LA FISICA ITALIANA NELL’OTTOCENTO (1)

Parte I: cenni agli eventi politici, alla situazione economica ed alle innovazioni tecniche

Roberto Renzetti

1 – INTRODUZIONE

        Non è a mio giudizio possibile discutere delle vicende interne della storia della fisica, senza capire che mondo c’è intorno, quale ambiente politico, quali produzioni, quali attenzioni ai progressi tecnico-scientifici e soprattutto a quanti finanziamenti si hanno a disposizione. L’epoca dello scienziato che inventa nel chiuso del suo studio perché benestante è finita da quando la Rivoluzione Industriale è entrata nella vita europea (a cavallo tra Settecento ed Ottocento). La scienza e la tecnica sono diventate ineliminabili fattori produttivi alla base della ricchezza degli Stati e dei popoli. Per cogliere quindi i successi produttivi o le arretratezze ed i fallimenti occorre capire in quale ambiente ci si trova. Divido quindi questo lavoro in due parti, nella Prima mi occuperò di quanto annunciato, mentre nella Seconda entrerò nello specifico degli scienziati (particolarmente fisici) italiani.

2 – UNO SGUARDO SULL’ OTTOCENTO EUROPEO: RAPPORTI FRA SCIENZA, TECNICA, VITA CULTURALE E CIVILE NELLA PRIMA META’ DEL SECOLO

        La complessità degli avvenimenti, sia politico-economici sia tecnico-scientifici, che si sono susseguiti nel corso dell’800 è tale da sconsigliare, nell’ambito degli scopi di questo lavoro, un’indagine che abbia una qualche pretesa di completezza. Cercherò, per quanto possibile, di cogliere gli elementi che ritengo più significativi, rimandando alla vasta bibliografia esistente per tutti gli aspetti e gli sviluppi particolari. Su alcuni punti comunque ritengo sia necessario soffermarsi, soprattutto per cercare di capire più a fondo le problematiche che videro l’Italia muoversi ai margini dell’Europa per tutti quei processi che hanno riguardato il nascere e l’affermarsi della Rivoluzione industriale.

        Anche se non l’ho teorizzato, credo si sia capito, da quanto precedentemente scritto negli svariati articoli di storia della fisica che compaiono in questo sito, che non ritengo si possa cogliere nella sua interezza il processo di crescita delle conoscenze e di articolazione dei dibattiti, dispute o controversie, senza avere come riferimento costante l’evolversi ed  il dialettico intrecciarsi tra progresso delle scienze e delle tecniche con storia sociale e civile dei popoli. Nessuna pretesa di originalità quindi nel ricercare anche ora alcuni aspetti dell’interazione suddetta; solo convinzione di fornire elementi utili ad un proficuo approfondimento.

        I primi anni  del secolo XIX sono segnati, dal punto di vista politico-militare, dalle armate napoleoniche che dilagano in tutta Europa con continue guerre, mai nella storia precedente così sanguinose. Se da una parte la breve vicenda napoleonica scosse la vecchia Europa, retrograda e quasi sempre governata dall’assolutismo (illuminato o meno), diffondendo ideali di libertà, insieme ad una concezione di stato moderno con leggi ispirate ai diritti ed ai doveri del cittadino, d’altro canto essa urtò contro gli spiriti nazionali e, anziché contribuire al diffondersi degli ideali universali dell’illuminismo, generò una massiccia rivolta contro di essi sia da un punto di vista ideale che politico. In ogni caso la politica di Napoleone, fino al suo crollo definitivo (Waterloo, 1815), riuscì ad esportare alcune radicali trasformazioni negli apparati amministrativi degli stati che, già realizzate in Francia, ben presto divennero patrimonio di gran parte dell’ Europa.

         In questa epoca la scienza francese, sorretta da massicci finanziamenti al fine di servire le armate napoleoniche, fece notevoli balzi in avanti. Le scuole tecniche nate durante la Rivoluzione ebbero un notevole impulso. Una generazione di scienziati si formò in esse (Malus, Arago, Poncelet, Cauchy, Sadi Carnot, Gay-Lussac, Thenard, Dulong e Petit). Inoltre nacquero  altre scuole e questo fiorire di iniziative, cui partecipavano come insegnanti i massimi scienziati dell’epoca (Monge, Laplace, Lagrange, Berthollet, Lazare Carnot…), portò sempre di più ad affermare l’attività scientifica come professione. Fare lo scienziato assunse il significato di lavorare per lo sviluppo tecnico-economico-militare del Paese. Per questo si era pagati. Come conseguenza di ciò e proprio perché dallo studioso, a questo punto, si richiedevano prodotti di sempre più immediata utilizzazione, nacque la specializzazione scientifica. Il filosofo naturale, che si occupava con maggiore o minore successo di troppe questioni abbracciando con le sue ricerche e speculazioni campi molto distanti tra loro, andava via via scomparendo. Certamente rimanevano i Laplace ed i Gauss, ma erano gli ultimi residui della formazione in epoca precedente. Da questo momento e fino a quando le difficoltà che nasceranno all’interno delle singole discipline non imporranno una revisione generale trascendente la disciplina medesima, ognuno coltiverà le sue ricerche particolari sempre più specializzate e sempre più chiuse alla comunicazione reciproca.(1) La separazione tra scienza e filosofia, fatto del quale ancora oggi discutiamo, si realizzò in questo periodo. Gli ideali illuministici che postulavano l’unità del sapere cozzavano ora contro le esigenze militari e produttive. La scienza va sempre più legandosi con il mondo della produzione ed in questo secolo assistiamo al ribaltamento di quanto avvenuto nel secolo precedente; è ora la scienza che razionalmente studia a tavolino i prodotti tecnologici necessari all’aumento della produzione, all’accrescimento dei potenziali aggressivi e qualche volta difensivi degli Stati.

“La scienza deve ora attestarsi su canoni metodologici che ne legittimino la ricerca di nuovi standards di esattezza e di rigore, sia manuali che teorici, giustificando lo studio delle leggi naturali e delle loro applicazioni non più in base all’illusione illuministica di essere direttamente uno stimolo per la produzione, ma piuttosto asserendo l’autonomia e la necessità di tale ricerca in quanto valida in sé e destinata prima o poi ad avere applicazioni utili.” (2)

         La filosofia che comprenderà e teorizzerà questi Ideali sarà quella del Positivismo che, prima dell’ enunciazione di Comte (1798-1857),(3)  “si instaura di fatto come atteggiamento generale e come metodo di lavoro nell’ambito dell’École.”  Il Positivismo postula la separazione completa della scienza dalla teologia (laicità dell’uomo e del mondo) ed il netto primato della scienza su altre forme di conoscenza umana.(4) La scienza offre una vasta gamma di risultati ‘positivi’ ma sono soprattutto i suoi metodi che permetteranno il superamento delle argomentazioni ipotetiche, infondate, inverificabili e perciò irrealizzabili. L’adozione di un metodo rigoroso, controllato e comune, il raggiungimento di un’ideale scienza unificata che, nel rispetto delle singole discipline, superi tutti i difetti dell’eccessiva specializzazione e della mancanza di interdisciplinarietà. La scienza è lo strumento indispensabile al progresso dell’umanità. La sua evoluzione permetterà all’uomo di risolvere tutti i suoi problemi di lotta per l’esistenza in una natura sempre meno ostile proprio perché la scienza sempre più è riuscita a sottometterla ai suoi voleri. In questo contesto la filosofia assolve, per Comte, un ruolo importante di ordinatrice e correttrice degli eccessi di specializzazione fino ad arrivare ad un ruolo di promotrice dell’integrazione dei vari risultati che scaturiscono dai vari campi di ricerca.

          E tutto ciò proprio nel momento in cui molti scienziati, come dicevamo, sempre più si disinteressavano di filosofia,  ritenendo le discussioni sull’argomento troppo generali, quindi generiche e perciò sterili. Questo atteggiamento, spesso definito come ‘positivistico’, fu osteggiato dagli stessi positivisti ed al suo diffondersi contribuirono molto di più le correnti di pensiero che più decisamente si professavano antipositivistiche.(5) Il disinteresse sempre maggiore da parte dello scienziato per i problemi dell’uomo, con l’autogiustificazione di far scienza e di stare comunque lavorando per il bene dell’umanità al di sopra di ogni bega contingente, al di sopra delle parti, fu uno degli aspetti più rilevanti ed una delle ‘tentazioni’ più forti dell’800. I discorsi sulla “neutralità” della scienza e della “responsabilità sociale dello scienziato” divennero attuali a partire dal 1968, oggi a quarant’anni di distanza sembra archeologia culturale ed a prevalere è il completo disinteresse su tali problematiche che fanno perdere tempo in quanto non danno profitto.

         Ma ritorniamo a quanto tralasciato qualche riga più su. Abbiamo parlato del grande impulso che Napoleone dette  alla ricerca scientifica. In concomitanza con ciò, proprio agli inizi del secolo, in Francia si ebbe una grande ripresa dell’attività pratica (tralasciata per tutto  il ‘700 in cui l’elaborazione teorica ebbe il sopravvento). Gli scienziati francesi volsero i loro interessi alla scienza sperimentale ed empirica proprio per soddisfare le impellenti richieste degli eserciti di Napoleone. La caduta di quest’ultimo, il Congresso di Vienna  (1815), la Santa Alleanza iniziarono quel periodo che va sotto il nome di Restaurazione. Le forze più conservatrici, legate soprattutto alla nobiltà  terriera dell’ “ancien régime“, tentarono di ‘restaurare’ l’ordine sociale ed il potere politico precedente l’esplosione rivoluzionaria. Almeno fino al 1848  il tentativo riuscì e si ripercosse molto gravemente sulla vita scientifica e culturale che venne sottoposta a rigidi controlli. Ma un puro e semplice  ritorno al passato era anacronistico. Le coscienze erano maturate e cresciute, era possibile  reprimere ma non convincere.  In questa fase  la borghesia riprese coscienza del suo ruolo motore per lo sviluppo della società. I primi moti contro i nuovi oppressori si ebbero nel 1820-21  (forze liberali); e quindi nel ’48 (liberali + democratici), dopo un’importante parentesi rivoluzionaria (la Comune di Parigi), proprio la borghesia riprenderà quasi ovunque il potere.(6)  Durante questa prima metà del secolo le vicende legate allo sviluppo della scienza, della tecnica, della cultura in generale e delle forze produttive si differenzia abbastanza da paese a paese.

           In Francia, abbiamo  già visto che, a partire dalla Rivoluzione c’è  una grande ripresa dell’ attività pratica che comporta una trasformazione notevole della scienza. Uno dei primi compiti, di enorme impegno, che gli scienziati francesi (Monge, Borda, Lagrange, Laplace, Delambre, Coulomb, Berthollet, Lavoisier) si trovarono ad affrontare fu l’unificazione dei pesi e delle misure con l’introduzione del sistema metrico decimale. I lavori iniziarono nel 1793 e si conclusero nel 1799. Questo nuovo sistema fu rapidamente accettato da molti Stati e comportò notevolissime facilitazioni ai commerci. Altri compiti immediati che gli scienziati dovettero affrontare, e che non avevano nulla a che fare con la fisica-matematica settecentesca, erano immediatamente suggeriti dalle esigenze belliche. Monge studiò le questioni riguardanti la fusione e la perforazione dei cannoni. Fourcroy si occupò, come già aveva fatto Lavoisier (nel frattempo caduto sotto la ghigliottina), di sviluppare tecniche atte ad estrarre il salnitro per gli esplosivi dal letame. Allo stesso fine lavorava Berthollet ma con il clorato di sodio e Morveau mediante ossidazione dell’ammoniaca.

        Certamente i problemi che si ponevano erano diversi da quelli teorici affrontati durante il ‘700. Questa tendenza ebbe un maggior impulso durante il periodo napoleonico ed in concomitanza con ciò anche l’evoluzione tecnica delle industrie francesi fece notevoli balzi in avanti.

        Il periodo della Restaurazione vide in Francia un certo successo delle filosofie idealistiche e romantiche che si diffondevano dalla Germania. Personaggi come Chateaubriand, Lamartine, Madame de Staël potranno dar sfogo ad anacronistiche posizioni metafisiche con decisi caratteri antiscientifici. Per la verità la scienza fu poco toccata da tutto ciò poiché la tradizione dell’ École era troppo forte ed ancora per anni riuscirà a produrre importantissimi risultati.(7) Ora però viene a mancare lo stimolo diretto alla produzione che gli imprenditori borghesi avevano fornito negli anni precedenti. Dopo un poco il filone si inaridì e per vari anni non produsse altro che la solita sistemazione dei risultati precedentemente raggiunti (e questo fatto trovava inoltre una teorizzazione nella filosofia del Positivismo che non accettava nessuna elaborazione ipotetica che andasse al di là dei fatti noti).

         In Gran Bretagna, parallelamente a quanto avveniva in Francia nel periodo rivoluzionario e napoleonico, l’attività empirica degli scienziati passava un periodo di crisi. Lo scienziato del Regno Unito, al contrario di quello Francese, spesso langue in miseria non godendo della protezione dello Stato. Non si dispone di finanziamenti per formare scienziati professionisti in scuole pubbliche. L’attività scientifica, anche qui, cambia segno e gradualmente inizia ad interessarsi di questioni di carattere teorico. L’avvertita necessità di cambiamento trovò in Benjamin Thompson, più tardi Conte Rumford, un fecondo interprete, ma i suoi tentativi di rinnovamento, nell’ambito dell’organizzazione e dei metodi delle società scientifiche, non riuscirono a farsi strada in un ambiente restìo a mettere in comune le innovazioni tecniche e scientifiche per la paura di concorrenze o plagi sul piano dei brevetti industriali. Riuscirà in parte Davy nel compito che si era prefisso Rumford. Egli otterrà finanziamenti ma presentando la scienza come un qualcosa che oltre ad utile può essere anche divertente.

        In questo paese la Restaurazione non avrà che effetti marginali. Si trattò di contrasti tra la borghesia latifondista ed industriale sulla rappresentanza parlamentare spettante a ciascuna. Fino al 1831, anno in cui gli industriali ottennero una riforma elettorale che dà loro maggiore potere, era la borghesia latifondista che guida il paese, su livelli arretrati rispetto alle spinte innovatrici,  “agitando lo spauracchio della Rivoluzione Francese”.

        Nonostante i grandi successi l’organizzazione della scienza nelle istituzioni britanniche di questo periodo era molto antiquata (ed a ciò aveva in parte contribuito l’isolamento in cui si era chiusa la Gran Bretagna nel secolo precedente). Anche le scuole pativano gli stessi mali. Se si eccettuano le relativamente più giovani università scozzesi, le più prestigiose università inglesi (Oxford e Cambridge) impartivano insegnamenti vecchi e tradizionalisti sotto il controllo culturale di autorità clericali. Ed il dominio dello Stato e delle autorità religiose si cominciò a far sentire in tutti i campi. La scienza veniva sempre più considerata come un qualcosa di eminentemente teorico, visto che tutti i più prestigiosi strumenti della Rivoluzione Industriale provenivano da modesti tecnici senza una preparazione elevata. Si iniziarono comunque a fondare nuove scuole (gli Istituti di Meccanica) per fornire preparazioni diverse; si iniziò ad insegnare la matematica col più semplice simbolismo leibniziano; ma soprattutto si colse la necessità dello scienziato professionista (le ricerche che si dovevano sviluppare erano così complesse che soltanto lavorandovi a tempo pieno c’era la speranza di ricavarne qualcosa e per far ciò occorreva un finanziamento dello Stato o di una grande industria); si fondarono società scientifiche (ad es. l’Associazione Britannica per il Progresso della Scienza – 1831) diverse da quelle tradizionali e pure un tempo prestigiose; fatto però molto importante è che tutto ciò iniziò e si realizzò dall’iniziativa e dai finanziamenti di privati. Solo intorno alla metà del secolo l’intera situazione cominciò decisamente  a migliorare portando la situazione strutturale ed organizzativa britannica  ai livelli di Francia e Germania che, come vedremo tra poco,  era nel frattempo emersa prepotentemente) e facendo di nuovo assumere alla Gran Bretagna una posizione di primato.(8)

        Dal punto di vista tecnologico ed in concomitanza con la relativa stasi dell’industria non si conseguirono i risultati clamorosi della seconda metà del ‘700 ma si lavorò al perfezionamento ed alla migliore ed articolata utilizzazione di quanto già noto. Nell’ industria tessile alcuni miglioramenti tecnologici portarono, tra il 1800 ed il 1830, ad una espansione enorme della domanda a seguito di ribassi clamorosi nei costi di produzione. La generale sostituzione della forza motrice idraulica con quella a vapore comportò la realizzazione di centinaia di opifici non più in zone servite da corsi d’acqua ma in città che, conseguentemente, vissero imponenti fenomeni di inurbamento.(9)  L’impiego poi del vapore nei trasporti ed in particolare nelle ferrovie,(10)  oltre agli ovvi ed incredibili benefici pratici, produsse anche notevoli effetti psicologici sulle nozioni di tempo e distanza.

        In Germania, infine, tra la fine del ‘700 e la prima metà dell’ ‘800, si ha un notevolissimo risveglio della vita culturale in netto contrasto con  l’arretratezza di fondo delle strutture economiche, politiche e sociali. Siamo alla fine del XVIII secolo che vede l’emergere della Germania che va,  via via,  a collocarsi al centro del pensiero filosofico europeo. Il primo movimento di rottura con il pur evanescente Illuminismo tedesco è  quello dello Sturm und Drang. Gli appartenenti ad esso (gli sturmer) ebbero molto in comune con gli illuministi, soprattutto divisero con loro la dura condanna per l’ancien regime, l’interesse per la natura e lo spirito laico; nel contempo, però, si distaccarono radicalmente da essi nel sostituire la categoria del ‘genio’ a quella della ‘razionalità’. Ma l’autentico superamento dell’Illuminismo tedesco sarà rappresentato dal criticismo kantiano. Kant, che si muoveva all’interno dell’Illuminismo (essendone un appassionato difensore), si impadronì delle esigenze di razionalità di esso, studiò i fondamenti di tali esigenze ed arrivò a scoprirne i limiti. Sulla strada aperta da Kant inizia a muoversi J.G. Fichte (1762- 1814) che ben presto si distaccherà dal maestro per imboccare la strada della filosofia dell’ ‘idealismo’ che in poco tempo si imporrà a tutta la Germania. Non è certo questa la sede per indagare la complessità, e l’eterogeneità del pensiero tedesco,(11) delle posizioni assunte, dei temi affrontati e degli sviluppi che, in sede speculativa, ne conseguirono. Basti solo dire che i principali indirizzi di pensiero assunsero caratteristiche sempre più antilluministiche e nazionalistiche. E se da una parte Fichte, facendo confluire il suo idealismo nei temi più spiccatamente romantici, si rivolgerà. alla nazione tedesca perché insorgesse contro le truppe napoleoniche che invadevano la Germania, dall’ altra Hegel (1770 – 1831) pretenderà, di determinare le leggi della natura a priori, ricavandole semplicemente su basi metafisiche.(12)  A lato di ciò, negli ‘spiriti migliori’ i temi romantici si legavano alle legittime aspirazioni di libertà, ed indipendenza dei popoli. La Germania è un paese diviso in una miriade di piccoli Stati. Ma già nei primi decenni del secolo si fa avanti la Prussia, il più industrializzato tra gli Stati tedeschi, come polo di aggregazione. Della complicata storia della nascita dello stato tedesco,(13) elemento importante fu la fondazione (da parte dell’ imperatore Federico Guglielmo III) dell’ Università di Berlino (1810). Questa Università, insieme all’ attività dei ‘filosofi della natura’ che si ispiravano direttamente alla Naturphilosophie di Schelling, fu alla base della rinascita culturale della Germania e della successiva acquisizione da parte di questo Paese del primato scientifico su tutto il mondo. Fu proprio Oken, uno dei filosofi della natura, che fondò nel 1822 la prima società scientifica che rappresentò la rinascita della ricerca scientifica tedesca, su basi più empiriche e sperimentali di quanto fino allora aveva comportato l’eredità di Leibniz. Sulla strada da lui aperta altri si mossero e ben presto, ad imitazione della Francia, sorsero una miriade di scuole politecniche. Cattedre di scienze cominciarono a venir istituite in tutte le università tedesche e, a partire dalla metà del secolo, le scuole sia industriali che commerciali iniziarono a sfornare una gran quantità di tecnici altamente specializzati. E tutto ciò era proprio finalizzato allo sviluppo dell’ industrializzazione del Paese che, al contrario di quanto avvenuto in Gran Bretagna, non fu promossa da privati ma per diretta iniziativa dello Stato che contemporaneamente, mediante lo sviluppo massiccio dell’ istruzione pubblica, cercava da un lato “di elevare il livello culturale del popolo per incrementarne i bisogni materiali e spirituali e per portare  il semplice operaio a comprendere i nuovi sistemi di produzione meccanizzati; d’altro lato di formare una categoria di tecnici in grado di soddisfare le maggiori esigenze tecniche e scientifiche poste dall’ industria.”(14) In questa dialettica tra Stato, imprenditori privati, popolo, sviluppo industriale ed istruzione, via via si realizzò una maggiore partecipazione della borghesia industriale alle scelte politiche del paese e conseguentemente si conquistarono importanti riforme costituzionali. In definitiva, intorno alla metà dell’ ‘800, è la borghesia industriale che detiene ovunque il potere economico. La pressione di questa borghesia per avere in mano anche il potere politico porterà alle vicende del ’48 che sancirono, praticamente ovunque, il suo trionfo. Con il terreno preparato per il decollo della seconda Rivoluzione Industriale si erano creati profondi cambiamenti economici e sociali che se da una parte avevano definitivamente affrancato l’Europa dall’ Ancien Régime, dall’altro avevano creato i presupposti per l’emergere di una nuova  classe sociale: il proletariato, l’esercito degli operai dell’industria che dispongono solo della propria forza lavoro. L’affermazione della borghesia aveva creato la sua classe antagonista che, proprio a partire dal ’48, dette vita a tutti quei moti di ribellione sociale per migliori condizioni di vita che schematicamente si possono riportare alla nascita del socialismo scientifico di Marx (1818-1883) ed Engels (1820-1895).

        Dal punto di vista infine del progresso tecnologico legato a quello scientifico ci sono alcune osservazioni che meritano di essere riportate. Innanzitutto c’è da osservare che gli imponenti sviluppi della tecnica del ‘700 e dei primi anni dell’ ‘800 riuscirono a mettere a disposizione degli scienziati strumenti sempre più perfezionati e precisi che tra l’altro permisero di percorrere strade assolutamente imprevedibili fino a qualche anno prima. C’è poi da notare che, soprattutto nella prima metà del secolo, c’è un generale riconoscimento dell’utilità del progresso tecnico che, si ammette, non può più essere affidato ad artigiani, che lavorano su basi esclusivamente empiriche, ma ha bisogno di essere sottoposto a trattamento teorico per ricavare da esso il massimo possibile in un contesto più ampio ed organico.

        Altro aspetto che si affaccia e si sviluppa prepotentemente alla fine del Settecento è quello delle macchine per la produzione di energia. Per molti anni la scienza ufficiale, che era completamente slegata dal mondo della produzione, non si occupò di questi problemi e, se lo fece, fu solo per affinare quanto già dato come acquisito. Emergeva comunque una consapevolezza: l’impossibilità del moto perpetuo che, per ora è solo moto perpetuo di 1ª specie. Ai molti che si affannavano con mirabolanti invenzioni l’Académie royale des sciences  di Francia dovette dire basta per non essere sommersa da progetti di macchine miracolose. La stessa Académie divulgò il seguente testo: “La costruzione di una macchina del moto perpetuo è assolutamente impossibile. Anche ammesso che l’attrito e la resistenza del mezzo non distruggessero infine l’effetto della potenza motrice primaria, tale potenza non potrebbe produrre un effetto uguale alla sua causa(15).

        Da parte loro Euler, Lagrange e D’Alembert  costruivano delle equazioni che formalmente sono quelle che oggi conosciamo come principio di conservazione dell’energia meccanica, ma che sostanzialmente e concettualmente non avevano grandi significati perché non erano che formulazioni slegate da qualsiasi fatto sperimentale.

        La tecnologia del calore ampliava invece la sua base fenomenologica e tra i primi a porsi il problema della conservazione dell’energia, nell’ambito della costruzione di macchine a vapore, fu proprio uno degli ideatori di queste macchine, J. Smeaton (1724-1792) nel 1759. Il lavoro di Smeaton, unito agli innumerevoli contributi empirici (e non) che da quella parte provenivano, servì anche esplicitamente alle definizioni dei concetti di lavoro e di potenza che, proprio in connessione con uno dei più intensi momenti di sviluppo delle macchine a vapore, facevano la loro comparsa nella fisica. Non mi dilungherò ora su questi aspetti, ma voglio sottolineare come la mole dei problemi posti dalla tecnologia di queste macchine ricadrà sulla scienza ufficiale come compito da dover risolvere appena qualche decennio dopo. Ciò che si trattava di capire era: come mai alcune trasformazioni energetiche avvengono con un bilancio positivo e altre con un bilancio negativo?(16). Certamente alla soluzione di questi problemi contribuì il diverso contesto teorico, politico, sociale, dei vari ambienti in cui vi si lavorò.

3 – LA RIPRESA DELLO SVILUPPO CAPITALISTICO A PARTIRE DAL 1848: VICENDE POLITICO -ECONOMICO – SOCIALI IN CONNESSIONE CON LO SVILUPPO TECNICO – SCIENTIFICO 

       Abbiamo già accennato nel paragrafo 1 del precedente capitolo che la borghesia industriale è la detentrice del potere economico intorno alla metà del secolo XIX.  Le vicende  del  ’48 non fanno altro che  sancire  questa egemonia a livello politico. La. Restaurazione delle classi aristocratiche e latifondiste è  dovunque battuta e,  nonostante  una  profonda crisi  economica che  si abbatte sull’Europa, il terreno è preparato per l’imponente balzo in avanti indicato comunemente come seconda rivoluzione industriale.  

       Dopo il ’48 si sente il bisogno di un generale riassestamento dei sistemi politici ed economici dei vari Stati che passa attraverso un più decisivo ridimensionamento degli strati sociali più conservatori.

       “Lo sviluppo capitalistico ha ormai bisogno di una struttura politica liberal-democratica, dell’unificazione dei mercati nazionali, di un. sistema economioo liberistico, di un aumento delle disponibilità finanziarie e monetarie. Nel ventennio che segue il 1848,  infatti,  prendono consistenza o si compiono i processi di unificazione nazionale (in particolare della Germania intorno alla Prussia e dell’Italia intorno al Piemonte); le borghesie nazionali incrementano gli investimenti all’estero, aboliscono le misure protezionistiche allargando e consolidando un’area internazionale di libero scambio, che incoraggia l’attività imprenditoriale, cui il temporaneo rialzo dei prezzi ed anche  l’attività   bellica  forniscono  un  consistente  sostegno;   si   sperimentano nuove forme di credito e si sviluppa un sistema bancario solido e compatto. Il trattato commerciale franco-britannico del 1860 ispirato alla libertà di commercio è  seguito da tutta una serie di trattati aventi analoga ispirazione.”(17)  Matura anche l’esigenza di superare la crisi economica mediante una ripresa della  produzione  per  portarla  a  livelli  superiori  a  quelli,  pure importantissimi, del passato. D’altra parte le aperture doganali impongono una ristrutturazione industriale finalizzata alla penetrazione, in regime di concorrenza, sui mercati esteri e, contemporaneamente, alla. difesa dei prodotti nazionali  da  quelli  di  importazione.  Si  impone  quindi  un  nuovo  balzo  tecnologico che trasformi l’industria, facendole superare i ristretti limiti che le erano imposti dal ferro e dal vapore su cui essa essenzialmente  si fondava. Occorre inventiva, non più osservare, descrivere e sottoporre a trattamento teorico dei fenomeni, ma prefigurarli ed inventarli; la metodologia di ricerca deve mutare:  l’uso delle  ipotesi,  dei  modelli  e delle  analogie  si  fa  sempre più  spinto,  l’elaborazione  teorica  sempre  più  astratta. In questo  contesto le risposte dei tecnici diventano sempre più  insoddisfacenti; nell’ultima  metà  del  secolo  è  la  scienza  che  si  porrà  come  strumento  formidabile per lo sviluppo della tecnica,  finalizzata alla produzione industriale.  La scienza, sempre più, acquisterà i connotati di scienza applicata e avrà i più importanti  successi  proprio in quei  paesi che come  la Germania, e  gli Stati Uniti cureranno di più questo suo aspetto (attraverso la particolare struttura educativa, attraverso l’istituzione di laboratori di ricerca direttamente inseriti nell’industria, attraverso la promozione da parte dello Stato, attraverso lo stretto legame che si va instaurando tra laboratori universitari ed industria). Si inverte cosi il rapporto scienza-tecnica che fino alla prima metà  del  secolo  aveva visto  quest’ultima.  come  trainante  per  tutti  i  problemi che nascevano  nella produzione industriale ed anche come  suggeritrice  di tematiche all’elaborazione scientifica. Il nuovo ruolo che la scienza acquista, come fattore determinante di un nuovo modo di produzione, comporta una specializzazione sempre più spinta nei vari settori di ricerca, come del resto era richiesto dal tipo di evoluzione che l’industria subiva.

        La produzione di macchine per l’industria era stata, fino alla prima metà dell’Ottocento, la costruzione, ancora essenzialmente di tipo artigianale, di grosse macchine per la grossa industria, con costi molto elevati. Pian piano si affermò una duplice esigenza, da una parte di produrre macchine più piccole che potessero servire alle esigenze dell’industria che oggi chiameremmo piccola e media, (18)  e dall’altra di alimentare gli standards di precisione costruttiva, in modo da rendere intercambiabili alcuni pezzi ed, in definitiva,  in modo da  passare  alla produzione  in  serie.  Quindi  anche  nella costruzione  di  macchine  si  richiede una  specializzazione  sempre  più  spinta da raggiungersi con il  perfezionamento delle macchine utensili,  con l’uso di materiali  più  adeguati  e con un’ingegneria più  accurata.

4 – LA SITUAZIONE ITALIANA

4.1 – Vicende politiche

        Prima della Rivoluzione francese, varie monarchie europee avevano intrapreso un cammino di riforme nell’atmosfera illuminista che aveva contagiato varie corti. E’ attraverso la penetrazione di tale movimento riformatore che l’Italia, in modo diverso a seconda delle famiglie regnanti, venne a contatto con l’Europa e la sua cultura. La spinta al rinnovamento aveva interessato soprattutto quegli Stati in qualche modo dipendenti da Paesi stranieri, come Milano, Firenze e Napoli. Gli altri Stati (Chiesa e Venezia) erano restati o tornati ad essere (Piemonte) profondamente reazionari. Ma, proprio all’inizio del nuovo secolo, tutti, più o meno, erano tornati alla loro vocazione reazionaria. Un ruolo fondamentale lo aveva avuto lo scoppio della Rivoluzione che aveva originato reazioni diverse a seconda dei ceti sociali. Coloro che godevano dello status dirigente, anche se prima si erano professati aperti e riformatori, si ritirarono a difesa dei propri interessi su trincee conservatrici. Fu la vera occasione in cui ognuno mostrò il suo vero volto ed in cui si ricostituì un fronte tra alta dirigenza, nobiltà e clero contro le pretese della borghesia imprenditoriale. Ciò comportò reazioni e l’inizio diffuso di fermenti rivoluzionari, compresa la nascita di nuclei giacobini. La repressione dura e violenta non tardò. Ma sullo sfondo vi erano gli eventi rivoluzionari che paralizzavano i governi per la paura che la Rivoluzione travalicasse le Alpi: Di questa situazione non seppero approfittare gli oppositori quasi increduli di un così radicale cambiamento in uno dei Paesi più conservatori d’Europa.  E’ questo il momento in cui iniziano le vittoriose campagne napoleoniche in Italia con tutte le conseguenze che esse comportarono. I piccoli Stati furono incapaci di ogni pur minima reazione e Napoleone riuscì facilmente nella sua penetrazione nella quale egli più che cercare l’appoggio dei nuclei giacobini, cercò quello della borghesia e, in Emilia, addirittura quello dell’aristocrazia contro il Papa.

        I governi democratici provvisori erano intrinsecamente molto fragili e fondati su poche forze illuminate ma completamente slegate dalla maggioranza della popolazione. Le idee illuministe non erano portate in Italia ed in Europa da Diderot e D’Alembert ma dalle armate napoleoniche contro le quali il popolo si riuniva a difesa della dignità nazionale anche contro i portatori di idee di libertà uguaglianza e fratellanza. Addirittura ci si riconosceva nelle case regnanti e nella Chiesa per fare fronte comune contro l’invasore. Quest’ultimo dalla sua aveva la supremazia militare ed il sostegno di alcuni settori chiave. Tutto questo venne meno a partire dal 1812 e ben presto (1815), a seguito dei disastri delle armate napoleoniche in Egitto e soprattutto in Russia, ogni traccia di Napoleone venne meno in Italia. In breve tempo tutto tornò come prima con varie compensazioni e passaggi di ducati da una famiglia reale europea all’altra. E’ la Restaurazione che vedrà crescere in tutta Europa l’opposizione di varie correnti romantiche, inizialmente schierate contro il pensiero illuminista, fino ai primi moti rivoluzionari del 1820-1821.

      E’ l’inizio del nostro Risorgimento che si apre appunto con il fallimento di quei primi moti (dopo iniziali successi e forti scuotimenti dei fantocci al potere) ai quali parteciparono non solo un manipolo di militari e pochi altri (tesi avallata dai sovrani dell’epoca) ma da una quasi totale adesione dei ceti borghesi (proprietari terrieri) e dei professionisti, con l’assenza dei ceti meno abbienti che risultarono comunque indifferenti non parteggiando per alcuno dei contendenti. Il fronte rivoluzionario che si cominciò ad articolare in società segrete, come la Carboneria, era poi a maggioranza moderata (proprietari terrieri) e ciò fece mancare un vero apporto alle fasi iniziali dei moti che ebbero il carattere di pronunciamenti dei militari insorti. In ciò è il limite e l’errore fondamentale di tali lotte che non si posero l’obiettivo di cacciare il monarca per sostituirlo con un regime repubblicano ma di credere di poter imporre a tale personaggio Costituzione e diritti civili che significavano la drastica riduzione dei suoi poteri. Infine vi fu una sottovalutazione delle forze militari dei governanti.

        La Restaurazione fu durissima, soprattutto sul piano delle epurazioni. Tutti i regnanti misero al lavoro tribunali che riempirono le prigioni e condannarono a condanne capitali (in gran parte in contumacia). Reazione dappertutto e particolarmente nello Stato della Chiesa dove, nonostante qualche possibile apertura del Cardinale Consalvi (fino al 1823), il potere era in mano ai peggiori cardinali detentori di feudi personali (soprattutto in Romagna e nelle Marche), detti zelanti, che armavano squadracce di sanfedisti per punire i disobbedienti e per vendette personali. Ed il tutto peggiorò alla morte di Pio VII con la successione prima di Leone XII (che si servì di veri e propri cardinali aguzzini, Rivarola e Invernizzi, e che mise in grande attività il patibolo a Roma), quindi di Pio VIII (dal 1829 fino al 1831) che tentò con ogni tortura di sradicare laicismo e modernizzazione dallo Stato. Dopo la morte di Pio VIII arrivò un altro fervente reazionario al soglio pontificio, Gregorio XVI. Questo Papa è noto per aver anticipato il Sillabo di Pio IX mediante l’Enciclica Mirari vos (1832) che era un condanna implacabile della smodata libertà d’opinione (immoderata libertas opinionum), del liberalismo, e di tutti coloro che volevano l’eliminazione del potere temporale della Chiesa (Ecclesiam a regno separari)(20).  Addirittura la Casa Asburgo intervenne più volte con missioni diplomatiche per far sapere al Papa di turno che tali duri comportamenti dell’autorità potevano essere il fulcro per la destabilizzazione dell’intera penisola. A nulla valse ciò, si continuò con dure, crudeli, bigotte ed arbitrarie repressioni degne dei regimi più feroci della storia.

        La fine della Restaurazione data tra il 1830 ed il 1831, con il raggiungimento di nuovi assetti in Europa (da un lato i liberali inglesi e francesi e dall’altra i conservatori austriaci, prussiani e russi), con lo scioglimento della Santa Alleanza e con l’esplodere di altri moti rivoluzionari. In questo periodo inizia il declino della potenza asburgica che era il punto d’equilibrio dell’intero sistema dei piccoli Stati italiani. Il venir meno di questa potenza significa che viene anche meno apporto finanziario proprio nel momento in cui sarebbero occorsi apporti tecnici e capitali per finanziare la grande spinta delle rivoluzioni industriale e commerciale. E’ anche questo il momento in cui nacque un movimento d’ispirazione nazionale con l’idea guida di nazione italiana e di popolo italiano (Mazzini) che aiutò alla disgregazione dell’impero austriaco.

        Le rivoluzioni del 1830-1831 ebbero una diversa base politica e sociale con altre aspirazioni ideologiche ed altri obiettivi. In Italia, rispetto al resto d’Europa, i moti furono tardivi ed in definitiva marginali. Una specie di appendice ai moti europei per richieste relative ad una migliore amministrazione, a riforme economiche e costituzionali ma anche per rivendicare una maggiore laicizzazione. Il merito di fondo di tali sommovimenti fu la preparazione di quelli di gran lunga più importanti del 1848-1849 che furono caratterizzati da una maggiore unità d’intenti e d’azione tra tutte le componenti sociali contro i detentori del potere. Si affacciano sulla scena politica italiana, con ruolo attivo, gli intellettuali ed anche il ceto medio che via via era andato formandosi. Il ceto che si proponeva come leader dei moti rivoluzionari del passato avvertiva la necessità di una trasformazione che altrove in Europa si accompagnava a reali trasformazioni economico-sociali. Il fatto è che se tale esigenze non erano avvertite in Italia da una maggiore quantità di persone, vuol dire che tale esigenza di trasformazione non era sentita visto il perdurare di un arcaico sistema produttivo e quindi sociale. I lenti cambiamenti socio-economici iniziarono a diffondere quel minimo di benessere a cui si accompagna un timido affermarsi di ceto medio. Continua a mancare una base culturale per la divisione in lingue diverse tra i vari piccoli Stati e l’inesistenza di un canale di comunicazione adeguato. La conquista di una lingua comune, unita ad una lenta diffusione della stampa che raggiunge una minoranza di persone per l’imperante analfabetismo, permette di creare le basi per il successo delle insurrezioni del 1848. In definitiva le esigenze della borghesia, che voleva andare avanti rispetto ai ghetti dei piccoli Stati regionali, sarebbero state debolmente rappresentate in sede politica senza il collante e la spinta degli intellettuali liberali che seppero indicare la strada di un cambiamento, in ogni campo dell’attività umana civile e politica, alle diverse forze sociali in campo. Vi erano anche i reazionari, quelli legati all’ancien régime, ma esprimevano poco culturalmente e non era in grado di fare proseliti.

        Alcuni dati sull’andamento del commercio estero italiano possono guidarci a capire meglio (salvo disaggregare più avanti tra Nord e Sud)

Secondo statistiche ragionevolmente affidabili, il valore del commercio estero dell’Italia era di 275 milioni di lire nel 1830, di 425 milioni nel 1840 e di 650 milioni nel 1850; il commercio in generale (seta, olio d’oliva, cereali, frutta, latticini, prodotti artigianali e alcuni prodotti industriali) era in forte incremento; le città grandi e piccole erano cresciute in misura corrispondente […]. Sul piano dello sviluppo delle classi sociali si registra in questo periodo la straordinaria crescita di una borghesia preindustriale di proprietari terrieri, mercanti, banchieri, pubblici funzionari, professionisti ed anche di alcuni industriali […]. I ricchi borghesi ed i nobili facoltosi erano per lo più di mentalità conservatrice e consideravano con diffidenza la prospettiva d’intraprendere un processo d’espansione industriale […]. Tuttavia tra loro c’era un’avanguardia, specialmente al nord, fortemente desiderosa d’una espansione dinamica dell’economia e disposta ad investire in imprese di vasto respiro […]. [Tratto da Bibliografia 28, Vol. XI, pagg. 177-178].

        Queste spinte dell’alta borghesia e di certa nobiltà verso un’apertura dei mercati ed un’imprenditorialità più libera non avrebbe avuto alcuno sbocco finché il ceto medio che si veniva costruendo, come strumento di quell’espansione, avesse beneficiato dei proventi di un’ economia sempre più fiorente. Vi fu però una profonda crisi economica a cavallo del 1846 e 1847 per la crisi dei raccolti nel 1845 e 1846 (prezzi degli alimenti in vertiginosa crescita e carestia); crisi industriale europea (meno disponibilità di denaro per acquisti dall’estero); modifiche economico sociali per lo spostamento dell’industria dalle campagne (tessitura) alle grandi città. Il generale impoverimento e la disoccupazione che si produssero in breve tempo, soprattutto fra coloro che non disponevano di riserve economiche, sfociarono in un’ostilità crescente verso i governanti e produssero le basi per un movimento di massa soprattutto nel Lombardo-Veneto (la crisi in cui versava l’Impero austriaco impediva la riduzione delle tasse) e nel Regno delle due Sicilie (ogni minimo innalzamento del costo della vita privava i contadini dei mezzi di sussistenza e creavano migrazioni di disoccupati nelle città). A ciò si accompagnò l’elezione di Pio IX a capo dello Stato della Chiesa che creò vari problemi perché si proponeva addirittura come modello liberale (amnistia politica all’atto dell’elezione, liberalizzazione della stampa, freno allo strapotere poliziesco, creazione di un’assemblea consultiva) da imitare per gli altri piccoli Stati. Paradossalmente queste aperture della Chiesa insieme alle teorie neoguelfe (Gioberti, fino al voltafaccia di Pio IX del 1848) che volevano l’Italia come una confederazioni di Stati sotto la guida del Papa, videro i parroci come efficaci propagandatori per tutta l’Italia di misure, almeno in minima parte, liberali che inevitabilmente diventava una sorta di guerra santa unitaria contro gli austriaci. Tutto ciò portò a varie insurrezioni in giro per l’Italia (Palermo, Milano, Venezia), insurrezioni che, dati alla mano(21), possono essere definite come popolari, con alla testa giovani borghesi democratici (tra cui, come vedremo, vi saranno vari fisici).

        Anche stavolta, ma con l’intervento degli eserciti stranieri (Austria e Francia), le monarchie reazionarie vinsero ma con un paio di fondamentali differenze: non fu facile riportare la normalità perché vi fu dovunque una resistenza accanita ed indomabile; si innescò il processo che portò il Piemonte a proporsi come unificatore dell’Italia. Iniziano qui le guerre d’Indipendenza che porteranno in varie fasi all’Unità d’Italia, completata nel 1870 con la conquista di Roma.

        Negli anni che vanno dal 1861 al 1870 (prima l’Unità senza Roma e poi con Roma) si hanno pochi fatti utili alla storia che sto delineando ma molto importanti anche per la vita attuale dell’Italia. Senza dare giudizi perché richiederebbero molto spazio per argomentare, si può dire che la proclamazione del Regno d’Italia avvenne in piena continuità  con la dinastia, lo Statuto e la gran parte degli ordinamenti del Regno di Sardegna. Caddero le preesistenti tariffe doganali tra gli Stati e si applicò un’unica tariffa doganale, quella sarda. L’imponenza del debito pubblico impose un regime di tassazione che fu all’origine di un mare di problemi mai risolti ed ancora oggi vivi e vegeti. Le differenze tra i vari Stati italiani erano così marcate che voler unificare tutto in tempi brevissimi fu errore fatale. Di fronte ad un’alternativa federale che allora, prima delle spoliazioni, avrebbe avuto grande interesse, si preferì quella fortemente centralizzata. In termini di imposte ciò significò l’ulteriore impoverimento dei contadini del Sud che con i Borbone guadagnavano poco ma non pagavano quasi nulla di tasse e che ora continuavano a guadagnare poco dovendo pagare le imposte come al Nord. Ciò originò fenomeni sempre più estesi di brigantaggio, vera e propria resistenza contro l’invasore (precedentemente creduto liberatore), che furono all’origine del potere parallelo della Mafia che si proponeva come salvaguardia del cittadino indifeso contro lo Stato vessatore. E’ Marco Minghetti che, nel 1865, racconta le disparità impositive come segue:

«L’Italia in materia di ordini finanziari era forse più che in ogni altra parte della cosa pubblica dissimile, e quasi direi pugnante in sé medesima, né le differenze erano solo fra Stato e Stato, ma altresì fra le Provincie di uno Stato medesimo. Se si prendono in esame le leggi di imposta che vigevano nei vari Stati innanzi il 1859, si vedrà quanto diversificassero fra loro tranne un solo punto, cioè l’imposta prediale [imposta sul podere o sul fondo rustico, ndr], ma questa medesima fondata su catasti, o sopra indicazioni diverse era riscossa in diverse misure e con diverse forme. Se poi si parla delle imposte dirette su redditi non fondiari, queste in talune Provincie erano molteplici e svariatissime: in altre neppure esistevano. La stessa varietà si riscontrava nella tassa sugli affari. E quanto al dazio consumo, qui presentavasi sotto forma di canone gabellario, là sotto forma di tassa personale o focatico, in taluni luoghi apparteneva al Comune, in altri al Governo, o ad entrambi con varie proporzioni. Gli stessi monopoli erano regolati con norme diverse; il prezzo del sale non era per tutti uguale; la coltivazione del tabacco qui del tutto proibita, altrove permessa con certe clausole; la fabbricazione delle polveri in alcune parti libera, era nelle altre parti oggetto di privativa. Non parlerò della dogana dove forse la discrepanza era maggiore che in ogni altro ramo, … Che se nelle imposte vi era varietà, e talora contraddizione, non meno diversi erano i sistemi, gli ordinamenti che alla finanza si appartenevano. Amministrazioni autonome o, dove pur riunite, uffici aventi attribuzioni le più disparate fra loro, contabilità diverse, diversi metodi di percezione, Corti di conti molteplici e procedenti con criteri disformi».

con questa situazione, a cui si aggiungeva la coscrizione obbligatoria in luoghi dove ogni paio di braccia al lavoro era la sopravvivenza per l’intera famiglia, voler portare tutti alle condizioni del Nord non era sopportabile materialmente per il Sud ed i problemi dovettero essere risolti dall’esercito piemontese.

        La storia, estremamente semplificata e condensata, che ho delineato, merita un poco di attenzione sullo Stato della Chiesa che, appunto, fu l’ultimo a cedere ai bersaglieri italiani. Intanto Pio IX operò un tipico voltafaccia pretesco. Allo scoppio dei moti rivoluzionari, preoccupato perché il suo nome era utilizzato per ideali di libertà e di unità nazionale neoguelfa, il Papa pronunciò un’allocuzione (Non semel) il 29 aprile 1848 in cui troncò ogni speranza a chi pensava di organizzare una guerra di Stati federati italiani contro l’Austria ed anche in chi pensava appunto ad un’Italia neoguelfa(22). Questo voltafaccia di Pio IX, liberale per soli due anni rispetto ad un pontificato di 37 anni funestato da un patibolo continuamente in funzione, gettò le basi per la splendida esperienza (biennale) della Repubblica Romana che può giudicarsi leggendo la Costituzione  che fu promulgata, ancora oggi tra le più avanzate costituzioni liberali. Più in dettaglio: venne introdotto il voto per tutti i maschi adulti; vennero nazionalizzati i beni ecclesiastici; fu soppressa l’Inquisizione; furono abolite sia la censura che il controllo statale sull’Università. In particolare i latifondi dovevano essere divisi in piccoli appezzamenti da destinare ai contadini, in affitto simbolico permanente (da pagare allo Stato) ed i beni urbani della Chiesa dovevano essere suddivisi tra i poveri. Questo avanzatissimo programma che andava molto al di là delle generiche enunciazioni dei teorici dell’Unità, legava alla causa rivoluzionaria anche i ceti più deboli. Il tutto fu stroncato dall’arrivo a Roma, da direzioni diverse, degli eserciti francese ed austriaco. I repubblicani tappezzarono le strade da cui sarebbe passato l’esercito francese con manifesti che riportavano l’articolo 5 della Costituzione francese in cui si diceva che mai la Francia avrebbe fatto uso della forza per reprimere la libertà dei popoli.

4.2 – Vicende economiche fino al 1815

        Abbiamo già visto, quando ci siamo occupati del Settecento, lo stato di profonda arretratezza dell’economia dei vari Stati italiani. Cerchiamo ora di capire le novità che presenta l’Ottocento a partire dal periodo napoleonico.

        La base economica dell’intera penisola è ancora l’agricoltura caratterizzata da individualismo che comporta piccole colture con scarsità di foraggi per l’alimentazione del bestiame (mancando il quale manca il letame da utilizzare come concime). Non si utilizzano concimi e quindi i rendimenti della terra sono molto bassi. Eventuali sovraproduzioni sono casuali e quindi di difficile collocazione sul mercato. Vi sono poi situazioni particolari in cui si pratica l’allevamento ovino e bovino ma a pieno discapito dell’agricoltura ed altre in cui si realizzano colture arboree come quelle dell’ulivo o dell’agrume. Il settore più redditizio è quello dove si hanno colture irrigue (valle del Po, soprattutto nella Lombardia austriaca) che permettono grandi colture in cui è anche possibile utilizzare mano d’opera salariata. E’ qui che si ottengono i prodotti con più grande mercato e resa come il riso ed i derivati del latte (più tardi, dopo avere ampiamente diffuso la coltivazione della barbabietola, si iniziò anche a produrre zucchero). Le innovazioni tecniche sono comunque dovunque inesistenti ed il trend generale è di una lenta crescita. E qui vi è da aggiungere un elemento sul quale ci si sofferma raramente: non vi sono sufficienti conoscenze scientifiche, almeno paragonabili a quelle del resto d’Europa, per intervenire proficuamente nell’agricoltura. Si procede in modo empirico ed anche dove la produzione è ricca non vi è alcuna intersezione con conoscenze né indigene né di altri Paesi.

        Nei settori non agricoli non si riesce ad uscire dalla produzione artigianale e dal lavoro dato in affitto generalmente a contadini. Alcuni sovrani illuminati provarono ad introdurre sistemi più avanzati di produzione come la raccolta in un unico edificio di coloro che facevano lavori in affitto. I tentativi di introdurre innovazioni tecniche nella produzione e quello di dar vita alla fabbrica, fallirono. Qualche successo vi fu solo dove c’era il sostegno di capitali pubblici sia nei territori sotto il dominio austriaco(23) che nella Repubblica veneta. L’agricoltura ed il commercio dei suoi prodotti non aveva alternative valide anche se moltissimi problemi si ebbero con la questione degli scambi di prodotti e quindi dei prezzi agricoli tra i vari Stati (per non parlare dell’ancora non risolto sistema unico di misura). Nell’ambito del commercio europeo la penisola italiana forniva prodotti agricoli, materie prime (lane, zolfi, marmi) e semilavorati (sete grezze e filate) ed importava manufatti. L’andamento di questi mercati era discontinuo e non convinceva la borghesia peninsulare ad investire nel settore dell’industria manifatturiera anche perché il mercato interno non avrebbe potuto far fronte a crisi con l’esterno. Tanto più che problemi di varia natura tra i vari Stati e le rivalità politiche non aiutarono allo sviluppo di una rete di comunicazione stradale facendo preferire il trasporto marittimo, con la conseguenza di un mercato interno completamente frammentato e privo di qualunque organicità e persistenza. Tra le attività degne di nota vi sono quelle della manifattura del legno (costruzioni civili, usi domestici, mezzi di trasporto di terra e di mare), della concia e lavorazione del cuoio, la manifattura di materiali per l’edilizia, di stoviglie, vetri, carta, generi alimentari. Infine occorre dire che vi erano delle ferriere sparse un poco ovunque in punti strategici (Liguria, Lombardia, Val d’Aosta, Toscana, Calabria, Napoli). L’industria estrattiva dei metalli era finalizzata quasi interamente alla fabbricazione d’armi come a fini bellici era impiegato lo zolfo siciliano.

        Durante il periodo napoleonico vi fu la naturale tendenza da parte della Francia di spingere per produzioni italiane utili per gli interessi francesi e per rendere l’Italia un mercato delle manifatture d’oltralpe. La Francia doveva avere l’egemonia industriale e l’Italia doveva assolvere  funzioni dipendenti che non aprissero ad autonomi sviluppi. A tale proposito occorre ricordare il trattato imposto dai francesi nel 1808 secondo il quale si stabiliva un regime di dazi dimezzati tra Impero francese e Regno d’Italia. Scriveva Pecchio nel 1853: «La Francia sola sentiva realmente il beneficio di questo ribasso, poiché inondava il nostro regno delle sue manifatture. Per lo contrario, il nostro territorio, non molto fiorente in manifatture, ben poche ne poteva mandare nell’impero, e quelle sole che avremmo potuto versare ne’ dipartimenti italiani dell’impero, erano dalla tariffa francese proibite. È una tirannia che si dee proclamare; i francesi ci mandavano la loro bigiotteria d’oro e d’argento, e non vollero mai ricevere in concambio i nostri lavori di ferro e di acciaio [ ….. ]. La Francia non mostrò altro pudore in questo trattato che disonorava i due popoli contraenti, che quello di non pubblicarlo» [citato da Caizzi]

        Per questo motivo soffrirà molto il settore della seta che faceva appunto un’importante concorrenza alla Francia, mentre si avrà un’espansione di lanifici, cotonifici ed estrazione e lavorazione di minerali di ferro. Ricadute importanti per l’Italia furono l’incremento della spesa pubblica per finanziare strade alpine (apertura del Monginevro, del Moncenisio e del Sempione e collegamento di Milano con Genova attraverso il Giovi; collegamento stradale di Genova con Nizza e la Francia e potenziamento del porto) e collegamenti marittimi con la Francia oltre a quei beni immateriali che sono il riordino amministrativo, la riforma dei codici, l’abbattimento di molti privilegi e l’introduzione del sistema metrico decimale che iniziava ad uniformare gli oltre 2000 sistemi di unità di misura esistenti in Italia. In definitiva la vita economica ne usciva con orizzonti molto più moderni anche per alcuni intraprendenti industriali francesi che vincendo barriere e divieti vennero ad installare le loro attività in Italia (Piemonte, Lombardia, Napoli e Toscana). D’interesse è l’osservare che le esigenze belliche promossero la produzione del nitro e del sale ammonico in Lombardia mentre l’industria tessile nel suo insieme richiese la fabbricazione di acido solforico (Milano e Bologna), precedentemente importato dall’Olanda. Anche numerose attività artigianali minori insidiavano i primati francesi: i cappellini di paglia (Toscana ed Emilia), i cappellini di lana, i guanti (Napoli), oggetti (ricamo, passamaneria, alamari) di lusso (Milano). Uno stato che si fermò quasi completamente andando in crisi totale fu la Repubblica di Venezia, soprattutto dopo la sua annessione al Regno d’Italia. E ciò a causa del blocco napoleonico dei traffici marittimi che impedì alla Repubblica il raggiungimento con i suoi prodotti (particolarmente il vetro) dei suoi tradizionali mercati.

        Riguardo l’agricoltura, il periodo napoleonico vide il dominio dei cereali maggiori tra cui il frumento che cresce praticamente dappertutto. Nelle zone irrigue vi fu un’estensione (verso aree paludose della valle del Po e del Veneto)delle zone coltivate a riso e a foraggio (con la conseguenza di crescita del bestiame allevato e dei derivati del latte). In altre zone vi fu invece sviluppo delle colture di alcune fibre tessili ed arboree (ulivo in Toscana(24), Puglia e Calabria ma con ostacoli alle esportazioni; ed agrumi dalla Sicilia coltivati a discapito della vite). La viticoltura comunque ha avuto un ruolo primario in tutta Italia (circa pari a quello del frumento), sia in montagna che in pianura, sia per il consumo interno che per esportazione avendo qui dei benefici dagli avanzamenti scientifici e tecnici che nel settore si erano avuti in Francia.

        Il foraggio restava un problema non risolto, a parte le zone irrigue ed i pascoli montani. Senza foraggio l’allevamento del bestiame risulta impossibile o a scapito dell’agricoltura. Il bestiame bovino, in molte zone, è considerato un male necessario per i lavori agricoli.        

        Di particolare interesse sono i prodotti derivati da colture di fibre tessili come lini e canapa o dall’allevamento ovino come la lana e la pelle (anche da allevamento bovino) o da allevamento del baco da seta (in qualche modo assimilabile a prodotto agricolo per la necessità di coltivare il gelso). Questi prodotti, oltre ad essere di largo uso per impieghi diretti dei contadini, erano la base per alcune attività di trasformazione, tra le quali risultavano molto importanti quelle tessili, come i setifici ed i lanifici (canapa e lino sono lavorazioni ancora molto arretrate). I lanifici, riforniti dalle lane di Puglia e Lazio, funzionavano senza soste per esigenze militari e proprio questa garanzia produttiva non spingeva verso la modernizzazione. I setifici, localizzati soprattutto al nord (Piemonte e Lombardia) dove il clima era favorevole, producevano solo semilavorati che poi inviavano in Francia per il manufatto completo. E proprio dalla Francia derivò l’unica innovazione di rilievo nella produzione di seta. Invece del fuoco necessario a scaldare l’acqua nelle bacinelle in uso per la produzione (per la trattura, ovvero dipanatura del filo dal bozzolo) fu introdotto il sistema Gensoul (1805) che consisteva nell’utilizzare il vapore prodotto da una caldaia centrale per riscaldare quell’acqua, tramite un sistema di tubi. Dopo la Restaurazione vi fu un aumento delle richieste di seta da parte dell’Europa ed anche da parte dell’America del Nord ed ogni miglioramento ed accelerazione nel sistema produttivo era di grande utilità. Intorno alla metà del secolo vi erano circa 800 stabilimenti per la torcitura della seta (dopo la trattura, occorreva sistemare più fili di seta paralleli e poi torcerli ad

Una filanda (con macchine azionate da ruota idraulica)

Torcitura

elica in un filo unico per dare maggiore resistenza al filato definitivo) che impiegavano circa 150 mila operai (in gran maggioranza donne dei campi impiegate in piccoli laboratori dislocati nei campi e con impieghi stagionali) in una

Torcitoio per seta. Piccolo, per uso domestico, tanto da poter essere azionato mediante la manovella M. Quando si disponeva di molte più macchine di questo tipo in serie tra loro, serviva collegarle ad una ruota idraulica attraverso M.

Italia che, a cavallo dei due secoli, faceva 16 milioni di abitanti. Per azionare le macchine, in grandissima parte in legno, nel caso fossero poche, si utilizzava il

Macchine azionate a mano

lavoro umano, per impianti più grandi si utilizzava acqua corrente che metteva in moto una ruota a pale collegata opportunamente con delle cinghie di trasmissione alle parti rotanti delle macchine.

        Mi soffermo sul settore della seta perché esso fu trainante per l’industria futura e gli opifici disseminati nei campi furono il primo passo per abituare operai alla fabbrica. Il fatto che il prodotto arrivasse ad essere semilavorato (il filo di seta) dipendeva dal fatto che la domanda interna era povera e che dall’estero chiedevano quello per poi importare da noi i manufatti in seta. Ho già detto della crisi economica che colpì l’Italia intorno alla metà del secolo. Aggiungo qui che essa discese in gran parte dalla pebrina, una malattia di gravissima, incurabile, contagiosa ed ereditaria che colpiva i bachi. E qui ci si sentì completamente scoperti perché non c’erano rimedi possibili e la scienza era, come già detto, assente. Si ovviò importando bachi sani dal Giappone (con il pericolo che si infettassero nel trasporto nel luogo di produzione). Da notare un aspetto importante di questa profonda crisi. Poiché la produzione di semilavorati calava si pensò di aumentare la produzione di prodotti in stato sempre più avanzato di lavorazione. La cosa ebbe un importante sviluppo se, nell’arco di 10 anni (1855-1865), la produzione di seta completamente filata passò dal 17% all’80% (e ciò fu possibile in epoca in cui non esistevano più i vincoli dell’epoca napoleonica). Ricaduta di questo cambio nella produzione fu la maggiore attenzione alla qualità del prodotto e quindi una maggiore richiesta di innovazione tecnologica con un crescente passaggio dai telai a mano a quelli meccanici(25).   Ultima osservazione da fare ora riguarda l’introduzione del sistema Gensoul al quale ho accennato. Produrre vapore rende necessario disporre di apparecchiature di una dimensione per la quale servono molti telai collegati e quindi occorre avere più mano d’opera all’interno di un unico edificio, la fabbrica vera e propria. Vi era un’ulteriore ricaduta sul tipo di prestazione richiesta agli operai: essa non era più stagionale e legata all’agricoltura ma poteva assumere carattere di continuità e quest’ultima era richiesta anche per ammortizzare i grossi investimenti necessari per le nuove macchine che occorreva acquistare. In definitiva la filanda diventa il primo settore industriale che richiede i primi investitori con conoscenze tecniche avanzate e con conoscenze di commerci e mercati.

4.3 – Vicende economiche dal 1815 all’Unità d’Italia

         Gli eserciti di Napoleone alimentavano l’agricoltura ed alcune parti di industria da utilizzare per armamenti. Alla caduta di Napoleone si ebbe una crisi agricola molto forte per la caduta della domanda, ormai solo per esigenze civili. Iniziò allora una politica ondivaga che da una parte tentava di proteggersi dall’invasione di merci entranti e dall’altra subiva la pressione dei produttori per la soppressione dei dazi in uscita. Le richieste non erano peregrine perché esse erano state esaudite per i commercianti. I governi, miopi e profondamente reazionari, dovevano però stare molto attenti perché una tale liberalizzazione di prodotti in uscita sarebbe stata accompagnata da analoga richiesta di Paesi stranieri per far entrare nelle penisola prodotti diversi da quelli agricoli con il possibile affossamento di qualche impresa del genere che nascesse qua e là. Ma queste imprese non venivano. Si puntava sempre e comunque su un’agricoltura in gran parte arcaica e che si basava sulle zone umide per essere florida senza affrontare uno studio serio del problema e capire che anche in zone non irrigue è possibile una fiorente agricoltura. Nel 1834, sulla questione, Gioia ebbe a dire:

«[Dalle cose dette] risulta essere stolidissimo e fatale errore il pretendere che un paese agricolo non debba essere manifatturiero, come decantano molte persone che sono o si credono superiori ai pregiudizj del volgo.

Noi dobbiamo, ci si dice, occuparci di grani, corre la seta, fabbricare formaggi, cambiare i prodotti del suolo coi prodotti delle altrui manifatture, e non pensare ad erigerne o ad accrescerle. Questo pregiudizio che regna a Pietroburrgo come a Milano, almeno in molte teste, è smentito dal senso comune, dalla storia patria, dall’esempio delle altre nazioni
» [citato da Romani]

e Demarco (1960) aggiunge una considerazione che conosciamo bene:

«Non si può dire che mancassero i capitali; essi, però, di preferenza, venivano investiti in titoli del debito pubblico, o in terreni, che davano un reddito più sicuro, anche se più modesto, in confronto alle speculazioni industriali. I detentori di capitali, preferivano persino tenerli inoperosi, anziché impiegarli in operazioni ritenute arrischiate … » [questa e le citazioni seguenti provengono da Romani]

In Europa, dopo il 1815 le supremazie tecniche di alcuni stati diventeranno fattori di competizione economica. Ciò che era stato inventato in vari campi nel ventennio napoleonico entrò in una società che si organizzava con nuovi stabilimenti, con le banche, le assicurazioni,, le camere di commercio, … Più in dettaglio i ritrovati tecnici che moltiplicano la produzione sono: congegni per filare, telai ad acqua, telai meccanici, eliche per battelli, nuovi forni fusori, laminatoi del ferro, …. Tutto ciò moltiplicava la produzione ed abbassava i prezzi. Con l’estendersi dell’uso (fine Ottocento) della macchina a vapore di Watt, adatta anche per alimentare piccole e medie produzioni, la rivoluzione industriale, che vide assente l’Italia, entrava nel suo auge anche perché quella macchina spingeva in modo vigoroso la siderurgia e conseguentemente la meccanica (oltre il tessile). Ciò crea un solco enorme tra l’Europa e l’Italia(26) che non è in grado di far fronte ad una simile concorrenza e che deve affrontare le pressioni di quei Paesi che vogliono penetrare nei nostri mercati. E quindi il protezionismo divenne una urgente necessità non completamente negativa perché spiazzava i nostri imprenditori privi di iniziativa con l’arrivo in Italia di produttori stranieri con le loro fabbriche. Caizzi ricorda che, intorno alla metà del secolo

il maggior stabilimento di macchine per l’industria tessile, che diede presto lavoro a 200 persone, fu quello milanese di Schlegel e C., accanto al quale sorsero ben presto imprese analoghe. La fabbricazione di macchine a vapore venne introdotta dal Baltswyler associato a un Bossi; per lavori in ferro fuso giunsero da Genova i fratelli Balleydier; il primo contratto per il gas cittadino fu stipulato dalla città di Milano con la ditta Guillard di Lione; fabbricanti di macchine idrauliche portano i nomi, certo non milanesi, di Dufour, Müller e Stuty, Leber, Bouffier e C.; fondatori quest’ultimi della «fonderia di ghisa all’Elvetica» che diverrà poi la Breda, e si proponeva già allora la produzione di macchine trasformatrici per l’industria, impegnandosi anche a fornire alla nuova compagnia del gas l’impianto di illuminazione cittadina.

         In Italia è un altro mondo. L’eredità del Settecento è pesantissima: mentre altrove (Inghilterra, Francia, Germania) vi è l’incoraggiamento a scienziati e tecnici nelle loro scoperte con finanziamenti opportuni e con ricadute enormi, in Italia da quell’infausto processo a Galileo e per il perdurare del sordo domino diretto o indiretto della Chiesa, non accade nulla di tutto ciò e, ciò che è peggio, manca pure l’orgoglio ed almeno lo spirito emulativo. Se si fa un bilancio della situazione in termini di avanzamenti tecnici sull’intero territorio peninsulare si scopre che le macchine moderne non vanno oltre le dita di una mano con una produzione solo artigiana.

        Le novità italiane sono l’aumento delle colture estensive di cereali e l’acquisizione di piccole proprietà da parte di grossi latifondisti. E questa era caratteristica che riguardava più o meno l’intera penisola. Riferendosi a Milano, dice Greenfield (1960):

« … mentre il suo commercio, specialmente per la seta, si espandeva considerevolmente e rifletteva l’influenza di un ritmo più accelerato nella vita economica d’Europa, i suoi commercianti, come classe, erano lenti a muoversi. Legati alle tradizioni … essi erano pronti a risentirsi di ogni cosa che influisse sulle loro pratiche … ma erano lenti ad avventurarsi su nuove vie. Il loro fiero conservatorismo si riflette …nella loro riluttanza a cercare nuovi mercati, anche quando vi erano stimolati dal governo austriaco. Nel 1816 il governo propose che essi sviluppassero il loro commercio col Brasile, approfittando dell’opportunità di mandare alcuni campioni delle loro esportazioni, offerta da una visita ufficiale che una fregata e alcuni brigantini austriaci stavano per fare in quel paese. Ma la Camera di Commercio non ricevette dai commercianti alcuna risposta alla sua richiesta di campioni. Nel 1817 il governo tentò di stimolare il loro commercio con la Spagna, ma la Camera rispose con un memoriale che dimostrava soltanto un vago e scarso interesse. La Camera chiedeva all’ Austria di inviare consoli di nazionalità italiana nel Levante per incoraggiare il commercio con l’Asia Minore e con l’Egitto; ma quando questo passo fu fatto, i mercanti non poterono essere indotti a provvedere i consoli di campioni»

Se questa era la situazione, se cioè ci si muoveva solo su un’agricoltura arcaica con carenze di ogni iniziativa imprenditoriale, subendo ogni crisi o di carestia o di mercato, ritroviamo il problema in modo drammatico tra i lavoratori. Disponiamo di una statistica del 1824 del Regno di Napoli: su 100 maschi adulti (escludendo Napoli, i preti, i militari, i terratenenti) ben 85 erano impiegati nell’agricoltura e pastorizia. Confrontando questo dato con quello che ci ha fornito Carlo Cattaneo (1836), l’83% per il Regno d’Italia, possiamo capire che la situazione peninsulare, a parte qualche isola virtuosa, era uniforme. Gli addetti all’agricoltura, qualunque fosse il loro status (di affittuario o mezzadro o dipendente di grandi estensioni o piccole, …), in questa enorme quantità erano in una condizione di miseria nera. Come ci dicono alcune statistiche sulla mortalità e sulla flessione della popolazione, la fame era un fatto generale e ad essa si accompagnavano epidemie e malattie anche dal carattere sociale (come la pellagra(27), la malaria ed il cretinismo). Oltre a ciò vi fu anche un’impennata di infanti esposti, cioè di neonati abbandonati negli ospizi. Romani può commentare:

Con l’aiuto determinante di una religiosità primitiva tradizionalmente diffusa, queste masse contadine (e gli artigiani e i giornalieri di città non certo in condizioni molto diverse) immerse in una ignoranza senza confini ed incapaci di ogni consapevolezza circa la loro posizione economica e sociale, sostengono con rassegnazione un autentico calvario quotidiano. Frequenti esplosioni di violenza collettiva sottolineano è vero, specie nel Regno delle due Sicilie e nello Stato Pontificio, il profondo disagio contadino, come il fiorire del brigantaggio che tanto rende precaria in molte zone la tranquillità pubblica, ma nell’insieme il tessuto dei rapporti sociali ed economici non ne risulta turbato.

Occorrerà arrivare al 1826 per assistere alla fine della discesa dei prezzi agricoli.

        Intanto qualcuno iniziò a capire che il problema agricolo doveva essere affrontato dalle sue fondamenta. Non bastava più l’empirismo, serviva uno studio scientifico dei problemi. Si tratta dell’agronomo e proprietario terriero di Firenze, Cosimo Ridolfi, che nel 1827 fondò il primo Istituto Agrario italiano e che con Raffaele Lambruschini, anch’egli agronomo e grande pedagogista, fondò la rivista Giornale agrario toscano che servì per divulgare novità realizzate in Italia ed all’estero. Ridolfi non fu un teorico ma mise insieme teoria e pratica per il perfezionamento delle tecniche di bonifica, la coltivazione in collina, il miglioramento tecnico dell’aratro, una rotazione all’inglese (la high farming di Norfolk) delle coltivazioni. Ma l’aspetto più importante che riguarda Ridolfi è la sua instancabile opera di istruttore agricolo nell’Istituto Agrario (1834-1842) che aprì, come estensione dell’università di Pisa, nella sua tenuta di Meleto. Per rendere conto dell’ampiezza di vedute di Ridolfi aggiungo solo che egli fu grane patriota e partecipò come animatore dei Congressi degli scienziati italiani che iniziarono a riunire gli scienziati provenienti da tutta Italia a partire dal 1839(28).

        Altro intervento sulle questioni agricole, ma sulle sue terre, fu di Camillo Benso conte di Cavour che era un grande proprietario terriero. Egli sperimentò (circa 1845) sulle sue tenute la ricerca agricola inglese (nella parte in cui aveva dimostrato che la buona agricoltura è indipendente dall’irrigazione) al fine di espandere i prati artificiali, di selezionare il bestiame da allevare, di drenare i terreni (le sue tenute erano in zone irrigue ed egli non aveva i problemi di chi soffriva la mancanza d’acqua), di meccanizzare il lavoro agricolo, di utilizzare i concimi artificiali. Il motivo della abbondanza d’acqua fu alla base dell’andamento inerziale dell’agricoltura lombarda. Quell’abbondanza non fece investire ed innovare in nulla. Come al solito la cosa fu capita da Carlo Cattaneo che, nel 1847,  sull’opportunità di aprire una scuola d’alti studi agrari in cui preparare chi aveva le responsabilità dei campi, scriveva:

«La nostra agricoltura vanta un vario e dovizioso giro di prodotti, dai nostri padri con sagaci cure assortito alla pianura adacquatoria e all’ asciutta, alla collina e alla montagna. La coltivazione del riso, del gran turco, del saraceno, del gelso, dei prati invernali, le ben concatenate rotazioni ed altre molte cose non per anche invalse presso ai nostri vicini, o presso di loro affatto moderne, sono già ben antiche per noi. Ma viceversa s’introdussero intanto presso altri popoli molte belle innovazioni che a noi sono ancora ignote; foggie affatto nuove di strumenti agrari, nuove specie di foraggi, nuovi principi di concimazione organica e minerale, molte varietà di legumi e di verdure, lini e canapi d’ammirabile finezza, e vini più preziosi dei nostri, nulla ostante la maggior asprezza di quei climi .. .I miglioramenti sì bene incamminati dai nostri antichi devono dunque continuarsi anche da noi. Le diverse provincie devono insegnarsi mutualmente tutto ciò che sanno di far bene, ed attingere presso gli stranieri i buoni ammaestramenti che questi possono offrire in ricambio delle cose che hanno imparato o vanno imparando da noi»

        Ma torniamo ora ad una questione drammatica alla quale ho accennato: la situazione di profonda miseria dell’85% della popolazione, in gran parte occupata in agricoltura. Occorre dire qualcosa in più se si vogliono capire i motivi che portarono all’adesione di massa ai moti rivoluzionari del 1848.. Il dato è relativo all’aumento della miseria contadina, a partire dal 1826 fino appunto a circa la metà del secolo, a fronte del grande aumento della concentrazione dei redditi agrari e fondiari e dell’accumulo di capitali derivanti da tali operazioni. Il pauperismo è diventato un grave problema avvertito da qualche illuminato ma dai più liquidato come ineliminabile, senza alcuna considerazione del dissesto strutturale che aiutava molto le tragiche condizioni contadine. Relativamente al Veneto, scrive Berengo:

«Nutrimento poverissimo e a base quasi esclusivamente maidica [di mais, ndr]; case ristrette, cadenti e malsane; pellagra in quasi tutte le famiglie; e debiti col padrone, incertezza del lavoro, dipendenza assoluta dall’andamento dei raccolti»

ed aggiunge:

«Quando i delegati censuari di tutto il Veneto, con una concordia quasi corale – e rotta solo, qua e là, dalle accuse all’immoralità, all’ozio, al lusso dei contadini – ci dichiarano che “gli agricoltori sono assolutamente meschini”, non facciamo sforzo a prestar loro piena fede. Mercedi bracciantili di una o due lire venete al giorno, quando una lira e mezza è ritenuta indispensabile a sfamare un uomo nel corso delle opere grandi, ossia dei pesanti lavori estivi, testimoniano la miseria dei contadini in modo più sicuro delle rivolte, delle suppliche, delle commosse pagine degli scrittori liberali, … che poi, in determinate zone, esistano colture pregiate (ad es. gli orti del Veronese) capaci di migliorare le condizioni del contadino; che in un largo tratto della regione pedemontana egli possa giovarsi del lavoro a domicilio, compiuto sul telaio dalle donne della sua famiglia; che talora egli riesca ad impiegarsi in altre attività e a non restare inoperoso che pochi giorni dell’anno. tutto questo non corregge se non in misura assai parziale le conclusioni valide nell’assoluta maggioranza dei casi»

Questa situazione è la medesima ovunque. Per la Toscana leggiamo quanto scriveva Poggi nel 1848:

«Neppure i mezzaiuoli [mezzadri, ndr] hanno progredito né fatto progredire la cultura delle terre. Essi sono sempre sprovvisti di un capitale mobile di qualche conto, indebitati coi padroni, o almeno impotenti a fare il più piccolo risparmio, sono immersi nella più crassa ignoranza, ritrosi alle novità e seguaci fedeli d’ogni vecchio metodo tradizionale. … Più industriosi per ordinario appariscono nei luoghi in cui la fertilità naturale del terreno, e l’abbondanza di qualche ricco prodotto somministrano una giusta ricompensa alle loro fatiche. Ma là dove, nonostante il continuo esercitarsi in duri lavori, stentano a ritrarre il più ristretto e il più misero vitto, rado avviene che usino nelle opere agrarie quella minuta diligenza, la quale è propria d’animi zelanti per l’arte e di menti preoccupate dal desiderio di perfezionarla.

Per supplire a quel che loro manca, ricorrono come in passato a piccole industrie estranee alla cultura, ed a molti modi occulti di compensazione che impoveriscono i possidenti più assai di quello non farebbe un più equo riparto dei prodotti. Dai servizi personali nelle case dei proprietari non sono ancora immuni, e quest’abuso li mantiene in tale avvilimento che la plebe delle città li dileggia, quasi fossero in condizione a lei inferiore. Questi tristi particolari intorno allo stato il più comune delle famiglie coloniche non possono revocarsi in dubbio; e chiunque si faccia ad esaminare le nostre campagne, o voglia gettar l’occhio sulle statistiche compilate per varj contadi da esperti osservatori, acquisterà la certezza di due fatti i più interessanti fra i molti notati, vo’ dire lo indebitamento dei contadini coi proprietari, e le anticipazioni frequentissime di derrate da questi a quelli, segno evidente di un vizio insito nel sistema colonico
»

Per la Puglia, Calabria e Basilicata, scrive Candeloro:

«I contratti di migliorìa, coi quali fu attuata la trasformazione in agrumeti di molti terreni incolti o malcoltivati, erano quasi sempre molto pesanti per i contadini. In Calabria questo contratto durava in genere otto anni: nei primi tre il colono non pagava fitto o ne pagava uno bassissimo, aveva l’obbligo di piantare gli alberi e, in attesa che questi crescessero, viveva degli ortaggi che riusciva a coltivare temporaneamente nel fondo; negli anni successivi pagava un fitto in danaro, in natura o misto, alla fine restituiva il fondo al padrone e riceveva in cambio soltanto una frazione (in genere un terzo) della differenza tra il prezzo di stima del fondo prima del miglioramento e quello del fondo migliorato. Ma poiché quasi sempre durante gli otto anni il proprietario aveva dovuto fare al colono delle anticipazioni per l’acquisto di piante, di concime, o di altre cose necessarie per la coltivazione o per la vita del colono e della sua famiglia, avveniva che alla resa dei conti il proprietario stesso si compensasse detraendo le somme prestate, aumentate di elevati interessi, dalla somma dovuta al contadino per il miglioramento; perciò spesso restava ben poco al colono dopo otto anni di duro lavoro, mentre il padrone riceveva con poca spesa una proprietà grandemente aumentata di valore. Ancora più esteso era il contratto detto a godimento, molto diffuso in Terra di Bari, soprattutto nelle zone pietrose delle Murge. Esso durava dieci anni ed era caratterizzato dal fatto che il colono aveva l’obbligo di piantare olivi, viti e mandorli senza dovere alcun fitto al proprietario; alla fine, cioè proprio quando una parte delle piante cominciavano a rendere, il colono, che durante dieci anni aveva curato faticosamente la loro crescita sostenendosi a malapena col magro rendimento dei legumi o dei cereali coltivati fra gli alberi, doveva restituire il fondo al padrone, senza alcun compenso per il notevolissimo miglioramento apportato».

Questi comportamenti banditeschi da parte dei latifondisti generarono piccole rivolte sociali che si esplicarono nella pratica crescente dei furti campestri. Nel 1851 scriveva a proposito il possidente democristiano Stefano Jacini (ministro del Regno di Sardegna e futuro ministro dei primi governi unitari):

 «Tutta la Lombardia piana, specialmente ad oriente dell’Adda, è talmente colpita di questa calamità (i furti campestri), che, se si potesse esprimere con cifre la gravezza del male prodotto alla proprietà fondiaria da ciò, sembrerebbero incredibili. La foglia dei gelsi, il grano turco vicino a maturanza, la legna, l’erba dei prati, si considerano in molti territori come perduti per metà dagli agricoltori a cagione dei furti. … Come mai basterebbero ad impedirlo pochi gendarmi e poche guardie comunali? In alcuni villaggi poi i furti campestri sono appena considerati come trasgressioni, e non ne fanno mistero nemmeno i colpevoli. Molti dei quali del resto in ogni altra cosa agiscono onestamente».

        Al pauperismo è anche legato l’arcaico sistema fiscale che oltre ai redditi personali colpisce il macinato ed il sale che è in regime di monopolio. Ed il sale è elemento fondamentale nella dieta dei contadini poveri:

«Nei distretti ne’ quali la pellagra è più diffusa, i contadini trovansi a tale estremo di miseria, da non poter far uso neppure della polenta. Essi dicono che di questo cibo, perché dolce, se ne farebbe consumo troppo largo, non compatibile coll’ordinaria penuria ch’essi hanno del grano turco; anzi aggiungono essere per lo stesso morivo che mettono gran copia di lievito nel loro pane. Una moderata copia di pane acido, dicono essi, basta a satollarci .. . Il riso e le paste di farina bianca non sono conosciute che rarissima volta nell’anno: la loro zuppa è costituita da pane acido, con cavoli o con fagiuoli quando ne possono avere dal loro campo, L’ordinario condimento è l’olio di ravettone, rarissime volte il lardo, qualche volta un poco di latte. Quando usano del lardo o del latte, fanno al tutto risparmio di sale; e quando mancano di lardo, di latte, di olio, il solo condimento della zuppa consiste nel sale» [Strambio ed Ambrosoli, 1844].

        Guardando decisamente altrove, questi sono gli anni in cui avviene la rivoluzione ferroviaria. Per rendersi conto di cosa vuol dire, si pensi a come avveniva in precedenza il trasporto terrestre e per darne un’idea riporto la foto di una diligenza che era ancora in servizio verso la metà dell’Ottocento in Italia:

        La prima ferrovia italiana è del 1836 sulla linea Napoli – Portici (progetto francese). Ad essa seguirono la Milano – Monza (progetto milanese) del 1840 e la Genova – Torino del 1854, la prima che affrontò un percorso molto difficile e per la quale furono necessarie molte opere (ponti e sbancamenti) tra cui la costruzione del tunnel del Giovi (a quell’epoca il più lungo del mondo, anche se si iniziavano i progetti per gli imponenti tunnel per attraversare le Alpi). In quegli anni vennero anche avviati studi per una linea Milano – Venezia.

Inaugurazione della linea ferroviaria Napoli – Portici

Ricostruzione (1939) del treno Napoli – Portici www.storiadimilano.it/…/ferrovie/ferrovia.htm

Stazione della Milano – Monza. Si notino le piattaforme girevoli con le quali si permetteva alle locomotive di invertire il senso di marcia www.storiadimilano.it/…/ferrovie/ferrovia.htm

Inaugurazione della linea Genova Torino www.valsesiascuole.it/…/cavour_ferrovie.htm

        Le ferrovie in Italia si presentavano in grave ritardo. La ferrovia napoletana era un fiore all’occhiello dei Borboni, quella di Milano era un vero sovrappiù in una regione completamente ben servita da una miriade di strade come testimonia il solito Cattaneo nelle sue Opinione sulla linea da preferirsi nel tracciamento generale della strada ferrata da Venezia a Milano (1837).  I vari Stati italiani furono trascinati dentro al dibattito sulle ferrovie inizialmente per imitazione ma poi, soprattutto nel Regno di Sardegna si capì la portata di quelle realizzazioni, tanto è vero che vi investirono ingentissimi capitali statali al fine rilevantissimo di mettere in contatto le zone produttive del Piemonte centrale con il porto di Genova. Ma la ferrovia non era interessante in sé, ma solo per sé. Ciò vuol dire che essa era vista come mezzo di trasporto merci e passeggeri e non come strumento in grado di dare impulso alla produzione siderurgica (lavorazione ferro) e meccanica (costruzione macchine e pezzi di ricambio). Per mostrare quanto non fossero compresi i problemi di scambio non solo in Europa ma anche tra i piccoli Stati, si sollevò spesso il problema di strade ferrate che avrebbero turbato le attività agricole e si argomentava dell’alto costo del carbone e del ferro che non doveva essere impiegato diversamente che in agricoltura perché questa non doveva essere la mecenate dei fornaciaj che non hanno fatto preparativi, non hanno preso impegni, non perdono alcun avviamento o fondata aspettativa. Il dibattito divenne serio ed articolato a partire dal 1845 con la pubblicazione di uno studio del conte Ilarione Petitti di Roreto, Delle strade ferrate italiane e del migliore ordinamento di esse  (1845). Ma tale dibattito era esclusivamente orientato al commercio, nessuno si preoccupava dell’opportunità accennata, dello sviluppo della siderurgia e della meccanica.

        I nuclei principali dell’attività siderurgica italiana (Lombardia, Savoia, Val d’Aosta, Liguria, Toscana, Calabria) non riescono a beneficiare della grande opportunità che hanno davanti tra il 1839 ed il 1845 (ed anche successivamente se solo la miniera di Rio nell’isola d’Elba resterà aperta e funzionante). Ma, oltre a incomprensioni politico-economiche, vi era un’arretratezza cronica della siderurgia. Si lavorava con il medioevale metodo alla catalana non dissimile dal metodo alla bresciana o bergamasca (fuochi in fosse poco profonde rivestite di pietra, dei crogioli bassi ed aperti, dove il materiale ferroso, sommariamente sgrossato, veniva sistemato a strati alterni con legna) che comportava forti sprechi di carbone vegetale. Inoltre non si otteneva mai una fusione completa ma la formazione di una massa spugnosa che aveva bisogno di ulteriori lavorazioni realizzate con martellamenti e riscaldamenti successivi per eliminare le scorie) E poiché la spoliazione dei boschi originava scarsità di combustibile, si era costretti a spostare continuamente le ferriere, con grave disagio (man mano che i boschi erano distrutti, le strutture venivano trasferite verso le zone alberate) e pericoli di dissesto idrogeologico. E poiché in Europa era molto avanti la sostituzione del carbone vegetale con quello minerale, le strade della siderurgia italiana erano precluse ad ogni commercio restando funzionanti solo per piccole esigenze parimenti arcaiche dell’agricoltura. Per la meccanica c’è poco da aggiungere perché la meccanica si fa con una siderurgia avanzata. Si fabbricavano attrezzi rurali, utensili domestici, prodotti per l’edilizia, la cantieristica (con il legno !), tutti di settori di scarsa importanza salvo le commesse militari che, particolarmente nel bresciano erano importanti. Una iniziativa va evidenziata, non tanto per quanto produrrà nell’immediato, quanto per ciò che rappresenterà in futuro.  Nel 1846 l’inglese Taylor ed il genovese Prandi misero su a Genova un’industria meccanica con forti sovvenzioni da parte dello Stato (Regno di Sardegna) per le ambizioni già coltivate di forniture per reti ferroviarie. Per dissensi tra i fondatori lo Stato riprese in mano l’impresa e l’affidò al Prof. Giovanni Ansaldo che seppe portarla a grandi successi. In particolare dai cantieri Ansaldo nel 1855 uscirono le prime locomotive in uso nelle ferrovie sabaude che si aggiungevano alle molte acquistate all’estero. Negli anni immediatamente successivi altre industrie del genere furono create e localizzate in Liguria tra le quali merita ricordare quella del siciliano Orlando che realizzò una macchina a vapore a cilindri oscillanti che ebbe un gran successo all’esposizione di Torino del 1858. Furono i cantieri Orlando che vararono la prima nave in ferro italiana, la Sicilia di 120 tonnellate.  Poche eccezioni e comunque localizzate nel Regno di Sardegna. In Lombardia si continuò a ricorrere agli acquisti all’estero per macchine complete e si iniziò invece la produzione di componenti come freni, assi, ruote, cuscinetti, … Ma la cosa era marginale: nel 1851 si contavano 9 stabilimenti con 600 occupati che però avevano paghe molto migliori di quelle agricole (e la cosa comporterà in futuro grossi squilibri e migrazioni).

        E Gabriele Rosa (1862) dava un giudizio impietoso sulle aziende meccaniche e siderurgiche della Lombardia:

«Le industrie del ferro nella Lombardia sanno ancora della grettezza, della ripartizione del medio evo, alla guisa della piccola e sgranata cultura agricola delle montagne. Molti forni piccioli di prima fusione, molte piccole fucine e fuochi minori alimentati da carboni di legna, sono per molta parte proprietà dei piccioli industrianti, i quali consumando i carboni propri male s’accorgono della decadenza della vecchia industria, che tentano sorreggere con risparmi taccagni».

        Insomma l’industria siderurgica non viene lanciata dall’agricoltura e neppure dalla navigazione che è esclusivamente a vela. Ma neanche dal settore della seta. Un’inchiesta del governo per la Lombardia portava ai risultati deprimenti che ci riporta Zaninelli:

«L’introduzione dei fornelli a vapore per la trattura della seta, delle macchine per la filatura meccanica, del cotone, degli impianti per la produzione continua della carta sono ancora una eccezione, rilevante non tanto per il cotonificio (che rappresentava di per sé una novità per l’ambiente sia sul piano economico che tecnologico) quanto per il setificio, in quanto si trattava dell’attività che pure costituiva un punto di forza dell’edificio industriale e commerciale lombardo: nella provincia di Como, su 137 esercizi rilevati, solo 6 avevano adottato apparecchiature a vapore per la trattura dei bozzoli. L’esistenza di poche fabbriche, la maggior parte delle quali poste nella città di Milano ed una sola nei Corpi Santi della stessa, per la costruzione di macchine a vapore e di macchinari in genere per l’industria tessile, costituiva la prova più convincente di una situazione in cui la tradizione dominava ancora quasi incontrastata»

e a queste altre considerazioni:

«Nella provincia di Milano era registrata l’esistenza di 32 “fabbriche di macchine a vapore per filatoi, filande idrauliche, astronomiche, geodetiche, fisiche e ad uso delle arti e dell’industria”, con 180 addetti; in margine a tali cifre si annotava che “i numerosi stabilimenti di industria che si vanno erigendo, specialmente le filande a vapore, i filatoj, le filature di cotone e di lino … hanno risvegliato il genio della meccanica onde provvedere gli stabilimenti del necessario corredo di macchine”, ma che un maggior vantaggio si avrà quando “s’intraprendessero da noi le fabbriche di macchine a vapore che ora con grave dispendio si hanno all’estero” e se “l’I.R Governo continuerà la bell’opera già incominciata di fornire il Gabinetto tecnico di quelle macchine che tanto giovano nelle fabbriche e manifatture inglesi ed anche francesi, e che ci sono ancora ignote ed estenderà la scuola alla istruzione veramente pratica … “.

In questa situazione, qualche macchinista locale si improvvisa imprenditore copiando le macchine importate, almeno le più semplici. Non si riesce, ad esempio, ad avere una fornitura di ricambi per le ferrovie alla quale devono provvedere dall’estero. Alla cialtroneria dei nostri imprenditori si devono aggiungere fattori oggettivi come la mancanza di carbon fossile in Italia, carbone che è fonte della nuova energia, quella del vapore. Tra l’altro, vista l’arretratezza accennata dei trasporti nella penisola costerebbe molto di più. Sciveva in proposito l’ing. Carlo Giulio nel 1844:

«Il nostro suolo niega di darci in copia quei preziosi combustibili di cui la natura è stata prodiga verso altri popoli, e che hanno avuto sì grande influenza sui progressi delle loro manifatture: la macchina a vapore non può dunque essere per noi quell’universale strumento di forza e di potenza che essa è per quelli… Alcune macchine a vapore, tuttavia, sono state messe in attività con buon successo, ed i signori fratelli Benech di Torino hanno potuto mostrare che manca loro l’opportunità, non l’arte di costruire in numero maggiore … Le caldaie a vapore già si contano a centinaia nelle filande di seta, nei lanifizi, nelle cartiere, nelle fabbriche chimiche. I nostri macchinisti le sanno ora costruire assai bene, e le magone [termine di origine araba che significa officina metallurgica, ndr] nazionali ce ne possono somministrare le materie prime, senza dover ricorrere agli stranieri».

Tutto questo era anche sostenuto da un clima culturale negativo, come quello testimoniato da Gioberti nel 1848 quando:

«…solennemente ed entusiasticamente accolto nella sede fiorentina dell’Accademia dei Georgofili dimostra “quanto nel concetto filosofico sia più a desiderarsi una onesta agiatezza proveniente dalla coltivazione che un’opulenza cagionata dalle utili industrie”: “Chi attende alla coltivazione meglio si contenta di un ‘onesta agiatezza. Chi studia nell’industria aspira all’opulenza e apre l’animo da un lato alla cupidigia del guadagno, dall’altro al lusso e alle delizie della vita. L’industria traendosi dietro il traffico ed inducendo gli uomini a peregrinare, dà loro l’abitudine del moto, là dove che l’agricoltura vuole stanza ferma e partorisce l’uso della quiete; l’una pertanto debilita e l’altra rinvigorisce le usanze del vivere casereccio, i vincoli di parentela, gli affetti di famiglia e di patria che sono la nativa radice onde l’ampolla ogni genere di opere virtuose”»

Incredibile ! sembra di leggere le parole di Pio IX contro il modernismo ! Ma non bisogna stupirsi se le strutture reazionarie del pensiero allignino in certi pensatori che si rifanno al cattolicesimo. E che mentre esaltano la vita campestre dimenticano le condizioni di lavoro, comprese quelle dei bambini. Gli investimenti che sarebbero stati richiesti per ammodernamenti non si capiva bene che tipo di vantaggi avrebbero portato poiché si disponeva di una mano d’opera a bassissimo costo a cui andava appunto aggiunto l’impiego nelle fabbriche dei bambini, elemento di sostegno dell’equilibrio costi-ricavi, essendo la paga giornaliera dei fanciulli tra i 7 e i 14 anni nell’ordine di un quarto di quella degli adulti maschi. Si può citare Cesare Correnti che intorno alla metà del secolo, a proposito della tratta dei piccoli bianchi, come la chiamavano in Inghilterra denunciava:

«… noi negli opifici del territorio di Lecco e de’ paesi circonvicini, entro un raggio abitato da poco più di 9000 persone, trovammo che la metà erano operaje, e 2296 al di sotto di 15 anni. Similmente nelle sole filature di cotone, industria fittizia e forzata, nelle sole filature, diciamo, stabilite nella campagna milanese, 1300 fanciulli al di sotto dei 12 anni lavorano, e l’orario di quell’insalubre lavoro è dalle 12 alle 14 ore al giorno; e in questi paesi il numero degli scolari che frequentano l’insegnamento elementare decresce, mentre cresce il numero de’ fanciulli chiamativi dai paesi vicini, e persino dal grande Ospizio milanese degli Esposti»

E’ un vero disastro su tutti i fronti, attenuato dai contributi che dall’estero vengono nella penisola, contributi culturali che spingono alla preparazione tecnica sia degli imprenditori che dei lavoratori ed all’abbandono del protezionismo. Come esempio si può citare il tedesco Mylius che, a margine della scuola tecnica concessa a Milano e Venezia, spinse ed ottenne tra i commercianti milanesi la fondazione (1847) della Cassa d’incoraggiamento per le arti e mestieri della provincia di Milano. A tale società si debbono importantissimi meriti di avviamento allo studio scientifico della produzione:

«Nel 1847 la società, oltre le lezioni di chimica, alle quali si connettono le manipolazioni nel laboratorio annesso alla scuola, aveva fiorenti vari rami d’insegnamento scientifico. Furono le letture di setificio con esercitazioni pratiche, il beneficio delle quali veniva successivamente esteso anche alla industre Como, le letture di Fisica industriale e quelle di Geometria e Meccanica, a cui si aggiunse sul finire dell’anno un corso speciale intorno all’esercizio delle strade ferrate».

    E siamo ai moti rivoluzionari del 1848 e 1849 che ebbero il merito di scuotere dalle fondamenta gli antichi ed anacronistici privilegi di certe case regnanti davvero impresentabili o di imperi in disfacimento. Negli anni che seguirono, il decennio preunitario, si ebbero pochi cambiamenti se non nello spirito con cui affrontare i problemi. Altre disgrazie intervennero nel settore agricolo: a partire dal 1851 il parassita della vite, la crittogama, fece stragi di vigneti portando la produzione addirittura ad un decimo dell’ultima avutasi. Nel Lombardo Veneto si pensò di cambiare coltivazione introducendo gelso e baco da seta. Ma proprio allora intervenne la micidiale pebrina di cui ho detto che bloccò tutto. Il fatto è che si era in balìa del caso e situazioni come quelle dewscritte sembravano indicare un declino totale. Nel 1881 l’agronomo Galanti osservava a proposito della coltura del baco:

« … la coltura fatta a questo cespite così importante per noi, da venti anni e più a questa parte non è che una storia lugubre di malattie, d’insuccessi, d’illusioni svanite, di conati dispersi, nel buio dell’arte e della scienza. La nostra città (Milano), che per tradizionale abitudine trovò forza e coraggio, anche in negozi più gravi, nella sventura medesima, conservò la sua maschia imperturbabilità anche di fronte ad una calamità economica così grave, e non vi fu cimento ingegnoso e sottile suggerito da qualsiasi scienziato d’Europa e, dobbiam dirlo, non ci fu suggerimento empirico anco un po’ strano, che non venisse messo in prova, con una perseveranza e una costanza meritevole al certo di più larghi compensi»

Nell’insieme il decennio fu molto difficile e si era in uno stato di sospensione tra il vecchio ed il nuovo con un importantissimo apporto dell’iniziativa straniera (nel Nord e nel Sud ma non nello Stato della Chiesa, sempre rigorosamente chiuso ad ogni novità). Sembra però profilarsi almeno un ambiente di opinioni meno sicuro sulle certezze dell’agricoltura e della marcia inerziale del profitto. Si faceva strada il desiderio di guadagni subiti e miracolosi, anche se essi si cercavano in attività finanziarie e mercantili. Cresceva il ruolo della banca, anch’essa in gran parte straniera.

        La novità di fondo è comunque rappresentata dalla comprensione che le grandi questioni economiche non possono marciare senza un’autorevole guida politica come, fin dal 1850, aveva capito Cavour e come pian piano si andava capendo nel settore imprenditoriale che iniziava a sentirsi costretto da troppi vincoli di mercato creati dai piccoli Stati arcaici.


NOTE

(1) Nascono in questo periodo: la matematica pura, la geometria pura, l’analisi pura, la fisica-matematica come disciplina separata dalla matematica, la chimica separata dalla fisica, l’elettrologia come scienza a sé, la termodinamica.

(2) A. Baracca, R. Livi – Natura e storia: Fisica e sviluppo del capitalismo nell’Ottocento [vedi bibliografia]

(3) I lavori di Comte saranno pubblicati in sei volumi tra il 1830 ed il 1842. Si osservi che Comte proveniva dall’École.

(4) 1 fatti vanno spiegati con i fatti e dal rapporto continuo e costante con i fenomeni nasce la legge fisica. Bisogna rifiutare ogni postulato metafisico e quindi le cosiddette «ipotesi ad hoc». Si noti che Comte inizia una critica alla pretesa di voler ridurre tutte le scienze alla matematica; secondo il nostro è necessario che ciascuna scienza si sviluppi autonomamente e quindi, solo dopo che ciascuna sarà stata sviluppata a fondo, si tratterà di mettere insieme i risultati in un grande lavoro di sintesi.

(5) L’argomento è trattato ampiamente in  bibliografia 16, Vol. 4, pagg. 12-13. Visto l’atteggiamento assunto da molti scienziati, capeggiati da Bohr, agli inizi del nostro secolo ed in particolare le vicende della Scuola di Copenaghen, in relazione alla nascita ed all’affermazione della meccanica quantistica, sarebbe più corretto, oggi, definire l’atteggiamento dello scienziato che si disinteressa ai problemi filosofici come ‘neopositivista’.  

(6) Da questo punto in poi per chi volesse seguire con maggiori dettagli e con una impostazione da me completamente condivisa, le complesse vicende dei rapporti tra scienza, tecnica, industria e vicende politiche può senz’altro rivolgersi all’interessantissimo saggio di Baracca, Russo e Ruffo di Bibliografia 5. Un’analisi più concisa, sugli stessi argomenti e con lo stesso taglio, si può trovare nel saggio di Baracca e Livi di Bibliografia 15.

Un’impostazione diversa dei problemi in discussione, in cui però si ricostruisce la sola storia interna, con un taglio che io non condivido, ma che credo vada conosciuto, si può ritrovare nel lavoro di Bellone riportato in Bibliografia 17.

Per capire poi meglio il senso della diversità delle impostazioni si può , ad esempio, vedere a confronto i tre articoli seguenti:

E. Bellone – La scienza ed i suoi nemici – Sapere n° 802 (luglio ’77)

E. Donini, T. Tonietti – Conoscenza e pratica – Sapere n° 808 (febbraio ’78).

A. Baracca. R. Livi, S. Ruffo ed altri – Nemici per la pelle – Sapere n° 808 (febbraio ’78)

Si osservi che rispetto al suo contributo (1972) a Bibliografia 18 (La Rivoluzione scientifica dell’ ‘800), Bellone sembra aver cambiato radicalmente opinione.

[Si noti come sono datati gli articoli di un dibattito estremamente interessante ed oggi cancellato].

(7) Si pensi ai risultati raggiunti da S. Carnot nello studio delle macchine termiche, da Ampère nella fondazione dell’elettrodinamica e da Fresnel nell’affermazione della moderna teoria ondulatoria della luce.

(8) A partire dal 1846 fu Kelvin che dette il contributo decisivo alla modernizzazione dell’insegnamento scientifico con l’introduzione della parte sperimentale nel lavoro di formazione di uno scienziato.

(9) Un’altra innovazione fondamentale fu l’introduzione dell’illuminazione a gas nelle grandi fabbriche; essa ‘permise’ di prolungare il lavoro fino a notte inoltrata.

(10) Solo verso la fine del secolo l’uso del vapore sulle navi permise il raggiungimento di tonnellaggi paragonabili con quelli delle navi a vela. La prima ferrovia è britannica (1825). Nel 1830 si costruì l’importantissima Liverpool – Manchester.

(11) Tra Romanticismo, Idealismo e Razionalismo. In ogni caso, qui in nota, vale la pena dare un brevissimo cenno della concezione romantica della conoscenza della natura. 

” L’ideale romantico [postula] una completa fusione ed unità della ragione umana con il mondo anche al di là delle  delle possibilità, e dei dati offerti da quell’analisi e da quell’indagine empirica e razionale care invece al precedente illuminismo, posto sotto accusa dai romantici proprio perché ritenuto troppo innamorato delle distinzioni, della chiarezza,  e di classificazioni precise che compromettevano la possibilità di quella intima e dinamica fusione. Esso svolse anche, comunque, nonostante la sua componente irrazionalistica, una funzione di stimolo e rinnovamento scientifico, come nell’opera di Oërsted.” (Baracca e Rossi in Bibliografia 19, pag. 197).

Un altro aspetto che emerge in alcuni filosofi romantici è che la mante umana ha dei limiti, oltre i quali non può andare, nella conoscenza della natura. Schopenauer, che è tra questi, sostiene che tutti coloro i quali non si rendono conto di questi limiti diventano facilmente dei materialisti con una propensione particolare a deridere la religione. Solo la filosofia può permettere di superare i limiti che necessariamente sorgono nell’ambito delle scienze naturali. Il lavoro in cui Schopenauer sostiene queste cose è riportato in Bibliografia 20.

(12) È interessante notare che questo ritorno alla metafisica da parte di Hegel, che si accompagna ad uno spirito accanitamente antiscientifico fornirà la base, in Italia, all’Idealismo di Croce e Gentile.

All’idealismo hegeliano occorre poi risalire per trovare la teorizzazione di tutti gli Stati totalitari: “il benessere e la felicità individuale sono fatti empirici, irrilevanti, che non hanno alcuna importanza se posti al confronto con l’autorità dello Stato. La vera e profonda libertà si realizza esattamente nel suo opposto: in una salutare costrizione capace di realizzare il superiore Spirito etico, la vera volontà sostanziale che manifesta l’idea dello Spirito”. E nell’ammirazione dello stato prussiano (” fra esercito, censura, polizia, galere ed un clero … intrinsecamente amorale”) Hegel esalterà la guerra che “ha l’alto significato che attraverso di essa si preserva la salute morale dei popoli creando in loro l’indifferenza per lo stabilizzarsi di forme determinate” . Per ulteriori, illuminanti dettagli si veda Forti in Bibliografia 12, Vol. 5, pagg. 13-16 (da cui provengono le citazioni qui riportate).

(13) Basti qui ricordare che nel 1834 si riuscì a realizzare una Unione Doganale che liberalizzò il mercato interno.

(14) Klemm in Bibliografia 2, pag. 271.

(15) Si veda Bibliografia 27, pag. 51. Tra l’altro l’Accademia aggiungeva che sulla strada di queste ricerche più d’uno s’era economicamente rovinato.

(16) Detto in linguaggio moderno ciò vuol dire: come mai alcune trasformazioni energetiche forniscono energia utilizzabile (bruciare un combustibile per ottenere vapore) mentre altre non solo non ne forniscono, ma ne assorbono (utilizzare del vapore per far muovere una macchina o un telaio)?

(17) Bibliografia 15, pag. 29. La frase fra parentesi è mia.  

(18) Questa esigenza è ben espressa in uno scritto dell’ingegnere P. Reuleaux (1829-1905) che, nel 1875, così si esprimeva: Solo il grande capitale può permettersi di acquistare ed. usare le potenti macchine a vapore … Bisogna rendere l’energia indipendente dal capitale. Il modesto tessitore sarebbe liberato dal prepotere del capitale se potessimo mettere a disposizione del suo telaio, nella misura giusta, la forza motrice che gli serve. Lo stesso potrebbe farsi con successo nel campo della filatura … Altri campi sono quelli della costruzione di mobili, di chiavi, di cinghie, quelli dello stagnino, del fabbricante di spazzole, di pompe, ecc… Quindi ciò che la meccanica deve fare per ovviare ad una gran parte del capitale, è fornire piccoli quantitativi di energia a buon prezzo o, in altre parole, realizzare piccole macchine motrici, il cui esercizio esiga spese assai modeste. (Da Klemm, Bibliografia 2,  pagg. 347-348).

(19) Il Romanticismo nasce nell’ultimo quarto del Settecento come movimento eminentemente culturale in funzione antilluminista. Quando le armate napoleoniche invasero l’Europa e scalzarono i despoti illuminati che avevano forgiato le riforme a loro immagine e per rafforzare il loro potere, il movimento romantico si schierò con tali despoti contro gli invasori alla ricerca di tradizioni, cultura, lingua delle varie popolazioni. Quando Napoleone fu cacciato ed al suo posto sopravvenne il dominio di Austriaci, Russi, Prussiani, … allora quei fermenti rivendicativi di nazionalità e tradizioni fu indirizzato verso i nuovi dominatori e si mantenne anche all’interno di Stati che non avevano dominatori  con l’opposizione a governi ed istituzioni.

(20) Riporto alcuni brani di questa cristiana Enciclica:

Da: http://www.totustuus.biz/users/magistero/g16mirar.htm

Superba tripudia la disonestà, insolente è la scienza, licenziosa la sfrontatezza. … Non leggi sacre, non diritti, non istituzioni, non discipline, anche le più sante, sono al sicuro di fronte all’ardire di costoro, che solo eruttano malvagità dalla sozza loro bocca….

Le Accademie e le Scuole echeggiano orribilmente di mostruose novità di opinioni, con le quali non più segretamente e per vie sotterranee si attacca la Fede cattolica, ma scopertamente e sotto gli occhi di tutti le si muove un’orribile e nefanda guerra. Infatti, corrotti gli animi dei giovani allievi per gl’insegnamenti viziosi e per i pravi esempi dei Precettori, si sono dilatati ampiamente il guasto della Religione ed il funestissimo pervertimento dei costumi….

Veniamo ora ad un’altra sorgente trabocchevole dei mali, da cui piangiamo afflitta presentemente la Chiesa: vogliamo dire l’indifferentismo, ossia quella perversa opinione che per fraudolenta opera degl’increduli si dilatò in ogni parte, e secondo la quale si possa in qualunque professione di Fede conseguire l’eterna salvezza dell’anima se i costumi si conformano alla norma del retto e dell’onesto. Ma a voi non sarà malagevole cosa allontanare dai popoli affidati alla vostra cura un errore così pestilenziale intorno ad una cosa chiara ed evidentissima, senza contrasto. Poiché è affermato dall’Apostolo che esiste “un solo Iddio, una sola Fede, un solo Battesimo” (Ef 4,5), temano coloro i quali sognano che veleggiando sotto bandiera di qualunque Religione possa egualmente approdarsi al porto dell’eterna felicità, e considerino che per testimonianza dello stesso Salvatore “essi sono contro Cristo, perché non sono con Cristo” (Lc 11,23), e che sventuratamente disperdono solo perché con lui non raccolgono; quindi “senza dubbio periranno in eterno se non tengono la Fede cattolica, e questa non conservino intera ed inviolata” [Symbol. S. Athanasii]. Ascoltino San Girolamo il quale – trovandosi la Chiesa divisa in tre parti a causa dello scisma – racconta che, tenace come egli era del santo proposito, quando qualcuno cercava di attirarlo al suo partito, egli rispondeva costantemente ad alta voce: “Chi sta unito alla Cattedra di Pietro, quegli è mio” [S. GIROLAMO, Ep. 58]. A torto poi qualcuno, fra coloro che alla Chiesa non sono congiunti, oserebbe trarre ragione di tranquillizzante lusinga per essere anche lui rigenerato nell’acqua di salute; poiché gli risponderebbe opportunamente Sant’Agostino: “Anche il ramoscello reciso dalla vite ha la stessa forma, ma che gli giova la forma se non vive della radice?”[S. AGOSTINO, Salmo contro part. Donat.].

Da questa corrottissima sorgente dell’indifferentismo scaturisce quell’assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza: errore velenosissimo, a cui apre il sentiero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato, non mancando chi osa vantare con impudenza sfrontata provenire da siffatta licenza qualche vantaggio alla Religione.

“Ma qual morte peggiore può darsi all’anima della libertà dell’errore?” esclamava Sant’Agostino [Ep. 166]. Tolto infatti ogni freno che tenga nelle vie della verità gli uomini già diretti al precipizio per la natura inclinata al male, potremmo dire con verità essersi aperto il “pozzo d’abisso” (Ap 9,3), dal quale San Giovanni vide salire tal fumo che il sole ne rimase oscurato, uscendone locuste innumerabili a devastare la terra. Conseguentemente si determina il cambiamento degli spiriti, la depravazione della gioventù, il disprezzo nel popolo delle cose sacre e delle leggi più sante: in una parola, la peste della società più di ogni altra esiziale, mentre l’esperienza di tutti i secoli, fin dalla più remota antichità, dimostra luminosamente che città fiorentissime per opulenza, potere e gloria per questo solo disordine, cioè per una eccessiva libertà di opinioni, per la licenza delle conventicole, per la smania di novità andarono infelicemente in rovina.

A questo fine è diretta quella pessima, né mai abbastanza esecrata ed aborrita “libertà della stampa” nel divulgare scritti di qualunque genere; libertà che taluni osano invocare e promuovere con tanto clamore. Inorridiamo, Venerabili Fratelli, nell’osservare quale stravaganza di dottrine ci opprime o, piuttosto, quale portentosa mostruosità di errori si spargono e disseminano per ogni dove con quella sterminata moltitudine di libri, di opuscoli e di scritti, piccoli certamente di mole, ma grandissimi per malizia, dai quali vediamo con le lacrime agli occhi uscire la maledizione ad inondare tutta la faccia della terra. Eppure (ahi, doloroso riflesso!) vi sono taluni che giungono alla sfrontatezza di asserire con insultante protervia che questo inondamento di errori è più che abbondantemente compensato da qualche opera che in mezzo a tanta tempesta di pravità si mette in luce per difesa della Religione e della verità. Nefanda cosa è certamente, e da ogni legge riprovata, compiere a bella posta un male certo e più grave, perché vi è lusinga di poterne trarre qualche bene. Ma potrà mai dirsi da chi sia sano di mente che si debba liberamente ed in pubblico spargere, vendere, trasportare, anzi tracannare ancora il veleno, perché esiste un certo rimedio, usando il quale avviene che qualcuno scampa alla morte?

Ma assai ben diverso fu il sistema adoperato dalla Chiesa per sterminare la peste dei libri cattivi fin dall’età degli Apostoli, i quali, come leggiamo, hanno consegnato alle fiamme pubblicamente grande quantità di tali libri (At 19,19). Basti leggere le disposizioni date a tale proposito nel Concilio Lateranense V, e la Costituzione che pubblicò Leone X di felice memoria, Nostro Predecessore, appunto perché “quella stampa che fu salutarmente scoperta per l’aumento della Fede e per la propagazione delle buone arti, non venisse rivolta a fini contrari e recasse danno e pregiudizio alla salute dei fedeli di Cristo” [Act. Conc. Lateran. V, sess. 10]. Ciò stette parimenti a cuore dei Padri Tridentini al punto che per applicare opportuno rimedio ad un inconveniente così dannoso, emisero quell’utilissimo decreto sulla formazione dell’Indice dei libri nei quali fossero contenute malsane dottrine [CONC. TRID., sess. 18 e 25]. Clemente XIII, Nostro Predecessore di felice memoria, nella sua enciclica sulla proscrizione dei libri nocivi afferma che “si deve lottare accanitamente, come richiede la circostanza stessa, con tutte le forze, al fine di estirpare la mortifera peste dei libri; non potrà infatti essere eliminata la materia dell’errore fino a quando gli elementi impuri di pravità non periscano bruciati” [Christianae reipublicae, 25 novembre 1766]. Pertanto, per tale costante sollecitudine con la quale in tutti i tempi questa Sede Apostolica si adoperò sempre di condannare i libri pravi e sospetti, e di strapparli di mano ai fedeli, si rende assai palese quanto falsa, temeraria ed oltraggiosa alla stessa Sede Apostolica, nonché foriera di sommi mali per il popolo cristiano sia la dottrina di coloro i quali non solo rigettano come grave ed eccessivamente onerosa la censura dei libri, ma giungono a tal punto di malignità che la dichiarano perfino aborrente dai principi del retto diritto e osano negare alla Chiesa l’autorità di ordinarla e di eseguirla….

Né più lieti successi potremmo presagire per la Religione ed il Principato dai voti di coloro che vorrebbero vedere separata la Chiesa dal Regno, e troncata la mutua concordia dell’Impero col Sacerdozio. È troppo chiaro che dagli amatori d’una impudentissima libertà si teme quella concordia che fu sempre fausta e salutare al governo sacro e civile….

Ma a tante e così amare cause che Ci tengono solleciti e nel comune pericolo Ci crucciano con dolore singolare, si unirono certe associazioni e determinate aggregazioni nelle quali, fatta lega con gente d’ogni religione, anche falsa e di estraneo culto, si predica libertà d’ogni genere, si suscitano turbolenze contro il sacro e il civile potere, e si conculca ogni più veneranda autorità, sotto lo specioso pretesto di pietà e di attaccamento alla religione, ma con mira in fatto di promuovere ovunque novità e sedizioni.

(21) Disponiamo di dati tratti dall’Archivio Triennale di Carlo Cattaneo per Milano e relativi ai caduti registrati (in realtà furono molti di più) negli scontri con gli austriaci [Bibliografia 28, Vol. XVI, pag. 187]. Dei 409 caduti registrati, risultarono:

– 152 persone senza lavoro

– 107 artigiani

– 41 operai

– 35 negozianti ed impiegati

– tra tutti questi caduti 39 erano donne.

(22) Riporto alcuni brani di questa cristiana Enciclica:

Da: http://www.totustuus.biz/users/magistero/p9nonsem.htm

Non è la prima volta, Venerabili Fratelli, che nel Vostro Consesso abbiamo condannato l’audacia di alcuni i quali non ebbero difficoltà di fare a Noi, e per conseguenza a questa Apostolica Sede, l’ingiuria di far credere che Noi Ci fossimo discostati dai santissimi istituti dei Nostri Predecessori, e che (orribile cosa a dirsi!) in più d’un capo Ci fossimo allontanati dalla dottrina della Chiesa . Però nemmeno adesso mancano coloro i quali parlano di Noi e Ci considerano i principali Autori dei pubblici movimenti che negli ultimi tempi non solo in altre parti d’Europa, ma anche in Italia sono accaduti. […]

[Non] abbiamo mai tralasciato, per quanto è in Noi, di avvisare tutti insistentemente e di esortarli affinché, aderenti fermamente alla dottrina cattolica, ed osservanti dei precetti di Dio e della Chiesa, vivessero in mutua concordia, tranquillità e carità verso tutti.

E fosse pur vero che alle Nostre voci paterne, ed alle esortazioni avesse risposto l’esito desiderato! Ma ognuno conosce le pubbliche accennate sommosse dei popoli d’Italia, nonché gli altri eventi che, o fuori d’Italia o in essa medesima, o prima o dopo accaddero. Ché se alcuno volesse ritenere che a questi eventi abbia aperto in qualche modo la strada ciò che dal principio del Nostro Pontificato benevolmente e benignamente abbiamo operato, egli certamente non lo potrà attribuire a quanto abbiamo compiuto, non avendo Noi operato altro che ciò che era sembrato utile alla prosperità del Nostro Stato non solo a Noi, ma anche ai suddetti Principi. Del resto, quanto a quei Nostri sudditi che hanno abusato dei Nostri medesimi benefici, Noi, dietro l’esempio del Principe dei Pastori, perdoniamo loro di cuore, e con tutto l’affetto li richiamiamo a miglior consiglio, e supplichiamo il Padre delle misericordie che allontani clemente dal loro capo i flagelli meritati dagl’ingrati. […]

Ma siccome ora alcuni desidererebbero che Noi unitamente agli altri Popoli e Principi d’Italia entrassimo in guerra contro i Germanici, abbiamo ritenuto Nostro dovere dichiarare chiaramente e palesemente in questo solenne Nostro Convegno che ciò è del tutto contrario alle Nostre intenzioni, in quanto Noi, benché indegni, facciamo in terra le veci di Colui che è Autore della pace e amatore della carità, e per dovere del Nostro Supremo Apostolato Noi con eguale paterno affetto amiamo ed abbracciamo tutti i popoli e tutte le nazioni. Ché, se nonostante ciò non mancassero fra i Nostri sudditi coloro che sono trasportati dall’esempio degli altri Italiani, in qual modo potremmo Noi frenare il loro ardore?

Qui poi, al cospetto di tutte le genti, non possiamo non rigettare i subdoli consigli, manifestati anche per mezzo dei giornali e dei libelli, di coloro che vorrebbero il Romano Pontefice Presidente di una certa nuova Repubblica da farsi, tutti insieme, dai popoli d’Italia. Anzi, in questa occasione, per la Nostra carità verso i popoli d’Italia li esortiamo caldamente e li ammoniamo a guardarsi da questi consigli astuti e perniciosi per la stessa Italia, e di stare fedeli ai loro Principi, dei quali hanno già sperimentata la benevolenza, e di non lasciarsi staccare dal debito ossequio verso di loro. Infatti operando altrimenti non solo mancherebbero al proprio dovere, ma incorrerebbero anche nel pericolo che l’Italia di giorno in giorno finisse divisa da discordie ed intestine fazioni. In quanto a Noi, però, di nuovo dichiariamo che il Romano Pontefice dirige ogni suo pensiero, ogni cura, ogni studio perché si accresca ogni giorno il regno di Cristo, che è la Chiesa; ma non perché si dilatino i confini del Civile Principato che Iddio volle dato a questa Santa Sede per la sua dignità e per difendere il libero esercizio del Supremo Apostolato. Errano dunque grandemente coloro i quali ritengono che il Nostro animo possa essere lusingato dall’ambizione di più largo temporale dominio, al punto che Noi Ci gettiamo in mezzo ai tumulti delle armi. Per certo al Nostro cuore paterno sarebbe carissimo se Ci fosse dato con l’opera Nostra, con le cure, con gl’impegni di far qualche cosa per estinguere i fomiti delle discordie, per conciliare gli animi che si guerreggiano e per ristabilire fra loro la pace. […]

Né Ci possiamo trattenere dal compiangere infine in questo Vostro Consesso il funestissimo uso invalso in questi giorni di pubblicare ogni genere di stampe, con le quali o si fa orrida guerra alla religione e all’onestà dei costumi, o si promuovono le civili sommosse e s’infiammano discordie, o si prendono di mira i beni della Chiesa, si combattono i più sacri diritti di Essa, o gli uomini più onesti si lacerano con le calunnie.

(23) Le erogazioni pubbliche avvenivano verso il finanziamento di un consistente numero di soldati che avevano un salario, verso ordinazioni per le forniture dell’esercito. Oltre a ciò vi erano circa 30 mila impiegati pubblici ben pagati e 26 mila ex religiosi tornati alla mondanità. Questo esercito di salariati era un esercito di consumatori benestanti che gradivano manifatture raffinate.

(24) Avverto che l’olio di oliva non aveva che un marginale uso alimentare. Esso serviva per la fabbricazione di saponi, per la lavorazione delle lane, per l’illuminazione.

(25)  Dice Cafagna: nel 1876 vi erano nel comparto seta solo 250 telai meccanici e 12 mila a mano; nel 1890 le proporzioni erano 2 mila e 500 e 12 mila e ancora nel 1898 i telai meccanici erano 3 mila contro i 12 mila a mano. Nel 1912 troviamo rovesciato questo rapporto: 15 mila telai meccanici contro 5 mila a mano.

 (26) Caizzi ricorda che:

L’Inghilterra che nel 1800 contava 239 macchine a vapore, ne aveva quasi 2.000 nel 1835; la sua industria cotoniera che nel 1816 lavorava neppur 90 milioni di libbre di materia prima, era passata a lavorarne 775 milioni di libbre trent’anni dopo; e l’esportazione di cotonate inglesi, ch’era stata di 17,5 milioni di sterline nel 18 16, toccava i 112,4 milioni nel 1846. Per quanto il prezzo unitario dei manufatti tendesse a contrarsi, l’allargamento dello smercio ripagava largamente i fabbricanti in termini di ricavi. Anche la Francia in quel periodo si sforza di meccanizzare il lanificio e il setificio: i suoi telai per seta alla Jacquard si moltiplicano quasi per dieci fra il 1812 e il 1848, superando largamente a questa data le centomila unità; l’industria della lana continua a meccanizzare la filatura e disporrà nel 1847 di ben 750.000 fusi collocati in moderni opifici; e progressi altrettanto significativi compie in quegli anni il cotonificio francese, raggiungendo nel 1850 la dotazione di oltre 4 milioni di fusi meccanici, al servizio di un’industria moderna che è capace di rifornire di ottimi filati la magnifica tessitura d’Alsazia, anch’ essa in via di rapida trasformazione.

(27)  La pellagra (morbus miseriae) era malattia diffusissima al Nord (Veneto e Friuli) ed era dovuta a nutrizione scarsa e qualitativamente squilibrata per eccesso di granturco (con il frumento i contadini pagavano il padrone del fondo) e carenza o mancato assorbimento di vitamine del gruppo B. La pellagra porta a demenza, dermatite e diarrea. Ma i medici ci capivano poco e si dilungavano in dispute. Fu il medico varesino Gaetano Strambio che studiò a fondo e capì la malattia a cavallo del Settecento ed Ottocento. E fece anche di più perché denunciò pubblicamente la rapina perpetrata dai proprietari terrieri sui contadini.

(28) Il 1839 può essere preso come il momento che diede il via alla formazione di una moderna comunità scientifica in Italia. Questi congressi si susseguirono periodicamente fino al 1847; i moti del ’48 provocarono la sospensione di queste riunioni. Si noti che agli scienziati operanti nello Stato Pontificio fu impedita la partecipazione al Congresso di Pisa. Occorrerà aspettare il 1907 perché si riformi una società di scienziati italiani, la SIPS, Società italiana per il progresso delle scienze.
 


BIBLIOGRAFIA

1 – AA. VV. – La storia – Utet, De Agostini, 2004

2 – F. Klemm – Storia della tecnica – Feltrinelli, 1966

3 – AA. VV. – Storia d’ItaliaAnnali 3, Scienza e Tecnica – Einaudi, 1980

4 – AA. VV. – La storia delle scienze – Bramante, 1989

5 – A. Baracca, S. Ruffo, A. Russo – Scienza e industria: 1848-1915 – Laterza 1979

6 – AA. VV. – Arte, Scienza e Cultura in Roma cristiana – Cappelli, 1971

7 – Rinaldo Pitoni – Storia della fisica – STEN, Torino 1912

8 – Floriano Cajori – Storia della fisica elementare – Sandròn, Palermo 1930

9 – Mario Gliozzi, Michele Giua – Storia delle scienze (Vol. II) – UTET 1965

10 – E. Bellone – Le congetture settecentesche su elettricità e magnetismo – in La Scienza vol. 12, UTET, De Agostini, La Repubblica 2005

11 – F. Sebastiani – I fluidi imponderabili – Dedalo 1990

12 – U. Forti – Storia della scienza – Dall’Oglio 1969

13 – Salvo D’Agostino – Introduzione alla scienza dell’Ottocento e Elettricità e magnetismo fino all’introduzione del potenziale in Dispense di Storia della Fisica – Istituto di Fisica Università di Roma (a. a. 1973/1974)

14 – Donald S. L. Cardwell – Tecnologia, scienza e storia – il Mulino 1976

15 – A. Baracca, R. Livi – Natura e storia: Fisica e sviluppo del capitalismo nell’Ottocento – D’Anna 1976

16 – L. Geymonat – Storia del  pensiero  filosofico e  scientifico –  Garzanti,  1971.

17 – E. Bellone – I modelli e la concezione del mondo – Feltrinelli, 1973.

18 – AA.VV. – Sul marxismo e le scienze – CRITICA MARXISTA, Quaderno n° 6; 1972.

19 – Baracca, Rossi – Materia ed energia – Feltrinelli, 1978.

20 – A. Schopenhauer – Filosofia e scienza della natura– Athena, 1928. 

21 – A. Rossi – Illuminismo e sperimentalismo nella fisica del ‘700 –  Sapere 741, Ottobre 1971.

22 – T.S. Asthon – La rivoluzione industriale 1760/1830 – Laterza, 1972.

23 –  C. Maffioli – Una strana scienza – Feltrinelli, 1979.

24 – E Bellone – Le leggi della termodinamica da Boyle a Boltzmann – Loescher, 1978.

25 – Baracca, Rigatti – Aspetti dell’interazione tra scienza e tecnica durante la Rivoluzione industriale del XVIII secolo in Inghilterra: 1) La nascita dei concetti di lavoro ed energia – “Il Giornale di Fisica”, 15, 2; (1974).

26 – Baracca, Rigatti – Aspetti dell’interazione tra scienza e tecnica durante la Rivoluzione industriale del XVIII secolo in Inghilterra: 2) Sviluppi della macchina a vapore – “Il Giornale di Fisica”, 15, 3; (1974).

27 – Y. Elkanà – La scoperta della conservazione dell’energia – Feltrinelli, 1971.

28 – AA. VV. – La storia – Utet, De Agostini, 2004

29 – Mario Romani – Storia economica d’Italia nel secolo XIX: 1815-1882 – Il Mulino 1982 

30 – Bruno Caizzi – Storia dell’Industria italiana: dal XVIII secolo ai giorni nostri – UTET 1965

31 – Sergio Romano – Storia d’Italia dal Risorgimento ai giorni nostri – Mondadori 1977

32 – Giuliano Buselli – Lavoro e macchine nel capitalismo – Sansoni 1974

33 – L. Cafagna – Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia – Marsilio 1989

34 – C. Singer ed altri (a cura di) – Storia della tecnologia – Boringhieri 1964



Categorie:Senza categoria

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: