LA FISICA NELL’OTTOCENTO 5: BIOGRAFIA SCIENTIFICA DI RUDOLF CLAUSIUS

Roberto Renzetti

PREMESSA   

    Per seguire le vicende di Rudolf Clausius tornerò nella Germania della prima metà dell’Ottocento, la Germania che abbiamo lasciato con Mayer ed anche con Helmholtz. Alcune questioni le riprenderò dal punto di vista di questo fisico che ho citato qua e là ma sul quale non mi sono mai soffermato. A partire dalla metà del secolo il problema della conservazione dell’energia era completamente maturo perché i più diversi contributi confluissero tutti in una certa direzione. Kuhn, con ragione, chiama questa scoperta come un caso di scoperta simultanea. Ma ogni scienziato ha affrontato la questione con approcci differenti ed ognuno ha portato contributi alla soluzione del problema ricchi della sua particolare visione di esso. Con Clausius avremo modo di cogliere questa diversità di trattazione anche per tutto ciò che comporterà in termini di sviluppi futuri.

I PRIMI ANNI

    Rudolf Julius Emmanuel Clausius nacque il 2 gennaio del 1822 a Köslin nella Prussia del nord (oggi Koszalin in Polonia). Vi è poco da raccontare sulla sua giovinezza se si escludono alcune vicende di famiglia. Suo padre, Ernst Carl Gottlieb Clausius, era un credente tradizionalista ed osservante, pastore della chiesa protestante. In particolare credeva al crescete e moltiplicatevi, tanto che innumerevoli furono i suoi figli, tanti da portare alla tomba sua moglie. In particolare Rudolf era il 14° di una serie che si fermò a 18 per lo sfinimento della madre che morì, appunto, in occasione di quel parto nel 1843. Di questi figli solo 6 sopravvissero fino ad un’età matura.

    Rudolf era ancora un bambino quando suo padre ebbe l’offerta di dirigere una scuola privata ad Uckermünde, una cittadina della Pomerania sul mar Baltico, a 150 km da Köslin. E l’offerta fu accettata con entusiasmo perché le povere entrate da ecclesiastico non bastavano a mantenere la numerosa famiglia.

    Qualche anno dopo Rudolf iniziò a frequentare la scuola del padre. Sappiamo che era estremamente curioso di tutto e che, a sue domande, spesso riceveva risposte tratte dalla Bibbia, risposte che non lo soddisfacevano. Le prime risposte soddisfacenti le ebbe quando iniziò a frequentare il Ginnasio di Stettin (oggi Szczecin, in Polonia). Qui apprese che i fatti naturali hanno spiegazioni naturali ed ancora qui iniziò ad interessarsi della natura e delle proprietà del calore. Le conchiglie fossili che incontrava nelle montagne circostanti la sua città si trovavano lì per movimenti lenti della crosta terrestre e non perché sommerse dal fango quando le acque del Diluvio avevano coperto il mondo permettendo la salvezza dei soli animali ospiti dell’Arca. E le teorie geologiche parlavano anche di un nucleo caldo della Terra che la alimentava da dentro come il nucleo caldo all’interno dell’uomo. Come accadeva nelle macchine termiche che lo cominciarono ad interessare oltremodo.

    Finiti gli studi secondari nel 1840, Rudolf si iscrisse all’Università di Berlino, inizialmente per seguire studi storici ma presto per indirizzarsi alle altre sue passioni, la matematica e la fisica. Ebbe insegnanti che godevano di grande fama, come Georg Simon Ohm, Peter Gustav Lejeune Dirichlet, Jakob Steiner e Gustav Magnus. Fu quest’ultimo professore che colpì la sua fantasia con l’annuncio di una sua scoperta: il calore del corpo si origina in reazioni chimiche nel sangue e non nei polmoni come si pensava. Si laureò nel 1844 ma i suoi studi furono rallentati dal dolore della perdita della madre che, come accennato, morì di parto nel 1843 al diciottesimo figlio e da problemi economici. Per non pesare egli stesso sul padre rimasto solo iniziò a lavorare come insegnante al Gymnasium di Berlino (dove lavorò fino al 1850) e si assunse la cura dei suoi fratelli più piccoli.

    Appena laureato Clausius passò alla scuola di specializzazione dell’Università di Halle (Sassonia), 150 km a sud-ovest di Berlino e, per avere cura dei fratelli, non si spostò da Berlino se non in occasione di lezioni importanti come pendolare a cavallo, con l’accordo dei professori di Halle. Questa relativa libertà da un rigido curriculum gli permise di seguire i suoi ritmi ed i suoi interessi approfondendo in tutti i modi possibili le sue conoscenze sul calore. Ed a questo proposito incontrò e restò affascinato dall’opera di Sadi Carnot. Si soffermò sull’analogia che era stata costruita da Carnot, quella di una macchina termica che funziona come una ruota idraulica: in quest’ultima è la caduta dell’acqua che muove la ruota, nella prima è la caduta di calorico dalla sorgente calda al condensatore. Le macchine termiche che si diffondevano e sembravano fare operazioni contrarie alla natura trasformando calore in lavoro, la natura del calore restavano la centro dei suoi interessi. Prese il dottorato nel 1848 con una tesi che si occupava degli effetti ottici dell’atmosfera (la colorazione azzurra e rossa del cielo insieme alla polarizzazione della luce) che, a fronte di una trattazione matematica di prima qualità, errava in alcune ipotesi fatte (non teneva conto del fenomeno della dispersione della luce). Intanto era sorta la polemica tra Mayer  e Joule, polemica inizialmente di carattere scientifico, quindi diventata nazionalista.  Mayer aveva scritto un articolo per i Comptes Rendus rivendicando il primato dei suoi lavori sull’equivalenza tra calore e lavoro rispetto a Joule. La polemica fu durissima soprattutto perché, anche in Germania, pochissimi conoscevano i lavori di Mayer, misconosciuti a maggior ragione all’estero. Il riconoscimento ufficiale dei meriti di Mayer non venne dalla Germania ma dalla Gran Bretagna, la patria di Joule, dove, nel 1862, il fisico irlandese John Tyndall (1820 – 1893), successore di Faraday alla Royal Institution, sollevando molte polemiche nel suo Paese, assegnò la priorità della scoperta dell’equivalenza calore-lavoro a Mayer. Ebbene, agli inizi di questa polemica si interessò Clausius con le idee ancora non definite sulla natura del calore e sull’insieme della vicenda. In ogni caso Clausius, da buon nazionalista prussiano che viveva in quei tempi la rivoluzione del 1848, si schierò con Mayer per il semplice criterio secondo cui Mayer aveva pubblicato prima di Joule sull’argomento ed anche perché di Mayer apprezzava l’approccio filosofico al nuovo modo di considerare il calore. Ma, da scienziato avveduto, apprezzava anche la base sperimentale fornita da Joule alla teoria dell’equivalenza tra lavoro meccanico e calore. Ad un certo punto Clausius pensò addirittura che fosse semplice mettere insieme i due approcci per avere una esauriente teoria del lavoro meccanico prodotto dal calore che includesse anche un corollario sulla natura di quest’ultimo. Ma sbagliava perché gli servirono 18 anni per mettere a punto quanto si era ripromesso.

LA PRIMA MEMORIA SULLA NATURA DEL CALORE

    Come già accennato, alla metà del secolo, si faceva urgente una revisione completa della teoria del calore e dei fenomeni termici ad esso associati. Vi era l’incombere di quel calorico che creava molti problemi nella comprensione dei fenomeni e nelle analogie. Si avevano ora a disposizione i dati di Regnault, le molte esperienze di Joule e la riproposizione del lavoro di Carnot, fatta da Kelvin tra il 1848 ed il 1849. Vi erano poi i dubbi di Kelvin sulla natura del calore che, a quest’epoca, non lo avevano ancora fatto convertire alla teoria dinamica anche se i lavori di Joule avevano iniziato ad aprire una qualche breccia. Si ricorderà che Kelvin poneva all’attenzione la contraddizione che sorgeva nel semplice passaggio di calore in un conduttore: che ne era in questo caso del lavoro meccanico ? Cosa accadeva del principio di conservazione dell’energia ?

    Siamo a questo punto del dibattito quando, nel 1850, Clausius pubblicava sui Poggendorff’s Annalen der Physik und Chemie (79; 1850, pp. 368–397, 500–524) una sua prima fondamentale memoria, Über die bewegende Kraft der Wärme und die Gesetze, welche sich daraus für die Wärme selbst ableiten lassen (Sulla forza motrice del calore e sui principi che possono derivarne per la teoria del calore). La memoria ebbe vasta risonanza ed in seguito ad essa egli fu chiamato come docente di matematica e fisica presso la Scuola Reale d’Artiglieria ed Ingegneria di Berlino ed ottenne la libera docenza (Privat Dozent) all’Università di Berlino. Il suo approccio alle problematiche in discussone è quello di un fisico teorico che non fece mai esperienze ma era perfettamente in grado di cogliere significato e portata delle esperienze fatte da altri ricercatori. Egli era abilissimo matematico con grande capacità di comunicare e non nascondeva la fisica dietro la matematica, come alcuni troppo spesso fanno. In questa memoria egli rigettò con forza l’idea del calore inteso come sostanza considerandolo invece come un aspetto diverso di un medesimo fenomeno che, più in generale, si chiama energia. Il calore, come il lavoro, è quindi una forma di energia che ci si presenta sotto un altro aspetto (ricordo che il termine energia era stata introdotto da Rankine negli anni Sessanta e che ancora a quest’epoca era in uso kraft, ovvero forza). E come il calore ed il lavoro vi sono varie altre specie di energia che  si trasformano reciprocamente mantenendo conservata l’energia totale medesima e non il calorico. E, a chi sosteneva la conservazione del calorico, osservava:

[…] Non mi risulta, tuttavia, che sia mai stato sufficientemente provato per mezzo di esperimenti che non si verifichi alcuna perdita di calore quando si fa del lavoro; si può forse al contrario affermare con maggior correttezza che, anche se una simile perdita di calore non è stata provata direttamente, in base ad altri fatti si è mostrato che essa non solo è ammissibile, ma, addirittura, molto probabile. Qualora si ipotizzi che il calore, analogamente alle sostanze materiali, non può diminuire in quantità, allora si deve anche ipotizzare che esso non può aumentare. Ma è pressoché impossibile, tuttavia, fornire una spiegazione per il calore prodotto dall’attrito, se non in termini di aumento nella quantità del calore stesso. Le accurate ricerche di Joule, durante le quali il calore è prodotto grazie all’applicazione di lavoro meccanico in molti modi diversi, hanno provato pressoché con certezza non solo la possibilità di accrescere la quantità di calore in ogni circostanza, ma anche la legge secondo cui la quantità di calore sviluppata è proporzionale al lavoro speso nell’operazione. A ciò si aggiunga che, recentemente, si è giunti a conoscenza di altri fatti i quali confortano la tesi che il calore non sia una sostanza ma consista invece di un movimento delle particelle ultime dei corpi. Se tale tesi è corretta, è ammissibile applicare al calore il principio generale della meccanica secondo il quale un movimento può essere trasformato in lavoro, in modo tale che la perdita di vis viva [energia cinetica] sia proporzionale al lavoro compiuto.

    E qui Clausius passava a discutere di quanto Carnot aveva scritto, avendo bene in mente quell’analogia tra macchina idraulica e termica. Si trattava di dare enfasi alla scoperta di Carnot togliendosi di torno l’impaccio del calorico che si conserva. Ed egli affermava che Carnot era nel giusto quando sosteneva che il rendimento di una macchina termica dipendeva esclusivamente dalla differenza di temperatura tra caldaia e condensatore ma errava nel assimilare una macchina termica ad una ruota idraulica. Il calorico di Carnot nel processo di produzione di energia meccanica non è come l’acqua che, dopo aver mosso una ruota, sopravvive per intero. Il calorico viene invece consumato. Esso sparisce come energia termica per originare l’altra energia, quella meccanica. Ed allora cos’è che va a finire nel condensatore ? E’, lo dico ora con una parola grossolana ma efficace, calore sprecato, calore non trasformato in energia meccanica, proprio come quello che ha scaldato la macchina termica e l’ambiente. Scriveva Clausius:

Si tratta di fatti che Carnot conosceva bene e di cui riconobbe esplicitamente l’importanza. Essi quasi ci costringono ad accettare l’equivalenza tra calore e lavoro, sulla base dell’ipotesi modificata per cui il compimento del lavoro richiede non solamente una variazione nella distribuzione del calore, ma anche un effettivo consumo di calore, mentre, al contrario, il calore può essere sviluppato nuovamente a spese del lavoro. [ … ]

    Riguardo alle difficoltà nell’accettare la teoria di Carnot, dovute al semplice trasferimento di calorico senza produzione di lavoro, Clausius osservava:

Thomson menziona chiaramente gli ostacoli che si frappongono ad un’accettazione incondizionata della teoria di Carnot, riferendosi particolarmente alle ricerche di Joule, e soffermandosi su un’obiezione principale cui la teoria è soggetta. Se anche si ammettesse che la produzione di lavoro, quando il corpo in azione rimane nello stesso stato di partenza dopo la produzione, è in ogni caso accompagnata da una trasmissione di calore da un corpo caldo ad uno freddo, non ne segue che per qualsiasi siffatta trasformazione si produca lavoro, perché il calore può essere trasportato per semplice conduzione; e in tutti tali casi, se la sola trasmissione fosse il vero equivalente del lavoro compiuto, deve aver luogo in natura una perdita assoluta di forza meccanica, il che è difficilmente concepibile. Malgrado ciò, tuttavia, egli arriva alla conclusione che allo stato attuale della scienza il principio assunto da Carnot è il fondamento più probabile per una ricerca sulla forza motrice del calore. […]

Io credo, tuttavia, che non dovremmo lasciarci spaventare da queste difficoltà; ma che, al contrario, dovremmo rivolgerci risolutamente alla teoria che considera il calore un movimento, poiché solo in questo modo possiamo munirci degli strumenti per stabilirla o rifiutarla. Oltre a ciò, io non credo che le difficoltà siano così grandi come le considera Thomson; perché sebbene sia necessaria una certa modificazione nel nostro modo di considerare l’argomento, io trovo tuttavia che questo in nessun caso è contraddetto da fatti provati. Non è neppure necessario gettare a mare la teoria di Carnot; una cosa su cui è difficile decidere, in quanto l’esperienza in una certa misura ha mostrato un sorprendente accordo con essa. Con un esame più accurato di questo caso, troviamo che la nuova teoria è opposta, non al vero principio fondamentale di Carnot, ma all’aggiunta “nessun calore viene perduto”; perché è possibile che nella produzione di lavoro entrambi i processi possano aver luogo allo stesso tempo; una certa porzione di calore può essere consumata, ed un’altra porzione trasmessa da un corpo caldo a uno freddo; ed entrambe le porzioni possono stare in una certa relazione definita alla quantità di lavoro prodotta. Ciò verrà chiarito nel seguito; e si mostrerà inoltre, che le conseguenze che si traggono da entrambe le assunzioni possono non solo esistere insieme; ma che esse si rafforzano reciprocamente. [ … ]

e nessuna macchina nota sembrava in grado di trasformare tutto il calore che gli veniva fornito in lavoro meccanico. Per ottenere ciò sarebbe stato necessario avere una macchina funzionante senza attrito e che fosse perfettamente isolata. Condizioni irrealizzabili che rendevano la macchina di Carnot una macchina ideale, perfetta e nella quale sarebbe stato addirittura possibile ottenere il funzionamento rovesciato, reversibile, e quindi realizzare una sorta di moto perpetuo.

    Riguardo al moto che le molecole di materia dovrebbero avere per dar corpo alla teoria dinamica del calore, Clausius enuncia per ora la sua teoria che prevede, alla fine, il consumo di calore:

Non prenderemo qui in considerazione il tipo di movimento che si può pensare avvenga all’interno dei corpi. Ci limiteremo ad assumere in generale che le particelle dei corpi siano in moto, e che il loro calore sia la misura della loro vis viva [energia cinetica]; ovvero, ancor più in generale, enunceremo soltanto un principio inteso come fondamentale e condizionato dalla precedente assunzione: in tutti i casi in cui si produce del lavoro per mezzo del calore, viene consumata una certa quantità di calore che è proporzionale al lavoro fatto; e, reciprocamente, con la spesa di una eguale quantità di lavoro si produce una eguale quantità di calore.

    Quanto qui sostenuto, cioè il calore inteso come movimento che può essere consumato e trasmesso, è la base della teoria dinamica del calore che Clausius sviluppò in memorie successive e che fu feconda di aperture verso orizzonti inaspettati nell’ambito della struttura della materia ma anche della radiazione. E’ opportuno osservare ora, per un doveroso raccordo con Kelvin, che questo calore che viene consumato ha precise relazioni con quell’energia che viene dissipata che introdurrà Kelvin, On the Dynamical Theory of Heat del 1851 e On a Universal Tendency in Nature to the Dissipation of Mechanical Energy del 1852.

    Dopo questa premessa, Clausius passava a ricavare alcune conseguenze dall’uguaglianza di calore e lavoro. Dopo aver assunto che il calore è originato dal moto delle particelle che costituiscono i corpi e rappresenta la misura dell’energia cinetica di tali particelle, Clausius enunciava una regola alla base delle sue argomentazioni:  in tutti i casi in cui del calore produce lavoro, una quantità di calore proporzionale al lavoro deve essere consumata; ed inversamente, dal consumo di  una analoga quantità di lavoro, deve prodursi una uguale quantità di calore.

    A questo punto Clausius iniziava a ricavare le conseguenze annunciate riprendendo quanto fatto da Clapeyron che aveva messo su grafico il ciclo di Carnot (chiudendolo). Così scriveva Clausius:

Quando un corpo qualunque cambia di volume, in generale, simultaneamente si produce o consuma del lavoro meccanico. Ma nella maggior parte dei casi è impossibile determinarlo con precisione perché, insieme a questo lavoro esterno, si produce in genere anche un lavoro interno sconosciuto. Per sbarazzarsi di tale inconveniente, Carnot impiegò l’ingegnoso metodo di far eseguire al corpo differenti trasformazioni consecutive, ordinate in tal modo che l’ultima lo riporti esattamente allo stato iniziale. In tal modo, se in qualcuna di tali trasformazioni si è fatto del lavoro interno, questo deve risultare esattamente annullato da quello delle altre, avendosi così la certezza che il lavoro esterno eventualmente prodotto nelle trasformazioni sarà anche il lavoro totale. Clapeyron ha rappresentato molto chiaramente tale metodo in forma grafica e noi la utilizzeremo per ora applicandola ai gas, con una piccola modifica che discende dai nostri assunti.

    Nella figura seguente l’ascissa oe rappresenta il volume e l’ordinata ea la pressione di una mole di un gas alla temperatura t.

Ammettiamo ora che il gas si trovi in un recipiente che può subire dilatazioni con il quale però non possa scambiare calore. Allora, se lo lasciamo dilatare in tale recipiente e non gli forniamo nuovo calore, la sua temperatura diminuirà. Per evitare ciò, manteniamolo in contatto, durante la dilatazione, con un corpo A, mantenuto a temperatura costante, che comunichi continuamente al gas la quantità di calore necessaria perché la sua temperatura rimanga al valore t. Durante questa dilatazione a temperatura costante [trasformazione isoterma, ndr] la pressione diminuisce in accordo con la legge di Mariotte e la possiamo rappresentare mediante le ordinate della curva ab che è un segmento di iperbole equilatera. Quando il gas sarà aumentato di volume in tal modo, da oe fino ad of, togliamo il corpo A e, senza che possa essere trasferito al gas altro calore [trasformazione adiabatica, ndr], lasciamo continuare la dilatazione. La temperatura scenderà e, pertanto, la pressione diminuirà più rapidamente di prima; la legge secondo cui avviene ciò è rappresentata dalla curva bc. Una volta che il volume sarà aumentato da of ad og, con la conseguenza che la temperatura sarà passata dal valore t al valore τ, iniziamo a comprimerlo di nuovo per portarlo al suo volume iniziale oe. Se nel far questo lasciamo il sistema a se stesso, la sua temperatura aumenterà di nuovo rapidamente. Ma, per il momento, non permettiamo che ciò accada, ponendo il sistema in contatto con un corpo B a temperatura costante τ, al quale corpo B il sistema trasmette immediatamente il calore che viene prodotto, in modo da mantenere la temperatura τ[trasformazione isoterma, ndr]; in queste condizioni lo comprimiamo (in un intervallo gh) finché il tratto restante he abbia grandezza esattamente uguale a quella necessaria perché la temperatura del sistema passi da τ a t , quando quest’ultima compressione si effettui in modo che non vi sia cessione di calore[trasformazione adiabatica, ndr]. Durante la prima compressione la pressione aumenta secondo la legge di Mariotte ed è rappresentata dal segmento cd di un’altra iperbole equilatera. Durante l’ultima compressione l’aumento di pressione avviene con maggiore rapidità ed è rappresentato dalla curva da. Questa curva deve terminare esattamente in a dato che, poiché alla fine delle trasformazioni la temperatura ed il volume tornano al loro valore iniziale, lo stesso deve accadere con la pressione che è funzione delle altre due variabili. Pertanto il gas si trova ora esattamente nello stesso stato in cui era all’inizio.
    Per determinare ora il lavoro prodotto in queste trasformazioni, per le ragioni che abbiamo già esposte dobbiamo concentrare l’attenzione solo al lavoro esterno. Durante la dilatazione il gas produce un lavoro che risulta determinato dall’integrale del prodotto tra il differenziale del volume e ed il valore corrispondente della pressione e che, pertanto, risulta geometricamente rappresentato dai quadrilateri eabf e fbcg. Inversamente, durante la compressione, si consuma lavoro, che risulta rappresentato allo stesso modo dai quadrilateri gcdh e hdae. L’eccesso del primo lavoro sul secondo deve essere considerato come il lavoro totale prodotto durante le trasformazioni ed è rappresentato dal quadrilatero abcd.
    Se tutto il processo ora descritto si realizza in ordine inverso, si ottiene la stessa quantità abcd come eccesso di lavoro consumato su quello prodotto.

    Descritto il problema, Clausius fece i calcoli annunciati per trovare il lavoro fatto ed il calore consumato nella serie di trasformazioni descritte. Partì dalla legge di Mariotte:

p.v = R (a + t)

con R costante che vale R = p0.v/(a + t0) e con a = 273. Se si considerano trasformazioni infinitesime il lavoro sarà dato dal prodotto di dv per dp, dove dp è dato da:

Si avrà allora:

Il calcolo per il calore consumato è più complesso e porta a:

    Il rapporto tra queste due quantità è l’equivalente meccanico del calore che Clausius denota con A:

    Sostituendo a numeratore e denominatore le espressioni trovate e semplificando si trova:

equazione che può essere considerata come l’espressione analitica della regola che Clausius aveva assunto all’inizio delle sue elaborazioni.

    Dopo aver sviluppato altre applicazioni della sua regola, Clausius passava a discutere alcune conseguenze del principio di Carnot coniugate con quanto ora visto con le parole seguenti:

    Carnot ha supposto che alla produzione di lavoro corrisponde un mero passaggio di calore da un corpo caldo ad un corpo freddo, senza che la quantità di calore diminuisca in tale passaggio.
    L’ultima parte di questa ipotesi, cioè che la quantità di calore non risulti diminuita, è in contraddizione con la regola anteriormente enunciata e, pertanto, se vogliamo conservare quest’ultima, dobbiamo rifiutare l’ultima parte dell’ipotesi di Carnot. La prima parte, in cambio, può rimanere sostanzialmente com’è. Posto che, se anche non abbiamo più bisogno di un equivalente per il lavoro prodotto, poiché abbiamo ammesso come tale un consumo reale di calore, è tuttavia possibile che questa equivalenza continui ad esistere anche con il consumo di calore risultando questo consumo in una relazione determinata con il lavoro. Si tratta di investigare se questa ipotesi, oltre ad essere possibile, abbia una sufficiente probabilità.
    Un passaggio di calore da un corpo caldo ad uno freddo avviene utilmente in quei casi in cui si produce lavoro per azione del calore ed al medesimo tempo si compie la condizione che la sostanza operativa si trovi alla fine di nuovo nella stessa condizione in cui si trovava all’inizio. Nei processi descritti anteriormente e rappresentati con i grafici, abbiamo visto, ad esempio, che la sostanza operativa riceveva calore dal corpo A quando aumentava di volume, e che cedeva calore al corpo B durante la diminuzione di volume, di modo che una determinata quantità di calore veniva trasportata da A a B e che questa era molto maggiore della quantità che diamo per consumata, di modo che, nelle trasformazioni infinitesime considerate, quest’ultima quantità risultava essere un infinitesimo del secondo ordine mentre la prima risultava del primo ordine. Ma per poter mettere in relazione con il lavoro questo calore trasportato è necessaria una ulteriore limitazione. Poiché può anche aver luogo un trasporto di calore senza effetto meccanico, quando un corpo caldo ed uno freddo sono messi a stretto contatto ed il calore fluisce dall’uno all’altro per conduzione, allora se si desidera conseguire il massimo lavoro dovuto al passaggio di una data quantità di calore tra i due corpi alle temperature t e τ, il processo deve realizzarsi in modo che mai vengano posti in contatto due corpi a diversa temperatura.
    E’ questo massimo di lavoro che si deve mettere a confronto con il passaggio di calore e, se lo si fa, si trova che in realtà abbiamo motivi per ammettere, con Carnot, che questo massimo dipende solo dalla quantità di calore trasportato e dalle temperature t e τ dei due corpi A e B, ma non dalla natura del corpo intermedio. Questo massimo ha, in effetti, la proprietà  che per il consumo dello stesso si può anche trasportare di nuovo dal corpo freddo B al corpo caldo A una quantità di calore uguale a quella che doveva passare da A a B per la sua produzione. Ci possiamo convincere di ciò facilmente se immaginiamo effettuate in senso inverso tutti i processi descritti precedentemente, di modo che, per esempio, nel primo caso il gas subisce solo un’espansione, con la sua temperatura che scende da t a τ, successivamente prosegue la dilatazione in contatto con B, quindi è solo compresso, con la temperatura che torna a t, e finalmente subisce l’ultima compressione in contatto con A. In questo caso nella compressione si consuma più lavoro di quello prodotto nella dilatazione, di modo che in totale si ha una perdita di lavoro che ha il medesimo valore di quello guadagnato nel processo precedente. Inoltre al corpo B si toglie tanto calore quanto quello che prima gli si era dato, e al corpo A si trasmette tanto calore quanto quello che prima gli si era tolto, da cui si deduce che non solo si produce ora la stessa quantità di calore che antecedentemente era stato consumato, ma anche che la stessa quantità che prima era andata da A a B va ora da B ad A.
    Se immaginiamo ora che esistano due sostanze, delle quali una può fornire maggior lavoro dell’altra con un determinato passaggio di calore, o, che è lo stesso, che per produrre un determinato lavoro necessita il trasporto di meno calore da A a B che l’altra, allora potremmo utilizzare alternativamente queste due sostanze in modo tale che con la prima si produca lavoro mediante il processo precedentemente detto, e con l’ultima si realizzi il processo inverso consumando lo stesso lavoro. In tal modo ambedue i corpi, alla fine, si troverebbero di nuovo al loro stato iniziale; inoltre, il lavoro prodotto e quello consumato si annullerebbero tra loro, di modo che, ancora d’accordo con il principio precedentemente detto, la quantità di calore non potrebbe né essere aumentata né diminuita. Una differenza si sarebbe avuta solo nella distribuzione del calore, nel senso che si sarebbe trasportato più calore da B verso A che da A verso B, ed in tal modo si sarebbe realizzato, nel complesso, un trasporto da B verso A. Ripetendo alternativamente ambo i processi si potrebbe allora, senza nessun consumo di energia o alcun’altra trasformazione, portare a piacimento del calore da un corpo freddo ad uno caldo, fatto che contraddice il comportamento ordinario del calore, dato che dovunque viene fuori la tendenza a rendere uguali le differenze di temperatura, e pertanto a passare dai corpi caldi ai corpi freddi.
    Di modo che sembra teoricamente lecito mantenere la prima parte, ed in realtà quella fondamentale, dell’ipotesi di Carnot, ed impiegarla come secondo principio […]; l’esattezza di tale procedimento è inoltre già stata confermata varie volte dai risultati.

    Alla fine di questa lunga ma necessaria citazione, che serve a sgombrare il campo a tutte le difficoltà che aveva posto Kelvin, troviamo l’enunciato di Clausius del Secondo Principio secondo il quale è impossibile un passaggio spontaneo di calore da un corpo freddo ad un corpo caldo.

    Un fatto non irrilevante che deve essere sottolineato è che Clausius, per enunciare il Secondo Principio, non si servì, come avevano fatto ad esempio Kelvin ed Helmholtz, dell’assioma di impossibilità del moto perpetuo ma solo di quanto or ora enunciato. Se, viceversa, fosse risultata possibile l’operazione descritta, disponendo di una macchina reversibile, si sarebbe potuto ottenere il risultato assurdo di un continuo flusso di calore da un corpo freddo ad un corpo caldo senza che ciò consumasse lavoro meccanico. Con questa evidenza Clausius si avviava a superare il moto perpetuo di prima specie introducendo quello di seconda specie allo stesso modo che farà Kelvin l’anno successivo. Il massimo rendimento di una macchina termica, introdotto da Carnot, diventa uno dei principi fondamentali della natura.

    Sorgevano comunque dei problemi nuovi perché si trattava ora di stabilire la relazione esistente tra temperature delle sorgenti e quantità di calore trasferito e/o trasformato e, soprattutto, qual era la relazione esistente tra la dinamica molecolare ed il calore che era in gioco, visto che l’agitazione delle molecole assumeva un ruolo non secondario. Lo stesso Clausius segnalò i problemi ma, nel 1850, non riuscì ad andare oltre ed a questo punto si inseriva la memoria On the Dynamical Theory of Heat di Kelvin, memoria nella quale il fisico britannico abbracciava definitivamente la teoria dinamica del calore. Kelvin accettava i risultati che attribuiva a Joule da un lato e a Carnot-Clausius dall’altro, come assiomi per la costruzione della scienza termodinamica. Tali assiomi erano riassunti in due proposizioni che sono i primi enunciati dei principi della termodinamica, il secondo del quale in modo differente dall’enunciato di Clausius proprio per le differenti ipotesi a monte. Naturalmente, va ricordato che manca la conoscenza da parte di Thomson del lavoro di Helmholtz del 1847 che, a pieno diritto, è il padre del Primo Principio della termodinamica. Ricordo cosa scriveva Kelvin:

L’intera teoria della potenza motrice del calore si fonda sulle due proposizioni seguenti, rispettivamente dovute a Joule ed a Carnot e Clausius.

PROPOSIZIONE I. (Joule). – Quando quantità eguali di effetto meccanico vengono prodotte, con qualsiasi mezzo, a partire da sorgenti puramente termiche, oppure vanno perdute in effetti puramente termici, vengono distrutte o generate quantità eguali di calore.

PROPOSIZIONE II. (Carnot e Clausius). – Se una macchina è tale che, quando vien fatta lavorare alla rovescia, le operazioni di tipo fisico e meccanico in tutte le parti dei suoi movimenti sono rovesciate, allora essa produce tanto effetto meccanico quanto quello che può esser prodotto, da una data quantità di calore, con una macchina termo-dinamica qualsiasi che lavori fra le stesse temperature di sorgente e di refrigeratore.

    Ho già detto che questa memoria aprì a Clausius  la libera docenza e l’insegnamento all’Università di Berlino. Aveva allora 28 anni e solo un anno dopo ebbe modo di conoscere uno scienziato e divulgatore britannico che diventò suo amico, John Tyndall, successore di Faraday alla Royal Institution di Londra. Questa amicizia gli fu utile perchè, oltre ad essere il padrino del primo figlio di Clausius, gli tradusse in inglese varie sue memorie e, in epoca di nazionalismi che travalicavano la verità scientifica, lo difese in dispute di priorità.

    Nel 1851 Clausius pubblicò altre due memorie sulla teoria dinamica del calore, quelle note come Seconda e Terza memoria. In esse si occupava del comportamento dei vapori durante la fase di espansione e di alcune questioni teoriche relative ai calori latenti ed alle tensioni, ancora dei vapori.

    Nel 1855 gli fu offerta una cattedra di fisica presso l’Università di Zurigo e, subito dopo, nella nuova e prestigiosa Polytechnischen Schule della medesima città. In tale scuola resterà per 12 anni anche se egli era un amante della sua patria nella quale avrebbe ambito tornare. Rifiutò le offerte di varie università tedesche (del Politecnico di Karlsruhe, di Vienna e di Brunswick) perché, a Zurigo, fu circondato da fisici e matematici di grandissimo livello difficilmente rintracciabili in altre università in tale concentrazione. E, proprio in quell’epoca (1854), vedrà la luce la sua Quarta memoria su questioni di termodinamica di notevole interesse. Si tratta della Über eine veränderte Form des zweiten Hauptsatzes der mechanischen Wärmetheorie (Una forma modificata della seconda legge fondamentale della teoria meccanica del calore), pubblicata sugli Ann. Physik Leipz. (4) 93, p. 481 – 506, (Dicembre 1854) e sul Philosophical Magazine S. 4, Vol. XII, p. 81, (Agosto 1856).

    In questa memoria Cluasius elaborò ulteriori equazioni ed introdusse alcune funzioni che avranno grande rilevanza negli sviluppi della termodinamica. Egli sapeva che, per quanto avanzata, la sua precedente memoria non era soddisfacente. Cosa voleva dire in realtà il Secondo Principio ? Quale erano le sue connessioni con il Primo Principio ? Si trattava di passare da enunciati di carattere generale a formulazioni analitiche che individuassero grandezze misurabili che potessero essere utilizzate in differenti trasformazioni come dati certi, come fenomeni della stessa natura anche se ci appaiono in modo differente, a cui affidarsi.

    Clausius iniziava con il dimostrare il Teorema dell’equivalenza di calore e lavoro e cioè che il lavoro meccanico può essere trasformato in calore e, reciprocamente, il calore in lavoro, la grandezza dell’uno essendo sempre proporzionale a quella dell’altro. Seguiamo i ragionamenti di Clausius.

Le forze che devono essere prese in considerazione sono di due specie: quelle esercitate le une sulle altre dagli atomi di un corpo e che, di conseguenza, esistono nella natura medesima dei corpi e quelle che traggono origine da influenze esterne alle quali i corpi possono essere esposti. Oltre a queste due classi di forze da studiare, ho distinto il lavoro prodotto dal calore in lavoro interno e lavoro esterno, lavori soggetti a delle leggi essenzialmente diverse.

    Clausius passava a fornire le caratteristiche dei due tipi di lavoro. Per ciò che concerne il lavoro interno, se un corpo, partendo da un dato stato iniziale e subendo una serie di modificazioni, ritorna al suo stato iniziale, le quantità di lavoro interno che si sono prodotte devono essersi annullate le une con le altre. Quando si torna da uno stato finale ad uno iniziale attraverso alcune trasformazioni con un lavoro interno nullo, si deve concludere che il lavoro interno, che si realizza in una qualunque trasformazione interna al corpo, sarà determinato solo dallo stato iniziale e finale e sarà indipendente dal cammino percorso nella trasformazione. Diversa è invece la situazione del lavoro esterno che, dati sempre gli stessi stato iniziale e finale, può variare tanto quanto possono differire le influenze esterne sul corpo medesimo. Considerando allora insieme lavoro interno ed esterno generati in una modificazione di un corpo, accadrà che ambedue (nell’ipotesi che siano di segno contrario) si annulleranno parzialmente l’un l’altro con la conseguenza che la variazione simultanea della quantità di calore restante deve essere proporzionale al cambio simultaneamente avvenuto nella quantità di calore presente. Nel calcolo, comunque, tale quantità deve essere la stessa che si avrebbe se assumessimo un’alterazione nella quantità di calore equivalente a ciascuno dei due tipi di lavoro.

 Sia dunque Q la quantità di calore che si dovrà comunicare ad un corpo perché esso passi attraverso un dato cammino da uno stato iniziale ad uno finale (il calore ceduto dovrà essere considerato come negativo). Tale quantità la decomporremo in tre parti di cui la prima sarà l’aumento del calore che risiede effettivamente nei corpi, la seconda sarà il calore consumato dal lavoro interno e la terza il calore consumato per il lavoro esterno.

    Le prime due parti saranno indicate da Clausius mediante una funzione U che, per quanto detto, sarà determinata solo dallo stato iniziale e finale del corpo, la terza parte invece, quella relativa al lavoro esterno, non potrà essere determinata se non conoscendo l’intero percorso delle trasformazioni. Chiamando allora con W il lavoro esterno e con A l’equivalente del calore per unità di lavoro, la terza parte di Q sarà data da A.W e potremo scrivere il Primo Principio nella forma seguente:

(1)                                           Q = U + A.W

Se il corpo tornasse al suo stato iniziale, anche qui per ciò che abbiamo detto, deve risultare U = 0 e quindi

(i)                                              Q = A.W

Supponendo che sul corpo agisca come forza esterna solo una pressione identica in ogni punto del corpo, per calcolare il lavoro esterno, non sarà necessario considerare particolari modificazioni del corpo ma basterà seguire la variazione totale di volume, Supponiamo poi che tale pressione vari lentamente di modo che essa si possa considerare uguale, nei calcoli, alla forza di reazione offerta dal corpo. In tali condizioni la pressione risulterà una qualità del corpo stesso che potrà essere determinata da sue altre qualità simultanee. In definitiva la pressione, o più in generale lo stato del corpo, sarà determinata quando saranno noti la temperatura t ed il volume v del corpo. E queste due quantità saranno considerate da Clausius come variabili indipendenti mentre la pressione p e la funzione U saranno funzioni di tali variabili. Il lavoro esterno prodotto potrà essere facilmente determinato quando v subiranno degli incrementi dt e dv, dove, in corrispondenza di una variazione dv, il lavoro prodotto sarà p.dv cioè dW = p.dv ela (1) diventa:

(2)                                        dQ = dU + A.pdv

    Resta da eliminare la funzione di stato incognita U e Clausius lo fa con pochi calcoli trovando che la (2) si può scrivere nel modo seguente:

(3)                                       

    Dopo questa discussione sul Primo Principio, Clausius si metteva a studiare il Secondo introducendo un Teorema di equivalenza delle trasformazioni. Come già aveva discusso Clausius nella Prima memoria, il Teorema di Carnot, dopo essere stato messo d’accordo con il Primo Principio, introduce una relazione tra due specie di trasformazioni: la trasformazione di calore in lavoro ed il trasferimento di calore da un corpo più ad un corpo meno caldo (e quest’ultima cosa la si può studiare come una trasformazione di calore che è ad una temperatura maggiore a calore ad una temperatura minore). E questo teorema può essere enunciato nel modo seguente:

In tutti i casi in cui una quantità di calore è trasformata in lavoro ed in cui il corpo, mediante tale trasformazione, torna al suo stato iniziale, occorre che nel medesimo tempo un’altra quantità di calore passi da un corpo più caldo ad un corpo più freddo e che l’ultima quantità di calore, in relazione alla prima, non dipenda che dalle temperature dei due corpi tra i quali tale quantità di calore è trasmessa e non dalla natura dei corpi che sono serviti da veicolo

che equivale all’altro, già enunciato da Clausius:

Del calore non può mai passare da un corpo più freddo ad uno più caldo senza che avvenga qualche altra modificazione

che può anche scriversi:

Del calore non può mai passare spontaneamente da un corpo più freddo ad uno più caldo.

poiché la natura tende ad annullare e non ad accentuare le differenze di temperatura.

    Dopo aver ricostruito e discusso ulteriormente il Ciclo di Carnot, Clausius forniva un ulteriore enunciato del Secondo Principio, introducendo una funzione che si mostrerà particolarmente utile e feconda negli sviluppi successivi. Scriveva Clausius:

Se chiamiamo equivalenti due trasformazioni che potrebbero sostituirsi l’un l’altra senza richiedere alcuna altra importante modifica, la produzione di una quantità di calore Q alla temperatura t mediante un lavoro avrà un valore equivalente rappresentato da

ed il passaggio della quantità di calore Q dalla temperatura t1 alla temperatura t2 avrà un valore equivalente [il valore equivalente di una trasformazione, aequivalenzwerth, è un concetto che vedremo essere l’antesignano dell’entropia, ndr] rappresentato dall’espressione

nella quale T sarà una funzione della temperatura indipendente dal modo con cui si è operato per realizzare la trasformazione [che poteva anche essere considerata, per Clausius, identica alla temperatura assoluta, come egli stesso scriverà alla fine della memoria, ndr].

    Se scriviamo l’espressione precedente nella forma:

si vede che il passaggio della quantità di calore Q dalla temperatura t1 alla temperatura t2 ha lo stesso valore equivalente di una doppia trasformazione della prima specie, cioè la trasformazione della quantità di calore Q alla temperatura t1 in lavoro e la trasformazione della quantità di lavoro in calore alla temperatura t2.

    Clausius disponeva quindi di un semplice apparato matematico che gli avrebbe permesso ulteriori elaborazioni. Era a questo punto facile calcolare il valore equivalente del passaggio di una data quantità di calore Q da un corpo a temperatura T1 ad un altro a temperatura T2. E Clausius poteva concludere che, in caso di processi reversibili, valeva l’equazione analitica del secondo teorema fondamentale, cioè:

 (11)                                                      

    La memoria si chiude con un riferimento importante a Clapeyron. Clausius riconosceva che la sua funzione T era la medesima della funzione C introdotta da Clapeyron e chiamata funzione di Carnot (tra l’altro già utilizzata da Clausius nella sua prima memoria). Più precisamente Clausius dimostrava che vale l’identità:

(14)                                                       

      Ed un’ultima affermazione di Clausius risultava aprire quel dibattito che proseguirà per moltissimi anni. Scriveva il nostro che in una trasformazione ordinaria, cioè irreversibile:

La somma algebrica di tutte le trasformazioni, in tutte le operazioni di un ciclo completo, non può che essere positiva.

    E’, anche se non esplicitamente chiamata, l’introduzione del concetto di entropia, sul quale Clausius tornerà diffusamente nelle memorie successive.

LA TEORIA CINETICA DEI GAS

    Abbiamo lasciato il primo abbozzo della teoria cinetica di gas quando ci siamo occupati di Daniel Bernouilli che nell’Hydrodinamica del 1738 iniziò a trattare la materia con alcune ipotesi sulla sua struttura. In realtà era stato Euler a elaborare qualcosa in proposito in un articolo sui Commentarii del 1729 (Tentamen explicationis phaenomenorum aeris). A partire da un articolo di Johann Bernoulli che discuteva dei vortici di Descartes, egli concepì l’aria come costituita da minute particelle sferiche in rotazione a distanze differenti tra loro. La molecola di Euler era molto complessa perché costituita da tre strati: un’anima sferica di etere involta di una cappa della vera sostanza dell’aria che a sua volta era avvolta ancora da una cappa d’acqua. Le forze scambiate tra questi costituenti originavano i comportamenti della molecola ed in particolare la forza centrifuga di rotazione, l’umidità, e così via. Senza andare oltre, questo modello era molto rudimentale e solo lontanamente adombrava quello cinetico che oggi accettiamo.

    Daniel Bernoulli invece immaginò un gas costituito da molecole elastiche in continuo movimento nel vuoto. Gli urti tra queste molecole, nel suo modello teorico, hanno un ruolo fondamentale, anche perché, con questo innocuo modello, si metteva in discussione la visione corpuscolarista di Newton basata sulle forze repulsive agenti tra particelle e non sugli urti tra di esse. In tale visione i fenomeni termici erano studiati, utilizzando le leggi della dinamica ed il continuo movimento intorno a posizioni prefissate dei corpuscoli ed i gas erano pensati come fluidi elastici costituiti da molecole non puntiformi ma sferiche che occupavano piccoli volumi. Le particelle erano omogenee, rigide, elastiche, dotate di peso, soggette ad un moto molto rapido che espandendosi in modo casuale in tutte le direzioni obbediva alle leggi della meccanica classica; la loro distribuzione nel fluido era irregolare e non soggetta a forze esterne, così che il moto in assenza di urti poteva
essere considerato rettilineo. Tali corpuscoli erano altresì supposti come perfettamente lisci: un eventuale moto rotatorio intorno all’asse passante per il loro centro avrebbe potuto così essere trascurato e la loro velocità sarebbe stata calcolata esclusivamente in relazione alla velocità del centro. Il sistema così descritto prevedeva una quantità considerevole di collisioni, responsabili a livello microscopico dei fenomeni macroscopicamente controllabili in termini di volume, pressione e temperatura; queste proprietà non erano più distinte in due classi, l’una concernente la densità e la pressione, l’altra riguardante la relazione tra calore ed espansione, ma riunite sotto l’unica tesi della struttura corpuscolare della materia.

    Mediante le argomentazioni di Daniel era possibile constatare che gli urti si verificavano con maggiore frequenza in proporzione alla diminuzione delle distanze reciproche fra le particelle, di conseguenza il numero delle collisioni era inversamente proporzionale alla distanza media che intercorreva tra esse. Le distanze medie erano calcolate utilizzando la cinetica e la statistica, in tal modo si poteva determinare, in riferimento alle condizioni microscopiche del sistema, l’incremento della pressione in relazione alla diminuzione del volume e all’aumento della temperatura e accertare la dipendenza del calore della materia dalla velocità dei singoli corpuscoli e dall’intensità degli urti. La figura che Daniel ci presenta è la seguente. Essa è di per sé esemplificativa del suo modello.

Figura di Daniel Bernoulli (Hydrodinamica, 1738)

    Queste elaborazioni di Daniel Berlouilli rimasero piuttosto al margine della ricerca scientifica e solo nei primi anni dell’Ottocento vennero riprese dal fisico inglese John Herapath (1790 – 1868) che dedicò alla questione due memorie, On the physical properties of gases, pubblicata su Annals of Philosophy8, 56-60 (1816), On the Causes, Laws and Phenomena of Heat, Gases, Gravitation, pubblicata su Annals of Philosophy, 1, 273-293, 340-351, 401-416

Herapath

    Annals of Philosophy. Solo Joule sembra aver prestato attenzione a tali memorie come risulta dalla sua memoria del 1848, On the Mechanical Equivalent of Heat, and on the Constitution of Elastic Fluids (Rep. Brit. Assoc. 1848, Sections, p. 21), in cui dice di essersi convertito alla teoria cinetica di Herapath. In tale memoria Joule, senza scrivere alcuna equazione e senza l’uso di alcun simbolo, si calcolava la velocità molecolare. Sembra evidente che Joule aveva utilizzato i conti ed i metodi di Bernouilli ed Euler aggiustandoli con le ipotesi di Herapath che prevedevano la trattazione di un moto molecolare traslatorio anziché rotatorio. Joule, come aveva fatto Euler, trovò che la temperatura è proporzionale a v2, con v intesa come velocità di traslazione. Conseguenza di ciò è che la temperatura risultava proporzionale alla forza viva (energia cinetica) e non più alla quantità di moto. Altre conclusioni di Joule (lo zero della temperatura ed i calori specifici) erano sbagliate e non vale la pena soffermarsi su esse. Per avere un avvio significativo della teoria cinetica occorre aspettare i lavori del fisico chimico tedesco August Karl Krönig (1822-1879) e del fisico scozzese John James Waterston (1811 – 1883).

Waterston

        Nel 1845, sei anni prima della memoria di Joule ed undici anni prima di quella di  Krönig che vedremo di seguito, arrivò alla Royal Society proveniente da Bombay (India) una memoria di Waterston(1)On the physics of media that are composed of free and perfectly elastic molecules in a state of motion. Essa fu rifiutata, perché il giudice, John William Lubbock sentenziò che era nient’altro che un nonsenso, e poi pubblicata in sunto di mezza pagina e con il nome errato sulle Philosophical Transactions nel 1846. Stessa sorte ebbe un’altra memoria di Waterston del 1851, On a general theory of gases, pubblicata sempre in brevissimo sunto di una pagina sulle Philosophical Transactions nel 1851. L’originale delle memorie fu ritrovato da Lord Rayleigh negli archivi della Royal Society nel 1891 e, dopo averli esaltati, fece immediatamente pubblicare i lavori sulle Philosophical Transactions del 1893 (A 183, 1-79 e A 183, 79), a dieci anni dalla morte di Waterston e a 48 anni dal loro invio alla Royal Society. Nel poco che si trova nei sunti del 1846 e del 1851 c’è l’affermazione che la vis viva  di quei moti aleatori in una parte data di un gas costituisce la quantità di calore contenuto in esso e che l’equilibrio di calore e pressione tra due gas avviene quando il numero di atomi nell’unità di volume è lo stesso e è la stessa la vis viva di ogni atomo. La temperatura è quindi in tutti i gas proporzionale alla massa di un atomo moltiplicata per la media del quadrato della velocità dei moti molecolari, essendo misurata a partire  da uno zero assoluto di 461° più in basso dello zero del termometro Fahrenheit.

     Krönig nel 1856 non aveva problemi nel pubblicare nei Poggendorf’s Annalen una memoria, Grundzüge einer Theorie der Gase (99, 315). In questo orrido saggio pieno di errori di calcolo elementare e di poche e rozze argomentazioni (così scrive Bellone) stabiliva un modello meccanico di un gas basato su ipotesi non dissimili da quelle dei suoi predecessori e cioè su quella che l’unica interazione tra molecole fosse quella dovuta ad urti sia tra le molecole sia tra molecole e pareti del recipiente. Più in dettaglio:

1 – un gas chimicamente omogeneo in equilibrio può essere rappresentato come un sistema di masse puntiformi o corpi rigidi identici, chiamati molecole, che si muovono in modo aleatorio, in modo che il numero di quelle che si muovono in una data direzione è in media uguale a quelle che si muovono in qualunque altra direzione;

2 – il volume delle molecole è trascurabile rispetto al volume del vuoto che esiste tra di esse;

3 – le forze agenti tra molecole sono trascurabili escludendo l’istante dell’urto; le molecole si muovono di moto uniforme fino a che urtano con un altra molecola o con le pareti del recipiente;

4 – visto che un gas  in ambiente chiuso ed isolato non mostra  nessuna tendenza a perdere la sua pressione, gli urti delle molecole tra loro e con le pareti del recipiente devono essere perfettamente elastici. In particolare, se le molecole sono sfere rigide, possono essere trascurate completamente le collisioni molecolari, poiché quando urtano due sfere rigide, il moto che ne discende è il medesimo che si avrebbe se non avessero subito urti;

5 – l’aleatorietà del moto dei corpuscoli fornisce una situazione tipicamente disordinata; saranno i principi della teoria della probabilità che permetteranno di trasformare il disordine in ordine.

    Con queste ipotesi Krönig elaborò dei calcoli per trovare la pressione risultante dal trasferimento  della quantità di moto dalle molecole alle pareti del recipiente. Errò nei calcoli poiché non tenne conto delle perdite di quantità di moto. Ci riprovò e di nuovo mise insieme vari errori. Nonostante ciò il lavoro di Krönig fu pubblicato, letto e preso in considerazione tanto che è considerato come la base di partenza della teoria cinetica. Il motivo di ciò va probabilmente ricercato nel fatto che nel 1856 si era già affermata la teoria dinamica del calore che, almeno nei suoi presupposti, prevedeva il moto di particelle all’interno dei corpi. Ma vi è anche un motivo relativo al peso politico in ambito scientifico che risultava avere Krönig non paragonabile a quello degli altri personaggi citati.

    Un anno dopo il lavoro di Krönig vedeva la luce un lavoro di Clausius sulla teoria cinetica.

UN’INTERPRETAZIONE MICROSCOPICA DEL SECONDO PRINCIPIO    

       Nel 1857 veniva pubblicata una memoria di Clausius, la Quattordicesima(2)Ueber die Art der Bewegung welche wir Wärme nennen (Sulla natura del moto che chiamiamo calore, Annalen der Physik 100, 353-380), nella quale si fanno notevoli passi avanti rispetto ai risultati di Herapath, Joule e Krönig nella derivazione della formula che esprime il legame tra la pressione di un gas e la velocità dei moti molecolari. Si iniziava a mettere in relazione una grandezza macroscopica come la pressione di un gas con le microscopiche velocità delle molecole. Il lavoro di Clausius prende le mosse dalla citazione della memoria di Krönig. che critica per la sua eccessiva semplificazione. Considerare infatti solo moti traslatori, trascurando i moti oscillatori e vibrazionali delle molecole o risulta riduttivo o va giustificato in qualche modo. Seguiamo con qualche dettaglio ciò che scrive Clausius, iniziando dalle condizioni che egli fissa per la validità del suo modello:

Affinché le leggi di Mariotte e di Gay-Lussac, ed altre leggi ad esse collegate, possano essere strettamente rispettate da un gas, è necessario che quest’ultimo, per quanto riguarda lo stato molecolare, soddisfi alle seguenti condizioni:

1) Lo spazio realmente occupato dalle molecole del gas deve essere infinitesimo in confronto all’intero spazio occupato dal gas. 

2) La durata di una collisione, e cioè il tempo necessario affinché si verifichi la variazione che si produce realmente nel moto di una molecola quando essa urta contro un’altra molecola o contro una superficie fissa, deve essere infinitesima in confronto all’intervallo di tempo che è compreso tra due collisioni successive. 

3) L’influenza delle forze molecolari deve essere infinitesima. Ciò implica due condizioni. In primo luogo è necessario che la forza con cui tutte le molecole si attraggono reciprocamente alle loro distanze medie sia nulla in confronto alla forza espansiva che è dovuta al moto. Ma le molecole considerate una per una, non sono sempre distanziate l’una dall’altra per lunghezze pari alla distanza media; al contrario, durante il loro moto, accade spesso che due molecole si trovino molto vicine l’una all’altra, oppure che una di esse sia molto vicina ad una superficie fissa costituita da molecole attive: in tali momenti le forze molecolari inizieranno naturalmente ad agire. La seconda condizione richiede, pertanto, che quelle parti della traiettoria che una molecola descrive sotto l’influenza delle forze molecolari – quando queste ultime sono in grado di alterare in modo apprezzabile la direzione o la velocità del movimento di una molecola – siano di lunghezza pressoché nulla in confronto a quei tratti di traiettoria per i quali si può ritenere che l’influenza delle forze in questione sia nulla.

Se queste condizioni non sono soddisfatte sorgono necessariamente delle deviazioni rispetto alle leggi semplici dei gas; e tali deviazioni diventano tanto più importanti quanto più la condizione molecolare del gas si allontana dalle condizioni poste. […]

Ed allora, ogni volta che nel seguito parleremo di gas, ne parleremo come di un gas che soddisfa perfettamente alle condizioni su esposte e che Regnault definisce come gas ideale, tenendo conto del fatto che tutti i gas conosciuti non sono altro che approssimazioni a un simile stato ideale.

Mediante l’uso di tali ipotesi, un gas, secondo Clausius, si sarebbe potuto trattare matematicamente (ed allo scopo egli introdusse i gradi di libertà molecolari traslazionali, rotazionali e vibrazionali). E’ da notare che tali ipotesi restano a tutt’oggi ancora sostanzialmente, almeno per una prima trattazione cinetica, immutate. Occorreva ora capire come trattare solidi e liquidi, rispetto ai gas, e per farlo occorreva una qualche conoscenza della loro natura. Scriveva Clausius:

Dopo queste considerazioni sullo stato gassoso sorge la questione di come esso differisca dallo stato solido e da quello liquido. Una definizione di questi stati di aggregazione, per essere soddisfacente in tutti i dettagli, richiederebbe una conoscenza delle condizioni delle molecole singole ben maggiore di quella di cui disponiamo oggi: ciò nonostante è mia impressione che alcune distinzioni fondamentali possano essere proposte su un terreno di probabilità tollerabile.
In tutti e tre gli stati di aggregazione si verificano dei moti molecolari.
Nello stato solido il moto è tale che le molecole si muovono attorno a certe posizioni di equilibrio senza mai abbandonarle, a meno che non intervengano forze estranee. Nei corpi solidi il moto può allora essere caratterizzato in termini di vibrazioni, anche se queste ultime possono comunque essere di un genere molto complicato. In primo luogo i costituenti di una molecola possono vibrare gli uni rispetto agli altri; e, in secondo luogo, la molecola può vibrare come un tutto unico: e, ancora queste ultime vibrazioni possono consistere di osci11azioni lineari rispetto al centro di gravità, oppure di oscillazioni rotatorie attorno a questo centro. Nei casi in cui delle forze esterne agiscono sul corpo – come accade negli urti – le molecole possono anche essere spostate in modo permanente. 
Nello stato liquido le molecole non hanno più alcuna posizione definita di equilibrio. Esse possono ruotare completamente attorno ai loro centri di gravità mentre questi ultimi possono anche essere completamente dislocati rispetto alla posizione iniziale. L’azione separatrice del movimento non è tuttavia sufficientemente forte se confrontata con le mutue attrazioni fra le molecole da riuscire a separarle del tutto. Anche se una molecola non aderisce più ad altre molecole vicine e localizzate, essa non le abbandona spontaneamente, ma solo sotto le azioni comuni esercitate da altre molecole: ed allora essa va ad occupare, rispetto a queste ultime, la stessa posizione che occupava dapprima rispetto alle sue vicine. Nei liquidi, allora, si hanno moti oscillatori, rotatori e traslatori. E tali moti avvengono in modo che le molecole non siano separate le une dalle altre ma rimangano anche in assenza di forze esterne, entro un certo volume.
Nello stato gassoso, infine, il movimento delle molecole trasporta le molecole stesse al di là delle loro sfere di attrazione reciproca, provocando dei moti in linea retta che sono conformi a quanto prescrivono le usuali leggi del movimento. Quando due di queste molecole entrano in collisione, esse in generale si muoveranno, dopo l’urto, su traiettorie separate e con lo stesso vigore che le caratterizzava quando stavano dirigendosi l’una contro l’altra: il che accadrà molto facilmente, in quanto ciascuna molecola è attratta da ogni altra molecola singola con una intensità molto minore di quella che viene esercitata da parte di tutte le molecole che la circondano nello stato liquido o nello stato solido. [ … ]
Nel seguito assumeremo sempre di parlare di un gas ideale; in altre parole, trascureremo le irregolarità che sono causate da uno stato gassoso imperfetto, e così potremo, nel determinare la pressione, introdurre certe semplificazioni, invece di considerare il movimento così come esso realmente avviene.

  A questo punto Clausius entrava in alcuni dettagli che saranno utilizzati nei calcoli:

Il numero complessivo degli urti ricevuti dalle pareti [del recipiente contenente il gas] rimane invariato quando supponiamo che le molecole non si disturbino reciprocamente nel moto e che ciascuna di esse segua una traiettoria rettilinea sino a raggiungere una parete.
Supponiamo inoltre [ … ], in base alle leggi della probabilità, che vi siano tante molecole con angoli di riflessione compresi entro intervalli dati (ad esempio, tra 60° e 61°) quante sono le molecole i cui angoli di incidenza sono compresi entro gli stessi intervalli, e che, nel complesso, le velocità molecolari non siano modificate dalla parete. Il risultato finale, pertanto, non sarà diverso se ipotizziamo che, per ciascuna molecola, l’angolo e la velocità di riflessione sono eguali a quelli di incidenza. Conseguentemente, ciascuna molecola si muove su e giù tra le pareti parallele maggiori [del parallelepipedo che contiene il gas] muovendosi lungo la stessa direzione di un raggio di luce fra due specchi piani, sino al momento in cui entra in contatto con una delle pareti minori: sarà allora riflessa da quest’ultima, e comincerà una serie di viaggi analoga alla precedente. E così di seguito.
Per finire, non vi è dubbio che, nella realtà, vi siano le velocità più diverse. Nelle nostre considerazioni possiamo tuttavia attribuire a tutte le molecole una certa velocità media. Risulterà chiaro con le prossime formule che questa velocità media, al fine di mantenere una pressione costante, deve essere scelta in modo tale che, con essa, la vis viva [energia cinetica] totale delle molecole sia la stessa che si avrebbe tenendo conto delle velocità molecolari reali.

Con quest’apparato concettuale ed ipotetico, Clausius elaborava dei calcoli che fornivano la pressione che un gas esercita su una parete del contenitore:

Sulla base delle precedenti assunzioni è evidente che, nell’unità di tempo, ciascuna molecola colpirà la parete tante volte quante volte le sarà possibile, seguendo la sua traiettoria, viaggiare dalla parete in questione sino a quella opposta e poi tornare indietro. Indichiamo con h la distanza fra le pareti parallele maggiori, e con θ l’angolo acuto compreso tra la perpendicolare alla parete e la direzione del movimento; allora la lunghezza della traiettoria da una parete all’altra è pari a h/cosθ e, indicando con u la velocità molecolare, il numero degli urti contro la parete è pari a:

(1)                            

Per quanto riguarda le direzioni delle varie molecole dobbiamo assumere che, in media, ogni direzione sia egualmente presente. Ne segue che il numero delle molecole che si muovono lungo direzioni formanti con la perpendicolare alla parete degli angoli compresi fra θ e θ + dθ sta al numero totale delle molecole nello stesso rapporto che si ha tra la superficie della zona sferica le cui circonferenze limite corrispondono agli angoli θ e dθ e la superficie della semisfera, e cioè il rapporto:

Se allora n rappresenta il numero complessivo delle molecole, il numero che corrisponde all’intervallo angolare compreso fra θ e θ + dθ sarà pari:

                                        n.sinθ.dθ

e il numero degli urti che tale numero di molecole esegue sarà il seguente:

(2)                                                                    

Al fine di determinare l’intensità di un urto la velocità deve essere risolta in due componenti, l’una parallela alla parete e l’altra perpendicolare. La prima componente non verrà modificata dall’urto e non verrà presa in considerazione nel determinare la sua intensità; la seconda, invece, la cui grandezza è rappresentata da u.cosθ, verrà modificata dall’urto in una velocità eguale ma di direzione opposta. L’azione della parete sulla molecola consiste dunque nel privarla in una direzione della velocità  u.cosθ calcolata lungo la normale, e nel darle una velocità eguale a questa nella direzione opposta; in altre parole, tale azione consiste nel dare alla molecola una velocità 2u.cosθ in quest’ultima direzione. Ne segue che la quantità di moto impartita alla molecola è:

(3)                                 2mu.cosθ

dove m è la massa molecolare.
Applicando ciò a tutte le molecole che corrispondono all’intervallo compreso tra θ e θ + dθ otteniamo, per unità di tempo, che quest’azione viene ripetuta per un numero di volte pari a:
    

ed allora la quantità di moto impartita a queste molecole nell’unità di tempo è la seguente:



(4)                               

Integrando quest’ultima espressione tra θ = 0 e θ = π/2 troviamo la quantità di moto impartita dalla parete a tutte le molecole che la urtano nell’unità di tempo

(5)                                     

Supponiamo ora che la parete sia in grado di muoversi liberamente. Allora, affinché non sia spostata dagli urti molecolari, è necessario che su di essa agisca una forza contraria: e quest’ultima può in effetti essere considerata come continua, in conseguenza del grande numero di urti e della minima intensità di ciascuno di essi. L’intensità di questa forza deve essere tale da generare, nell’unità di tempo, la quantità di moto che è rappresentata dalla precedente espressione. Ma poiché tutte le forze sono misurate dalla quantità di moto che esse riescono a produrre per unità di tempo, la precedente espressione rappresenta sia questa forza, sia la pressione esercitata dal gas, in quanto quest’ultima è equilibrata dalla prima.

Se α indica l’area della parete e p la pressione per unità di superficie, allora abbiamo che:

Il prodotto α.h indica il volume del recipiente o del gas; quindi, indicando il volume con v, abbiamo che:
 

(6)                                         

[…] Se scriviamo l’ultima equazione nella forma seguente:

(6a)                                      

il secondo membro denota la vis viva del moto traslatorio delle molecole(3). Ma, secondo le leggi di Mariotte e Gay-Lussac, sappiamo che:

                                           p.v = T . costante
 

dove T indica la temperatura assoluta; ragion per cui si ha che:

e […] la vis viva del moto traslatorio è proporzionale alla temperatura assoluta. […]

E’ un risultato molto brillante che Clausius ha trovato ed egli lo applicava subito al calcolo delle velocità u con cui si muovono le molecole di un gas in condizioni normali di pressione ed alla temperatura del ghiaccio fondente. Egli trovò per l’ossigeno, l’azoto e l’idrogeno rispettivamente i valori di 461, 492 e 1844 metri al secondo ed osservò: Questi valori rappresentano le velocità medie che, per la totalità delle molecole, forniscono la medesima vis viva che corrisponde alle velocità reali. Nello stesso tempo, tuttavia, è possibile che le velocità effettive delle diverse molecole differiscano materialmente dal loro valore medio. I numeri trovati ebbero un forte impatto nell’ambiente scientifico perché erano estremamente elevati rispetto alle sperimentate velocità di diffusione dei gas. Tra i critici più severi vi fu il meteorologo olandese C. H. Buijs-Ballot (1817 – 1890) con la sua memoria Über die Art von Bewegung welche wir Wärme und Electricitat nennen (Sulla natura del moto che chiamiamo Calore ed Elettricità, Annalen der Physik 103, pp. 240-273, 1858)(4) nella quale, tra l’altro, si affermava: Come può accadere che il fumo del tabacco sospeso in una stanza rimane così a lungo disposto in strati fermi ? e ciò avviene anche quando si osservano nubi di fumo nell’aria aperta. L’obiezione delle velocità misurate dei gas che diffondono con le velocità calcolate mediante la teoria cinetica, spinsero Ckausius  a studiare il problema fino alla pubblicazione di una successiva memoria (la Quindicesima) nel 1858: Über die mittlere Länge der Wege, welche bei Molecularbewegung gasförmigen Körper von den  einzelnen Molecülen zurückgelegt werden, … (Sulla lunghezza media delle traiettorie descritte dalle singole molecole dei corpi gassosi …, Annalen der Physik, 105, p. 239-241; 246-250). Bellone osserva opportunamente che la falsificazione sperimentale della teoria provocò in quest’ultima non un collasso ma una ristrutturazione capace di trasformare l’argomento falsificante in un argomento empirico favorevole.  Clausius, infatti, accettò la critica ma ne tradusse l’enunciato in forma nuova, così da annullarne la carica demolitrice ed utilizzarne il contenuto come prova a favore. Ed infatti Clausius si mostrò riconoscente per le obiezioni sostenendo che esse possono a prima vista sembrare molto rilevanti. E che riteneva pertanto necessario dimostrare, con considerazioni speciali, che i fatti addotti sono perfettamente riconciliabili con la teoria del moto rettilineo delle molecole. Buijs-Ballot, in definitiva, gli offriva una occasione gradita per completare questa parte della teoria (che forse era stato troppo brevemente discussa nella precedente memoria) e per prevenire, di conseguenza, ulteriori incomprensioni. Clausius passava a questo punto ad anticipare che le obiezioni anche se apparentemente sostenibili non erano corrette e che gli davano la possibilità di affinare alcuni punti trattati troppo brevemente nella precedente memoria e scriveva:

Nelle obiezioni riportate [da Buijs-Ballot]  si assume che le molecole percorrano spazi notevoli muovendosi su tratti rettilinei; ciò appare particolarmente nella seconda obiezione, là dove si dice che una molecola dovrebbe poter attraversare una stanza molte volte in un solo secondo. Questa assunzione, tuttavia, non può in alcun modo essere considerata come una conseguenza necessaria delle tesi che io ho suggerito a proposito delle condizioni dei gas. […] Una idea approssimata della grandezza media delle traiettorie percorse dalle singole molecole può essere elaborata con alcune semplici considerazioni, ed io mi propongo di chiarire questo punto nelle pagine che seguono. […]

Si trattava di operare una qualche modifica alle ipotesi che erano state assunte nella memoria del 1857 e, tra esse, quella delle dimensioni infinitesime delle molecole, quella dell’introduzione della probabilità nella trattazione e quella che introduceva un parametro chiamato cammino libero medio(1), che risulterà molto importante, in quanto stabilirà la distanza media che una molecola percorre prima di urtarne un’altra. Ma vediamo l’elaborazione di Clausius:

Supponiamo di avere uno spazio contenente un grande numero di molecole, e che queste ultime non siano distribuite regolarmente. Poniamo come sola condizione quella per cui la densità è la stessa ovunque, e cioè la condizione secondo la quale in parti eguali dello spazio esistono eguali numeri di molecole. La determinazione della densità può essere convenientemente eseguita nel nostro studio conoscendo la distanza che separerebbe due molecole vicine qualora tutte le molecole fossero distribuite cubicamente, e cioè disposte in modo tale da poter immaginare l’intero spazio come suddiviso in un certo numero di piccolissimi spazi cubici tutti eguali tra di loro e tali da avere i centri delle molecole situati nei vertici. Questa distanza – che è pari alla lunghezza dello spigolo di ciascun cubetto – la indicheremo con λ e la definiremo distanza media tra molecole vicine.
Consideriamo ora un punto che attraversa questo spazio muovendosi in linea retta, Supponiamo di dividere lo spazio stesso in strati paralleli fra di loro e perpendicolari alla direzione del movimento del nostro punto, e vediamo di determinare la probabilità che il punto riesca ad attraversare liberamente uno strato di spessore x senza incontrare la sfera d’azione di una molecola
(5).

    Per la discussione che segue fatta da Clausius è utile servirsi della figura seguente che mostra tra l’altro che i corpuscoli costituenti il gas sono ora considerati  in equilibrio attorno a dei punti fissi e come, quindi, il sistema gassoso appaia simile ad un cristallo con le molecole disposte ai vertici del reticolo con un passo λ che deve essere inteso come una distanza media tra molecole vicine.

Figura tratta da Bellone (I nomi del tempo)

In questo caso la probabilità può anche essere determinata in base a considerazioni speciali. Poniamo attenzione ad un piano dello strato che sia parallelo ai piani che delimitano quest’ultimo, e supponiamo che tutte le molecole i cui centri giacciono all’interno dello strato vengano spostate perpendicolarmente allo strato in questione in modo tale che i loro centri vadano a cadere tutti quanti sul piano prescelto. Ora dobbiamo unicamente chiederci quanto grande sia la probabilità che il punto, nel suo passaggio attraverso il piano, non incontri alcuna sfera d’azione: e questa probabilità può essere semplicemente rappresentata dal rapporto tra due aree. Consideriamo tutta la parte del piano che cade entro lo spazio dato: una sua porzione è ricoperta dalle sezioni massime delle sfere d’azione centrate su di esso, mentre la porzione rimanente è libera per il passaggio; e la probabilità di un passaggio che non subisca interruzioni è pertanto espressa dalla relazione che esiste tra la porzione libera del piano e il piano stesso nella sua interezza(5).

     Scrive Bellone in proposito, ne I nomi del tempo, che:

“le sfere d’azione, collocate come in figura, funzionavano alla stregua di bersagli fissi rispetto a una molecola in moto con una certa velocità. La molecola che esplorava il sistema dei bersagli doveva attraversare una successione di strati aventi un certo spessore. Per semplicità Clausius immaginava che lo spessore fosse unitario, e che una particella mobile avesse una probabilità a di attraversare uno strato singolo senza entrare in alcuna sfera d’azione (e, quindi, senza che la sua traiettoria subisse deflessioni più o meno forti) .

    Era ovvio pensare che la particella, dopo aver superato uno strato, non avesse memoria delle vicende appena vissute: gli eventuali eventi di collisione che si potevano realizzare nello strato immediatamente successivo erano indipendenti da ciò che era successo nello strato precedente. In tal caso la probabilità di attraversare senza danni anche il secondo strato era pari ad a2 e, in generale, la probabilità che il corpuscolo mobile riuscisse a superare senza collisioni uno spessore x di gas era data da ax. Si poteva sostituire a con e– α, essendo – α = logea. Allora la probabilità era data da:

e, per distanze o sufficientemente grandi, valeva l’approssimazione:
 


Era poi facile calcolare l’area offerta dai bersagli. Come si vede immediatamente dalla figura, si aveva a che fare con il rapporto tra l’area di sezioni di sfere d’azione e l’area di quadrati di lato λ:π.ρ22. Tenendo poi conto del numero di strati contenuti nello spessore δ, si aveva (π.ρ23).δ. Da questo punto di vista la probabilità di attraversare lo spessore δ era data da:

Dal confronto tra le due espressioni di W si otteneva subito la forma del parametro α e la probabilità diventava [cioè la probabilità W che una molecola percorra una distanza x senza collidere]:

                                               
[si tratta della probabilità W che una molecola percorra una distanza x senza collidere, da cui si ricava che solo una piccola frazione delle molecole percorre una distanza maggiore a qualche strato 1 prima di collidere].
Se le molecole in moto erano N, il numero di quelle che percorrevano la distanza x senza collisioni si otteneva moltiplicando N per W.  Un’ulteriore operazione portava infine a determinare la distanza media che caratterizzava il moto rettilineo di una molecola entro un gas. Lasciando cadere la clausola che bloccava i bersagli ai vertici di un reticolo e lavorando su un sistema di bersagli in moto disordinato si trovava che la distanza media in questione, indicata con L, era pari a:



                                            
[e si vede che il cammino libero medio risulta inversamente proporzionale alla probabilità che una molecola che si muove nel gas collida con un’altra molecola].
    Clausius, così, esprimeva il cammino libero medio molecolare in funzione di due parametri, λ e ρ, che definivano la geometria del modello. Era lecito attribuire a questi parametri valori numerici realistici. Si poteva, ad esempio, pensare che fosse ragionevole una stima secondo cui il rapporto tra una sfera d’azione di raggio ρ e un cubo di lato λ era pari a 1000. Allora si aveva:

                                        L = 1000.ρ = 62.λ.

Il cammino libero medio, quindi, era considerevolmente esteso rispetto al raggio delle sfere d’azione e alla distanza media tra molecole vicine. Ma, soprattutto, si poteva ora valutare la probabilità che una particella di gas percorresse, senza mai subire deflessioni, una distanza molto più grande. La probabilità che una molecola si muovesse senza cambiar strada percorrendo una distanza dieci volte maggiore del cammino libero medio era un numero straordinariamente piccolo: e – 10 era infatti pari a 0,000045.
Le molecole, in altre parole, viaggiavano in un gas subendo continuamente eventi di collisione con altre molecole e spostandosi lungo cammini a zig zag. In un certo intervallo di tempo, cioè, non viaggiavano sempre ad alta velocità e in linea retta, e l’obiezione che era stata sollevata contro la teoria del 1857 perdeva ogni validità. Anzi, una volta riformulata secondo lo schema di ragionamento del 1858, quell’obiezione diventava un buon argomento a favore di una teoria che ora spiegava, sia pure in modo qualitativo, la relativa lentezza dell’ interdiffusione in sistemi di molecole dotate di alta velocità”. E Clausius poteva concludere la sua memoria affermando:

Complessivamente possiamo affermare che, anche se in casi isolati una certa molecola può percorrere una traiettoria notevolmente più lunga della traiettoria media, questi casi sono comparativamente rari: nella maggioranza dei casi la traiettoria reale ha una lunghezza inferiore o di pochissimo superiore di quel valore medio che abbiamo precedentemente trovato.
Se ora applichiamo questi risultati al comportamento, osservabile dall’esterno, di un gas in cui si assuma che non esista altro moto complessivo oltre a quello molecolare, è facile convincersi che la teoria che spiega la forma espansiva dei gas non porta alla conclusione secondo cui due quantità di gas a contatto debbono mescolarsi rapidamente e violentemente: essa porta invece a concludere che solo un numero relativamente piccolo di atomi può giungere rapidamente a grandi distanze, mentre le quantità maggiori dei gas si mescolano gradualmente nelle zone relative alla superficie di contatto.

RITORNO ALLA TERMODINAMICA

    Prima di trattare degli altri fondamentali lavori di Clausius è utile dare le ultime notizie sulla vita di Clausius. Nel 1859 egli sposò la giovane Adelheid Rimpau che, pur vivendo in Svizzera, era tedesca. Questa vicenda lo rese estremamente felice. Per circa un anno vissero in un sobborgo di Zurigo. Nel 1861 nacque la prima figlia e per l’occasione la famiglia si spostò in una casa più grande con vista sul lago. Nel 1867 accettò finalmente l’insegnamento a Würzburg e quindi, nel 1869, a Bonn. Intanto nel 1868 era stato eletto Fellow della Royal Society di Londra. Nel 1870 volle a tutti i costi partecipare alla Guerra franco-prussiana ed organizzò un corpo di ambulanze. Fu ferito in battaglia e si portò dietro una invalidità permanente insieme alla decorazione della Croce di ferro che ricevette nel 1871. Nel 1870 gli fu assegnata la Medaglia Huygens per i suoi lavori scientifici. Nel 1875 la sua adorata moglie morì di parto (anche lei come la madre di Clausius!) dando alla luce il sesto figlio. Nel 1879 ebbe la prestigiosa Copley Medal come riconoscimento dei suoi lavori e nel 1883  il Poncelet Prize. Nel 1886 si era risposato con Sophie Stack dalla quale ebbe un altro figlio e nel 1888 una malattia che gli impediva di assimilare la vitamina B12 lo privò dell’ossigeno necessario ad alimentare il cervello ed il midollo. Questo grande della fisica morì a Bonn in quel 1888. Nella sua autobiografia Max Planck scriveva: Un giorno, per caso, mi imbattei nei trattati di Rudolf Clausius, la cui lucidità di stile e chiarezza  di ragionamento mi fecero un’enorme impressione. Mi sprofondai nei suoi articoli con entusiasmo crescente. Apprezzai soprattutto la sua formulazione esatta dei due principî della termodinamica, e la loro netta distinzione, che egli fu il primo a mettere in rilievo.

    Ma torniamo ai lavori che Clausius elaborò dopo il 1858 a partire dalla grande memoria, la Sesta, del 1862, Ueber die Anwendung des Satzes von der Aequivalentz der Verwandlungen auf die innere Arbeit (Sull’applicazione del teorema di equivalenza  delle trasformazioni al lavoro interno, Annalen der Physik 116, pp. 73-112) in cui egli affrontava di nuovo il Secondo Principio da un punto di vista ancora differente.

    Clausius iniziava la sua memoria riferendosi al suo lavoro del 1854 e dicendo che in tale memoria non si era occupato del lavoro interno in quanto si era occupato solo di trasformazioni circolari (mi limitavo alla considerazione di processi circolari – e cioè di operazioni nelle quali le modificazioni che il corpo subisce sono così sistemate che il corpo alla fine ritorna nelle sue condizioni iniziali. In tali operazioni il lavoro interno che viene eseguito durante le singole modificazioni – parte in senso negativo e parte in senso positivo – si neutralizza da solo, così che nulla rimane al di fuori del lavoro esterno). In quella memoria egli aveva elaborato il Principio di Equivalenza delle Trasformazioni ma non aveva pubblicato nella sua interezza tutte le proposizioni che discendevano da esso. Clausius riteneva che ora era giunto il momento di pubblicare per intero le proposizioni allora ricavate includendo la trattazione del lavoro interno. Scriveva il nostro:

Ho sino ad ora ritardato la pubblicazione della parte rimanente del mio teorema in quanto essa porta ad una conseguenza che è notevolmente in contrasto rispetto alle idee sin qui generalmente accettate a proposito del calore contenuto nei corpi: desideravo, pertanto, lavorare ulteriormente attorno alla questione. Ma poiché mi sono sempre più convinto, nel corso degli anni, che non dobbiamo dare troppo peso a quelle idee che, almeno in parte, sono basate più sull’abitudine che su una base scientifica, ho ritenuto di non dover più esitare, e di sottomettere al pubblico scientifico il teorema sull’equivalenza delle trasformazioni nella sua forma completa, con i principi che ad esso si correlano. Oso sperare che l’importanza di tali principî (supponendo che essi siano veri) in rapporto alla teoria del calore sarà sufficiente a giustificare la loro pubblicazione nella loro attuale forma ipotetica.

    Per utilità di trattazione, Clausius ricordava le conclusioni della memoria del 1854 ed in particolare che il calore può essere trasformato in lavoro, oppure il lavoro in calore, mediante un processo circolare; che  si ha a che fare con una trasformazione quando si possa dire che del calore ad una certa temperatura è trasformato in calore ad un’altra temperatura; che se la quantità di calore Q alla temperatura T è prodotta dal lavoro, allora il valore equivalente di questa trasformazione è:

e se la quantità di calore Q passa da un corpo a temperatura T1 ad un corpo a temperatura T2, allora il valore equivalente [aequivalenzwerth, ndr] di questa trasformazione è:                                          

dove T è una funzione della temperatura che è indipendente dal tipo di processo per mezzo del quale si è realizzata la trasformazione, e T1e T2 indicano i valori di questa funzione che corrispondono alle temperature t1 e t2. Io ho dimostrato, con considerazioni di altro tipo, che T è, con ogni probabilità, nient’altro che la temperatura assoluta.

    Ricordato tutto ciò ed il fatto che le due espressioni precedenti ci permettevano di riconoscere il senso positivo o negativo delle trasformazioni (essendo Q considerato positivo quando del lavoro viene trasformato in calore e negativo quando del calore è trasformato in lavoro), Clausius iniziava ad introdurre considerazioni esplicitamente nuove. Intanto affermava che:

noi possiamo sempre assumere Q come positivo, in quanto i sensi opposti delle trasformazioni sono indicati dalla possibilità che  la differenza 1/T2 – 1/T1 sia positiva o negativa. Si vedrà allora che il passaggio di calore da una temperatura alta ad una più bassa deve essere considerato come una trasformazione positiva, e il suo passaggio da una temperatura bassa ad una più elevata come una trasformazione negativa.

E, dopo di ciò, illustrava in modo più chiaro i presupposti della sua elaborazione del Secondo Principio, indagando meglio quel suo valore equivalente di una trasformazione:

Se rappresentiamo per mezzo di queste espressioni le trasformazioni che avvengono in un processo circolare, allora la relazione che esiste tra esse può essere enunciata in modo semplice e definitivo. Qualora il processo circolare sia reversibile, le trasformazioni che si verificano debbono essere in parte positive e in parte negative, ed il valore equivalente delle trasformazioni positive deve essere complessivamente eguale a quello delle trasformazioni negative, di modo che la somma algebrica di tutti i valori equivalenti diventa = 0. Se il processo circolare è non reversibile, allora i valori equivalenti delle trasformazioni positive e negative non sono necessariamente eguali, ma possono essere diversi solo in modo da rendere dominanti le trasformazioni positive. La proposizione che riguarda i valori equivalenti delle trasformazioni può allora essere enunciata nel modo seguente: La somma algebrica di tutte le trasformazioni che si verificano in un processo circolare può soltanto essere positiva, oppure, in caso estremo, nulla.
L’espressione matematica di questa proposizioni è la seguente. Sia dQ un elemento del calore dato dal corpo ad una qualsiasi riserva di calore durante la sua modificazione (il calore eventualmente assorbito sarà pertanto indicato come negativo), e sia T la temperatura assoluta del corpo nel momento in cui questo calore è ceduto; l’equazione

(1)                                       

deve essere allora vera per ogni processo circolare reversibile, e la relazione



(2)                                        

deve valere per ogni possibile processo circolare.

    Clausius proseguiva dicendo che quanto sostenuto doveva avere una rigorosa verifica matematica perché risultava insieme utile ed astratto, tanto astratto che la mente difficilmente la concepisce, motivo per il quale siamo spinti a cercarne il preciso senso fisico. Inoltre, poiché non dovevano esservi differenze sostanziali tra lavoro esterno ed interno, riteneva di poter applicare le considerazioni precedenti ai due tipi di lavoro. Infine il principio di equivalenza delle trasformazioni, nella sua forma più completa, permetteva ulteriori importanti conclusioni. Clausius iniziava quindi con l’enunciare quella legge nella sua forma più generale per proseguire poi ad alcuni chiarimenti:

In tutti i casi in cui il calore contenuto in un corpo compie lavoro meccanico vincendo una resistenza, la grandezza della resistenza che si può superare è proporzionale alla temperatura assoluta.
Al fine di capire il significato di questa legge è necessario prendere in considerazione più da vicino i processi mediante i quali il calore può eseguire del lavoro meccanico. Questi processi possono sempre essere ridotti ad una qualche alterazione nella distribuzione delle molecole che costituiscono un corpo. Ad esempio, sappiamo che i corpi si dilatano a causa del calore, in quanto le molecole vengono a separarsi le une dalle altre: in tal caso si debbono vincere, da un lato, le attrazioni reciproche tra le molecole, e, dall’altro lato, eventuali altre forze esterne che si oppongano alla dilatazione. Ed ancora sappiamo che lo stato di aggregazione dei corpi è alterato dal calore quando i corpi solidi sono resi liquidi, e quando sia i solidi che i liquidi sono portati allo stato aeriforme – ed anche in questi casi si debbono vincere delle forze interne e, in generale, anche delle forze esterne. Un altro caso che desidero citare, poiché differisce ampiamente dai precedenti e mostra pertanto come siano varî i modi di azione che appartengono alla classe che stiamo esaminando, è costituito dal trasporto di elettricità da un corpo all’altro che forma la corrente termoe1ettrica, la quale si manifesta grazie all’azione del calore su due corpi eterogenei posti a contatto.
Nei casi che ho citato per primi si ha una alterazione nella distribuzione delle molecole. Anche quando un corpo rimane nel medesimo stato di aggregazione le sue molecole non mantengono delle posizioni fisse e invariabili ma sono costantemente in uno stato di moto più o meno esteso: possiamo allora, nel parlare di distribuzione delle molecole ad un dato istante, intendere che una tale distribuzione sia data da quella che si avrebbe se tutte le molecole fossero bloccate nella posizione reale che esse occupano all’istante in questione, oppure da quella in cui tutte le molecole occupano le loro posizioni medie. Orbene, l’effetto del calore tende sempre ad indebolire la connessione tra le molecole e, in tal modo, a far crescere le distanze medie da cui le molecole stesse sono separate le une dalle altre. Al fine di essere in grado di rappresentare matematicamente tutto ciò, esprimeremo il grado d! dispersione delle molecole in un corpo introducendo una nuova grandezza che chiameremo la disgregazione del corpo e per mezzo della quale potremo definire l’effetto del calore semplicemente come una tendenza all’ aumento della disgregazione.

    Clausius faceva entrare nella nuova discussione, anche se solo in modo discorsivo, le considerazioni sulla teoria cinetica che aveva maturato nelle sue precedenti memorie. Inoltre introduceva l’elemento della disgregazione e della tendenza all’aumento di essa che hanno una qualche assonanza con la dissipazione dell’energia introdotta da Kelvin nel 1847 e sviluppata nel 1852. Questa nuova funzione, la disgregazione, mostrava che Clausius tentava ogni strada possibile per portare ad una elaborazione matematica le sue nuove idee. Egli iniziava in questa memoria a dire qualcosa che avrà il suo compimento nel 1865. Seguiamo il ragionamento di Clausius del 1862:

Supponiamo che una alterazione costante di distribuzione abbia luogo a temperature differenti; la quantità di calore che viene conseguentemente convertita in lavoro, oppure la quantità di calore che è prodotta da lavoro, sono quindi differenti nei diversi casi, essendo proporzionali alla temperatura assoluta. Se ora consideriamo come equivalenti quelle trasformazioni che corrispondono ad una e ad una sola alterazione della distribuzione, ne segue che, per determinare i valori d’equivalenza di tali trasformazioni, noi dobbiamo dividere le diverse quantità per le temperature assolute che ad esse corrispondono. La produzione della quantità di calore Q a partire dal lavoro deve pertanto avere, se si realizza alla temperatura T, il valore equivalente:

                                        
dove, poiché la costante può essere assunta a piacere, possiamo darle il valore uno. […]
Supporremo poi che diverse alterazioni di distribuzione abbiano luogo ad una temperatura costante, essendo tali alterazioni accompagnate da un aumento di disgregazione; se adottiamo il principio secondo cui gli incrementi di disgregazione, nei casi dove una stessa quantità di calore è convertita in lavoro, possono essere valutati come equivalenti tra di loro, e secondo cui i relativi valori equivalenti, assunti assolutamente, debbono essere eguali a quello che si ha nella trasformazione che si realizza contemporaneamente dal calore al lavoro, pur avendo segno contrario a quest’ultimo, allora disponiamo di un punto di partenza per la determinazione dei valori equivalenti delle alterazioni di disgregazione.
Combinando insieme queste due regole, possiamo anche determinare il valore equivalente di una alterazione di disgregazione che si verifichi a temperature diverse. […] Sia, ad esempio, dL un elemento del lavoro eseguito durante un’alterazione di disgregazione durante la quale la quantità di calore A.dL
[con A che indica l’inverso dell’equivalente meccanico della caloria, ndr] viene consumata, ed indichiamo con Z – Z0 il valore equivalente dell’ alterazione di disgregazione; allora abbiamo che:

    Ed in queste ultime parole, in questa ultima relazione, siamo alla soglia del grande passo chiarificatore che Clausius farà con la sua successiva memoria. La disgregazione, indicata con Z, era determinabile a meno di una costante che dipendeva dalle condizioni iniziali. Egli aveva impiegato molto tempo, dal 1850, per chiarire prima di tutto a se stesso qual era il significato del Secondo Principio.    

    Finalmente nel 1865 viene pubblicata la sua memoria, Über verschiedene für die Anwendung bequeme Formen der Hauptgleichungen der mechanischen Wärmetheorie  (Su alcune differenti Formulazioni delle Equazioni fondamentali della Teoria meccanica del Calore, Annalen der Physik 125; 353-400  che diventerà un punto fermo nello sviluppo della Termodinamica. Resterà ancora molto da capire, soprattutto dei meccanismi microscopici su cui si fonda il Secondo Principio ma, con tale memoria, la base concettuale era costruita. Leggiamo quanto scriveva Clausius:

Nelle mie precedenti pubblicazioni relative alla teoria meccanica del calore mi ero posto il fine di fornire una base solida per la teoria, cercando di porre la seconda legge nella sua forma più semplice e più generale e di dimostrarne la necessità. La seconda legge è più difficile da capire di quanto non lo sia la prima. […]
Per esprimere analiticamente il primo principio, consideriamo un corpo arbitrario che cambia di stato e prendiamo in esame la quantità di calore che deve essere comunicata ad esso durante questo cambiamento di stato. Indichiamo con il simbolo Q la quantità di calore in questione, tenendo conto che una quantità di calore ceduta dal corpo deve essere considerata come una quantità negativa comunicata al corpo stesso. Per un cambiamento infinitamente piccolo di stato, durante il quale la quantità corrispondente di calore comunicata al corpo è rappresentata da dQ, deve allora valere la seguente equazione:

 (1)                                  dQ = dU + A.dW

dove, poiché la costante può essere assunta a piacere, possiamo darle il valore uno. […]
Qui il simbolo U denota la quantità che io per primo introdussi nella teoria del calore con l’articolo pubblicato nel 1850, dove U era definita come la somma del calore libero e del calore consumato in lavoro interno. W. Thomson [Kelvin] ha più tardi suggerito, per la quantità U, il nome di energia del corpo. Ho adottato io stesso questa terminologia, giudicandola molto utile. […] Il simbolo W denota il lavoro esterno fatto dal corpo durante il cambiamento di stato, e A è l’equivalente termico dell’unità di lavoro. Pertanto A.W è il lavoro esterno misurato in unità di calore. […] Se, per brevità, indichiamo il lavoro esterno con un solo simbolo, ponendo:


                                               A.W = w
possiamo l’iscrivere la precedente equazione nella forma:

(1a)                                           dQ = dU + dw
.

Per esprimere analiticamente il secondo principio nella sua forma più semplice, assumeremo che le modificazioni subite da un corpo costituiscano un processo ciclico nel quale il corpo alla fine ritorna al suo stato originale. Indichiamo ancora con dQ un elemento del calore assorbito dal corpo e sia T la temperatura del corpo stesso (misurata a partire dallo zero assoluto) che è prevalente nel momento in cui esso assorbe l’elemento di calore. Qualora il corpo abbia temperature diverse nelle sue varie parti, T indicherà la temperatura di quella parte che assorbe il calore dQ. Se dividiamo l’elemento di calore per la temperatura assoluta corrispondente e integriamo l’espressione differenziale così ottenuta su tutto il ciclo, vale la seguente relazione:

(2)                                       

Il segno di eguaglianza deve essere usato quando tutti i cambiamenti che si realizzano nel processo ciclico sono reversibili. Se sono irreversibili, allora prevale la diseguaglianza [qui Clausius ha cambiato la convenzione sui segni che aveva ancora dato nel 1862. Tale cambiamento sarà da ora mantenuto, ndr]. […]
L’equazione (1a) esprime il contenuto della prima legge, vale per cambiamenti sia reversibili che irreversibili e può pertanto essere applicata ai processi reversibili senza modifica alcuna, a condizione che si sia ben capito che il lavoro esterno w e la quantità di calore Q si riferiscono a processi reversibili.
Se la relazione (2), che esprime il secondo principio, deve essere applicata a processi reversibili, dobbiamo in primo luogo capire che Q è la quantità di calore che si riferisce a processi reversibili, e, in secondo luogo, dobbiamo usare soltanto il segno di eguaglianza invece del segno ≤ . Quindi, per tutti i processi ciclici reversibili, abbiamo che:

(2a)                                             

    Finita la trattazione dei processi ciclici e reversibili, Clausius passava ai processi irreversibili:

[…] Procediamo ora a considerare i processi irreversibili, o, per lo meno, ad indicare brevemente come essi debbbono venir trattati. […] Se, come è affermato dalla (2a), l’integrale ∫(dQ/T) è sempre zero ogni volta che il corpo compie un ciclo completo di processi arbitrari così da tornare al suo stato originale, allora la quantità sotto il segno di integrale, e cioè dQ/T, deve essere il differenziale esatto di una quantità che dipende unicamente dallo stato in cui si trova il corpo e non dal modo con cui il corpo vi è giunto. Se indichiamo tale quantità con il simbolo S, possiamo scrivere che:
 

Se immaginiamo di integrare tale equazione nel caso di un processo reversibile arbitrario mediante il quale il nostro corpo può andare dallo stato iniziale prescelto sino allo stato finale, e se indichiamo con S0 il valore di S nello stato iniziale, allora abbiamo:

                                              
Questa equazione ci permette di calcolare S. […] L’equazione fondamentale data nell’articolo [del 1862] vale per tutti i cambiamenti di stato di un corpo che avvengono reversibilmente, e con essa si afferma che (variando leggermente la sua espressione di modo che risulti positivo il calore assorbito dal corpo piuttosto che quello ceduto):
 

Nel primo integrale a secondo membro H indica il calore effettivamente presente nel corpo, il quale, come già ho mostrato, dipende unicamente dalla temperatura e non dalla distribuzione dei componenti il corpo stesso. Da ciò segue che l’espressione dH/T è un differenziale esatto, e che, quando formiamo l’integrale ∫(dH/T) per la transizione del corpo dallo stato iniziale a quello finale, otteniamo una quantità che è completamente determinata da questi stati, senza che si debba conoscere il modo in cui la transizione si è realizzata. Ho dato a questa quantità il nome (per ragioni che ho già illustrato in precedenza) di valore di trasformazione del calore presente nel corpo.
Sembrerebbe ragionevole scegliere come stato iniziale del corpo quello in cui si ha che H = 0, e cioè quello in cui si è allo zero assoluto della temperatura. Tuttavia, in tal caso, l’integrale ∫(dH/T) diventa infinito. Per ottenere un valore finito dobbiamo partire da uno stato iniziale nel quale la temperatura ha un valore non nullo. Allora l’integrale non rappresenterà il valore di trasformazione di tutto il calore contenuto nel corpo, ma solo il valore di trasformazione della quantità di calore nello stato finale rispetto a quello iniziale. […] Indichiamo per brevità tale quantità con il simbolo Y.
La quantità Z nel secondo integrale a secondo membro è stata da me chiamata con il nome di disgregazione del corpo. Essa dipende dalla distribuzione dei componenti il corpo stesso. La misura di un aumento di disgregazione è il valore equivalente della trasformazione di lavoro in calore che deve realizzarsi al fine di compensare questo aumento di disgregazione. Pertanto può essere utile per sostituire l’aumento di disgregazione. Da questo punto di vista possiamo dire che la disgregazione è il valore di trasformazione della distribuzione già esistente delle parti componenti il nostro corpo. E poiché nella determinazione della disgregazione noi dobbiamo partire da un qualche stato iniziale, allora assumeremo che lo stato iniziale scelto sia quello stesso che era stato prescelto nella determinazione del valore di trasformazione del calore contenuto nel corpo.
Se ora facciamo la somma delle quantità Y e Z appena definite, allora troviamo la quantità S. […] Possiamo scrivere gli integrali che compaiono a secondo membro della nostra equazione nella forma seguente:

dove Y0 e Z0 sono i valori di Y e di Z che corrispondono allo stato iniziale.
In tal caso la nostra equazione assume la forma seguente:

                                        

Se poniamo:

                                             Y + Z = S

otteniamo l’equazione

    Introdotta la quantità S, Clausius si poneva subito il problema del come chiamare questa nuova funzione nei termini seguenti:

[…] Cerchiamo ora di dare un nome appropriato ad S. Possiamo dire che S indica il contenuto di trasformazione del corpo, cosi come diciamo che la quantità U è il contenuto di calore e lavoro del corpo stesso. Tuttavia, poiché sono dell’opinione che i nomi di quantità di questo tipo – che sono così importanti per la scienza – debbano essere ricavati dai linguaggi antichi al fine di introdurli senza modificazioni nei linguaggi moderni, propongo di chiamare la grandezza S con il nome di entropia del corpo, partendo dalla parola greca η τρoπή che significa trasformazione. Intenzionalmente ho formato il termine entropia in modo tale da renderlo il più simile possibile al termine energia: infatti entrambe queste quantità […] sono cosi strettamente connesse l’una all’altra dal punto di vista del significato fisico che mi pare utile una certa analogia anche nei loro nomi.

    Come si può osservare Clausius aveva elaborato un apparato teorico che, come egli stesso aveva premesso, aveva bisogno di verifiche (non solo) matematiche. Nelle sue ipotesi aveva introdotto diverse funzioni termodinamiche che avrebbero dovuto dare prova della loro utilità in apparati tecnici e sperimentali. Il concetto di entropia trovò moltissimi avversari e critici. La scienza termodinamica, in pochissimo tempo aveva fatto passi da gigante ed era complicato impadronirsi di tutti i concetti che essa introduceva. Ancora più complicato quando tali concetti sfuggivano alla ordinaria comprensione perché astratti, frutto di ingegnose ma difficili elaborazioni matematiche. Tra l’altro stava nascendo la fisica teorica che già di per sé sollevava problemi per i puristi. D’altra parte la divisione del lavoro, l’efficienza produttiva ormai non richiedeva più lo scienziato complessivo ma, appunto, successive e sempre più sofisticate specializzazioni se non parcellizzazioni. E siamo ancora ad una elaborazione teorica di un prestigioso scienziato qual era in quegli anni Clausius. Il dibattito divenne molto più duro e le critiche più violente quando Clausius assegnava un valore filosofico alle sue elaborazioni, come risulta dalla conclusione proprio della memoria in oggetto. Egli, pur con una certa prudenza, così scriveva:

Mi permetto infine di entrare in un argomento la cui trattazione completa sarebbe ora fuori luogo, poiché le asserzioni che sarebbero necessarie per una trattazione completa occuperebbero troppo spazio, ma che, sia pure nell’ambito di indicazioni brevi come le seguenti, non è privo di interesse: e questo perché si tratta di un argomento che contribuirà a far cogliere l’importanza delle quantità che io ho introdotto nella formulazione della seconda legge della teoria meccanica del calore.
La seconda legge, nella forma che io le ho dato, stabilisce il fatto che tutte le trasformazioni che avvengono in natura avvengono spontaneamente – e cioè senza compensazione alcuna – in una certa direzione che io ho assunto come positiva, e che esse possono svolgersi nella direzione opposta, o negativa, solo in modo tale da venir compensate da altre trasformazioni positive contemporanee. L’applicazione di questa legge all’universo porta ad una conclusione sulla quale W. Thomson ha per primo attirato l’attenzione degli studiosi e della quale io stesso ho già parlato in uno scritto pubblicato di recente. La conclusione è che se, fra tutte le modificazioni di stato che avvengono nell’universo, le trasformazioni che si sviluppano in una certa direzione superano in grandezza quelle che si sviluppano nella direzione contraria, allora la condizione generale dell’universo si modificherà sempre più lungo la prima direzione, e l’universo stesso tenderà continuamente ad avvicinarsi ad uno stato finale.
Si pone allora la questione se questo stato finale possa essere caratterizzato in un modo che sia semplice ed anche definitivo. E ciò può essere fatto trattando le trasformazioni come quantità matematiche. […]
Per ora mi limito ad annunciare, come risultato del mio argomento, che se noi pensiamo che quella quantità che io, in riferimento ad un solo corpo, ho chiamato entropia, sia stata elaborata in modo coerente e tenendo conto di tutte le circostanze e che essa sia applicata a tutto l’universo; e se la usiamo insieme all’altro più semplice concetto di energia; ebbene, allora possiamo esprimere in forma semplice le leggi fondamentali dell’universo che corrispondono alle due leggi fondamentali della teoria meccanica del calore:

1. L’energia dell’ universo è costante.

2. 1’entropia dell’universo tende a un massimo.

    Questa conclusione di Clausius, che egli ribadì con forza nel 1867 al Congresso di Francoforte degli Scienziati tedeschi decretando lo stato di morte immodificabile verso sui era avviato l’Universo, è in accordo con quella trovata da Kelvin sulla dissipazione dell’energia e in particolare con il fatto che in natura si tende a uno stato di energia degradata (tutta alla stessa temperatura) e perciò stesso non utilizzabile dall’uomo (in quanto abbiamo visto che occorrono differenze di temperatura per far funzionare delle macchine). L’entropia e il suo aumento rappresentano, in certo qual modo, un fattore di merito delle trasformazioni termodinamiche e possono raccontarci la storia dell’energia che si sta trasformando. L’energia tende a invecchiare e questo invecchiamento dipende dall’abbassamento di temperatura e dalla conseguente comparsa di calore: più la temperatura, a cui avviene lo scambio di calore, è bassa, più l’energia è invecchiata e più è grande l’entropia che è, appunto, rappresentata da Q/T.

    Arriviamo così a questa nuova grandezza fisica, l’entropia, che, allo stesso modo del tempo, ha una direzione fissata di svolgimento. Questa grandezza, nata in connessione con il 2° principio della termodinamica, aumenta sempre in ogni processo naturale e cioè in ogni processo irreversibile. Si tratta di una scoperta di enorme importanza, di un qualcosa assolutamente non comprensibile nell’ambito della fisica newtoniana e in particolare della meccanica. Tanto più che le variazioni di entropia sono strettamente connesse ad altre qualità fondamentali dei processi naturali che, anch’esse, per la prima volta compaiono nella descrizione e formulazione dei fenomeni e delle leggi fisiche: la reversibilità e l’irreversibilità. I fenomeni studiati dalla meccanica e le relazioni che li descrivono sono completamente reversibili e, paradossalmente, possono fare a meno della uniderizionalità del tempo; ora, con il 2º principio della termodinamica, si scopre che tutti i fenomeni naturali sono irreversibili, si svolgono cioè in modo tale da non poter essere invertiti, e quindi si fissa una direzione privilegiata, non solo per il tempo, ma anche per l’entropia. L’irreversibilità è mera conseguenza del fatto che in ogni processo naturale si sviluppa calore e, poiché quest’ultimo ha una direzione privilegiata di marcia (dai corpi caldi ai corpi freddi), ne consegue l’irreversibilità di tutti i fenomeni.

        È certamente strana la situazione in cui si trovava la fisica nella seconda metà dell’ Ottocento. Da una parte il 1° principio della termodinamica postula una uguaglianza tra lavoro e calore che può essere letta in ambedue i sensi e non pone alcun limite alle reciproche trasformazioni; dall’altra il 2° principio postula una dissipazione dell’energia e, conseguentemente, un limite alla trasformabilità del calore in lavoro e un limite (la morte calda dell’universo) a tutte le trasformazioni. Da una parte il 1° principio si può intendere come descrivente una reversibilità analoga a quella meccanica; dall’altra il 2° principio afferma l’irreversibilità di tutti i fenomeni naturali. Da una parte il calore della teoria dinamica è descrivibile mediante le equazioni reversibili della meccanica; dall’altra i processi fisici che comportano sviluppo di calore (tutti) sono irreversibili. Il terreno è pronto per una serrata critica alla meccanica, soprattutto se si pensa a quanto contemporaneamente si sviluppava in altri campi della fisica e principalmente all’introduzione, fatta da Faraday (1791-1867), della teoria di campo (azioni circolari e richiedenti tempo e non rettilinee, istantanee, a distanza) e agli sviluppi dell’ottica dei corpi in movimento (teoria ondulatoria per la spiegazione dell’interferenza e trascinamento dell’etere, sostanza quest’ultima dalle prodigiose proprietà). Nel frattempo si era aperta una strada, nello studio dei gas, lungo la quale sarebbe stato possibile superare le difficoltà termodinamiche cui abbiamo accennato: la teoria cinetica dei gas e la meccanica statistica.

    Nella sua ultima sede universitaria, Bonn, Clausius scrisse nel 1870, 1871 e 1873 i suoi ultimi importanti lavori di termodinamica, che contenevano il famoso teorema del viriale ed alcuni suoi ulteriori tentativi di chiarire il Secondo Principio, attraverso elaborazioni formali che intersecarono anche il Principio di minima azione. A partire dal 1875 il suo interesse si spostò verso l’elettrodinamica dove fornì una legge di conservazione dell’energia derivata da una legge di forza a distanza e dipendente da velocità ed accelerazioni sulla strada che Weber aveva aperto. Erano gli anni delle molte dispute su differenti priorità che accompagnarono Clausius. Ne ebbe con Kelvin, con Tait e con Maxwell ma non è proprio il caso di entrare in esse. Era ancora giovane Clausius, aveva intorno ai 50 anni, eppure altri fisici ancora più giovani si facevano avanti togliendo la scena a questi grandi mostri sacri. Si era seminato moltissimo e ci si trovava in molti settori completamente scoperti tentando di recuperare qualche certezza rifacendosi ai classici, alla meccanica antica. Si andrà avanti ancora per una trentina di anni con elaborazioni sempre più sofisticate, con invenzioni tese a salvare il salvabile. Ma la crisi si avvicinava a grandi passi.

Rudolf Clausius da un ritratto conservato nel Deutsches Museum di Monaco (foto di L. Pizzi tratta da Scienziati e Tecnologi)

    Questi ultimi anni saranno segnati dai lavori di giovani e brillantissimi fisici come Maxwell, Boltzmann, Gibbs ed altri, solo per restare nell’ambito della termodinamica che via via, attraverso la teoria cinetica, diventa meccanica statistica.

    Su questi autori mi soffermerò, per la parte termodinamica, nel prossimo articolo.

 Roberto Renzetti


NOTE

(1) E’ utile ricordare che nel 1843 Waterston aveva pubblicato a sue spese un libro sulla fisica della mente (Thoughts on the Mental Functions, Edimburgo 1843). Alla fine di tale lavoro vi era una nota, Note on the physical constitution of gaseous fluids and a theory of heat, che è una sorta di sunto del lavoro del 1846 inviato alla Royal Society. Ebbene, in tale nota fu per la prima volta introdotto il concetto di cammino libero medio (si veda la figura).

Waterston,la pagina di Note on the physical constitution of gaseous fluids and a theory of heat in cui si introduce il cammino libero medio (da Truesdell).

(2) Le memorie di Clausius sono numerate secondo l’ordine che hanno poi avuto nella pubblicazione che ebbero congiuntamente nel 1864 (ed in data successiva, 1876-1891, quando aumentarono le memorie di Clausius sull’argomento) in un testo, Abhandlungen über die Mechanische Wärmetheorie (Braunschweig, XVIII, 361 S., Abb), curato ed annotato dallo stesso Clausius. Un’altra memoria (la Quinta) di Clausius sulla teoria dinamica del calore era stata pubblicata nel 1856, Ueber die Anwendung der mchanischen Wärmetheorie auf die Dampfmaschine (Sull’applicazione della teoria meccanica del calore alle macchine a vapore, Annalen der Physik, 97, p.441)Varie altre memorie erano state invece pubblicate negli anni 1852 (Decima ed Undicesima), 1853 (Dodicesima) e 1857 (Tredicesima) ed erano relative all’applicazione della teoria dinamica del calore ai fenomeni elettrici, alla termoelettricità ed all’elettrolisi. Altre ancora sono: la Sesta (Un’applicazione del teorema dell’equivalenza delle trasformazioni al lavoro interno, 1862), la Settima (Su un assioma della teoria dinamica del calore, 1863), l’Ottava (Sulla concentrazione di radiazione di calore e luce …, 1863), la Nona (Su qualche conveniente espressione delle equazioni fondamentali della teoria dinamica del calore, 1865) che discuterò nel testo.

La Teoria meccanica del calore di Clausius si può trovare sul web in due parti: la prima parte in lingua inglese che contiene le memorie dalla 1 alla 9 e  la seconda parte in lingua francese che contiene le memorie dalla 10 alla 17. Come libri vi sono i due volumi in uno in lingua francese che raccolgono tutte le memorie di Clausius sulla Teoria dinamica del calore, editi nel 2000 dalle ottime Éditions Jacques Gabay (151 bis, rue Saint-Jacques – 75005 Paris) che continuano ripubblicando opere introvabili di scienziati del passato.

Clausius, R. (1865). The Mechanical Theory of Heat – with its Applications to the Steam Engine and to Physical Properties of Bodies. London: John van Voorst, 1 Paternoster Row. MDCCCLXVII.

(3) Nota di Clausius: In accordo con un uso che recentemente è divenuto generale e con quanto io stesso ho fatto in memorie precedcenti, indico il semiprodotto della massa per il quadrato della velocità con il nome di vis viva. Infatti solo questa definizione del concetto rende possibile, senza aggiungere coefficienti, eguagliare le espressioni che rappresentano rispettivamente una quantità di lavoro e l’aumento o la diminuzione della vis viva corrispondente.

(4) Vi è da osservare che l’interesse sollevato dalla polemica interessò il pubblico scientifico tra cui Maxwell che leggerà questa memoria in traduzione nel 1859. Maxwell riporterà la problematica in Gran Bretagna ed interesserà alla questione anche Boltzmann, come vedremo. Insomma la teoria cinetica è improvvisamente adulta e molto in fretta diventerà meccanica statistica.

Osservo a parte che Van der Waals affermò di aver tratto ispirazione da questa memoria per elaborare la sua equazione dei gas reali.

(5) Il seguito del calcolo lo riporto qui in nota per non appesantire il discorso. Nel testo riporto i risultati che Clausius aveva trovato.

Prendiamo dapprima uno strato di spessore 1, e indichiamo con la frazione dell’unità a la probabilità che il punto attraversi questo strato senza incontrare alcuna sfera d’azione: allora la probabilità corrispondente nel caso di uno strato di spessore 2 sarà a2, Infatti se immaginiamo di dividere un simile strato in altri due aventi spessore 1, la probabilità che il punto passi liberamente attraverso il primo giungendo al secondo deve essere moltiplicata per la probabilità che esso possa attraversare anche il secondo. Analogamente, per uno strato di spessore 3, avremo a3, eccetera; e per uno strato di spessore x potremo conseguentemente scrivere ax. Trasformiamo questa espressione ponendo e – α in luogo di a, dove e è la base del logaritmi naturali, e – α = logea, dove il logaritmo deve essere negativo in quanto a è minore di 1. Se ora indichiamo con W la probabilità di un passaggio libero attraverso uno strato di spessore x, avremo l’equazione seguente:
 

(1)                            

e dovremo soltanto determinare la costante α.
Prendiamo ora in considerazione uno strato cosi sottile da poter trascurare le potenze dello spessore superiori alla prima. Indicando con δ questo spessore e con Wδ la probabilità corrispondente, la precedente equazione diventa:

(2)                       

In questo caso la probabilità può anche essere determinata in base a considerazioni speciali. Poniamo attenzione ad un piano dello strato che sia parallelo ai piani che delimitano quest’ultimo, e supponiamo che tutte le molecole i cui centri giacciono all’interno dello strato vengano spostate perpendicolarmente allo strato in questione in modo tale che i loro centri vadano a cadere tutti quanti sul piano prescelto. Ora dobbiamo unicamente chiederci quanto grande sia la probabilità che il punto, nel suo passaggio attraverso il piano, non incontri alcuna sfera d’azione: e questa probabilità può essere semplicemente rappresentata dal rapporto tra due aree. Consideriamo tutta la parte del piano che cade entro lo spazio dato: una sua porzione è ricoperta dalle sezioni massime delle sfere d’azione centrate su di esso, mentre la porzione rimanente è libera per il passaggio; e la probabilità di un passaggio che non subisca interruzioni è pertanto espressa dalla relazione che esiste tra la porzione libera  del  piano  e  il piano  stesso nella sua interezzaIn base al metodo con cui è stata determinata la densità, segue che in uno strato di spessore λ debbono essere contenute tante molecole quante ne possono stare in una configurazione ottenuta mediante l’ipotesi secondo la quale le molecole vengono trasportate su un medesimo piano parallelo ai piani limite dello strato e qui distribuite su strutture quadrate, di modo che sia eguale a λ il lato dei piccoli quadrati nei cui vertici vengono a trovarsi i centri delle molecole. Ne segue che il rapporto tra la parte di piano coperta dalle sezioni massime delle sfere d’azione e la parte rimanente è pari al rapporto tra una sezione massima e un quadrato di lato λ. Ragion per cui l’area della superficie coperta è espressa dalla frazione seguente:

dell’area dell’intera superficie. Al fine di valutare la grandezza corrispondente nel caso di uno strato di spessore δ dobbiamo soltanto moltiplicare la frazione ottenuta per δ/λ, e cioè:

e se sottraiamo questa grandezza da 1, la differenza che otteniamo rappresenta la porzione libera del piano come frazione dell’intero piano.
Conseguentemente, la probabilità che il punto attraversi il nostro piano, o, esprimendo con altre parole la stessa questione, la probabilità che il punto passi attraverso uno strato di spessore δ senza incontrare ostacoli è determinata dall’equazione seguente:

(3)                              

Se confrontiamo questa espressione di Wδ con quella che è data dalla (2) otteniamo che:

(4)                                 

ed allora l’equazione generale (l) si trasforma nella seguente:

(5)                                 
 


BIBLIOGRAFIA

(1) AA. VV. – Scienziati e Tecnologi dalle origini al 1875 – EST Mondadori 1975

(2) Emilio Segrè – Personaggi e scoperte nella fisica classica – EST Mondadori 1983

(3) Yehuda Elkana – La scoperta della conservazione dell’energia – Feltrinelli 1977

(4) Thomas S. Khun – La conservazione dell’energia come esempio di scoperta simultanea – in: Thomas S. Kuhn – La tensione essenziale – Einaudi 1985

(5) Enrico Bellone – I nomi del tempo – Bollati Boringhieri, 1989

(6) Enrico Bellone – Le leggi della termodinamica da Boyle a Boltzmann – Loescher 1978

(7) A. Baracca, A. Rossi – Materia ed energia – Feltrinelli 1978

(8) Mario Gliozzi – Storia della fisica – in: N. Abbagnano (diretta da) – Storia delle Scienze, UTET 1965

(9) René Taton (diretta da) – Storia generale delle scienze – Casini 1965

(10) C. Truesdell – Essay in the History of Mechanics – Springer-Verlag 1968

(11) J.G. Crowter – British Scientists of the Nineteenth Century – Hesperides Press, 1935

(12) E. Whittaker – A History of the Theories of Aether and Electricity – Nelson and Sons, 1953

(13) Michael Guillen – Le cinque equazioni che hanno cambiato il mondo – Longanesi 1997

(14) Cesare Maffioli – Una strana scienza – Feltrinelli 1979

(15) Cesare Maffioli – La genesi del concetto di entropia – Giornale di Fisica, Vol. 21, gennaio-marzo 1980.

(16) Max Planck – Autobiografia scientifica – Einaudi 1956

(17) Articoli di Enrico Bellone su: Paolo Rossi (diretta da) – Storia della scienza – UTET 1988



Categorie:Senza categoria

Rispondi