TORRICELLI. IL “PESO” DELL’ARIA ED IL VUOTO.

Roberto Renzetti

PREMESSA

        La polemica sull’esistenza del vuoto è molto antica; essa risale almeno all’antica Grecia. Svariati filosofi, con argomentazioni del tutto differenti, ebbero modo,ora,di affermare l’esistenza del vuoto (è il caso di Leucippo, di Democrito, di Anassimandro, di Platone, dei pitagorici),  ora, di negarla recisamente (è il caso di Anassagora e di Aristotele).
        Senza entrare nelle sottilissime disquisizioni che accompagnarono la polemica, cerchiamo di coglierne l’aspetto essenziale, quello che ruota intorno ad un’altra storica polemica: tra continuità e discontinuità della materia. Cerchiamo di capire.
        Una possibile soluzione ai paradossi di Zenone venne fornita da Democrito con l’ammissione dell’esistenza degli atomi cerne ultimi costituenti la materia. Prendiamo ad esempio il paradosso del segmento. Quest’ultimo, secondo Zenone, può essere costituito o da infiniti punti con dimensioni o da infiniti punti senza dimensioni: nel primo caso, la somma di infiniti oggetti con dimensioni origina un oggetto infinito; nel secondo caso, la somma di infiniti oggetti senza dimensioni origina un oggetto nullo. In un caso e nell’altro non abbiamo un segmento. Allora cos’è un segmento ? A questo punto interviene Democrito distinguendo tra punti matematici e punti fisici (gli atomi). I segmenti matematici sono costituiti da infiniti punti senza dimensioni, i segmenti fisici sono costituiti da un numero finito di punti fisici con dimensioni, da un numero finito di atomi.
        La prima introduzione del concetto di atomo fu più o meno quella che ho descritto. Ma l’ammissione di atomo prevedeva, delle conseguenze che trascendevano le disquisizioni da cui nasceva. Prevedere un atomo, un granulo inscindibile di materia, e prevederne un altro è ammettere l’esistenza di un elemento di separazione tra l’uno e l’altro. E, poiché tutta la materia è costituita da atomi, non potrà essere materia quella che separa due atomi, ma assenza di materia, cioè vuoto. Ecco quindi che il vuoto diventa un elemento indispensabile per l’ammissione di una struttura discontinua della materia.
        Le obiezioni che Aristotele mosse a questo modo di vedere erano essenzialmente di due tipi: se tutti gli atomi sono fatti di materia, com’è  possibile che esistono atomi leggeri ed atomi pesanti ? come è cioè possibile che vi sia il fuoco che s’innalza e la pioggia che cade ? gli atomi di fuoco non cadrebbero anche essi al suolo come una pioggia di ciottoli ? L’altra obiezione era più pertinente all’esistenza del vuoto e su di essa ci soffermeremo di più.
        Uno degli elementi portanti della teoria del moto di Aristotele è che un oggetto continua a muoversi fino a quando ‘un motore’ lo sospinge. Così, se scagliamo un sasso, esso continua a muoversi con il seguente meccanismo: il sasso taglia l’aria; l’aria tagliata si richiude dietro il sasso sospingendolo. E se non ci fosse l’aria ? se cioè vi fosse vuoto ? Conseguentemente a quanto fin qui sostenuto, il sasso non potrebbe muoversi. E, come il sasso, nessun oggetto sarebbe in grado di muoversi in presenza di vuoto. Dice Aristotele (Fisica IV, 
D, 8, 214 b; 31-32):
“… non è possibile che neppure un solo oggetto si muova, qualora il vuoto esista.”
        Ma anche supponendo che il vuoto esista, perché un oggetto mosso dovrebbe fermarsi qui piuttosto che lì ? E perché dovrebbe fermarsi ? Secondo Aristotele (Fisica IV, 
D, 8, 215 a; 20-22), si verificherebbe l’assurdo che:
” … il corpo o dovrà essere in quiete ovvero necessariamente sarà spostato all’infinito …
        E gli assurdi non finiscono qui. Nel caso della caduta dei corpi, secondo Aristotele (Fisica IV, 
D, 8, 216 a; 20-21) ed in accordo con il resto della sua fisica,
” … Se si ammettesse il vuoto, tutti i corpi avrebbero la medesima velocità [di caduta]: il che è impossibile.
        E’ interessante osservare come alcune delle affermazioni più ‘scontate’ della fisica classica che noi oggi conosciamo risultano qui esattamente ribaltate. E neanche a pensare che il modello aristotelico del mondo fosse costruite su vaniloqui? esso rispondeva a quanto l’osservazione (ma non l’esperienza) mostrava e nessun fatto, fino a Galileo, era servito a metterlo ‘in crisi’.
        Nei secoli che seguirono solo pochi elementi andarono ad arricchire questo dibattito. Si trattò essenzialmente dell’osservazione che l’aria oppone resistenza al moto, anziché agevolarlo (Filopono del VI secolo d.C. e le scuole di Parigi e di Oxford del XIV secolo, cui facevano capo Occam e Buridano). Ma la tradizione aristotelica, dopo alterne vicende, riuscì a riprendere vigore soprattutto dopo che San Tommaso (XIII secolo) ebbe armonizzate le teorie del grande filosofo dell’antichità classica con il cristianesimo. In particolare, San Tommaso aggiunse alle considerazioni filosofiche di Aristotele contro il vuoto anche l’impossibilità metafisica di sua esistenza.
        A parte alcuni altri isolati e fragili tentativi sulla strada, non tanto di esistenza del vuoto, ma dell’affermazione dell’aria come di un qualcosa dotato di peso (Cusano, Cardano, Rey, Beeckman), più o meno in questi termini la questione era arrivata al secolo di Galileo, secolo nel quale il problema venne definitivamente risolto, almeno nell’ambito della scienza.
        Erano passati duemila anni dalla fisica di Aristotele, cos’era accaduto perché, quasi improvvisamente, una questione di questo tipo, dal carattere apparentemente più speculativo di quello attinente a problemi astronomici, ritornasse alla ribalta con grande vigore ?
        La richiesta di soluzioni a problemi pratici, portato dello sviluppo economico, politico, sociale e tecnologico, aveva fatto scontrare svariati studiosi, artigiani, architetti, con difficoltà all’apparenza straordinarie. L’acqua nelle condotte, nelle fontane, nelle miniere si comportava in modo ‘strano’. Cerchiamo di capire quali erano le difficoltà.

I PROBLEMI LEGATI ALLA DISTRIBUZIONE DELL’ACQUA

        Sono a tutti noti gli imponenti acquedotti romani. In essi veniva sfruttata la semplice gravità. L’acqua veniva prelevata da una sorgente, fatta scorrere in condotte con generalmente piccole pendenze, fino ad arrivare in serbatoi che si trovavano in punti elevati rispetta alla città che doveva essere servita. La ‘caduta’ da questi serbatoi, oltre a fornire l’acqua per i normali usi, era in grado di alimentare le diverse fontane. Nei secoli successivi alla caduta dell’Impero di Roma, svariati acquedotti risultarono danneggiati e si crearono concentrazioni urbane in luoghi non precedentemente serviti dagli acquedotti di Roma. Si ritornò quindi a metodi primitivi: al trasporto dell’acqua mediante botti nei luoghi di consumo. Nel periodo rinascimentale si iniziarono a riproporre i problemi dell’approvviggionamento continuo di acqua delle città. La situazione era però tale che gli imponenti acquedotti alla romana erano ora praticamente irrealizzabili. Si trattava di approvviggionarsi da fonti relativamente più vicine. Allo scopo iniziò lo sviluppo delle pompe aspiranti e prementi che avevano la funzione di innalzare l’acqua da vicini fiumi fino a raggiungere la città da alimentare che generalmente, per problemi logistici di difesa, era a livelli superiori. Cominciarono a nascere le prime grosse difficoltà: se il dislivello fiume-città era troppo elevato le pompe via via più grandi dovevano spingere l’acqua ad enormi pressioni dentro delle tubature; la ghisa non era in grado di sopportare tali pressioni, il piombo tanto meno, il bronzo sarebbe stato in grado ma costruire acquedotti in bronzo avrebbe rappresentato una follia economica. In attesa degli sviluppi della tecnica metallurgica, sollecitata anche da questi problemi, si preferì lavorare con più pompe: ognuna serviva a raccogliere l’acqua ad un livella di poco più alto, fino a raggiungere la quota desiderata (l’acquedotto che riforniva la reggia ed i giardini di Versailles, realizzate nel 1682, disponeva di 64 pompe operanti sulla riva del fiume, di 79 pompe al primo serbatoio e di 82 pompe al secondo serbatoio; tutte le pompe venivano alimentate dalla stessa energia idraulica).

        Con un problema di questo tipo si imbatté G.B. Baliani (vedi Sapere n. 12/1983) nel 1630, quando si occupò dell’ampliamento dell’acquedotto di Genova. La condotta doveva superare una collina alta poco più di 20 metri (circa 80 piedi) ed il raccordo con le due condotte che si trovavano ai due lati della collina era stato realizzato mediante un sifone di rame. L’acqua non passava ed anzi accadeva uno strano fenomeno: l’acqua con cui preventivamente era stato riempito il sifone, al momento del raccordo, sgorgava dal sifone alle due condotte che si trovavano ai piedi della collina finché il livello dell’acqua nei due rami del sifone non raggiungeva una quota di circa 10 metri. 

        Scriveva Baliani a Galileo (27 luglio 1630):
Abbiam fatto un sifone di rame, conforme al disegno inchiuso, ove CA è il livello: A ove

piglia l’acqua, B ove ha da uscire, C l’imbottaio per dove si empie il sifone. DE l’altezza a piombo che l’acqua ha da salire. Però questo sifone non ha l’effetto desiderato; anzi, aperto, ancorché chiuso dal di sopra, l’acqua esce da tutte le parti, e se si tien chiuso da una parte, aprendo dall’altra, ad ogni modo da questa esce l’acqua.
        Il fatto si presentava incomprensibile, e Galileo, nel rispondere a Baliani, faceva sapere che anch’egli si era imbattuto in difficoltà dello stesso genere, almeno a partire dal 1594 quando inventò un “edificio da alzar acqua et adacquar terreni“. Secondo Galileo (6 agosto 1630):
” L’acqua si può far salire per un cannone o sifone per attrazziome e per impulso. Per attrazzione, intendo quando l’ordigno (qualunque si sia) che lavora, sarà posto nella

parte superiore A del cannone AB; per impulso, si fa montar l’acqua, tuttavolta che l’ordigno impellente sia accomodato da basso in B. Quando l’acqua si abbia a cacciar per impulso, si potrà sollevare e spignere a qualsivoglia altezza, anco di 1000 braccia [un braccio fiorentino = 0,583 m; n.d.r.], purché il cannone sia saldo e forte, siché non crepi: ma nell’alzarla per attrazzione ci e’ una determinata altezza e lunghezza di canna, oltre alla quale e’ impossibile far montare l’acqua un sol dito, anzi un sol capello; e tale altezza parrai che sia circa 40 piedi, e credo ancor meno [in realtà 32 piedi ~ 10 metri; n.d.r.].”

Ciò era anche confermato dai fontanieri di Firenze e da vari artigiani che avevano parlato della cosa con Galileo: con le pompe aspiranti non si riusciva a far salire l’acqua oltre circa 10 metri. Galileo ne aveva tentato una spiegazione della quale discute con Baliani nella lettera in oggetto (e che sarà poi ripresa nella Giornata Prima dei Discorsi intorno a Due Nuove Scienze del 1638). Secondo il nostro occorre sostituire la vecchia teoria dell’ horror vacui (secondo la quale la Natura ha paura del vuoto e se, casualmente, si producesse un vuoto in qualche luogo, la natura stessa provvederebbe immediatamente a riempirlo di materia, e con la quale, in accordo con la fisica aristotelica, si spiegavano, all’epoca, una gran varietà di fenomeni, come il funzionamento delle ventose, delle pipette e degli stessi sifoni) con una teoria della «forza del vuoto». Galileo assimila una colonna d’acqua ad una corda di nave, o ad una corda d’acciaio o di rame o di qualsivoglia materiale. Quando una corda di un tal genere viene tirata, ad un certo punto si rompe. Ebbene, perché non dovrebbe accadere la medesima cosa per l’acqua che viene «tirata» in un tubo? Scriveva Galileo a Baliani (6 agosto1630):

«Ma se si rompono corde di canapa e d’acciaio, mentre debbano reggier soverchio peso, che dubbio doviamo noi bavere che non si sia per strappare anco una corda d’acqua? anzi si strapperà questa tanto più facilmente, quanto le parti dell’acqua, nel separarsi l’una dall’altra, non hanno da superare altra resistenza che quella del vacuo succedente alla divisione; che nel ferro o altra materia solida, oltre alla resistenza del vacuo, vi è quella grandissima del tenacissimo attaccamento delle parti, del quale mancano le parti dell’acqua».

ed aggiungeva, nei Discorsi intorno a Due Nuove Scienze:

«E perché la medesima altezza delle diciotto braccia è il prefisso termine dell’altezza alla quale qualsivoglia quantità d’acqua, siano cioè le trombe larghissime o strette o strettissime quanto un fil di paglia, può sostentarsi, tutta volta che noi peseremo l’acqua contenuta in diciotto braccia di cannone, sia largo e stretto, aremo il valore della resistenza del vacuo…».

        Baliani non si convince di questa spiegazione. Egli aveva già elaborato un tentativo di teoria che, pur non respingendo l’ipotesi di esistenza del vuoto, si rifaceva alla pesantezza dell’aria. Di quest’ultimo argomento Baliani e Galileo si erano scritti nel 1613-1614, quando erano stati fatti conoscere epistolarmente da Filippo Salviati, amico di Galileo. All’epoca, Baliani aveva scritto a Galileo per chiedergli notizie sui metodi che quest’ultimo aveva sviluppato per determinare il peso dell’aria.

            Galileo aveva inviato a Baliani un metodo per pesare l’aria (dei tre che ne aveva). Ora Baliani collega le sue difficoltà e la non soddisfazione della spiegazione galileiana del mancato funzionamento del sifone, proprio alla pesantezza dell’aria e, nella lettera di risposta a Galileo del 26 ottobre 1630, così scrive:

«Io non sono già dell’opinione volgare che non si dia vacuo… E per non mancare di dirle la mia opinione intorno a ciò, io ho creduto che naturalmente il vacuo si dia da quel tempo ch’io ritrovai che l’aria ha peso sensibile, e che V.S. m’insegnò in una sua lettera il modo di ritrovarne il peso esatto, ancorché non mi sia riuscito finora di farne esperienza».

        È evidente che qui Baliani ha ben chiara la connessione esistente tra vuoto e pesantezza dell’aria, connessione che avrà un ruolo di primaria importanza nei lavori posteriori di Torricelli. Ma Baliani va oltre ed illustra le sue idee nel modo seguente:

«Io mi figuro adunque di essere nel fondo del mare, ove sta l’acqua profonda dieci mila piedi, e se non fosse il bisogno di rifiatare io credo che-io starei, sebbene mi sentirei più compresso e premuto da ogni parte di quel che io mi sia nel presente».

        Secondo Baliani si avvertirebbe il peso dell’acqua se essa premesse solo da una parte, ad esempio, sulla testa.

Lo stesso mi è d’avviso che ci avvenga nell’aria, che siamo nel fendo della sua immensità, e non sentiamo né il suo peso, né la compressione che ci fa d’ ogni parte … Ma se fossimo nel vacuo allora si sentirebbe il peso dell’aria che abbiamo sopra il capo, il quale io credo grandissimo, perché, ancorché io stimi che quanto l’aria è più alta, sia sempre più leggera, io credo che sia tanta la sua immensità che, per poco che sia il suo peso, conviene che si sentisse quel di tutta l’aria, che ci sta sopra, peso molto grande, ma non infinito, e perciò determinato, e che con forza a lui proporzionata si possa superare, e perciò causarsi il vacuo. Chi volesse trovar questa proporzione converrebbe che si sapesse l’altezza dell’aria e il suo peso in qualunque altezza. Ma comunque sia, io veramente lo giudicavo tale che per causar vacuo, io credeva che si richiedesse maggior violenza di quella che può far l’acqua nel canale non più lungo di 80 piedi“.

        Non più quindi la forza del vuoto ma la pesantezza dell’aria è all’origine delle difficoltà incontrate nella posa del sifone.

        E’ l’aria che preme in basso che permette che l’acqua salga ad una determinata altezza. Baliani si stupisce solo del fatto che l’effetto riscontrato risulti inferiore a quello previsto.

        La cosa non ebbe più un seguito immediato ma certamente Galileo dovette riflettere su quanto gli era stato riferito da Baliani e dovette certamente parlarne con E. Torricelli quando quest’ultimo, nel 1641, era andato a visitare il suo maestro nel domicilio coatto di Arcetri. La prova che Torricelli avesse anche letto le lettere di Baliani a Galileo risiede nel fatto che alcuni dei motivi trattati in queste lettere vengono riecheggiati nelle Lezioni Accademiche (pubblicate postume nel 1715), che lo stesso Torricelli tenne presso l’accademia della Crusca (“Io … fantasticava con l’immaginazione e mi dipingeva sopra la testa un altissimo pelago d’argento vivo. Ecco, io sono nato e allevato nel fondo di questo fluido metallo …“) oltre ché in alcune lettere che Torricelli inviò a Michelangelo Ricci nel giugno del 1644, come tra poco vedremo.

L’ESPERIENZA DI TORRICELLI

        Non abbiamo notizie precise relative a quando fu pensata ed effettuata l’esperienza. Con molta probabilità Torricelli la ideò nell’anno 1643 e Viviani la eseguì nei primi 5 mesi dell’anno successivo. Infatti la prima cronaca dell’esperienza l’abbiamo da una lettera dell’ 11 giugno 1644 che lo stesso Torricelli indirizzò al suo amico Michelangelo Ricci, in Roma. Scriveva Torricelli:

«Le accennai già che si stava facendo non so che sperienza filosofica intorno al vacuo, non per far semplicemente il vacuo, ma per far uno strumento che mostrasse le mutuazioni dell’aria, hora più grave e grossa et hor più leggiera e sottile».

        E già in questa introduzione vi sono svariati elementi da discutere. Intanto il vuoto. Torricelli ha capito molto bene che la sua esperienza, mentre mostra con evidenza il fatto che l’aria è dotata di peso e quale peso abbia, è d’altra parte un procedimento atto a produrre il vuoto, evidenza quest’ultima non più discutibile. Quindi l’uso che dell’esperienza può essere fatto, quello di misurare le variazioni di peso dell’aria evento che, in definitiva, costituisce quel formidabile strumento che è il barometro.

        Nel seguito della lettera Torricelli entra in maggiori dettagli:

«Molti hanno detto che il vacuo non si dia, altri che si dia, ma con repugnanza della natura e con fatica; non so già che alcuno habbia detto che si dia senza fatica e senza resistenza della natura. Io discorrevo così: se trovassi una causa manifestissima, dalla quale derivi quella resistenza che si sente nel voler fare il vacuo [probabile riferimento al tentativo di Galileo di produrre il vuoto mediante sollevamento dello stantuffo di una siringa tappata sul fondo – n.d.r.], indarno mi pare si cercherebbe di attribuire al vacuo quella operazione che deriva apertamente da altra cagione, anzi che, facendo certi calcoli facilissimi, io trovo che la causa da me addotta (cioè il peso dell’aria) doverebbe per sé sola far maggior contrasto che ella non fa nel tentarsi il vacuo».

        La pesantezza dell’aria è quindi in grado di produrre il vuoto. E vista la difficoltà che si incontra nel produrre ordinariamente il vuoto, ci si può rendere conto di quanto possa la pesantezza dell’aria. E così prosegue Torricelli:

«Dico ciò perché qualche filosofo, vedendo di non poter fuggire questa confessione, che la gravita dell’aria cagioni la repugnanza che si sente nel far il vacuo, non dicesse di conceder l’operatione del peso aereo, ma persistesse nell’asseverare che anche la natura concorre a repugnare al vacuo. Noi viviamo sommersi nel fondo d’un pelago d’aria elementare, la quale per esperienze indubitate si sa che pesa, e tanto che questa grossissima vicino alla superficie terrena pesa circa la 1/400 parte del peso del- l’acqua».

        Ecco quindi l’immagine di Baliani che, di nuovo, viene utilizzata da Torricelli. Ma, fatte queste premesse, il nostro passa a descrivere l’esperienza con qualche dettaglio (si veda figura):

«Noi habbiamo fatti molti vasi di vetro et anco come i seguenti, segnati A e B grossi e di collo lungo due braccia, questi pieni d’argento vivo [mercurio – n.d.r.], poi serrategli con un dito la bocca e rivoltati in un vaso dove era l’argento vivo C, si vedevano votarsi e non succedere niente nel vaso che si votava; il collo però AB restava sempre pieno all’altezza d’un braccio e 1/4 et un dito di più [circa 76 cm – n.d.r.]».

        E’ la descrizione della classica esperienza, nota a tutti. Si riempie di mercurio un tubo di vetro della lunghezza di circa un metro e con la sezione di 1 centimetro quadrato, con una delle estremità chiusa. Dopo il riempimento, l’altra estremità del tubo viene chiusa con un dito. Quindi il tubo viene rovesciato ed immerso per qualche centimetro dentro una bacinella contenente mercurio. A questo punto il dito viene tolto ed il mercurio scende dal tubo fino ad una altezza di circa 76 cm dal bordo superiore della bacinella. Rimanevano quindi circa 24 cm, al di sopra del livello del mercurio, dentro i quali si poteva speculare vi fosse aria e vuoto. Torricelli era perfettamente conscio di questa difficoltà e, nel seguito della lettera, si sofferma su di essa (si ricordi che i vasi sono i tubi, mentre la catinella è la bacinella):

«Per mostrar che il vaso fusse perfettamente voto, si riempiva la catinella sotto posta d’acqua fino in D et, alzando il vaso a poco a poco, si vedeva, quando la bocca del vaso arrivava all’acqua, descender quell’argento vivo dal collo e riempirsi con impeto horribile d’acqua fino al segno E affatto».

        Dunque, all’inizio c’è mercurio fino al livello A. Si aggiunge acqua nella bacinella e, come si sa, essa galleggia sul mercurio. A questo punto viene sollevato il tubo in modo che la sua bocca pian piano fuoriesca dal mercurio; quando la bocca del tubo arriva a contatto con l’acqua, il mercurio che sta nel tubo non può galleggiare più sull’acqua e quindi precipita nella bacinella, mentre l’acqua entra con violenza nel tubo riempiendolo del tutto. Ciò, per Torricelli, mostrava con chiarezza il fatto che precedentemente, nel bulbo E, vi fosse il vuoto. Infatti, nel caso all’interno del bulbo si fosse trovata aria, non vi sarebbe stata alcuna possibilità che in esso fosse salita l’acqua. E l’acqua è ora salita fino a quel livello – e sarebbe salita anche oltre, fino a circa 10 metri, se vi fosse stato spazio disponibile – solo perché ha un peso specifico inferiore di circa 14 volte rispetto a quello del mercurio. Ma Torricelli aggiunge ulteriori, interessanti, considerazioni che pattano a ricercare la causa del fenomeno non già nel vuoto, fattore interno, ma nella pressione atmosferica, fattore esterno:

«Il discorso si faceva mentre il vaso AE stava voto e l’argento vivo si sosteneva benché gravissimamente nel collo AC; questa forza, che regge quell’argento vivo contro la sua naturalezza di ricader giù, si è veduto fino adesso che sia stata interna nel vaso AE, o di vacuo, o di quella robba sommamente rarefatta; ma io pretendo che la sia esterna e che la forza venga di fuori. Sulla superficie del liquore che è nella catinella gravita l’altezza di 50 miglia d’aria; però qual maraviglia è se nel vetro CE, dove l’argento vivo non ha inclinazione, ne anco repugnanza per non esservi nulla, entri e vi s’innalzi fin tanto che si equilibri colla gravita dell’aria esterna che lo spinge? L’acqua poi in un vaso simile, ma molto più lungo, salirà quasi fino a 18 braccia [circa 10 metri – n.d.r.], cioè tanto più dell’argento vivo, quanto più l’argento vivo è più grave dell’acqua, per equilibrarsi con la medesima cagione che spinge e l’uno e l’altra».

        Quindi niente più horror vacui poiché il vuoto che in tale ipotesi avesse aspirato l’acqua avrebbe, allo stesso modo, dovuto aspirare il mercurio che si trovava nel tubo CA nella prima fase dell’esperienza. I motivi sono altri e, come ben dice Torricelli, vanno ricercati nella pressione che l’atmosfera esercita sulla superficie libera del liquido che si trova nella bacinella. E le conclusioni tratte da questa esperienza venivano ulteriormente confermate da una ulteriore analisi del fenomeno mediante un confronto con quanto avveniva nel tubo B. Scrive Torricelli:

«Confermava il discorso l’esperienza fatta nel medesimo tempo col vaso A e con la canna B, nei quali l’argento vivo si fermava sempre nel medesimo orizzonte AB, segno quasi certo che la virtù non era dentro; perché più forza averebbe avuto il vaso AE, dove era più robba rarefatta ed attraente, e molto più gagliarda per la rarefattione maggiore che quella del pochissimo spatio B. Ho poi cercato di salvar con questo principio tutte le sorte di repugnanze che sentono nelli varii effetti attribuiti al vacuo, ne vi ho fin’hora incontrato cosa che non cammini bene».

        Torricelli ha provato a sottoporre alla luce della nuova teoria i vari fenomeni che prima venivano attribuiti all’horror vacui, e tutto gli risulta spiegabile ora, alla luce della nuova teoria. Resta un dubbio, nel quale si mostra quali erano le difficoltà che dovevano essere superate: la temperatura e la sua conseguente influenza sulla densità dell’aria, in che modo entrano nell’interpretazione dell’esperienza? Torricelli mantiene questo dubbio e lo comunica a Ricci:

«La mia intenzione principale poi non è potuta riuscire, cioè di conoscere quando l’aria fusse più grossa e grave e quando più sottile e leggiera con lo strumento EC, perché il livello AB si muta per una altra causa (che io non credevo mai), cioè per il caldo e freddo e molto sensibilmente, apunto come se il vaso AE fusse pieno d’aria».

        Il nostro non riesce a scrollarsi completamente dagli effetti interni: tutto ciò che prima ha attribuito agli effetti esterni non lo aiuta sulla strada dell’attribuzione di quest’ulteriore fenomeno agli effetti della temperatura sull’aria che, di nuovo, è all’esterno del tubo. In ogni caso, in questo modo si conclude questa prima lettera di Torricelli a Ricci (su questo argomento).

        Naturalmente alcune cose lasciano in dubbio il Ricci ed egli ne chiede un supplemento di spiegazione in una lettera del 18 giugno del 1644. Scrive il Ricci:

«Ammiro il nobile ardimento di V.S. nell’avere in considerazione cosa non tocca da veruno finora, la quale ha parimente tanto di probabilità che, toltone due o tre obiezioni, che sono per dire a V.S., le quali prego V.S. a volermele risolvere, siccome fo, che ella potrà fare agevolmente, stimo essere il più vero ed il più ragionevole che possa dirsi in simile questione».

        E veniamo alla prima obiezione:

«Primieramente pare a me che si potesse escludere l’azione dell’aria nel gravitare sulla superficie estrinseca dell’argento che sta nel vaso, ponendovi un coperchio con un pertugio solo, per il quale passi la canna di vetro, e poi turando onnimamente ogni parte, acciocché non v’abbia più comunicazione l’aria superiore al vaso, la quale verrebbe in tal caso a gravitare non più sulla superficie dell’argento, ma sul coperchio, et mantenendosi allora l’argento vivo sospeso in aria come prima, non si potrebbe più attribuire l’effetto al peso dell’aria, che ve lo sostenga quasi in equilibrio».

        Si tratta di questo: per accertarsi della giustezza delle conclusioni che trae Torricelli dalla sua esperienza, si può chiudere la bacinella con un tappo «ermetico», ed in modo che resti un solo buco attraverso il quale far passare il tubo di vetro. Se il mercurio continua, nel tubo, ad occupare la stessa quota, allora vuoi dire che l’effetto non è dovuto alla pressione atmosferica (questo, naturalmente, secondo Ricci). È come se, uno che si trovasse all’interno di una camera con porte e finestre ben chiuse, non sentisse l’effetto della pressione atmosferica. Attenzione però a non prendere alla leggera questo tipo di obiezione: a parte il fatto che esse mostrano il livello delle conoscenze che si avevano sul problema, contemporaneamente rendono conto di quanto fosse radicata la concezione precedente.

        Ma veniamo alla seconda di queste obiezioni:

«Secondariamente, preso uno schizzatoio [una siringa — n.d.r.], che vuole essere usato assai in questo soggetto et abbia la sua animella [lo stantuffo – n.d.r.] dentro onninamente, acciò escluda con la sua corpulenza ogni altro corpo, poi turando in cima il foro, et ritirando per forza l’animella indietro, sentiamo grandissima resistenza, et ciò non segue solamente tenendo in giù lo schizzatoio et voltando in su l’animella, sopra il cui manico grava l’aria, ma segue per ogni verso che si faccia; et pure non pare che si possa in questi casi facilmente intendere come il peso dell’aria c’abbia che fare».

        Si tratta del problema della pressione dell’aria: essa si esercita solo sulla verticale o in tutte le direzioni? A ben leggere quanto aveva scritto Torricelli (sull’onda di Baliani), e cioè che noi «siamo immersi in un pelago», la risposta c’è già; ma, anche qui, l’essere vincolati a concezioni non fa discernere quanto a Torricelli sembra molto chiaro: la pressione dell’aria, e più in generale di un fluido, si esercita in tutte le direzioni (si tratta di quel principio che successivamente verrà detto di Pascal).

        Finalmente la terza obiezione:

«Un corpo immerso nell’acqua non contrasta con tutta l’acqua che vi stia sopra, ma con quella sola che al moto del corpo immerso si muove, la quale non è maggiore di esso corpo; et perché stimerei che la stessa dottrina fosse da applicarsi alla librazione dell’argento, dovrebbe esso contrastare con tanto d’aria quanto è la sua mole; et come potrebbe l’aria preponderar mai?»

        Secondo Ricci, sulla traccia di un ragionamento che su questo argomento svolse Galileo nei Discorsi e dimostrazioni, se, ad esempio, si immerge una palla nell’acqua essa subirebbe la pressione della sola acqua che le sta intorno e quest’ultima non ha, detto con linguaggio moderno, una massa superiore a quella della palla. Il problema del Ricci è allora chiaro: il mercurio dovrebbe innalzarsi di 76 cm nel tubo se l’altezza dell’atmosfera fosse di 76 cm! È evidente che mancano i concetti di densità e peso specifico.

        A queste obiezioni c’è ovviamente una risposta di Torricelli (28/VI/1644) il quale dimostra di padroneggiare tutta la materia in oggetto. Scrive Torricelli:

«Intanto tengo per superfluo rispondere alle sue tre obiezioni intorno alla mia fantasia della resistenza apparente nel far il vacuo, perché spero che a lei medesima saranno sovvenute le soluzioni, dopo scritta la lettera».

        Al di là dell’atto di cortesia si può cogliere un certo imbarazzo a dover spiegare cose che sembrano chiare. In ogni caso, subito dopo, Torricelli passa alle spiegazioni:

«Quanto alla prima, io rispondo: se S.V. induce la lamina saldata che copra la superficie della catinella, la induce di maniera che ella tocchi l’argento vivo della catinella, che quello innalzato nel collo del vaso resterà, come prima sollevato non per il peso della sfera aerea, ma perché quello della catinella non potrà dar luogo. Se poi V.S. indurrà quella lamina, sì che ella pigli dentro anco dell’aria, io domando se quell’aria serrata dentro V.S. vole che sia nel medesimo grado di condensattione che l’esterna, et in questo caso l’argento vivo si sosterrà come prima …, ma se l’aria che V.S. include sarà più rarefatta dell’esterna, all’hora il metallo sollevato descenderà alquanto; se poi fusse infinitamente rarefatta, cioè vacuo, all’hora il metallo descenderebbe tutto, purché lo spazio serrato lo potesse capire …».

        Se allora noi copriamo la bacinella con un coperchio disposto in modo tale che sia praticamente poggiato sulla superficie del mercurio, allora sarà impossibile che il mercurio scenda dal tubo della bacinella poiché, in questo caso, sarà il coperchio che, esercitando una pressione sul mercurio, impedirà che esso scenda dal tubo. Se poi tra il coperchio ed il mercurio della bacinella lasciamo dell’aria e quest’aria ha la stessa densità di quella esterna il mercurio resterà ancora al livello precedentemente occupato. Se, viceversa, quest’aria ha una densità minore di quella esterna il livello del mercurio si abbasserà fino a che non arriverà ad essere lo stesso di quello del mercurio nella bacinella nel caso limite che tra coperchio e bacinella si faccia il vuoto (e questa ultima eventualità si verifica solo se lo spazio esistente tra coperchio e livello del mercurio nella bacinella è sufficiente per accogliere il mercurio che discende dal tubo).

        Riguardo alla seconda questione, scrive Torricelli:

«Fu una volta un filosofo che, vedendo la cannella messa alla botte da un suo servitore, lo bravò con dire che il vino non sarebbe mai venuto, perché natura dei gravi è di premere in giù e non horizontalmente e dalle bande, ma il servitore fece toccarli con mano che, se bene i liquidi gravitano per natura in giù, in ogni modo spingono e schizzano per tutti i versi anco all’insù, purché trovino luoghi dove arrivare, cioè luoghi che resistono con forza minore della forza di essi liquidi».

        È questa una enunciazione molto chiara di quello che, come dicevamo, è passato come principio di Pascal. E comunque, per mostrare ulteriormente quanto gli preme, Torricelli insiste con un esempio in cui si mostra che in particolari condizioni i liquidi seguono la strada «dal giù al su»:

«Infonda V.S. un boccale tutto nell’acqua, colla bocca all’ingiù, poi li buchi il fondo, sì che l’aria possa uscire, vedrà con che impeto l’acqua si muove di sotto all’in su per riempirlo».

        Al di là della bellezza e dell’efficacia di questa esemplificazione, si ricordi che scriveva queste cose nel 1644, quando esse suonavano da duro attacco alla fisica aristotelica ed in particolare alla teoria dei luoghi naturali. Ed a quell’epoca non era troppo salutare andar dicendo di queste cose, soprattutto dopo la condanna di Galileo.

        E Torricelli prosegue:

«La 3° obiezione non mi par troppo a proposito, certo è che è meno valida dell’altra, ancorché essendo presa dalla geometria paia più gagliarda di tutte. Che un corpo immerso nell’acqua contrasti solo con tanta mole d’acqua quanta è la mole sua, è vero, ma il metallo sostenuto in quel collo di vaso non mi pare che si possa dire ne immerso in acqua, ne in aria, ne in vetro, ne in vacuo; solamente si può dire che egli è un corpo fluido e libratile, una superficie del quale confina col vacuo o quasi vacuo, che non gravita punto, l’altra superficie confina con aria premuta da tante migliaia d’aria ammassata, e però quella superficie non premuta punto, essendo scacciata da quell’altra et essendo tanto, sin che il peso del metallo sollevato arrivi ad agguagliare il peso dell’aria premente dall’altra parte».

        Il 2 luglio 1644 Ricci risponde a Torricelli dichiarandosi soddisfatto. E così termina il resoconto ufficiale di questa fondamentale scoperta.

IL SEGUITO CHE EBBE IL LAVORO DI TORRICELLI

        Ricci informò di questa esperienza vari studiosi dell’epoca ed in particolare il prete francese Marin Marsenne. Tutti rimasero profondamente impressionati e Marsenne si recò a Firenze, da Parigi, per assistere all’esecuzione dell’esperienza. Tornato in Francia divulgò il lavoro di Torricelli sul quale si accesero interminabili dibattiti tra i sostenitori dell’horror vacui e quelli che invece erano rimasti convinti dall’esperienza di Torricelli dell’esistenza del vuoto. Vi fu anche chi arrivò a sostenere che il mercurio è una sostanza bastarda che non sa decidersi se deve andare giò o su.

        In ogni caso, tra coloro che vennero a conoscenza dell’esperienza, vi era un giovane francese, Blaise Pascal.

        Costui tentò di ripetere l’esperimento a Parigi (insieme a P. Petit); non vi fu nulla da fare fino all’estate del 1646.

        I vetrai parigini non erano in grado di costruire vetri abbastanza resistenti da contenere mercurio. Le prime esperienze furono fatte con vino. Fu invece possibile realizzare l’esperimento a Rouen utilizzando vetri ivi prodotti (1).

        Le osservazioni confermarono in pieno tutto ciò che aveva realizzato Torricelli. Con un particolare: mai Pascal, nei suoi scritti, ebbe a ricordare il nome di Torricelli dicendo, al contrario, di essere stato il primo a scoprire il fenomeno!

        Torricelli morì nel 1647, a soli 39 anni. Il ferreo controllo della Chiesa, impedì che nascessero scuole sulla strada aperta da Galileo. Con Torricelli moriva uno degli ultimi allievi dello scienziato pisano e, gradualmente, la scuola italiana di fisica, che così importanti contributi aveva dato all’intera umanità.

        Gran merito di Pascal fu invece quello di aver realizzato quanto Torricelli non era riuscito a fare, pur essendoselo proposto: utilizzare l’esperienza per evidenziare le variazioni della pressione atmosferica. Egli fece eseguire l’esperienza sulla cima del Puy de Dome da suo cognato: effettivamente il mercurio raggiungeva un livello più basso di quello raggiunta al livello del mare(*). Questo ed altri lavori innestati immediatamente su quello di Torricelli permisero sviluppi incredibili: da allora si cominciò a lavorare sulle prime macchine a motore termico; sulle prime macchine da vuoto; si cominciò a pensare all’aerostatica; si sviluppò la meteorologia (vènti dovuti a differenze di pressione
dell’atmosfera, … ); si svilupparono la chimica e la fisica dei gas che, a loro volta, permisero gli importanti risultati della teoria atomica; in un campo completamente diverso, si cominciò a comprendere il fenomeno della respirazione ed il ruolo che assolvono i polmoni che comporò grandi sviluppi della fisiologia; … 
        Insomma, si può dire che le conseguenze dell’esperienza di Torricelli ebbero una ricaduta formidabile, aprendo un dibattito che può essere paragonato solo a quello che seguì al cannocchiale di Galileo.
        Torricelli morì nel 1647, a soli 39 anni. Il ferreo controlla della Chiesa, impedì che nascessero scuole sulla strada aperta da Galileo. Con Torricelli moriva uno degli ultimi allievi dello scienziato pisano e, gradualmente, la scuola italiana di fisica che così importanti contributi aveva dato all’intera umanità.


NOTE

(*) Si osservi che relativamente ad almeno un aspetto delle problematiche che abbiamo tentato di discutere, una esperienza collegata di Pascal risulta decisiva. Egli fece salire l’apparato sperimentale in montagna ed il livello del mercurio nel tubo calò: la pressione dell’aria è responsabile dell’ascensione del mercurio nel tubo.

BIBLIOGRAFIA

        Svariati testi si occupano dell’esperienza di Torricelli ma molti in modo superficiale ed incompleto. Per il solito amore della linearità e del cumulo di conoscenze, l’esperienza è inserita in falsi contesti storici. I testi che meritano di essere letti e dei quali mi sono servito sono elencati di seguito.

GALILEI, Opere (2 Voll.), Utet, 1964 (da quest’opera ho tratto le citazioni della corrispondenza tra Baliani e Galileo).

GALILEI, Le opere dei discepoli di Galileo: Carteggio 1642-1648, Giunti-Barbera, 1975 (da quest’opera ho tratto le citazioni della corrispondenza tra Torricelli e Ricci.).

AA.VV., Storia delle scienze (2° Vol.) Utet, 1965 (in quest’opera c’è un’ottima trattazione della questione fatta da uno dei più grossi studiosi italiani di Torricelli, Mario Gliozzi).

FORTI, U., Storia della scienza (4° Vol.), Dall’Oglio, 1969.

FORTI, U., Storia della tecnica, Sansoni, 1957.

CARDWELL, D.S.L., Tecnologia, scienza e storia, Il Mulino, 1976.

KOYRÉ, A., Études d’histoire de la pensée scientifique, Gallimard, 1973.



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