JOSEPH ROTBLAT E LA BOMBA

(Analisi ed interviste)

01.09.2005
È morto Joseph Rotblat, lo scienziato che imparò ad odiare la Bomba
di red

Scomparso a 96 anni il premio Nobel per la pace Joseph Rotblat, un simbolo della lotta per il disarmo e l’abbandono dei progetti nucleari da parte delle superpotenze. Ma anche il primo e unico scienziato ad aver rinnegato, al termine della seconda guerra mondiale, la creatura di morte che aveva contribuito a creare: la bomba atomica. Fu il solo, di fronte alla scomparsa della minaccia nazista e alla sconfitta dell’imperialismo nipponico, ad abbandonare quel progetto Manhatttan che, con il contributo di alcuni fra i più grandi fisici nucleari del secolo, aveva portato alla distruzione delle città di Hiroshima e Nagasaki e all’annientamento di quasi trecentomila esseri umani.

Nel 1955 Rotblat, nato nel 1909 in Polonia, firmò insieme ad altri nove scienziati il cosiddetto Manifesto Russell-Einstein contro la proliferazione degli armamenti atomici: un accorato appello alla comunità scientifica nel quale si evocava il rischio ormai concreto della distruzione del mondo intero in caso di guerra. Due anni dopo lo stesso Rotbalt fu il principale animatore di una grande conferenza del mondo scientifico sui temi affrontati dal manifesto. L’incontro si tenne a Pugwash, in Canada, e da allora, ogni anno, scienziati di ogni parte del mondo si sono riuniti per discutere i problemi della costruzione della pace nelle Pugwash Conferences on Science and World Affairs.

«Una domanda continua a tormentarmi – affermava Rotblat nel 1985 – abbiamo imparato abbastanza per non ripetere gli errori che commettemmo allora? Io non sono sicuro nemmeno di me stesso. Non essendo un pacifista perfetto, io non posso garantire che in una situazione analoga non mi comporterei nello stesso modo. I nostri concetti di moralità sembra vengano abbandonati una volta che un’iniziativa militare è stata avviata. È, quindi, della massima importanza non permettere che si creino tali situazioni».
 


Premio Nobel per la Pace 1995

 
Joseph Rotblat, nato a Lodz (Polonia) nel 1908, si laurea alla Libera Università di Polonia nel 1932 e consegue il dottorato di fisica all’Università di Varsavia, dove nel 1937 diventa vicedirettore dell’Istituto di fisica atomica. Nel 1939 inizia a lavorare con James Chadwick all’Università di Liverpool sulla fattibilità della bomba atomica e lo segue a Los Alamos per partecipare al Progetto Manhattan. Nel novembre 1944, quando giunge la conferma che la Germania nazista non sarebbe riuscita a costruire la bomba, Rotblat torna subito in Inghilterra, unico scienziato ad aver abbandonato il Progetto Manhattan prima della sua devastante conclusione. Nel 1946 è uno dei fondatori dell’Atomic Scientists Association e, nel 1947, organizza “Atom Train”, la prima grande mostra sugli usi pacifici e contro le applicazioni militari dell’energia nucleare.

Rotblat consegue quindi il Ph.D. all’Università di Liverpool nel 1950 e il D.Sc. all’Università di Londra nel 1953; dal 1945 al 1949 è direttore della ricerca in fisica nucleare dell’Università di Liverpool. In quegli anni, contribuisce alla scoperta del mesone pi-greco con la messa a punto di speciali emulsioni fotosensibili. Si dedica con sempre maggiore impegno alle applicazioni biologiche e mediche della fisica nucleare e diventa, dal 1950 al 1976, professore – oggi emerito – di fisica dell’Università di Londra presso il Medical College dell’ospedale St. Bartholomew, e Chief Physicist dell’ospedale stesso.

Nel 1955 è uno degli undici firmatari del Manifesto lanciato da Bertrand Russell e da Albert Einstein, in cui si chiede agli scienziati di ogni paese di cooperare per evitare una guerra nucleare. Nel 1957 diventa segretario generale delle Conferenze Pugwash, nate da questo Manifesto, e loro presidente nel 1988. Nel 1966 partecipa alla fondazione dell’Istituto internazionale per le ricerche sulla pace di Stoccolma e dal 1984 al 1990 fa parte del gruppo direttivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, quale relatore responsabile in particolare degli studi sugli effetti di una guerra nucleare sulla salute e sui servizi sanitari.

Rotblat è autore di oltre 300 pubblicazioni, di cui 20 libri, sulla fisica nucleare e medica, sugli effetti biologici delle radiazioni, sul controllo delle armi nucleari, sul disarmo, sul movimento Pugwash e sulla responsabilità sociale degli scienziati. Nel 1995, cinquant’anni dopo Hiroshima e Nagasaki, Joseph Rotblat e le Conferenze Pugwash hanno ricevuto il premio Nobel per la Pace.


Italia – Roma –

11.11.2004 

Uno scienziato per la pace Joseph Rotblat, uno dei padri dell’atomica, sul rapporto tra armi nucleari e terrorismo

“Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, individua nelle armi nucleari il principale pericolo per la sicurezza del mondo. Aggiunge che solo i Paesi amici le possono utilizzare. Così esplicitamente afferma di volere un mondo diviso, nel quale non sia contemplato il modello della coesistenza. Il terrorismo nasce da questa idea della politica”. A parlare è Joseph Rotblat, premio Nobel per la pace nel 1995 e figura storica della fisica moderna e del pacifismo del ‘900.Nato a Lodz nel 1908, a 29 anni era già vicedirettore dell’Istituto di fisica atomica della capitale polacca. Fuggito in Inghilterra nel 1939, collaborò con James Chandwick, dell’Università di Liverpool, ai primi studi di fattibilità per la costruzione della bomba atomica. Avviato a Los Alamos il Progetto Manhattan, i due scienziati partirono per gli Stati Uniti e con Albert Einstein, Robert Oppenheimer, Enrico Fermi e altri continuarono le ricerche.
La prima esplosione atomica prodotta dall’uomo, il Trinity Test, avvenne il 16 luglio 1945, in una località a 95 chilometri da Alamogordo, nel deserto del New Mexico. Un luogo che gli indiani avevano chiamato in passato “strada della morte”. Trinity era il nome in codice scelto da Robert Oppenheimer per l’esperimento. Rotblatt, però, non c’era. Nel novembre 1944 era diventato chiaro che la Germania nazista non avrebbe mai avuto la bomba e il fisico aveva scelto di rientrare in Inghilterra, unico scienziato ad abbandonare la ricerca prima della sua devastante conclusione.


Un suo amico, il fisico ungherese Leo Szilard, con Fermi responsabile di un segmento del progetto, il 2 dicembre del 1942 aveva ottenuto all’Università di Chicago la prima reazione a catena controllata. Szilard definì quel successo “un giorno che sarebbe passato alla storia dell’umanità come una giornata nera”.“Le armi nucleari non servono a nulla contro il terrorismo – continua Rotblat – e i Paesi individuati dal governo americano come complici del terrorismo non potranno certo esser vinti con le bombe atomiche. Piuttosto esiste il rischio concreto di vedere gruppi estremisti utilizzare armi atomiche. L’uso da parte di organizzazioni terroristiche di sistemi di arma del genere va eliminato. Esiste una strada certa per farlo: dar seguito ai trattati di denuclearizzazione e procedere al disarmo, in modo da far sparire dalla circolazione anche i materiali necessari per la loro costruzione”.Rotblat è un signore di 96 anni, i capelli d’argento e il viso ovale. Cammina con lentezza e due giovani assistenti lo sfiorano dolcemente, per aiutare i suoi passi incerti. La sua intelligenza e lucidità stupiscono come la sua inarrestabile carica giovanile e piena di passione.Lo scienziato va avanti nel discorso: “Sappiamo, da Hiroshima in poi, quanto sia deleteria la scelta nucleare. Per la capacità indiscriminata di colpire, per le conseguenze devastanti delle bombe atomiche sulla popolazione civile.

L’argomento secondo il quale l’importanza del nucleare è nella sua capacità di deterrenza richiama alla memoria l’epoca passata ‘guerra fredda’, ma oggi la situazione è diversa e questo è un argomento senza alcun valore. Lo smantellamento degli arsenali è stato deciso, eppure alcuni leader, Bush, Blair, Putin continuano a tenere le dita sul bottone. Questo nutre un clima di violenza. Ai bambini si insegna a pensare alla pace in funzione degli armamenti posseduti. Se hai tante armi sei al sicuro. L’opinione pubblica mondiale deve contrastare idee del genere. Noi Nobel non possiamo consentire tutto questo. Ci hanno premiato e hanno riconosciuto la nostra volontà di pace, ma dobbiamo ancora ottenere il risultato definitivo e abbiamo il dovere di lavorare per arrivare al traguardo. Albert Einstein sapeva comprendere il rapporto tra ricerca e fenomeni politici.

Il 2005 sarà l’anno a lui dedicato. Dobbiamo ricordarlo e saper bene che solo una mutazione profonda delle strategie potrà evitare una catastrofe”.Il rapporto tra Rotblat e il padre della fisica moderna è molto intenso, ancora adesso. Il Nobel per la pace ricorda: “Io sono rimasto il solo vivo di noi undici: Max Born, Perry W. Bridgman, Albert Einstein, Leopold Infeld, Frédéric Joliot-Curie, Herman J. Muller, Linus Pauling, Cecil F. Powell, Bertrand Russell, Hideki Yukawa. Il lontano 9 luglio del 1955 firmammo insieme il Manifesto degli scienziati contro le armi nucleari e per il disarmo. Anche riguardo alla bomba su Hiroshima, non credo sia stata determinante per la conclusione della Seconda guerra mondiale. In realtà Truman, il presidente Usa, utilizzò la bomba non per porre fine al conflitto, ma per mostrare al mondo, in particolare all’Unione Sovietica, la nuova potenza militare del suo Paese. Einstein credeva alla ‘forma del buon governo’. Allora il terrorismo non c’era, ma so che lui ne percepiva il pericolo e comprendeva bene la necessità di un mutamento radicale. La sovranità nazionale oggi non significa più nulla, nel mondo moderno è una illusione. Gli Stati Uniti debbono accettare le decisioni degli organismi internazionali, delle Nazioni Unite. Solo in questo modo, con la cooperazione e il dialogo potremo sconfiggere il terrorismo”.Rotblat, con la sua saggezza, la lunga esperienza di vita e di lavoro rappresenta una risorsa inestimabile per chi nel mondo non individua nella guerra il mezzo per risolvere le controversie. Lui ne è consapevole e conclude: “Io suggerisco che il vecchio motto latino venga modificato. Si vis pacem para bellum, se vuoi la pace prepara la guerra, deve essere riformulato. Si vis pacem para pacem, se vuoi la pace prepara la pace”.


“IL MIO NO ALL’ATOMICA”
Intervista a Joseph Rotblatdi Stefania Maurizi

pubblicata su “TUTTOSCIENZE” de “La Stampa” il 2 ottobre 2002


LONDRA

Nell’impresa che, secondo il suo stesso direttore Robert Oppenheimer, trasformò gli scienziati in “distruttori di mondi”, “uno che si prese una pausa fu Joseph Rotblat”, che abbandonò il Progetto Manhattan per la costruzione dell’atomica. Dopo quella “pausa”, comunque, il fisico nucleare Roblat non si è preso un giorno di riposo. Lucidissimo e vivace, a 93 anni, lavora ancora nel movimento che fondò nel ’57 insieme ad altri eminenti scienziati: il Pugwash, con cui, nel 1995, ha condiviso il Nobel per la Pace per i loro sforzi nel promuovere il disarmo nucleare.

Ci concede questa intervista nella sede del Pugwash a Londra. E mentre ci racconta, col suo modo affabulatorio, dei primi esperimenti di fissione nucleare, un secolo di fisica e di storia si materializzano nel suo studio pieno di fotografie in bianco e nero.

Come fu arruolato nel Progetto Manhattan?
L’idea della bomba mi venne agli inizi del ’39, in Polonia, la mia terra d’origine. Sapevo della scoperta della fissione e, poiché avevo pronto un mio esperimento, verificai ben presto che, quando l’atomo dell’uranio si divide in due parti, nel processo di fissione, vengono emessi anche alcuni neutroni. E questo apriva la possibilità di una reazione a catena, in cui hanno luogo molte fissioni ed una grossa quantità di energia viene rilasciata in un brevissimo lasso di tempo, il che significa una potente esplosione. Decisi, però, di non pensare a questa possibilità: aborrivo l’idea. E anche quando andai a lavorare a Liverpool con Chadwick, il fisico che aveva scoperto il neutrone, continuavo a rigettarla, sebbene fossi preoccupato perché le pubblicazioni tedesche menzionavano la possibilità di un’atomica. Ma quando la guerra scoppiò, dovetti accantonare i miei scrupoli morali: andai da Chadwick e gli suggerii di iniziare a lavorare alla bomba. Ragionai secondo il principio di deterrenza: se Hitler avesse ottenuto l’atomica, l’unico modo per impedirgli di usarla contro di noi era che anche noi l’avessimo e potessimo minacciare una rappresaglia. Cominciammo nel novembre del ’39 e quando nel ’43 gli americani dettero il via al Progetto, alcuni di noi furono”arruolati”.

Qual’era il suo ruolo?
Dovevo stabilire l’energia dei neutroni emessi dal nucleo dell’uranio nel processo di fissione. Nei reattori nucleari per la produzione di energia, i neutroni vengono rallentati proprio per controllare la reazione a catena ed evitare l’esplosione, per la bomba invece servono neutroni veloci e bisogna conoscere, prima di tutto, la loro energia.

Cosa successe quando gli scienziati scoprirono che Hitler non aveva la bomba?
In realtà, a quel punto io non ero più a Los Alamos. Me ne andai appena seppi che i tedeschi avevano rinunciato alla bomba. Chadwick, che era il capo del progetto inglese, aveva contatti con i servizi segreti, erano amici, e lui sapeva dei miei scrupoli morali; nel novembre del ’44, mi disse di aver appena ricevuto la notizia. In realtà, i tedeschi avevano abbandonato tutto già nel ’42, ma noi non lo sapevamo. L’informazione, inoltre, era riservata, gli altri scienziati non l’avevano ed io fui l’unico a lasciare il Progetto.

Era un progetto top secret supervisionato dal Generale Groves, il responsabile della costruzione del Pentagono, come riuscì ad andarsene?
Ebbi grossi problemi. Sospettarono addirittura che fossi una spia russa, ed una della condizioni per lasciarmi andare fu che non dovevo dire a nessuno perché me ne andavo.

E Groves era davvero terribile?
Era un militare. Comunque fui scioccato dalle sue opinioni. Era piuttosto amico con Chadwick e, durante una cena privata, disse: “voi vi rendete conto, ovviamente, che il principale scopo del Progetto è quello di soggiogare i Russi”. Era il marzo del 1944: i Russi erano nostri alleati e lavoravamo contro Hitler. Immagini il mio shock! E quando lo dissi ai miei colleghi, loro non mi credettero!

Chi aveva chiaro quello che succedeva nel Progetto? Chadwick? Bohr?
In primo luogo Chadwick; Bohr si rese conto, quasi profeticamente, che se americani e inglesi avessero costruito l’atomica da soli, escludendo i russi, quest’ultimi avrebbero cercato di costruire una loro bomba, innescando una pericolosa corsa agli armamenti nucleari, che, secondo lui, poteva essere evitata, solo con un approccio comune all’utilizzazione dell’energia nucleare, sia a scopi pacifici che militari. Parlavamo molto a Los Alamos ed io ho appreso da lui del problema. Ma quando Bohr parlò con Churchill, tutto quello che Churchill capì fu che Bohr voleva dar via i segreti ai russi, e dunque era pericoloso; così il progetto di Bohr fallì. La storia avrebbe potuto essere cambiata.

Lasciato il Progetto, lei ha cofondato il Pugwash, il cui principale obiettivo è l’eliminazione delle armi nucleari. Qual’ è la vostra strategia?
Lavoriamo a trattati di eliminazione efficaci, cioè vincolanti per i governi che li firmano; trattati del genere esistono già per le altre armi di distruzione di massa, quelle chimiche e batteriologiche.

Il principio di deterrenza ha dominato 60 anni di politica strategica mondiale. Con cosa sostituirlo?
Con la negoziazione. Prenda l’Europa, per secoli le dispute sono state risolte con guerre terribili. Oggi, l’idea che Francia e Italia possano entrare in guerra è inconcepibile. L’impossibile è diventato possibile. E se ciò è successo in Europa, può succedere anche altrove.

Dopo l’11 settembre, lei ha scritto al The Times, paventando la possibilità che i terroristi acquisiscano armi nucleari. Dato il livello di expertise, tecnologia e risorse economiche richieste da queste armi, crede che sia una possibilità reale?
Si, non è un’esagerazione. Il metodo di detonazione Gun, usato nella bomba di Hiroshima, è molto semplice. Per un gruppo di terroristi che abbiano risorse, che probabilmente includono scienziati, la tecnologia non è un problema. Né lo è il materiale: per il Gun, serve uranio 235. Se si hanno i soldi, è veramente semplice procurarselo: ne bastano 40 chili, ed in Russia ce ne sono mille tonnellate. Si può trasportare in un altro stato, metterlo in un garage e detonarlo a distanza.

Bush e Putin hanno concordato una consistente riduzione delle armi nucleari. Lei è fiducioso?
Io do il benvenuto ad ogni taglio, ma questo non è reale. Non distruggono le armi, le mettono semplicemente nei magazzini e, se servono, le ritirano fuori. E’un’illusione.


“L’ATOMICA DI HITLER”
Intervista a Carl Friedrich von Weizaecker di Stefania Maurizi

pubblicata su “TUTTOSCIENZE” de “La Stampa” il 28 agosto 2002


La costruzione della prima bomba atomica americana fu l’impresa del secolo, che certamente ha suscitato sensi di colpa e giustificazioni rassicuranti, ma che, di certo, non è stata al centro di controversie aspre come quelle suscitate dalla mancata costruzione dell’atomica tedesca.

Le polemiche hanno investito, in modo particolare, due premi Nobel per la fisica ritenuti non solo due grandi fisici del Novecento, ma anche due grandi persone: il tedesco Werner Heisenberg, che lavorò all’atomica nazista, ed il danese Niels Bohr, maestro ed amico di Heisenberg, che nel 1943 fuggì dalla Danimarca, occupata dai tedeschi, ed andò in America a lavorare alla bomba per gli Alleati.

Il dibattito sul tema continua ininterrottamente dagli anni ’50, dopo la pubblicazione del libro “Gli apprendisti stregoni”, in cui il giornalista Robert Jungk suggerì l’idea che gli scienziati tedeschi avevano cercato di prevenire, per ragioni morali, la costruzione di un’atomica nazista.

Il dibattito è stato rinverdito negli anni da documenti talvolta illuminanti, come le trascrizioni delle conversazioni di Farm Hall, pubblicate solo nel 1992. Dal luglio al dicembre 1945, Heisenberg ed altri importanti scienziati tedeschi furono internati, come prigionieri degli Alleati, in una casa di campagna inglese, chiamata Farm Hall, e tutte le loro conversazioni furono registrate, a loro insaputa, dai servizi segreti inglesi.

Al diluvio di libri ed articoli sul tema, nel 1998, si è aggiunta la pièce teatrale “Copenhagen” del drammaturgo inglese Michael Frayn, che non ha mancato di suscitare accese polemiche e critiche, ad alcune delle quali Frayn ha replicato dicendo: “Bohr continuerà ad ispirare rispetto ed amore, nonostante il suo coinvolgimento nella costruzione delle bombe di Hiroshima e Nagasaki, e [Heisenberg] continuerà ad essere guardato con sospetto nonostante non abbia ucciso nessuno”.

Proprio in seguito alle polemiche scatenate da “Copenhagen”, la famiglia Bohr ha deciso di pubblicare, nel febbraio scorso, le lettere che Bohr scrisse ad Heisenberg, dopo la pubblicazione del libro di Jungk, lettere che Bohr non spedì mai al destinatario.

Bohr, Heisenberg e quasi tutti i protagonisti rilevanti della mancata bomba nazista sono ormai morti, rimane un solo testimone autorevole di quei fatti: Carl Friedrich von Weizsaecker, fisico nucleare di primo piano, allievo ed amico di Heisenberg, e figlio di Ernst von Weizsaecker, che dal 1938 al 1943 fu il numero due del Ministero degli Esteri di von Ribbentrop.

Nonostante la veneranda età, il novantenne von Weizsaecker ha accettato di raccontarci la sua versione dei fatti in questa intervista telefonica.

Professor Weizsaecker, quando iniziò a lavorare alla bomba?
Nel settembre del 1939, quando scoppiò la guerra, io fui immediatamente arruolato nell’esercito, ma dopo due settimane mi richiamarono per lavorare ad un progetto riguardante le armi.

Che rapporti aveva con la Deutsche Physik, la corrente filonazista della fisica tedesca che condannava la Relatività e la meccanica quantistica come “fisica giudaica”?
La Deutsche Physik era un’assurdità ed io non avevo rapporti con essa.

Come venne a sapere della possibilità di usare la reazione a catena per costruire la bomba atomica?
Beh, ero un fisico nucleare e tutti i fisici del mondo, che avevano capito il lavoro di Otto Hahn sulla fissione, si erano resi conto immediatamente di questa possibilità.

Perché lei, Heisenberg ed Hahn accettaste di lavorare alla bomba atomica per i Nazisti?
Ci rendemmo conto molto presto che quest’arma era possibile, in linea di principio, e poiché ci aspettavamo che gli Inglesi e gli Americani volessero costruirla, pensammo che anche la Germania dovesse averne la capacità. Ma ciò non era dovuto ad Hitler, per noi Hitler era sempre stato un malvagio, pensavamo che la bomba avrebbe potuto essere necessaria alla nostra nazione.

Come deterrente?
Non potevamo saperlo.

Ma la vostra nazione era sotto il dominio di Hitler, non avevate paura di mettergli in mano un’arma micidiale?
Posso solo dire che, quando iniziai a lavorare alla bomba, ebbi l’idea che se fossi stato capace di costruirla, forse avrei potuto parlare con Hitler e convincerlo ad adottare una politica migliore, ma quest’idea era sbagliata, e quando ci rendemmo conto di non poter costruire la bomba, io fui contento di non essermi ritrovato nella difficile situazione di dover parlare con Hitler.

Perché non costruiste la bomba?
Non avevamo le risorse necessarie. Credo che, per la bomba, gli americani spesero mille volte la somma che spendemmo in Germania, e noi non potevamo spendere così tanto. E rimanemmo molto sorpresi quando sapemmo che gli americani avevano costruito la bomba in pochissimo tempo.

Comunque, aveste anche problemi di tipo scientifico, problemi con la separazione degli isotopi dell’uranio e con i sabotaggi degli Alleati ai vostri impianti di produzione dell’acqua pesante.
Si.

Quando terminò il programma di costruzione dell’atomica?
Giungemmo alla conclusione che non eravamo in grado di costruirla dopo un anno e mezzo, più o meno. E solo dopo aver realizzato ciò, Heisenberg decise di andare a parlare con Bohr.

Parliamo di quel famoso incontro tra Bohr ed Heisenberg a Copenhagen, nel settembre del ’41.
Accompagnai Heisenberg a Copenhagen, ma non all’incontro. Heisenberg non aveva la certezza che anche gli inglesi e gli americani non fossero in grado di costruire la bomba e non poteva parlare con i suoi amici inglesi o americani, perché probabilmente non gli avrebbero creduto. Tuttavia, credeva che se avesse detto a Bohr che noi tedeschi non potevamo costruire la bomba, Bohr avrebbe potuto parlare con gli Alleati e dire loro di non costruirla, proprio perché noi non eravamo in grado di farlo.

Quando il colloquio tra i due ebbe luogo, erano liberi di parlare?
In un certo senso,si. Heisenberg poteva parlare sapendo che le autorità militari tedesche non erano a conoscenza dello scopo del colloquio e la conversazione ebbe luogo durante una passeggiata. Comunque, Heisenberg usò un linguaggio molto indiretto, dal momento che sapeva di rischiare la testa parlando di un progetto segreto ad uno straniero.

In una delle lettere rilasciate a febbraio e riguardanti l’incontro in questione, Bohr scrive ad Heisenberg: ” …tu e Weizsaecker esprimeste la vostra convinzione che la Germania avrebbe vinto [la guerra] e che perciò era piuttosto insensato per noi … essere restii riguardo a tutte le offerte tedesche di cooperazione. Io mi ricordo in modo piuttosto preciso anche la nostra conversazione nel mio ufficio all’Istituto quando in termini un po’ vaghi tu parlasti in modo che poté darmi solo la chiara impressione che, sotto la tua leadership, in Germania veniva fatto di tutto per sviluppare armi atomiche e che tu … avevi passato gli ultimi due anni lavorando più o meno esclusivamente a tale preparativi” (si ringrazia il Niels Bohr Archive di Copenhagen per l’autorizzazione a citare i contenuti delle lettere, consultabili al sito web www.nba.nbi.dk). Insomma, dalle lettere di Bohr emerge una versione completamente diversa di quell’incontro, com’è possibile?
Quando Heisenberg iniziò a parlare di reazioni nucleari, Bohr disse immediatamente: “Non voglio parlare con te di queste cose” e, dopo la guerra, io seppi da uno dei figli di Bohr che Bohr pensava che Heisenberg lo volesse indurre a lavorare all’atomica con la Germania, e poiché lui non voleva lavorarci, lo fermò immediatamente.

Ma nelle lettere c’è scritto che Bohr ascoltò in silenzio i discorsi di Heisenberg e non che lo fermò immediatamente.
Beh, Bohr non lo fermò immeditamente. Heisenberg iniziò a parlare di reazioni nucleari e dopo un po’ avvertì che Bohr non voleva continuare.

Lei ed Heisenberg eravate due tedeschi che lavoravano all’atomica e, quando andaste da Bohr, la Danimarca era sotto l’occupazione nazista. La vostra posizione poteva, ovviamente, dare adito ad ambiguità. Se Heisenberg era libero di parlare, perché non andò dritto al messaggio?
Io non ero presente al colloquio, ma certamente era troppo pericoloso, come le ho già detto.

Heisenberg disse a Bohr che la Germania avrebbe vinto la guerra?
Nel settembre del ’41 la Germania aveva appena sconfitto la Francia, e dunque Heisenberg potrebbe anche aver detto a Bohr una cosa del genere, ma, all’inizio della guerra, era convinto che Hitler stesse andando incontro alla catastrofe e questo si rivelò vero, alla fine.

Un altro mistero di quell’incontro è il disegno di un reattore che pare che Heisenberg abbia dato a Bohr. Lei ne sa qualcosa?
No.

Secondo il libro “La guerra di Heisenberg” del giornalista Thomas Power, Heisenberg “boicottò” l’atomica tedesca, tenendo volutamente nascosto il suo expertise ai Nazisti. Ma Heisenberg sapeva davvero come costruire la bomba?
Tutti i bravi fisici la sapevano costruire, in linea di principio.

Beh, in linea di principio, si, ma in pratica?
In linea di principio, Heisenberg era in grado di farlo, ma era cosciente del fatto che non potevamo costruirla, viste le condizioni in cui lavoravamo. Da parte mia, io fui molto contento quando realizzai che non potevamo costruirla, perché non mi sarei trovato di fronte al problema morale.

Lei dice questo, ma il Progetto Manhattan per la costruzione dell’atomica americana fu concepito e largamente realizzato da profughi dell’Europa fascista, terrorizzati dall’idea della bomba tedesca, forse se voi non aveste mai cominciato a lavorarci…
Il Progetto Manhattan fu assolutamente indipendente dal nostro lavoro! Fu la conseguenza delle stesse conclusioni che tirammo in Germania. Visto che l’atomica era possibile, noi ci aspettavamo che gli inglesi e gli americani volessero costruirla, e gli Alleati si aspettavano la bomba tedesca, e dettero immediatamente il via al loro Progetto, che fu iniziato per essere certamente più forte di quello tedesco.

Il giorno dopo il lancio dell’atomica su Hiroshima, stando alle trascrizioni di Farm Hall, lei disse: “La storia registrerà che gli americani e gli inglesi fecero una bomba e che allo stesso tempo i tedeschi sotto il regime di Hitler costruirono un reattore utilizzabile. In altre parole lo sviluppo pacifico del reattore ad uranio fu portato avanti in Germania sotto il regime di Hitler, mentre gli americani e gli inglesi svilupparono questa spaventosa arma da guerra”. Ritiene ancora che questo giudizio sia giusto, visto che voi lavoraste alla bomba?
Ci lavorammo, ma giungemmo alla conclusione di non poterla costruire e ne fummo molto felici.


“Parla lo scienziato che unì Est e Ovest”
Intervista esclusiva con Roald Sagdeevdi Stefania Maurizi

Pubblicata in “Tuttoscienze” de “La Stampa”, 16 aprile 2003


Dal 1945 al 1991 il mondo ha combattuto una guerra mai scoppiata: la guerra fredda. E in quegli anni, una fetta consistente della produzione scientifica e tecnologica mondiale fu risucchiata dalla ricerca militare e segreta, al punto che, dopo il ’91, gli americani e la comunità internazionale hanno cercato di “riconvertire” più di 40.000 scienziati ed ingegneri dell’ex-Unione Sovietica che avevano un expertise correlato alle armi di distruzione di massa.

Quanto agli Stati Uniti, invece, tra il ’45 ed il ’90, misero in piedi un arsenale di 70.000 bombe e testate nucleari (i dati provengono rispettivamente dai rapporti: “Closing the gaps”, R. Civiak, 2002, e “Atomic Audit”, S. Schwartz, 1998).

A cinquant’anni dalla morte di un’icona della guerra fredda, Josef Stalin, abbiamo intervistato il fisico teorico russo Roald Sagdeev, oggi professore emerito di fisica all’Università del Maryland (USA).

Professor Sagdeev, appena laureato all’università di Mosca nel ’55, è entrato a far parte dell’Istituto dell’Energia Atomica di Kurchatov. Che faceva lì?
Facevo ricerca sulla fusione termonucleare controllata, che è uno dei processi fisici che per la produzione di energia, tuttavia, nell’Unione Sovietica di quegli anni era considerata”top secret”, probabilmente a causa delle sue relazioni con la fusione incontrollata, che è invece il processo alla base della bomba H. Ma circa due anni dopo il mio ingresso all’Istituto di Kurchatov, Krusciov aderì all’iniziativa “Atomi per la Pace”, lanciata dal presidente americano Eisenhower; il mio settore di ricerca fu desecretato ed io mi ritrovai a lavorare alla “luce del sole”.

Kurchatov era il capo del programma nucleare di Stalin, scelto da Stalin in persona. Lei come evitò la ricerca sulle armi nucleari?
Con un po’ di fortuna e grazie ad un intervento di altissimo livello: quello del mio maestro Lev Landau. Ovviamente cercarono di reclutare me e molti dei miei colleghi, ci spedirono pure nelle città-laboratorio segrete in cui venivano portate avanti queste ricerche, come Arzamas-16, ma io non volevo assolutamente saperne e Landau mi aiutò.

Questo tipo di ricerca ha assorbito tantissimi cervelli di prim’ordine. Che dire del suo maestro Landau e del suo amico Sakharov, che costruirono la bomba H russa?
Ho parlato molto con i miei professori per cercarne di capire le motivazioni profonde. Per la prima generazione di fisici nucleari, come Landau, che fecero le scoperte fondamentali, va ricordato che era in corso una guerra contro la Germania, che per noi russi fu assolutamente devastante. Lavorando alle armi nucleari, quasi tutti sentirono di contribuire a difendere la nazione dalla Germania, durante la guerra, e a stabilire un equilibrio strategico est-ovest, immediatamente dopo. Anche Sakharov rimase convinto che lavorare alla bomba H per Stalin fosse stata allora, cioè nei primi anni ’50, la scelta giusta, perché essenziale per la sicurezza nazionale. Landau, invece, fu probabilmente l’unico della sua generazione per cui fu estremamente doloroso lavorarci, ma c’era Stalin. Per noi fisici più giovani, invece, la situazione era diversa: la scelta di lavorare alle armi nucleari fu determinata dal patriottismo, dalla fascinazione intellettuale, ma anche da fattori molto “terra-terra”: salari migliori e, soprattutto, la possibilità di poter trovare immediatamente un appartamento, una cosa impensabile nelle grandi città come Mosca.

Lei ha lavorato ai massimi livelli in anni quantomeno difficili: dal ’73 all”88, è stato direttore dell’Istituto di Ricerca Spaziale di Mosca, il “contraltare sovietico” della NASA…
Il nostro istituto faceva ricerca spaziale di base, non era paragonabile alla NASA. Ma la storia venne fuori nel ’72: Nixon e Breznev, che avevano deciso di iniziare a limitare la corsa agli armamenti, volevano una dimostrazione pubblica della distensione in corso e così idearono la prima missione spaziale congiunta USA-URSS, l’Apollo-Soyuz. Il grosso delle attività spaziali sovietiche, però, era segreto perché legato allo sviluppo di missili, e così il governo capì immediatamente che per coprire le attività vere serviva un istituto che facesse da vetrina. Fu scelto il nostro e tutti gli ingegneri russi che lavoravano per l’Apollo-Soyuz venivano ad incontrare gli americani da noi, ma in realtà facevano ricerca in istituzioni e aziende coperte da segreto. Perfino quando portarono gli americani alla piattaforma di lancio di Baikonur, quella da cui partì Gagarin, inventarono loro: “Sì, sì, la piattaforma è dell’istituto, loro controllano tutto, sono la nostra NASA”. Tra noi, le autorità sovietiche e gli americani fu un teatrino indimenticabile, perché gli americani avevano capito tutto! E noi dell’istituto avevamo capito che loro avevano capito!

Lei scherza, ma in realtà negli anni in cui fu direttore, guidò varie missioni spaziali internazionali, come quella per studiare la cometa di Halley, e cercò di fare del suo instituto un centro di ricerca “aperto”, lottando contro un modello di scienza soffocata dal militarismo e dalla segretezza. Era possibile portare avanti queste lotte senza farsi male?
Cercai alleati e giocai scientemente questa carta: poiché eravamo probabilmente l’unico istituto del programma spaziale sovietico che non faceva ricerca segreta, se fossimo stati risucchiati anche noi, l’Unione Sovietica non avrebbe avuto un solo programma spaziale non militare. Questo poteva risultare così imbarazzante per l’immagine internazionale del nostro paese, che perfino nel KGB ci fu chi capì la mia posizione. Comunque, la lotta fu dura perché le pressioni erano molto forti e provenivano sia dall’esterno, cioè dal complesso industriale-militare, sia da alcuni scienziati dell’istituto, che volevano lavorare su contratti militari perché rendevano più della scienza normale. Alcuni dei miei colleghi inoltrarono proteste contro di me, segnalando anche al KGB che boicottavo i “doveri patriottici” ed io detti perfino in escandescenza e presentai le dimissioni un paio di volte, ma furono respinte.

Come consigliere scientifico di Gorbaciov in materia di spazio, lei ebbe un ruolo cruciale nel far si che il leader sovietico non si lanciasse nelle “Guerre Spaziali” annunciate da Reagan nell’83. Pur con notevoli varianti, lo scudo spaziale americano è di nuovo in auge. Cosa pensa della militarizzazione dello spazio?
C’è una forma di militarizzazione che ormai è già avvenuta e che, personalmente, giudico “benigna”: potenze come gli Stati Uniti e la Russia hanno messo in orbita da tempo satelliti militari per le comunicazioni o per il rilevamento di lanci di missili a “sorpresa”. Ciò che non è ancora avvenuto è la messa in orbita di armi, cioè di piattaforme spaziali con laser, ecc. che possono colpire e distruggere missili e satelliti di altre nazioni. Se questa militarizzazione “maligna” avverrà, innescherà di nuovo un’inarrestabile corsa agli armamenti. Sto cercando di attivarmi per stimolare un dibattito pubblico sul tema.

Avviandoci a concludere, nel 1990 lei ha sposato Susan Eisenhower, la nipote del presidente americano che è stato il primo comandante della NATO. Il KGB le disse: “questo matrimonio non s’ha da fare”?
Non abbiamo avuto pressioni di questo tipo, ma chiaramente informammo dei nostri progetti le autorità sovietiche, che ci dissero di non aspettarci una standing ovation. L’ex segretario americano alla difesa, Robert McNamara, invece, alla nostra festa di matrimonio brindò dicendo: “con questo matrimonio finisce la Guerra Fredda e comincia il riscaldamento globale!”

Con la fine dell’era Gorbaciov, la guerra fredda è in effetti finita, l’Unione Sovietica non c’è più, lei vive in America ed il terrore viene dalle armi biologiche. Parla ancora della Russia ai suoi studenti?
A volte, ma gli americani non sono più interessati ad essa come 20 anni fa, tuttavia sono interessati a Putin. Mia moglie ed io siamo appena tornati da Mosca, dove abbiamo avuto un colloquio con Putin sulla militarizzazione dello spazio. Ora ci fanno molte domande.


“I segreti di Ted Hall, la spia che aiutò l’URSS”
Intervista a Joan Halldi Stefania Maurizi

Pubblicata in “Tuttoscienze” de “La Stampa”, 27 agosto 2003


Mosca, 1949: il fisico a capo del progetto nucleare sovietico, Igor Kurchatov, incontra Stalin al Cremlino, apre una scatola e gli mostra una sfera metallica del diametro di 10 centimetri: è plutonio. “Qui c’è una carica pronta per la bomba” dice a Stalin, che colpito gli chiede: “Come posso sapere che si tratta di plutonio e non di un pezzo di ferro che brilla?”. “La carica è stata rivestita di nickel”, risponde Kurchatov, “perciò la può toccare senza rischi. Per convincersi che non è un pezzo di ferro, dica a qualcuno di toccare la sfera: è calda, se fosse ferro sarebbe fredda”. “Ed è sempre calda?” chiede Stalin, “sempre”, risponde Kurchatov.
(L’episodio è riferito da Abraham Pais, Physics Today, agosto 1990).

E’ con quel materiale che i Sovietici costruirono la loro prima bomba atomica, sperimentata solo 4 anni dopo il lancio delle bombe di Hiroshima e Nagasaki, la prima all’uranio e la seconda al plutonio. Quest’ultima aveva dato filo da torcere ai fisici che a Los Alamos lavoravano al Progetto Manhattan per la costruzione delle due bombe anglo-americane. Il plutonio, infatti, rivelò una tendenza spontanea alla fissione, durante la quale i neutroni emessi innescavano una reazione a catena capace di produrre un’enorme quantità di calore, calore che avrebbe potuto disattivare l’ordigno e provocare solo una piccola esplosione.

Per superare questo problema fu inventato un metodo di detonazione completamente nuovo: l’implosione, che, sebbene avesse richiesto le energie intellettuali di quasi tutti i grossi cervelli del Progetto, non era chiaro che funzionasse. Perciò la bomba al plutonio fu testata il 16 luglio del 1945. A quel punto, Kurchatov e i russi erano già venuti a sapere del Progetto e dell’implosione. Eppure, nonostante fossero alleati degli anglo-americani nella guerra contro Hitler, i russi non erano stati né coinvolti nella costruzione dell’atomica né informati ufficialmente della sua esistenza, e a Los Alamos i fisici lavoravano nel segreto più assoluto, sorvegliati da un vero osso duro: il generale Leslie Groves, incarnazione della disciplina marziale; che tuttavia non bastò.

Arruolato nel Progetto nella primavera del 1944, il fisico americano Theodore (Ted) Hall, con i suoi 19 anni, era il più giovane scienziato di Los Alamos e faceva parte del team addetto alla verifica del funzionamento dell’implosione. Nell’ottobre del 1944, abbozzò su un foglio alcune informazioni sul Progetto e, in particolare sull’implosione, poi d’iniziativa propria contattò i russi.

E per i russi non fu l’unica spia di Los Alamos: Klaus Fuchs, un fisico inglese che non sapeva dell’iniziativa di Ted, fornì informazioni sulla bomba al plutonio certamente più dettagliate di quelle del collega. Finita la guerra, però, Fuchs fu beccato. Arrestato in Inghilterra nel 1950, confessò. Fu condannato ad una pena relativamente mite, 14 anni, ma l’arresto scatenò un “effetto domino” perché Fuchs fece il nome di una spia, che ne tirò in ballo un’altra che accusò altre due persone: gli americani Ethel e Julius Rosenberg. Processati in pieno delirio maccartista e accusati di essere “figure centrali” dello spionaggio atomico a favore dei russi, i coniugi Rosenberg finirono sulla sedia elettrica. La sera dell’esecuzione, Ted Hall e la moglie Joan, disperati, si trovavano nelle vicinanze della prigione in cui venivano giustiziati.

Ted, sebbene non li conoscesse e non avesse mai avuto a che fare con loro, aveva anche pensato che confessando le proprie responsabilità, certamente ben più serie di quelle attribuite ai Rosenberg, forse avrebbe alleggerito la pressione su di loro, ma Joan lo scongiurò: non sarebbe servito ai Rosenberg e avrebbe distrutto loro. E non servì nulla, né le richieste di grazia o le proteste che giunsero da ogni dove, né il fatto che i Rosenberg avessero due bambini piccoli, furono giustiziati nel 1953 e la stampa forcaiola titolò: “Grigliati i Rosenberg”.

Anche Ted Hall nel 1951 fu interrogato dall’FBI, ma non disse una parola. Lasciò l’America e la fisica nucleare, andò in Inghilterra e divenne un illustre biofisico dell’università di Cambridge. Per 50 anni, Ted e Joan mantennero il segreto più assoluto: non accennavano a quei fatti neppure a casa o in macchina, per paura dei microfoni nascosti.

Nel 1995, la National Security Agency (NSA), l’agenzia americana che cifra e decifra tutte le informazioni di rilievo per la sicurezza nazionale, e che pare sia l’ente che assume più matematici nel mondo, da impiegare come codemaker e codebreaker, ha desecretato “Venona”, un’operazione top secret per la decifrazione delle comunicazioni in codice tra i russi e le loro presunte spie americane.

Dai documenti di Venona emerge chiaramente che l’FBI sapeva di Ted Hall e sapeva che una delle persone citate nelle comunicazioni, e probabilmente identificabile come Ethel Rosenberg, “a causa delle sue condizioni di salute non lavorava”: cioè non spiava per i russi. Forse era stata incastrata per mettere sotto pressione il marito, il quale a sua volta non era affatto una “figura centrale” dello spionaggio atomico.

Quanto a Ted Hall, invece, non ci è dato sapere perché non fu incriminato. Probabilmente, in assenza di una confessione o di testimoni, per processarlo, il governo americano avrebbe dovuto tirare fuori le intercettazioni di Venona. Ma a quel punto l’operazione sarebbe stata di dominio pubblico e invece andò avanti come missione top secret fino al 1980. Ciò che è certo, comunque, è che la desecretazione di Venona fu un sollievo per Ted Hall, che nel 1999 morì più tranquillo di come era vissuto negli ultimi 50 anni.

Stabilire quanto tempo i russi abbiano risparmiato, grazie alle informazioni di Fuchs e di Hall, è una questione spinosa, che lasciamo volentieri agli storici della scienza. A 50 anni dall’esecuzione dei Rosenberg e con un film di Hollywood su Ted Hall in preparazione, abbiamo rintracciato Joan Hall per chiederle perché Ted decise di passare le informazioni sull’atomica ai russi, visto che in quegli anni non era affatto un convinto comunista come Klaus Fuchs.

“Temeva che gli Stati Uniti potessero diventare una potenza molto reazionaria dopo la guerra” -ci dice- “e, se avessero avuto il monopolio nucleare, avrebbero potuto usare questo potere immenso per dominare il resto del mondo”. Poi, ricordando come negli ultimi 50 anni lei e Ted avessero guardato all’Unione Sovietica alternando la speranza allo sconforto, conclude: “Guardando indietro, Ted credeva che, nonostante la sua imperfetta comprensione di alcuni fatti importanti, la sua decisione si era rivelata in ultima analisi giusta. Nei primi anni del dopoguerra, infatti, il rischio che gli Stati Uniti potessero usare la bomba, per esempio contro la Cina o la Corea del Nord, fu molto serio. E’ impossibile dire cosa sarebbero stati capaci di fare se non fossero stati resi più prudenti dal potere di rappresaglia dei Sovietici, reso possibile, in una misura difficile da valutare, dai contributi di Ted e (soprattutto) di Fuchs. Alla fine, dunque Ted non aveva rimpianti”.


Intervista a

JOSEPH ROTBLAT

Piergiorgio OdifreddiIl 9 luglio 1955 Bertrand Russell rendeva noto un manifesto, firmato da una decina di scienziati eccellenti, che metteva in guardia contro i pericoli della proliferazione nucleare bellica. Firmato da Einstein una settimana prima di morire, il documento venne considerato il suo testamento spirituale, e attirò l’attenzione del mondo intero.

Tra il 7 e il 10 luglio 1957, nella cittadina canadese di Pugwash, in Nuova Scozia, ventidue scienziati si riunirono in un convegno a porte chiuse per discutere i temi sollevati dal manifesto. L’incontro fu il primo di una lunga serie, e diede il nome a quello che oggi si chiama il Movimento Pugwash.

Nel 1995, a quarant’anni esatti dalla presentazione del manifesto Russell-Einstein, il Movimento Pugwash e il suo presidente storico, Joseph Rotblat, l’unico fisico che “fece il gran rifiuto” a Los Alamos, ricevettero il premio Nobel per la pace per i loro sforzi volti a diminuire ed eliminare il ruolo delle armi nucleari nella politica internazionale.

Abbiamo intervistato Rotblat nell’ufficio del Movimento Pugwash a Londra, che egli continua a frequentare giornalmente fin dalle prime ore dell’alba, nonostante i suoi 94 anni.

«Come ha cominciato a interessarsi di fisica atomica, alla fine degli anni ’30?»

A quel tempo ero ancora in Polonia, il mio paese d’origine, e facevo esperimenti sulla diffusione di neutroni nell’uranio. Quando ho letto in «Nature» della scoperta della fissione nucleare da parte di Otto Frisch e Lise Meitner, mi è subito venuto in mente che durante l’impatto con un neutrone non solo l’atomo di uranio si spezza, ma dovrebbero prodursi molti altri neutroni. Poichè avevo gli strumenti praticamente pronti per questo genere di esperimenti, in pochi giorni ho potuto verificare l’intuizione.

«E ha capito che poteva prodursi una reazione a catena?»

Questo è il punto. In base agli esperimenti che avevo fatto, ho capito che in breve tempo poteva prodursi un gran numero di neutroni, e dunque di fissioni successive. Questo apriva le porte allo sfruttamento dell’energia atomica sognato da Rutherford, e alla realizzazione di reattori nucleari. Ma i miei calcoli mostravano che una grande quantità di energia sarebbe stata prodotta in un tempo molto breve, inferiore a un microsecondo, il che equivaleva a una potente esplosione. Cosí, subito dopo gli esperimenti, mi venne in mente l’idea della bomba atomica.

«Ne ha parlato con qualcuno?»

No. Decisi di non parlarne con nessuno, e di dimenticare la cosa: costruire armi non era affar mio. Come scienziato, ho sempre fatto ricerca fine a se stessa. Ma come scienziato umanitario, mi sono sempre preoccupato che la scienza venisse usata per il bene dell’umanità.

«Che legami c’erano fra i suoi risultati e quelli di Joliot Curie e Fermi, citati da Einstein nella sua famosa lettera a Roosevelt come evidenza della possibilità di costruire la bomba?»

Il mio lavoro era analogo a quello di Joliot Curie. Il quale, tra l’altro, mi invitò ad andare a lavorare con lui a Parigi. Io invece andai da Chadwick a Liverpool, perchè lui stava costruendo un ciclotrone e anch’io avrei voluto costruirne uno in Polonia.

«E quando ripensò alla bomba atomica?»

Nell’estate del 1939 una pubblicazione tedesca menzionò la possibilità di costruirla, e questo mi mise sul chi va là. Io ormai sapevo che si poteva fare, e pensavo che se l’avesse ottenuta Hitler sarebbe stata la fine del mondo democratico. L’unico modo per evitarla era che anche noi costruissimo la bomba, come deterrente. Ero ancora riluttante a lavorarci, ma quando la guerra scoppiò e Hitler invase la Polonia, capii che non potevamo più aspettare.

«Hitler aveva spartito la Polonia con Stalin. Lei non nutriva le stesse paure anche nei confronti dell’Unione Sovietica?»

No. Per me il pericolo immediato era Hitler, e dopo il 1 settembre 1939 andai da Chadwick e gli dissi che avremmo dovuto costruire una bomba atomica. Non per usarla contro qualcuno, ma appunto come deterrente.

«E quale fu la reazione di Chadwick?»

Quella che aveva di solito: disse che doveva pensarci su.

«Lei quindi propose la costruzione di una bomba inglese!»

Certo. Qualche mese dopo Peierls produsse un memorandum, i cui calcoli dimensionali dimostravano che la bomba era fisicamente fattibile.  Frisch ci raggiunse a Liverpool, e iniziammo le ricerche. In pratica però non potemmo fare molto, perchè la separazione degli isotopi richiedeva capacità scientifiche e industriali che l’Inghilterra non aveva. Ma Oliphant, che era stato indirettamente coinvolto in questo lavoro, andò negli Stati Uniti e ne parlò con gli americani. Era il 1942 e loro stavano costruendo un reattore nucleare, ma non avevano ancora pensato ad applicazioni militari. Il progetto Manhattan partí solo dopo il rapporto di Oliphant.

«Lei come ci finí?»

Con altri membri del «team» inglese, che era stato all’origine di tutto. Io lavorai allo spettro energetico dei neutroni emessi, che serviva a determinare quanti ne venivano catturati dal nucleo, e quanti invece contribuivano alla fissione.

«E quando decise di andarsene?»

Nel 1944 Chadwick, che dopo aver lavorato a Los Alamos aveva assunto un ruolo politico a Washington, mi disse di aver saputo che nel 1942 i tedeschi avevano abbandonato il progetto per la bomba atomica.

«Perchè Heisenberg aveva sabotato il progetto.»

Questo lo dice lui. Comunque, ci lavorarono. Solo che non riuscirono ad andare molto avanti. Lo si deduce anche dalle registrazioni che furono poi fatte a Farm Hall.

«A proposito, che opinione si è fatta sulla famosa conversazione fra Heisenberg e Bohr?»

Ho sempre pensato ciò che ora è stato confermato dalla pubblicazione delle lettere di Bohr: che Heisenberg disse che voleva costruire la bomba, e che Bohr fu scioccato dalla notizia.

«Lei ha mai parlato della cosa con Heisenberg?»

L’ho incontrato, ma non ho mai voluto affrontare questo argomento.

«E per tornare a Los Alamos?»

Non appena seppi da Chadwick che i tedeschi non avrebbero avuto la bomba, io non ebbi più motivi di partecipare al progetto. Non avevo interesse a costruire una bomba perchè fosse usata, e mi dimisi.

«Immagino che non fu facile.»

Fu molto difficile! Ci furono non solo pressioni, ma minacce. Fui accusato di essere una spia, e di voler tornare in Inghilterra per dare i segreti della bomba ai russi. Ma alla fine riuscii ad andarmene.

«Come ricorda il 6 agosto 1945?»

Quando me ne andai, una delle condizioni era che troncassi ogni rapporto con chiunque continuava a lavorare al progetto. Tornato a Liverpool, quindi, non seppi più niente di cosa succedeva a Los Alamos. Quando ci fu la notizia di Hiroshima, ebbi uno «shock» terribile. Avevo anche pensato, e in parte sperato, che la bomba non avrebbe funzionato. E che, in ogni caso, non sarebbe stata usata contro la popolazione civile, ma solo in maniera dimostrativa. Inoltre, avevo capito già a Los Alamos che questo era solo l’inizio, e che ci sarebbe stata una bomba all’idrogeno.

«Spesso l’uso della bomba viene giustificato dicendo che salvò molte vite americane. Che cosa pensa di questo genere di scuse?»

Certo furono salvate delle vite, ma non il mezzo milione o più che in genere si pretende. La stima più ragionevole, fatta dagli Alti Comandi dell’esercito statunitense, era che il costo dell’invasione del Giappone sarebbe stato tra i venti e i trentamila caduti. Ma il vero punto è che non c’era bisogno di usare la bomba per finire la guerra, perchè i giapponesi erano ormai sconfitti, e lo sapevano, e stavano contrattando la resa a condizioni praticamente uguali a quelle che furono poi accettate dopo Hiroshima e Nagasaki.

«Lei quindi non crede che i giapponesi non si sarebbero mai arresi, senza la bomba.»

Assolutamente no! In realtà, il motivo per cui Truman usò la bomba non fu di finire la guerra, ma di mostrare al mondo, e in particolare all’Unione Sovietica, la nuova potenza militare degli Stati Uniti. Anzi, ho motivo di credere che gli americani abbiano sempre considerato i russi come i loro principali nemici. 

«A questo proposito, è vero che persino Bertrand Russell era favorevole a un bombardamento atomico preventivo dell’Unione Sovietica, prima che i russi costruissero la loro bomba?»

Lo disse una volta verso il 1950, credo in risposta a una domanda dopo una conferenza a Birmingham. Ma a me assicurò che fu un’osservazione estemporanea, e che non l’aveva mai pensato seriamente.

«Lei l’ha conosciuto prima del suo coinvolgimento nel movimento Pugwash?»

Sí, l’ho incontrato nel 1954, quando ci fu il primo test della bomba all’idrogeno. La {sc bbc} organizzò un programma, e io fui invitato a parlare della fisica della bomba. Fra i partecipanti c’era anche Russell, che poi mi disse di aver apprezzato molto il mio intervento tecnico. Diventammo amici, e quando preparò il manifesto del 1955 mi chiese di firmarlo, benchè io non avessi il premio Nobel. Ero il più giovane firmatario, anche se ora sono l’unico rimasto.

«Come si arrivò al Movimento Pugwash?»

Il Pandit Nehru venne a sapere del manifesto e propose un incontro di scienziati a Delhi nel 1956, in concomitanza col Congresso Nazionale delle Scienze. Avevamo già mandato gli inviti, ma fummo costretti a cancellare l’incontro per le crisi di Suez e di Ungheria. Allora il miliardario canadese Cyrus Eaton ci offrí di finanziare un incontro nel 1957, a condizione che si tenesse nel suo villaggio natale di Pugwash. E cosí fu.

«Che influenza ha avuto il Movimento nei vari trattati di limitazione degli armamenti nucleari?»

Benchè i partecipanti alle conferenze intervengano a titolo individuale, e non in rappresentanza di organizzazioni o governi, al loro ritorno essi hanno spesso informato le rispettive autorità delle proposte emerse. Ad esempio, trent’anni dopo il trattato per l’abolizione dei test nucleari non terrestri (negli oceani, nell’atmosfera e nello spazio) del 1963 ho saputo da Lord Zuckermann che la stesura del trattato, alla quale lui stesso aveva partecipato, era stata molto influenzata dalle nostre idee.

«Di che idee si trattava, nello specifico?»

Benchè il nostro scopo finale fosse l’eliminazione degli armamenti nucleari, durante la guerra fredda il nostro obiettivo immediato era impedire che essa diventasse calda. Quindi discutemmo molti modi di limitare i danni, tipo gli accordi di non proliferazione. E stabilimmo dei canali informali di comunicazione tra le varie potenze, in periodi in cui essi non esistevano ufficialmente. Gorbacev mi ha detto personalmente che i consigli di alcuni scienziati sovietici che avevano partecipato alle nostre conferenze l’hanno aiutato a prendere la decisione di terminare la guerra fredda.

«Sacharov ha mai partecipato?»

Solo alla fine, nel 1988 e nel 1989. Doveva tornare l’anno seguente, ma morí.

«Venendo ai giorni nostri, che cosa pensa del recente accordo tra Bush e Putin sulla riduzione dei missili?»

Qualunque riduzione dell’arsenale nucleare è benvenuta, anche se noi siamo per un’eliminazione completa. Ma quell’accordo è una farsa, perchè non si distruggono le testate: se vengono messe nei magazzini, possono anche essere ritirate fuori. In ogni caso l’accantonamento richiederà dieci anni, e ne rimarrà operativa una quantità inaccettabile. In termini pratici, non fa una gran differenza. Se n’è fatto un gran can can, ma è solo un’illusione.

«E per l’altro grande problema del momento, la tensione tra India e Pakistan?»

Per anni abbiamo messo in guardia sul pericolo di allargamento del club nucleare, e sulla necessità che i paesi membri rispettassero i trattati internazionali. E invece ci sono stati i test cinesi e indiani del 1998. E oggi c’è la scusa della lotta al terrorismo, benchè gli armamenti nucleari non vi giochino nessun ruolo. Il risultato è che ci troviamo di fronte a una reale possibilità di guerra nucleare.

«Non si tratta soltanto di un mostrare i muscoli?»

Mostrare i muscoli può condurre a una vera guerra, magari iniziata in maniera convenzionale. Ma l’India è molto più forte, da questo punto di vista. Per evitare una disfatta, il Pakistan potrebbe allora essere spinto dalla reazione popolare a usare la bomba.

«Il Movimento Pugwash si è occupato non soltanto delle armi atomiche, ma anche di quelle chimiche e biologiche. I suoi membri non sono dunque più soltanto fisici?»

Direi, più in generale, che nel Movimento non ci sono soltanto scienziati. I fisici, i chimici, i biologi portano la loro conoscenza tecnologica, ma per discutere questioni politiche servono esperti di sociologia, di economia, di diritto internazionale. I matematici e i filosofi possono invece aiutare a trovare soluzioni razionali ai problemi: d’altronde, il movimento è stato creato da Bertrand Russell!

«E’ vero che la maggioranza degli scienziati oggi lavora a problemi che sono, direttamente o indirettamente, legati agli armamenti?»

Dire una maggioranza è forse eccessivo. Il venti per cento è più realistico, ma è comunque una bella fetta.

Gli armamenti non sono lo scopo della scienza, e nemmeno della tecnologia. Il fatto è che nel passato c’era una netta separazione tra scienza pura e applicata, e ci volevano decenni per trovare applicazioni pratiche delle scoperte scientifiche. Gli scienziati potevano quindi non ritenersi responsabili per le ricadute delle loro ricerche. Ma col Progetto Manhattan la separazione è svanita, e gli scienziati non possono più autoassolversi con la scusa che fanno solo ricerca. Chiunque di noi, scienziato o cittadino comune, oggi è direttamente responsabile delle ricadute delle sue azioni.


La reticenza delle grandi potenze
 


di BRUNO BARRILLOT *


A differenza delle armi chimiche, che perdono pericolosità e tossicità con la dispersione, gli agenti delle armi biologiche, in ambiente adatto, possono moltiplicarsi, perpetuarsi e addirittura mutare geneticamente per aggirare le misure di protezione. Si ritiene, ad esempio, che l’agente biologico del botulismo sia tre milioni di volte più tossico del sarin (agente chimico) (1). Malgrado la convenzione che interdice l’uso delle armi biologiche adottata nel 1972, la ricerca è proseguita in gran segreto. Anzi, vista l’ampiezza del programma sulle armi biologiche scoperto in Russia, l’Accademia delle scienze americana ha lanciato, nel 1997, un programma di ricerche biologiche russo-americano, a partecipazione britannica, per tentare di arginare un’eventuale fuga di cervelli (2).
E’ un’ambiguità condivisa anche da coloro che si dichiarano promotori delle convenzioni di interdizione. Per esempio, una recente inchiesta ha dimostrato che la Francia ha continuato in segreto le sue sperimentazioni sulle armi chimiche, nel sito B2 Namous, vicino a Colomb-Béchar, più di quindici anni dopo l’indipendenza dell’Algeria (3). Anche dopo la firma della convenzione sull’interdizione delle armi chimiche del 1993, ogni stato ha conservato il diritto di mettere a punto, fabbricare, acquistare e anche utilizzare prodotti tossici “a scopi non proibiti”. E’ vero che, in questo caso, le dichiarazioni sono obbligatorie e le misure di verifica molto puntigliose (4).
Certo, questo tipo di ricerche, autorizzate per difendersi dagli effetti delle armi chimiche, resterà appannaggio delle grandi potenze dotate dei mezzi finanziari necessari a effettuarle in impianti e laboratori abituati da tempo a lavorare nel massimo segreto. E’ evidente, poi, che le grandi potenze non abbandoneranno i loro programmi di punta (difficilmente controllabili) sulle armi chimiche binarie, cioè composte da due prodotti relativamente poco tossici se stoccati separatamente, ma che, mescolati al momento dell’esplosione, formano un prodotto mortale. Già gli Stati uniti, nel 1985, poi la Francia nel 1987 (5) avevano parlato dello stato di avanzamento di questi programmi in risposta alle minacce sovietiche. Si tratta forse, nel campo delle armi chimiche come in quello delle armi nucleari, di creare quello spazio che fa la differenza tra coloro che, di fatto, avranno dei diritti e quelli che non ne hanno più?
Dall’adozione della convenzione del 1993, gli stati firmatari sono con le spalle al muro. Gli Stati uniti l’hanno finalmente ratificata il 24 aprile 1997, alla fine di un dibattito molto burrascoso in cui ex segretari della difesa hanno sostenuto che il trattato metteva a rischio la sicurezza del paese (6). Dopo mesi di pretesti e di ricatti sul costo della distruzione delle sue immense riserve di armi chimiche , la Russia ha fatto altrettanto, il 5 novembre 1997. La Francia che l’aveva preceduta, il 2 marzo 1995, ha pubblicato solo ora, tre anni dopo, un primo decreto (7) che designa un comitato interministeriale incaricato di suddividere le competenze amministrative in vista dell’applicazione della convenzione.
Come era prevedibile, non viene indicata nessuna data di scadenza per la realizzazione delle principali disposizioni.
Inoltre, pur affermando di attribuire “grande importanza a una rapida adozione di un progetto di legge che deve garantire l’adozione piena e completa della convenzione (8)“, il governo francese fornisce solo informazioni frammentarie sullo stato delle riserve e sui suoi centri di ricerca mentre, per esempio, fin dal 4 giugno 1997, gli inglesi hanno pubblicato un dettagliato rapporto di 240 pagine sul loro precedente programma di armi chimiche.
Promesse di trasparenza Visto che la denuncia degli stock e la loro distruzione fanno parte integrante della convenzione, ogni firmatario si è impegnato alla trasparenza, il che permetterà di valutare la probabile immensità del compito. Gli Stati uniti dichiarano di possedere 30.000 tonnellate di munizioni chimiche, mentre l’impianto costruito sull’isola Johnston in pieno Pacifico che doveva incenerirle non sarebbe sufficiente: ne avrebbe eliminato solo il 3 %. Sarà perciò necessario realizzare altri inceneritori sul territorio americano, ma i movimenti di cittadini si attivano già ora per impedirne la costruzione. Gli esperti statunitensi ritengono che ci vorranno 12 miliardi di dollari per eliminare le riserve. Quanto ai russi, il cui arsenale chimico è valutato da 40.000 a 80.000 tonnellate, a seconda delle stime, essi sostengono che il costo della distruzione non supererà i 5 miliardi di dollari (9).
Con altrettanta preoccupazione ci si chiede come salvare il mar Baltico e una parte del mare del Nord da un disastro ecologico: alla fine della seconda guerra mondiale russi e tedeschi si sono sbarazzati di 87.000 tonnellate di munizioni chimiche affondandole nelle acque del mar Baltico, mentre americani e britannici ne hanno buttate più di 160.000 tonnellate nello Skagerrak, l’istmo situato tra Norvegia, Svezia e Danimarca.
Secondo i rapporti degli esperti, l’iprite che giace in fondo ai mari conserverebbe un’elevata tossicità per quattrocento anni (10).
Malgrado tutti gli ostacoli e le reticenze di cui si è detto, la lotta contro la proliferazione chimica sembra andare nella giusta direzione. Al contrario, la revisione dell’inefficace convenzione del 1972 sulle armi biologiche sta andando per le lunghe. Alla fine del 1994, a Ginevra, è stato costituito un Gruppo ad hoc per avanzare proposte, ma i suoi lavori, di sessione in sessione, si impantanano e, malgrado l’urgenza, si arriverebbe a un protocollo addizionale solo nel 2001, cioè vent’anni dopo l’entrata in vigore della convenzione. Le insistenti pressioni dell’industria farmaceutica e biotecnologica sono dovute all’enormità dei capitali messi in gioco nel settore. Queste industrie temono che le procedure ispettive previste dal futuro protocollo, analoghe a quelle della convenzione sulla proibizione delle armi chimiche, si traducano in un vero e proprio spionaggio industriale (11).
Ma stroncare la temibile proliferazione delle armi biologiche è incomparabilmente più importante degli inconvenienti che possono derivare da ispezioni nei luoghi sospetti o dubbi. Se è stato considerato normale che l’Unscom effettuasse nel corso del 1996 venti ispezioni in Iraq (alcune delle quali di molte settimane) solo per comprovare la produzione di agenti biologici (12), bisogna che stati e industriali si conformino a una disciplina liberamente accettata per porre fine alla minaccia biologica.
Gli esperti ritengono che le industrie dovrebbero impegnarsi di più nei negoziati sul futuro protocollo. Potrebbero cooperare con i diplomatici, in particolare proponendo procedure ispettive e strumenti di controllo che salvaguardino i loro interessi (13).
Al di là di diplomatici, esperti e industriali, rimane da coinvolgere la società civile. A proposito di un futuro trattato di interdizione delle armi nucleari, il professor Joseph Rotblat, premio Nobel per la pace, proponeva di creare un sistema di verifica da parte dei cittadini basato in particolare sulla denuncia “attraverso la quale tutti i cittadini abbiano il diritto-dovere di fornire ad un’autorità internazionale informazioni relative a ogni tentativo di violazione del trattato. Diritto e dovere civici che dovranno essere garantiti da una clausola del trattato, che imponga la promulgazione di leggi nazionali pertinenti nei paesi che aderiscono al trattato (14)“. Si può dire che la Francia si mostri disponibile a questo invito. Infatti, la proposta di legge sulla proibizione delle mine anti uomo discussa in Parlamento il 24 aprile 1998, prevede di associare le organizzazioni non governative ai meccanismi di verifica. Non sarebbe opportuno fare la stessa cosa per l’eliminazione di tutte le armi di distruzione di massa?




note:

* Centro di documentazione e ricerca sulla pace e i conflitti, Lione.

(1) John D. Holum, direttore de l’Arms Control and Disarmament Agency (Acda), in una conferenza stampa tenuta a Bonn l’11 febbraio 1998.

(2) Sophie Shihab, “Les mystères de la Cité 19”, Le Monde, 27 febbraio 1998.

(3) Vincent Jauvert, “Quand la France testait des armes chimiques en Algérie”, Le Nouvel Observateur, Parigi, 23 ottobre 1997.

(4) Dall’entrata in vigore della convenzione nell’aprile 1997 e fino alla fine del febbraio 1998, l’Organizzazione per l’interdizione delle armi chimiche ha effettuato 152 ispezioni di “routine” in 24 stati, Stati uniti inclusi .

(5) L’8 aprile 1987, il deputato François Fillon ha annunciato che il governo aveva deciso, con l’approvazione del presidente della Repubblica, “di iniziare un processo di industrializzazione delle munizioni chimiche binarie”. Journal officiel, “Débats parlementaires”, Assemblea nazionale, prima seduta dell’8 aprile 1987, p. 94.

(6) Washington Post, 5 marzo 1997.

(7) Decreto 98-36 del 16 gennaio 1998.

(8) Journal officiel, “Sénat, questions et réponses des ministres”, 5 marzo 1998.

(9) Agence France Presse, 20 giugno 1997.

(10) Alexander W. Kaffka, Sea Dumped Chemical Weapons. Aspects, Problems, and Solutions, Kluwer Academic Publishers, Norwell, Maine (Stati uniti), 1996, p. 69.

(11) Malcolm Dando, in Disarmament Diplomacy, dicembre 1997, p.
13.

(12) Sipri Yearbook 1997, Oxford University Press, p. 460.

(13) Johnathan B. Tucker, “Technology Review”, in Courrier international, Parigi, 26 febbraio 1998, p. 32.

(14) Joseph Rotblat, “Vérification par le citoyen”, in Eliminer les armes nucléaires. Est-ce souhaitable? Est-ce réalisable? Transition, Parigi, 1997.
(Traduzione di G.P.)


Einstein, Russell e la bomba: il 50° anniversario.

50 anni fa la pubblicazione del Manifesto Russell-Einstein, uno dei fondamenti del pensiero e della politica antinucleare. Cos’è cambiato da allora?  

Lawrence S. WittnerFonte: http://www.zmag.org7 luglio 2005Il 9 luglio 2005 cadrà il 50° anniversario del più importante documento di denuncia mai scritto sulla minaccia rappresentata dalle armi nucleari per il genere umano. Viene geralmente definito “Il Manifesto Russell-Einstein” e fu ideato da Bertrand Russell, il grande filosofo-matematico e dal più conosciuto degli scienziati, Albert Einstein.
 

Dopo l’ annientamento delle città giapponesi, causato dalle bombe atomiche nell’ agosto 1945, sia Russell che Einstein avevano messo in guardia il mondo dagli enormi pericoli rappresentati dai nuovi armamenti. Nonostante questo, verso la metà degli anni ’50, lo scatenarsi della Guerra Fredda produsse una situazione ancor più inquietante: un aspro confronto sovietico-americano, nel quale entrambe le parti erano armate di bombe all’ idrogeno, un’ arma termonucleare, con un potenziale distruttivo mille volte superiore a quello posseduto dalla bomba che aveva distrutto Hiroshima. I due contendenti della Guerra Fredda non mostrarono la minima esitazione nell’ inserire a pieno diritto i nuovi armamenti nei loro progetti di strategia bellica. Il presidente Eisenhower dichiarò pubblicamente che sarebbero stati usati “esattamente allo stesso modo nel quale si usano i normali proiettili”.
 

Nel prendere atto di questa situazione estremamente pericolosa, l’ 11 febbraio 1955, Russell scrisse ad Einstein, suggerendo che “i più eminenti uomini di scienza avrebbero dovuto fare qualcosa di grande effetto, per far comprendere alla gente ed ai governi le catastrofi che potevano essere causate”. Si rendeva necessario “sottolineare con forza…che la guerra avrebbe potuto significare l’ estinzione della vita sul pianeta” e che, di conseguenza, nell’ era nucleare, le nazioni dovevano imparare a convivere in pace. Einstein rispose di concordare con “ogni singola parola” della lettera di Russell.
Bisognava fare qualcosa che “lasciasse il segno, sia nella coscienza della gente comune che in quella dei leaders politici”. Come risultato, Russel stese una prima copia della dichiarazione che fece poi circolare tra un gruppo di illustri scienziati, nella speranza di ottenere la loro sottoscrizione.
 

L’ impresa si dimostrò ardua. Nel contesto della Guerra Fredda non era facile convincere intellettuali di quel calibro ad ignorare le loro differenze di vedute politiche e concentrarsi su quello che era l’interesse comune dell’ umanità. Ovviamente, gli scienziati dell’ Unione Sovietica e della Cina si rifiutarono di firmare il documento. E poi, il 13 aprile, Einstein, dopo una breve malattia, morì,
 

Una delle ultime cose che fece prima di morire fu di scrivere una lettera a Russell, dicendogli che aveva deciso di firmare il documento. In seguito Russell riuscì a convincere altri nove eminenti scienziati: Percy Bridgman, Hermann Muller e Linus Pauling dagli Stati Uniti, Cecil Powell e Joseph Rotblat dalla Gran Bretagna, Hideki Yukawa dal Giappone, Frédéric Joliot-Curie dalla Francia, Max Born dalla Germania Ovest e Leopold Infeld dalla Polonia.
 

Il 9 luglio 1955, a Londra, durante una conferenza pubblica gremita di rappresentanti dei mezzi di informazione, Russel annunciò per la prima volta, quello che fu poi conosciuto come “il Manifesto Russell-Einstein”. “In questa occasione parliamo non come membri appartenenti a questo o a quel paese, continente o credo politico o religioso, ma come esseri umani….la possibilità di sopravvivenza dei quali viene oggi messa in dubbio”, diceva.
Riguardo alla Bomba: “dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a chiedere a noi stessi non quali passi debbano essere compiuti per ottenere la supremazia militare per qualunque sia il gruppo di nostro interesse, perchè questi passi non possono più essere compiuti.” La gente si dovrebbe chiedere, piuttosto: “Quali passi possono essere compiuti per prevenire uno scontro militare che sarebbe disastroso per entrambe le parti in causa?” La domanda che l’ umanità intera si trovava costretta a porsi era: “Vogliamo porre fine al genere umano o rinunciare alla guerra?” Un primo passo significativo in quella direzione sarebbe stato “rinunciare a tutte le armi nucleari”. Il Manifesto si concludeva con la seguente dichiarazione: “Facciamo il presente appello come esseri umani ad altri esseri umani. Ricordate la vostra umanità e dimenticate tutto il resto.”
 

La reazione a questa dichiarazione coraggiosa e intransigente fu sorprendentemente positiva. La stampa, inizialmente scettica, riservò una buona accoglienza al documento, in parte a motivo delle notizie drammatiche dell’ appoggio arrivato a Russel da Einstein dal letto di morte. Scienziati e intellettuali da ogni parte del mondo si votarono all’ azione: tra loro il fisico sovietico Andrei Sakharov, che iniziò così la propria campagna per mettere fine alla corsa agli armamenti nucleari ed alla Guerra Fredda. Cittadini da ogni parte del mondo si organizzarono in movimenti per la “messa al bando della bomba”, come il S.A.N.E., America’s National Committee for a Sane Nuclear Policy (Comitato nazionale americano per una giusta politica nucleare) ed il Britain’s Campaign for Nuclear Disarmament (Campagna per il disarmo nucleare della Gran Bretagna).
 

I firmatari del Manifesto Russell-Einstein giocarono un ruolo importante nella nascente campagna anti-nucleare. Un gruppo di 52 premi Nobel per la scienza, organizzato da Max Born, firmò la Dichiarazione di Mainau, che chiedeva a tutte le nazioni di “rinunciare alla forza come soluzione decisiva per le controversie” , altrimenti, l’unica prospettiva sarebbe stata la distruzione totale. Insieme a Rotblat, Russel fondò il movimento chiamato ‘Pugwash’, che si proponeva di riunire gli scienziati di ogni paese, da entrambi i lati della Cortina di Ferro, per discutere sulla fattibilità di un eventuale disarmo e controllo delle armi nucleari. Rotblat e Pugwash gettarono le basi del “Trattato per la parziale messa al bando dei tests nucleari” (per il quale Rotblat fu insignito dell’ ordine di Cavaliere dal governo britannico). Entrambi ricevettero in seguito il premio Nobel per la Pace. Dopo il discorso inaugurale tenuto ad un incontro della “Campaign for Nuclear Disarmament”, Russell ne fu eletto presidente. Muller fece severi e potenti ammonimenti sugli effetti genetici della radioattività, Pauling chiamò a raccolta scienziati, negli Stati Uniti e in tutto il mondo, contro i test nucleari, diventando così una spina nel fianco dell’ amministrazione Eisenhower e l’ ennesimo destinatario di un altro premio Nobel per la Pace.
 

Il Manifesto Russel-Einstein ha avuto anche la capacità di influenzare molti strateghi della politica, per quanto indirettamente, dato che fu la campagna antinuclearista e la corrente di pensiero che questa ha generato, a contribuire maggiormente ad una riprogettazione dei programmi politici da parte di molti.
Eisenhohwer, trovatosi di fronte ad una tale resistenza popolare ai test nucleari, nel 1958 decise, a malincuore, di firmare l’ accordo per una moratoria dei test. Kennedy, assediato dalle proteste contro le armi ed i test nucleari, mise fine ai test nell’ atmosfera e inviò il fondatore e presidente del SANE, Norman Cousins, come suo emissario per il bando dei test nucleari, da Krusciov.
 

A volte, però, gli effetti sono stati ancora più diretti. Mikhail Gorbachev attinse apertamente il concetto, a lui caro, di “nuovo pensiero” proprio dal Manifesto. “L’ era nucleare richiede che tutti cominciamo a pensare in modo nuovo” disse a Francois Mitterand. O, come scrisse nel suo libro sulla Perestroika “Ognuno di noi si trova a dover affrontare la necessità di imparare a vivere in pace in questo mondo, di trovare una nuova modalità di pensiero” e “l’ asse portante di un nuovo modo di pensare è il riconoscimento della priorità dei valori umani o, per essere più precisi, della sopravvivenza del genere umano.” In occasione della nomina da parte di Gorbachev del nuovo ministro degli Esteri sovietico, il riformatore, e suo compagno di partito, Eduard Shevardnadze, ricordò che “il Manifesto Russell-Einstein ha offerto ai politici la chiave per risolvere i nodi più complessi ed inquietanti dell’ epoca presente”. Secondo Georgi Arbatov, un altro dei suoi massimi consiglieri di politica estera, le idee più importanti e decisive, relative al “nuovo pensiero”, al di fuori dell’ Unione Sovietica, erano venute proprio da Einstein e Russell.
 

Oggi, dopo 50 anni dalla pubblicazione del Manifesto di Russell-Einstein, non c’è bisogno del più grande scienziato del mondo e di uno dei più grandi filosofi, per rendersi conto che in un mondo pieno zeppo di armi devastanti di ogni tipo, nucleari e no, ricorrere alla guerra è un atto immensamente pericoloso e distruttivo. Non dovrebbe neanche essere difficile rendersi conto che il mondo sarebbe un posto molto più sicuro se ci fossero meno armi nucleari e non il contrario.
Eppure, in qualche modo, i leaders di nazioni presumibilmente avanzate e civilizzate, compresi gli Stati Uniti, continuano ad andare avanti con progetti per la costruzione di nuovi arsenali nucleari e trascinano i propri paesi in guerre le cui ragioni non sono chiare, come se i soldati fossero armati di bastoni invece che di uno dei marchingegni più distruttivi dell’ intera storia dell’ umanità. Il fatto che, nonostante i progressi in campo scientifico, tecnologico e culturale, così tante nazioni al mondo siano oggi governate da persone dai valori primitivi e dall’ intelligenza limitata, è una delle tragedie del nostro tempo.

Note:Lawrence S. Wittner è docente di Storia alla State University of New York, Albany.
Il suo ultimo libro è “Toward Nuclear Abolition: A History of the World Nuclear Disarmament Movement, 1971 to the Present” (Stanford University Press).
 

Tradotto da Patrizia Messinese per http://www.peacelink.it
Il testo e’ liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la
fonte (Associazione PeaceLink) e l’autore.


 

articolo originale:
http://www.zmag.org/content/showarticle.cfm?SectionID=11&ItemID=8230


MASSIMI SISTEMI.04
Un giuramento per gli scienziati?

di Pietro Greco“IL NOSTRO PIANETA È MALATO. E gli scienziati devono formalmente impegnarsi a prendersi cura di lui. Con un giuramento. Con un giuramento solenne come quello dei medici, á la Ippocrate”. La proposta non è nuova. Ne parlava già Albert Einstein, dopo la seconda guerra mondiale e Hiroshima. È stata riformulata più volte, nell’ultimo mezzo secolo. Ha sempre riscosso un certo consenso. Ma non si è mai riusciti a concretizzarla.

A riproporre il “giuramento dello scienziato”, questa volta, è Gerard Toulouse, direttore di ricerca presso la École Normale Supérieur di Parigi. E poiché lo scienziato francese ha reiterato l’idea davanti a un pubblico selezionato –  quello della American Association for the Advancement of Science (Aaas), la più grande organizzazione scientifica del mondo, riunita nei giorni scorsi per il suo meeting annuale nella città di San Francisco – in un periodo in cui la crescita delle conoscenze scientifiche consente un’accelerazione senza precedenti dell’innovazione tecnologica e da più parti gli scienziati vengono indicati, spesso additati, come i responsabili (o come i corresponsabili) dei malanni planetari, conviene riprenderla seriamente in esame. E chiederci se sia giusto che gli uomini di scienza seguano l’antico esempio dei medici e prestino un giuramento solenne, á la Ippocrate. Del tipo: “Io, uomo di scienza, giuro di perseguire nella mia attività di ricerca sempre e solo il bene dell’umanità …”.

Virtute e conoscenza…

La domanda non ammette risposte assolute, di principio. Non si può infatti rispondere no, in nome del principio (sacro) della libertà di ricerca. Perché a questo principio si potrebbe contrapporre il principio (altrettanto sacro) del massimo bene comune. E il giuramento avrebbe proprio lo scopo di contemperare i due principi assoluti lungo il fronte cangiante del possibile conflitto. Ma non si può neppure rispondere con un sì senza condizioni, individuando in quello della libertà di ricerca una sorta di principio di ordine inferiore rispetto al principio del bene comune. La libertà di ricerca è libertà di conoscere. È un elemento fondante della storia naturale dell’uomo. Come diceva Dante: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza” (il corsivo è opera del modesto redattore, non del sommo poeta).

La discussione non può dunque avvenire in punta di filosofia (o, almeno, di filosofia degli assoluti), perché ci porterebbe dritto nel regno della indecidibilità. Ci porterebbe a dover scegliere tra virtute e conoscenza. Cioè a rinnegare una parte integrante di noi stessi. Libertà e ricerca del bene comune, conoscenza ed etica, sono tutti pilastri fondanti del patto sociale democratico e, verrebbe da dire, della stessa civiltà occidentale. Non ha senso, non è possibile ed è persino pericoloso stabilire scale assolute di priorità. La questione deve essere risolta con un approccio (una filosofia) di tipo pragmatico. Conviene che gli scienziati seguano l’esempio dei medici e prestino un giuramento á la Ippocrate? E se sì, è possibile?



Il “bene dell’umanità”
 Alla prima domanda occorre rispondere sì, conviene. Anche se si tratta di un sì condizionato o, almeno, analiticamente argomentato. Proviamoci. Il lavoro degli scienziati produce conoscenza. E la conoscenza ha un valore in sé. Un valore culturale, che prescinde da ogni sua concreta applicazione. Questo valore intrinseco della conoscenza tende a essere dimenticato, in questa nostra epoca dove sembra avere valore solo ciò che viene misurato dal mercato. Tuttavia il valore intrinseco della conoscenza esiste e ci conviene tutelarlo.

Tuttavia è anche vero che l’innovazione tecnologica che informa di sé l’intera nostra società e influisce in modo determinante sui nostri stili di vita e persino sulla percezione che abbiamo di noi stessi e degli altri, procede a ritmi sempre più veloci e si alimenta sempre più di conoscenza scientifica. Insomma, gli effetti diretti e, soprattutto, indiretti del lavoro degli scienziati sono, ormai, una componente decisiva della dinamica sociale. Questi effetti consentono di guarire, qui e là, alcuni tra i malanni del pianeta e dei suoi rumorosi abitanti. Ma, talvolta, producono, come rileva Toulouse, malanni planetari. Un impegno formale, anche sotto forma di giuramento solenne, da parte degli uomini di scienza che, riaffermando il valore in sé della conoscenza, riuscisse a rendere massimi gli effetti desiderabili e a ridurre al minimo gli effetti non desiderabili dell’attività di ricerca, sarebbe davvero auspicabile. E non troverebbe ostacolo alcuno nella maggior parte degli uomini di scienza, i quali già ora lavorano nella intima convinzione di “fare il bene dell’umanità”.

Un oggetto “distribuito”

Resta da verificare se sia possibile per lo scienziato un giuramento á la Ippocrate, che voglia avere effetti concreti e non si proponga solo intenti retorici. Ci sono buone ragioni per sostenere che un simile giuramento è possibile per i medici, ma non è possibile per (tutti) gli scienziati. Ed è questa la ragione per la quale un simile giuramento non esiste. Il giuramento del medico, infatti, ha per oggetto qualcosa di locale e di abbastanza ben definito: il benessere fisico e spirituale del paziente. Un paziente in carne e ossa: io, Filippo, Maria. Il dovere che il medico riconosce come suo prestando il giuramento di Ippocrate è dunque relativamente chiaro. Al contrario, l’oggetto dell’eventuale giuramento dello scienziato non è locale, ma distribuito, e non è univocamente definito. Lo scienziato non verrebbe chiamato a perseguire il benessere fisico e spirituale mio, di Filippo o di Maria. Ma il bene dell’umanità e/o del pianeta. Cioè di un’astrazione. Anzi, di una mutevole astrazione. Cos’è il bene dell’umanità? O del pianeta? Bisogna valutarlo, caso per caso. In certe condizioni e in un certo contesto storico.

Albert Einstein, per esempio, nel 1939 considerò un bene per l’umanità che gli scienziati contribuissero a costruire negli Stati Uniti un’arma nucleare quale deterrente a un’eventuale ordigno atomico realizzato dalla Germania di Hitler. E nella primavera del 1945 cominciò a considerare un male per l’umanità che quegli stessi scienziati continuassero a contribuire alla costruzione di quella stessa arma nucleare dopo la morte di Hitler e la caduta del nazismo. Il filosofo Karl Popper considerava un crimine contro l’umanità la costruzione della superbomba a fusione realizzata dal fisico Andrei Sacharov in Unione Sovietica. Ma Andrei Sacharov la considerava un suo dovere verso l’Urss e verso l’intera umanità.

In definitiva, il possibile oggetto di un giuramento efficace á la Ippocrate da parte degli scienziati non è possibile in pratica, perché il bene da perseguire è troppo indefinito e mutevole. Ciò non toglie, tuttavia, che gli scienziati, dotati di quella che il fisico e premio Nobel per la Pace, Joseph Rotblat, ha chiamato “una forte sensibilità per le responsabilità sociali della scienza”, possano prestare grande e sistematica attenzione agli effetti delle conoscenze che producono. Albert Einstein non è riuscito a realizzare il giuramento d’Ippocrate degli scienziati. Ma è riuscito a far nascere, insieme al logico e filosofo Bertrand Russell, quel Movimento Pugwash che da quasi cinquant’anni riesce a mettere al servizio della pace e del disarmo le competenze fisiche, chimiche e biologiche degli uomini di scienza che scelgono liberamente di farne parte…

 


Il Manifesto Russell-Einstein

(Il Manifesto Pugwash)



Il 9 luglio del ’55 a Londra venne presentato il più importante documento di denuncia mai scritto sulla minaccia rappresentata dalle armi nucleari per il genere umano. Viene geralmente definito “Il Manifesto Russell-Einstein” e fu ideato da Bertrand Russell (accanto nella foto), il grande filosofo-matematico e dal celebre scienziato Albert Einstein.


Nella tragica situazione che affronta l’umanità, noi riteniamo che gli scienziati dovrebbero riunirsi in un congresso per valutare i pericoli che sono sorti come conseguenza dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione nello spirito della seguente bozza di documento.

Non stiamo parlando, in questa occasione, come membri di questa o quella nazione o continente o fede religiosa, ma come esseri umani, membri della specie umana, la cui sopravvivenza è ora messa a rischio.

Il mondo è pieno di conflitti, tra cui, tralasciando i minori, spicca la titanica lotta tra Comunismo e Anti-comunismo. Quasi chiunque abbia una coscienza politica nutre forti convinzioni a proposito di una di queste posizioni; noi vogliamo che voi, se è possibile, mettiate da parte queste convinzioni e consideriate voi stessi solo come membri di una specie biologica che ha avuto una ragguardevole storia e di cui nessuno di noi desidera la scomparsa.

Cercheremo di non dire una sola parola che possa piacere più ad un gruppo piuttosto che all’altro. Tutti, in eguale misura, sono in pericolo e se il pericolo è compreso, c’è speranza che lo si possa collettivamente evitare.

Dobbiamo cominciare a pensare in una nuova maniera. Dobbiamo imparare a chiederci non che mosse intraprendere per offrire la vittoria militare al proprio gruppo preferito, perché non ci saranno poi ulteriori mosse di questo tipo; la domanda che dobbiamo farci è: che passi fare per prevenire uno scontro militare il cui risultato sarà inevitabilmente disastroso per entrambe le parti?

Un vasto pubblico e perfino molti personaggi autorevoli non hanno ancora capito che potrebbero restare coinvolti in una guerra di bombe nucleari. La gente ancora pensa in termini di cancellazione di città. Si è capito che le nuove bombe sono più potenti delle vecchie e che, mentre una bomba –A potrebbe cancellare Hiroshima, una bomba-H potrebbe distruggere le più grandi città, come Londra, New York o Mosca. Non c’è dubbio che, in una guerra con bombe-H, grandi città potrebbero finire rase al suolo. Ma questo è uno dei disastri minori che saremmo chiamati a fronteggiare. Se tutti, a Londra, New York e Mosca venissero sterminati, il mondo potrebbe, nel corso di pochi secoli, riprendersi dal colpo. Ma ora noi sappiamo, specialmente dopo i test alle isole Bikini, che le bombe nucleari possono gradualmente spargere distruzione su di una area ben più vasta di quanto si pensasse.

Si è proclamato con una certa autorevolezza che ora si può costruire una bomba 2.500 volte più potente di quella che ha distrutto Hiroshima.

Una tale bomba, se esplodesse vicino al suolo terrestre o sott’acqua, emetterebbe particelle radioattive nell’atmosfera. Queste ricadono giù gradualmente e raggiungono la superficie terrestre sotto forma di polvere o pioggia mortifera. E’ stata questa polvere che ha contaminato i pescatori giapponesi e i loro pesci.

Nessuno sa quanto queste particelle radioattive possano diffondersi nello spazio, ma autorevoli esperti sono unanimi nel dire che una guerra con bombe-H potrebbe eventualmente porre fine alla razza umana. Si teme che, se molte bombe-H fossero lanciate, potrebbe verificarsi uno sterminio universale, rapido solo per una minoranza, ma per la maggioranza una lenta tortura di malattie e disgregazione.

Molti avvertimenti sono stati lanciati da eminenti scienziati e da autorità in strategie militari. Nessuno di loro dirà che sono sicuri dei peggiori risultati. Quello che diranno sarà che questi risultati sono possibili, e nessuno può essere certo che non si realizzeranno. Non abbiamo ancora capito se i punti di vista degli esperti su questa questione dipendano in qualche grado dalle loro opinioni politiche o pregiudizi.

Dipendono solo, per quanto ci hanno rivelato le nostre ricerche, da quanto è vasta la conoscenza particolare dell’esperto. Abbiamo scoperto che gli uomini che conoscono di più sono i più tristi.

Questa è allora la domanda che vi facciamo, rigida, terrificante, inevitabile: metteremo fine alla razza umana, o l’umanità rinuncerà alla guerra?

La gente non affronterà l’alternativa perché è così difficile abolire la guerra. L’abolizione della guerra richiederà disastrose limitazioni alla sovranità nazionale. Ma probabilmente la cosa che impedirà maggiormente di comprendere la situazione sarà il fatto che il termine “umanità” suona vago e astratto. La gente a malapena si rende conto che il pericolo è per loro stessi, i loro figli e i loro nipoti, e non per una vagamente spaventata umanità. Possono a malapena afferrare l’idea che loro, individualmente, e coloro che essi amano sono in pericolo imminente di perire con una lenta agonia. E così sperano che forse la guerra con la corsa a procurarsi armi sempre più moderne venga proibita. Questa speranza è illusoria. Qualsiasi accordo sia stato raggiunto in tempo di pace per non usare le bombe-H, non sarà più considerato vincolante in tempo di guerra, ed entrambi i contendenti cercheranno di fabbricare bombe-H non appena scoppia la guerra, perché se una fazione fabbrica le bombe e l’altra no, la fazione che l’avrà fabbricate sarà inevitabilmente quella vittoriosa.

Sebbene un accordo a rinunciare alle armi atomiche come parte di una generale riduzione degli armamenti non costituirebbe una soluzione definitiva, potrebbe servire a degli scopi importanti.

Primo, ogni accordo tra Est e Ovest va bene finchè serve ad allentare la tensione.

Secondo, l’abolizione delle armi termo-nucleari, se ogni parte credesse all’onestà dell’altra, potrebbe far scendere la paura di un attacco proditorio stile Pearl Harbour che ora costringe tutte e due le parti in uno stato di continua apprensione.

Noi dovremmo, quindi, accogliere con piacere un tale accordo sebbene solo come un primo passo.

Molti di noi non sono neutrali, ma, come esseri umani, ci dobbiamo ricordare che, se la questione tra Est ed Ovest deve essere decisa in qualche maniera che possa soddisfare qualcuno, Comunista o Anti-comunista, Asiatico o Europeo o Americano, bianco o nero, questa questione non deve essere decisa dalla guerra. Noi desidereremmo che ciò fosse compreso sia all’Est che all’Ovest.

Ci attende, se sapremo scegliere, un continuo progresso di felicità, conoscenza e saggezza. Dovremmo invece scegliere la morte, perché non riusciamo a rinunciare alle nostre liti?

Facciamo un appello come esseri umani ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticatevi del resto. Se riuscirete a farlo si aprirà la strada verso un nuovo Paradiso; se non ci riuscirete, si spalancherà dinanzi a voi il rischio di un’estinzione totale.

Risoluzione:

Noi invitiamo il Congresso, e con esso gli scienziati di tutto il mondo e la gente comune, a sottoscrivere la seguente risoluzione:

“In considerazione del fatto che in una qualsiasi guerra futura saranno certamente usate armi nucleari e che queste armi minacciano la continuazione dell’esistenza umana, noi invitiamo i governi del mondo a rendersi conto, e a dichiararlo pubblicamente, che il loro scopo non può essere ottenuto con una guerra mondiale, e li invitiamo di conseguenza a trovare i mezzi pacifici per la soluzione di tutti i loro motivi di contesa.

Max Born

Perry W. Bridgman

Albert Einstein

Leopold Infeld

Frederic Joliot-Curie

Herman J. Muller

Linus Pauling

Cecil F. Powell

Joseph Rotblat

Bertrand Russell

Hideki Yukawa


Versione inglese

The Pugwash Manifesto

Issued in London, 9 July 1955

In the tragic situation which confronts humanity, we feel that scientists should assemble in conference to appraise the perils that have arisen as a result of the development of weapons of mass destruction, and to discuss a resolution in the spirit of the appended draft.

We are speaking on this occasion, not as members of this or that nation, continent, or creed, but as human beings, members of the species Man, whose continued existence is in doubt. The world is full of conflicts; and, overshadowing all minor conflicts, the titanic struggle between Communism and anti- Communism.

Almost everybody who is politically conscious has strong feelings about one or more of these issues; but we want you, if you can, to set aside such feelings and consider yourselves only as members of a biological species which has had a remarkable history, and whose disappearance none of us can desire.

We shall try to say no single word which should appeal to one group rather than to another. All, equally, are in peril, and, if the peril is understood, there is hope that they may collectively avert it.

We have to learn to think in a new way. We have to learn to ask ourselves, not what steps can be taken to give military victory to whatever group we prefer, for there no longer are such steps; the question we have to ask ourselves is: what steps can be taken to prevent a military contest of which the issue must be disastrous to all parties?

The general public, and even many men in positions of authority, have not realized what would be involved in a war with nuclear bombs. The general public still thinks in terms of the obliteration of cities. It is understood that the new bombs are more powerful than the old, and that, while one A-bomb could obliterate Hiroshima, one H-bomb could obliterate the largest cities, such as London, New York, and Moscow.

No doubt in an H-bomb war great cities would be obliterated. But this is one of the minor disasters that would have to be faced. If everybody in London, New York, and Moscow were exterminated, the world might, in the course of a few centuries, recover from the blow. But we now know, especially since the Bikini test, that nuclear bombs can gradually spread destruction over a very much wider area than had been supposed.

It is stated on very good authority that a bomb can now be manufactured which will be 2,500 times as powerful as that which destroyed Hiroshima. Such a bomb, if exploded near the ground or under water, sends radio-active particles into the upper air. They sink gradually and reach the surface of the earth in the form of a deadly dust or rain. It was this dust which infected the Japanese fishermen and their catch of fish.

No one knows how widely such lethal radio- active particles might be diffused, but the best authorities are unanimous in saying that a war with H-bombs might possibly put an end to the human race. It is feared that if many H-bombs are used there will be universal death, sudden only for a minority, but for the majority a slow torture of disease and disintegration.

Many warnings have been uttered by eminent men of science and by authorities in military strategy. None of them will say that the worst results are certain. What they do say is that these results are possible, and no one can be sure that they will not be realized. We have not yet found that the views of experts on this question depend in any degree upon their politics or prejudices. They depend only, so far as our researches have revealed, upon the extent of the particular expert’s knowledge. We have found that the men who know most are the most gloomy.

Here, then, is the problem which we present to you, stark and dreadful and inescapable: Shall we put an end to the human race; or shall mankind renounce war? People will not face this alternative because it is so difficult to abolish war.

The abolition of war will demand distasteful limitations of national sovereignty. But what perhaps impedes understanding of the situation more than anything else is that the term “mankind” feels vague and abstract. People scarcely realize in imagination that the danger is to themselves and their children and their grandchildren, and not only to a dimly apprehended humanity. They can scarcely bring themselves to grasp that they, individually, and those whom they love are in imminent danger of perishing agonizingly. And so they hope that perhaps war may be allowed to continue provided modern weapons are prohibited.

This hope is illusory. Whatever agreements not to use H-bombs had been reached in time of peace, they would no longer be considered binding in time of war, and both sides would set to work to manufacture H-bombs as soon as war broke out, for, if one side manufactured the bombs and the other did not, the side that manufactured them would inevitably be victorious.

Although an agreement to renounce nuclear weapons as part of a general reduction of armaments would not afford an ultimate solution, it would serve certain important purposes. First: any agreement between East and West is to the good in so far as it tends to diminish tension. Second: the abolition of thermo-nuclear weapons, if each side believed that the other had carried it out sincerely, would lessen the fear of a sudden attack in the style of Pearl Harbour, which at present keeps both sides in a state of nervous apprehension. We should, therefore, welcome such an agreement though only as a first step.

Most of us are not neutral in feeling, but, as human beings, we have to remember that, if the issues between East and West are to be decided in any manner that can give any possible satisfaction to anybody, whether Communist or anti-Communist, whether Asian or European or American, whether White or Black, then these issues must not be decided by war. We should wish this to be understood, both in the East and in the West.

There lies before us, if we choose, continual progress in happiness, knowledge, and wisdom. Shall we, instead, choose death, because we cannot forget our quarrels? We appeal, as human beings, to human beings: Remember your humanity, and forget the rest. If you can do so, the way lies open to a new Paradise; if you cannot, there lies before you the risk of universal death.

 

Resolution

We invite this Congress, and through it the scientists of the world and the general public, to subscribe to the following resolution:

“In view of the fact that in any future world war nuclear weapons will certainly be employed, and that such weapons threaten the continued existence of mankind, we urge the Governments of the world to realize, and to acknowledge publicly, that their purpose cannot be furthered by a world war, and we urge them, consequently, to find peaceful means for the settlement of all matters of dispute between them.”

Max Born, Perry W. Bridgman, Albert Einstein, Leopold Infeld, Frédéric Joliot-Curie, Herman J. Muller, Linus Pauling, Cecil F. Powell, Joseph Rotblat, Bertrand Russell, Hideki Yukawa


“Il segreto del disegno con l’idea dell’atomica”
Intervista ad Hans Bethedi Stefania Maurizi

Pubblicata in “Tuttoscienze” de “La Stampa”, 10 dicembre 2003


Nell’agosto del 1945, il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki “inaugurò” una nuova era, in cui, per la prima volta nella storia della civiltà umana, l’uomo ha acquisito la possibilità di cancellare la vita dal pianeta, in un solo colpo. Dopo quel bombardamento, intorno all’uso delle armi nucleari si è creato un tabù assoluto, che però non ha impedito la costruzione di ordigni nucleari ben più potenti dell’atomica e di arsenali paurosamente grandi e costosi: oggi, Stati Uniti e Russia dispiegano ciascuno 6.000 testate strategiche e soltanto 20 di queste, lanciate su delle città, ucciderebbero 25 milioni di persone. Quanto ai costi delle armi nucleari, si stima che dal 1940 al 1996, gli Stati Uniti da soli abbiano speso circa 5.500 miliardi di dollari (in valuta del 1996), più del totale che, nello stesso periodo, il governo federale ha speso per: istruzione, formazione, impiego, servizi sociali, agricoltura, risorse naturali e ambiente, ricerca scientifica e spaziale, sviluppo delle comunità locali, amministrazione della giustizia, produzione e regolamentazione dell’energia elettrica. (I dati citati provengono rispettivamente dal “The Garwin Archive”, disponibile online, e dal rapporto “Atomic Audit”, di S. Schwartz, 1998).

Le armi nucleari sono armi di distruzione di massa inventate durante la seconda guerra mondiale. Allora sembravano necessarie, perché il rischio che Hitler potesse ottenere per primo la bomba atomica era reale: la fissione nucleare -il processo fisico alla base, tra l’altro, della costruzione della bomba- era stata scoperta proprio in Germania, nel 1938, e appena scoppiata la guerra, i nazisti avevano messo in piedi un programma nucleare guidato da una delle menti brillanti della fisica del ‘900, il tedesco Werner Heisenberg. Ma Heisenberg stava realmente costruendo l’atomica per Hitler?

E all’alba dell’era nucleare, non sarebbe stato possibile un boicottaggio delle armi nucleari da parte di tutti gli scienziati, sia quelli che lavorarono per gli alleati, che quelli per i nazisti? Domande come queste continuano a dividere e a far discutere, sebbene siano passati più di sessant’anni e i protagonisti di questi eventi siano quasi tutti morti.

Abbiamo rivolto alcune di queste domande ad uno degli ultimi grandi testimoni, che è anche uno dei grandi fisici del ‘900: Hans Bethe. Come responsabile della Divisione Teorica di Los Alamos, Bethe guidò tutto il lavoro teorico del Progetto Manhattan, per la costruzione della prima atomica anglo-americana, realizzata appunto nel laboratorio di Los Alamos (USA), e dopo la guerra, divenne un’importante figura pubblica nel controllo degli armamenti.

Oggi, ha 97 anni, ma lucido e arzillo, ha accettato di rispondere alle nostre domande.

Professor Bethe, appena Hitler andò al potere nel ’33, lei -come del resto centinaia di altri professori universitari ebrei- fu licenziato dall’università tedesca in cui lavorava, emigrò in America e, successivamente, fu arruolato nel Progetto. Alla fine del ’43, il grande fisico danese Niels Bohr fuggì da Copenhagen, occupata dai nazisti, e venne a Los Alamos. In quell’occasione, raccontò al direttore del laboratorio, Robert Oppenheimer, che due anni prima, Heisenberg, era andato a fargli visita a Copenhagen e gli aveva parlato di armi nucleari. Quell’incontro tra Heisenberg e il suo maestro ed amico, Niels Bohr, è un mistero della storia e nessuno sa e saprà mai cosa si dissero. Comunque, a quanto pare, a Los Alamos, Bohr ricordò e riprodusse un disegno che Heisenberg gli aveva mostrato durante l’incontro di Copenhagen. E anche quel disegno è un mistero, perché da una parte, il giornalista Thomas Powers sostiene che attraverso di esso Heisenberg cercava di far capire a Bohr che non stava lavorando all’atomica per i nazisti, dall’altra, gente come il figlio di Bohr, Aage, nega categoricamente che sia mai esistito. A quanto pare, lei è uno dei pochissimi al mondo che lo ha visto. Ci può dire qualcosa?
Sì, quel disegno è indubbiamente esistito. Il 31 dicembre del 1943, fu dato a me e a Teller perché lo studiassimo in modo approfondito, poi fu fatto vedere a circa sei persone a Los Alamos. [Il fisico] Serber ne ha conservato una copia per anni. E poiché Aage Bohr giura di non averlo mai visto, concludemmo che Niels lo aveva riprodotto a memoria per mostrarcelo a Los Alamos. Nel disegno era raffigurato chiaramente un reattore, non una bomba. Il materiale fissile, uranio con un pò di plutonio, era immerso nell’acqua pesante. Thomas Powers aveva ragione: Heisenberg mostrò a Bohr il disegno di un reattore nucleare, non di una bomba. Ma Bohr non capì. A quanto pare, Heisenberg gli aveva parlato di armi nucleari e gli aveva fatto vedere il disegno, così Bohr, che aveva solo un’idea molto vaga della cosa, pensò che il disegno si riferisse ad una bomba. E il discorso di Heisenberg sulle bombe nucleari -che non fu registrato- spaventò Bohr, ovviamente, ma in realtà Heisenberg intendeva dimostrargli che la Germania stava solo costruendo un reattore.

Il Progetto Manhattan fu largamente concepito e realizzato da rifugiati dell’Europa nazi-fascista, come lei, terrorizzati dalla possibilità che Hitler potesse ottenere l’atomica. E lei ha dichiarato: “Tutto cominciò a Los Alamos, con la bomba A. Tutte le tragedie e gli errori che ora ci perseguitano iniziano lì. [A quel tempo] Io conclusi che dovevo lavorare [alla bomba perché] la Germania poteva ottenerla prima. Ma sbagliammo tutti. Heisenberg lavorava ad un reattore nucleare, non ad una bomba”. Lei lavorava ai più alti livelli del Progetto, aveva accesso a informazioni che le permettessero di capire a che punto era il programma nucleare tedesco?
E’ vero, come diceva lei, che i rifugiati della Germania nazista, dell’Italia fascista e di pochi altri paesi, dettero un grosso contributo al Progetto -specialmente Enrico Fermi- ma più del 90% del lavoro fu fatto dagli americani. Quanto a noi scienziati, che lavoravamo al Progetto Manhattan, non conoscevamo lo stato del progetto nucleare tedesco al tempo della sconfitta di Hitler.

Hitler fu sconfitto nel maggio del 1945; ad agosto, la prima bomba atomica fu lanciata su Hiroshima. Quale fu la sua reazione?
Io ho sempre approvato il bombardamento di Hiroshima. Ho stimato che salvò circa 100.000 soldati americani e 300.000 soldati giapponesi. Ma oltre a ciò, salvò molti milioni di civili giapponesi, perché senza lo shock provocato dalle due bombe nucleari, il Giappone avrebbe portato avanti la guerra ancora per molti mesi, le nostre bombe incendiarie avrebbero ucciso un grosso numero di civili e distrutto una porzione ancora più consistente del paese. L’enorme distruzione prodotta da quelle due bombe rese i governi consapevoli del potere delle armi atomiche. Credo che questa fu la ragione principale per cui le armi nucleari non sono mai state usate nel conflitto tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti.

Alcuni sostengono che il presidente americano Truman usò le due bombe atomiche per mostrare al mondo il nuovo potere militare degli Stati Uniti, piuttosto che per concludere la guerra. Che ne pensa?
Si è discusso sul fatto se Truman le usò soprattutto per chiudere la guerra col Giappone o per mostrare ai russi il potere degli Stati Uniti. Le nostre relazioni con i sovietici erano tese. Da parte mia, credo che furono usate per entrambi i motivi.

Il giorno dopo Hiroshima, il fisico Carl Friedrich von Weizsaecker, che aveva lavorato con Heisenberg al programma nucleare tedesco e lo aveva accompagnato a Copenhagen, disse: “La storia registrerà che gli americani e gli inglesi fecero una bomba e che, allo stesso tempo, i tedeschi sotto il regime di Hitler costruirono un reattore utilizzabile. In altre parole, lo sviluppo pacifico del reattore ad uranio fu portato avanti in Germania, sotto il regime di Hitler, mentre gli americani e gli inglesi svilupparono questa spaventosa arma da guerra”. Come commenta questa dichiarazione?
Credo che questa considerazione di Weizsaecker fosse ingiusta. I tedeschi erano lontani anni dal costruire un reattore nucleare, per non parlare di una bomba. Nel 1948, non erano proprio arrivati da nessuna parte: perché arrivassero alla reazione a catena, che Fermi aveva ottenuto il 2 dicembre del 1942, ci sarebbero voluti ancora uno o due anni. Comunque, Heisenberg corresse Weizsaecker immediatamente, dicendo: gli alleati avevano ragioni molto migliori per costruire l’atomica di quelle che avevamo noi [della Germania nazista].


Bethe è deceduto il 6 marzo 2005.



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