapporti tra Inghilterra e Chiesa divennero più tesi ed a ciò contribuì uno dei consiglieri del Papa, già razzolante nelle corti papali da tempo come consigliere dei Papi criminali immediatamente precedenti, Roberto Bellarmino. Costui aveva scritto una lettera al primate cattolico d’Inghilterra accusandolo di essersi schierato con il Re e non con il Papa. Questa lettera divenne un testo che fu diffuso in giro e divenne un argomento di discussione che fu l’origine di vari scritti tra cui anche uno dello stesso Re (1608).

        Con la stessa intransigenza e prosopopea da sovrano assoluto si scontrò anche con Genova, Francia, Parma, Savoia, Lucca. I motivi erano sempre relativi al diritto della Chiesa di avere l’ultima parola su tutto e all’impossibilità degli Stati di legiferare su questioni che riguardavano la Chiesa.

        E Paolo V fu anche finanziatore della Guerra dei Trent’anni (iniziata nel 1618 e proseguita per 30 anni con diversi cambiamenti e di contendenti e di fronti) che sembrava una guerra tra cristiani e protestanti ma in realtà con contenuti politici molto forti. Con l’invenzione di una specie di Banca, sorta per depositare denaro presso l’Ospedale di Santo Spirito (da cui il Banco di Santo Spirito), raccolse molti fondi (comunque pochi rispetto all’enormità dei debiti della Chiesa anche per le infinite spese papali e delle loro famiglie) che servirono per finanziare la parte cattolica in combattimento con un esborso per la Curia di 650 mila fiorini in soli due anni e mezzo, una vera enormità. Anche Paolo V, alla faccia di quanto in precedenza sostenuto a proposito di non voler fare politica ma di volersi solo dedicare solo a questioni religiose, festeggiava apertamente le vittorie della sua parte come accadde nel 1620 in occasione di una di esse (Montagna Bianca).

        Questo grande rigore controriformista, i continui richiami al Concilio di Trento, alla moralità della Chiesa non lo convinsero a recedere dal nepotismo. Fece cardinale suo nipote, Scipione Caffarelli che aveva 26 anni, assegnandogli nome e stemma dei Borghese. Costui fece enormi affari con la Chiesa, arricchendo in modo spropositato se stesso, i fratelli e l’intera famiglia (Pasquino scrisse: Dopo i Carafa, i Medici e i Farnese/ or si deve arricchir casa Borghese). Non a caso la Villa più prestigiosa di Roma (e la terza in grandezza, comprendendo un parco di 80 ettari), la villa delle delizie, è Villa Borghese (terminata dal Bernini nel 1633). In essa Scipione raccolse preziosi tesori artistici dall’antichità fino alla sua epoca. Ma la mania di grandezza di questo Papa e famiglia lo si può misurare nella stessa Basilica di San Pietro. Egli fece modificare da Carlo Maderno il progetto di Michelangelo per la facciata della Basilica di San Pietro e fece porre sulla Basilica stessa un’iscrizione gigantesca con il suo nome IN HONOREM PRINCIPIS APOST(olorum) PAULUS V BURGHESIUS PONT(ifex) MAX(imus) AN(no) MDCXII PONT(ificati) VII. Per maggior gloria di Gesù, gloria per la quale, anche ora, l’Inquisizione funzionava egregiamente senza sosta(12).

        Questo Papa iniziò anche quel processo a Galileo che terminò poi con Urbano VIII. Naturalmente niente poteva essere sostenuto nella Chiesa che non fosse in accordo con le sciagurate teorie che si era date. In ambito di Controriforma i Testi Sacri erano reclamati come veri alla lettera. Vi era poi stato Pio V che nel 1567 aveva fatto Tommaso d’Aquino Dottore della Chiesa. Come poteva un Galileo qualunque sostenere teorie scientifiche che la Chiesa forte di libri autorevoli non approvava ? E così nel 1516, su ordine del Papa, Roberto Bellarmino convocò Galileo per una sporca operazione alla quale avevano partecipato vari frati con denunce successive.    

        Tutte le carte dell’accerchiamento concordato erano ormai pronte. Galileo, resosi conto finalmente che doveva fare qualcosa, aveva scritto una lettera per perorare le sue credenze con nuove prove o ritenute tali. Egli credeva di aver trovato la prova del sistema copernicano nelle maree, sbagliando in grandissima parte. Ma le sue argomentazioni non erano controbattibili con facilità e la cosa non era andata giù ai suoi accusatori. A questo punto si inserisce il citato racconto che l’ambasciatore Guicciardini fa al Granduca di Toscana. La veemenza di Galileo nel sostenere le sue tesi non lo aiuta. Lo stesso ambasciatore  ci fa conoscere alcuni retroscena che coinvolgono il Papa. Orsini cercò di raccomandare Galileo al Papa Paolo V ma questi «mozzò il ragionamento, et gli disse che havrebbe rimesso il negozio ai SS.ri Cardinali del S.to Offizio; et partitesi Orsino, fece S. S.tà chiamare a sé Bellarmino, et discorso sopra questo fatto, fermarno che questa opinione del Galileo fusse erronea et heretica: et hier l’altro, sento fecero una congregazione sopra questo fatto per dichiararla tale». Tale giudizio era perentorio e proveniva dallo stesso Papa. Quindi, da questo momento, tutto ha uno svolgimento predeterminato. Si cominciò il 19 febbraio 1616 con la trasmissione, dal Tribunale dell’Inquisizione ai teologi, delle proposizioni da condannare:

Che il sole sii centro del mondo te per conseguenza immobile di moto locale. Che la terra non è centro del mondo né immobile, ma si muove secondo sé tutta, etiam di moto diurno“.

        Solo 5 giorni dopo si ebbe il giudizio dei teologi (detti Qualificatori) che dichiararono essere la prima proposizione stultam et absurdam et formaliter haereticam, perché era contraria alla Sacra Scrittura sia letteralmente sia nella su interpretazione da parte di tutti i teologi ed i Dottori della Chiesa. Riguardo alla seconda proposizione il giudizio fu più blando. Essa fu ritenuta censurabile in filosofia ed erronea rispetto alla fede.

        Questo giudizio dei teologi fu portato al Sant’Uffizio e ratificato dal Papa che ordinò a Bellarmino di convocare Galileo e di fargli abbandonare quella eretica teoria. Nel verbale si legge la conclusione del discorso del papa: “Se dovesse ricusare obbedienza il Padre commissario avanti a notaio e testi gli faccia ‘precetto‘ di astenersi assolutamente dall’insegnare o difendere tale dottrina, o trattare di essa. E se non acconsentisse, sia carcerato“.

        La macchina repressiva era stata messa in moto ed il 3 marzo fu emanato il Decreto di interdizione della dottrina copernicana e di messa all’indice e sequestro delle opere di Copernico o copernicane(15) (i cardinali Maffeo Barberini e Caetani resistettero al bigotto Papa e riuscirono a non far dichiarare eretica l’opera di Copernico). Il De Revolutionibus di Copernico era il primo libro che cadde sotto il decreto fino a che non fosse stato corretto (donec corrigantur), quindi il Commento a Giobbe di Didaco Stunica, la stessa Lettera di Foscarini, e tutte le altre opere che insegnavano il copernicanesimo. Il primo a finire in prigione fu, Lazzaro Scorriggio, l’ignaro stampatore napoletano di Foscarini che l’inquisitore Carafa fece sbattere in galera per non aver potuto presentare l’imprimatur. Incredibilmente Galileo si trovò a dover essere ottimista per quel che lo riguardava. Nessuna sua opera era stata nominata, tantomeno quella sulle macchie solari che era chiaramente copernicana. Una cosa era comunque certa: i suoi estimatori del Collegio Romano, che precedentemente lo avevano esaltato, erano spariti dalla circolazione, anche quelli che egli sapeva essere copernicani, come  de Cuppis e Grienberger.

         La cosa riguardava anche Galileo che fu convocato dal Bellarmino nella sua residenza di Santa Maria in Via e, alla presenza del Commissario generale Segizi (notaio) e di due testimoni, lo ammonì(16) di essere in errore e di abbandonare le sue credenze “indi senz’altro (successive ac incontinenti) il Commissario fece precetto e ingiunzione a detto Galileo ancor presente e costituito, in nome del Papa e di tutta la Congregazione del Sant’Uffizio, di abbandonare detta opinione, né altrimenti, in qualsiasi modo, di tenerla, insegnarla o difenderla, a voce o per iscritto; che altrimenti si procederebbe contro di lui da parte del Sant’Uffizio. Al quale precetto Galileo acconsentì e promise di obbedire“. Quindi vi fu un’ammonizione a Galileo e non un precetto e ciò era di estrema importanza secondo il Diritto pontificio (e Paolo V era persona che aveva studiato diritto) tanto è vero che per condannare Galileo nel processo del 1633 la Chiesa dovrà falsificare dei documenti e far risultare precetto e non ammonizione. Di questo ho comunque ampiamente parlato in altro lungo lavoro e ad esso rimando anche per la bibliografia.

        Alla sua morte i sovrani cattolici impegnati nella Guerra dei Trent’anni tentarono di avere ancora un Papa a loro favorevole ma il conclave decise per un Papa neutrale ed elesse il cardinale Alessandro Ludovisi che assunse il nome di Papa Gregorio XV (1621-1623). Fu per molti aspetti un Papa di transizione che nel poco tempo che ebbe fu un nepotista di rilievo che seppe arricchire sé e famiglia. Fece cardinale il nipote Ludovico e con tutto ciò che in poco tempo riuscì ad accumulare, si comprò il ducato di Zagarolo dai Colonna che, non avendo avuto più Papi, andavano in bancarotta. Anche la neutralità iniziale venne meno ed il Papa si schierò con i cattolici nella Guerra dei Trent’anni pagando molto denaro come gli veniva richiesto (due milioni di fiorini in due anni e mezzo), denaro proveniente dalle tasse ai romani che davvero non ne potevano più.

        Dal punto di vista religioso è sua la fondazione (1622) della Congregazione di Propaganda Fide, l’organo che doveva dirigere ed organizzare le opere di evangelizzazione nel mondo con tutte le infinite interferenze che creò dovunque.

        Alla sua morte ricominciò lo scontro tra i cardinali questa volta tra tre correnti distinte che rappresentavano le diverse posizioni politiche delle potenze in campo nella Guerra e che vedeva la prevalenza dell’influenza spagnola. Si raggiunse l’accordo sul cardinale Maffeo Barberini, un simpatizzante francese, che assunse il nome di Papa Urbano VIII (1623-1644). Era stato Nunzio a Parigi e questo lo aveva reso filofrancese con la conseguenza disastrosa di una gran mole di errori in politica estera. Il suo povero pensiero di fronte alle grandi capacità politiche di Richelieu, primo ministro di Luigi XIII, lo resero indifeso nella partecipazione della Guerra dei Trent’anni. Era convinto che fosse guerra di religione e per questo era accanto a quel cardinale che non si interessava proprio dei destini della Chiesa ma solo di quelli della Francia. Il Papa si schierava con la Francia, anche se finanziava la Lega cattolica che faceva capo alla Germania, quando Richelieu si alleava ai principi luterani e, per interessi di patria che volevano l’indebolimento degli Asburgo in Europa, bloccava la Controriforma cattolica in Germania. E così Urbano ne usciva perdendo ogni credibilità e soprattutto il suo ruolo di non schierato e quindi in grado di poter esercitare delle mediazioni.

        Non fu l’unico gigantesco errore di questo Papa provinciale con la sola ossessione del nepotismo, ammantato di mecenatismo pagato dalle solite tasse sui romani (che lo chiamarono Papa gabella), escluse nobiltà e clero. Da un lato si sviluppò la Roma Barocca con opere di Bernini, Maderno, Pietro da Cortona, Andrea Sacchi e dall’altro portò il nepotismo ai massimi livelli che un papa avesse mai osato. Fece cardinali un fratello e due nipoti il padre dei quali (Carlo) fu arricchito da donazioni ingentissime, provenienti dalla casse dello Stato, che gli permisero di acquistare un territorio gigantesco nello Stato Pontificio. Anche il fratello fatto cardinale ebbe rendite enormi dalla gestione che gli fu affidata di molte abbazie, priorati e commende, nonché rendite dalle banche di Bologna, Perugia e Ferrara. La sua personale ingordigia mescolata al desiderio di vendetta erano così grandi da originare una guerra interna. Poiché i Farnese, nemici storici dei Barberini, erano indebitati con le banche della Chiesa ed erano proprietari di un Ducato vicino Roma, quello di Castro e Ronciglione (gentile omaggio di Paolo III Farnese), il Papa confiscò tutti i loro beni, gli riprese il Ducato incamerandolo nei possedimenti della Chiesa, dichiarò loro guerra (1641), scomunicò il Farnese di turno (Osvaldo) minacciando lo di riprendere anche l’altro suo Ducato, quello di parma e Piacenza. Gli altri principi e duchi sparsi per l’Italia del Nord si insospettirono per tali mosse temendo per loro, non tanto per la potenza militare della Chiesa quanto per la sua alleanza con la Francia. Osvaldo Farnese capì di avere il loro appoggio e, con l’aiuto di Venezia e Firenze organizzò un esercito per marciare su Roma iniziando una guerra che durò 4 anni e finì solo quando i due contendenti terminarono il denaro. Si arrivò allora ad un accordo (1644) che vide vincere su tutta la linea Osvaldo che riebbe il ducato e la comunione. Altra brutta figura di questo Papa che ne accumulerà in quantità. Uno dei motivi che lo fece imbufalire contro Galileo (uno che perde ovunque si rifà sempre con i poveri pensatori) fu il logo utilizzato dalla tipografia fiorentina che aveva stampato il suo Dialogo sui Massimi Sistemi del Mondo.

        In esso campeggiano tre delfini che si rincorrono. Il Papa, da sciocco qual era, pensò che fosse opera di Galileo per ridicolizzarlo facendo riferimento ai suoi nipoti e parenti miracolati. Naturalmente non era così ma dal primitivo sostegno Urbano passò ad una vera caccia a Galileo che fu perseguitato, torturato psicologicamente, messo al durissimo domicilio coatto alla sua età e ciò nonostante il suo enorme prestigio mondiale. Fino al falso costruito per far condannare Galileo, a quella pagina inserita posteriormente nella quale si diceva che a Galileo era stato fatto precetto. Arrivò con crudeltà a quel processo che, insieme a quello di Bruno, ancora oggi pesa come un macigno sulle piccole spalle di Papi sciocchi non in grado di capire i danni che fanno al mondo intero con le loro idiozie per maggior gloria di Gesù. Fino alle menzogne di Giovanni Paolo II che ha parlato di riabilitazione di Galileo (e la Chiesa chi la riabilita ?) quando la cosa è falsa ! Perché occorre si sappia che di annunci sono pieni i paradisi della buona volontà ma al seguito delle dichiarazioni di principio devono seguire atti concreti che non sono mai venuti sostituiti da un libro, Galileo Galilei 350 anni di storia, che ha di nuovo condannato Galileo. Comunque anche su questi aspetti ho discusso diffusamente in Galileo condannato e dileggiato una seconda volta, mentre del processo a Galileo ho parlato in un altro articolo al quale rimando.

        Il comportamento di questo stupido criminale, che fece funzionare l’Inquisizione con scrupolo(12), viene coronato dal suo libertinaggio, anch’esso criminale. A parte il fatto noto a tutti del suo avere un’amante, Urbano venne sorpreso nel 1634 in atteggiamenti inequivocabili con un bambino (il funzionario pontifico che lo sorprese fu cacciato). Il malcontento popolare era alle stelle e, da par suo, Urbano rispose con il ben noto panem poco) et circenses (molti). Tolse i divieti della Controriforma e dell’Inquisizione alle feste che ripresero con dispendio e sfarzo. Fu permessa di nuovo la caccia e riaprirono i teatri per le commedie licenziose. Anche al clero furono permesse licenze sessuali al fine di riuscire a tenerlo dalla sua parte. Tutto questo costò ancora alle finanze vaticane con ulteriore scorno di chi alla fine doveva pagare. Quando il suo Dio se lo riprese ci furono feste a Roma e lamentele con Dio per aver tardato tanto.

LA CHIESA AL MARGINE DELL’EUROPA

        Ad un Barberini che rese Pasquino famoso con la nota sentenza Quel che non fecero i barbari fecero i Barberini(17), seguì un Pamphili i cui fasti si possono comprendere solo facendo riferimento alla più grande Villa e parco esistente a Roma, appunto Villa Pamphili.

        Il conclave elesse, tra le varie creature di Barberini, quella non filofrancese rappresentata da Giovanni Battista Pamphili, approfittando nel periodo di transizione in Francia tra Richelieu e Mazzarino che non fece in tempo a mandare i suoi desiderata. Sembrava comunque che il nuovo Papa, Innocenzo X (1644-1655), fosse una creatura di Barberini ma, inaspettatamente, essa si scagliò contro la famiglia a cui doveva i suoi arricchimenti, imponendo ai Barberini il rimborso per le spese di guerra contro il Ducato di Castro e Ronciglione, considerata un’impresa per interessi privati ma caricata sul bilancio dello Stato Pontificio. I Barberini scapparono da Roma rifugiandosi in Francia. Furono deposti da ogni carica e furono loro sequestrati i beni, finché non intervenne Mazzarino in loro difesa. Innocenzo non poteva andare oltre per non inimicarsi la Francia proprio alla fine della Guerra dei Trent’anni (1648). I Barberini furono riammessi a Roma ed il Papa dovette fare cardinale il fratello di Mazzarino. A questa sconfitta se ne aggiunse un’altra contemporanea, ben coltivata da Urbano VIII: alla pace di Westfalia, che chiudeva la Guerra, lo Stato Pontificio non fu preso in considerazione anche su questioni religiose delle quali furono investiti i singoli Stati. Le clausole della pace regolarono la legislazione religiosa europea: ogni confessione avrebbe avuto libertà di culto; cattolici e protestanti furono parificati di fronte alla legge; ogni principe avrebbe potuto scegliere la sua religione, mentre i suoi sudditi lo avrebbero dovuto seguire; i beni della Chiesa passavano agli Stati in cui si trovavano. Anche sulla nuova eresia, il Giansenismo(18), non fu ascoltata la voce della Chiesa. Innocenzo X protestò energicamente con una Bolla che a Vienna neppure fu pubblicata e che nessuno prese in considerazione. la Chiesa iniziava a contare quasi nulla sullo scenario internazionale. La ragion di Stato vedeva Paesi cattolici accordarsi con paesi protestanti secondo il principio della separazione tra la ragion politica e quella della fede. Per la prima volta la ragione si faceva strada nella gestione della politica, ragione che poteva intervenire nelle cose di fede accettandole o meno secondo un parametro diverso dalla politica, quello della libertà di coscienza. Anche il Giansenismo rientrò in quest’ottica: libera la Chiesa di giudicarlo un movimento eretico ma la questione restava in ambito di dibattito religioso che non avrebbe permesso ad uno Stato di condannare Jansen in quanto ideatore di tale movimento. Una vera rivoluzione che metteva semi dappertutto annunciando cambiamenti epocali.

        Questa marginalizzazione della Chiesa nella politica europea la pagò duramente l’Italia perché, da allora, tutti gli interessi dei vari pontefici si scaricarono sull’Italia. Ed in Italia trionfa(va) il nepotismo al quale Innocenzo non fu immune con i soliti arricchimenti di tutti pagati dai romani. A lui andò peggio che agli altri banditi che derubarono il bene pubblico perché nessun graziato fu in grado di dare un qualche contributo alla gestione dello Stato Pontificio. A parte una abile e bella donna, Olimpia Maidalchini, vedova del fratello di Giovanni Battista, Pamphilio (sposato da vedova di altro marito) più vecchio di lei di 30 anni e che, secondo alcune cronache dell’epoca, era amante del Papa. Sembra fosse la persona più potente della Curia e non vi era nulla che si muovesse senza il suo consenso e per avere il suo consenso era sempre indispensabile pagarle una tangente. Addirittura nelle dimore di maggior prestigio, a fianco del ritratto del Papa, vi era il suo. Fu lei che riportò il lusso e lo sfarzo a Roma e non volgari ma di alta classe, tanto che le stesse prostitute tornarono ad essere cortigiane con Gesù che aumentava la sua gloria. E non si tratta di una qualunque diceria. Vi fu un Avviso, reso pubblico il 30 agosto 1645, nel quale si leggeva che le prostitute compariscono in carrozza  nelle solennità maggiori, perché la signora Donna Olimpia, dopo esser stata regalata daslle medesime, si è contentata di prenderle sotto la sua protezione, le ha permesso che mettano l’arme di Sua Eccellenza sopra la sua porta et le ha conceduto che vadino in carrozza senza riguardo alcuno, come se fossero honorate. In definitiva Donna Olimpia (che Pasquino descrisse così: Olim pia, nunc impia, e cioè: Una volta religiosa, adesso empia) risultò essere una vera santa per le prostitute, una specie di Santa Mignotta che però santa non fu quando si trattava di derubare il bene pubblico. Si arricchì all’inverosimile sfruttando tutto il possibile financo le derrate alimentari raccolte per la carestia del 1647 e 1648. Il seguito della storia è tutto di vicende squallide tra squallidi personaggi della decadenza e la lascio raccontare magistralmente a Rendina:

Il figlio di questa donna, Camillo, non ebbe altro che l’imbarazzo della scelta per il suo futuro altolocato. Nominato dallo zio generale della Chiesa, comandante supremo della flotta e governatore di Borgo, a un certo punto depose quelle cariche e preferì diventare cardinale, affiancando per un po’ di tempo il segretario di Stato, che era allora Panciroli. Poi ci ripensò e riprese lo stato laicale per sposare la giovane vedova del principe Borghese, Olimpia Aldobrandini. La madre non avrebbe voluto quel matrimonio, perché la futura nuora era di temperamento simile al suo e ne temeva la concorrenza. Ma Innocenzo accontentò Camillo e accettò le sue dimissioni da cardinale; unica condizione fu che gli sposi andassero a vivere a Frascati, e questo per accontentare la «papessa» che non ammetteva rivali nel dominio sulla Roma-bene.
L’apice del prestigio questa donna lo raggiunse in occasione del giubileo del 1650; un avvenimento così sacro fu celebrato all’insegna della mondanità, secondo un cerimoniale sotto molti aspetti preordinato da lei. «L’oratoria sacra – si è trasformata in tronfia esercitazione rettorica: i predicatori sono divenuti istrioni da palcoscenico», annota il Castiglioni, «si va alla predica come ad un passatempo da teatro; donna Olimpia chiama nel suo palazzo», regalatele dal papa in piazza Navona, «a sermoneggiare l’applauditissimo gesuita padre Oliva, ed invita ad ascoltarlo dame e cavalieri, che vi accorrono come ad un sollazzo».
L’udienza pontificia raggiunge una solennità impensabile: l’ambasciatore di Felipe IV [Re di Spagna successo a Felipe III, ndr] vi si recherà con un seguito di 300 carrozze, ognuna accompagnata da lacchè, mori dalle splendide livree e cavalli bardati.
Poi subentrò una crisi di convivenza tra papa e cognata; lui nominò cardinale il diciassettenne nipote di Olimpia, Francesco Maidalchini, perché prendesse il posto di Camillo Pamphilì. Era un inetto però e Innocenzo lo mise da parte sostituendolo con un altro cardinale nipote, Camillo Astalli, lontano parente della Maidalchini. Ma questa dette in escandescenze; quel nipote non rientrava nei suoi piani. Il vecchio sembrò averne abbastanza e la mise alla porta. L’Astalli acquistò d’importanza ma non tale da poter sostituire il Panciroli quando questi morì nel 1651; nuovo segretario di Stato fu il cardinale Fabio Chigi.
Il papa allora fece tornare a Roma anche Camillo Pamphili con sua moglie, pronta a diventare la nuova «papessa»; questa voleva strafare e la vecchia Olimpia fu richiamata a corte «per mantenere l’ordine domestico», secondo le parole del Ranke. E furono in realtà intrighi e dispetti tra le due Olimpie, che Innocenzo sopportò finché «la Pimpaccia di piazza Navona», come i Romani chiamavano la Maidalchini, rimase di nuovo l’unica incontrastata signora, con buona pace dell’ottantenne pontefice.
Mentre dunque la cognata teneva le chiavi di casa, il papa sì dedicò a far bella Roma. Di finanze si occupò per necessità, dovendo riparare in qualche modo a quella sanguisuga insaziabile che gli stava alle costole e per tutti i lavori di edilizia che curò nella città. Ma nella circostanza si mostrò «energico, abile e deciso», come osserva il Ranke, e «costrinse i baroni a pagare i loro debiti». Esemplare in tal senso fu il comportamento nei confronti del duca di Parma; i suoi creditori rivolgevano in continuazione istanze ad Innocenzo perché costringesse Ranuccio Farnese a pagare. Il vecchio si mosse: prese spunto dall’assassinio del vescovo di Castro, del quale vennero ritenuti responsabili i funzionari del duca, e ordinò che i beni dei Farnese fossero messi in vendita. Le truppe pontificie si diressero verso Castro per prenderne possesso; era il 1649.
Ranuccio pensò di salvarsi come era riuscito al padre Odoardo con Urbano VIII, ma questa volta le potenze europee ormai in pace non l’avrebbero permesso. E Castro fu distrutta. L’ammontare dei debiti comunque era talmente enorme, che il duca non avrebbe mai potuto mettersi in regola con i creditori; e per questo ci fu la mediazione della Spagna.
E poi vennero le imposte straordinarie. Per la sola erezione dell’obelisco in piazza Navona sulla fontana dei Quattro Fiumi del Bernini, ovvero delle quattro fonti dell’acqua Vergine, si ebbe la gabella di un quattrino per libbra sulla carne e sul sale e l’aumento del prezzo del grano, per cui Pasquino commentava:

Noi volerne altro che guglie e fontane;
pane volemo, pane, pane, pane!

Piazza Navona perse il suo carattere paesano; centro fino ad allora del mercato di frutta e verdura, si nobilitò con il rinnovato palazzo Pamphili e la chiesa di S. Agnese, ambedue opera del Borromini: divenne la «Reggia Pamphili»(19). Ma anche molte strade della città furono ampliate e sistemate; il piano di rinnovamento urbanistico avviato da Sisto V e Paolo V proseguì con impegno. Un tocco di modernità lo ebbero anche le prigioni; nelle «Carceri Nuove» di via Giulia fu instaurato per la prima volta in Europa un sistema cellulare improntato a norme d’igiene e sicurezza. Sul Gianicolo, nella regione detta Belrespiro, i Pamphili ebbero infine la loro villa; ad erigerla fu l’Algardi e vi abitò il nipote d’Innocenzo, Camillo, con la sua Olimpia.
Innocenzo X morì il 7 gennaio 1655, dopo una lunga agonia, che permise ai vari parenti di far bottino e mettere al sicuro le sue ricchezze; donna Olimpia fu vista fino all’ultimo arraffare quello che le era possibile negli appartamenti pontifici. Il suo cadavere restò per tre giorni senza che nessuno dei parenti provvedesse a seppellirlo; donna Olimpia, alla quale la Curia si rivolse perché provvedesse lei alle spese per le esequie, rispose che era una «povera vedova» e non poteva incollarsi quell’onere. Nessun altro dei parenti ritenne di avere degli obblighi nei confronti del defunto. La salma alla fine fu trasferita in un locale adibito a magazzino e sistemata in una bara provvisoria; più tardi il nipote Camillo si ravvide e gli eresse un monumento funebre nella chiesa di S. Agnese. I Romani al solito respirarono, ma principalmente avrebbero voluto far fuori donna Olimpia:  

Finita è la foia
di questa poltrona
di piazza Navona:
chiamatele il boia.
Finita è la foia.
…È morto il pastore,
la vacca ci resta:
facciamole la festa,
cavatele il core.
È morto il pastore.

        Negli ultimi anni di vita del pontefice, Olimpia, la delinquente a cui il Papa permise tutto, vendette benefici ecclesiastici per l’importo di 500.000 scudi. Il successore di Innocenzo X la esiliò in uno dei castelli che gli aveva donato Innocenzo ed alla sua morte per peste, nel 1657, lasciò in eredità 2.000.000 di scudi.

        Il successore di Innocenzo fu il suo Segretario di Stato, Fabio Chigi,  che aveva inutilmente protestato a Westfalia. Assunse il nome di Papa Alessandro VII (1655-1667). Fu eletto in modo inconsueto da un gruppo di cardinali che, in apparenza, non risultavano condizionati da questo o quel sovrano o da questo o quel casato. Questi cardinali si ritenevano liberi e volevano puntare ad un Papa che si occupasse esclusivamente di cose religiose restando politicamente neutrale. L’ambasciatore spagnolo chiamò questo gruppo di cardinali, che facevano capo ai cardinali Azzolini ed Ottoboni, lo squadrone volante. Alessandro VII si presentava in linea con quanto auspicato dallo squadrone volante e cioè umile e dedito solo a cose religiose, con il rifiuto del nepotismo. Non volle cerimonie sfarzose ed inutili. Ricordava a se stesso che la morte è dietro l’angolo con una bara (realizzata da Bernini) nel suo studio e con un teschio sullo scrittoio. Poi, ecco poi … vi fu chi si spaventò per quanto avrebbe dovuto subire egli stesso in futuro e nacquero consigli pressanti. Non stava bene per un Papa vivere così, non occorreva dare questo brutto esempio. Alessandro pose il problema in un Concistoro del 1656 e vescovi e cardinali gli consigliarono vivamente con ragionamenti teologici (sic!) di continuare come gli altri Papi. Le apparenze erano salve, si poteva cominciare a spolpare l’osso dei beni dello Stato (e qui siamo con un Chigi che non ha nulla da invidiare ai Colonna, Orsini, Barberini, Farnese, Borghese, Pamphili, …). Da Siena città d’origine dei Chigi scesero, come cavallette, i parenti del Papa che occuparono i posti che Rendina descrive, con altre notizie:

Suo fratello, don Mario, ottenne le cariche più redditizie, dalla sovrintendenza dell’Annona all’amministrazione della giustizia in Borgo. Il nipote Flavio, dopo il noviziato presso i Gesuiti, divenne cardinale e affiancò nella Segreteria di Stato Giulio Rospigliosi, badando essenzialmente ad accaparrare rendite ecclesiastiche che in breve raggiunsero i 100.000 scudi. Un altro nipote, Agostino, fu scelto invece per iniziare la famiglia principesca dei Chigi; rimasto allo stato laicale, da castellano di Castel S. Angelo ricevette via via splendidi possedimenti, come Ariccia e il palazzo di famiglia in piazza Colonna, e si sposò con Maria Virginia Borghese.
E così Alessandro VII, una volta fattasi prendere la mano dal nepotismo, non riuscì più a trattenersi, estendendo i suoi favori anche a lontani parenti, come ad esempio quel commendatore Antonio Bichi che ebbe la porpora cardinalizia. Fu una vera e propria esclusiva scalata alla ricchezza, mentre le motivazioni «politiche» che avrebbero dovuto giustificare il nepotismo, per dar modo al papa di trovare tra i parenti un uomo di fiducia nel governo della Chiesa, risultarono accantonate. Nessuno aveva l’autorità per assumersi certe beghe. E al papa stesso non interessava il papato come potere politico.
Così tornarono in auge le congregazioni di stato, accantonate da precedenti pontefici, con capacità decisionali su questioni di ordine pubblico, dai problemi inerenti la guerra e la pace alle tasse e ai problemi internazionali. Il papa avrebbe badato alle questioni religiose e alle opere di pietà, come infatti fece nel maggio del 1656, quando su Roma si abbatté la peste. Con grande spirito di carità assistette gli appestati, sorvegliò gli approvvigionamenti e, per isolare il contagio, eresse un ospizio nell’isola di S. Bartolomeo.
Si rivelò in papa Chigi l’amore per la vita tranquilla, che trovava nella pace di Castel Gandolfo, dove si ritirava due mesi all’anno d’estate, ma anche nei pomeriggi romani ascoltando i poeti che leggevano alla sua corte le loro opere. Finì probabilmente per mettere da parte quella bara e quel teschio e si compiacque di un po’ di mondanità. E a questo provvide l’arrivo di Cristina di Svezia; dopo aver rinunciato alla corona si era convertita al cattolicesimo. Accettò ben volentieri l’invito fattole dal papa di trasferirsi a Roma nel 1655.

Questa vita grama era costretto a fare il Papa che dovette anche badare ad una principessa che aveva ben capito da che parte si faceva la bella vita.

La principessa ebbe un’accoglienza imponente, facendo ingresso in città in una sontuosa carrozza costruita su disegno del Bernini; il papa la ricevette in concistoro e le conferì la cresima con il nuovo nome di Alessandra. Ma questa donna avrebbe procurato gioie e dolori ad Alessandro VII; colta, orgogliosa ed eccentrica, capì di poter dominare il campo quanto a mondanità nella Roma barocca. Non si può dubitare della sincerità dei suoi sentimenti religiosi, anche se non mancò di criticare le pratiche esteriori di certi culti, e comunque seppe sfruttare la sua posizione e godersi la vita come volle. A Cristina di Svezia si è potuta così adattare la famosa frase di Enrico IV, come giustamente ha sottolineato Cesare D’Onofrio nel libro su di lei, Roma val bene un’abiura. Ci guadagnò Cristina a farsi cattolica, abiurando il protestantesimo e lasciando la noiosa e gelida Svezia per una spensierata e calda città come Roma.
Dal palazzo Farnese, ove pose la sua prima dimora per gentile concessione del duca di Parma, Cristina gestì infatti la vita spensierata della città, diventando la «regina delle feste del gran mondo romano», come ricorda il Castiglioni; «ricercata e acclamata dovunque, la sua vanità non conobbe più limiti. Ricevimenti fastosi, tornei, concerti, mascherate furono organizzati in di lei onore dall’alto clero e dalla nobiltà romana. Gli studenti di Propaganda Fide la salutarono con omaggi stilizzati in ventidue lingue; il gesuita Atanasio Kircher le presentò un piccolo obelisco con un’iscrizione elogiativa in ventitré lingue; e l’università di Roma non volle essere da meno nell’onorare l’ospite illustre».
Tra le manifestazioni più fastose si ricorda il Carnevale del 1656, che furoreggiò in un tale clima d’immoralità da far pentire Alessandro VII di aver invitato a Roma quella «pecora smarrita» che, tornando nell’ovile di S. Pietro, avrebbe dovuto essere d’esempio a conversioni in massa. Erano solo sogni. In realtà gli stessi cardinali le giravano attorno e stavano al gioco, dal Chigi all’Azzolini, divenuto suo amico di fiducia e ipotetico amante.
Fu anche una specie di Mata Hari del tempo, macchinando col Mazzarino la conquista del Napoletano, tradita in questo dal suo scudiere Gian Rinaldo Monaldeschi, che aveva venduto agli Spagnoli i segreti piani della donna; non ci pensò due volte a farlo uccidere. Ma furono seccature diplomatiche a non finire per Alessandro VII così amante della tranquillità, per cui respirò un pò quando Cristina si allontanò un paio di volte da Roma per sistemare la sua situazione finanziaria in Svezia dopo la morte del padre Gustavo Adolfo. Quando tornò, si mostrò più tranquilla, meno eccentrica; si stabilì nel palazzo Riario e si dedicò alla vita intellettuale, dove trovò infine quelle soddisfazioni che la politica non le aveva dato. Il suo salotto sarebbe stato frequentato da letterati ed artisti istituendo una specie di Accademia, progenitrice di quella famosa che, un anno dopo la sua morte, avvenuta nel 1689, avrebbe preso il nome di Arcadia.

Vi è una sola impresa di Innocenzo degna di essere ricordata ed è ancora uno smacco per la Chiesa ed una pessima figura internazionale, questa volta in una controversia con la Francia, dopo la morte di Mazzarino (1661), direttamente con il Re Luigi XIV, il Re Sole. Costui aveva un doppio obiettivo da raggiungere nei riguardi e contro la Chiesa. Da una parte gli sarebbe occorso il sostegno dello Stato Pontificio per far guerra all’Austria e quindi cercava il modo per avvicinarsi al Papa, dall’altra voleva togliere dalla testa di Alessandro quella mania di costituire una Lega contro i Turchi per liberare il Santo Sepolcro. Il tutto si giocò su una provocazione che partì dall’ambasciatore di Francia a Roma che mise in moto con i suoi soldati di scorta (da Parigi ne aveva portati 200). Questi attaccarono dei soldati pontifici che risposero con due colpi di archibugio, una delle quali colpì la carrozza dell’ambasciatore che tornava alla sua residenza a Palazzo Farnese. Un paggio morì e da qui nacque la protesta del Re di Francia che cacciò da Parigi il nunzio pontificio, si annesse Avignone ed altri possedimenti della Chiesa preparando un esercito per invadere lo Stato Pontificio. Servì una mediazione spagnola per arrivare alla umiliante Pace di Pisa del 1664. La Chiesa riprese solo Avignone, in cambio del ducato di Castro che sarebbe tornato ai Farnese, ma dovette mandare il Segretario di Stato, Flavio Chigi, ed un altro cardinale direttamente a Parigi a chiedere scusa al Re. Insomma la Chiesa era diventata politicamente insignificante ed era diventata facile bersaglio di chiunque volesse mostrare la sua potenza.

        Il conclave che elesse il successore fece dire all’ala filofrancese di aver vinto ma anche l’ala filospagnola sosteneva lo stesso. Il cardinale eletto fu Giulio Respigliosi che assunse il nome di Papa Clemente IX (1667-1669) e che fu in definitiva neutrale. Si fece subito fama di uomo umile e probo riscuotendo successo tra la popolazione per aver abbassato la tassa sul macinato, per aver istituito una mensa per i poveri, per fare visite agli ammalati. Molti storici parlano delle sue buone intenzioni che restarono intenzioni perché operò solo in modo appariscente senza intaccare in fondo i privilegi che erano la cosa più odiosa. Tra questi quelli accumulati dai parenti di Alessandro VII, i senesi, che il Papa non toccò con grande dispiaceri dei concittadini pistoiesi del Papa che avrebbero ambito occupare quei posti. Ma la direzione della Chiesa andava assestandosi stabilmente su posti occupati da grandi famiglie, posti che non si intendevano più cedere e che fu possibile proprio grazie alla politica dello squadrone volante a partire da Clemente IX che portò alla Segreteria di Stato quel Decio Azzolini che era uno degli animatori di quello squadrone. Papa ed Azzolini, subito dopo l’elezione, distribuirono tra i cardinali ed i massimi esponenti della Curia ben 600 mila scudi, una somma che, come osserva Rendina, una volta sarebbe stata inquadrata in simonia, ora era invece una semplice tangente. Ciò comportò un nepotismo controllato, con le stesse modalità precedenti ma con un salario per gli incarichi ai nipoti ordinario per quella funzione. I Rospigliosi calarono a Roma da Pistoia, si costruirono una ricca magione e fecero feste con grande sfarzo ma questa volta i debiti che facevano dovevano pagarseli da soli. La cosa riuscì loro grazie ad un matrimonio d’interesse con una ricca ereditiera, una Pallavacini(20) di Genova.

        L’operato del Papa fu comunque teso a recuperare un minimo di credibilità internazionale e la cosa gli riuscì perché era benvoluto da Luigi XIV con cui riuscì ad attenuare l’umiliante Pace di Pisa e quindi a poter intervenire religiosamente in Francia nella vicenda dei giansenisti con una pace, nota come Pace Clementina. Forte di questa ripresa il Papa riuscì addirittura a fare da paciere (Aquisgrana, 1667) tra Francia ed Olanda spagnola quando Luigi XIV la invase e convinse Luigi XIV a fornire truppe per aiutare Venezia contro l’ossessione dei Turchi. La spedizione a Creta andò male (fu perso l’ultimo baluardo veneziano nella zona, Candia) ciò produsse un colpo apoplettico al Papa che, essendo un poco più civile dei suoi predecessori, con una regola che vale spesso, lasciò dopo poco più di due anni il soglio pontificio.

        Il successivo conclave fu una lotta di 5 mesi tra la fazione spagnola e quella francese, aiutata anche dall’esterno dai rispettivi ambasciatori. Poiché non si riusciva a superare lo stallo si puntò di nuovo su un Papa neutrale. Fu eletto il cardinale ottantenne Emilio Altieri che assunse il nome di Clemente X (1670-1676) senza il suo accordo. “Sono troppo vecchio per affrontare una responsabilità così grande“. Il novello Celestino V continuò a rifiutare, affermando che non aveva più forza o memoria. Fu trascinato dal suo letto gridando “Non voglio essere il Papa!” e fu incoronato. Si fece subito affiancare dal cardinale Paluzzo Paluzzi degli Albertoni (un nipote del quale era sposato con sua nipote) per svolgere tutti quei compiti che data l’età il Papa non era in grado di svolgere. Tentò comunque Clemente X di seguire la politica del predecessore in cerca di pacificazione in Europa ma questa volta andò molto male. Luigi XIV spadroneggiava in Europa e, di nuovo, attaccò l’Olanda spagnola. Il Papa provò a dire qualcosa ma non fu ascoltato. Inoltre Luigi XIV utilizzava il movimento giansenista per poter avere maggiore ingerenza negli affari della Chiesa incamerando quanto rendevano le sedi dove non vi era un vescovo (le regalie). Anche qui ampie proteste ma silenzio assoluto da parte del sovrano francese.

        Uniche soddisfazioni gli vennero dalla Polonia dove, grazie al Re Sole, riuscì ad essere eletto un Re cattolico che prometteva essere l’ultimo baluardo cattolico in Europa contro i Turchi ed a tale sovrano il Papa fece arrivare i finanziamenti della Chiesa. E lo spirito crociato lo accompagnò per l’intero Giubileo del 1675 che passò abbastanza poco frequentato.

        Data l’età e lo spirito umile del personaggio poté essere nepotista solo con i Paluzzi. E’ quasi divertente pensare alla gran fretta con cui questi personaggi costruirono il Palazzo Altieri preoccupati di una prossima dipartita del benefattore che aveva ormai 85 anni.

        Alla sua morte, solito conclave con solite fazioni e questa volta il Re Sole riuscì ad influenzare l’elezione del nuovo Papa anche se, a conti fatti, non gli risultò conveniente. Fu eletto il cardinale Benedetto Odescalchi (anch’egli sembra che non volesse essere eletto) che assunse il nome di Innocenzo XI (1676-1689). Il suo pontificato iniziò con accentuato piglio riformatore, meglio sarebbe dire bigotto. Il suo essere rigido ed austero nelle finanze fu un toccasana per uno Stato Pontificio alla bancarotta e, gradualmente i bilanci tornarono in attivo ma solo alla fine del suo pontificato. Aiutò molto la sua avversione al nepotismo ed in proposito aveva preparato un Bolla che non fu pubblicata per l’aperta e dura avversione dei cardinali che erano chiamati a giurare per il futuro. Rendina descrive bene lo spirito austero e dignitoso con cui Innocenzo affrontò la questione morale ed il modo con cui tentò di regolare i rapporti con il Re Sole:

Assegnò la Segreteria ci Stato al suo amico, il cardinale Alderano Cibo, del quale si fidò ciecamente, e con lui programmò una lotta senza quartiere ad abusi e scandali di corte, denunciando ogni forma di corruttela. In un concistoro scongiurò i cardinali di abbandonare carrozze e livree per un tenore di vita più ecclesiastico; con una serie di leggi dette «innocentine» diminuì le spese dei tribunali per purificarli da ogni apparenza di venalità,
In quest’opera di rigida osservanza dei principi morali rientra anche l’atteggiamento severo preso da Innocenzo XI contro il «probabilismo lassista», allora particolarmente sostenuto da alcuni Gesuiti; per soffocare certa tendenza anti-regolista egli riuscì a trovare un valido appoggio in Tirso Gonzales, docente all’università di Salamanca, che divenne poi generale dell’Ordine. La seria preoccupazione di mantenere pura la dottrina cattolica sulle questioni di fede e di costume si manifestò nella ferma azione condotta contro il «quietismo», unia subdola corrente mistica che faceva capo al sacerdote secolare spagnolo Miguel de Molinos. Arrestato e tradotto davanti al tribunale d’Inquisizione, egli riconobbe gli errori dei suoi insegnamenti tendenti a trascurare tutte le pratiche di pietà esteriore; li abiurò, ma fu condannato ugualmente al carcere a vita. Furono perseguitati tutti i suoi seguaci, tra i quali era però un cardinale, il vescovo Pietro Petrucci, autore di alcuni scritti ispirati al Molinos; Innocenzo gli evitò di comparire davanti all’Inquisizione, gli lasciò tutte le dignità, ma le sue opere furono poste all’Indice. Un processo ad un cardinale sarebbe stato diffamante per la Santa Sede.
Povero Innocenzo ! non sapeva di esser proprio «solo» in quest’opera di moralizzazione. S’illudeva, mentre non avrebbe dovuto fidarsi neanche del cardinal Cibo, che invece si teneva sempre vicino, come ricorda Pasquino con ironia;
 

È l’Odescalchi un’affamata fiera
che chiede Cibo ognor, da mane a sera,
 

Ma anche lui lo tradì perché, come ricorda il Giuntella, «conservò ad insaputa del papa una pensione del re di Francia», vale a dire, oltretutto, del suo più diretto nemico, con il quale il papa combatté da pari a pari. Tutto dipendeva dalla questione delle «regalie», venuta fuori sotto Clemente X; il re Sole non ci pensava nemmeno lontanamente a rinunciare a quel diritto della corona. Lo considerava inalienabile, forte anche dell’appoggio che il clero francese gli dava pur di opporsi all’autorità del papa in un insorgente rinnovato spirito d’indipendenza nazionalista. Questo si evidenziò nella celebre «Dichiarazione del clero gallicano sul potere della Chiesa» formulata nel 1682 dal vescovo di Meaux, Jacques Bossuet, approvata dall’assemblea ecclesiastica e registrata dagli Stati Generali per ordine del re.
Articolata in quattro punti, essa contemplava l’indipendenza del potere laico da quello ecclesiastico, la superiorità del concilio sul papa, l’intangibilità delle tradizioni canoniche francesi e l’infallibilità del papa sulle questioni di fede, condizionata però al consenso della Chiesa universale. La «Dichiarazione» era e restò poi una sorta di manifesto delle libertà gallicane, che il re Sole elevò al rango di articolo di fede, da insegnarsi come dottrina in tutte le scuole del regno. Se il papa si astenne dal condannare definitivamente i quattro articoli, è perché sperava di arrivare ad un accomodamento amichevole. Si limitò a riprovarli, rifiutando cioè l’approvazione di tutti i candidati vescovili proposti dal re che avevano partecipato all’assemblea del clero. Ben 35 diocesi francesi risultarono vacanti; i neoeletti potevano godere delle entrate delle diocesi, ma non avrebbero ricevuto l’ordinazione e non potevano quindi esercitare le funzioni ecclesiastiche proprie del vescovo.
Il re Sole volle allora mostrare le buone intenzioni di perfetto ortodosso, scatenando una crudele campagna contro gli ugonotti; si aspettava una resa del papa con quel bel servizio reso alla Chiesa cattolica e all’Inquisizione, che certo avrebbe fatto impazzire di gioia un Gregorio XIII. Ma la risposta d’Innocenzo lo lasciò interdetto: «Cristo non si è servito di questo metodo; bisogna condurre gli uomini al tempio, non trascinarveli dentro». Era un rifiuto dei metodi di costrizione alla Pio V.
Allora Luigi XIV provocò il papa con un altro mezzo. Quando una bolla del 1687 dichiarò decaduta la «libertà di quartiere», cioè l’immunità diplomatica di un’ambasciata sul quartiere romano in cui essa si trovava, la Francia si rifiutò di rispettare quel decreto, accettato invece dalle altre nazioni. Era in effetti dettato da norme di ordine pubblico per rendere più libera l’attività della magistratura e della polizia pontificia, e quindi risultava «protettiva» anche nei confronti dell’ambasciata stessa.
L’ambasciatore francese Henri Lavardin si presentò a Roma con un paio di squadroni di cavalleria, pretendendo spavaldamente il diritto d’asilo ad ampio raggio. «Essi vengono con cavalli e cariaggi», commentò Innocenzo, «noi vogliamo andare avanti invece nel nome del Signore»; pose l’interdetto sulla chiesa di S. Luigi e scomunicò l’ambasciatore. Il re Sole rispose da Parigi appellandosi ad un concilio ecumenico su tutte le controversie, ma contemporaneamente fece occupare Avignone e impedì al nunzio pontificio Angelo Ranuzzi di tornare a Roma; in pratica lo trattenne in stato d’arresto. Infine minacciò d’invadere lo Stato pontificio; ma non giunse a tanto.
Era comunque la rottura completa tra la Francia e la Chiesa di Roma, con uno scisma operante, seppure non apertamente dichiarato, che non si sarebbe composte in tempi brevi, con tante divergenze insolute. Innocenzo XI tuttavia pensò di colpire Luigi XIV screditandolo su un piano internazionale, appoggiandosi agli Stati che si opponevano in Europa alla sua egemonia; e si ritrovò, senza volerlo, alleato con i protestanti.
Inviò infatti notevoli sussidi in denaro al principe Guglielmo d’Orange, che aveva assunto il comando supremo sul Reno in difesa dei diritti dell’impero e della Chiesa contro Luigi XIV; il papa era all’oscuro invece delle trame inglesi tendenti a detronizzare il cattolico re Giacomo ed offrire il trono alla principessa d’Orange. E si arrivò al controsenso che, mentre «alla corte di Roma dovevano stringersi le fila di un’alleanza che si proponeva, e che realizzò, il fine di liberare il protestantesimo dell’Europa occidentale dall’ultimo grave pericolo che lo minacciava, e di garantire perpetuamente il trono d’Inghilterra alla confessione protestante», come ha mirabilmente evidenziato il Ranke, «i protestanti d’altra parte, difendendo l’equilibrio europeo contro la “potenza esorbitante” dovevano contribuire a che questa cedesse anche alle rivendicazioni ecclesiastiche del papato».

Ancora in politica estera il Papa poté finalmente festeggiare due importanti vittorie contro i Turchi. Nel 1683 vi fu un’importantissima vittoria delle armate cristiane alle porte di Vienna e nel 1686 si riuscì a liberare la città di Buda che dette il via alla liberazione di gran parte dei Balcani. Ma queste vittorie non assumevano più il valore di una religione su di un’altra. Ormai i termini delle contese e delle guerre erano diventati eminentemente politici.

        Nel discutere di queste vicende ve ne era una apparentemente minore che non deve essere dimenticata: questo Papa fu il primo che prese a cuore il problema del commercio degli schiavi sui quali riceveva relazioni dai missionari nel mondo.

        Per ritornare infine al titolo di bigotto lo si ricava dal suo operato in ambito culturale. Innocenzo fece chiudere i teatri di Roma lasciando solo quelli dove si eseguiva musica sacra. Nel 1679 condannò pubblicamente sessantacinque proposizioni, prese dagli scritti di vari letterati, come propositiones laxorum moralistarum e vietò a chiunque di insegnarle, pena la scomunica. Da non dimenticare infine che anche Innocenzo non riuscì a fare a meno dell’Inquisizione scagliandola soprattutto contro i valdesi, come del resto aveva fatto Alessandro VII(21).

        Il successore fu quel cardinale Pietro Ottoboni che, insieme ad Azzolini, era stato animatore dello squadrone volante. Fu eletto in mezzo alle solite lotte di potere tra i soliti francesi e spagnoli ai quali questa volta si aggiunsero gli austriaci. Ottoboni stava per avere il veto dalla Francia ma, quando i rappresentanti francesi lo udirono fare commenti sul predecessore e criticarlo per varie posizioni assunte tra cui la rigidezza dei costumi, anche il Re Sole si schierò dalla sua parte. Eletto Papa con il nome di Alessandro VIII (1689-1691) mantenne le sue promesse sui costumi che tornarono agli splendori abbandonati per qualche anno. Già da cardinale si era distinto per i favori fatti a parenti e conoscenti ed alla sua città, Venezia. Da Papa, pur avendo regnato meno di un anno e mezzo, arricchì in modo vergognoso tutti i parenti nominandoli in posti di prestigio e soprattutto molto ben remunerati. Tra essi spicca il nipote diciottenne, anch’egli Pietro, fatto cardinale. Pasquino scrisse:

Pietro spogliò Pietro,
per vestire Pietro.

Eh si, perché il nipotino spendeva e spandeva in una vita lussuosa e libertina tanto che era sempre dallo zio Pietro a chiedere e chiedere  senza avere mai un rifiuto. Aveva fretta di far arricchire i suoi e glielo diceva, Affrettiamo al possibile, perché sono sonate le 23 hore ! e cioè Sbrigatevi perché sono avanti negli anni e potrei morire ! E tutti i parenti, ma proprio tutti, ne approfittarono. Come quel Marco che gobbo e zoppo fu messo a capo delle galere pontificie e fatto sposare con Tarquinia Colonna, pronipote del cardinale Altieri.

        Luigi XIV intanto aspettava che il Papa ricambiasse il favore abrogando molte decisioni del predecessore e per far vedere la sua buona volontà lasciò libera Avignone e rinunciò alla libertà di quartiere. Anche il clero di Francia attendeva le nomine dei vescovi sulle sedi vacanti. Ma niente.

        Fu invece generoso con Venezia con motivo dei sempiterni Turchi con cui la città era in conflitto. Fece molte rimesse di denaro ed inviò anche sette galere e 2000 soldati che dovevano servire alla guerra ora spostatasi in Albania. La morte arrivò nel 1691 per impedire ulteriore depredazioni.

        Intanto accadevano cose di enorme importanza in Inghilterra, avvenimenti che avrebbero cento anni dopo dato un colpo mortale alle velleità della Chiesa.

LA RIVOLUZIONE INGLESE    

        Elisabetta I Tudor morì nel 1603 e, alla fine della dinastia Tudor, il potere in Inghilterra passò a Giacomo I Stuart che si trovò un regno composto di Inghilterra anglicana, Irlanda cattolica e Scozia calvinista. Si possono capire i gravi problemi soprattutto religiosi che Giacomo I dovette affrontare fino al 1625 quando, alla sua scomparsa, la corona passò al figlio Carlo I Stuart. Da questo momento iniziarono gravi problemi di scontro tra il Re ed il Parlamento a partire da questioni fiscali. Nel 1628 il Parlamento approvò una petizione al Re, la Petition of Right, in cui chiedeva al Re il riconoscimento di alcuni diritti: non si dovevano imporre tasse ai cittadini senza che il Parlamento le approvasse; non si doveva privare un cittadino della libertà senza un processo regolare; un libero cittadino non deve essere affidato a tribunali speciali; un libero cittadino non può essere obbligato di alloggiare truppe nella sua casa. Carlo I non tenne conto di queste richieste e si mosse in modo da aumentare il malcontento. In particolare applicò a tutti i cittadini una legge che aveva valore solo in tempo di guerra secondo la quale solo le città marinare dovevano pagare una certa tassa (ship money). Ma l’Inghilterra non era in guerra e Carlo I per riscuotere la tassa si infilò in un conflitto esistente in Scozia. Restava comunque aperta la questione della tassa che era solo per città marinare. Questa fu la scintilla che che portò alla Prima Rivoluzione Inglese, ma insieme vi erano questioni religiose che Carlo I tentava di regolare d’autorità anche con conversioni forzate e spostamenti di popolazione da una regione ad un’altra.

        Carlo I, di fronte ad un Parlamento non ubbidiente, lo sciolse (1629) iniziando a governare come un monarca assoluto. E come ogni assolutista iniziò a elargire terre dell’Irlanda cattolica, che non si convertiva alla religione ufficiale, ai Pari d’Inghilterra ed ai suoi favoriti. Alle terre si accompagnavano grandi elargizioni di denaro, tali da preoccupare i tesorieri. Questo insieme di provvedimenti creò profonda indignazione nella società inglese. L’arbitrio del Re, che erogava a piacimento uffici e benefici, e l’avidità di favoriti ed arrivisti stava intaccando i meccanismi protettivi delle corporazioni e dei mestieri. Lo scontento era generale: commercianti ed artigiani contro i nobili; la piccola nobiltà contro i Pari; i Pari contro i favoriti del Re. La risposta al malcontento fu del tutto inadeguata e l’assolutismo aggravò i problemi con l’introduzione di nuove tasse e con il tentativo di uniformare tutti alla Chiesa Anglicana. Quest’ultima poi era, e come no ?, completamente schierata con il Re approvando norme di disciplina e principi dottrinali che riconoscevano il suo diritto divino.

        Il grande malcontento e l’incapacità di gestire alcune situazioni politiche fecero sì che il Re riconvocasse il Parlamento. Dopo una prima fase incerta, esso riuscì a diventare una vera forza rappresentativa del popolo che affrontò guidandola una durissima lotta contro la monarchia (1640-1660). Questo Parlamento definì anche le proprie prerogative (1641): il suo diritto di restare in sessione fin quando fosse ritenuto necessario; il suo diritto di non essere sciolto da autorità esterna; il suo diritto di nomina di vescovi e capi militari; il diritto di decidere sulla legalità o meno di determinate tasse. A lato di ciò dichiarò aboliti i Tribunali speciali; affermò che l’unica fonte di legge dovesse essere il diritto comune (Common Law); cancellò le leggi arbitrarie del Re; si costituì come Tribunale che processò e condannò a morte i due  più fidati mi9nistri del Re ed il capo della Chiesa anglicana (1641). Tutto questo mise in moto varie reazioni con scontri militari che, dalla parte del Parlamento, videro emergere la figura del gentiluomo puritano Oliver Cromwell. Costui aveva messo insieme, contro la corruzione e l’idolatria rappresentate da Carlo I, uno strano esercito di volontari che combattevano leggendo i Salmi della Bibbia e si organizzavano con dispute teologiche. Erano ben pagati con le tasse riscosse dal Parlamento e combattevano con la fede contro l’esercito del Re, riuscendo ad avere la meglio. Nel 1645 vi fu la sconfitta definitiva di Carlo I. Il tiranno cercò rifugio in Scozia ma gli scozzesi lo consegnarono al Parlamento inglese in cambio di denaro. Questo personaggio fu processato e condannato a morte. Fu decapitato nel 1649 quando il Parlamento e Cromwell decisero l’abolizione della monarchia e l’istituzione della Repubblica (Commonwealth). Cromwell viene nominato Lord Protettore della Repubblica ed esibisce un programma basato su: salvaguardia del diritto di proprietà, indipendenza della chiesa dallo stato, libertà religiosa, eliminazione di tutte le opposizioni estremistiche (1653). Ma Cromwell entrò subito in conflitto con i repubblicani intransigenti del Parlamento. Egli quindi lo sciolse (1655) ed iniziò un vera dittatura militare che durò fino al 1658, quando morì. Si tentò di proseguire con il figlio di Cromwell ma il malcontento generalizzato ed un esercito condotto da un ex seguace di Cromwell (George Monk) restituì i poteri al Parlamento e restaurò la monarchia (1660) nella persona di Carlo II Stuart, figlio di Carlo I. Non si trattava però di un ritorno al passato perché nessuno pensò più di togliere potere al Parlamento e sovrani assoluti non ve ne furono più.

        Ma un Re è sempre un Re e con Carlo II ricominciò l’arbitrio, la corruzione, il nepotismo e l’intolleranza religiosa. Si aggiungano poi le aperture sospette al cattolicesimo(22). Fu il Parlamento a prendere in mano la situazione difendendo i diritti civili acquisiti, votando le leggi che escludevano i cattolici dalle cariche pubbliche (Test Act, 1672, 1673, 1678) e quella che escludeva il fratello del Re, Giacomo (che sarebbe stato Giacomo II), dalla successione perché cattolico (Exclusion Bill, 1678). Questa legge non impedì a Giacomo II di accedere al trono alla morte del fratello (1685) e di far finta che il Parlamento non esistesse. In poco tempo abrogò varie leggi parlamentari come il Test Act e l’habeat corpus (il giusto processo). Sciolse la Camera dei Comuni e riprese cordiali relazioni diplomatiche con il Papa. Vi furono rivolte represse con estrema durezza. Le proteste si acquietarono pensando che Giacomo non aveva discendenza e presto avrebbe terminato il suo dispotismo di Re cattolico. La successione sarebbe andata a Guglielmo d’Orange di sicura fede protestante. Ma inaspettatamente nel 1688 venne fuori l’erede di Giacomo II. Iniziarono allora le rivolte che il Parlamento seppe indirizzare. Fu chiesto a Guglielmo d’Orange di intervenire. Questi attraversò la Manica ed entrò trionfalmente a Londra. Il Parlamento dichiarò decaduto Giacomo II che scappò rifugiandosi in Francia da Luigi XIV.

        Non si trattava comunque del solo cambiamento di una dinastia ma dell’inizio di quella che fu chiamata Gloriosa Rivoluzione che fu sancita da due atti di fondamentale importanza: la cacciata di Re Stuart fu basata su l’inadempienza di questi del contratto originario e fondamentale tra Re e Popolo; la dichiarazione dei diritti in cui erano elencate le leggi e le libertà fondamentali che tutti i sovrani dovevano giurare di rispettare prima di essere proclamati Re. Il potere del Re veniva definitivamente sottomesso al Parlamento, con la conseguenza che nasceva un nuovo tipo di Monarchia, quella costituzionale. In questi ultimi atti non vi fu spargimento di sangue, per questo ci si riferisce alla Rivoluzione Inglese come pacifica (anche se precedentemente vi furono varie guerre che provocarono molti morti).

        Questa Rivoluzione fu il seme dal quale si alimentarono tutte le Rivoluzioni liberali europee (e non solo) del XVIII e XIX secolo. Nel Parlamento si costituì subito il Partito Whig che diventerà poi Partito Liberale un membro del quale sarà quel John Locke, primo teorico dei regimi liberali a cominciare dai suoi Due Trattati sul Governo del 1690. Le funzioni fondamentali dello Stato liberale sono in sintesi quelle di tutelare la libertà, l’uguaglianza, la vita e la proprietà dell’individuo con la negazione dei privilegi dell’aristocrazia e del clero e dell’origine divina del potere del sovrano. E Locke definisce anche una giustificazione etica della rivoluzione, il diritto di resistenza che ciascun individuo può e deve esercitare quando lo Stato agisce in contrasto con la volontà popolare od in contraddizione con i principi costituzionali. E’ uno degli aspetti dell’Illuminismo che riempirà di sé il XVIII secolo fino allo scoppio della Rivoluzione Francese.

        Ritornando alle vicende della Chiesa, il successore di Adriano VIII si troverà a che fare con una Inghilterra non solo anglicana ma patria di quella modernità che la Chiesa aborrì ed aborrisce.

DAI CRIMINALI AGLI INCAPACI

        Dopo un conclave lunghissimo (5 mesi) con lotte furibonde tra differenti fazioni, con lo squadrone volante che cercava di imporsi e con tumulti e proteste popolari ed anche con una nuova fazione, quella degli zelanti(23) (che avevano maturatol’idea che una riforma della Curia fosse ormai improrogabile, e che la pratica del nepotismo non fosse proprio più difendibile), fu eletto il cardinale Antonio Pignatelli, uno degli zelanti, che assunse il nome di Innocenzo XII (1691-1700), battezzato Pulcinella da Pasquino, ma solo per il suo aspetto fisico. Innocenzo fu infatti un uomo di Chiesa un vero uomo dedito a rimettere un poco di ordine nel disastro e nella corruzione generalizzata. La principale attività di riforma nella Curia e della Chiesa fu indirizzata contro il nepotismo innanzitutto con il suo esempio. Impedì ad ogni suo parente di mettere piede in Vaticano e quando, dovendo nominare dei cardinali, gli fu fatto il nome dell’arcivescovo di Taranto come persona degnissima egli rispose: E’ vero ma è mio nipote, e quindi non nominato. Ma al di là degli aneddoti egli operò contro il nepotismo innanzitutto con una costituzione, la Romanorum decet Pontificem del 1692, quindi con un libretto, che incaricò di scrivere a Celestino Sfrondati, il Nepotismus theologice expensus, quando nepotismus sub Innocentio XII abolitus fuit, nel quale vi era una ricostruzione storica degli enormi danni provocati dal nepotismo. Infine pretese ed ottenne il giuramento dei cardinali (unito al suo) sulla costituzione contro il nepotismo.

        Anche la sua attività di pontefice fu esemplare: fu caritatevole con i poveri; aiutò le donne inabili al lavoro alloggiandole in Laterano, ormai non più abitato dai pontefici trasferitisi al Quirinale; anche gli uomini privi di lavoro furono ospitati a San Michele a Ripa Grande; affrontò le grandi calamità che si abbatterono su Roma (peste, terremoto ed inondazione del Tevere) dando fondo alle riserve di cassa del Vaticano con cui dette soccorso ed assistenza a tutti i disastrati (come egli diceva, i suoi veri nipoti).

        Altri suoi interventi riguardarono la migliore organizzazione delle dogane e l’unificazione dei tribunali nel nuovo Palazzo di Montecitorio (architetto Fontana) allora chiamato Curia Innocenziana. Soprattutto intervenne sul lassismo ella Curia e del clero istituendo la Congregazione per la disciplina del clero che doveva essere rispettata pena la riduzione allo stato laicale. Vedremo oltre come andrà a finire.

        A livello di politica estera si occupò delle missioni in Asia, Africa ed America incrementandole ed anche di cercare di risolvere le controversie con la Francia del Re Sole riuscendovi solo in parte, nel senso che almeno il paventato scisma si allontanò, ma dovendo rinunciare ad una autorità totale sul clero francese che si mantenne abbastanza autonomo da Roma e con il Re che affermò di non poter intervenire. Comunque la credibilità, non tanto della Chiesa quanto di questo Papa, crebbe al punto che Carlo II di Spagna (figlio di Felipe IV ed ultimo Asburgo di Spagna), non avendo figli, chiese al Papa a chi lasciare il trono. Inn0ocenzo affidò la questione ad una commissione che si pronunciò in favore dei figli dell’erede al trono di Francia, sposo di Maria Teresa che era sorella maggiore di Carlo II. Questo parere fu preso in considerazione e così si fece nel testamento di Carlo II. Carlo II morì nell’anno in cui morì Innocenzo ed ambedue non videro la conclusione della vicenda che provocò una guerra.

        Poi venne il giubileo del 1700, evento che Innocenzo non riuscì a portare a termine per la sua scomparsa.

        Ilo conclave che seguì vide lo squadrone volante impegnato nella prosecuzione della politica di Innocenzo, riforma della Chiesa e neutralità internazionale. Ma la vicenda della successione spagnola aveva riscaldato gli animi e, proprio mentre il conclave era in corso, arrivò la notizia della morte di Carlo II. Quanto messo a testamento da Carlo II su indicazione della commissione di Innocenzo, la successione cioè spettante a Filippo d’Angiò nipote di Luigi XIV, non fu tenuto in conto e vi fu chi rivendicò quel trono, e cioè Leopoldo I d’Austria (o d’Asburgo o del Sacro Romano Impero), figlio di Ferdinando III d’Austria e nipote di Felipe III di Spagna da parte di madre  (Leopoldo aveva varie ragioni per rivendicare quel trono). Il problema, gravissimo, scoppiò nel 1701 con il Trattato dell’Aia con il quale l’Inghilterra e le province olandesi si allearono con Leopoldo I per sostenere i suoi diritti al trono di Spagna e, contemporaneamente, difendere i propri diritti sulle rotte commerciali marittime, seriamente minacciate dalla nuova alleanza franco-ispanica che proprio il Papa Innocenzo aveva aiutato a costruire. Questa situazione portò alla guerra di successione spagnola del 1702 che vide allearsi a Francia e Spagna Vittorio Amedeo II di Savoia ed i Principi di Baviera e Colonia. Intanto nel 1703 Filippo d’Angiò salì al trono di Spagna con il nome di Felipe V.

        Il Papa tentò una neutralità alla quale nessuno credette anche perché egli stesso aveva inviato ingenti finanziamenti a Felipe V prelevati dalle casse della Chiesa. Alla morte di Leopoldo I nel 1705, il suo successore Giuseppe I d’Asburgo non attese oltre e distolse parte dell’esercito impegnato con la Francia per invadere lo Stato Pontificio (1708). Clemente sperò in un aiuto dei francesi prima che gli imperiali arrivassero a Roma. Ma tale aiuto non venne e ciò costrinse Clemente ad un trattato con il quale riconosceva l’arciduca Carlo, fratello di Giuseppe, legittimo Re di Spagna. Un Papa era di nuovo riuscito a rendere ridicola la posizione della Chiesa sul piano dei rapporti internazionali. Il Re di Francia si indignò per il voltafaccia e Clemente si trovò a tale mal partito che più volte manifestò l’intenzione di dimettersi da Papa. E ciò faceva piovere sul bagnato perché la stima che aveva precipitò al suolo tanto che lo stesso Giuseppe non prese neppure in considerazione la restituzione delle terre di Romagna che aveva occupato quando invadeva lo Stato della Chiesa. Come conseguenza grave vi fu la totale estromissione della Chiesa ai trattati di pace che seguirono la guerra di successione (Trattato di Utrecht del 1713 tra Francia ed Inghilterra e Trattato di Rastatt del 1714 tra Francia e Carlo VI d’Asburgo, succeduto a Giuseppe I nel 1711), trattati che definirono la struttura dell’Europa fino a circa il 1850. In proprio la Chiesa perse il Ducato di Mantova e quello di Piacenza e Parma.

        La credibilità della Chiesa era definitivamente perduta e ciò ebbe una ricaduta in campo interno, in Italia, dove il Papa perse sempre più credito avviando un lento ma inesorabile processo di laicizzazione. Clemente tentò di recuperare la sua credibilità con la popolazione facendo opere di bene, distribuendo denaro, facendo il mecenate, costruendo opere pubbliche anche fuori Roma, facendo il nepotista con la sua città d’origine piuttosto che con i nipoti e ripristinando il gioco del lotto. Ma non ci fu nulla da fare perché risultò sempre impacciato ed incapace i gestire gli affari di Stato e con un credito demolito del tutto.

        Il nuovo conclave fu una ripetizione delle solite rivalità politiche, questa volta con Francia e Spagna insieme contro l’Austria. La vinse così un neutrale molto malandato e debole che, tutti pensarono, avrebbe comunque permesso a tutti di continuare con i propri comodi. Fu eletto il cardinale Michelangelo Conti, colui che dorme sempre come diceva Pasquino, che assunse il nome di Papa Innocenzo XIII (1721-1724). Non era proprio all’altezza, il pover’uomo. Anche come nepotista non fu bravo perché riuscì a nominare solo un suo fratello cardinale. Politicamente ebbe un duro scontro con i Gesuiti che avrebbero incarcerato altri missionari. Niente altro da segnalare avviandoci al successivo conclave ripetizione dei precedenti con, di nuovo, lo squadrone volante che vinse tra i contendenti dei soliti Paesi (Francia, Spagna, Austria). Fu eletto il cardinale  Pier Francesco Orsini che assunse il nome di Papa Benedetto XIII (1724-1730). Era della famigerata famiglia Orsini ma si rivelò mite ed austero anche se assolutamente incapace di essere all’altezza del suo compito e, come scrisse il cardinale Prospero Lorenzo Lambertini, futuro Papa Benedetto XIV, non aveva la minima idea di ciò che è governare.

        Fece l’asceta vivendo quasi da povero con la sua massima occupazione che fu, insieme alle funzioni religiose, la modifica delle fonti battesimali nelle chiese in modo da riportare il battesimo alle origini con l’immersione. Questa attività di Benedetto fu descritta anche da Montesquieu  nel suo Voyage d’Italie (1728).

        Benedetto ebbe anche il culto dei santi e fece molte canonizzazioni. Criticò aspramente il lusso dei cardinali e si pronunciò contro l’uso di barbe e parrucche da parte degli ecclesiastici. Regolò il modo di vestire con sanzioni dure: tra l’altro si prevedeva l’abito lungo per gli ecclesiastici ma senza strascico. Ai Gesuiti vietò qualsiasi polemica. Vietò il peccaminoso gioco del Lotto legandolo all’usura e decretò pene maggiori, anche di carcerazione e denuncia all’Inquisizione, per le donne perché più vi ricorrevano. Conseguenza di ciò fu che molti soldi andarono ad arricchire le ruote di altri Stati, ruote sulle quali i romani passarono.

        Il suo zelo religioso fu appagato con il giubileo del 1725 quando ebbe anche modo di inaugurare la scalinata di Trinità dei Monti. Ed egli pensava che Roma fosse una città santa, ma si illudeva e di molto. L’osservatore attento e distaccato Montesquieu annotava: Una pubblica simonia regna oggi a Roma; non si è mai visto, nel governo della Chiesa, regnare il delitto così apertamente. Uomini vili sono preposti da ogni parte alle cariche [300 anni sembrano passati invano ! ndr].

        Poiché era incapace di ogni azione di governo, il poveretto si era fidato di un bandito, l’arcivescovo di Benevento Niccolò Coscia, al quale aveva affidato il governo delle finanze e della politica. Coscia portò la gestione dello Stato Pontificio al disastro finanziario con un traffico indecente di favoritismi e malaffare, arricchendosi spudoratamente e con tutto il denaro di Roma che va a finire a Benevento (Montesquieu). Inoltre, poiché il Papa è un debole ed incapace, che ritiene calunnie quelle rivolte contro Coscia, sono i Beneventani che dirigono la sua debolezza, e siccome è gente da nulla, manda avanti gente da nulla (Montesquieu). Tutto ciò fece odiare Benedetto dai Romani che vedevano spogliata la città da estranei ignobili e pure da nulla.

        Con questo governo la politica internazionale praticamente non esisteva. O meglio era fallimentare perché la Sardegna, storicamente pontificia, passò senza battere ciglio a Vittorio Amedeo II di Savoia che fu pure riconosciuto Re di Sardegna. Il savoiardo ottenne anche il diritto sulle diocesi sarde, tramite pagamento di una tangente a quel delinquente di Coscia.

        E con questi risultati entusiasmanti, si concluse questo indegno pontificato che lasciò spazio ad un lunghissimo conclave nel quale nuove forze intervennero per interessi propri: i Savoia (sostenuti dal cardinale Albani) ed i Medici (in via d’estinzione). Questi ultimi temevano di perdere il granducato che era un protettorato pontificio e quindi corruppero tutti con l’intervento delle loro banche a Londra, Parigi e l’Aja. Fu così eletto il cardinale fiorentino Lorenzo Corsini che assunse il nome di Papa Clemente XII (1730-1740).

        Il personaggio era stato scelto perché si intendeva di finanza e si confidava in lui per raddrizzare l’edificio ormai cadente delle finanze vaticane alle quali erano venute a mancare le regalie, tutti i rediti delle varie terre e vescovadi, in terra di Francia, Sardegna, Meridione d’Italia. Ciò che fece fu del tutto deludente perché stampò un poco di moneta e ripristinò il Lotto (che non fu più considerato gioco peccaminoso). Per il resto non vi sono cose di rilievo da raccontare al suo attivo fors’anche perché era divenuto cieco nel 1733 e tutti gli affari di Stato furono affidati al nipote, il cardinale Neri Corsini, anch’egli incompetente. Tutto allora passò alla Curia con grande gioia di tutti i gaudenti perché ripresero le spese pazze, la corruzione, il clientelismo, il nepotismo, la simonia ed il lusso.

        Sempre più decadeva la credibilità dello Stato Pontifico ormai trattato a pesci in faccia tanto che, per una delle infinite guerre, l’esercito spagnolo venne a fare arruolamenti forzati a Roma con ribellione dei cittadini che assaltarono le sedi spagnole a Roma e a Velletri gettarono dei soldati di quel Paese dalle mura. Anche l’ennesimo trattato di Pace, quello di Vienna del 1738, non contò minimamente sull’esistenza della Chiesa e prese decisioni contrarie ai suoi interessi. A Napoli e Sicilia si insediò Don Carlos di Borbone; in Toscana, schiaffo al Papa, il potere passò ai Lorena; cadevano molti privilegi ed altre entrate in vari Paesi.

        Di rilievo, anche per le future conseguenze, fu la presa di posizione di Clemente contro la Massoneria che comparve a Firenze nel 1733 e a Roma nel 1735. Il Papa scrisse una Bolla di condanna nel 1738, In Eminenti, con la quale scomunicava gli aderenti all’associazione perché, come riassume Rendina, “essa univa uomini di ogni religione, e setta sotto la parvenza di compiere doveri di etica naturale, obbligandoli col giuramento e la minaccia di castighi a mantenere segreto quanto veniva deliberato nelle diverse logge“.

        Niente di più su questo Papa oltre al fatto che, mentre discutiamo di molte cose, l’Inquisizione, anche se meno intensamente, continuava ad operare(24) e l’Encyclopedie veniva messa all’Indice dei libri proibiti.

L’ILLUMINISMO

        Questa vicenda della Massoneria è sintomatica di un clima che andava crescendo in Europa. Dopo la Rivoluzione Inglese andavano diffondendosi in modo sempre più esplicito i suoi ideali che riconoscevano l’uomo e la ragione al centro del vivere civile. Era l’inizio di una sfida gigante contro tutti i detentori di antichi privilegi, nobiltà e clero, sfida che culminerà nella Rivoluzione Francese. Ora siamo in pieno Illuminismo quel movimento d’opinione che da Locke (ragion politica) e Newton (ragione scientifica) stava interessando le persone colte di quella classe borghese che, in connessione con i nuovi modi di produzione (manifattura al posto di artigianato), andava affermandosi, la borghesia. L’Illuminismo non fu una corrente di pensiero filosofico ma un movimento culturale variegato che aveva in linea di massima alcuni ideali di fondo: la libertà e l’uguaglianza sociale, i diritti umani, la laicità dello Stato, la scienza e il pensiero razionale. Esso si muoveva contro ogni metafisica essenzialmente su tre grandi linee-guida:

1) La ragione è in grado di spiegare tutti i più grandi problemi dell’uomo. Lo spirito scientifico ha il primato su ogni forma di oscurantismo.
2) L’uomo ‘illuminato’ ha il dovere di difendere la cultura. Occorre che i filosofi naturali, essi stessi, facciano i divulgatori dello spirito scientifico. L’operazione di divulgazione porta con sé il superamento delle vecchie credenze che sono ancora alla base della diffusione, e quindi del potere,della religione. A tale proposito Locke aveva osservato: C’è ragione di credere che se gli uomini fossero più istruiti, tenterebbero molto meno di imporsi al proprio prossimo. Si noti che la più grande opera di divulgazione che fino ad allora fosse stata intrapresa è l’Encyclopedie, alla cui realizzazione lavorarono quasi tutti i principali pensatori francesi sotto la direzione di D’Alembert e Diderot. Dopo gli attacchi dei Gesuiti (1752), che vi trovarono frasi eretiche tanto da invocare l’Inquisizione, e varie proibizioni e censure da parte del Consiglio di Stato fino al divieto di vendere o possedere l’opera, l’Encyclopedie fu condannata da Clemente XIII nel 1759.
3) La condizione umana può essere radicalmente migliorata proprio dall’abbattimento di miti, pregiudizi, superstizioni. L’uomo che si è impadronito dello spirito scientifico può progredire.

Utile per delineare sommariamente l’Illuminismo, che non fu fondamentalmente né antimonarchico né antireligioso e che anzi prese idee ed ebbe collaborazione sia da uomini di Chiesa che da Sovrani,  è quanto scrisse Kant per spiegarlo:

L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a sé stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! – è dunque il motto dell’illuminismo. Sennonché a questo illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma io odo da tutte le parti gridare: — Non ragionate! — L’ufficiale dice: — Non ragionate, ma fate esercitazioni militari. — L’impiegato di finanza: — Non ragionate, ma pagate! — L’uomo di chiesa: — Non ragionate, ma credete. 

        Questa grande fiducia nelle possibilità, dell’uomo nasceva certamente dai grandi successi che, nel secolo precedente, la filosofia naturale aveva conseguito. Ed il massimo sintetizzatore di quei successi e di quella filosofia naturale era proprio Newton che ora si ergeva a modello da imitare. Con l’uso dei metodi scientifici indicati da Newton sarebbe stato possibile sbarazzarsi dei residui scolastici e metafisici presenti in Descartes ed in Leibniz. D’altra parte le filosofie cartesiana e leibniziana rispondevano bene agli interessi di chi manteneva vecchi privilegi e pertanto, da questi ultimi, erano state accettate e rese funzionali al loro sistema di potere. La lotta quindi contro il cartesianesimo ed il leibnizianesimo, per l’affermazione della filosofia di Newton, aveva in sé una grande carica rivoluzionaria e si configurava come lotta di potere con l’illusione che, di per sé, l’affermazione del newtonianesimo avrebbe comportato quella di nuove classi sociali (la borghesia appunto).

         Fu certamente il grande impegno di un uomo come Voltaire che riuscì a far conoscere al grande pubblico francese l’opera di Newton. Furono poi i lavori di Condillac, Helvetius, Diderot, D’Alembert e molti altri che imposero le nuove idee nel continente. E’ di grande interesse l’opera di Voltaire Lettere Inglesi ed in particolare la XIV (scritta tra il 1726 ed il 1729). Voltaire era stato allontanato dalla Francia perché non gradito per le sue satire politiche. Nel 1726 si recò in Inghilterra dove resterà per circa 3 anni. Venne così a contatto con una società, con delle istituzioni avanzatissime rispetto a quelle francesi. In Inghilterra vi era già stata la rivoluzione liberale, la borghesia aveva preso il potere e amministrava il Paese con grande efficienza che faceva bella mostra di sé soprattutto se confrontata con la staticità della monarchia francese. Voltaire ebbe modo di conoscere l’opera di grandi pensatori inglesi quali Bacon, Locke e Newton che saranno ispiratori dell’Illuminismo francese. Voltaire, pur nelle contraddizioni che lo caratterizzarono (ammirava l’Inghilterra, pur sognando non un Parlamento ma un monarca illuminato; polemizzava violentemente con la Chiesa pur credendo ad un principio divino; … ), coglieva l’arretratezza del pensiero dominante del suo Paese nella filosofia di eredità medioevale di Descartes (pur difendendo il filosofo dai suoi detrattori, ad esempio, riguardo alle sue fondamentali scoperte in matematica). Gli argomenti che porta a sostegno delle aperture filosofiche di Newton rispetto alla filosofia cartesiana, sono riportati nella citata Lettera XIV (25).

         Dal punto di vista della teoria dello Stato nella prima metà del Settecento si ebbero importanti contributi del citato Montesquieu tra cui la sua opera fondamentale, De l’esprit des lois (Lo spirito delle leggi). Pubblicato in forma anonima nel 1748. In essa prendono forma i principi di uno Stato liberale che deve separare i poteri, il legislativo, l’esecutivo ed il giudiziario, per garantire il cittadino dall’arbitrio ed dal sopruso del potere dello Stato. A questo punto il discorso andrebbe troppo lontano perché nascono divisioni di pensiero che sono alla base dello stesso movimento illuminista. Nascono le prime differenze tra liberalismo e democrazia della quale ultima fu sostenitore Rousseau; Voltaire per parte sua fu più propenso al dispotismo illuminato; insomma nasceva quel necessario dibattito e quella naturale differenza di opinioni, sempre impedita nei secoli precedenti, che è alla base della costruzione di uno Stato moderno. Locke, Adamo Smith, Kant, per parte loro, definirono alcune regole alla base della costruzione di buone leggi:

  • l’essere norme generali applicabili a tutti, in un numero indefinito di circostanze future;
  • l’essere norme atte a circoscrivere la sfera protetta dell’azione individuale, assumendo con ciò il carattere di divieti piuttosto che di prescrizioni;
  • l’essere norme inseparabili dall’istituto della proprietà individuale.

        Ho fatto solo un cenno di problemi fondamentali alla base della convivenza civile (che in Italia non abbiamo ancora) e tutto ciò mi serve per mostrare lo iato enorme esistente tra i dibattiti in seno alla Chiesa e  quelli in seno all’Europa. A questi dibattiti gran parte dell’Italia era assente ed ancora oggi ne paga pesantemente le conseguenze.

        E l’insieme di queste teorie dello Stato non erano meri esercizi teorici perché, proprio in quegli anni trovavano pratici interpreti nelle Colonie sia inglesi che francesi in America. Fu proprio da una protesta dei coloni per le restrizioni loro imposte nei commerci e  per le tasse che la corona inglese voleva imporre (Stamp Act,1765) a far partire il movimento che portò all’indipendenza ed alla Costituzione americana (No taxation without representation). Franklin e Washington furono coloro che coordinarono la protesta verso la madre patria e portarono alla separazione da essa sulla base di principi elementari ben presenti nel movimento illuminista: essere sottoposti a leggi che non si era contribuito a formare equivaleva per i coloni alla schiavitù; i coloni sentivano cioè di essere trattati dall’Inghilterra come schiavi. Seguirono altri atti che i coloni (soprattutto quelli del Nord) ritennero contrari ai loro interessi e favorevoli a compagnie commerciali e latifondisti. A ciò si rispose iniziando con il rivendicare l’autonomia amministrativa in un Congresso riunito a Filadelfia (1774) con Franklin che tentava di costruire una federazione tra Inghilterra e Colonie d’Oltremare. Ma ormai le cose erano andate molto avanti tanto che iniziarono gli scontri armati tra l’esercito inglese ed i volontari delle Colonie fino alla Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio 1776, redatta da Jefferson, Franklin e Adams e firmata dai rappresentanti delle Colonie. Naturalmente il tutto non finì qui. L’Inghilterra non demordeva e continuò con la guerra nella quale entrò anche la Francia che, per propri interessi politico-economici, si allearono con le Colonie (successivamente entrò in guerra anche la Spagna). Un primo trattato di pace con il riconoscimento degli Stati Uniti ci fu a Parigi nel 1783 (l’Inghilterra perse le Colonie ma rimase la più grande potenza marittima, la Spagna riconquistò Menorca mas iniziò a disgregarsi, la Francia si impossessò del Senegal e di Trinidad and Tobago ma si dissanguò economicamente e militarmente tanto che qualche anno dopo i rivoluzionari ne avrebbero tratto beneficio).

        Gli indigeni d’America (gli indiani) persero invece tutto. Furono sterminati da questi puritani inglesi e dai cattolici francesi. Un vero genocidio che ha lasciato solo qualche sopravvissuto da esibire a fini economico-commerciali in circhi e fiere.

        E poiché siamo in America, seguiamo in breve un’altra vicenda che riguarda direttamente la Chiesa e la sua politica, quella delle Missioni dei Gesuiti sul Rio Paranà e suoi affluentia nord delle grandi rapide e cascatedel Rio Iguazù, zone abitate dagli indigeni guaraní.

LE MISSIONI DEI GESUITI SUL RIO PARANÀ

        Una delle attività missionarie dei Gesuiti si svolse in America del Sud in una zona lungo l’alto Rio Paranà ed i suoi affluenti che è situata tra gli attuali confini di Argentina, Paraguay, Brasile, Uruguay, Bolivia. Le prime missioni, che venivano chiamate reducciones de indios o riduzioni, sorsero nel 1610 e ad esse ne seguirono molte altre fino a circa la metà del Settecento. Quelle riduzioni, approvate dalla Corona spagnola ma ostacolate dai coloni e dalle autorità ecclesiastiche locali e coloniali, che interessavano circa 140 mila abitanti (autorizzati da Felipe IV di Spagna ad avere armi), erano situate in posizioni tali da impedire o rendere molto difficile il commercio degli schiavi praticato nella zona soprattutto da portoghesi e spagnoli (erano famosi i Bandeirantes o paolisti, cioè schiavisti brasiliani). Dal punto di vista dell’organizzazione esse erano dei piccoli villaggi fortificati autonomi a struttura teocratica organizzati anche urbanisticamente in modo razionale, con una perfetta geometria che in gran parte si ripeteva nei diversi villaggi. Una grande piazza per le riunioni intorno a cui vi erano i piccoli edifici delle abitazioni, delle scuole, del culto. Una sorta di grandi conventi con adattamenti agli usi e costumi locali che, grazie alle attività agricole introdotte dai Gesuiti (coltivazione del cotone, del mate), godettero una certa prosperità. Tutto era in comune e regolato da orari e regole precise. Uno storico dell’epoca, Ludovico Antonio Muratori, nel suo Cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguay (1743-1749), così le descrive: Quelle piccole repubbliche possono in una certa maniera appellarsi come numerosissimi monasteri, dove son meravigliosamente regolate tutte le faccende sia spirituali che temporali della giornata e provveduto al mantenimento di ognuno. Vi si viveva una forma di comunismo volontario, che le stesse circostanze storiche concorrevano a rendere accettabile: il fatto che fuori delle riduzioni gli indios sarebbero stati vittime delle violenze dei bianchi con rischi di divenire schiavi; il forte senso tribale e comunitario degli indios; la dimensione relativamente modesta della popolazione di una riduzione.

Il disegno della pianta di un tipico villaggio riduzione

I resti di una riduzione

       Tutto andò bene fin quando le pressioni dei coloni, della Chiesa locale e dei trafficanti di schiavi non crebbe. Si iniziò con l’obbligare gli indios ad abbandonare sette riduzioni, attualmente in territorio brasiliano, perché sorgevano in una regione destinata alla Corona del Portogallo dall’accordo tra Portogallo e Spagna firmato a Madrid nel 1750 (spagnoli e portoghesi si accordarono per una rettifica dei confini tra i rispettivi possedimenti. Secondo la nuova demarcazione le sette riduzioni, per un totale di circa centomila indios, venivano a cadere in territorio portoghese con la conseguenza che il loro destino era segnato). L’accordo non fu accettato né dagli indios né dai Gesuiti. Nel 1752 giungeva a Buenos Aires Lope Luis Altamirano, mandato dal padre Generale dei gesuiti come visitatore delle riduzioni, con pieni poteri per quanto concerneva l’applicazione del trattato dei confini. Gli indios tentarono di opporsi all’applicazione del trattato con azioni di resistenza che però non avevano alcuna possibilità di riuscita.Il via al massacro degli indios era arrivato dal papa Benedetto XIV per esaudire i desideri di sovrani cattolici come quello portoghese e spagnolo.In una località attualmente nel Brasile del sud si scontrarono l’esercito ispanoportoghese, costituito da 1700 uomini, e un numero uguale di indios guaraní. Caddero 1311 indios, 152 furono fatti prigionieri e gli altri fuggirono nella vicina foresta. Ma la guerra durò sei anni, dal 1750 fino al 1756, con la ovvia sconfitta degli indios. Gli indigeni rimasti subirono un triste destino: i loro terreni furono occupati, furono privati dei loro averi, subirono abusi di ogni sorta da parte degli europei, furono costretti a rapinare per sopravvivere, molti morirono di fame e molti furono schiavizzati. Coloro che riuscirono a sopravvivere vennero incorporati nelle milizie portoghesi e spagnole per essere coinvolti in massa in tutti i conflitti regionali che seguirono. I Gesuiti furono accusati dagli di aver incitato gli indios alla rivolta. Questi ultimi invece rinfacciavano loro di essersi venduti al nemico. Fu il Portogallo ad aprire la strada alla soppressione dell’ordine. Il marchese di Pombal, capo del governo, entrò in aperto conflitto con i gesuiti per questa vicenda. Il marchese inviò a Papa Benedetto XIV una relazione in cui accusava i gesuiti di avidità di denaro e sete di potere e li denunciava di essere al centro di scandalose operazioni commerciali. Da qui una serie di reazioni a catena che portarono all’espulsione dei Gesuiti da vari Stati europei e annesse colonie. Nel 1758  venivano cacciati dal Portogallo, nel 1764 dalla Francia, nel 1767 dalla Spagna (dove l’ordine rappresentava un ostacolo all’assolutismo monarchico), sempre nel 1767 da Napoli e Sicilia, nel 1768 dal regno delle due Sicilie e da Malta, sempre nel 1768 da Parma; l’espulsione dei gesuiti dalle riduzioni, avvenne nel 1768 per ordine di Carlo III re di Spagna. La Compagnia di Gesù si avviava così verso la soppressione, avvenuta per ordine del papa Clemente XIV il 21 luglio 1773. Le riduzioni furono affidate a domenicani e francescani.

RITORNIAMO ALLE PICCOLE COSE PONTIFICIE

        Il conclave si svolse come in un film già visto. Altre potenze con differenti alleanze si scontravano: da una parte la Francia alleata con l’Austria e dall’altra la Spagna alleata con Napoli e la Toscana. Una mediazione possibile, ma dopo sei mesi di scontri, fu l’elezione del cardinale Prospero Lambertini che assunse il nome di Papa Benedetto XIV (1740-1758).

        Fu persona amabile e spiritosa. Molto semplicemente si avvicinava alla gente che usava frequentare come un prete ordinario. Da queste frequentazioni capì qual era la miseria che regnava a Roma e nei territori dello Stato Pontificio. Tentò di alleviare le sofferenze aiutando in solido i bisognosi con i denari tratti dai risparmi nelle spese dello Stato, risparmi dettati non da un economista ma da una persona di buon senso.

        Si rese conto che il pensiero illuminista si faceva strada ovunque con gravi rischi per il Cristianesimo che risultava screditato dall’uso della ragione. Capì che la lotta contro il nuovo non avrebbe prodotto risultati e che sarebbe stato invece necessario essere tolleranti mantenendo uno spirito di conciliazione universale. In tal senso egli iniziò un dialogo senza pregiudizi tra differenti religioni, anche con i protestanti e gli anglicani (questi ultimi eressero una statua in suo onore con la scritta al migliore dei pontefici). Il suo operato in politica e nei fatti religiosi, una meteora purtroppo, era ispirato proprio a principi di tolleranza e conciliazione ed è ben descritto da Rendina:

 Alla luce di questo ideale non importava che le terre dello Stato pontificio ”venissero campo di battaglia durante la guerra di successione austriaca; il papa stesso offriva il libero passaggio alle truppe e pur di raggiungere il suo scopo era ben lieto di sopportare il «martirio della neutralità». Era dolorosa sì la perdita definitiva ad Aquisgrana di Parma, Piacenza e Guastalla, passati a don Filippo di Borbone, ma era il sacrificio compiuto in nome di un ideale evangelico, nell’adattamento ai tempi che cambiavano. E su questa scia è lecito il sospetto subentrato allora in molti uomini della Curia, che nel profondo del suo animo Benedetto fosse convinto di liquidare col tempo in gran parte il potere temporale della Chiesa. Di qui si «giustificano» tutti i concordati stipulati con le diverse nazioni europee, verso le quali si mostrò remissivo, convinto com’era che la rinuncia ai diritti temporali favorisse la rinascita spirituale della Chiesa di Roma. Dal concordato col re di Sardegna, nominato vicario apostolico nei feudi pontifici disseminati nel suo Stato, a quello con il re di Napoli, in una limitazione al diritto delle immunità ecclesiastiche; da quello con la Spagna, nella concessione al re del diritto universale di patronato per cui egli poteva concedere a chiunque ben dodicimila benefici esistenti, restandone a Roma soltanto cinquantadue, a quello con il Portogallo, al cui re Benedetto concesse il titolo di «re fedelissimo in un’apposita costituzione.

E ancora questo papa permise all’imperatrice Maria Teresa di tollerare nei suoi Stati i protestanti, pur raccomandandole di cercarne con cristiana dolcezza la conversione, e riconobbe ufficialmente il re di Prussia, fino allora considerato dalla Santa Sede semplice marchese di Brandeburgo. Ma in compenso questo sovrano favorì i cattolici nel suo Stato. «Si direbbe che egli scorga», come ha notato ancora il Falconi, «l’origine della decadenza del prestigio pontificio proprio nella tendenza dei papi non solo ad atteggiarsi ma a comportarsi da sovrani, con pretese di supercontrollo universale» che erano ormai storicamente superate. Non vi traspare un comportamento avventato, ma l’oculatezza piuttosto di chi «non vede nell’apparato della Chiesa un meccanismo di potere, ma semplicemente un complesso di uffici amministrativi al servizio di tutte le Chiese locali».

Anche se Benedetto XIV fu una meteora nel cielo della Chiesa di Roma […] ciò non toglie che egli abbia costituito ugualmente una scossa per il papato: era «l’abbandono del rigido non possumus, gli occhi aperti finalmente sulla realtà, il riconoscimento delle situazioni create dalla riforma del XVI secolo», come nota Zizola.

Questo papa ebbe infatti anche una lucida visione dei problemi strettamente ecclesiastici, chiarendo incertezze e lacune, ma con un rispetto per le opinioni in una distinzione tra dogmi e teorie. Cosi lo vediamo togliere alcune feste di precetto, che secondo una costituzione di Urbano VIII erano 36, a parte le domeniche; ma lo vediamo anche premere sui vescovi per una stretta vigilanza sulla formazione dei chierici nei seminari. Approva due nuove congregazioni religiose, i Passionisti di S. Paolo della Croce e i Redentoristi di S. Alfonso de’ Liguori; ma si dà anche anima e corpo ad una riforma del Breviario, che non riuscirà a completare, pur rilasciando dei principi che resteranno validi, come appunto quello della limitazione delle feste. Non agiva in questo come avversario del culto dei santi; lo guidava piuttosto un principio di credibilità e di funzionalità che si augurava in tal modo potesse fruttare la loro venerazione. […]

Del resto Benedetto XIV non si tirò indietro neanche nelle opere della città, sia in quelle a scopo umanitario, come l’ingrandimento degli ospedali di S. Spirito e S. Gallicano, sia in quelle a carattere religioso. Fece costruire la chiesa di S. Marcellino, rinnovò la facciata di S. Maria Maggiore, con l’edificazione al suo interno del sontuoso baldacchino sull’altare papale, e nel centro del Colosseo fece elevare la croce dichiarando quel luogo sacro per il sangue versatovi dai cristiani, secondo un’antica e peraltro falsa tradizione. Ma evidentemente, santificando l’anfiteatro, il papa intendeva soltanto preservarlo da ulteriori saccheggi, facendo sì che non fosse più considerato una vera e propria cava di travertino.

        Come alcuni storici sostengono (Ranke, ad esempio) morì prima di conoscere bene la vicenda dei Gesuiti, facendo l’errore di credere alo sovrano portoghese, altrimenti sarebbe intervenuto per riformare l’ordine. In ogni caso egli si occupò delle missioni e nel 1741 emise la bolla  Immensa Pastorum principis contro lo schiavismo nelle Americhe ed in altre due bolle Ex quo singulari e Omnium solicitudinum denunciò il costume di aggiustare parole e usi cristiani per esprimere realtà non-cristiane e pratiche delle culture indigene. Certamente fece opera eccelsa al rimuovere i Tribunali dell’Inquisizione in Toscana e a fermare i massacri precedenti (e che purtroppo seguiranno) ma rinnovò la condanna della Massoneria. Si oppose alla canonizzazione del Bellarmino perché avrebbe fatto danno alla Chiesa. In definitiva anche Pasquino ebbe da dire bene di questo Papa ben sapendo che una rarità occorre tenersela cara. Ebbe anche qualche apertura verso la scienza nel permettere la dissezione dei cadaveri che Bonifacio VIII aveva vietato. E verso la cultura in genere quando pregò gli estensori degli indici di essere più attenti e di togliere i pregiudizi dal giudizio. I successivi 200 anni cancelleranno completamente il suo operato che verrà addirittura attaccato da un tal Pio XII. Non si sa cosa disse in punto di morte, probabilmente la parola con cui intercalava sempre i suoi discorsi: Cazzo !, parola che voleva elevare al rango di sacralità dando indulgenza plenaria a chi la pronunciava almeno 10 volte al giorno. Ma non vi è Papa che non abbia vergogne dentro qualche armadio e Benedetto XIV ne aveva una gigante. Ci informa di questo Marina Caffiero nel suo Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi (Viella 2004). Benedetto XIV fu uomo della svolta anche nei rapporti del papato con gli ebrei: una svolta involutiva però. Intanto va ricordata la sua bolla Beatus Andreas del 22 febbraio 1755. In essa viene raccontata la storia del bambino di Rinn, Andrea Oxner, nell’ambito dell’antica leggenda secondo la quale gli ebrei ammazzerebbero dei bambini a scopo rituale. Alla famiglia di Andrea degli ebrei versarono una certa somma per comprare il piccolo di 3 anni. In un boschetto di betulle, non molto distante dal paese, immolarono Andrea su una pietra, detta da allora “Judenstein” (pietra degli ebrei). Dopo averlo circonciso, quale ultimo sfregio, appesero il cadaverino ad un ramo di betulla, nei pressi di un ponticello. Era il 1462. Da allora la pietra fu oggetto di pellegrinaggi con miracoli annessi. La bolla ebbe l’effetto di ufficializzare la pretesa barbarie degli ebrei nei riguardi dei bambini e, pur non potendo beatificare il piccolo in mancanza di prove documentali, Papa Benedetto lo dichiarò Quasi Beato. Ma il crimine più odioso di Benedetto furono le due lettere scritte tra il 1747 ed il 1751, lettere nelle quali egli tentò di costruire la giurisprudenza su un argomento che aveva sempre fatto discutere gli ebrei contro le istituzioni ecclesiastiche che andavano in cerca di conversioni dei medesimi. Le lettere erano in puro stile ipocrita, cioè ecclesiastico, che alterna il paternalismo con la repressione come del resto sempre fatto dai papi con gli ebrei. Per la prima volta si codificava in questi documenti la pratica della conversione,  comunque fosse avvenuta, indipendentemente da ogni ragionevole dubbio, e al di là di ogni garanzia giuridica, in base al principio indiscutibile del favor fidei. Ciò vuol dire che la Chiesa non si interessava, del consenso dei genitori al battesimo dei loro figli, o del consenso individuale al proprio battesimo, deciso e disposto da altri. Tutto ciò per maggior gloria di Gesù. La Caffiero riporta una casistica che dire vergognosa è dolce eufemismo. Nonni paterni che “offrono” alla chiesa i loro nipotini, fregiandosi di diritti di patria potestas. Nonne che si arrogano gli stessi privilegi nei confronti di nuore rimaste precocemente vedove. E poi, ancora, fidanzati respinti che cercano di impalmare chi li aveva rifiutati, denunciandone il desiderio espresso, e quanto mai improbabile, di abbandonare la fede ebraica; madri che si vedono spogliare dei propri figli, quando non di quelli che hanno ancora in grembo, da mariti che hanno appena varcato le mura del ghetto; e così via, in un crescendo di sprezzo, da parte delle autorità ecclesiastiche, della umana pietas e di totale mancanza di rispetto per i sentimenti primordiali dell’individuo. Le lettere di Benedetto XIV, oltre a definire legalmente quanto già barbaramente fatto,iniziarono a forzare molti casi rimasti in sospeso a cominciare dalla proibizione del battesimo dei fanciulli invitis parentibus, cioè contro la volontà dei genitori, che per secoli ne aveva rappresentato il cardine ispiratore. E così troviamo bambini di tre anni che vengono fatti passare per cinquenni, età che veniva in genere collocata nella fase puberale. Giovani donne che, dopo essere state rinchiuse a forza nella Casa dei catecumeni per essere sottoposte alla quarantena di rito atta a vagliarne la disposizione alla conversione, vengono trattenute ben oltre col pretesto che il loro scrutinio doveva sì durare quaranta giorni, ma solo a partire dal momento in cui avessero smesso di tapparsi le orecchie e si fossero mostrate ben disposte a lasciarsi imbonire. Madri, nella stessa condizione, che vi vengono segregate perché incinte – e Dio non volesse mai che andassero a partorire in ghetto: la chiesa avrebbe rischiato di perdere un’anima preziosa per il suo gregge, perché, si sapeva, gli ebrei preferiscono uccidere i loro figli pur di non consegnarli alla verità di Cristo. Di questa giurisprudenza ne fece uso Pio IX, come vedremo, con il caso Mortara. Di queste cose si parla poco soprattutto in Italia, il Paese della brava gente.

        Il seguente conclave sembrava trovare tutti d’accordo su una figura come quella di Benedetto XIV e cioè su un Papa neutrale ma attivo e non un semplice fantoccio. Tutto bene fin quando non si pose il problema dei Gesuiti che Benedetto XIV aveva lasciato in sospeso perché troppo complesso per essere risolto negli ultimi giorni del suo pontificato. Con i veti continui della Francia si arrivò ad un neutrale tutto particolare perché era un devoto ma bigotto, un istruito ma non colto, un tradizionalista legato al passato retrivo tanto che si era battuto per la canonizzazione di Bellarmino. Fu eletto il cardinale Carlo Rezzonigo che assunse il nome di Papa Clemente XIII, un incolore ed abulico che in vari anni non era mai riuscito a prendere una posizione sui Gesuiti.

        Il suo papato si descrive molto in breve. Fu il Papa che volle coprire le nudità delle opere d’arte nei Musei Vaticani e fu quello che con l’affare Gesuiti perse ogni credibilità dello Stato Pontificio, quel minimo che aveva recuperato Benedetto XIV. Accettò infatti senza fiatare la cacciata dei Gesuiti dai vari paesi cattolici d’Europa e da altre sedi oltremarine. Si impuntò solo con il Borbone di Napoli minacciandolo di scomunica. Ciò irritò tutti gli altri Paesi con la conseguenza che varie terre della Chiesa furono occupate (solo l’Austria di Maria Teresa simpatizzò per il Papa perché la stessa Maria Teresa era affezionata all’ordine, ma la cosa finì in simpatia). Di nuovo lo Stato della Chiesa era precipitato nel nulla. Nessuna considerazione era ad esso dovuta tanto che tutti i Paesi in coro chiesero lo scioglimento della Compagnia di Gesù e Clemente XIII dovette fissare la data del concistoro che avrebbe deciso in tal senso, il 3 febbraio 1769. Ma lo strazio che provò nel dover prendere una tale decisione fu tale che il giorno prima morì lasciando di nuovo in sospeso la questione della Compagnia di Gesù che contava circa 23.000 membri in 42 provincie.

        Il conclave che seguì fu segnato quasi esclusivamente dalla pendente questione dei Gesuiti. Vi erano cardinali schierati a sostegno di questa o quella corte europea, vi erano gli zelanti cioè coloro che erano per la rigida tradizione. Aleggiava già il problema di una Chiesa che abbandonasse il potere temporale, ma aleggiava solo. I contrasti furono violenti e si proseguì con un numero interminabile di votazioni sempre a fumata nera. Accadde poi l’incredibile. Arrivò fin dentro il conclave il primogenito di Maria Teresa d’Austria, l’arciduca Giuseppe. Gli fu permesso insieme al fatto che poté parlare con tutti i cardinali facendo discretamente sapere che, nonostante quanto notoriamente pensava la madre, egli era per lo scioglimento dell’ordine dei Gesuiti. Le trattative vennero così rese pubbliche che l’idea stessa di conclave (chiusi a chiave) perdeva ogni significato. Risultò eletto il candidato che sembrava più propenso a sopprimere l’ordine (lo aveva promesso a voce agli ambasciatori di Francia e Sapagna), il cardinale Giovanni Vincenzo Antonio Ganganelli che assunse il nome di Papa Clemente XIV (1769-1774).

        Il programma di Clemente XIV era ambiziosissimo, riappacificarsi con tutti i governi cattolici ridando credibilità al Papa. Buoni propositi che non tenevano conto di una Curia corrotta che circondava il Papa. Ogni persona di fiducia, ogni consigliere era un corrotto che badava agli interessi personali più che a quelli della Chiesa che era, appunto, solo un pretesto per fare ciascuno gli affari propri come è praticamente stato da sempre. Riuscì a pacificarsi con il Portogallo ma non ci fu nulla da fare con Carlo III di Spagna che pretendeva prima lo scioglimento dell’Ordine dei Gesuiti. Questo era però un tasto dolente e Clemente tergiversava e più lo faceva con giustificazioni stupide e più perdeva credibilità lui e la Chiesa con lui. Finalmente scrisse un breve, Dominus ac Redemptor, con cui la Compagnia di Gesù veniva sciolta (21 luglio 1773). I vescovi locali furono nominati delegati apostolici per eseguire la soppressione delle case situate nella loro diocesi. Il Papa voleva comunque evitare incidenti ma, anche qui, non ci fu nulla da fare perché il generale dell’Ordine, Lorenzo Ricci, fu arrestato a Roma (dove lo scioglimento avvenne il 16 agosto), portato a Castel Sant’Angelo dove morì (24 novembre 1775) prima che finisse il suo processo. Tutti i sovrani cattolici esultarono. Particolarmente i Borbone che ringraziarono Clemente XIV, che era invece in profonda crisi per aver sciolto l’Ordine, restituendogli territori in precedenza occupati (Avignone, Benevento, Pontecorvo). Il Papa si preoccupò di chiedere a questi governanti di rispettare i Gesuiti che non erano più tali ma restavano chierici della Chiesa. Nei Paesi non cattolici non vi furono scioglimenti ed i Gesuiti proseguirono ad operare costituendo il nucleo che rifonderà l’ordine nel 1814.

        Niente più da aggiungere su questo Papa che lasciò il passo ad un nuovo conclave che elesse Pio VI, il Papa durante il regno del quale (1775-1799) scoppiò la Rivoluzione Francese. Questo avvenimento è uno dei più importanti della storia dell’umanità e lo è anche per l’incidenza fondamentale che ebbe sul potere della Chiesa, non solo in Francia, ma nel mondo.

        Tutto questo merita un’ampia discussione che svilupperò nel prossimo articolo.

Roberto Renzetti


NOTE

(1)  O fatta passare da pazza dal padre Ferdinando, che sarebbe stato in accordo con le autorità ecclesiastiche che mal digerivano l’indipendenza di giudizio della donna, per entrare in possesso della corona che la madre, Isabella che ne aveva diritto, aveva lasciato a lei. La cosa era interessante anche per il marito di Giovanna, Filippo, che avrebbe gestito il regno ereditato senza le interferenze di Giovanna. Alla morte di Isabella nel 1504 si rischiò lo scontro armato tra il marito di Giovanna, Filippo d’Asburgo, ed il padre Ferdinando II di Spagna per accedere alla successione. Si addivenne ad un accordo che prevedeva una spartizione: la Castiglia a Filippo e l’Aragona a Ferdinando. Questo fino al 1506 quando anche Filippo morì e la reggenza della Castiglia passò a Ferdinando. Nello stesso anno Ferdinando si risposò con Maria d’Orléans, nipote di Luigi XII, Re di Francia. A partire dal 1507 Ferdinando si lanciò in guerre di conquista in Africa.

(2) Qual era la caratteristica che distingueva il Sant’Uffizio dall’Inquisizione Medioevale ? La centralizzazione ed il poter operare in assoluta indipendenza rispetto ai tribunali vescovili. Per arrivare a questo servirono vari decreti e differenti discussioni che portarono al vero feroce organizzatore dell’Inquisizione, Papa Sisto V, che con la sua bolla del 1588,  Immensa Aeterni Dei, promosse la Congregazione del Sant’Uffizio, alla quale dette un potere molto maggiore, come la più importante delle 15 Congregazioni della Chiesa che, secondo la sua riforma, andavano a sostituire il Concistoro e la precedente struttura di potere. Nella stessa bolla il Papa utilizzava parole violente contro l’eresia (morbo perniciosissimo dell’anima e malattia contagiosa) e gli eretici (figli delle tenebre e dell’oscurità che spargono zizzania), inaugurando quel linguaggio ancora oggi in uso: gregge, ovile, pastore, fortezza assediata.

(3) Su Chiesa ed Omosessualità ho pubblicato tempo addietro un articolo dal medesimo titolo che consiglio di leggere a chi è interessato alla questione.

(4) Riporto la gran parte del testo di questa preghiera (che era in realtà il testo di un giuramento di fede che tutti gli ecclesiastici, ma anche ogni laureando o pubblico impiegato o medico o maestro, dovevano fare prima di assumere il loro ruolo):

Io […] con ferma fede credo e professo tutto ciò che si contiene nel simbolo della fede usato dalla Santa Chiesa di Roma.
Ammetto ed abbraccio fermamente le tradizioni apostoliche ed ecclesiastiche e le altre regole e costituzioni della medesima Chiesa.
Inoltre ammetto la Sacra Scrittura secondo l’interpretazione che ha seguito e segue la Santa MadrChiesa, a cui spetta giudicare del vero senso e delle interpretazioni delle Sacre Scritture, né mai la intenderò e interpreterò se non secondo l’unanime consenso dei Padri.
Professo inoltre che veramente e propriamente sono sette i sacramenti della Nuova Legge istituiti dal Signore Nostro Gesù Cristo e necessari per la salvezza del genere umano […] cioè il battesimo, la cresima, l’eucarestia, la penitenza, l’estrema unzione, l’ordine e il matrimonio, che essi conferiscono la grazia e che di essi il battesimo, la cresima e l’ordine non possono essere ripetuti senza sacrilegio.
Accolgo ed ammetto inoltre i riti ricevuti e approvati della Chiesa cattolica nella solenne amministrazione di tutti i predetti sacramenti.
Accolgo ed abbraccio tutto ciò che è stato definito e dichiarato intorno al peccato originale e alla giustificazione nel sacrosanto concilio tridentino.
Professo parimenti che nella Messa viene offerto a Dio un vero, proprio e propiziatorio sacrificio per i vivi e i morti, e che nel santissimo sacramento dell’eucarestia è veramente, realmente, e sostanzialmente il corpo e il sangue, insieme con l’anima e la divinità di Nostro Signore Gesù Cristo e che vi si attua la conversione di tutta la sostanza del pane in corpo e di tutta la sostanza del vino in sangue, la quale conversione la Chiesa cattolica chiama transustanziazione. […]
Ritengo fermamente che il Purgatorio esiste e che le anime ivi rinchiuse si giovino dei suffragi dei fedeli.
Analogamente che i Santi regnanti insieme con Cristo sono da venerare e invocare e che offrono per noi orazioni a Dio, e che le loro reliquie devono essere venerate.
Fermamente affermo che si debbono avere e confermare le immagini di Cristo e della Madre di Dio sempre Vergine e degli altri Santi, e che ad esse va tributato il dovuto onore e la dovuta venerazione.
Inoltre affermo che la potestà delle indulgenze fu lasciata da Cristo nella Chiesa, e che l’uso di esse è sommamente salutare al popolo cristiano.
Riconosco la Santa cattolica e apostolica Chiesa di Roma, madre e maestra di tutte le chiese, e prometto e giuro sincera obbedienza al Romano Pontefice, successore del beato Pietro, principe degli apostoli, e vicario di Gesù Cristo.
Similmente accolgo e liberamente riconosco ogni cosa tramandata, definita e affermata dal sacrosanto Concilio Tridentino, e similmente condanno e ripudio tutte le cose contrarie e tutte le eresie condannate e rigettate dalla Chiesa.
Io stesso […] prometto, mi impegno e giuro di mantenere e confessare integra e immacolata sino all’estremo di mia vita, costantemente, con l’aiuto di Dio, questa vera fede cattolica (fuori della quale nessuno può essere salvo), che adesso spontaneamente professo e tengo per vera; e che curerò, per quanto sarà in me, che sia osservata, insegnata e predicata dai miei sottoposti, o da coloro la cui cura spetterà a me nell’ambito del mio ufficio: così mi aiutino Iddio e questi santi Evangeli.

Il post Concili ex decreto Concilli Tridentini, del 1566 noto come Catechismo romano del concilio di Trento. Era un testo breve che divenne e si mantenne per secoli come un breviario della fede basata sulla filosofia aristotelica di Tommaso (via Gesù ed Apostoli, pure comparse e teloni di fondo. Avanti invece Aristotele epurato da Tommaso ad uso dei balordi).

(5) Questa vergogna totale fu abolita solo il 7 dicembre 1965 da Papa Paolo VI con l’Integrae servanda (da motu proprio) in contemporanea con la sostituzione dell’Inquisizione romana con la Congregazione per la Dottrina della Fede (il provvedimento divenne operativo con la  Notificazione del 14 giugno 1966 che il Cardinale Ottaviani, allora Prefetto del Sant’Uffizio, aveva dovuto firmare, forse con qualche dispiacere, per ordine di Paolo VI (in realtà non si tratta di abolizione dell’Index ma la sua trasformazione da libri proibiti a libri sconsigliati). Nella versione italiana di Wikipedia di questo non si parla perché alcune voci di Wikipedia sono strettamente controllate dalla Chiesa ma nel sito britannico si legge:

Abolition controversy

The Notification of 14 June 1966 does not mention the words “abrogate” or “abolish” in relation to the Index of Forbidden Books. Rather, it states that the Index retains “its moral force” (suum vigorem moralem).[16] What this means is not formally defined by the Vatican and at least one theologian (Hans Küng) has acknowledged the ambiguity behind the wording.[17] The official Latin text as given on the Vatican’s web site reads, “Notificatio de Indicis librorum prohibitorum conditione” (“Notification on the condition of the Index of Forbidden Books“).[18] The Italian on the same page reads, “Notificazione riguardante l’abolizione dell’Indice dei libri” (“Notification regarding the abolition of the Index of books”). There is no reasoning given for this difference between the Latin and Italian texts. The fact that the Latin language is the official language of the Catholic Church furthers the question as to which text is authoritative.[19][20]

  1. 17 – ^ Hans Küng, My Struggle For Freedom: Memoirs, Continuum Publishing Group, 2004, pg. 432.
  2. 18 – ^ http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/doc_dis_index.htm
  3. 19 – ^ http://www.ewtn.com/library/Liturgy/latinvernac.HTM
  4. 20 – ^ http://www.france24.com/en/20080509-vatican-website-roman-catholic-church-pope-language-latin-internet

    Poi venne il Papa polacco, Giovanni Paolo II, che dette nuova forza alla Congregazione mettendo alla sua testa un tal Joseph Alois Ratzinger e reintroducendo il 20 novembre 1979 l’Index nella sua versione di libri sconsigliati (che non cambia nulla nella vergogna dell’iniziativa, visto che non vi sono più le pene inquisitorie). L’Index venne così trasformato da una lista di libri proibiti ad una lista di libri sconsigliati che rimane comunque moralmente impegnativa per i fedeli cattolici costituendo peccato leggere i libri lì elencati.

    Nella Chiesa vi è un’organizzazione molto ma molto discussa, come l’Opus Dei, che ha una sua lista di libri proibiti, la Guida bibliografica, dove figurano 6892 libri da rigettare completamente (quelli con il numero 6). Esempi di autori (anche cinematografici) oggi proibiti dal’Opus Dei sono: Vittorio Alfieri, Francesco Alberoni, Balzac, Enzo Biagi, Teocrito, Max Weber, Luchino Visconti, Gore Vidal, Velazquez, Vazquez Montalban, Kirk Douglas, Milan Kundera, Abbagnano, Asimov, Stephen King, Jack Kerouac, Bukowski, Camus, Severino, Popper, Ida Magli, De Marchi, Philip K. Dick, Oriana Fallaci,  Woody Allen, Isabel Allende, Karen Armstrong, Margaret Atwood, Judy Blume, Roberto Bolano, Joseph Campbell, Gustav Flaubert, Allen Ginsberg, Mary Gordon, Gunter Grass, Andrew Greeley, Herman Hesse, Adolph Hitler, John Irving, James Joyce, Carl Jung, Eugene Kennedy, Jack Kerouac, Stephen King, Milan Kundera, Hans Küng, Harold Kushner, Henri Lefebvre, Doris Lessing, Sinclair Lewis, Richard P. MacBrien, Mary MacCarthy, Malinowski, Karl Marx, Somerset Maugham, Toni Morrison, Alice Munroe, Vladimir Nabokov, V.S. Naipaul, Pablo Neruda, Nietzcshe, Octavio Paz, Harold Pinter, Marcel Proust, Philip Roth, Bertrand Russell, John Updike, Gore Vidal, Voltaire, Alice Walker, Gary Wills and Tennessee Williams. Vi sono poi i libri da rigettare (quelli con il nuemro 5) tra cui figurano i seguenti autori:  W.S. Burroughs, John Cornwall, Marguerite Duras, William Faulkner, Nadine Gordimer, Eugene Kennedy, Jack Kerouac, Stephen King, Barbara Kingsolver, Doris Lessing, John O’Hara, A.J. Quinnell, Ayn Rand, Salman Rushdie and Kenneth Woodward.

Il principio dottrinale da cui viene fuori l’idea dell’Index è suggerito da un passaggio degli Atti degli apostoli nel quale i “libri cattivi” sono distrutti: «… e un numero considerevole di persone che avevano esercitato le arti magiche portavano i propri libri e li bruciavano alla vista di tutti» (At, XIX, 19). Nel 325, il Concilio di Nicea ordinò la distruzione dei libri ariani; e il decreto di Gelasio, nel 496, stabilì e diffuse la prima lista dei libri proibiti. Ma vi furono sempre nei secoli esplicite censure e distruzioni di libri, basti citare la decretale di Giovanni XXII contro i libri e “gli errori” di Marsilio e di Giovanni Gianduno, ecc.. Secondo Guy Bedouelle (Diz. di st. della Chiesa, p. 131), anche il Concilio Laterano V, con la bolla Inter sollecitudine del 1515, prevedeva già una censura preventiva. E anche in termini di esclusiva la Chiesa ribadiva che la censura dottrinale dei libri poteva essere fatta anche da altri (potere politico); ma “la condanna con podestà di vero costringimento”, almeno per quelli che obbediscono a Roma, è prerogativa della sola Chiesa, anzi, del papa.

Nell’ultimo indice del 1948 figurano: F. Bacon, Balzac, Berkeley, Bergson, Cartesio, D’Alembert, Darwin, Simone de Beauvoir, Defoe, Diderot, Dumas (entrambi), Flaubert, Robert Fludd, Federico il Grande di Prussia, Giacomo I d’Inghilterra, Grotius, Heine, Hobbes, Hugo, Hume, Kant, Kepler, Lessing, Locke, Michael Maier, Malebranche, Montesquieu, Stuart Mill, Mills, Milton, Montaigne, Montesquieu, Henry More, Nietzsche, Pascal, Proudhon, Ernest Renan, Rousseau, George Sand, Sartre, Schopenauer, Spinoza, Stendhal, Sterne, Voltaire, Zola. E tra gli italiani Alfieri, Aretino, Beccaria, Bruno, Benedetto Croce, D’Annunzio, Fogazzaro, Foscolo, Galileo, Gentile, Giannone, Gioberti, Guicciardini, Leopardi, Marini, Minghetti, Monti, Ada Negri, Rosmini, Sacchetti, Sarpi, Savonarola, Settembrini, Tommaseo, Pietro Verri e anche il Teatro comico fiorentino; inoltre era all’Indice qualsiasi volume non autorizzato che trattasse di storia della massoneria o dell’Inquisizione e le versioni non cattoliche del Nuovo Testamento. Nel decennio successivo furono aggiunti tra gli altri Simone de Beauvoir, Gide, Sartre, Unamuno,

Malaparte e Moravia. Nell’elenco dei libri proibiti non fu inserito mai il Mein Kampf di Hitler, ma hanno trovato comodamente posto tanti altri personaggi che hanno veramente forgiato il pensiero europeo. tra cui Darwin e Marx.

(6) Il Concilio ebbe anche modo di occuparsi di Michelangelo. Nel 1551 un domenicano aveva anticipato tutti affermando, bontà sua, che Michelangelo è un grande artista nel raffigurare corpi nudi maschili e le loro pudenda  ma è un’assoluta indecenza vedere quelle nudità dappertutto, negli altari e sulle cappelle di Dio (il misogino Paolo di Tarso continua a colpire e resta l’idolo della confraternita della repressione ed oppressione sessuale!). Ed il Concilio decise di togliere quei nudi vergognosi, soprattutto nella Cappella Sistina. Nel 1565 il Papa Pio IV  pagò 60 scudi a Michele da Volterra che mise le braghe ai santi ed alle madonne del Giudizio Universale (fortuna che il tutto restò qui perché anni dopo, Clemente VIII ebbe la tentazione di distruggere l’intera opera). Approfitto per dire che quando si parla della libertà che la Chiesa lasciò agli artisti di esprimersi in completa libertà, si dice un’immensa sciocchezza che può essere misurata dal confronto di cosa facevano gli artisti fiamminghi nella stessa epoca. Da noi erano amputati. Lavoravano solo su santi e madonne, crocifissioni, natività, e cose sacre. Niente che li aprisse al mondo, alla natura, alla bellezza del corpo profano. Quando qualcuno fece qualcosa, come Leonardo, lo fece pagato e su incarico di stranieri.

(7) Era odiatissimo Paolo IV a Roma. Alla sua morte fu assaltato, saccheggiato, demolito ed incendiato il palazzo del Sant’Uffizio. Ma morto un  Papa criminale se ne fa un’altro e così Pio IV: nel 1562, fece massacrare 2.000 valdesi nel Sud d’Italia; nel 1567, fece decapitare e poi bruciare Pietro Carnesecchi, un eminente umanista di Firenze, perché diventato valdese; nel 1570, fece impiccare e poi bruciare Antonio Paleario, poeta, filosofo e letterato, perché sospettato di aver scritto questi versi:

«Quasi che fosse inverno,
brucia cristiani Pio siccome legna
per avvezzarsi al fuoco dell’inferno».

(8) Un parziale elenco di esecuzioni, impiccagioni, decapitazioni e roghi di eretici realizzate da Paolo IV, Pio IV e Pio V è la seguente:

Pontificato di Paolo IV


Cola Francesco di Salerno, giustiziato per eresia. 14 giugno 1555
Bartolomeo Hector, bruciato vivo per aver venduto due Bibbie. 20 giugno 1555.
Golla Elia e Paolo Rappi, protestanti, bruciati vivi a Torino. 22 giugno 1555.
Vernon Giovanni e Labori Antonio, evangelisti, bruciati vivi. 28 agosto 1555.
Stefano di Girolamo, giustiziato per eresia. 11 gennaio 1556.
Giulio Napolitano, bruciato vivo per eresia. 6 marzo 1556.
Ambrogio de Cavoli, impiccato e bruciato per eresia. 15 giugno 1556.
Don Pompeo dei Monti, bruciato vivo per eresia. 4 luglio 1556.
Pomponio Algerio, bruciato vivo per eresia. 19 agosto 1556.
Nicola Sartonio, luterano, bruciato vivo. 13 maggio 1557.
Jeronimo da Bergamo, Alessandra Fiorentina e Madonna Caterina, impiccati e bruciati per
omosessualità. 22 dicembre 1557.
Fra Gioffredo Varaglia, francescano, bruciato vivo per eresia. 25 marzo 1558.
Gisberto di Milanuccio, eretico, bruciato vivo. 15 giugno 1558.
Francesco Cartone, eretico, bruciato vivo. 3 agosto 1558.
14 protestanti bruciati vivi a Siviglia in Spagna. 1559.
15 protestanti bruciati vivi a Valladolid in Spagna. 1559.
Gabriello di Thomaien, bruciato vivo per omosessualità. 8 febbraio 1559.
Antonio di Colella arso vivo per eresia. 8 febbraio 1559.
Leonardo da Meola e Giovanni Antonio del Bò, impiccati e bruciati per eresia. 8 febbr.1559.
13 eretici più un tedesco di Augsburg accusato di omosessualità arsi vivi. 17 febbraio 1559.
Antonio Gesualdi, luterano, giustiziato per eresia. 16 marzo 1559.
Ferrante Bisantino, eretico, arso vivo.24 agosto 1559.
Scipione Retio, eretico, ucciso nelle carceri della Santa Inquisizione. 1559.

Pontificato di Pio IV  

Negli stati tedeschi, durante il 1562:
– 300 persone ad Oppenau
– 63 donne a Wiesensteig
– 54 donne a Obermachtal vengono bruciate vive per stregoneria.

Ed ancora:

1559 – Carneficina di Valdesi in Calabria per opera di bande di delinquenti assoldate dalla Chiesa (uomini, donne, vecchi e bambini atrocemente torturati prime di essere uccisi su diretto ordine del Papa).
1559 – “A Santo-Xisto, alla Guardia, a Montalto e a Sant’Agata si fecero cose inaudite: gente sgozzata, squartata, bruciata e orrendamente mutilata. Pezzi di resti umani furono appesi alle porte delle case come esempio alle genti. Quelli che fuggirono sulle montagne furono assediati fino a che morirono di fame. Molte donne e fanciulli furono ridotti in schiavitù”. (Da La Santa Inquisizione di Maurizio Marchetti. Ed. La Fiaccola).
1559 – I monaci dell’Abbazia di Perosa (Pinerolo) si divertirono a bruciare vivi a fuoco lento un prete evangelico insieme ai suoi fedeli.
1560 – Massacro di 4000 valdesi.
1560 – Giulio Ghirlanda, Baudo Lupettino, Marcello Spinola, Nicola Bucello, Antonio Rietto e Francesco Sega sono stati condannati a morte per aver partecipato ad una funzione religiosa (messa), in una casa privata, officiata da uno spretato.
1560 – Giacomo Bonello, evangelista, bruciato vivo.
1560 – Mermetto Savoiardo, eretico, bruciato vivo.
1560 – Dionigi Di Cola, eretico, bruciato vivo.
1560 – Aloisio Pascale, evangelista, impiccato e poi bruciato.
1560 – Gian Pascali di Cuneo, eretico, bruciato vivo.
1560 – Stefano Negrone, eretico, viene condannato a morire di fame nelle prigioni dell’inquisizione.
1560 – Stefano Morello, eretico, impiccato e poi bruciato.
1560 – Bernardino Conte, eretico, arso vivo.
1562 – Macario, vescovo di Macedonia ed eretico, bruciato vivo.
1562 – Si manifestano in Francia i primi segni di guerra religiosa tra gli Ugonotti (protestanti calvinisti) e i Cattolici.
1562 – Sono bruciate vive per stregoneria: 300 persone a Oppenau, 63 donne a Wiesensteig e 54 a Obermachtal in Gemania.
1562 – Cornelio di Olanda, eretico, impiccato e poi bruciato.
1564 – Francesco Cipriotto, eretico, impiccato e poi bruciato.
**** – Giulio Cesare Vanini, panteista, gli viene strappata la lingua e poi bruciato vivo.
**** – Giulio di Grifone, eretico, giustiziato.

Pontificato di Pio V


1566 – Muzio della Torella, eretco, giustiziato.
1566 – Giulio Napolitano, eretico, bruciato vivo.
1566 – Don Pompeo dei Monti, decapitato per eresia.
1566 – Curzio di Cave, decapitato per eresia,
**** – In questo periodo agisce nel Comasco e nel Bergamasco, Michele Ghislieri (poi papa Pio V), che nel giro di poco tempo consegnerà all’Inquisizione 1200 persone accusate di eresia. Di queste oltre 200 verranno regolarmente massacrate.
1567 – Ottaviano Fioravanti, eretico, murato vivo.
1567 – Giovannino Guastavillani, eretico, murato vivo.
1567 – Geronimo del Puzo, eretico, murato vivo.
1567 – Macario Giulio da Cetona, eretico, decapitato e poi bruciato.
1568 – Lorenzo Da Mugnano, eretico, impiccato e poi bruciato.
1568 – Matteo d’Ippolito, eretico, impiccato e poi bruciato.
1568 – Francesco Stanga, eretico, impiccato e poi bruciato.
1568 – Donato Matteo Minoli, eretico, viene lasciato morire in carcere dopo avergli rotto le ossa e bruciato i piedi.
1568 – Francesco Castellani, eretico, impiccato.
1568 – Pietro Gelosi, eretico, impiccato e poi bruciato.
1568 – Marcantonio Verotti, eretico, impiccato e poi bruciato.
1568 – Luca di Faenza, eretico, arso vivo.
1569 – Borghesi Filippo, eretico, decapitato e poi bruciato.
1569 – Giovanni del Blasi, eretico, impiccato e poi bruciato.
1569 – Camillo Ragnolo, eretico, inpiccato e poi bruciato.
1569 – Fra Cellario Francesco, eretico, impiccato e poi bruciato.
1569 – Bartolomeo Bertoccio, eretico, bruciato vivo.
1569 – Guido Zanetti, eretico, murato vivo.
1570 – Filippo Porroni, luterano, impiccato.
1570 – Gian Matteo di Giulianello, eretico, giustiziato(?).
1570 – Nicolò Franco, impiccato per avere deriso il papa con i suoi scritti.
1570 – Giovanni Di Pietro, eretico, impiccato e poi bruciato.
1570 – Aolio Pallero, eretico, impiccatbrespresso desiderio di Pio V.
1570 – Fra Arnaldo di Santo Zeno, eretico, bruciato vivo.
1571 – Don Girolamo di Pesaro, eretico, giustiziato(?).
1571 – Giovanni Antonio di Jesi, eretico, giustiziato(?).
1571 – Pietro Paolo di Maranzano, eretico, giustiziato(?).
1572 – Francesco Galatieri, eretico, pugnalato a morte da sicari del papa.
1572 – Madonna Dianora di Montpellier, eretica, impiccata e poi bruciata.
1572 – Madonna Pellegrina di Valenza, eretica, impiccata e poi bruciata.
1572 – Madonna Girolama Guanziana, eretica, impiccata e poi bruciata.
1572 – Madonna Isabella di Montpellier, eretica, impiccata e poi bruciata.
1572 – Domenico Della Xenia, eretico, impiccato e poi bruciato.
1572 – Teofilo Penarelli, eretico, impiccato e poi bruciato.
1572 – Alessandro Di Giulio, eretico, impiccato e poi bruciato.
1572 – Giovanni di Giovan Battista, eretico, impiccato e poi bruciato.
1572 – Girolamo Pellegrino, eretico, impiccato e poi bruciato.

Wikipedia riporta il seguente elenco di giustiziati dalla Chiesa Cattolica:

  1. Ramirdo di Cambrai (1076 o 1077)
  2. Pierre de Bruys († 1130)
  3. Arnaldo da Brescia predicatore († 1155)
  4. Gherardo Segarelli († 1300)
  5. Fra’ Dolcino († 1307)
  6. Suor Margherita († 1307)
  7. Longino († 1307)
  8. Margherita Porete († 1310)
  9. Botulf Botulfsson († 1311), l’unica condanna in Svezia
  10. Jacques de Molay (12431314)
  11. Guilhèm Belibasta († 1321), last Cathar
  12. Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili) astrologo e poeta († Firenze, 16.9.1327)
  13. Francesco da Pistoia († 1337)
  14. Lorenzo Gherardi († 1337)
  15. Bartolomeo Greco († 1337)
  16. Bartolomeo da Bucciano († 1337)
  17. Antonio Bevilacqua († 1337)
  18. Michele da Calci fraticello († Firenze, 1389)
  19. William Sawtre († 1401)
  20. John Badby († 1410)
  21. Jan Hus (13711415)
  22. Girolamo da Praga (13651416)
  23. Giovanna d’Arco (14121431)
  24. Thomas Bagley († 1431)
  25. Pavel Kravař († 1433)
  26. Girolamo Savonarola († 1498)
  27. Joshua Weißöck (14881498)
  28. Jean Vallière († 1523)
  29. Hendrik Voes († 1523)
  30. Jan van Essen († 1523),
  31. Jan de Bakker († 1525),
  32. Wendelmoet Claesdochter († 1527), prima donna olandese bruciata come eretica
  33. Michael Sattler († 1527)
  34. Patrick Hamilton († 1528)
  35. Balthasar Hubmaier (14851528), eretico recidivo
  36. George Blaurock (14911529)
  37. Hans Langegger († 1529)
  38. Giovanni Milanese († 1530)
  39. William Tyndale (14901536)
  40. John Frith (15031533)
  41. Jakob Hutter († 1536)
  42. Bartolomeo Fonzio francescano († Roma, 1538)
  43. Francisco de San Roman († 1540)
  44. Giandomenico dell’ Aquila († 1542)
  45. George Wishart (15131546)
  46. Fanino Fanini predicatore († Ferrara, 22.8.1550)
  47. Giorgio Siculo (G. Rioli) predicatore († Ferrara, 23.5.1551)
  48. Giovanni Mollio religioso (Roma, 5.9.1553)
  49. Francesco Gamba († Milano, 21.7.1554)
  50. John Rogers († 1555)
  51. Rowland Taylor († 1555)
  52. John Hooper († 1555)
  53. Robert Ferrar († 1555)
  54. Patrick Pakingham († 1555)
  55. Hugh Latimer (14851555), eretico recidivo
  56. Nicholas Ridley (15001555)
  57. Bartolomeo Hector († 1555)
  58. Paolo Rappi († 1555)
  59. Vernon Giovanni († 1555)
  60. Labori Antonio († 1555)
  61. John Bradford († 1555)
  62. Pompeo Algieri studente († Roma, 1555)
  63. Thomas Cranmer (14891556), eretico recidivo
  64. Pomponio Angerio († 1556)
  65. Nicola Sartonio († 1557)
  66. Fra Goffredo Varaglia († 1558)
  67. Gisberto di Milanuccio († 1558)
  68. Francesco Cartone († 1558)
  69. Antonio di Colella († 1559)
  70. Antonio Gesualdi († 1559)
  71. Giacomo Bonello († 1560)
  72. Mermetto Savoiardo († 1560)
  73. Dionigi di Cola († 1560)
  74. Ludovico Pasquali di Cuneo († Roma, 9.9.1560)
  75. Bernardino Conte († 1560)
  76. Giulio Gherlandi anabattista († Venezia, 15.10.1562)
  77. Antonio Ricetto († Venezia, 15.2.1565)
  78. Francesco della Sega anabattista († Venezia, 26.2.1565)
  79. Gian Francesco d’Alois poeta († 1565)
  80. Publio Francesco Spinola umanista († Venezia, 31.1.1567)
  81. Giorgio Olivetto († 1567)
  82. Pietro Carnesecchi umanista (Roma, 1.10.1567)
  83. Luca di Faenza († 1568)
  84. Thomas Szük (15221568)
  85. Bartolomeo Bartoccio († 1569)
  86. Francesco Cellario pastore protestante († Roma, 25.5.1569)
  87. Dirk Willems († 1569)
  88. Fra Arnaldo di Santo Zeno († 1570)
  89. Aonio Paleario umanista († Roma, 3.7.1570)
  90. Alessandro di Giacomo († 1574)
  91. Benedetto Thomaria († 1574)
  92. Francisco de la Cruz domenicano (Lima, 1578)
  93. Diego Lopez († 1583)
  94. Gabriello Henriquez († 1583)
  95. Borro of Arezzo († 1583)
  96. Ludovico Moro († 1583)
  97. Pietro Benato († 1585)
  98. Francesco Gambonelli († 1594)
  99. Marcantonio Valena († 1594)
  100. Giovanni Antonio da Verona († 1599)
  101. Fra Celestino († 1599)
  102. Giordano Bruno (15481600)
  103. Maurizio Rinaldi († 1600)
  104. Bartolomeo Coppino († 1601)
  105. Assuero Bisbiach viaggiatore tedesco († Bologna, 5.11.1618)
  106. Giulio Cesare Vanini filosofo italiano († Toulouse 9.2.1619)
  107. Kimpa Vita (16841706)
  108. Maria Barbara Carillo (16251721)

(9)  Di seguito presento un parzialissimo elenco dei giustiziati dall’Inquisizione sotto Gregorio XIII, Sisto V e Gregorio XIV:

Pontificato di Gregorio XIII

Alessandro di Giulio, impiccato e bruciato per eresia. 15 marzo 1572.
Giovanni di Giovan Battista, impiccato e bruciato perché eretico. 15 marzo 1572.
Girolamo Pellegrino, impiccato e bruciato per eresia. 19 luglio 1572.
500 eretici massacrati in Croazia per ordine del vescovo cattolico Juraj Draskovic. 1573.
Nicolò Colonici eretico impiccato e bruciato.
Giovanni Francesco Ghisleri, strangolato nelle carceri dell’Inquisizione. 25 ottobre del 1574.
Alessandro di Giacomo, arso vivo. 19 novembre 1574.
Benedetto Thomaria, eretico bruciato vivo. 12 Maggio 1574.
Don Antonio Nolfo, eretico giustiziato. 29 luglio 1578.
Giovanni Battista di Tigoni, eretico giustiziato. 29 luglio 1578.
Baldassarre di Nicolò, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Antonio Valies de la Malta, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Francesco di Giovanni Martino, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Bernardino di Alfar, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Alfonso di Poglis, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Marco di Giovanni Pinto, eretico impiccato e bruciato.13 agosto 1578.
Girolamo di Giovanni da Toledo, eretico impiccato e bruciato 13 agosto 1578.
Gaspare di Martino, eretico impiccato e bruciato. 13 agosto 1578.
Fra Clemente Sapone, eretico impiccato e bruciato. 29 novembre 1578.
Pompeo Loiani, eretico impiccato e bruciato. 12 giugno 1579.
Cosimo Tranconi, eretico impiccato e bruciato. 12 giugno 1579.
222 ebrei bruciati al rogo per ordine della Santa Inquisizione. 1558.
Salomone, ebreo impiccato per aver rifiutato il battesimo. 13 marzo 1580.
Un inglese bruciato vivo per aver offeso un prete. 2 agosto 1581.
Diego Lopez, bruciato vivo per eresia. 18 febbraio 1583.
Domenico Danzarelli, impiccato e bruciato per eresia. 18 febbraio 1583.
Prospero di Barberia, eretico impiccato e bruciato. 18 febbraio 1583.
Gabriello Henriquez, bruciato vivo per eresia. 18 febbraio 1583.
Borro d’Arezzo, bruciato vivo per eresia. 7 febbraio 1583.
Ludovico Moro, eretico arso vivo. 10 luglio 1583.
Fra Camillo Lomaccio, Fra Giulio Carino, Leonardo di Andrea strangolati nel carcere di Tor Nona per eresia. 23 luglio 1583.
Lorenzo Perna, arrestato per ordine del cardinale Savelli per eresia, si ignora la sua fine. 16 giugno 1584.
La Signora di Bellegard, arrestata per eresia, si ignora la sua fine. Ottobre 1584.
Giacomo Paleologo, decapitato e bruciato. 22 marzo 1585.
I fratelli Missori decapitati per aver espresso il diritto alla libertà di stampa. Le loro teste furono lasciate in esposizione al pubblico. 22 marzo 1585.

Pontificato di Sisto V

Fece impiccare uno spagnolo per aver ucciso con una bastonata un soldato svizzero che lo aveva ferito con l’alabarda.
Respinta la richiesta di sostituire la forca con la mannaia, Sisto V assisteva gioiosamente alle esecuzioni facendosi portare da mangiare perché “questi atti di giustizia gli accrescevano l’appetito“. Dopo l’esecuzione di una sentenza disse: «Dio sia benedetto per il grande appetito con cui ho mangiato».
Pietro Benato, arso vivo per eresia. 26 aprile 85.
Pomponio Rustici, Gasparre Ravelli, Antonio Nantrò, Fra Giovanni Bellinelli, impiccati e bruciati vivi per eresia. 5 agosto 1587.
Vittorio, conte di Saluzzo, giustiziato per eresia. 9 dicembre 1589.
Valerio Marliano, eretico impiccato e bruciato. 16 febbraio 1590.
Don Domenico Bravo, decapitato per eresia. 30 marzo 1590.
Fra Lorenzo dell’Aglio, impiccato e bruciato.13 aprile 1590.

Pontificato di Gregorio XIV

Fra Andrea Forzati, Fra Flaminio Fabrizi, Fra Francesco Serafini, impiccati e bruciati. 6 febbraio 1591.
Giovanni Battista Corobinacci, Giovanni Antonio de Manno Rosario, Alexandro d’Arcangelo, Fulvio Luparino, Francesco de Alexandro, giustiziati. Giugno 1590.
Giovanni Angelo Fullo, Giò Carlo di Luna, Decio Panella, Domenico Brailo, Antonio Costa, Fra Giovanni Battista Grosso, l’Abate Volpino, insieme ad altri seguaci di Fra Girolamo da Milano, arrestati dalla Santa Inquisizione, si ignora la loro fine… 1590.
(Tutto questo in un solo anno di Santo Pontificato!).

(10) Per oltre dodici anni, prima della stupida Bolla di Pio V Regnans in Excelsis, i cattolici inglesi avevano vissuto sotto Elisabetta subendo solo qualche multa per non partecipare alle cerimonie della chiesa anglicana. Nessuno di loro era stato giustiziato. Gli effetti della Bolla furono di trasformare i cattolici inglesi in traditori. Tra il 1577 ed il 1603 furono messi a morte 120 preti e 60 laici. Questi coraggiosi fedeli dovettero attendere 250 anni più di Pio V per essere canonizzati. Cercare di minare il patriottismo inglese fu una azione crudele e pericolosa, che ridusse i cattolici a cittadini di second’ordine.

(11) Per innalzare l’obelisco che era alto  25 metri e pesava 3.500 tonnellate, Fontana fece erigere  una robusta impalcatura con argani e carrucole per farvi scorrere le funi; per azionarli vi lavoravano 800 uomini e 75 cavalli. Prevedendo le difficoltà ed i pericoli dell’impresa, Fontana aveva ottenuto   che la piazza fosse completamente sbarrata e che fosse vietato  di fare il minimo rumore, di pronunziare una sola parola, di lanciare il minimo grido. Per i contravventori  era prevista la pena di morte Il cronista, ma anche lo stesso Fontana che ci lasciò un documento  su questo avvenimento, raccontano che per rendere più efficace il divieto fu innalzata sulla piazza una forca. Il 10 settembre 1586, dopo 13 mesi di lavoro, in 52 riprese l’obelisco fu sollevato verticalmente sulla base. Improvvisamente accadde  un fatto che gelò il sangue  nelle vene a tutti i presenti: le funi che sorreggevano il monolite si distesero a poco a poco  e l’obelisco cominciò ad inclinarsi. Quand’ecco che nel silenzio si udì un grido “ Acqua alle funi”. Un marinaio con lunga esperienza  sull’uso dei canapi in mare, aveva suggerito la soluzione. Il consiglio fu seguito: le corde bagnate  si restrinsero  e l’obelisco fu raddrizzato e poggiato sulla base. Il marinaio, di nome Bresca, però aveva disobbedito  e,  la legge è legge, doveva essere punito. Ma la ragione prevalse e il marinaio che aveva salvato l’obelisco ma certo anche la vita del Fontana che  avrebbe pagato con la sua testa  la cattiva riuscita dell’impresa, fu chiamato  dal  Papa che  lo perdonò e lo invitò a chiedere una grazia. Questi chiese il privilegio per sé e i suoi discendenti di fornire al Vaticano le palme per la cerimonia domenicale di Pasqua, quelle palme che crescono nella sua Liguria. Il monopolio fu accordato. Quasi tutte le fonti, manoscritti e stampe escludono che l’episodio di “Acqua alle funi” si riferisca all’obelisco di Piazza San Pietro. Un episodio  del genere era accaduto nell’ippodromo di Costantinopoli durante i lavori per innalzare l’obelisco   per volere di Teodosio nel 399 Di questo episodio riferì un viaggiatore tedesco che visitò Roma nel 1555 e che….di bocca in bocca si trasformò in leggenda metropolitana. [Tratto da Obelischi di Roma].

(12) Alcuni tra gli eretici ammazzati da Clemente VIII, Paolo V ed Urbano VIII:

Pontificato di Clemente VIII

Giordano Bruno, bruciato vivo per eresia il 17 febbraio 1600.
Quattro donne e un vecchio bruciate vive per eresia. 16 febbraio 1600.
Francesco Gambonelli, eretico arso vivo. 17 febbraio 1594.
Marcantonio Valena e un altro luterano, arsi vivi. agosto 1594.
Graziani Agostini, eretico impiccato e bruciato. 1596.
Prestini Menandro, eretico impiccato e bruciato. 1596.
Achille della Regina, se ne ignora la fine. Giugno 1597.
Cesare di Giuliano, eretico impiccato e bruciato. 1597.
Damiano di Francesco, eretico impiccato e bruciato. 1597.
Baldo di Francesco, impiccato e bruciato per eresia. 1957.
De Magistri Giovanni Angelo, eretico impiccato e bruciato.1597.
Don Ottavio Scipione, eretico, decapitato e bruciato.1597.
Giovanni Antonio da Verona e Fra Celestino, eretici bruciati vivi. 16 settembre 1599.
Fra Cierrente Mancini e Don Galeazzo Porta decapitati per eresia. 9 novembre 1599.
Maurizio Rinaldi, eretico bruciato vivo. 23 febbraio 1600.
Francesco Moreno, eretico impiccato e bruciato. 9 giugno 1600.
Nunzio Servandio, ebreo impiccato. 25 giugno 1600.
Bartolomeo Coppino, luterano arso vivo. 7 aprile 1601.
Tommaso Caraffa e Onorio Costanzo eretici decapitati e bruciati. 10 maggio 1601.
Domenico Scardella, detto Menocchio, un contadino friulano giustiziato nel 1600 con una storia che merita di essere conosciuta per l’aberrazione che portò il povero contadino ad essere giustiziato.

Pontificato di Paolo V

Giovanni Pietro di Tunisi, impiccato e bruciato. 1607.
Giuseppe Teodoro, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Felice d’Ottavio, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Rossi Francesco, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Antonio di Jacopo, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Fortunato Aniello, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Vincenti Pietro, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Umberto Marcantonio, eretico impiccato e bruciato. 1609.
Fra Manfredi Fulgenzio, eretico impiccato e bruciato. 1610.
Lucarelli Battista, eretico impiccato e bruciato. 1610.
Emilio di Valerio, ebreo, impiccato e bruciato. 1610.
Don Domenico di Giovanni, per essere passato dal cristianesimo all’ebraismo, impiccato. 1611.
Giovanni Milo, luterano impiccato. marzo 1611.
Giovanni Mancini, per aver celebrato la messa da spretato impiccato e bruciato. 22 ottobre 1611
Jacopo de Elia, ebreo impiccato e bruciato. 22 gennaio 1616.
Francesco Maria Sagni, eretico impiccato e bruciato. 1 luglio 1616.
Arrestato un negromante zoppo, arso vivo per stregoneria. 1617.
Lucilio Vanini, arso vivo per aver messo in dubbio l’esistenza di Dio. 17 febbraio 1618.
Migliaia di eretici trucidati dai cattolici nei Grigioni in Valtellina. 1620.

Pontificato di Urbano VIII

Ferrari Ambrogio, eretico impiccato. 1624.
Donna Anna Sobrero, morta di peste in carcere dove era stata condannata a vita. 1627. (Nei mesi che seguirono, tutti coloro che passarono per quel carcere, morirono di peste).
Frate Serafino, eretico, impiccato e bruciato. 1634.
Giacinto Centini, decapitato per aver offeso la sovranità papale. 1635.
Fra Diego Giavaloni, eretico impiccato e bruciato. 1635.
Alverez Ferdinando, bruciato vivo per essersi convertito all’ebraismo. 19 marzo 140.
Policarpo Angelo, impiccato e bruciato per aver celebrato la messa da spretato. 19 maggio 1642.
Ferrante Pallavicino, eretico impiccato e bruciato. 1644.
Fra Camillo d’Angelo, Ludovico Domenico, Simone Cossio, Domenico da Sterlignano, giustiziati per eresia. 1644.

(13) Riporto da Wikipedia, alla voce Papa Clemente VIII, il passo breve riguardante la vicenda di Beatrice Cenci:

Il caso di Beatrice Cenci fu preso come esempio della giustizia ingiusta [di Clemente VIII, ndr]. Beatrice era figlia di Francesco Cenci, un nobile di indole violenta, più volte incriminato per i suoi vizi e rilasciato solo grazie alla sua ricchezza, e di Ersilia Santacroce, morta di parto, dopo essere stata madre di altri 12 figli. Dopo la morte della moglie, il padre cominciò ad abusare di lei e della sorella. I suoi fratelli cercarono molte volte di denunciare i soprusi paterni, ma Clemente VIII, dietro pressioni di amici del padre, fu costretto a farli esiliare. Le due sorelle, senza l’appoggio dei fratelli, rimasero alla mercé del padre. La più grande si salvò solo grazie all’intercessione dello stesso Clemente VIII, che la diede in sposa al conte Carlo Gabrielli, membro della più nobile famiglia di Gubbio. Il conte Cenci, sentendosi controllato, decise di allontanarsi da Roma, portando con sé Beatrice e la seconda moglie Lucrezia Petroni, nella fortezza di Petrella Salto (oggi in provincia di Rieti). Beatrice cercò di far giungere al papa una lettera in cui spiegava la sua situazione, ma tale comunicazione non arrivò mai. Ormai giunta alla disperazione, aiutata dal fratello Giacomo e da due vassalli, decise che il padre doveva morire.

Si sarebbe dovuto simulare un sequestro con uccisione dell’ostaggio a causa del ritardato pagamento del riscatto, ma i banditi ingaggiati per lo scopo fallirono. Tuttavia, la sera del 9 settembre 1598 Beatrice e Lucrezia riuscirono a far mangiare un po’ di oppio a Francesco, che cadde in un sonno profondo. Una volta sicuri che il conte stesse dormendo, vennero fatti entrare i due vassalli, che, usando il martello, conficcarono un chiodo in testa e uno in gola al conte. Una volta tolti i chiodi, il cadavere venne avvolto in un lenzuolo e gettato da un balconcino nel giardino sottostante. Tutti pensarono ad un incidente.

All’inizio non indagò nessuno, ma poi il giudice di Napoli, sospettando qualcosa, mandò un ispettore a Petrella per svolgere le indagini di rito. L’uomo non trovò alcun indizio, ma alla fine parlando con una lavandaia venne a sapere di un lenzuolo sporco di sangue e lavato. Grazie alle rivelazioni della lavandaia, tutti i personaggi coinvolti nella storia furono formalmente indagati.

Un giovane prelato, monsignor Guerra, che si era innamorato di Beatrice, fece allora eliminare i due assassini del conte. Uno fu ucciso e l’altro arrestato. Quest’ultimo, nel tentativo di salvarsi, rese piena confessione, salvo poi ritrattare in contraddittorio con la giovane. Ormai sembrava fatta, ma poco tempo dopo fu arrestato il sicario dell’assassino, che raccontò tutti i particolari della vicenda mettendo nei guai monsignor Guerra e gli altri.

Il monsignore fuggì da Roma travestito da carbonaro, mentre Lucrezia, Giacomo, Bernardo e Beatrice Cenci furono tradotti al carcere di Corte Savella. I primi tre, sottoposti alla tortura della corda confessarono. Beatrice, nonostante le braccia slogate, resistette. Clemente VIII era convinto che il giudice a cui fu affidato il caso fosse stato troppo clemente, per cui decise di sostituirlo. A questo punto Beatrice, appesa per i capelli, confessò. Molti principi e cardinali, impietositi dalla storia, decisero di cercare di difendere i giovani. Ottennero 25 giorni di proroga per presentare una difesa, che fu impostata sulla legittima difesa e sulla cattiva reputazione di Francesco Cenci.

Sembrava che le cose potessero andare per il meglio, ma in quello stesso periodo vi furono un matricidio ed un fratricidio, per cui il papa decise di non fare eccezioni. Venerdì 10 settembre 1599 Clemente VIII ordinò l’esecuzione. Il giorno dopo, alle sei del mattino, Beatrice fu informata della sentenza. Giusto il tempo di fare testamento e di lasciare tutti i suoi averi in beneficenza. Il corteo per il patibolo partì dal carcere di Tor di Nona, dove si trovavano Giacomo e Bernardo, che fu graziato in quanto quindicenne, ma a cui fu imposto di assistere all’esecuzione. La fermata successiva fu il carcere di Corte Savella, dove si trovavano Lucrezia e Beatrice. Il patibolo era nella piazza di Castel Sant’Angelo. La prima a essere uccisa fu Lucrezia, poi fu il turno di Beatrice, quindi toccò a Giacomo. Alle 21.15 il corpo di Beatrice fu sepolto, secondo le sue volontà, nella chiesa di San Pietro in Montorio al Gianicolo.

La storia e la vita di Beatrice, da allora, sono il simbolo dell’ingiustizia e di un’infanzia rubata che costrinsero la ragazza a difendersi, ma al contempo a condannarsi, in virtù di leggi che non conoscono il sapore del dolore e del senso di violazione di un diritto.

Si può anche vedere direttamente la voce estesa su Beatrice Cenci.

(14) Lo scontro con Venezia fu molto duro e riguardò varie leggi veneziane che la Chiesa non riconosceva perché in contrasto con le proprie. Intanto vi fu la protesta con il Doge per quella legge veneziana che prevedeva che tutti i navigli, e quindi anche quelli pontifici, di passare per Venezia. Vi era poi il problema delle estradizioni che Venezia non concedeva dichiarandosi in grado di giudicare per suo conto ogni reato. Il problema era già sorto con Giordano Bruno che era stato arrestato a Venezia e che, purtroppo, fu estradato a Roma dopo forti pressioni pontificie ed un cedimento che lasciò l’amaro in bocca a molti veneziani. Ora Paolo V chiedeva l’estradizione di due monaci che avevano commesso dei reati comuni e Venezia non cedette. Altra questione, e forse la più rilevante vista l’eterna avidità della Chiesa, riguardava i lasciti di beni immobili agli ecclesiastici che la Repubblica vietava (a meno di permessi speciali del Senato). A ciò si univa il divieto di Venezia di istituire luoghi di culto e monasteri sul suo territorio. Prima vi furono le solite minacce di scomunica che con la città lagunare non funzionarono. Quindi inviò due messi al senato veneziano per dichiarare la nullità dei provvedimenti riguardanti interessi della Chiesa. Anche qui Venezia non si fece intimidire rispondendo autorevolmente con le argomentazioni del teologo Paolo Sarpi (personaggio di grande spessore che avrà rapporti con Galileo) che con estrema chiarezza distinse il potere temporale da quello spirituale. Paolo V passò allora alla scomunica dell’intero Senato di Venezia e all’interdetto per l’intero territorio della Repubblica (1606). Anche qui Venezia non accettò i ricatti della Chiesa e rispose anzi facendo affiggere alla porta della Basilica di San Pietro in Roma un editto dal titolo Protesto in cui si affermava che i provvedimenti papali contro Venezia erano nulli essendo presi in contrasto con le Scritture e ad ogni insegnamento dei Padri della Chiesa. In contemporanea il Protesto fu diffuso a tutte le istituzioni religiose della Repubblica con l’ordine ai religiosi di non tener conto dell’interdetto e di continuare con ogni cerimonia religiosa. Tutti obbedirono al Senato tranne Gesuiti, Teatini e Cappucini. Il Senato espulse i primi dalla Repubblica (dovette proteggerli mentre se ne andavano perché la popolazione voleva linciarli) mentre gli altri se ne andarono da soli. Tutte le cerimonie religiose andarono avanti con normalità, comprese le processioni che ebbero maggior pompa e accudire di popolo, per ulteriore schiaffo al Papa. La controversia durò per un anno finché non intervennero la Spagna con Felipe III (successore di Felipe II) e la Francia con Enrico IV. Le due potenze cattoliche mediarono per motivi di schieramento internazionale che non avrebbe potuto vedere la Repubblica schierata da parte opposta rispetto al Papa. I due ecclesiastici richiesti furono consegnati alla Francia che li passò allo Stato Pontificio (fu l’unica concessione al Papa), l’interdetto e la scomunica furono annullati ed il Protesto fu ritirato. I Teatini ed i Cappuccini poterono ritornare ma i Gesuiti no.

(15)

DECRETUM
Sacrae Congregationis Illustrissimorum S. R. E. Car-
dinalium, a S. D. N. Paulo Papa V Sanctaque Sede
Apostolica ad Indicem librorum, eorumdemque
permissionem, proibitionem, expurgationem et
impressionem in universa Republica Christia-
na, specialiter deputatorum, ubique publi-
candum.

Cum ab aliquo tempore dira prodierint in lucem inter alias nonnulli libri varias haereses atque errores continentes, ideo Sacra Congregatio Illustrissimorum S. R. E. Cardinalium ad Indicem deputatorum, ne ex eorum lectione graviora in dies damna in tota Republica Christiana oriantur, eos omnino damnandos atque prohibendos esse voluit; siculi praesenti Decreto poenitus damnat et prohibet, ubicumque et quovis idiomate impressos aut imprimendos: mandans ut nullus deinceps, cuiuscumque gradus et conditionis, sub poenìs in Sacro Concilio Tridentino et in Indice libro-rum prohibitorum contentis, eos audeat imprimere aut imprimi curare, vel quomodocumque apud se detinere aut legere; et sub iisdem poenis, quicumque nunc illos habent vel habuerint in futurum, locorum Ordinariis seu Inquisitoribus, statim a praesentis Decreti notitia, exhibere teneantur. Libri autem sunt infrascripti, videlicet:
Theologiae Calvinistarum libri tres, auctore Conrado Schlusserburgio.
Scotanus Redivivus, sive Comentarius Erotematicus in tres priores libros codicis, etc.
Gravissimae quaestionis Christianarum Ecclesiarum in Occidente praesertim partibus, ab Apostolicis temporibus ad nostram usque aetatem continua successione et statu, historica explicatio, auctore lacobo Usse-rio, Sacrae Theologiae in Dubliniensi Academia apud Hybernos professore.
Friderici Achillis, Ducis Vuertemberg, Consultatio de principatu inter Provincias Europae, habita Tubingiae in Illustri Collegio, Anno Christi 1613.
Donelli Enucleati, sive commentariorum Hugonis Donelli de lure Civili, in compendiimi ita redactorum etc.
Et quia etiam ad notitiam praefatae Sacrae Con-gregationis pervenit, jalsam illam doctrinam Pithagorìcam, divinaeque Scnpturae omnino adversantem, de mobilitate terrae et immobilitate solis, quam Nicolaus Copernicus De revolutionibus orbium coelestium, et Didacus Astunica in Job, etiam docent, iam divulgari et a multis recìpi; siculi videre est ex quadam Epistola impressa cuiusdam Patris Carmelitae, cui titulus: «Lettera del R. Padre Maestro Paolo Antonio Foscarini Carmelitano, sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico della mobilità della terra e stabilità del sole, et il nuovo Pittagorico sistema del mondo. In Napoli, per Lazzaro Scoriggio, 1615 », in qua dictus Poter estendere conatur, praefatam doctrinam de immobilitate solis in centro mundi et mobilitate terrae consonam esse ventati et non adversari Sacrae Scnpturae; ideo, ne ulterius huiusmodi opinio in perniciem Catholicae veritatis serpai, censuit, dictos Nicolaum Copernicum De revolutionibus orbium, et Didacum Astunica in Job, suspendendos esse, donec corrigantur; librum vero Patris Pauli Antonii Foscarini Carmelitae omnino prohìbendum atque damnandum; aliosque omnes li-bros, pariter idem docentes, prohibendos: prout praesenti Decreto omnes respective prohibet, damnat atque suspendit.

(16) Die Jovis 25 Februarii 1616.

Ill.mus D. Cardinalis Millinus notificavi RR. PP. DD. Assessori et Commissario S.cti Officii, quod relata censura PP. Theologorum ad propositiones Gallilei Mathematici, quod sol sit centrum mundi et immobilis motii locali, et terra moveatur etiam motu diurno, S.mus ordinavit Ill.mo D. Cardinali Bellarmino, ut vocet_coram se dictum Galileum, eumque moneat ad deserendam dictam opinionem ; et si recusaverit parere, P. Commissarius, coram notario et testibus, faciat illi praeceptum ut omnino abstineat huiusmodi doctrinam et opinionem docere aut defendere, seu de ea tractare; si vero non acquieverit, carceretur.

     Die Veneris 26 eiusdem.

In palatio solitae habitationis dicti Ill.mi D. Card.lis Bellarminii et in mansionibus Dominationis Suae Ill.mae, idem Ill.mus D. Card.lis, vocato supradicto Galileo, ipsoque coram D. sua Ill.ma existente, in praesentia admodum R. P. Fratris Michaelis Ange!i Seghitii de Lauda, ordinis Praedicatorum, Commissarii generalis S.ti Officii, praedictum Galileum monuit de errore supradictae opinionis et ut illam deserat; et successive ac incontinenti, in mei etc. et testium etc., praesente etiam adhuc eodem Ill.mo D.Card.li supradictus P. Commissarius praedicto Galileo adhuc ibidem praesenti et constituto praecepit et ordinavit [proprio nomine] S.mi D. N. Papae et totius Congregationis S.ti Officii, ut supradictam opinionem, quod sol sit centrum mundi et immobilis et terra moveatur, omnino relinquat, nec eam de caetero, quovis modo, teneat, doceat aut defendat, verbo aut scriptis; alias, cantra ipsum procedetur in S.to Officio. Cui praecepto idem Galileus acquievit et parere promisit. Super quibus etc.
Actum Romae ubi supra, praesentibus ibidem R.do Badino Nores de Nicosia in regno Cypri, et Augustino Mongardo de loco Abbatiae Rosae, dioc. Politianensis, familiaribus dicti Ill.mi D. Cardinalis, testibus etc.

(17) Con Urbano VIII seguirono gli sfregi alla Roma Imperiale. I monumenti di Roma, quelli salvati da precedenti furti da chiese varie e palazzi papali vari, furono depredati da Barberini per le sue manie di grandezza sulle spalle degli altri. Ad esempio, le belle colonne di bronzo a tortiglione che adornano l’altare della Basilica di San Pietro, provengono dalla fusione delle statue ed i bronzi (sia quelli delle travi dell’atrio che il rivestimento interno della cupola) che adornavano il Pantheon. I marmi di Palazzo Barberini (ai piedi del Quirinale) provengono dalla spoliazione del Colosseo. E così via.

(18) Il Giansenismo è altra eresia, dichiarata eretica dalla Chiesa nel 1653, che nacque nel 1640 dall’opera Augustinus, pubblicata due anni dopo la morte del suo autore, Cornelius Jansen, professore di Sacra Scrittura all’Università di Lovanio. In somma sintesi essa considera l’uomo come impossibilitato, dopo la cacciata dal paradiso Terrestre, a non fare il male e quindi è una messa in discussione del libero arbitrio. La salvezza dell’uomo, la grazia, non può che provenire direttamente da Dio. Il Giansenismo ebbe come feroci oppositori i Gesuiti ed ebbe (anche) Blaise Pascal come difensore con l’affermazione che l’averlo considerato eretico nasceva da una cattiva comprensione di esso da parte della Chiesa.

(19)  Nella sistemazione di Piazza Navona, iniziata nel 1647, ebbe grande importanza la sistemazione dell’obelisco che era stato ritrovato sulla Via Appia nei pressi del Circo Massimo. L’opera all’inizio assegnata a Borromini passò successivamente a Bernini che la terminò nel 1651. Essa fu pagata con i proventi delle tasse sul pane, sul vino e su altri generi di consumo, che attirarono sul Papa l’odio popolare.

(20) La famiglia Pallavicini ebbe questo nome altisonante come modifica di un nomignolo che anticamente li accompagnava: Pela vicino, che vuol dire ruba al vicino.

(21) Alcuni tra gli eretici ammazzati da Alessandro VII ed Innocenzo XI:

Pontificato di Alessandro VII

Fello Giovanni, sacerdote, decapitato per eresia. 1657.
1.712 Valdesi massacrati nelle Valli Alpine. 1655.

Pontificato di Innocenzo XI

20 ebrei condannati al rogo. 1680.
Vincenzo Scatolari, per aver esercitato la professione di giornalista senza autorizzazione di Santa Madre Chiesa. Decapitato. 2 agosto 1685.
2.000 Valdesi massacrati nelle Valli Alpine per ordine diretto del Papa. Maggio 1686.
24 protestanti uccisi dai cattolici a Pressov in Slovacchia. 1687.

(22) Nel 1672 il re emanò la Royal Declaration of Indulgence, con la quale permetteva la libertà di culto ai cattolici e poneva fine all’atteggiamento anti-cattolico della Corte. Nello stesso anno diede inoltre pieno appoggio alla Francia cattolica del cugino Luigi XIV e diede inizio alla Terza guerra anglo-olandese. IlParlamento si oppose con decisione alla Dichiarazione di Indulgenza affermando che il re non poteva modificare le leggi a suo piacimento senza la consultazione del Parlamento. Carlo revocò la Dichiarazione e fu costretto a sottoscrivere il Test Act, che imponeva diverse inabilità civili ai cattolici: per occupare una carica pubblica, per esempio, era necessario appartenere alla religione di Stato, l’anglicanesimo.

(23) I sessantuno cardinali, che tra il febbraio e il luglio del 1691 si riunirono per scegliere il successore di papa Ottoboni, costituivano un gruppo piuttosto eterogeneo. Quindici di loro erano stati “creati” dal defunto pontefice, che tuttavia aveva regnato troppo poco per influire in maniera determinante sulla composizione del Sacro Collegio. Il gruppo più numeroso di porporati (ventisette) era perciò ancora costituito dalle “creature” di Innocenzo XI. Alcuni di questi erano confluiti nel partito ispano-imperiale guidato dai cardinali Francesco Maria de’ Medici e Flavio Chigi, ma un buon numero di loro si riconosceva piuttosto nel partito degli zelanti, guidati dal cardinale Leandro Colloredo, cui si opponeva il partito francese, capeggiato dai cardinali Carlo Barberini, Pietro Ottoboni jr e Paluzzi Altieri. Gli zelanti – tra i quali si stava facendo strada l’idea che una riforma della Curia fosse ormai improrogabile, e che la pratica del nepotismo non fosse proprio più difendibile – caldeggiavano l’elezione del cardinale Gregorio Barbarigo, sostenuto da Chigi e fieramente osteggiato da Paluzzi Altieri e Ottoboni. Ma la fama di francofilo di Barbarigo suscitava l’ostilità di Leopoldo d’Asburgo, tanto che in marzo giunse da Vienna l’esclusiva contro di lui. Alla fine di aprile, dopo più di due mesi di conclave, la situazione di stallo cui si era giunti fece sì che si cominciassero a proporre nuovi nomi e verso la fine di maggio quello di Antonio Pignatelli prese a circolare con sempre maggiore insistenza. Pignatelli ebbe quasi subito dalla sua “li Ottoboniani e Alteriani, come anco li zelanti, che hanno tirato gl’Innocentiani, Imperiali e Spagnoli”. Al contrario “li Francesi e Chigi si mostrarono alquanto duri a concludere” e bisognò letteralmente attendere l’ultimo minuto perché cadessero le loro residue resistenze. In ogni caso il 12 luglio Antonio Pignatelli fu elevato alla cattedra di s. Pietro, assumendo il nome di Innocenzo XII. (Tratto da Treccani.it).

(24) Riporto un altro elenco di persone cadute sotto la mannaia dell’Inquisizione:

 Pontificato di Innocenzo XII

Martino Alessandro, morto in carcere per tortura. 3 maggio 1690.
37 ebrei bruciati vivi. 1691.
Antonio Bevilacqua e Carlo Maria Campana, cappuccini, decapitati perché seguaci del Quietismo di Molinos. 26 marzo 1695.

Pontificato di Clemente XI

Filippo Rivarola, portato al patibolo in barella per le torture ricevute, decapitato. 4 agosto 1708.
Spallaccini Domenico, impiccato e bruciato per aver bestemmiato a causa di un colpo di alabarda ricevuta da una guardia papalina. 28 luglio 1711.
Gaetano Volpini, decapitato per aver scritto una poesia contro il Papa. 3 febbraio 1720.

Pontificato di Clemente XII

Questo Papa, ripristinando la “mazzolatura” (rottura delle ossa a colpi di bastone), si dimostrò uno dei più cinici sostenitori dell’arte della tortura.
Pietro Giannone, filosofo e storico, morì sotto tortura per aver sostenuto la supremazia del re sulla curia romana. 24 marzo 1736.
Enrico Trivelli, decapitato per aver scritto frasi di rivolta contro il Papa. 23 febbraio 1737.
Le numerose vittime di questo Papa sono rimaste sconosciute perché egli preferiva più uccidere sotto tortura nella carceri dell’Inquisizione che giustiziarle nelle pubbliche piazze. In ogni caso, l’attenuarsi dei bestiali processi dell’Inquisizione è conseguenza dell’Illuminismo che inizia a penetrare dovunque con denunce continue di tali vergogne.

Pontificato di Clemente XIII

Tommaso Crudeli, condannato al carcere a vita per massoneria. 2 agosto 1740.
Giuseppe Morelli, impiccato per aver celebrato l’Eucaristia da spretato. 22 agosto 1761.
Carlo Sala, eretico, ultima persona giustiziata per eresia. 25 settembre 1765.
I massacri, non più di carattere religioso, continuarono contro i cospiratori politici, i giornalisti e tutti quei progressisti che intendevano rovesciare l’immoralità dell’oscurantismo religioso attraverso una rivoluzione armata. Le atrocità furono come nel passato. Tagli di teste, torture con mazzolature, impiccagioni e sevizie che spesso portavano allo squartamento degli accusati. Pur di mantenere il terrore venivano puniti di morte anche i delitti meno gravi come i semplici furti.

Pontificato di Pio VI

Nei suoi quattro anni di pontificato ci furono soltanto cinque esecuzioni capitali per reati comuni, anche se la sua lotta si intensificò aspramente contro gli ebrei che furono costretti, tra le tante umiliazioni e minacce che subirono, a indossare vestiti di colore giallo perché fossero pubblicamente oltraggiati.

Pontificato di Pio VII

Gregorio Silvestri, impiccato per cospirazione politica. 18 gennaio 1800.
Ottavio Cappello, impiccato perché patriota rivoluzionario. 29 gennaio 1800.
Giovanni Battista Genovesi, patriota squartato e bruciato. La sua testa fu esposta al pubblico. 7 febbraio 1800.
Teodoro Cacciona, impiccato e squartato per furto di un abito ecclesiastico. 9 febbraio 1801.
Paolo Salvati, impiccato e squartato per aver derubato un corriere del Papa. 11 dicembre 1805.
Bernardo Fortuna, impiccato e squartato per furto ai danni di un corriere francese. 22 aprile 1806.
Tommaso Rotilesi, impiccato per aver ferito un ufficiale francese.
161 furono le esecuzioni capitali per reati comuni nei 15 anni del pontificato di questo vicario di Cristo.

(25) François-Marie Arouet (Voltaire) – Lettere inglesiQuattordicesima lettera

Cartesio e Newton

    Un francese che arrivi a Londra trova le cose assai mutate in filosofia, come in tutto il resto. Ha lasciato il mondo pieno; lo trova vuoto1. A Parigi, si vede l’universo composto da vortici di materia sottile; a Londra, non si vede nulla di tutto questo. Da noi è la pressione della Luna che causa il flusso del mare; presso gli Inglesi è il mare che gravita verso la Luna, in modo che quando credete che la Luna dovrebbe darci l’alta marea, questi signori ritengono che si debba avere bassa marea: il che, disgraziatamente, non può controllarsi, perché sarebbe stato necessario — per chiarire la cosa — esaminare la Luna e le maree nel primo istante della creazione.

    Noterete inoltre che il Sole, il quale in Francia non c’entra per nulla in questa faccenda, vi contribuisce in Inghilterra per circa un quarto. Secondo i vostri cartesiani  tutto avviene per un impulso assolutamente incomprensibile; secondo Newton, tutto avviene per un attrazione di cui non si conosce meglio la causa. A Parigi, vi figurate la Terra fatta come un melone2; a Londra, essa è appiattita ai due poli. Per un cartesiano la luce esiste nell’aria; per un newtoniano, giunge dal Sole in sei minuti e mezzo. La chimica francese effettua tutte le sue operazioni con acidi, alcali e materia sottile; in Inghilterra, l’attrazione domina perfino nella chimica.                      

    L’essenza stessa delle cose è totalmente mutata. Non è possibile accordarvi né sulla definizione dell’anima né su quella della materia. Cartesio assicura che l’anima s’identifica col pensiero, e Locke gli prova abbastanza bene il contrario. Cartesio assicura che l’estensione da sola costituisce la materia; Newton vi aggiunge la solidità. Ecco dei contrasti abbastanza stridenti.                        

      Non nostrum inter vos tantas componere lites3.       

     Questo famoso Newton, distruttore del sistema cartesiano è morto nel mese di marzo dello scorso anno 1727. Ha vissuto onorato dai suoi compatrioti, ed è stato sepolto come un re che abbia fatto del bene ai propri sudditi  Qui a Londra è stato letto con avidità e tradotto l’elogio del signor Newton che il signor di Fontenelle4 ha pronunziato all’Accademia delle Scienze. In Inghilterra il giudizio del  signor di Fontenelle era  atteso  come una dichiarazione solenne della superiorità della filosofia inglese; ma quando si è visto che egli paragonava Cartesio a Newton, tutta la Società Reale di Londra si è sollevata. Lungi dall’accettare tale giudizio, si è criticato quel discorso. Parecchi (e non sono certo i più filosofi) sono anzi rimasti urtati da quel paragone, soltanto perché Cartesio era francese.

    Bisogna riconoscere che questi due grandi uomini sono stati molto diversi l’uno dall’altro per la loro condotta, la loro fortuna e la loro filosofia.

    Cartesio era nato con un’immaginazione vivace e vigorosa, che ne fece un uomo singolare nella vita privata come nella maniera di ragionare. Tale immaginazione si fa avvertire perfino nelle sue opere filosofiche, dove a ogni passo s’incontrano paragoni ingegnosi e brillanti. La natura ne aveva fatto quasi un poeta, e infatti egli compose per la regina di Svezia un divertimento in versi che, per rispetto alla sua memoria, non è stato stampato.

    Egli tentò per qualche tempo il mestiere della guerra, e poi, essendo divenuto del tutto filosofo, non credette indegno di sé il fare l’amore. Ebbe dalla sua amante una figlia di nome Francine, che morì giovane e di cui egli rimpianse molto la perdita. Così, provò tutto ciò che fa parte della natura umana.

    Credette per lungo tempo che fosse necessario fuggire gli  uomini,  e  soprattutto  la  sua  patria,  per  filosofare in libertà. Aveva ragione: gli uomini del suo tempo non ne sapevano abbastanza per illuminarlo, e non erano capaci d’altro che di nuocergli. Lasciò la Francia perché cercava la verità, che vi era perseguitata allora dalla meschina filosofia universitaria; ma non trovò un maggior raziocinio nelle università dell’Olanda, dove si ritirò. Infatti, mentre in Francia si condannavano le sole proposizioni della sua filosofia che fossero vere, egli fu perseguitato anche dai pretesi filosofi d’Olanda, che non lo capivano meglio e che, vedendo più da vicino la sua gloria, odiavano ancora di più la sua persona. Fu costretto ad abbandonare Utrecht; subì l’accusa di ateismo, estrema risorsa dei suoi calunniatori; e lui che aveva impiegato tutta la sagacia del proprio ingegno nel cercare nuove prove dell’esistenza di un Dio, fu sospettato di non riconoscerne nessuno.

    Tante persecuzioni presupponevano grandissimi meriti e una strepitosa reputazione: egli aveva infatti gli uni e l’altra. La ragione riuscì tuttavia a penetrare un po’ nel mondo attraverso le tenebre della filosofia scolastica e i pregiudizi della superstizione popolare. Il suo nome finì col diventare tanto celebre che si cercò di attirarlo in Francia mediante ricompense. Gli fu offerta una pensione di mille scudi; con tale speranza egli venne, pagò le spese del diploma, che allora si vendeva, non ebbe la pensione, e se ne ritornò a filosofare nella solitudine dell’Olanda del nord, al tempo in cui il grande Galileo, all’età di ottant’anni, gemeva nelle prigioni dell’Inquisizione, per aver dimostrato il movimento della Terra. Morì infine a Stoccolma d’una morte prematura, causata da un cattivo regime, nella cerchia di alcuni dotti, suoi nemici, e tra le mani di un medico che lo odiava.

    Completamente diversa è stata la carriera del cavaliere Newton. Ha vissuto ottantacinque anni, sempre tranquillo, felice e onorato, in patria.

    La sua grande fortuna è stata di esser nato non solo in un paese libero, ma anche in un’epoca in cui le impertinenze scolastiche erano bandite e veniva coltivata soltanto la ragione; sicché il mondo non poteva essere che suo scolaro, e non suo nemico.

    Singolare è il contrasto in cui si trova rispetto a Cartesio: nel corso della sua cosi lunga esistenza non ha avuto né passioni né debolezze; non ha mai avvicinato una donna, il che mi è stato confermato dal medico e dal chirurgo tra le cui braccia egli è morto. In questo si può ammirare Newton, ma non bisogna biasimare Cartesio.

    Su questi due filosofi, l’opinione pubblica è, in Inghilterra, che il primo era un sognatore,  e l’altro un saggio.

    A Londra pochissimi leggono Cartesio, le cui opere sono effettivamente diventate inutili; e pochissimi leggono Newton, perché per capirlo occorre essere molto dotti. Ciononostante, tutti parlano di loro: non si accorda nulla al francese, e si concede tutto all’inglese. Taluni ritengono che, se non si crede più all’orrore del vuoto, se si sa che l’aria è pesante, se ci si serve delle lenti d’ingrandimento, se ne debba esser grati a Newton. Egli è qui l’Ercole della favola, cui gli ignoranti attribuivano tutte le gesta degli altri eroi.  

    In una critica del discorso del signor di Fontenelle fatta a Londra, si è giunti a sostenere che Cartesio non era un grande matematico. Quelli che parlano così rinnegano chi li ha nutriti. Dal punto in cui ha trovato la geometria fino al punto cui l’ha portata, Cartesio ha percorso tanto cammino quanto quello percorso da Newton dopo di lui; egli è il primo che abbia trovato la maniera di dare le equazioni algebriche delle curve. La geometria, grazie a lui divenuta oggi di uso comune, era ai suoi tempi così oscura che nessun professore si azzardava a spiegarla, e non vi erano altri che Schootem5 in Olanda e Fermat6 in Francia che la capissero.

    Egli portò questo spirito geometrico e inventivo nella diottrica7, che divenne per opera sua un’arte del tutto nuova; e se s’ingannò in qualche cosa, è perché chi scopre nuove terre non può di colpo conoscerne tutte le caratteristiche: coloro che vengono dopo di lui e rendono fertili quelle terre hanno, nei suoi confronti, almeno l’obbligo di attribuirgli la scoperta. Non negherò invece che tutti gli altri lavori di Cartesio formicolino di errori.  

    La geometria era una guida ch’egli stesso aveva, in qualche modo, formata, e che lo avrebbe sicuramente guidato anche nel campo della fisica; tuttavia egli fini con l’abbandonare tale guida, per affidarsi allo spirito sistematico. Da allora la sua filosofia non fu più che un ingegnoso romanzo, verosimile tutt’al più per gli ignoranti. Egli si ingannò sulla natura dell’anima, sulle prove dell’esistenza di Dio, sulla materia, sulle leggi del movimento, sulla natura della luce; ammise le idee innate, inventò nuovi elementi, creò un mondo, fece l’uomo a modo suo, e si dice a ragione che l’uomo di Cartesio non è in effetti se non l’uomo di Cartesio, lontanissimo dall’uomo reale.

    Spinse i suoi errori metafisici fino a pretendere che due e due fanno quattro soltanto perché Dio ha voluto così. Ma non è troppo asserire ch’egli restava degno di stima anche nei suoi errori. Si ingannò, ma lo fece almeno con metodo e con spirito conseguente; distrusse le assurde chimere di cui la gioventù s’infatuava da duemila anni; insegnò agli uomini del suo tempo a ragionare e a servirsi contro lui stesso delle sue armi. Se non ha pagato in buona moneta, è già molto che abbia screditato quella falsa.

    Non credo, in verità, che si osi paragonare in nessun modo la sua filosofia con quella di Newton: la prima è solo un tentativo, la seconda un capolavoro. Ma chi ci ha messi sulla via della verità vale forse quanto colui che è salito poi sulla vetta di tale carriera.

    Cartesio diede la vista ai ciechi: essi videro gli errori dell’antichità ed i suoi. La via ch’egli ha aperto è, dopo di lui, divenuta immensa. Il libretto di Rohault8 ha rappresentato per qualche tempo una fisica completa; oggi, tutte le raccolte delle Accademie d’Europa non costituiscono nemmeno un inizio di sistema: approfondendo quell’abisso, lo si è trovato infinito. Si tratta adesso di vedere che cosa il signor Newton ha cavato fuori da tale abisso.

NOTE

1 – Allusione, rispettivamente, alle posizioni filosofiche di Cartesio e di Newton. R. Naves osserva: «Tutto l’inizio di questa lettera è scritto in tono scherzoso, e Voltaire fa mostra di non decidere tra Descartes e Newton. G. Lanson si è basato su questa presentazione per vedere nella lettera XIV un testo nettamente anteriore alle tre lettere successive, che sono nettamente newtoniane; essa è senza dubbio del 1728 (come risulta dalla frase seguente del testo), e le lettere XV-XVII possono essere del 1732. Tuttavia, non bisogna vedervi una netta evoluzione del pensiero di Voltaire:  la fine della lettera XIV prende partito a favore di Newton e giudica Descartes negli stessi termini che Voltaire riprenderà molto più tardi. Poteva essere abile non spaventare il  lettore  fin  dall’inizio  e  condurlo  soltanto  gradualmente  alla  “sana filosofia”».

2 –  La  tesi  che  la  Terra  fosse  uno  sferoide  allungato  anziché  appiattito ai due Poli era stata sostenuta dall’astronomo francese di origine   italiana  Jacques Cassini (1677-1756), direttore dell’osservatorio di Parigi, nell’opera La grandeur et la figure de la Terre (1718) e accolta da altri scienziati.

3 – “Non è affar nostro appianar tra voi dispute così importanti” VIRGILIO, Bucoliche, III, 108. Si veda, sopra, la nostra nota n. 1.

4 – Bernard Le Bovier de Fontenelle (1657-1757), letterato francese, Segretario perpetuo dell’Accademia delle Scienze: in tale qualità compose numerosi elogi di colleghi defunti, tra cui quello di Newton che ebbe nel 1728 ben quattro edizioni.

5 – Francesco von Schooten, matematico olandese del XVII secolo, autore di una Geometria dedicata a Descartes (Leida 1649) in cui sono stabilite le coordinate ottagonali, e di un’altra opera del 1656 dedicata alla « geometria con la riga ».

6 – Pierre  Fermat  (1601-65),  matematico  francese  in  relazione  con Cartesio, sviluppò la geometria analitica deducendo dall’equazione di una curva (da lui chiamata « Proprietà specifica ») tutte le sue proprietà.

7 – Parte della fisica che si occupa dell’azione dei mezzi sulla luce che li attraversa.  

8 – Jacques Rohault (1620-1675), autore di un Traité de physique (1671) assai diffuso, in cui sono esposte le dottrine di Cartesio.  


BIBLIOGRAFIA

(1) Karlheinz Deschener – Storia criminale del Cristianesimo – Ariele 2000-2010

(2) Claudio Rendina – I Papi, storia e segreti – Newton Compton 1999

(3) Ferdinand Gregorovius . Storia di Roma nel Medio Evo – Avanzini e Torraca, Roma 1967

(4) Karlheinz Deschner – Il gallo cantò ancora. Storia critica della Chiesa – Massari 1998

(5) F. Musslung – Lutero e la Riforma protestante – Giunti 2003

(6) A. Prosperi, P. Viola – Dalla Rivoluzione Inglese alla Rivoluzione Francese – Einaudi 2000

(7) L. von Ranke – Storia dei Papi – Sansoni 1968



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