LE MISURA DELLA VELOCITA’ DELLA LUCE DI RÖEMER, DI FIZEAU E DI FOUCAULT. L’ABERRAZIONE ANNUA DELLE STELLE (BRADLEY).

RÖEMER (1676)

La prima misura della velocità della luce c fu eseguita da Röemer a Parigi nel 1676. II suo metodo è astronomico, nel senso che egli si servì delle eclissi di Io, uno dei satelliti di Giove. La situazione astronomica alla base dell’esperienza di Röemer è illustrata, in figura 7 (dove T1 , T2, …, sono successive posizioni della Terra  nella sua orbita intorno al Sole cui competono, rispettivamente, le velocità v1,v2, …; analogamente G1,G2, …sono successive posizioni di Giove nella sua orbita intorno al   Sole cui competono le velocità vg, infine I rappresenta il satellite di Giove, Io). La prima cosa da dire è che il piano dell’orbita di Io intorno a Giove coincide con quello dell’orbita di Giove e della Terra

Figura 7

intorno al Sole. Stando così le cose, Io si eclissa ad ogni sua rivoluzione intorno a Giove, cioè ad ogni tempo T che teoricamente dovrebbe essere costante (e certamente lo è se le osservazioni le eseguiamo da Giove).

        Dallo studio di innumerevoli precedenti osservazioni eseguite insieme all’astronomo G.D. Cassini (1625-1712) e da una idea che era stata dello stesso Cassini (1675), Röemer avanzò l’ipotesi che la luce avesse una velocità finita. Questa sembrava essere l’unica spiegazione che egli riusciva a trovare di strane irregolarità nelle eclissi di Io. Cerchiamo di capire di cosa si tratta.

        Ci sono dei periodi dell’anno in cui la Terra si trova più vicina a Giove, mentre in altri periodi la Terra si trova più lontana da questo pianeta. Tra queste due posizioni estreme della Terra rispetto a Giove vi sono, evidentemente, tutte le altre che la Terra occupa o in allontanamento o in avvicinamento a Giove. Ebbene, le osservazioni di Röemer e Cassini mostravano che, tra le due posizioni estreme della Terra rispetto a Giove (T1e Tdi  figura 7), quando la Terra risultava in allontanamento da Giove (ad esempio: posizione T2 di figura 7) le eclissi di Io diventavano via via più lunghe; quando invece la Terra risultava in avvicinamento a Giove (ad esempio: posizione Tdi figura 7) le eclissi di Io diventavano via via più brevi. Questo fenomeno fu interpretato da Röemer come originato dal fatto che, durante l’allontanamento della Terra da Giove, ogni sparizione di Io nell’ombra di Giove ha luogo quando la Terra è più distante da Giove di quanto non lo fosse alla sparizione precedente e ciò significa che la luce per giungere sulla Terra deve percorrere una distanza maggiore.

         Seguiamo il ragionamento di Röemer dalle sue stesse parole (Bibliografia di Relatività n° 89 pagg. 328-330) servendoci della figura 8.Dice Röemer:

  “Supponiamo  che  A  rappresenti  il  Sole  ,  B Giove,  C  il  primo  satellite quando entra nell’orbita  di Giove, per uscire

Figura 8

nuovamente in D, e che EFGHLK rappresentino la Terra a differenti distanze da Giove.

        Supponiamo ora che quando la Terra sta in L … il primo satellite si veda emergere in D; e che circa 42 ore e mezza più tardi, cioè dopo una rivoluzione di questo satellite, stando la Terra in K, si veda di nuovo il satellite tornare in D. E’ chiaro allora che se la luce richiede tempo per percorrere la distanza LK, il satellite sembrerà tornare in D più tardi di quanto non avrebbe fatto se la Terra fosse rimasta in K; in questo modo la rivoluzione del satellite, determinata dalle sue emersioni, sarà più lunga di tanto tempo quanto quello impiegato dalla luce per andare da L a K, e, al contrario, nelle altre posizioni FG, nelle quali la Terra va incontro alla luce, le rivoluzioni determinate mediante le immersioni [nelle zone d’ombra] sembreranno diminuite  di tanto quanto le altre, determinate mediante le emersioni, sembravano aumentate…..                  

           Questa differenza [del periodo di rivoluzione del satellite]   che non è apprezzabile in due rivoluzioni, risulta molto considerevole quando se ne considerano varie insieme e, per esempio, quaranta rivoluzioni osservate dalla parte  di F, sono sensibilmente più brevi di quaranta osservate dall’altro lato, qualunque sia la posizione in cui Giove si trovi; questa differenza vale  22 minuti per tutta la distanza HE, che è due volte la distanza della Terra dal Sole”.

           I dati che Röemer aveva a disposizione erano quindi:

– il tempo (t = 22 minuti) che la luce impiega a percorrere il diametro dell’orbita della Terra intorno al Sole;

– il diametro (d = 28.1010 m) di questa orbita.

Il primo dato era stato ricavato dalle sue misure (il dato oggi più attendibile è t = 16 minuti e 36 secondi) mentre il secondo dato proveniva da osservazioni d’altro tipo che all’epoca si erano fatte (ad opera di Cassini e Richer si era trovato – 1673 – per d il valore d ≈ 280.000.000 Km; mentre il valore oggi comunemente accettato è d  299.000.000 Km).

        La velocità della luce era quindi data da:

 c = d/t = 28.1010 m/22.60 sec = 2,1.108 m/sec = 210.000 Km/sec

valore molto distante da quello che oggi si ritiene più vicino corretto (c = 2,997925.108 m/sec) ma molto vicino come ordine di grandezza.

        Osservazioni più accurate dei satelliti di Giove, fatte da J.B.J. Delambre (1749-1822) alla fine del  ‘700 – portarono per t ad un valore di 16 minuti e 26 secondi,  mentre d si era stabilito che valesse 30,6.1010 m. Con questi dati  si trova c = 310.000 Km/sec.        

        Vorrei   osservare   solo   una  cosa:   ho   consultato   decine   di   testi   per   avere il valore di c ricavato da Röemer e non lo ho trovato da nessuna parte, o per meglio dire ne ho trovati altrettanti diversi. Risalendo però ai dati dell’epoca ho potuto concludere (salvo smentite) che tutti i dati da altri riportati sono quantomeno fantasiosi (solo i testi per i licei di Cini – De Maria – Gamba e di Vespi riportano valori simili a quello da me fornito): a prescindere dalla distanza Sole -Terra, è determinante il tempo impiegato dalla luce per percorrere tale distanza e, proprio dai dati di Röemer, trovo 22 minuti. Tutto ciò mi fa concludere che Röemer aveva trovato per c un valore inferiore a quello oggi accettato (e non superiore).

FIZEAU (1849)

        Fizeau fu il primo che riuscì ad effettuare misure di c sulla Terra. Nella sua esperienza, il cui schema è riportato in figura 9, un fascio luminoso, proveniente da una sorgente S (il Sole), subisce una riflessione sullo specchio semitrasparente M1 posto a 45° rispetto all’asse della strumentazione; quindi confluisce sulla lente L3 , che lo rende

Figura 9

parallelo, fino ad arrivare alla lente L4 , dopo aver percorso la distanza d (nell’esperienza originale: d = 8.633 m); infine si riflette sullo specchio concavo M2; ripercorre lo stesso cammino fino ad M1  e da qui va all’oculare L5  dove è posto l’osservatore O.

       Durante il suo tragitto, sia all’andata che al ritorno, il fascio luminoso proveniente da S subisce interruzioni nel punto A del sistema, in cui è posta una ruota dentata R girevole sul suo asse (parallelo a quello del sistema) .

       La ruota ha un numero q di denti (essi sono naturalmente l’uno uguale all’altro e di dimensioni identiche agli spazi vuoti tra dente e dente). Quando un dente si trova nel punto focale A del fascio luminoso, evidentemente, la luce non passa; quando in quel punto vi è lo spazio libero tra dente e dente, allora passa luce.

       A ruota ferma si dispongono i denti in modo che la luce passi e l’osservatore O veda dall’oculare L5  un punto luminoso. Quando la ruota gira, se ad un dato istante la luce passa attraverso un vano libero, essa, data la sua elevatissima velocità riesce, al ritorno da M2 , a ripassare attraverso lo stesso vano libero. Questo per velocità della ruota relativamente basse. Quando la ruota gira a velocità crescenti, il punto luminoso viene distinto in modo sempre più debole. Quindi, ad una data velocità di R, il punto luminoso sparisce (nell’esperienza originale ciò avveniva quando R aveva acquistato una velocità di 12,6 giri al secondo; vedi figura 10). Se continuiamo ad aumentare ancora la velocità

Figura 10

della ruota, il punto luminoso inizia a riapparire con una intensità prima crescente quindi decrescente finché sparisce di nuovo quando la velocità della ruota diventa doppia, tripla,…di quella corrispondente alla prima eclissi.

       Questo fatto si interpreta nel modo seguente: all’inizio, quando la ruota è ferma e la luce può passare nel vano libero tra due denti, la luce va da M1  ad M2 , qui si riflette e torna (attraverso il vano libero) ad M1  (e quindi ad O). Man mano che la ruota aumenta la sua velocità, tra l’andata ed il ritorno della luce in A, un dente si sarà spostato sempre di più andando via via a rimpiazzare il vano vuoto che prima si trovava in A. Ciò significa che, ad una data velocità della ruota (ad esempio 6 giri al secondo), la luce partita da A, tornando da M  trova in A un vano più stretto (quasi della metà) di quello che aveva a ruota ferma (ora in A c’è mezzo dente e mezzo vano libero). Quando si arriva ai 12,6 giri al secondo (nel caso dell’esperienza originale) il fascio, tornando da M2  ad A, incontra un dente; pertanto da O si vedrà buio. All’ulteriore aumento di velocità, la luce, passata all’andata attraverso un vano libero, troverà al ritorno in A un vano sempre meno occupato dal dente che vi si trovava quando la velocità era di 12,6 giri al secondo. In definitiva, a convenienti velocità della ruota R, da O si vedrà o luce o buio, passando attraverso tutte le intensità intermedie di luce.

        II tempo che la luce impiega per andare da A, riflettersi su Me tornare indietro, sarà uguale al tempo necessario ad un dente della ruota per occupare il vano precedentemente libero: questo tempo lo si può calcolare dalla velocità della ruota e dal numero dei denti (nell’esperienza originale erano 720, la sorgente era una potente lampada ad arco ed il numero dei giri veniva misurato da un apposito contatore; per maggiori dettagli vedi il lavoro originale in bibl. 89, pagg. 381-382). Se ad esempio la ruota fa n giri al secondo ed i suoi denti sono in numero di q, occorreranno 1/νq secondi perché un dente vada a sistemarsi nel posto occupato dal precedente ed 1/2νq secondi perché esso vada a sistemarsi nel vano libero, precedente.

        Supponiamo ora che la ruota giri con una velocità angolare ω:

w = 2πν = 2π/T  ->  T = 2π/ω

 (si percorre un giro completo 2p in un periodo T). Poiché q è il numero dei denti, si ha che 2q è il numero dei denti e degli spazi vuoti tra dente e dente. Allora il tempo t1 necessario affinché uno spazio vuoto venga rimpiazzato dal dente successivo, sarà dato dal tempo T necessario a fare un giro completo diviso il numero 2q dei denti e dei vani vuoti:

t= T/2q = π/qω 

D’altra parte il tempo t1, necessario a rimpiazzare un vano vuoto con un dente, se è uguale al tempo t2  che la luce impiegherebbe per andare da A ad M2 e poi tornare all’osservatore, è proprio il tempo necessario perché da O si veda buio.

       Ricordando che t2 è dato dalla distanza 2d percorsa dalla luce a velocita’ c:

  t= 2d/c,

uguagliando quest’ultima espressione con quella trovata per t1 si ha:

  t= t1      ->   π/qω = 2d/c    ->         c = 2dqω/π = 4πdqν/π = 4dqν.  

        Sostituendo i valori assegnati alle varie grandezze ed osservando che Fizeau lavorava con un n che valeva circa 12,6 giri/sec, si trova:

       c = 4. 8633.720.12,6 m/sec= 3,13. 10 m/sec = 313.000 Km/sec.

  Questo valore è più alto di quello oggi accettato, ma l’esperienza era fatta senza troppe pretese di precisione (soprattutto nella misura di n nascevano difficoltà).

          E’ importante osservare che la velocità della luce così misurata è una media su un tragitto percorso due volte in verso opposto. Questa osservazione è oggi inessenziale (data la riconosciuta indipendenza di c dalla velocità del corpo che emette luce) ma, all’epoca, certamente non lo era poiché, dato il principio classico di relatività, bisognava tener conto della composizione della velocità c  almeno col moto della Terra (o con un etere che nelle ipotesi più accreditate – Fresnel –  doveva essere parzialmente trascinato dalla Terra). In ogni caso, poiché il percorso in considerazione è una andata ed un ritorno è lecito supporre che, alla fine, gli effetti di composizione delle velocità si compensino eliminandosi reciprocamente.

        In chiusura è importante notare quanto afferma E. Persico a pag. 354 di bibl. 88:

La ruota…interrompe periodicamente la luce. Le intermittenze sono osservabili finché si susseguono con frequenza non superiore a 10 per secondo; aumentando la frequenza oltre questo limite, per la persistenza delle immagini sopra la retina, l’occhio percepisce senza interruzione l’immagine della sorgente luminosa. Ma aumentando gradatamente la velocità di rotazione della ruota, giunge un momento in cui l’immagine della sorgente luminosa scompare.

FOUCAULT (1850)

        II metodo di Foucault fu il primo che permise misure di c all’interno di una stanza di laboratorio. Lo schema dell’apparato usato da Foucault è illustrato in figura 11. La luce, proveniente dalla sorgente S, passa attraverso lo

  Figura 11

specchio semitrasparente M1  (posto a 45° rispetto all’asse dell’apparato), quindi attraversa la lente convergente L1  e poi va a riflettersi sullo specchio M2  che è girevole intorno al suo asse (perpendicolare al piano di figura e passante per C). Dopo la riflessione su M2  (supposto in una fissata posizione) la luce va a riflettersi (S1  è l’immagine di S) sullo specchio concavo M3  (il centro di curvatura dello specchio M3 è il punto C, asse su cui ruota lo specchio M2), quindi torna su se stesso e attraverso M, L1 , M1, mediante una riflessione su quest’ultimo, va a finire su R (che e’ un vetrino trasparente graduato). Da O, attraverso l’oculare L2, osserviamo la posizione assunta dal raggio di luce dopo il tragitto descritto. E questo per una data posizione dello specchio girevole M2  (linee a tratto continuo di figura 11). Quando M2  risulta appena spostato, rispetto alla posizione riportata in figura, il tragitto dei raggi di luce sarà diverso e, anziché andare a concentrarsi nel punto A di R, essi si incontreranno nel punto A’ di R (linee tratteggiate di figura).

        E’ chiaro così che, a posizioni diverse di M2, corrispondono immagini diverse dei raggi riflessi su R (che possono essere viste e misurate).

         Supponiamo ora che M2  inizi a ruotare. Durante questa rotazione, l’immagine S1  di S descrive una circonferenza e soltanto in un piccolo tratto lungo il suo cammino incontrerà la superficie riflettente di M3 . Quando il fascio incontra M3  si produce una immagine su R. Questa immagine sarà intermittente per basse velocità di M2  (vedi quanto detto in proposito nella descrizione dell’esperienza di Fizeau) e l’intermittenza cesserà solo quando si supererà un opportuno valore di soglia per questa velocità.

         Supponiamo allora che  M2  ruoti ad una velocità angolare w molto elevata. Durante il tempo in cui un raggio di luce, riflesso da M2 , va a riflettersi su M3  per poi ritornare su M2  (ha cioè percorso il tragitto CS1C = 2D) lo specchio è ruotato di un dato angolo α (piccolo). La velocità angolare (angolo α percorso nell’unità di tempo t) sarà data da:

  ω = α/t         ->           α = ωt

Osservando ora che t è il tempo impiegato dalla luce (velocità c) a percorrere il tragitto 2D, si ha:

t = 2D/c

e sostituendo questo valore nell’ultima relazione scritta, per α si trova:

α = 2Dω/c 

        A questo punto consideriamo il raggio che, ritornato da M3  su M2 ,si riflette di nuovo andando verso L1  e quindi, tramite M1 , al vetrino graduato. Anche questo raggio, riflesso da M2 , avrà subito una rotazione pari, questa volta, a 2α (ricordiamo che se uno specchio ruota di α, il raggio riflesso ruota di 2α). Se S2  era la sorgente virtuale che produceva l’immagine A, la nuova immagine A’ è come se fosse prodotta, dalla sorgente virtuale S3 . Considerando allora il triangolo S2CS3  (lo consideriamo come triangolo anziché come settore circolare perché, data la piccolezza, di 2α, l’arco S2S3  si confonde con la corda sottesa), che è rettangolo in S2 , con una nota relazione di trigonometria si trova:

S2S3   =  D.tg2α

e, tenuto conto della piccolezza di α, la tangente si può approssimare all’arco, cioè:

                                               S2S3  = D.2α

Bisogna, a questo punto, considerare che la distanza S2S3  è relazionata alla distanza AA’ = d per il fatto che tra S2S3  e AA’ vi è la lente L1 . Occorre quindi  ricordare  la formula che ci fornisce l’ingrandimento i:

 i = AA’/S2S3  = p/q

da cui:

AA’ = S2S3.p/q   

dove:

  p = a               ;               q = b + D

Si ha allora:

  AA’ = S2S3. a/b+D

Sostituendo ad AA’ e ad S2S3  i loro valori, si trova:

  d = D.2α .a/b+D

sostituendo ora ad α il valore precedentemente trovato si ha:

 d = D.2(2dω/c).(a/b+D)            ->          d = 4D2aω/c (b+D)

da cui, ricavando c, abbiamo la relazione cercata:

c = 4D2aω/d (b+D)

Come si vede tutte le grandezze che compaiono in questa espressione sono misurabiIi direttamente, basta pertanto fare le debite sostituzioni per ottenere il valore di c. Poiché, in generale, d è molto piccolo rispetto a D, esso si può trascurare. La formula diventa allora:

  c = 4Daω/d = 8πDaν/d

avendo posto ω = 2πν (con ν = frequenza o numero di giri al secondo).

         Sostituendo qui i valori a disposizione di Foucault:

D = 4m; d = 0,8 mm;  ν = 705 giri/sec ; a = 3 m ;• (b = 1,18 mm); si trova:

  c = 298.000 Km/sec

che è un valore molto vicino a quello che noi oggi comunemente accettiamo.

        Prima di passare a Bradley, osservo, come già fatto, con Persico (bibl. 88, pag. 358) che:

” L’interpretazione di queste esperienze non è così semplice come potrebbe apparire dalla teoria elementare che abbiamo svolta. Giacché non siamo autorizzati senz’altro a ritenere che la riflessione della luce avvenga sopra uno specchio rotante a grande velocità con le stesse leggi colle quali avviene sopra uno specchio fermo “.

        In ogni caso la teoria elaborata da Foucault teneva conto di tutto ciò. Altra osservazione riguarda l’enorme velocità di rotazione dello specchio che Foucault era riuscito ad ottenere utilizzando una elementare macchina a vapore (!): del vapore, prodotto all’interno di un tubo, faceva girare una piccola turbina sul cui asse era collegato lo specchio. Per dettagli riguardanti gli aspetti costruttivi si può vedere bibl. 93, Vol. 4, pagg. 421-422.  Ultima osservazione è relativa proprio all’apparato sperimentale: esso si presta bene a misurare c in mezzi diversi dall’aria disponendo nel tratto CS= D un tubo pieno della sostanza nella quale si vuole misurare c (ad esempio acqua).

       Nella figura 12 è riportato l’apparato che permetteva la rotazione dello specchio e nella 13 è riportato lo schema dell’accoppiamento della elementare macchina a vapore con la turbina (in V arriva il vapore; in T viene essiccato; r è la turbina; m è lo specchio rotante; b contiene dell’olio che serve alla lubrificazione, esso è spinto da aria proveniente dai flaconi t e t’; o è un sistema che serve a mettere in asse lo specchio m con la turbina r).

Figura 12

Figura 13

L’ABERRAZIONE STELLARE (BRADLEY 1728)

        Bradley, osservando la stella gamma del Dragone in differenti periodi dell’anno, notò strane ed inspiegabili variazioni nella posizione dell’astro. Successivamente indirizzò la sua attenzione su altre stelle e sempre poté osservare variazioni di posizione della stessa stella in differenti periodi dell’anno; qualunque stella si osservasse, soprattutto se in posizione sensibilmente perpendicolare al piano dell’eclittica, sembrava descrivere sulla volta celeste una specie di piccola ellissi   (figura 14).

Figura 14

         La prima cosa che poteva venire in mente era che si trattasse di un fenomeno di parallasse stellare. Tale fenomeno si ha quando osservando le stelle da posizioni diametralmente opposte dell’orbita della Terra, intorno al Sole, si vedono proiettate sulla volta celeste in posizioni, anche se di poco, diverse. L’angolo  sotto cui  si vede la stella, a sei mesi di distanza è l’angolo P di parallasse (figura 15). E’ evidente che P varia al variare della distanza della stella dalla Terra.     Si noti che le osservazioni delle stelle venivano fatte, all’epoca, proprio per trovare la parallasse stellare da. cui dedurre il moto della Terra  intorno al Sole.

Figura 15

            Bradley notò che la modificazione delle posizioni apparenti riguarda tutte le stelle; quando è trascorso un anno tutte le stelle vengono osservate di nuovo nella posizione che occupavano un anno prima; l’ampiezza degli spostamenti di tutte le stelle è la stessa (fatto in contrasto con la spiegazione mediante la parallasse poiché, in questo caso, si  dovrebbe concludere che tutte le stelle si trovano alla stessa distanza dalla Terra ed a questo proposito si veda la nota 84 di bibl. 3, pag. 78); il fenomeno è analogo alla parallasse ma rispetto a quello è in ritardo di sei mesi; gli spostamenti osservati hanno direzioni diverse da quelle che in caso di parallasse si sarebbero dovute avere (nella direzione della congiungente Sole-Terra) e cioè gli spostamenti osservati risultano nella direzione del moto della Terra (che e’ perpendicolare alla congiungente Sole-Terra ; si veda figura 14).

         Bradley riuscì a dare una spiegazione di ciò risalendo alla composizione della velocità della Terra nella sua orbita con quella della luce proveniente dalla stella osservata. Si osservi che alla base di questa spiegazione vi sono due ipotesi fondamentali: a) la Terra si muove intorno al Sole; b) la luce si muove con velocità c finita. Cerchiamo di capire il fenomeno riferendoci ad una immagine che certamente tutti conosciamo. Quando piove (in una giornata senza vento) la pioggia cade perpendicolarmente al suolo. Se aspettiamo un autobus terremo l’ombrello in modo che la sua asta rimanga ben parallela al nostro corpo. Quando quest’asta risulta inclinata ci troviamo bagnati. Supponiamo ora di dover correre per prendere l’autobus. Come disponiamo l’ombrello ? Certamente tutti, per esperienza, sapranno che, rispetto al nostro corpo, l’ombrello deve essere inclinato nella direzione del moto; e questo perché a chi corre sembra che la pioggia non cada più perpendicolarmente sulla Terra ma obliquamente, come se partisse da una posizione  situata davanti  a lui  ed arrivasse  sul  suo corpo.  In questo caso si compongono la velocità della pioggia e la nostra, ed essendo queste l’una perpendicolare all’altra, la risultante  è obliqua (l’inclinazione della risultante dipende evidentemente dalle velocità relative della pioggia e nostre: più corriamo e più dobbiamo inclinare l’ombrello).

         Nel caso dell’aberrazione stellare si hanno attori diversi ma la rappresentazione è la stessa; in questo caso scambiamo la velocità di caduta della pioggia con la velocità della luce e la nostra velocità con la velocità della Terra intorno al Sole.

         Ed allora supponiamo di voler osservare una stella (che per semplicità supponiamo in direzione perpendicolare al piano dell’eclittica) . Se la Terra fosse ferma dovremmo puntare il telescopio verso l’alto, sulla stella, proprio in direzione parallela alla congiungente la stella con noi (figura 16 a). Viceversa, considerando la Terra in moto, se

Figura 16

mantenessimo il telescopio in direzione verticale accadrebbe che un raggio di luce , arrivato all’obiettivo A del telescopio, non riuscirebbe a raggiungere l’oculare O dello stesso poiché, nel tempo che la luce impiegherebbe a percorrere il tratto AO, la Terra si e’ spostata (nella sua orbita intorno al Sole) di un tratto Ds. In questo modo la luce proveniente dalla stella, entrata in A, andrebbe a finire su una parete laterale del telescopio, senza raggiungere O, poiché O, nell’istante in cui il raggio sarebbe dovuto giungervi, si trova in O’ (figura 16 b).

         In definitiva il telescopio deve essere posto in modo da formare un (piccolo) angolo a con la perpendicolare alla direzione lungo cui cammina la Terra (figura 16 c); ed in questo modo la stella ci apparirà nella direzione OS’, pur trovandosi nella direzione OS (il fenomeno dell’aberrazione stellare consiste proprio in una deviazione apparente delle stelle dal lato verso cui marcia la Terra). La situazione all’interno del telescopio è descritta dalla figura 16 d. Se chiamiamo con c la velocità della luce, con v la velocità della Terra (nella sua orbita intorno al Sole), con Δt il tempo impiegato dalla luce a percorrere il tratto d di figura (lunghezza del telescopio), avremo che d = c.Δt e Δs = v.Δt (nello stesso tempo impiegato dalla luce a percorrere il tratto d, la Terra ha percorso il tratto Δs).

        In definitiva, mediante una nota relazione trigonometrica, si trova:

  tg α = Δs/d = v.Δt/c.Δt = v/c

Data allora v = 30 Km/sec e ricavato sperimentalmente d  20”, si risale facilmente a c:

  c = v/tgα

Ad un valore di α molto piccolo corrisponde un valore molto piccolo di tg α   e,  conseguentemente  un  valore  di  c  molto  grande.  Dato  che  tg  20 ” ≈ 1/10000, si trova:

  c =  300 .000 Km/sec.

A questo punto Bradley, scoperta l’aberrazione, pensò di separarne l’effetto dalle successive osservazioni per cercare di trovare quella prova che accora mancava del moto della Terra intorno al Sole, la famosa parallasse. Niente da fare, la parallasse non si osservava. Oggi sappiamo che l’impresa era impossibile nel 1727: gli strumenti a disposizione di Bradley permettevano di apprezzare il secondo di grado e ciò non bastava. Solo nel 1838 fu possibile osservare la parallasse stellare ad opera, indipendentemente, di F. W. Bessel (1784-1846) e’ di F. W. Struve (1793-1864), che risultò dell’ordine di m secondo di grado su una distanza di circa tre anni e mezzo luce.

                  E’ interessante una piccola digressione in chiusura di questo argomento (vedi nota 305 del testo). Nel 1766 Boscovich, in una lettera a Lalande,  sostenne che usando il metodo di Bradley sarebbe stato possibile misurare la velocità della luce nell’acqua semplicemente riempiendo il telescopio d’acqua.

          Fresnel, studiata l’esperienza, ne predisse l’impossibilità a seguito del fatto che l’angolo che il telescopio forma con la normale al punto d’osservazione è indipendente dal fluido contenuto in esso a causa della rifrazione  della luce  al  suo entrare  in questo fluido.  Ciò  significa che l’aberrazione  è  indipendente  dalla natura del  mezzo  rifrangente contenuto nel telescopio e che “la rifrazione della luce non e’ modificata in un movimento rispetto all’etere” (bibl. 19, Vol. 4, pag. 170).  

             L’esperienza proposta da Boscovich fu poi eseguita, con grande precisione da G.B. Airy tra il 1871 ed il 1872. I risultati furono sempre negativi confermando le previsioni di Fresnel.

             Da tutto ciò che abbiamo detto sull’aberrazione discende infine l’impossibilità di trascinamento totale dell’etere da parte della Terra.  “Se lo fosse, l’etere sarebbe in riposo rispetto alla Terra, il  telescopio  non  dovrebbe  essere  inclinato  e  non  ci  sarebbe  alcuna aberrazione. Cioè l’etere si muoverebbe con la Terra verso destra con velocità v [quella della Terra] così che non ci sarebbe bisogno di correzioni dovute al moto della Terra attraverso l’etere, il raggio di luce sarebbe trascinato insieme all’etere proprio come il vento trasporta con sé  un’onda sonora” (bibl. 94, pag. 29).



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