I PAPI: la via criminale a Dio. Parte 2: dalle Crociate alla Riforma Protestante.

Roberto Renzetti

Luglio 2010

L’AVANZATA DELL’ISLAM

         Nel precedente articolo avevo terminato con un cenno alle pre-crociate e con l’avvento al soglio di Pietro di Papa Urbano II (1088-1099). Occorre riprendere da qualche anno prima e seguire gli avvenimenti.

        Sul finire del Primo Millennio l’Italia era territorio di conquista per i più differenti eserciti. Risultava frammentata in diversi possedimenti che andavano cambiando abbastanza frequentemente e rapidamente. Alcuni principati, sia al Sud che al Nord d’Italia, si erano fortificati e sembrava dovessero diventare stabili. Vi era poi una forte presenza longobarda a Nord e normanna al Sud. La Chiesa continuava a ricercare il miglior protettore che comunque non doveva discuterne l’autonomia. Il tutto era però diretto da varie potenze straniere, alcune delle quali declinavano ed altre emergevano. Tra queste vi erano le potenze imperiali franca e bizantina, la prima delle quali sostituita o appannata dalla potenza germanica.

        La situazione è ben illustrata dalle seguenti carte geografiche:

 Cammarosano racconta nel modo seguente come si iniziò a porre la questione islamica:

         In questa mobile situazione … si impose il nuovo fatto, destinato a produrre una svolta drastica alla situazione politica d’Italia e ad accentuarne la frammentazione politica: l’espansione islamica.
       Sino dagli inizi del secolo VIII i Saraceni(1) d’ Africa avevano compiuto incursioni in Sicilia e in Sardegna, con assedi di città, razzie di tesori e di persone, estorsione di momentanei tributi: sollevazioni dei Berberi e pestilenze, e certo anche una difesa bizantina ancora efficace, avevano impedito che quei raids si consolidassero in operazioni di conquista. Ma nel secondo quarto del secolo IX gli eserciti islamici iniziarono una pressione militare continua, mirando allo stanziamento e al dominio politico, e concentrando sulla Sicilia il loro sforzo. L’obbiettivo erano come di consueto le città. Palermo fu presa nell’831 e sarebbe diventata la capitale della colonia musulmana di Sicilia, formalmente dipendente dall’ emirato aglabita d’ Africa [situato nell’odierna Tunisia e con capitale l’antica Kairouan (Qayrawan), ndr] ma con la fondamentale tendenza di sovranità che caratterizzava oramai da tanto tempo ognuna delle regioni sulle quali si estendeva l’Islam. Poi gli Agareni(1) (come sono detti nei testi latini) combinarono una logorante e incerta guerra nell’isola con puntate frequenti sul continente, impadronendosi di Taranto nell’836, incendiando Brindisi nell1’838, ponendo loro teste di ponte ad Agropoli e verso la foce del Garigliano, devastando la Campania e la Calabria, saccheggiando le Puglie negli anni 840-870. Bad, assalita una prima volta fra 840 e 841, fu occupata stabilmente nell’847 e sarebbe divenuta base delle gesta di Sawdan, il capo musulmano più celebrato per ardimento, ferocia e scaltrezza nelle narrazioni cristiane del tempo. Nel maggio dell’878 cadeva finalmente Siracusa, la città più importante di Sicilia e quella per la quale più a lungo si era combattuto.
        Nelle cronache del tempo l’avvento islamico, sia in Sicilia che nel continente, fu spesso ricondotto alle sollecitazioni di maggiorenti locali, ambiziosi, ostili alla corte bizantina, o comunque in lotta con altri potenti. Quello dell’invasore chiamato proditoriamente a sostegno dei propri appetiti, e poi divenuto padrone, è uno stereotipo plurisecolare. Ma come ogni stereotipo ha una radice nelle cose, e non c’è dubbio che i non numerosissimi ma valorosi eserciti arabi e berberi fossero considerati possibili alleati da parte di personaggi e di clan del Mezzogiorno bizantino e beneventano nel loro endemico conflitto per il potere politico. Di fronte all’intervento saraceno nel Mezzogiorno le aristocrazie del principato beneventano non organizzarono una comune difesa, e si incrementarono anzi le loro lotte interne.
[…]
        Se la pressione dei Saraceni non impedì, anzi contribuì ad accentuare la divisione politica e i conflitti interni dei territori meridionali, essa suscitò d’altro canto nuovi impulsi di intervento dall’ esterno. Sia in Sicilia che nelle Puglie i guerrieri islamici si trovarono a più riprese di fronte dei contingenti veneziani, protagonisti di effimeri successi quale ad esempio un recupero di Taranto. Ma fu soprattutto l’ambiente franco a ritrovare uno spazio di intervento. Due serie di fatti apersero questo spazio. Anzitutto la chiusura, nell’843, del lungo e sanguinoso conflitto che aveva opposto fra loro i nipoti di Carlo Magno per la successione imperiale e per la spartizione di regni e città dell’impero. Poi una impresa saracena che suscitò particolare sgomento e clamore: il saccheggio della basilica romana di S. Pietro nell’ estate dell’846.

        Senza un’organizzazione militare ed una flotta a disposizione risultava molto difficile contrastare incursioni improvvise e sempre più massicce in imprecisati territori (con una scorribanda, nell’841, fu incendiata Capua). Episodicamente si poteva avere un qualche successo come quando nell’871 il franco Ludovico II riuscì a strappare Bari all’occupazione saracena. Ma Ludovico fu fatto arrestare (morì poi nell’875) per altre vicende dal principe di Benevento Adelchi ed i Saraceni ripresero a fare razzie: gli attacchi da Saraceni stanziati in Puglia riguardarono le coste dalmate; nell’878 Siracusa fu conquistata dai musulmani; nell’880 fu distrutto l’eremo di Montecassino e saccheggiata la cittadina di San Vincenzo al Volturno; … Come già detto si tratta di un quadro intricatissimo di guerre e devastazioni, di alleanze composte, violate e ricomposte, attraverso le quali si inserivano vari conquistatori, non ultimi i Saraceni. Sul finire del IX secolo avevano conquistato quasi tutta la Sicilia (resistevano ancora Taormina, che cadrà nel 902, e Rometta, che cadrà nel 963. Da qui partirono assalti, oltreché a coste italiane, a possedimenti francesi e bizantini. Particolarmente di mira furono prese Creta, Cipro, Sardegna e Corsica dove giovani, donne ed uomini furono catturati per essere immessi nel mercato degli schiavi. Questo stillicidio del terrore fu per qualche tempo fermato da una iniziativa di Papa Giovanni X e del Re d’Italia Berengario insieme ad altri principi del Sud (Capua, Salerno e Benevento) che nel 915 scacciarono i Saraceni dal Garigliano.

        Si andò avanti così per anni finché non si fece strada l’idea di tagliare alla radice questa calamità. Già sotto Gregorio VII vi era stata una pre-crociata (1081) guidata dal normanno Roberto il Guiscardo che, per la prima volta nella storia, ebbe il permesso dal Papa di issare la croce come simbolo di un esercito. Altra pre-crociata fu appunto quella che nacque sotto Papa Vittore III (1087) e fu realizzata da una coalizione di Repubbliche Marinare, con particolare impegno pisano. Le cronache di Montecassino raccontano che questa spedizione fu promossa da Papa Vittore III, il benedettino che proveniva da quel monastero. Cronache arabe e normanne aggiunsero particolari di tipo economico: i pisani ebbero dall’emiro Tamîn una forte somma di denaro perché lasciassero liberi i territori tunisini che avevano occupato ed in particolare la città di Mehdia, roccaforte della flotta saracena, che era stata conquistata e saccheggiata. Con il bottino di guerra fu costruita la cattedrale di Pisa. E erano anche iniziate da parte di Gregorio VII altre gestioni del problema Islam. Poco oltre il 1070 Gregorio scrisse ai principi (Aragona, León e Navarra) che operavano (o erano in procinto  di farlo) alla Reconquista dei territori spagnoli occupati da islamici ricordando loro che il Regno di Spagna era pertinenza di San Pietro in base ad un antico e consolidato diritto (Gregorii VII, Registrum, I, 7). Naturalmente non spiegava l’origine di tale diritto supponendo che esso discendesse ancora dalla falsa Donazione di Costantino e (forse) dalla cessione della penisola iberica ai Visigoti (411), completamente cristianizzatinel 589(2). La questione fu ripresa da Papa Urbano II che sollecitò a più riprese i Re cristiani alla riconquista di terre in mano islamica. A tal fine, nel 1090, convocò un Concilio a Tolosa nel quale venne deliberato di inviare una delegazione a Toledo perché vi fosse restaurato il Cristianesimo. Intanto, nel corso dell’XI secolo i Normanni avevano occupato la Sicilia scacciando i Saraceni. Il secolo XI vide una generale decadenza della spinta propulsiva che gli arabi avevano avuto a partire dai tempi di Maometto (VI secolo). A tale declino si accompagnò però l’avanzata tumultuosa di popolazioni di origine mongola, i Turchi, convertiti all’Islam nel secolo X ed arrivati al Mediterraneo attraverso la conquista di: Persia, Mesopotamia, Siria, Palestina e Gerusalemme (1070), luoghi santi, ed attaccando a più riprese ciò che rimaneva dell’Impero Bizantino (sconfitto duramente nel 1071 nella battaglia di Manzicerta). Già nel 1073 Gregorio VII si fece promotore di una spedizione contro i Turchi che non ebbe seguito per le violente lotte che i cristiani amavano fare tra loro, questa volta per le investiture e per lo scontro in atto tra il Papato ed Enrico IV, il giovane Imperatore del Sacro Romano Impero.

        E’ utile, a questo punto, riprendere un tema trattato nel precedente articolo, il Millenarismo. Abbiamo visto che la venuta di quell’anno era presagio di molte sciagure tra cui la fine del mondo ed il giudizio universale. Ciò riportò molti ad abbracciare la fede con la speranza della salvezza e con la fede riprese l’ascetismo. Quel fine millennio viene così descritto da Gregorovius:

Le lunghe guerre tra la corona e la tiara avevano precipitato l’impero in uno stato di miseria indescrivibile e le passioni partigiane, contaminando tutte le sfere della società, avevano ispirato odi contro natura e causato discordie e colpe senza numero. La defezione di Corrado [il figlio di Enrico IV che, disgustato dal padre, era passato sotto la protezione di Matilde di Canossa e del papa, ndr], traditore del proprio stesso padre, non era che l’orrendo simbolo in cui l’intero genere umano, in quell’epoca, poteva riconoscere se stesso, poiché ovunque il padre insorgeva contro il figlio, il fratello contro il fratello, il principe contro il principe, e contro il vescovo si schierava il vescovo, contro il papa un altro papa. Nella vita degli uomini si operò una scissione così profonda che mai se ne era vista l’uguale nella storia; essa sembrò dilacerare il cristianesimo stesso e fiaccare la forza gloriosa dei suoi misteri. Il mondo era immerso nelle tenebre di una maledizione mortale; dove era più il Redentore, grazia e benedizione dell’uomo? Se Cristo fosse tornato allora sulla terra, con grande stupore avrebbe constatato che la religione dell’amore da lui stesso predicata si era tanto allontanata dalla freschezza delle origini da essere ormai irriconoscibile, e con meraviglia Pietro avrebbe trovato i suoi successori nell’incarico apostolico tutti indaffarati a erigere un trono cesareo sulle rovine di Roma, sopra il suo stesso sepolcro, e avrebbe sentito il pontefice definirsi Pontifex Maximus, al pari di un antico romano.

        Passato l’anno 1000 e constatato che tutto seguiva allo stesso modo vi fu una sorta di spirito di ripresa che coinvolse tutti tanto da portare l’intera Europa ad una situazione economica favorevole in connessione con la prima rottura della società feudale e l’espansione a molti piccoli contadini della proprietà terriera. In concomitanza con questa crescita economica europea iniziò una crisi della potenza orientale: sia l’Impero Bizantino che quello arabo si sfaldavano e cadevano sotto i colpi dei Turchi. E’ questa situazione di accresciuta potenza occidentale a fronte di perdita di potenza orientale che sarà alla base degli avvenimenti che prenderanno le mosse all’inizio del nuovo Millennio.

        A partire dalla fine del Millennio i cristiani di Occidente avevano iniziato a praticare pellegrinaggi in Terra Santa. Fino ad allora il pellegrinaggio, nonostante non fosse impedito dagli arabi, era una pratica non molto frequente. Ma intorno al 950 e 1100 ci fu un importante rinascimento religioso, sull’onda del misticismo indotto dai monasteri di Cluny e della Borgogna che fomentarono ed organizzarono molti pellegrinaggi(3). L’ultimo famoso pellegrinaggio fu quello del 1033 in corrispondenza del millenario della morte di Gesù. Dopo questa data fu sempre più difficile raggiungere la Palestina per l’avanzata dei Turchi sia in terre bizantine che arabe. Da questo momento si moltiplicarono racconti di aggressioni e rapine sui pellegrini ed i Turchi, che avevano finalmente occupato (1076) le terre arabe di Siria e Palestina, imposero tasse elevatissime per entrare nei luoghi santi che restavano per loro una fonte d’ingresso di denaro importantissima. Episodi di intolleranza vi erano stati anche con gli arabi ma erano sempre stati marginali. Si pensi ad esempio che mentre i pagani furono costretti a convertirsi, ciò non accadde né per ebrei né per cristiani. Con i Turchi le cose peggiorarono a causa del fatto che i pellegrini erano ritenuti essere Bizantini, loro nemici acerrimi. In realtà nessuno avrebbe potuto distinguere tra quelle masse di persone quali fossero Bizantini e quali di altra etnia europea. Neanche i cristiani sapevano distinguere e quando scendevano sempre più numerosi in quelle terre si dilettavano negli eccidi di Turchi ma anche di Bizantini in quanto cristiani non ossequienti al Vescovo di Roma ma al Patriarca di Costantinopoli ma anche perché il loro sentire religioso era più vicino agli arabi che non alla Chiesa di Roma. In ogni caso i fatti di violenza sono certamente veri (e non dissimili da quanto accadeva a qualunque viaggiatore cristiano in qualunque Paese cristiano) ma sulla effettiva ampiezza e risonanza di essi molti storici sollevano fondati dubbi. Anche all’epoca la propaganda tendeva ad esaltare determinate notizie e a nasconderne delle altre e tra le notizie da esaltare vi era la ferocia dei Turchi. Comunque, in quello stesso 1055, i Bizantini si rivolsero a Venezia per chiedere aiuto contro le minacce turche al loro regno e piano piano si fece strada l’idea che anche l’Occidente cristiano nel suo insieme dovesse temere una invasione.

        Un evento straordinario era intanto accaduto tra la Chiesa di Roma con Papa Leone IX e quella di Costantinopoli guidata dal Patriarca Michele I Cerulario: nel 1054 le due Chiese erano arrivate ad una definitiva rottura consumando il Grande Scisma che era andato maturando in vari secoli su due questioni fondamentali, il Primato non riconosciuto della Chiesa di Roma e l’inserimento in Occidente della parola filioque nel Credo niceno(4).

       Nel 1081 salì al trono d’Oriente, ormai in balia dei Turchi Selgiuchidi (dinastia turca che trae il suo nome da Seljük morto intorno all’anno 1000), Alessio I Comneno che aveva nei suoi progetti la riconquista dell’Asia Minore cosa che sarebbe stata impossibile senza l’aiuto dei regni d’Occidente. Al fine di ottenere il desiderato aiuto al piano di riconquista, Alessio I inviò degli ambasciatori in Occidente che giunsero a Piacenza nel marzo del 1095, mentre era in corso un Concilio diretto da Papa Urbano II (1088-1099). In tale consesso gli ambasciatori fecero presente la difficilissima situazione dell’Impero d’Oriente minacciato sempre più dai Turchi che già avevano conquistato grosse fette dei suoi territori. In questa occasione Urbano lanciò solo un messaggio ai cristiani italiani, franchi e normanni che li esortava ad intervenire in aiuto dei confratelli d’Oriente. Ma, come già visto nel precedente articolo, vi erano già state esortazioni del genere che sembravano sempre dettate da fatti contingenti e non da una politica precisa ed anche stavolta il tutto sembrò cadere nel nulla.

Le due figure mostrano: quella in alto l’estensione dell’Impero bizantino nel 1050; quella in basso la sua estensione nel 1095, quando gli ambasciatori di Bisanzio si recano a Piacenza.

DEUS LO VOLT ! DIO LO VUOLE !

        Abbiamo visto nel precedente articolo che alla morte di Papa Vittore III (1806-1087) fu eletto Papa Urbano II. Le cose non furono però semplici perché Roma era saldamente in mano all’antipapa Clemente III. Dovettero passare vari mesi prima che si riuscisse ad eleggere il nuovo Papa. Poiché Roma era impraticabile si convocò l’elettorato a Terracina, secondo il Decreto di Papa Niccolò II del 1059, dove nel marzo del 1088 fu eletto un monaco del Monastero di Cluny, il vescovo riformista di Ostia Eudes de Lagery (che Gregorio VII aveva fatto cardinale) che assunse il nome di Urbano II.

        Urbano, scomunicato nel 1089 da Clemente III, passò i primi anni del pontificato a cercare di farsi riconoscere come Papa e a crearsi le alleanze necessarie. Il problema principale era l’Imperatore Enrico IV che era stato scomunicato nel 1076 da Papa Gregorio VII e che era Imperatore grazie all’incoronazione non di un Papa ma di un antipapa. Enrico andava rafforzando il suo regno avendo sconfitto la resistenza armata di molti principi ed avendo riconquistato alla sua causa la maggioranza dei vescovi tedeschi e della Longobardia. In questa posizione Enrico intraprese un viaggio in Italia con l’intenzione di stroncare l’unica resistenza che gli era rimasta, Matilde di Canossa che, vedova di Goffredo il Gobbo, si era risposata con Guelfo V figlio del duca di Baviera su consiglio del Papa. Ma Guelfo lasciò Matilde quando seppe che tutti i suoi beni erano stati lasciati alla Chiesa di modo che, in definitiva, crebbero i nemici del Papa. Quest’ultimo si rivolse ai Normanni che però non riuscirono a garantire nulla. Enrico IV discese in Italia e subito si scontrò con l’esercito di Matilde. Vinse alcune battaglie ma poi fu sconfitto tanto che anche il figlio di Enrico IV, Corrado, prese fiducia in Matilde e le chiese asilo insieme alla seconda moglie dell’Imperatore (Corrado, su consiglio del Papa, andrà sposo con la principessa normanna Matilde e permetterà la ripresa dei legami del Papato con i Normanni). Questa vittoria di Matilde animò molte città del Nord che si costituirono in una Lega, guidata dalla stessa Matilde, contro l’invasore tedesco. La potenza di Enrico iniziò a venir meno ed egli fu costretto ad asserragliarsi a Verona, proprio quando a Roma l’antipapa Clemente era stato cacciato  e Urbano era riuscito nel 1094 ad insediarsi (seguirono comunque due anni di scontri in città con Clemente chiuso a Castel Sant’Angelo). Da notare che per questa vittoria romana non erano intervenuti i normanni ma un esercito messo insieme con i soldi raccolti soprattutto in Francia dall’abate Goffredo di Vendôme e guidato dal conte Ugo di Vermandois.

        Nonostante queste vittorie, la Chiesa non aveva intorno nessuno su cui appoggiarsi se si esclude la sola Matilde. Si trovava in uno stato di completa incertezza, senza alleati fidabili, senza riferimenti ed anche con poche disponibilità economiche. La Chiesa era inoltre impegnata nella lotta delle investiture, iniziata nel 1059 da Papa Niccolò II, che riguardava i vescovi che la Chiesa non voleva più fossero nominati dall’Imperatore. Ed è in questo clima che Urbano convocò il Concilio di Piacenza (nel mezzo della Longobardia scismatica) del marzo 1095 nel quale, dopo aver ribadito la condanna dei simoniaci, dei coniugati e dei concubini, esortò i regnanti cristiani ad aiutare i confratelli d’Oriente. Al Concilio, cui parteciparono 200 vescovi di: Italia, Francia, Borgogna Germania  e Baviera ed oltre 5000 ecclesiastici ed innumerevoli laici di varia provenienza, presenziarono i citati ambasciatori di Alessio, Prassede, la seconda moglie di Enrico IV del Sacro Romano Impero, ed una delegazione inviata da Filippo I Re di Francia. Il Concilio, data la eccezionale presenza di partecipanti si dovette tenere in un campo al di fuori delle mura della città. Questa importante partecipazione deve aver spinto Urbano ad altri Concili che interessassero ai problemi in discussione altre realtà politiche. Da Piacenza egli si diresse verso la sua terra, la Francia, per tenervi altri Concili (Macon, Cluny, Sauvigny) tra cui quello famoso del novembre 1095 a Clermont (13 arcivescovi e 205 vescovi, migliaia di chierici e laici accorsi per ascoltare il Papa).

Concilio di Clermont

        Terminato il Concilio, il Papa si rivolse a una folla di laici e chierici riuniti per ascoltare il suo messaggio. Raccontò le conclusioni più immediatamente teologiche del Concilio e quindi passò al tema dei Luoghi Santi. Il discorso appassionato del Papa, diretto all’intera cristianità, prima si soffermò sulla orrenda situazione vissuta dai cristiani a Gerusalemme: “Abbattono gli altari dopo averli sconciamente profanati, circoncidono i cristiani e il sangue della circoncisione o spargono sopra gli altari o gettano nelle vasche battesimali; e a quelli che vogliono condannare a una morte vergognosa perforano l’ombelico, strappano i genitali, li legano a un palo e, percuotendoli con sferze, li conducono in giro, sinché, con le viscere strappate, cadono a terra prostrati. Altri fanno bersaglio alle frecce dopo averli legati ad un palo; altri, fattogli piegare il collo, assalgono con le spade e provano a troncare loro la testa con un sol colpo. Che dire della nefanda violenza recata alle donne, della quale peggio è parlare che tacere?“. Quindi partì dall’elemento che gli stava più a cuore: i cristiani si facevano continue e crudeli lotte tra loro, non era più opportuno combattere gli infedeli ? I briganti si facciano soldati, chi ha lottato contro i fratelli lotti contro i barbari, chi è stato mercenario avrà una più grande mercede guadagnando per sé la salvezza eterna. Tutti i balordi erano riconquistati alla fede se in lotta contro il nemico: “Insorgete, puntate le vostre armi grondanti di sangue fraterno contro i nemici della fede cristiana. Voi, oppressori di orfani e vedove, voi, assassini e profanatori di chiese, voi ladri degli altrui beni, voi, che siete pagati per versare sangue cristiano, che come avvoltoi siete attirati dal fetore dei campi di battaglia: affrettatevi se amate l’anima vostra, a muovere al comando di Cristo in difesa di Gerusalemme. Voi tutti che commetteste tali delitti da essere esclusi dal regno dei cieli, riscattatevi a questo prezzo, poiché questo è il volere di Dio …“. E da ultimo l’esortazione a partire, ad armarsi per combattere gli infedeli profanatori dei luoghi santi: “Non vi trattenga il pensiero di alcuna proprietà, nessuna cura delle cose domestiche, ché questa terra che voi abitate, serrata d’ogni parte dal mare o da gioghi montani, è fatta angusta dalla vostra moltitudine, né è esuberante di ricchezza e appena somministra di che vivere a chi la coltiva. Perciò vi offendete e vi osteggiate a vicenda, vi fate guerra e tanto spesso vi uccidete tra voi. Cessino dunque i vostri odi intestini, tacciano le contese, si plachino le guerre e si acquieti ogni dissenso ed ogni inimicizia. Prendete la via del santo Sepolcro, strappate quella terra a quella gente scellerata e sottomettetela a voi: essa da Dio fu data in possessione ai figli di Israele; come dice la Scrittura, in essa scorrono latte e miele. Gerusalemme è l’ombelico del mondo, terra ferace sopra tutte quasi un altro paradiso di delizie; il Redentore del genere umano la rese illustre con la sua venuta, la onorò con la sua dimora, la consacrò con la sua passione, la redense con la sua morte, la fece insigne con la sua sepoltura. E proprio questa regale città posta al centro del mondo, è ora tenuta in soggezione dai propri nemici e dagli infedeli, è fatta serva del rito pagano. Essa alza il suo lamento e anela ad essere liberata e non cessa d’implorare che voi andiate in suo soccorso“. E “quando andrete all’assalto dei bellicosi nemici, sia questo l’unanime grido di tutti i soldati di Dio: «Dio lo vuole! Dio lo vuole!»“.

        Una prima osservazione deve essere fatta. L’enfasi sui luoghi santi e Gerusalemme risultava nuova. Quelle terre non erano mai interessate al Papato fino ad allora. Lì, dove era il sepolcro di Cristo, nessuno pensò mai di farne la sede della cristianità. Una seconda osservazione è più importante e riguarda il cosa possa essere accaduto tra marzo e novembre del 1095 perché Urbano passasse da una semplice esortazione ad un appello così forte e deciso. A questo proposito leggiamo cosa scrive Gatto che ci introduce molto bene ai motivi reali della crociata:

Cosa accadde fra la primavera e l’autunno del 1095 che portò Urbano a passare da un cauto e diplomatico appoggio alla causa della cristianità orientale alla proclamazione della prima crociata? I motivi del mutamento possono essere molteplici, ma non vanno sottovalutati fra essi taluni incontri destinati probabilmente a determinare la volontà papale in modo irreversibile. Anzitutto, il vescovo di Roma visitò l’Abbazia di Le Puy dove vide e parlò lungamente con Ademaro di Monteil, il quale, verso il 1087, aveva compiuto un pellegrinaggio a Gerusalemme, donde era rientrato narrando particolari “apocalittici” sulle condizioni dei cristiani oppressi dai Selgiuchidi. Fra l’altro, Ademaro era imparentato con i conti di Tolosa e fu forse proprio in quella occasione che furono decise la spedizione e la relativa direzione, entrambe affidate per l’appunto al conte tolosano Raimondo. V’è in proposito chi ritiene addirittura che dal centro monastico suddetto il pontefice si sia recato a Saint-Gilles per incontrarvi Raimondo, il quale, poi, mandò i suoi ambasciatori a Clermont per portarvi ufficialmente l’assenso del loro signore al passagium. Una terza tappa del percorso urbaniano si svolse in Borgogna, più precisamente a Cluny, ove il papa prese contatto con il duca Ottone I, già in precedenza ben disposto a partecipare alla campagna militare contro i Mori d’Africa. In quei paraggi soggiornava anche Filippo I di Francia e non si può escludere che Urbano non cercasse ivi anche un suo primo, sia pur generico consenso alla guerra d’oltremare.
Certo, dal marzo al novembre del 1095, gli intendimenti urbaniani apparvero fortemente mutati. È interessante pertanto studiare in qual modo tale evoluzione sia stata percepita, quanto sia stata posta in rapporto alla reale situazione della Palestina e dei cristiani che vi si recavano o vi vivevano e quanto sia scaturita da considerazioni dettate da motivi politici contingenti. Disse, ad esempio, Fulcherio di Chartres che papa Urbano nutrì il proposito di suscitare nuova vitalità nel cristianesimo proprio sostenendo la crociata. Se Urbano dunque ebbe per scopo principale la preoccupazione di cancellare il “basso profilo” in cui era scaduta la religione tra ecclesiastici e popolo e cercò di scongiurare il pericolo che i principi cristiani continuassero a passare il tempo combattendosi sterilmente 1’un l’altro, allora si deve concludere che il suo obiettivo ebbe scopo squisitamente politico e scarsamente missionario. Egli, insomma, non avrebbe mirato all’ampliamento dei confini della cristianità o alla loro difesa dagli invasori, ma avrebbe plasmato il cristianesimo come una fede praticata nell’ ambito geografico ed umano di competenza.
Parecchi anni dopo quegli eventi, Guglielmo di Malmesbury, invece, nel De regum gestis pose in risalto il rischio concreto corso in quei frangenti dalla cristianità: rischio costituito dalla perdita a favore dei musulmani dell’ Asia e dell’ Africa. Legato alla fede rimaneva, infatti, solo l’Occidente cristiano e non mancarono difficoltà quando, come comprovò 1’occupazione della Spagna, delle Baleari e della Sicilia, i seguaci dell’Islam entrarono nel nostro continente. Il bisogno di respingere un possibile assalto alla fede dei padri, dunque, rimase un elemento non aleatorio e costante nell’azione del papa e fu comunemente rilevato da tutte le fonti narrative. Tuttavia tale esigenza non fu sempre contrapposta al tentativo di adeguare la passione per la guerra ad una finalità che non fosse quella delle lotte interne tra cristiani. Le precedenti battaglie contro i Saraceni e la situazione della Spagna soggiogata dai Mori prepararono altresì gli animi delle popolazioni alla riscossa armata.
E in realtà ciò stette a dimostrare come nella cultura occidentale fosse ora latente ora presente un fondo di “fobia” contro gli stranieri volto a tradursi in scelte violente.
Un aspetto di tale stato d’animo posto alla base della mentalità occidentale può individuarsi pure nel principio in base a cui l’obiettivo crociato fu individuato nella liberazione della Terra Santa nonché nell’ostilità che i Latini provarono quando vennero a contatto con i loro correligionari copti, siriani e greci, considerati quasi alla stregua dei Turchi. Non è dato conoscere però neppure se e fino a qual punto i cristiani di rito latino fossero a conoscenza della diversità dei riti ortodossi.
Di fatto, l’incontro con il mondo bizantino e medio orientale provocò in prevalenza ostilità e risentimento da ambo le parti e, allorché nel Levante furono organizzati gli Stati latini, gli Arabi di fede cristiana vennero considerati senza alcun riguardo dall’autorità ecclesiastica latina e ciò attesta che l’impulso a scontrarsi era forte e chiaro.
In Europa, poi, l’odio contro lo straniero si diffuse con un contagio presto ingigantitosi, dapprima alimentato dalla paura di un imminente attacco islamico, dopo, da un indiscriminato risentimento contro le popolazioni levantine e soprattutto contro i musulmani. Quando, in prosieguo di tempo, nella parte dell’Est del nostro continente comparvero le bande indisciplinate radunatesi al seguito di Gualtieri Senza Averi e di Pietro l’Eremita (i capi della crociata dei pezzenti che, privi di ogni esperienza militare, portarono al massacro dei Turchi oltre 12000 persone), prese forma un conflitto pericoloso contro le popolazioni locali e, segnatamente, contro le comunità ebraiche. Quasi la stessa cosa si verificò, poi, allorché vennero organizzati eserciti regolari mossisi sulla base di una più severa disciplina.
L’autore dei Gesta Francorum, al seguito di Boemondo di Taranto, offrì una interessante descrizione della gente di Tracia: i Traci – si racconta – erano spaventati al solo vedere i cristiani; essi non pensavano affatto di trovarsi di fronte a dei pellegrini, ma a vere e proprie orde indemoniate che intendevano saccheggiare il paese e uccidere tutti. La gente del luogo, inoltre, non voleva vendere loro vettovaglie, nessun articolo di vestiario o altro; così per forza di cose, i Franchi, per sopravvivere, dovettero darsi alla rapina.
A Monastir i peregrini si scagliarono contro un castello pieno di eretici che massacrarono, dando l’edificio alle fiamme con quanti vi si erano rinchiusi. Un’altra volta furono i Bizantini ad attaccare i pellegrini; allora Boemondo, assoggettati i Greci, si rivolse ai prigionieri catturati chiedendo loro: «perché uccidete il popolo di Cristo e i miei uomini?». L’episodio è interessante, in quanto vi si coglie l’incapacità, peraltro abbastanza comprensibile, dei Franchi di integrarsi con popolazioni diverse da loro. Tale incapacità si verificò a differenti livelli. Così, mentre i crociati franchi passavano per le regioni balcaniche, si moltiplicarono al loro transito saccheggi, stupri, assassini e battaglie senza quartiere.
Eccezionale fu, poi, l’intolleranza franca sul piano delle proprie prerogative e delle proprie abitudini. La prova più lampante al riguardo venne data dal1a pretesa occidentale di voler latinizzare le chiese ovunque ciò fosse possibile e, quindi, com’era naturale accadesse, dall’intento di latinizzare la stessa Grecia. Mai riuscirono, quindi, i “Latini” ad avere la comprensione degli Arabi cristiani di Siria e Palestina, quando essi divennero loro sudditi, mai quella dei Bizantini ortodossi e tanto meno quella degli islamiti.
D’altra parte Latini e Greci, Arabi e Siriani erano tutti e sempre convinti di essere i più civili e i più cristiani e ritenevano gli altri inferiori a loro. Non per nulla Guiberto di Nogent nei Gesta Dei per Francos considerò le crociate fra le guerre combattute contro i barbari. La stessa convinzione di superiorità emerse, poi, dai propositi di papa Urbano II, allorché individuò nei Franchi la guida naturale dei cristiani, mentre Turci et Arabes furono ritenuti dei pericolosi “primitivi” minacciosamente addensatisi ai confini dell’Impero romano d’Oriente. Anche l’uso dei termini in proposito adoperati è utile a farci comprendere l’idea del pontefice che chiamò gli infedeli a volte pagani, a volte gentiles, senza tener conto che la loro religione e provenienza li poneva in un ambito diverso.
Il modo di fare abituale mostrato dai crociati e quello degli organizzatori e dei dirigenti del movimento per la liberazione della Palestina fu, dunque, ispirato all’arroganza fondata sulla convinzione di trovarsi dalla parte della ragione, secondo una teoria in precedenza elaborata sul1a scorta di complesse e capziose argomentazioni articolate sui princìpi della guerra difensiva.
La liberazione della Terra Santa divenne l’idea-forza nonché la giustificazione della crociata. La Terra Santa – si disse – era cristiana per eccellenza e doveva essere, quindi, tolta ai barbari che l’occupavano contro ogni diritto. Se i Franchi, dunque, erano alla guida dei cristiani, loro preciso dovere diveniva quello di riconquistare Gerusalemme.
In altri termini la Terra Santa fu allora definita terra di Dio in quanto aveva visto nascere, operare e morire Cristo; fu denominata terra sua e come tale doveva essere restituita al cristianesimo. Proprio tale concetto di restituzione applicato alla riconquista stabile di quel territorio venne conferito nel suo senso più pieno alla Palestina.
L’idea di crociata, propugnata da Urbano a Clermont, rispecchiò, dunque, un mondo orientale sconvolto dalle guerre e un Occidente voglioso di combattere: da un lato vi fu il guerreggiare violento ed entusiasta dei cristiani, incapaci di osservare la tregua di Dio, e dall’altro quello dei Turchi che all’inizio arretrarono dinanzi all’inatteso impeto occidentale e, poi, una volta ripresisi, con i loro attacchi incessanti, osarono spingersi fino alle rive del Mediterraneo e oltre.

        Eravamo rimasti a ciò che il Papa aveva detto a Clermont. Cronisti dell’epoca raccontano che, appena ebbe finito di parlare, centinaia di cavalieri guidati dal vescovo di Puy si inginocchiarono ai suoi piedi chiedendogli la benedizione al fine di mettersi immediatamente in cammino verso la Terra Santa. Il Papa chiese loro di cucire sopra i loro panni una croce di tela per mostrare la condizione di crociati. Dopo aver recitato insieme il Credo niceno fu fissato un appuntamento per la partenza al 15 agosto dell’anno seguente, dopo aver raccolto i frutti del campo. Sarebbe iniziata nel 1096 la Prima Crociata, uno dei più orrendi massacri della storia dell’umanità che seminerà per oltre duecento anni morte e distruzione non solo nel campo avverso ma anche tra cristiani che differivano per qualche dogma o per qualche funzione liturgica. Dio lo voleva ?

        La chiamata della Chiesa fu quindi accolta con entusiasmo e la cosa era abbastanza strana in una Europa che non era ancora nella fase di ripresa che sarebbe presto venuta. I disastri annunciati per il passaggio del millennio e quelli reali erano alla base di questa conversione fondamentalista. Sembrava si fosse scampato il pericolo della fine del mondo ma la carestia che portava fame dappertutto, i proprietari terrieri feudali che premevano con lo sfruttamento sui contadini, le grandi migrazioni dal Nord al Sud d’Europa con tutti gli scompensi connessi, non potevano essere segnali che annunciavano peggiori calamità se non si fosse fermata l’avanzata del Diavolo liberando i Luoghi Santi ? Su questo predicavano e premevano i monaci di Cluny che magnificavano quelle calamità come segnali di Dio che avrebbero permesso la salvezza dell’umanità. A questo richiamo accorsero da ogni parte migliaia di persone, in maggioranza pezzenti e morti di fame dell’intera Europa con la speranza di riempirsi lo stomaco e tornare con qualche bottino piuttosto che salvarsi l’anima.

        Non è mio scopo raccontare le vicende delle crociate ma solo ricercarne la visione d’indirizzo politico utilizzata dalla Chiesa per risolvere i suoi problemi ed acquistare il primato in Occidente. Seguirò quindi più che le imprese degli eserciti combattenti quelle dei Papi che stavano dietro queste mattanze e che per la prima volta avevano fatto un uso indegno della croce sovrapponendola ad un esercito combattente la Militia Christi. Urbano morì nel 1099 senza che avesse potuto sapere del successo della sua Prima Crociata. E morì avendo perso di nuovo Roma dove Clemente era tornato a spadroneggiare continuando fino alla sua morte nel 1100 (i suoi fedeli raccontano di miracoli scismatici avvenuti vicino la sua tomba). Nella pratica la politica crociata di Urbano aveva deluso i romani che avevano visto una perdita importante delle entrate della città, entrate che i pellegrini incanalati in altre direzioni erano indotti a dare ad altri. Ma la Chiesa nel suo complesso aveva rispedito in Siria l’eresia che la coinvolgeva e poteva, almeno su questo piano, vivere più tranquillamente la riforma di Gregorio VII.

RICOMINCIAMO COME PRIMA

        Scrive Gregorovius:

La storia temporale dei Papi da Gregorio VII in poi è una specie di rappresentazione caotica e al tempo stesso altamente tragica in cui si avvicendano continuamente gli scoppi di ribellione popolare, le fughe e gli esili dei papi, i loro ritorni trionfanti, le loro tragiche nuove cadute e, ancora una volta, le loro immancabili ascese.

        Si ricominciò dal successore di Urbano, un altro vescovo di Cluny, Ranieri di Bleda che assunse il nome di Pasquale II. Aiutato dal denaro con cui si pagò una truppa riuscì ad entrare in Roma, ma poi fu cacciato dai nobili romani che lo erano perché più bravi ad organizzare rapine appostandosi in vicoli bui o su strade percorsi da ricchi da derubare ed ammazzare. Questi nobili originavano sempre da Tuscolo o dintorni, cambiavano nome (ad esempio i Colonna, i Corsi, i Pierleoni, i Frangipane, …) ma i metodi erano gli stessi. Si susseguirono così vari antipapi che resistevano finché vi erano i denari per i mercenari ed analogamente il Papa poteva accedere o muoversi per la città solo se aveva, in quel momento, adeguate protezioni. Da notare negli anni di Papato di Pasquale due fatti di rilievo: nel 1101 era morto Corrado il figlio di Enrico IV che aveva abbandonato il padre per schierarsi con il Papa; nel 1106 era morto lo stesso Enrico IV. Il figlio ventiduenne di quest’ultimo, Enrico V, lanciò un ultimatum al Papa per la sua incoronazione a Roma e per pretendere di nuovo il diritto all’investitura dei vescovi. Al rifiuto di Pasquale, Enrico fece eleggere l’antipapa Silvestro IV (1105-1111), antipapa che seguiva gli altri due: Teodorico (1100-1102) e Alberto (1101). A questo punto Enrico scese in Italia (1110) con un possente esercito contro il quale nulla avrebbero potuto i normanni chiamati in aiuto dal Papa e la ormai vecchia e neutrale Matilde. Con Enrico fuori dalla città di Roma si arrivò ad un Concordato costituito da due trattati: nel primo l’Imperatore rinunciava alle investiture e nel secondo il clero rinunciava ai beni della corona in forza di un decreto papale. Come osserva Gregorovius quel Concordato sembrava fatto tra due banditi. In esso figuravano norme che possono apparire straordinarie come quella che imponeva all’Imperatore di non arrestare il Papa. Dopo la firma di questo Concordato Enrico doveva essere incoronato Imperatore a Roma. Fu però il clero che rifiutò il secondo trattato del Concordato e, nella Chiesa dove doveva avvenire l’incoronazione, Pasquale e vari cardinali furono arrestati. Alla fine di una lunga prigionia e di violenti scontri, con centinaia di morti, Pasquale cedette e firmò una bolla in cui dichiarava decaduti tutti i decreti di Gregorio VII, restituendo di fatto le investiture all’Impero. Dopo di ciò fu liberato il Papa che incoronò frettolosamente Enrico nel 1111, fuori dalle mura. Solo l’anno seguente, 1112, il Concilio Lateranense dichiarò la nullità della concessione delle investiture all’Imperatore e chiese al Papa di scomunicare Enrico V. Questi riuscì a resistere per un poco ma poi, nel 1116, dovette scomunicare Enrico V e poi scappare a Montecassino quando il sovrano rimise piede in Italia. Insomma niente di nuovo, si proseguiva stancamente così da centinaia d’anni, per maggior gloria di Gesù.

        A questo punto l’elenco di Papi ed antipapi segue come indicato di seguito (gli antipapi sono quelli riportati tra parentesi quadra) e con le solite guerre tra famiglie, corruzioni, simonie, nepotismi e quanto altro si voglia aggiungere:

161. — Gelasio II, di Gaeta, Giovanni Caetani, 24.I, 10.III.1118 — 28.I.1119.
[Gregorio VIII, Francese, Maurizio Burdino, 10.III.1118—22.IV.1121. †… ?].
162. — Callisto II, Guido di Borgogna, 2, 9.II.1119 — 13 o 14.XII.1124.
163. — Onorio II, di Fiagnano (Imola), Lamberto Scannabecchi, 15, 21.XII.1124 — 13 o 14.II.1130.
[Celestino II, Romano, Tebaldo Buccapecus, … XII.1124].
164. — Innocenzo II, Romano, Gregorio Papareschi, 14, 23.II.1130 — 24.IX.1143. 
[Anacleto II, Romano, Pietro Pierleoni, 14, 23.II.1130 — 25.I.1138].
[Vittore IV, di Ceccano, Gregorio, … III.1138 — 29.V.1138. †— ?]
165. — Celestino II, di Città di Castello, Guido, 26.IX, 3.X.1143 — 8.III.1144.
166. — Lucio II, Bolognese, Gerardo, 12.III.1144 — 15.II.1145.
167. — B. Eugenio III, di Pisa, Bernardo, 15, 18.II.1145 — 8.VII.1153
168. — Anastasio IV, Romano, Corrado, 12.VII.1153—3.XII.1154.
169. — Adriano IV, di Abbot’s Langley Hertfordshire, Nicola Breakspear, 4, 5.XII.1154 — 1.IX. 1159.
170. — Alessandro III, di Siena, Rolando Bandinelli 7, 20.IX.1159 — 30.VIII.1181.
[Vittore IV, Ottaviano dei signori di Monticela (Tivoli), 7.IX, 4.X.1159 — 20.IV.1164].
[Pasquale III, Guido di Crema, 22, 26.IV.1164 — 20.IX. 1168].
[Callisto III, Giovanni abate di Strumi (Arezzo), … IX.1168 — 29.VIII.1178]
[Innocenzo III, di Sezze, Landò, 29.IX.1179 — … 1.1180].
171. — Lucio III, Lucchese, Ubaldo Allucingoli, 1. 6.IX.1181 — 25.XI.1185.

Da sottolineare che con Papa Callisto II (1119-1124) si addivenne ad un Concordato con Enrico V secondo il quale l’investitura dei vescovi ritornò al Papa ed all’Imperatore restò l’investitura feudale (Concordato di Worms del 1122. Subito dopo, nel Nono Concilio Laterano del 1123, vennero ripristinati tutti i decreti di Gregorio VII e riconfermati tutti i privilegi dei crociati. Il Papa che seguì, Onorio II (1124-1130), fu eletto nel solito modo, così descritto da Rendina:

Già nell’ultimo periodo del pontificato di Callisto II, le due famiglie romane dei Frangipane e dei Pierleoni, che si contendevano la carica civile della prefettura, erano riuscite a infiltrare in seno allo stesso collegio dei cardinali i difensori delle rispettive fazioni, rimettendo quindi in gioco la loro autorità nell’elezione di un pontefice. Il decreto elettorale del 1059 denunciava tutta la sua insufficienza e non era valso ad eliminare l’influenza dell’elemento laico.
Alla morte di Callisto Il, la fazione dei Pierleoni riesce a far eleggere il proprio candidato, il cardinale prete Tebaldo Boccadipecora, che assume il nome di Celestino II; ma questi aveva appena accettato la nomina, quando un gruppo della fazione dei Frangipane, guidato dal cardinale Aimerico, entra nel Lateraano e destituisce con la forza il nuovo papa. Questi non ci pensa due volte: si dimette spontaneamente anche perché nello scontro che ne era seguito aveva riportato alcune ferite, in seguito alle quali morirà pochi giorni dopo. I cardinali prendono atto delle sue dimissioni e riconoscono papa il candidato dei Frangipane, Lamberto, vescovo di Ostia, il 15 dicembre del 1124.
Lamberto, nativo di un piccolo borgo nei pressi di Imola, Fiagnano, cardinale dal tempo di Pasquale II, compagno d’esilio di Gelasio II, era stato l’esecutore del concordato di Worms, consigliere quindi tra i più abili nella diplomazia pontificia sotto Callisto Il. Egli fu consacrato il 21 dicembre del 1124 con il nome di Onorio II [l’anno successivo moriva Enrico V ed a lui succedeva Lotario II Supplinburger Duca di Sassonia, ndr].

Morto Onorio II, cosa accadde ? Leggiamolo ancora da Rendina:

Alla morte di Onorio Il si rinnova la scontro tra i Pierleoni e i Frangipane; la notte tra il 13 e il 14 febbraio del 1130 è notte di tregenda. Moriva un papa e precipitosamente i sedici cardinali appartenenti alla fazione dei Frangipane guidati dal cardinale Aimerico, eleggevano papa il cardinale Gregorio Papareschi, in una sorta di «conclave» nel chiuso della rocca dei Frangipane, che assumeva il nome di Innocenzo II.
Gli altri quattordici cardinali, trovatisi di fronte al fatto compiuto, si rifiutano di riconoscere la validità di quella elezione e, poche ore dopo, riunitisi nella chiesa di San Marco procedono all’elezione del cardinale Pietro Pierleoni, che assume il nome di Anacleto II. La sua elezione è accreditata dall’assenso dato di lì a breve tempo, da alcuni cardinali del gruppo che già aveva eletto Innocenzo II, e in questa modo Anacleto finisce per avere la maggioranza del collegio dei cardinali, con il consenso dei rappresentanti del popolo e di tutta la nobiltà dai Tebaldi agli Stefani.
Tuttavia nessuno dei due papi si mostrava incline a rinunciare alla nomina e ambedue ricevono la consacrazione la stesso giorno, il 23 febbraio. Innocenzo in Laterano, rifugiandosi poi in gran fretta nella fortezza dei Frangipane sul Palatino, e Anacleto in San Pietro con tutti gli onori e l’appoggio del popolo lo riconosceva carne sua papa. Roma insomma dava credito, a quanta pare, solo ad Anacleto II e questo grazie al potere di cui i Pierleoni godevano nell’ amministrazione della città; il loro pontefice poteva considerarsi tranquillo, sedere su tutte le cattedre papali delle basiliche cittadine e mettere le mani sul tesoro della Chiesa, mentre Innocenzo II doveva infine darsi alla fuga.
In questo scisma apertosi dunque inesorabilmente in seno alla Chiesa di Roma, si evidenziano i difetti di una procedura elettorale, in cui finivano per subentrare interessi non ecclesiastici, perché il collegio dei cardinali era pilotato all’esterno da elementi laici. Peraltro restava da vedere a quale dei due contendenti il mando cristiano avrebbe dato il suo assenso; non era più Roma in fondo a dover decidere, ma gli Stati d’Europa e, purtroppo, non sulla base di motivi strettamente religiosi, ma apertamente politici. In particolare non erano ideali propriamente cristiani a guidare il conflitto dei due contendenti così che, come osserva l’Ullmann, «i discorsi pubblici per conta di ciascun papa si concentrarono su una scambio di ingiurie e di attacchi ripugnanti, e in questi la fazione innocenziana fu particolarmente virulenta, prendendo a bersaglio della sua polemica, con spirito poco cristiano, l’origine ebraica di Anacleto II».

        Tra i contendenti si inserì il teologo francese San Bernardo di Chiaravalle schierandosi dalla parte di Innocenzo e facendolo accettare, a Reims, al Re Ludovico di Francia ed all’Imperatore Lotario II di Germania (seguirono poi Spagna ed Inghilterra). In conseguenza di ciò Innocenzo si impegnò ad incoronare Lotario e, naturalmente scomunicò solennemente Anacleto. Restava il problema di tornare e riprendere Roma, saldamente in mano di Anacleto. Lotario discese in Italia ed altri principi muovevano le loro truppe. Di nuovo scontri, complotti, assedi, finché Innocenzo riuscì ad entrare a Roma (1137) dove trovò un ambiente favorevole grazie alle entrature di San Bernardo. Una coincidenza favorevole che evitò ulteriori problemi fu la morte quasi immediata di Anacleto II (1138). Ma problemi molto gravi caddero su Innocenzo per aver voluto salvare la città di Tivoli dalla distruzione che i romani avevano decretato per la sua rivolta e la ricerca di autonomia da Roma. Il popolo romano insorse con violenza contro il Papa (1143) decretando la fine del potere pontificio su Roma e ristabilendo il potere civile senatoriale nella città. Era una rivolta democratica che, sull’onda di quanto accadeva in varie città italiane del Nord, tentava di costruire una Repubblica nello spirito dei Comuni. Nel settembre dello stesso anno moriva Innocenzo II mentre Lotario II era morto nel 1137 lasciando il trono (1138) a Corrado III della dinastia Hohenstaufen di Svevia.

    Passò un pontificato scialbo, quello di Celestino II (1143-1144), e di seguito un altro privo di significato, quello di Lucio II (1144-1145). Da notare solo che quest’ultimo Papa tentò di attaccare la sede del Senato repubblicano che si era costituito in Campidoglio. Si mise alla testa delle truppe papaline ma Dio non era con lui perché una pietra scagliata dall’alto del Campidoglio lo prese in fronte ammazzandolo. Il Papa che seguì, Eugenio III (1145-1153), fu eletto in Laterano durante questo momento di aspro scontro tra i repubblicani ed i papalini, non riuscì però a recarsi a San Pietro per essere consacrato perché i repubblicani glielo impedirono facendolo scappare da Roma e rifugiare a Viterbo da dove, visto il seguito di tumulti e l’impossibilità di una pacificazione, per la via della Francia (1147). Da Vetralla, cittadina vicina a Viterbo, nel dicembre del 1145, Eugenio scrisse al Re di Francia Luigi VII inviandogli una bolla, la Quantum praedecessores, con cui si dava il via alla Seconda Crociata (in cambio remissione di tutti i peccati, indulgenza plenaria per il Re e tutta la famiglia). Si era infatti diffusa la notizia che la contea di Edessa nella parte più settentrionale del Medio Oriente (ma anche Antiochia, una delle roccaforti cristiane nella zona) era caduta in mano turca nel dicembre del 1144. Occorreva rimettere in piedi un esercito per riconquistare quel territorio e consolidare quelli già occupati. Aiutò anche questa volta San Bernardo che mise a tacere tutti coloro che credevano che la guerra non spettasse ai cristiani e la croce non dovesse essere trascinata nei massacri. Il teologo elaborò una teoria straordinaria che solo un pazzo che vuole autogiustificarsi è in grado di inventare, quella del malicidio: chi uccide una persona malvagia, quale è chi si oppone a Cristo, non uccide una persona, ma il male che è in lei; dunque egli non è un omicida bensì un malicida e quindi lavora per maggior gloria di Dio. Bernardo non si fermò qui perché predicò con tutte le sue forze la crociata fino a convincere Papa Eugenio. Al richiamo del Papa risposero sia l’Imperatore di Germania Corrado III che il Re di Francia Luigi VII. In teoria doveva essere un esercito con struttura più organizzata di quanto si era visto nella Prima Crociata. Ma questa volta non vi fu la sorpresa della Prima Crociata e gli eserciti crociati vennero letteralmente massacrati. Nel 1148 i rimasugli dell’esercito franco-tedesco tornarono in Europa con disonore. Ma Eugenio si disinteressava dei morti e dei disastri, in fondo le crociate sono sempre state diversivi, tanto è vero che, chiese a Corrado, al suo ritorno spossato dalla Terra Santa di aiutarlo a rientrare a Roma. Corrado comunque scese in Italia nel 1150 dove vi morì (1152) lasciando il trono al nipote, Federico Barbarossa. Con questo personaggio il Papa sigilla subito un patto (che diventerà nel 1153 il Patto di Costanza): il sovrano tedesco avrebbe spazzato via la Repubblica a Roma restaurando il potere pontificio anche temporale, in cambio il Papa gli promise l’incoronazione a Roma. Il Signore si riprese questo Papa prima che i patti con Federico diventassero operativi.

        Dopo la breve parentesi di Papa Anastasio IV (1153-1154) che seppe convivere con il Senato della Repubblica di Roma, fu eletto l’inglese Papa Adriano IV (1154-1159) che invece attaccò la Repubblica ponendosi al servizio di Federico. Ciò fece crescere nella città l’ostilità verso Chiesa e preti e costrinse Adriano a chiudersi in San Pietro. Il poco santo Papa, incapace di comprendere ciò che accadeva, addirittura scagliò contro l’intera città di Roma l’interdetto, una maledizione accompagnata dalla sospensione di ogni cerimonia religiosa e amministrazione di sacramenti, compresa la sepoltura dei morti. Ciò convinse le anime più semplici del popolo che si rivolse al Senato chiedendo di aderire alle richieste del Papa. Quest’ultimo chiese come prima cosa l’allontanamento di Arnaldo da Brescia un predicatore che si muoveva nello spirito originale dei Patarini che era stato già giudicato eretico dal Concilio Laterano II del 1139. Arnaldo aveva partecipato attivamente alla Repubblica ed aveva infiammato la popolazione contro i privilegi papali ed ecclesiastici, contro la degenerazione della Chiesa di Cristo. Naturalmente per queste colpe fu scomunicato da Eugenio III nel 1148. La richiesta di Adriano fu esaudita ed egli scappò da Roma rifugiandosi presso i Visconti di Campagnano che lo stimavano come fosse un profeta. Ma i Papi non perdonano e qui siamo in momenti in cui iniziano ad essere perseguitate le eresie: fu Barbarossa che, disceso in Italia per essere incoronato (1155), richiese ai Visconti la consegna di Arnaldo e a tale richiesta non si poteva dire di no. Tradotto in catene a Roma, Arnaldo venne condannato da un tribunale di preti, per il suo rifiuto del potere temporale del Papa e della Chiesa, ad essere impiccato, dopodiché fu bruciato e le sue ceneri furono gettate nel Tevere (1155) affinché non se ne recuperassero i resti mortali che sarebbero potuti divenire oggetto di venerazione(5). La Chiesa era ormai sulla strada del puro assassinio e con gli anni si specializzerà in torture, bracieri, impiccagioni fino alle decapitazioni e fucilazioni. Per maggior gloria di Gesù.

        Ma, dopo la cattura di Arnaldo, Roma fu liberata dall’interdetto ed ebbe una solenne messa in Laterano per Pasqua. Da questo momento il Papa seguì per 4 anni a barcamenarsi tra città italiane, imperatore tedesco, normanni, popolo di Roma, dimenticando completamente quella che qualcuno vorrebbe essere la sua funzione: vicario di Cristo. Morì lasciando il collegio cardinalizio diviso, e come no !, tra due fazioni, quella favorevole all’Imperatore, guidata dal nobile cardinale Ottaviano, e quella che voleva completa autonomia, guidata dal cardinale inglese Bosone, nipote di Adriano IV. Ed il lettore avrà capito già come segue la storia. Con ben tre antipapi, uno dopo l’altro.

        Venne eletto il senese Rolando Bandinelli che venne immediatamente destronato dal cardinale Ottaviano accompagnato da una schiera di armati entrati in San Pietro. Bandinelli, protetto dai Frangipane, si nascose e venne consacrato fuori Roma come Papa Alessandro III (1159-1181). Chiese ed ottenne la protezione normanna. Intanto Ottaviano si era fatto consacrare con il nome di Vittore IV (nome già usato dall’ultimo antipapa). Ritorniamo alla situazione che a scegliere chi ha diritto al titolo di Papa è l’Imperatore e non il tanto auspicato autonomo ma corrotto clero (il popolo era già stato eliminato dal diritto di parola). Arrivò la sentenza di Federico favorevole a Vittore anche se questi era stato scomunicato da Alessandro III [davvero chiedo a chi legge se, cambiando i nomi, sia possibile spostarsi di centinaia d’anni indietro o avanti accorgendosi della traslazione. E chiedo anche retoricamente se questa è la Chiesa di Cristo o una banda di criminali che usando il nome di un disgraziato morto sulla Croce si ingrassa spudoratamente]. Federico inibì le gerarchie di operare in qualunque modo prima che un Concilio che egli avrebbe convocato a Pavia (1160) avesse deciso. In punta di diritto Alessandro, contrariamente a Vittore, non si recò a Pavia: la Chiesa non è giudicabile da nessuno ed è nella sua sola facoltà la convocazione di Concili. Per reazione a quel Concilio, di una cinquantina di vescovi tedeschi e norditaliani, Alessandro venne scomunicato. La mossa di Alessandro solleticò il nazionalismo italiano che si schierò con Alessandro contro l’Imperatore straniero. Il vescovo di Milano scomunicò sia Barbarossa che Vittore. Subito dopo anche Alessandro confermò la scomunica svincolando inoltre tutti i regnanti e sudditi cristiani dal giuramento di fedeltà a Barbarossa. E mentre i sovrani di tutti gli Stati europei si schierarono con Alessandro, Barbarossa furibondo preparò un attacco a Milano ritenuta responsabile della non ubbidienza all’Impero delle città del Nord. Dopo la devastazione di città vicine, assediò Milano e dopo un anno la conquistò (1162) radendo al suolo le mura e gran parte della città che fu dispersa in quattro zone limitrofe. Le vicende portarono ad un successivo indebolimento di Barbarossa che scese di nuovo in Italia (1163) con un piccolo esercito senza riuscire a concludere nulla nei riguardi di varie città del Nord che si erano sollevate contro di lui. Intanto Alessandro aveva cercato l’alleanza con il Re di Francia ed aveva incassato l’appoggio del Re d’Inghilterra. Barbarossa pensò di riappacificarsi con Alessandro in concomitanza con la morte di Vittore IV (1164) ma fece prima un suo uomo di fiducia, Rainaldo di Dassel, a far nominare un nuovo antipapa nella persona del nobile Guido da Crema che assunse il nome di Pasquale III. Costui per esaudire l’Imperatore Barbarossa, canonizzò Carlo Magno quale iniziatore dell’Impero Germanico. Di nuovo Barbarossa scese in Italia con un possente esercito. Arrivò a Roma, l’assediò e dopo scontri violentissimi e sanguinosissimi riuscì ad arrivare ad occupare San Pietro (1167) dove insediò Pasquale III che lo incoronò finalmente Imperatore del Sacro Romano Impero. A questo punto iniziò la vendetta contro la città, devastata incendiata, fatta oggetto di terrore contro gli abitanti. Intervenne una pestilenza sull’esercito tedesco che sembrò un segno divino ed iniziò una resistenza durissima capeggiata dai Frangipane e dai Pierleoni. Barbarossa, visto il rifiuto generalizzato della popolazione e le morti continue tra i suoi, se ne tornò in Germania mentre Alessandro III, che nel frattempo si era rifugiato a Benevento tra i Normanni, divenne il simbolo ideale delle città del Nord che si erano costituite presso l’Abbazia di Pontida nel 1167 in una Lega di Comuni cui parteciparono Milano, Piacenza, Parma, Modena, Genova, Bologna, Reggio Emilia, e molte altre città (circa 30). Da qui gli avvenimenti si fanno concitati. Moriva nel 1168 il secondo antipapa e subito se ne fece un terzo, Callisto III. Barbarossa era sempre più furibondo contro vari eventi italiani, Alessandro III, le città del Nord e la città di Alessandria fondata in Piemonte dalla Lega dei Comuni e chiamata in tal modo in onore di Alessandro III (era una fortezza antimperiale ai confini del marchesato del Monferrato schierato con l’Imperatore). Decise una nuova discesa (1174), invocato anche da alcune città del Nord come Pavia, Como e Lodi che chiedevano il suo aiuto contro la prepotenza di Milano, per sbarazzarsi di quelle fastidiosissime città che lo avversavano. Con esse sarebbe anche caduto Alessandro. Iniziò con Alessandria che assediò per sei mesi senza riuscire a conquistarla. A questo punto Barbarossa, avendo perso il suo maggiore alleato, Enrico XII di Baviera detto il Leone, che era in guerra contro i nemici slavi e danesi, pensò bene di chiedere un armistizio a Montebello nel 1175. I Comuni pretesero un qualche riconoscimento che Barbarossa rifiutò e quindi non venne accettata nessuna tregua. Dopo un anno di posizionamenti che permise l’arrivo di rinforzi dalla Germania e dal Monferrato (non numerosi come avrebbe desiderato) all’Imperatore, il 29 maggio 1176 si arrivò allo scontro tra l’esercito imperiale e l’esercito dei Comuni a Legnano(6). I Comuni bloccarono i rinforzi impedendo che si unissero al grosso dell’esercito e riuscirono a sconfiggere quell’esercito che era il terrore di mezza Europa. In realtà la sconfitta militare non fu pesante quanto il duro colpo politico e morale al prestigio dell’Impero. A seguito della sconfitta Barbarossa firmò la pace con Alessandro recandosi sul suo territorio, ad Anagni, e qui riconoscendolo unico Papa legittimo, rinunciando di interferire su Roma. Ma i Papi non si interesseranno mai delle sorti altrui. Hanno il solo fine di vivere al meglio un’esistenza separata dal mondo alle spese del mondo. Questa pace firmata tra Alessandro e Barbarossa fu una pace separata che di fatto escludeva i Comuni che erano invece coloro che avevano sbaragliato le mire egemoniche di Barbarossa. Questa pace produsse il progressivo indebolimento della Lega dei Comuni che andò sfaldandosi ed in definitiva risultò un successo politico per Barbarossa che iniziò a firmare paci separate, certamente molto più vantaggiose per lui, con i singoli Comuni. Una pace generale si raggiunse solo nel 1183, a Costanza, dopo la morte di Alessandro III nel 1181. A Costanza l’Imperatore riconobbe l’autonomia delle città ma come privilegio imperiale e ciò voleva dire, oltre al riconoscimento dell’Imperatore come entità superiore, che le città dovevano pagare ingenti tasse all’Impero. In definitiva Barbarossa poteva presentarsi ancora come l’alfiere del Papato e vide aumentato prestigio ed influenze anche perché riuscì a combinare il matrimonio (1186) di suo figlio Enrico VI con Costanza d’Altavilla, unica erede del trono siculo-normanno, che legava l’Impero tedesco con i Normanni che regnavano nel Sud d’Italia. Ultimo avvenimento che potenziò l’immagine di Barbarossa fu la Terza Crociata indetta (1187) da Papa Clemente III (1187-1191)(7) per la riconquista di Gerusalemme. Fu lo stesso Barbarossa che si avviò a capo del suo esercito in Terra Santa (1189). Anche qui l’intervento divino sbarazzò la storia di costui che, nel 1190, annegò attraversando un fiume in Asia Minore.

        Alla morte di Federico Barbarossa salì al trono il figlio, Enrico VI che sopravvisse pochissimo al padre. Morì infatti nel 1197 lasciando come erede il figlio, Federico II, di soli 3 anni. Fu necessario che la madre, Costanza d’Altavilla, assumesse la tutela del piccolo mentre era impegnat anche al governo non facile della Sicilia dove vi erano lotte tra fazioni normanne e tedesche. La reggenza di Costanza durò un anno perché nel 1198 Costanza morì avendo comunque già rese operative le volontà di Enrico VI che aveva fatto molte concessioni alla Chiesa (signoria feudale sulla Sicilia e riduzione dei diritti di nomina dei vescovi all’autorità civile) in cambio dell’incoronazione del figlio Federico II. Costanza, prima di morire, affidò la custodia e la tutela del piccolo Federico II al nuovo Papa, Innocenzo III (1198-1216)(8).

        Innocenzo III, nipote di Papa Clemente III, è il primo Papa ad essere eletto con una prima parvenza di Conclave. Per quanto fino ad allora indegnamente portate avanti, ora sparivano le motivazioni religiose e liturgiche e l’elezione diventava espressamente un atto politico con programmi politici. Quando fu eletto nel 1198 la sovranità papale su Roma era quasi sparita e i possedimenti territoriali della Chiesa quasi nulli. Il giovane Innocenzo (aveva 38 anni) iniziò da qui e per farlo il primo suo atto fu di colpire l’autorità del Senato, anche se già squalificato con l’aristocrazia che la faceva da padrona o direttamente o per interposta persona. Fu Innocenzo a nominare senatori che come primo atto dovevano giurare fedeltà a lui stesso, con la fine di fatto del Senato Repubblicano. Come conseguenza venne colpita anche la giustizia, era ossessione di ogni delinquente allora ed oggi: i giudici del Campidoglio vennero sostituiti da impiegati del Pontefice. Restava solo il Prefetto che Innocenzo obbligò a prestargli giuramento di obbedienza.

        Negli anni seguenti Innocenzo tentò, con alterne vicende, di riprendere possesso degli antichi possedimenti della Chiesa, in parte aiutato dalla perdita del potere tedesco con la morte di Enrico VI. Innocenzo lavorava a rendere pratica la teocrazia che Gregorio VII aveva solo abbozzato: al Papa spetta un potere superiore a tutti i poteri della Terra e ciò è basato su tutti i falsi documenti elaborati nei secoli dalla Chiesa a partire dalla falsa Donazione di Costantino. La Chiesa doveva diventare la Mater Ecclesia che comprendesse in sé ogni ideale religioso e filosofico.

        Allo scoppio di una guerra di successione per il trono tedesco, visto che il legittimo erede Federico II aveva solo tre anni, il Papa riuscì a presentare la candidatura di Federico II solo dopo varie lotte ed incoronazioni differenti di contendenti. Era il 1211 quando i principi tedeschi si accordarono per nominare Federico II che, nel frattempo, aveva compiuto 16 anni, re dei romani (sarà poi incoronato Imperatore di Germania nel 1515 ed Imperatore del Sacro Romano Impero nel 1220). Questo fatto, insieme ad altre azioni politiche a livello internazionale avevano fatto crescere il prestigio di questo Papa che aveva raccolto il sostegno di varie corone europee.

        Nei primi anni di regno di Innocenzo, accaddero varie cose che devono essere ricordate. Gli arabi di Spagna furono sconfitti in una grande battaglia a Navas de Tolosa (1212). Nel 1204 si era conclusa la Quarta Crociata che aveva visto Innocenzo tra i maggiori fautori. Ma proprio qui iniziò un modo diverso di porsi di fronte alle questioni religiose che iniziarono a diventare fortemente conservatrici rispetto ad una società che evolveva con un disincanto sempre maggiore che portava, anche se ancora in modo molto limitato, verso la secolarizzazione della società. I partecipanti alla IV Crociata, avendo scelto di arrivare in Terra Santa via mare, chiesero alla flotta veneta di portarli in Medio Oriente. Ma la Repubblica voleva essere pagata ed i crociati non avevano queste disponibilità che nessun regnante offrì più. La Repubblica trasportò i crociati ma utilizzò la Crociata per fare i propri affari commerciali con quelle terre e per espandere il proprio dominio verso il Levante. Se si confronta questo con lo spirito della Prima Crociata ci si rende conto del cambiamento radicale che si era avuto in un centinaio di anni. Oltre a ciò vi era il montare delle eresie tra i cristiani. Ciò vuol dire semplicemente che, mentre andavano avanti tutti i comportamenti criminali delle gerarchie ecclesiastiche in combutta con ogni potere, vi erano dei fedeli, dei credenti che ripudiavano tutto ciò per praticare la loro fede verso il Cristianesimo delle origini, essenzialmente basato sulla povertà e sulla disponibilità ad alleviare le sofferenze del prossimo (valori questi due ultimi completamente dimenticati dalle gerarchie della Chiesa: Papi, Cardinali, Vescovi, ma anche molto clero). Stavano nascendo in quegli anni molti movimenti pauperistici con il fine, appunto, di riportare la fede alle origini e tali movimenti, di per sé, erano una dura condanna ai comportamenti della Chiesa che quest’ultima avrebbe voluto far scomparire. Tra questi movimenti ve ne erano alcuni che erano stati a suo tempo alleati della Chiesa e difesi da essa come i Patarini, gli Umiliati, gli Spirituali, i Gioachimiti. Ora lo scontro con le degenerazioni ed il malcostume del potere ecclesiastico in combutta con quello laico era totale. Una opportunità per tacitare questi movimenti venne offerta proprio ad Innocenzo da Francesco di Assisi che nel 1209, avendo intorno a sé 12 compagni, si recò dal Papa per ottenere il riconoscimento della sua regola di vita nella povertà. Il Papa era molto guardingo su queste cose perché parlare di povertà nella Chiesa sarebbe stato dirompente ed equivalente alla sua distruzione. Ma dopo poco tempo Innocenzo riconobbe la regola di Francesco ed il suo Ordine di Frati Minori, Ordo fratum minorum. E perché questo riconoscimento andò a questi predicatori della povertà ? Perché questa povertà era solo per Francesco ed il suo ordine, perché egli non contestava nulla della struttura ecclesiastica e del suo potere, anzi la Chiesa per Francesco era Madre alla quale occorre dare sincera obbedienza. Era evidente il successo di tale riconoscimento soprattutto per il Papa che da ora poteva dire di ammettere nel seno della Chiesa ogni istanza di povertà, i ceti più umili e lontani. Ogni altro che avesse discusso il potere della Chiesa entrava direttamente nell’eresia (tanta fu la fiducia dei Papi nell’ordine francescano che, poco oltre, ad esso fu dato il privilegio dell’Inquisizione che condivise con i Domenicani). Ma Innocenzo non capì nulla delle nuove eresie e le confuse con quelle dei primi secolo. Qui non si discutevano i dogmi come la Trinità e la natura di Cristo come secoli addietro ma solo le liturgie e le vergogne che discendevano dal Papato criminale. E mentre il Papa riconosceva l’ordine del Giullare di Dio, Francesco, metteva in moto la più feroce e cruenta delle Crociate, quella in Europa non contro infedeli ma contro cristiani. Fu Innocenzo che nel 1208 scatenò la Crociata contro gli Albigesi nel Sud della Francia. E’ comunque opportuno seguire queste vicende con un qualche ordine.

          Dopo la scomunica dei catari nel Concilio di Tolosa del 1119 con Papa Callisto II, già vi erano stati tentativi di fermare l’eresia catara in Linguadoca e Provenza con l’invio nel 1145, da parte di Papa Eugenio III, del cistercense San Bernardo di Chiaravalle (l’ordine cistercense fu riconosciuto proprio da Callisto). Questo tentativo insieme ad altri Concili (Lione 1163, Verona 1184) che si sommavano a richieste del Re di Francia Luigi VII al Papa Alessandro III di fermare l’espandersi dell’eresia, non portarono a risultati. Restò il fatto che dal 1184 dovevano essere i vescovi ad individuare gli eretici per portarli a giudizio presso le autorità civili (nasceva l’inquisizione vescovile). Papa Innocenzo III nel 1204 affidò ai frati cistercensi guidati da Pietro di Castelnau il compito di combattere l’eresia in Francia ed in Italia. La zona di maggior diffusione dell’eresia era il Sud della Francia, la Linguadoca, che era anche una zona indipendente ma contesa dai regni di Francia, Inghilterra ed Aragon. Ed era proprio l’indipendenza da potenze politiche cristiane che alimentava l’indipendenza religiosa. Furono fatti tentativi di missioni che tentassero di sistemare le cose con i dissidenti religiosi ma su questa strada non si ottenne nulla e furono esercitate pressioni sui conti di Tolosa che gestivano quelle terre riuscendo a convincere qualche signorotto ad espellere i religiosi sospetti (1204-1206).  Domingo  Guzmán de Calaruega (poi divenuto San Domenico), facente parte di una missione diplomatica spagnola che passava di lì nel 1203, fu colpito dalla profonda intensità di fede e di decisione degli eretici e chiese di poter restare lì perché riteneva di saperli combattere meglio dei cistercensi. Si convinse presto che per combattere gli eretici si doveva mettere al loro livello di povertà ma, anche con questo non riuscì a risolvere nulla (osservo a margine che per iniziativa di frate Domingo, nel 1220 nacque a Bologna l’ordine dei frati predicatori chiamato successivamente dei domenicani o frati neri o cani da guardia di Dio). E mentre l’eresia si rafforzava in quelle terre e si estendeva, iniziarono varie scomuniche, assassini, intimidazioni, … finché il Papa nel 1204 e poi nel 1205 non chiese al Re di Francia Filippo Augusto di sostenere la lotta per estirpare l’eresia nella Linguadoca ed in Provenza. Ma il Re non aderì a questa richiesta anche perché impegnato nella guerra contro l’Inghilterra. Fu allora che il Papa nel novembre del 1207, propose al Re di fare una Crociata contro gli eretici in modo da potergli concedere le stesse indulgenze che erano state concesse ai crociati che erano andati in Terra Santa. E, per vie contorte, che davano prima libertà ai vassalli della corona di partecipare e poi con il comando dato al figlio Luigi, il Re diede il via alla Crociata contro gli albigesi inviando tra i 10 mila ed i 50 mila uomini armati. Da più parti si marciò contro le città degli eretici e la prima ad essere assaltata (luglio 1209) fu Béziers che, a fronte di circa 500 catari, vide il massacro dei 20 mila abitanti. Si passò poi (agosto) a Carcassonne i cui abitanti furono cacciati dalla città nudi. Dopo Carcassonne il comando dei crociati passò da Arnaud de Amaury a Simone di Montfort. Via via molte città caddero ed i crociati avanzavano mentre alcune delle città precedentemente arrese, si ribellarono di nuovo. Quando le città venivano prese ai catari veniva data possibilità di conversione. Quelli che non accettavano, ed erano molti, venivano bruciati. Nel 1212 intervenne la corona di Aragon alleandosi con il conte Raimondo VI che da Tolosa resisteva contro i crociati. La corona di Aragon estendeva il suo potere su alcune zone del Sud della Francia come l’Occitania che era legata attraverso i Pirenei alla Catalogna fino all’Ebro. L’intervento francese in quelle zone spaventava il Re di Aragona per il tentativo francese di impossessarsi di quei territori. La richiesta fatta al Papa e non accettata era che quell’esercito fosse dirottato contro i mori di Al Andalus (più o meno l’odierna Andalusia) per liberare la Spagna. Lo scontro (12 settembre 1213 a Muret) vide la sconfitta della corona di Aragon ed anche ogni speranza di poter estendere il potere su quelle terre che da allora passarono sotto influenza francese. Con il 1214 la prima parte di questa Crociata si concluse. E’ utile ricordare che alla lotta implacabile contro l’eresia si era aggiunto Federico II (1194-1250), chiamato Stupor Mundi e Puer Apuliae, nipote di Barbarossa, Imperatore del Sacro Romano Impero, re di Sicilia, re di Gerusalemme, imperatore dei Romani, re d’Italia e re di Germania che già al momento della sua incoronazione in Roma (1220) emanò un documento (poi formalizzato con decreti del 1220 e del 1227) con il quale si affermava che quando si fosse individuato un eretico nei territori sotto la sua sovranità doveva essere espropriato e consegnato alle autorità civili per essere messo immediatamente al rogo.

        Nel 1215 si aprì a Roma il Quarto Concilio Laterano che discusse in modo approfondito i problemi connessi con l’eresia. Si decise che la fede che doveva essere accettata (attenzione si dice che si doveva accettare) era quella definita da quel Concilio che stabilì 70 canoni, che entrarono in blocco nel Corpus Iuris Canonici, e che chi rifiutava doveva essere scomunicato dalla Chiesa e consegnato alle autorità civili o secolari per essere punito, con confisca dei beni. Si iniziò a porre un problema che assumerà valenza legale. Non era credibile chi negava di essere eretico davanti al potere dell’autorità e quindi occorreva trovare un qualche sistema. Il primo fu quello delle testimonianze di amici o conoscenti a discarico che dovevano essere date entro un anno, altrimenti il sospetto diventava un eretico in piena regola. Poiché poi le norme stabilite dovevano essere fatte rispettare dall’autorità civile, si obbligarono i sovrani a giurare in tal senso. Tra i primi ad essere colpiti furono i seguaci della Congregazione di Gioacchino da Fiore morto nel 1202 e che era già venerato nel monastero di San Giovanni in Fiore. La condanna riguardava la profezia secondo cui il genere umano avrebbe avuto una terza età (la prima delle quali era quella prima di Cristo e la seconda quella vissuta del dopo Cristo) nella quale sarebbero scomparse Chiesa e Stato e i credenti avrebbero vissuto in una società umile di uguali. Ultima delibera del Concilio riguardò il lancio di una nuova Crociata, la Quinta, per il 1217 che, questa volta, sarebbe dovuta partire sotto la diretta direzione della Chiesa ad evitare fenomeni come quelli organizzati dalla Repubblica di Venezia nella Quarta Crociata.

        Intanto Simone di Montfort continuava la repressione di catari in Linguadoca accendendo migliaia di roghi. Nel 1222 alla morte di Raimondo VI di Tolosa, il potere (il poco potere restante) passò al figlio Raimondo VII che nel 1229 firmò un trattato con il Re di Francia Luigi IX con il quale il primo s’impegnava a cedere la sua autonomia alla Francia, a difendere gli interessi della Chiesa in quelle terre e a combattere l’eresia. In quello stesso anno con il Sinodo di Tolosa, su una decisione del concilio di Avignone del 1200, la Chiesa organizzò in ogni parrocchia una commissione costituita da un prete e da due o tre laici che doveva scoprire gli eretici. Nel Sinodo si stabilì che la casa abitata dall’eretico doveva essere rasa al suolo; che il padrone di quella casa doveva essere espropriato di ogni bene e sottoposto a pene corporali; che l’eretico pentito doveva avere due croci cucite sull’abito senza potere assumere nessun incarico pubblico e senza aver diritto di ricorrere alla giustizia. Infine vi è il seguente straordinario divieto: I laici non possono possedere i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento; possono avere solo il Salterio ed il breviario o anche i calendari mariani, e nemmeno questi libri, per altro, devono essere tradotti nella lingua nazionale [citato da Deschner]. Quindi la Bibbia non si poteva avere né in latino né nelle lingue nazionali. In pratica questa procedura risultò complessa e non produsse ciò che si voleva, anche perché serviva un minimo di preparazione teologica che né preti né laici, nella loro generalità, avevano.

        Quel 1229 segnò una breve pausa nella Crociata che proseguì, guidata da Amalrico, figlio di Simone di Montfort, con ferocia per molti anni fino alla caduta dell’ultima fortezza, quella di Montsegur, il 16 marzo 1244, con un rogo sotto le mura di 200 catari. Da questo momento terminò la Crociata ed iniziò la repressione casa per casa che durò fino a che la Chiesa non decise che l’eresia era estirpata, agli inizi del XIV secolo. Naturalmente l’odio verso la Chiesa, anche da chi cataro non era, ma era convissuto amabilmente con loro, crebbe in quei territori e dette vita a risentimenti duraturi che aprirono a culti pagani e superstizioni che, successivamente vedranno l’altra ondata di massacri in nome di Dio denominati caccia alle streghe.

        Insomma con Innocenzo III si definisce l’immagine dei Papi del futuro. Autoritarismo fino all’assassinio non certo per la gloria di Gesù ma per il mantenimento indiscusso del potere. Il crimine diventerà pratica quotidiana per le gerarchie ecclesiastiche.              

VERSO L’INQUISIZIONE MEDIOEVALE

        Gregorio IX (1227-1241) venne eletto pontefice dopo un papato scialbo di ordinaria amministrazione come quello di Onorio III (1216-1227). Quest’ultimo ebbe l’unica idea fissa del compimento della Crociata annunciata da Innocenzo III, compimento che Federico II rimandava sempre. Una piccola Quinta Crociata si realizzò comunque, senza la partecipazione di Federico II, tra il 1217 ed il 1221 ma senza alcun risultato. Federico II fu considerato responsabile di questo fallimento tanto che questi arrivò ad un impegno solenne con il Papa: sotto pena di scomunica e di perdita del Regno di Sicilia la Sesta Crociata sarebbe partita nel 1227. Uno dei primi atti di Gregorio, che conosceva Federico II per essere stato ambasciatore alla sua corte, fu di ricordare all’Imperatore che ad agosto scadeva il suo impegno di partire per la nuova Crociata. Federico conosceva il fermo carattere di Gregorio ed ammassò le sue truppe a Brindisi, tante da non avere navi sufficienti per imbarcare, per il luglio del 1227. In questo porto scoppiò un’epidemia di peste che contagiò lo stesso Federico. Ma Federico partì ugualmente ma le sue condizioni si erano talmente aggravate che dovette fermarsi ad Otranto. Della cosa fu informato Gregorio con un ambasciatore ma il Papa non volle credere a quanto udiva e scomunicò Federico con una Enciclica nella quale denunciava gli spergiuri, la dissolutezza e la tirannia dell’Imperatore. Federico rispose spiegando con calma ed impegnandosi per una nuova data. Gregorio lo scomunicò di nuovo, finché parte della nobiltà romana (i Frangipane) fedele all’Imperatore non protestò violentemente in San Pietro durante una sua omelia contro Federico. In questa occasione il Papa fu cacciato in malo modo dalla chiesa dando inizio a scontri in città. Gregorio si rifugiò prima a Viterbo quindi a Perugia da dove scomunicò tutti coloro che si erano ribellati. Ma Federico che si era ripreso partì questa volta per la Crociata, anche per mostrare al mondo che Gregorio era in torto e, mediante trattative con il Sultano d’Egitto, ottenne pacificamente Gerusalemme ed i Luoghi Santi proclamandosi Re di Gerusalemme. Quindi nel 1229 tornò in Italia dove incontrò Gregorio per chiarire tutto. Si addivenne ad una riconciliazione (Pace di Ceprano del 1230) che, al solito, prevedeva lauti guadagni per la Chiesa in terre e proprietà in cambio del proscioglimento dalla scomunica. Sembrava tutto a posto ma Federico iniziò ad operare con azioni militari, in cui egli non compariva, al fine di disarticolare sia le città ribelli come quelle del Nord sia i vari domini della Chiesa. Anche se si poteva immaginare, non si era certi che quelle azioni fossero dirette da Federico quindi l’arma della scomunica era inutilizzabile. Di fatto però Federico risultava alleato del Papa tanto che quando Enrico, figlio sedicenne di Federico, pensò di sottrarre il trono al padre, il Papa lo scomunicò così che il padre Federico poté far arrestare il figlio Enrico. Federico spinse comunque con continue provocazioni fino ad aizzare i Romani contro il Papa in uno scontro ormai diventato aperto. Nel 1239 Gregorio scomunicò di nuovo Federico II perché sentì minacciate le terre della Chiesa che la Chiesa si era date con la falsa Donazione di Costantino. Iniziò una vera guerra ideologica di insulti tra Papato ed Impero che sfociò in scontri armati ed in occupazioni di terre. Gregorio provò a convocare un Concilio a Roma per il 1241 ma Federico bloccò le strade ed arrestò tutti i prelati che si recavano a tale incontro. Il Papa chiese ai prelati di resistere ma fu lui che si spense nell’agosto del 1241. Federico II gioì a quella notizia e volle subito dimostrare al mondo che egli non era nemico della Chiesa ma solo di Gregorio IX. Per dimostrarlo tolse l’assedio a Roma e se ne tornò in Germania.

        A questo Papa è dovuta la nascita ufficiale dell’Inquisizione Medioevale. Nel 1231 furono emanati da Gregorio IX una costituzione ed uno statuto antiereticale noti come Statuti della Santa Sede. In tali statuti vi erano delle Regole  poi pubblicate dal senatore Annibaldo degli Annibaldi e sarà proprio nei Capitula Anibaldo Senatoris  che sarà codificato il termine Inquisitore. Le regole prevedevano che il medesimo senatore gettasse in prigione chiunque fosse denunciato come eretico da un inquisitore o da un buon cattolico (la sentenza doveva essere esecutiva in 8 giorni). In tal modo il senatore diventava un inquisitore delegato pontificio che serviva da contrapporre ai giudici laici (lo scontro era con Federico II). La casa che avesse dato ospitalità ad un blasfemo doveva essere rasa al suolo ed il terreno doveva essere trasformato in un letamaio. I beni dell’eretico venivano confiscati e così ripartiti: un terzo a chi denunciava, un terzo ad Annibaldo, un terzo per la manutenzione delle mura della città. Ogni persona che non denunziasse un eretico subiva una multa enorme di 20 lire ed il senatore che non procedesse contro persona eretica subiva una multa di  duecento marchi e non poteva più avere cariche pubbliche. Le Regole sommariamente descritte furono inviate a tutti i principi e gli arcivescovi affinché fossero rigorosamente applicate.

        Nello stesso periodo vi era stato il conte di Tolosa, Raimondo VII, quello che era addivenuto a vergognosi patti con la Chiesa, che nel 1232 fece diventare legge le delibere del Sinodo di Tolosa del 1229 con ogni felicitazione di Gregorio IX.

        Il 20 aprile del 1233 Gregorio IX emanò una Bolla che affidava ai domenicani lo sradicamento dell’eresia. Era la fondazione del Tribunale dell’Inquisizione. In questa lettera, Illae humani generis, del 20 aprile diretta ai domenicani Gregorio IX diceva:

Perciò voi […] avete il potere […] di privare i clerici dei loro benefici per sempre, e di procedere contro di loro e contro tutti gli altri, senza appello, chiedendo l’aiuto del braccio secolare, ove necessario. [citato da Baigent e Leigh]

        In questa lettera, che assegnava ai domenicani il privilegio dell’Inquisizione (negotium fidei), si ordinava a quei frati di designare i religiosi che avrebbero predicato contro l’eresia ed ai quali sarebbe stata affidata la causa della fede. Quindi il potere inquisitorio era sia dei vescovi che dei domenicani con una sorta di ruolo superiore ai vescovi. Pochissimo tempo dopo, lo stesso Papa associò  ai domenicani i frati Minori (gli utili francescani di Francesco) e queste missioni erano estese a tutta la cristianità. La cosa fu ufficializzata con una Bolla del 1246 di Papa Innocenzo IV.

        Nello stesso anno Gregorio IX avviò la santificazione di Domingo che era morto nel 1222, santificazione che ottenne in tempi per l’epoca record. Domingo divenne San Domenico nel 1234. In una lettera del medesimo 20 aprile diretta ai vescovi, così scriveva Gregorio IX:

Noi, vedendovi presi dal vortice delle preoccupazioni e quasi soffocati sotto la pressione delle sempre maggiori ansietà, pensiamo bene di suddividere il vostro carico in modo che possiate sopportarlo meglio. Abbiamo perciò determinato di mandare dei frati a predicare contro gli eretici di Francia e delle province vicine, e vi preghiamo, vi mettiamo in guardia, vi esortiamo, ordinandovi […] di riceverli gentilmente e di trattarli bene, dando loro […] appoggio, affinché possano assolvere i loro compiti. [citato da Baigent e Leigh]

        Sulla politica di sterminio degli eretici, iniziata da Innocenzo III e proseguita con metodo da Gregorio IX, scrive Gregorovius:

Le guerre sterminatrici di Innocenzo III contro gli eretici, l’annientamento dei quali era stato ordinato in tutte le città, sembravano non aver avuto altro effetto che quello di alimentare l’eresia. Migliaia di uomini si cinsero i fianchi col cordone di S. Francesco, ma più numerosi furono quelli che abbandonarono la fede. Nello Stato della Chiesa a Viterbo, a Perugia, ad Orvieto esisteva un gran numero di eretici. Piena ne era anche la Lombardia e la loro chiesa principale sorgeva nella guelfa Milano. Inutilmente ardevano i roghi. Durante l’assenza del papa essi affluirono persino a Roma, dove le posizioni politiche si associavano facilmente a quelle religiose; ed è certo che tra gli eretici romani la setta ghibellina degli arnaldisti doveva essere più numerosa di quella dei poveri di Lione. L’eresia dogmatica, del resto, non poteva essere separata da quella politica dal momento che la Chiesa considerava senz’altro ereticali gli attentati alla libertà del clero e al suo patrimonio quali ad esempio potevano essere gli editti dei magistrati cittadini che cercavano di imporre tributi ai preti e di sottoporli ai tribunali laici.
Fu quella la prima volta che a Roma gli eretici vennero processati in massa e i roghi arsero pubblicamente. Gli inquisitori installarono il loro tribunale fuori delle porte di S. Maria Maggiore; i cardinali, il senatore, i giudici presero posto nelle tribune e il popolo allocchito si disperse in cerchio attorno a questo tremendo teatro nel quale sventurati d’ogni ceto, uomini e donne, ricevevano la loro sentenza. Molti religiosi che, convinti di eresia, confessavano contriti, furono spogliati dei loro abiti sacerdotali e condannati a scontare la loro colpa in lontani conventi. Altri eretici vennero arsi su cataste di legno, forse nella piazza antistante la chiesa. Questi lugubri spettacoli, riflesso della guerra contro gli Albigesi, seguiti a breve distanza all’inondazione del Tevere e alla peste, dovettero turbare profondamente Roma. Se una cronaca del XIV secolo dice il vero, i Romani assistettero all’inaudito quanto orribile spettacolo di un senatore giustiziato come colpevole di eresia. Ma ciò non è che invenzione. Tornato a Roma Gregorio insediò, probabilmente, un nuovo senatore: il romano Annibaldo Annibaldi, appartenente a una famiglia senatoria che proprio in quest’epoca divenne celebre costituendo un casato potente e ricco di molti beni nel Lazio. Il famoso nome di Annibale ricompare in una famiglia nobile del Medioevo dalla quale per alcuni secoli uscirono senatori, condottieri e cardinali, ma nessun papa. Gli Annibaldi erano imparentati con i Conti e la casa di Ceccano, come questi erano d’origine tedesca e si erano insediati nel Lazio e nei monti latini dove ancora oggi, sopra Rocca di Papa, il Campo di Annibale ricorda questa famiglia un tempo tanto potente.
Pare certo che il decreto contro l’eresia promulgato dal senatore Annibaldo fosse stata una delle condizioni poste dal papa al proprio ritorno. In esso si stabiliva che ogni senatore, al momento di entrare in carica, proscrivesse gli eretici della città e i loro sostenitori, arrestasse tutti coloro che l’Inquisizione accusava di eresia e li giustiziasse allo scadere dell’ottavo giorno dal pronunciamento della sentenza. I beni appartenenti agli eretici dovevano essere divisi tra delatori e senatore e destinati al restauro delle mura urbane, mentre le loro abitazioni dovevano essere abbattute. L’occultamento degli eretici era punito con pene pecuniarie o corporali e con la perdita di tutti i diritti civili. Ogni senatore doveva giurare di rispettare questo editto e non lo si considerava in carica prima che avesse giurato. Qualora poi egli contravvenisse alla fede giurata, doveva essere condannato ad un’ammenda di duecento marchi ed essere dichiarato non idoneo all’esercizio di cariche pubbliche; la pena conveniente gli veniva decretata da un collegio di giudici detti di S. Martina dal nome di una chiesa che sorgeva presso il Campidoglio.
L’editto stimolava lo zelo dei delatori con la prospettiva di un guadagno, e si può comprendere quanto operosi fossero l’avidità e gli odi privati nel rintracciare gli eretici. Il papa coinvolse il comune negli interessi dell’Inquisizione e costrinse il senatore ad offrirle il suo braccio temporale. Questi, dunque, divenne l’esecutore legale delle sentenze emesse dal tribunale dell’Inquisizione come lo erano, del resto, i podestà degli altri comuni. Se l’attribuzione del diritto di vita e di morte un tempo esercitato dal prefetto, ne accresceva il potere civile, tuttavia degradava il senatore al rango di ministro del tribunale ecclesiastico. Il solenne giuramento di punire gli eretici vincolava anche lui e sul suo capo pendeva il terribile giudizio dell’Inquisizione che poteva imputargli di esser venuto meno ai doveri del proprio ufficio e perciò dichiararlo colpevole di eresia. Il più importante attributo della potestà senatoria fu dunque quello di dare esecuzione alle sentenze contro gli eretici, e a rivelare lo spirito dell’epoca basti il fatto che il compito della loro persecuzione era contemplato, quale primo e fondamentale articolo, negli statuti di Roma e di altre città dello Stato ecclesiastico.
Del resto l’editto senatorio non faceva altro che estendere a Roma, dove sin allora erano stati contestati, i decreti imperiali promulgati al tempo dell’incoronazione. L’Inquisizione infatti divenne nelle mani del papa un nuovo mezzo per assoggettare il popolo. D’allora in poi anche Roma ebbe degli inquisitori che all’inizio furono scelti tra gli ordini Francescani. Quando aveva condannato degli eretici l’inquisitore saliva le scale del Campidoglio e leggeva pubblicamente la sentenza al cospetto del senatore, dei suoi giudici e di numerosi deputati cioè testimoni appartenenti al clero della città. Quindi affidava l’esecuzione della condanna al senatore minacciandolo di scomunica in caso di rifiuto o di negligenza.
Guardiamo con orrore a un’epoca espressa da quegli editti di Gregorio IX che facevano della caccia agli eretici il supremo dovere del cittadino e punivano con l’anatema, come fosse un delitto, ogni colloquio pubblico e privato su argomenti di fede. In quell’età rozza di nuovi supplizi e nuovo fanatismo, che compensava la perdita di Gerusalemme e l’indebolito zelo per le crociate con la persecuzione degli eretici e che, dal tempo di Innocenzo III, soffocava il cristianesimo con l’intolleranza religiosa rendendolo non meno statico della fanatica legge giudaica, i principi e i capi delle repubbliche emulavano lo zelo degli ecclesiastici. I sovrani colpevoli di delitti non donavano beni alla Chiesa trovando più comodo per la salvezza della loro anima bruciare eretici di cui confiscare gli averi. La luce dei roghi ardenti divenne per alcuni re splendore di pietà religiosa, mentre altri per timore o per calcolo cercavano di dimostrare l’ortodossia della propria fede perseguitando selvaggiamente i miscredenti. Persino Federico II, che per cultura e libertà di pensiero si elevava al di sopra del proprio secolo tanto da meritare in seguito l’appellativo di predecessore di Lutero, emanò nel 1220 e 1232 tristissime leggi che in nulla differivano dagli editti pontifici. «Gli eretici – decretò – vogliono lacerare l’inconsutile veste di nostro Signore; ordiniamo che vivi, alla presenza del popolo, siano destinati a morire tra le fiamme». Egli promulgò simili leggi ogni qual volta concluse la pace con il papa o ne ebbe bisogno e il movente politico della sua persecuzione contro gli eretici lo disonora più di quanto avrebbe fatto un cieco ma onesto fanatismo religioso. Queste sue leggi contro gli eretici sono in violento contrasto con la legislazione sapiente e moderna che nell’agosto di quello stesso anno 1231 egli dové al regno di Sicilia.

        Papa Innocenzo IV, con la sua bolla Ad extirpanda del 15 maggio 1252, in cui vennero definite le competenze e l’ambito d’azione degli inquisitori, svincolati dalle giurisdizioni diocesane e direttamente sottoposti all’autorità papale, fece notevoli passi criminali in avanti ufficializzando l’uso della tortura, una pratica in uso fin dal 1234. Erano esonerati da questa pratica solo coloro che rischiavano di morire o che fosse loro causata una qualche amputazione. La tortura fu confermata il 27 aprile 1260 da Papa Alessandro IV, che tolse la limitazione di Innocenzo IV, e riaffermata prima da Papa Urbano IV (Papa con il quale collaborò Tommaso d’Aquino tra il 1259 ed il 1264) il 4 agosto 1262 e poi da Papa Clemente IV nel 1265. Rimase sempre il feroce, sciocco, ipocrita ed offensivo senza spargimento di sangue che faceva evitare strumenti appuntiti o con lame; andavano invece bene, ad esempio, la ruota e lo schiacciapollici (sui metodi di tortura entrerò in dettagli più oltre) che se facevano uscire sangue era considerato incidentale. In teoria le tenaglie per strappare unghie o carne non erano ammesse per quella ipocrisia dello spargimento di sangue. Ma se si arroventavano fino al rosso o bianco, lo strappare era simultaneo al cauterizzare e quindi erano ammesse anche quelle. Anche i tempi erano aggirati. Non era possibile torturare più di trenta minuti una sola volta. Poi i successivi trenta minuti erano una nuova sola volta e così via. Se poi le accuse erano più di una, per ognuna si torturava quei 30 minuti. E’ interessante osservare il ruolo democratizzatore delle leggi ecclesiastiche rispetto a quelle civili. Queste ultime infatti esoneravano dalla tortura medici, cavalieri, soldati e nobili. La Chiesa rese il dolore un bene per tutti, indipendentemente da sesso, età, stato sociale. La pena di morte mediante il rogo (pena nuova e purificatrice di fronte all’idra eretica e sacrilega) era stata ufficialmente introdotta in Spagna nel 1194, quindi in Italia, Germania, Francia ed Inghilterra (1401). Ed era ben accetta anche da supposti pensatori e santi, anche per questo, della Chiesa come Tommaso d’Aquino, il doctor angelicus, il dottore della Chiesa, l’ispiratore di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che nella Summa Theologica, un’opera ispirata dallo Spirito Santo e considerata come una Bibbia durante il Concilio di Trento, sosteneva:

«Per quanto riguarda gli eretici, essi si sono resi colpevoli di un peccato che giustifica che non solo siano espulsi dalla Chiesa con l’interdetto. ma anche che vengano allontanati da questo mondo con la pena di morte. E’ davvero un delitto molto più grave falsificare la fede, che è la vita dell’anima, che falsificare il denaro, che serve alla vita mondana. Se dunque falsari e altri malfattori vengono subito portati dalla vita alla morte legalmente ad opera dei prìncipi laici, con quanto maggior diritto gli eretici, immediatamente dopo la loro incriminazione per eresia, non soltanto possono essere cacciati dalla comunità ecclesiale, ma anche a buon diritto giustiziati!» [citato daDeschener 1998].

        A partire dal 1235 furono i vescovi che in concili provinciali ristretti iniziarono piano piano a stabilire le procedure che i tribunali dell’inquisizione dovevano avere e la giurisprudenza. Ciò comportò disparità importanti da Tribunale a Tribunale. C’è da osservare che da una parte i vescovi venivano mantenuti nei loro compiti di sradicamento dell’eresia e dall’altra compiti superiori venivano assegnati ai frati sia domenicani che francescani. I vescovi mal digerivano l’ingerenza di Roma sulla loro autonomia e non condividevano l’intromissione di estranei in zone e territori con abitanti che loro conoscevano bene. L’intervento dei frati era del tutto spropositato e non era in grado di fare giustizia ma solo enormi ingiustizie. Questo era il motivo della sfiducia che il Papa aveva verso i vescovi: secondo Roma la tendenza era a soprassedere e perdonare. Più affidabili i laici che, per arricchirsi con le regalie che spettavano loro, erano ubbidienti esecutori, ma solo esecutori perché loro non potevano decidere sull’eresia di una persona. Per ovviare alle disparità di giudizio tra differenti tribunali, iniziarono a veder la luce dei manuali redatti da chierici che raccontavano come combattere l’eresia ed avevano indicata l’intera procedura con formule per le lettere di citazioni, con le domande da fare, con le abiure, le penitenze, le sentenze, con i formulari, le possibili risposte e le possibili obiezioni.

        Dall’istituzione dell’Inquisizione Medioevale, tutti i Papi si sforzeranno di renderla sempre più efficace con veri e propri assassini commessi su persone che con le idiozie di cui li imputava la Chiesa non avevano nulla a che fare. La cosa andò in crescendo fino ad arrivare alla barbarie del XVI e XVII secolo. Ma su questo ho già scritto molto nei seguenti articoli: L’INQUISIZIONE MEDIOEVALEL’INQUISIZIONE SPAGNOLA; L’INQUISIZIONE ROMANA; ALCUNI PROCESSI DELL’INQUISIZIONE ROMANA 

L’INDEGNO POTERE TEMPORALE

        Non si riusciva a decidere chi fare Papa dopo Gregorio IX ed il senatore che guidava il Comune, Matteo Rosso, rinchiuse i solo 10 cardinali rimasti a decidere (gli altri erano prigionieri di Federico II) in un piccolo monastero e non li avrebbe fatti uscire finché non avessero eletto il Papa. Poiché questa eventualità non era stata preparata, dopo un poco le condizioni igieniche ed il fetore da escrementi divenne tale che uno dei cardinali morì. I nove rimasti non riuscivano comunque a decidere. Fu allora che il senatore minacciò di disseppellire Gregorio IX e mostrarlo ai romani come nuovo Papa. Questa minaccia li fece decidere per un Papa che durasse poco, un cardinale super malandato che durò solo 17 giorni: Papa Celestino IV (1241). L’interesse di questa storia sta nel fatto che si era iniziato ad utilizzare un Conclave per eleggere il Papa.

        Seguì, dopo due anni di sede vacante e sempre eletto da complessivi 10 cardinali (due erano stati rilasciati da Federico), Papa Innocenzo IV (1243-1254). Con lui ricominciarono le durissime lotte con Federico che, alla fine, in un Concilio che si tenne a Lione nel 1245, fu addirittura deposto come Imperatore (intanto, nel 1244, Gerusalemme era stata di nuovo ripresa dai Turchi). Costui reagì chiamando Innocenzo il nuovo Anticristo e così via con il deja vu fino alla sua morte nel 1250 che venne salutata dal Papa con gioia manifestata in lettere a tutti i sovrani d’Europa, un vero comportamento cristiano. Ma ad un nemico morto ne nacquero due vivi: da una parte Corrado IV erede di Federico che reclamava l’elezione a Imperatore, dall’altra, al Sud, Manfredi di Svevia (un figlio nato da Federico e la contessa Bianca Lancia) che gestiva il Regno del Sud d’Italia in attesa di essere incorporato all’Impero sotto Corrado. Il Papa si rese conto di non poter gestire questi eventi da solo e che non aveva forze per rivendicare la Sicilia alla quale la Chiesa teneva moltissimo. Fu allora che cambiò radicalmente alleanze accordandosi con il Re Enrico III d’Inghilterra il cui figlio di nove anni, Edmondo, sarebbe stato investito al comando del feudo siciliano (1253). Naturalmente Corrado IV veniva scomunicato (1254) anche se la scomunica durò solo 11 giorni poiché la morte colse Corrado a soli 26 anni.  A questo punto il Papa ripensò l’accordo con il Re d’Inghilterra poiché disponeva di un’arma migliore, il tutoraggio del figlio di Corrado IV, il piccolo Corradino di Svevia di soli 2 anni. Si accordò con Manfredi per il riconoscimento di Corradino come Imperatore al raggiungimento della maggiore età e Manfredi stesso accettò la sottomissione al Papa accettando di divenire vicario pontificio al Sud. Il Papa dominava ora su quasi l’intera Italia, dalla Toscana alla Sicilia. Ma Manfredi organizzava al Sud tumulti ritrovando alleanze con i saraceni ed ilo Papa inviò il suo esercito che fu sonoramente sconfitto a Foggia (1254). Appena avuta la notizia Innocenzo IV morì. Fu subito eletto Papa un nipote di Gregorio IX, con il nome di Alessandro IV (1254-1261) del quale Gregorovius scrive: “Un papa che non si curava di guerre, un signore corpacciuto e bonario, giusto e timoroso di Dio e però amante del denaro e debole”. Insomma ci capiva poco della tela di problemi da affrontare. Sapeva però qual era il metodo usato dai predecessori e quindi scomunicò subito Manfredi. Poi cercò alleanze in tutta Europa saltando sconclusionatamente da un regno ad un altro, promettendo elezioni ad imperatore a questo ed a quello (e per fare ciò aveva dovuto ripudiare il figlioccio Corradino), fino ad un’altro scontro armato con Manfredi, perso di nuovo disastrosamente. In poco tempo perse tutto ciò che i predecessori avevano accumulato. Manfredi era tornato potente e al Sud dove aveva esteso i territori che governava a danno di quelli della Chiesa. La stessa Roma era governata nell’interesse del popolo da un senatore, Brancaleone degli Andalò, che marciava per suo conto indifferente alle indicazioni della Chiesa e a trame organizzate da nobili seguaci del Papa. Nel 1260 i Comuni guelfi fedeli alla Chiesa furono sconfitti nella battaglia di Montaperti (Toscana). Insomma un vero disastro per la Chiesa che vide questo inutile incompetente chiudere la sua vita nel 1261. Ma prima di morire doveva colpire ancora scrivendo una bolla in cui certificava che le stimmate di San Francesco erano vere e chi lo avesse negato sarebbe stato scomunicato.

        Il successore è il francese di umili origini, Papa Adriano IV (1261-1264) che dovrà operare fuori di Roma, città ormai sfuggita di mano ai Papi, anche se con due fazioni in lotta ormai definibili guelfa e ghibellina. Seguendo una delle tante indicazioni di Alessandro, il nuovo Papa cercò accordi con il francese Carlo d’Angiò, fratello del Re. A costui offrì la corona di Sicilia e la carica di senatore a Roma (un modo per dire: se liberi questi luoghi li puoi gestire). La manovra riuscì e Roma passò in mano guelfa anche se il Papa non si azzardava a mettervi piede, cosa che avrebbe fatto solo quando Carlo si fosse deciso a venire in città per prendere possesso della sua carica senatoriale. Ma prima che ciò avvenisse Adriano morì non senza aver operato una riforma della liturgia del Corpus Domini secondo le visioni straordinarie dell’invasata Giuliana di Liegi. Gli inni per la funzione furono incaricati a Tommaso d’Aquino (1225-1274).

        Un altro francese fu eletto dopo Adriano, Papa Clemente IV (1265-1268). Subito si impegnò a realizzare quanto lasciato in sospeso dal predecessore. Carlo d’Angiò scese a Roma dove assunse la carica di senatore e si apprestò alla riconquista della Sicilia. Per farlo occorreva un esercito che fu finanziato con le elemosine della Chiesa e con prestiti usurai che fecero scendere il suo prestigio, per essere scesa a tali mercanteggiamenti non consoni all’evangelica dignità. Finalmente fu messo insieme un esercito di 30 mila uomini, in gran parte delinquenti in attesa di fare razzie e violenze varie, comunque insigniti come crociati dal Papa, che permise l’incoronazione a Roma, da parte di cardinali delegati, di Carlo Re di Sicilia (1266). Manfredi fu sconfitto a Benevento, morì in battaglia e fu fatto seppellire sotto un cumulo di pietre. Ma il santo Padre, vero spirito cristiano vicino al messaggio evangelico, lo fece disseppellire, portare al di fuori del regno ed abbandonare privo di sepoltura perché, ahimé, scomunicato. Carlo d’Angiò entrò vincitore a Napoli infischiandosene dell’aiuto promesso al Papa per il rientro a Roma. Senza mezzi economici, iniziò al Sud una politica di rapina gravando oltremodo di tasse le popolazioni, depredando anche, e ciò è buono, le terre del pontefice il quale strillava da Perugia sul non rispetto dei patti. In realtà Carlo d’Angiò non era diverso da altri regnanti e se possibile era molto più avido. Ma il Papa non osava di più perché era entrato nella maggiore età il figlioccio misconosciuto del Papa, Corradino di Svevia che si era autoproclamato Re di Sicilia con il sostegno dei principi tedeschi. Tra l’altro Corradino si era alleato con Enrico di Castiglia, fratello di  Alfonso di Castiglia  pretendente al trono di Germania. Iniziò un periodo turbolento di lotte e guerre che vide gli schieramenti cambiare  a seconda delle circostanze e delle opportunità. Il Papa dovette sostenere il suo amichetto Carlo d’Angiò addirittura offrendogli la signoria delle terre della Chiesa in Toscana pur di difendersi dallo scomunicato (sic!) Corradino che era invocato da tutti i ghibellini d’Italia ed acclamato Re in moltissime rivolte scoppiate in Puglia e Sicilia. Roma era andata in mano ad Enrico di Castiglia e, nonostante i tentativi di far insorgere la popolazione, non vi fu nulla da fare mentre Corradino marciava su Roma a tappe forzate (1267) accolto con giubilo da tutte le popolazioni incontrate dalle quali Carlo d’Angiò era scappato. Lo scontro tra i due eserciti avvenne vicino a Tagliacozzo e Corradino fu sconfitto (1268). Tentò la fuga ma fu catturato da un Frangipane che lo consegnò a Carlo che lo fece giustiziare in mezzo alla piazza centrale di Napoli per lesa maestà. Il Papa, sempre da buon cristiano, negherà la sepoltura ai giustiziati da Carlo. Questo santo Padre moriva un mese dopo, nel 1268. In compenso si impegnò per far partire una Settima Crociata per riprendere Gerusalemme. A questa ennesima avventura si interessò solo il Re di Francia Luigi IX ed il fratello Carlo d’Angiò. La partenza fu stabilita per il 1270 ma una pestilenza che ammazzò anche il Re non fece arrivare i crociati in Tunisia. Si rimandò la Crociata di tre anni ma poi non se ne fece più nulla.  Con Clemente finiva un pontificato sfacciatamente orientato verso il Paese d’origine del pontefice. Una degradazione totale della Chiesa ridotta a  mercato di influenze con Carlo d’Angiò che si occupò solo degli affari propri. La Chiesa risultava in stato di completo abbandono ed il fratello del Re di Francia giocava ad essere sovrano di un regno, compresa Roma, che un Papa gli aveva graziosamente regalato.

        I Papi immediatamente successivi furono:

184. — B. Gregorio X, di Piacenza, Tedaldo Visconti, 1.IX.1271,27.III.1272 — 10.I.1276.
185. — B. Innocenzo V, della Savoia, Pietro di Tarentaise, 21.I, 22.II.1276 — 22.VI.1276.
186. — Adrìano V, Genovese, Ottobono Fieschi, 11.VII.1276 — 18.VIII.1276.
187. — Giovanni XXI, di Lisbona, Pietro di Giuliano o Pietro Ispano, 16,20.IX.1276 — 20.V.1277.
188. — Niccolo III, Romano, Giovanni Gaetano Orsini, 25.XI, 26.XII.1277 — 22. VIII. 1280.
189. — Martino IV, Francese, Simone de Brie o di Brion o di Mainpincien, 22.II, 23.III.1281 — 29.III.1285.
190. — Onorio IV, Romano, Giacomo Savelli, 2.IV, 20.V. 1285 — 3.IV. 1287.
191. — Niccolò IV, di Lisciano (Ascoli Piceno), Girolamo, 22.II.1288 — 4.IV.1292. 

continuarono esattamente come i predecessori barcamenandosi tra Carlo d’Angiò, il Regno di Francia, l’Impero tedesco (ogni tanto Sacro Romano), i nobili romani sempre più con ganasce possenti. vari e differenti rapporti con Paesi stranieri come la Spagna e l’Inghilterra ma anche con l’Impero d’Oriente, ormai ridotto a molto poco. Una nota la merita Giovanni XXI, noto anche come Pietro Ispano (in realtà portoghese di Lisbona). Era uno studioso, un umanista che si occupava, ebbene si !, anche di scienza. Per questa sua passione e serietà, che lo estraniava dal mondo ecclesiastico, negli studi dagli ambienti vicini alla Chiesa fu pensato come mago e quindi persona da tenere a debita distanza. Il giorno che il gregge alzerà la testa si renderà conto del mondo che ha perso. E’ d’interesse notare che questo Giovanni XXI segue un XIX poiché un XX non vi è mai stato. Anche su Martino IV vi è qualcosa da dire. Anch’egli, da bravo francese, fu un insopportabile sciovinista. Il potere di d’Angiò, con lui, crebbe a dismisura e con d’Angiò avanzò il partito guelfo. Ogni posto importante e di responsabilità in Italia fu occupato da francesi ad esclusione della Romagna in mano al ghibellino Guido da Montefeltro. Una ventata di liberazione vi fu in Sicilia con i Vespri Siciliani (31 marzo 1282) che videro la sollevazione dell’isola contro il Re bandito francese. Lo sciocco Martino avrebbe potuto approfittare per riportare la Sicilia sotto il suo dominio ma l’essere francese ebbe il sopravvento sull’essere Papa e si schierò con il bandito d’Angiò scomunicando (non viene da ridere ?) i siciliani. E le scomuniche crebbero ed investirono anche Pietro d’Aragona che i siciliani avevano scelto come loro sovrano. Alla sua accettazione dell’offerta, Martino bandì una crociata contro la Sicilia (anche qui occorre rendersi conto delle bestialità cui arrivarono i Papi). L’altra sciocchezza di tanto Papa si ebbe quando offrì a Carlo di Valois, figlio del Re di Francia, il Regno d’Aragona come feudo (1284). La cosa andò in guerra con la sonora sconfitta della flotta francese da parte di quella aragonese al comando di Ruggero di  Lauria, il quale Lauria aveva già sconfitto i francesi di d’Angiò catturando il figlio di Carlo. La conseguenza drammatica di ciò, drammatica per Carlo, fu che, alla sua morte nel gennaio del 1285, si ritrovò senza eredi.

        Arriviamo ora ad un Papa che merita (poco) rispetto proprio perché non voleva fare il Papa e gli fu imposto. Parlo di Papa Celestino V (1294) che ebbe la ventura di avere a che fare con un delinquente (così almeno fu descritto) come Bonifacio VIII.

        Alla more di Niccolò IV, ripresero le lotte tra famiglie a Roma per l’elezione del successore. Le famiglie emergenti erano gli Orsini ed i Caetani (discendenti da Papa Gelasio II che avevano accumulato per questo un’enorme quantità di terre e mezzi finanziari a non finire), restano potente quella dei Colonna (se fate mente locale vi accorgete che si tratta dei padri degli odierni delinquenti noti come nobiltà nera, padrona delle terre intorno a Roma che ha fomentato ogni tentativo autoritario attraverso la continua speculazione edilizia. Tutti i sindaci di Roma che si sono assoggettati a questi banditi, sono stati rieletti …). Gli Orsini avevano legami con i Caetani, ambedue erano acerrimi nemici dei Colonna. Non cvi fu modo di accordarsi per oltre due anni. Finalmente a Benedetto Caetani venne in mente di eleggere un santo uomo, Pietro Angelieri detto da Morrone, un eremita che non aveva nulla a che fare con il mondo depravato delle gerarchie. Questo personaggio aveva iniziato come benedettino ma aveva poi avuto inclinazioni mistiche ed ascetiche non conciliabili con il mondo della regola di San Benedetto. Aveva quindi chiesto a Papa Gregorio X di poter operare come ramo dell’ordine benedettino (i celestini). Ottenuto il permesso si era ritirato con i suoi seguaci sulle pendici del Monte Morrone vicino Sulmona da dove venne ripescato, sembra, per manovre messe in atto dal cardinale Benedetto Caetani. La riunione dei cardinali che doveva eleggere il Papa votò per questo eremita che era all’oscuro di tutto e che fu informato da una delegazione di tre vescovi che si arrampiacarono verso l’eremo per comunicargli che era stato eletto Papa.  Tralascio ogni descrizione della sorpresa e dico solo due cose su un pezzo della storia che è ancora molto emozionante. Pietro da Morrone, appena eletto  ma ancora non consacrato, assunse il nome di Papa Celestino V (1294). Accorsero nell’eremo Carlo II d’Angiò(8) (figlio del più volte citato Carlo d’Angiò) e suo figlio Carlo Martello che Celestino aveva fatto chiamare per essere guidato. I cardinali elettori convocarono il nuovo Papa a Perugia per la consacrazione ma egli decise (insieme a Carlo II) di essere consacrato all’Aquila. Celestino si avviò a tale cerimonia vestito di cenci e su un asino che era tenuto per le briglie da un Re, Carlo II, ed un Principe, Carlo Martello, con un seguito di frati e povera gente festante. Nella fantasia popolare e non solo sembrò un volo nel passato, a quasi 1300 anni prima quando Gesù entrò in Gerusalemme.

        Le poche cose che decise Celestino (ripristino dell’elezione del Papa secondo quanto stabilito da Gregorio X, accordo con la casa di Aragona per la restituzione ai d’Angiò della Sicilia, nomina di cardinali in maggioranza francesi, trasferimento della curia a Napoli) furono dettate da Carlo II. Forse gli bastò questo a Celestino per capire che non poteva fare il Papa dove la dirittura morale non contava nulla e dove, soprattutto, non vi era posto per il Vangelo. Decise di andarsene trovando il sostengo giuridico, e non solo, di Benedetto Caetani. Volle tornarsene nel suo eremo ed all’inizio vi riuscì. Poi il Caetani fu eletto, con simonia, come Papa Bonifacio VIII (1294-1303) e cominciarono i problemi del povero eremita. Bonifacio intuiva che la sua elezione poteva essere invalidata dagli avversari ed allora fece ricercare, imprigionare nella sua fortezza di Fumone (vicina ad Alatri, Ferentino ed Anagni), e quindi (secondo vari storici) avvelenare il povero Celestino che da persona per bene osò diventare Papa senza immaginare che quello è un ufficio per delinquenti come Bonifacio.

        Il giudizio su Bonifacio, nonostante l’ultimo aggettivo, è ancor oggi in predicato perché su di lui si scatenò ogni malvagità da un Papa successore al servizio del Re di Francia, Filippo il Bello. Si può quindi dire che la fonte della denigrazione, fondata o no che sia, resta comunque di un altro Papa.

        Il primo atto di Bonifacio fu il riportare la sede papale da Napoli a Roma anche per sottrarre il papato dall’influenza dei d’Angiò. Quindi dichiarò nulle tutte le decisioni di Celestino. Iniziò poi una vera crociata per stabilire una volta per tutte che il primato del potere temporale e spirituale era solo della Chiesa. La sovranità del Papa è plenitudo potestatis e nessuno può condizionarla. Questa concezione, che Rendina definisce a ragione medioevale, fu portata avanti da un insieme di Bolle a cominciare dalla Clericis laicos del 1296 in cui si scomunicava chi avesse chiesto tasse ai chierici senza il consenso della Chiesa e si minacciava l’interdetto al Paese che l’avesse fatto. Stessa pensa di scomunica ai chierici che avessero pagato tasse ad un potere civile (cos’è cambiato 700 anni dopo ?). Seguirono altre bolle ma iniziò, particolarmente in Francia, una fortissima ostilità verso queste decisioni. Iniziarono a circolare libelli contro Bonifacio in cui si iniziava a considerarlo eretico riguardo al suo preteso non credere all’immortalità dell’anima. Un primo rimedio per calmare i francesi fu trovato da Bonifacio nel canonizzare (sic !) Luigi IX, nonno di Filippo il Bello, e permettere alla Francia di riscuotere le loro tasse anche ai chierici (1297). Ma la cosa durò poco. In Italia i Colonna che speravano in Filippo il Bello (per ora accontentato), che erano rappresentati da due cardinali, erano scatenati contro Bonifacio affermando pubblicamente che la sua elezione era nulla perché le dimissioni di Celestino non avevano alcun senso giuridico e facendo sottoscrivere a vari ecclesiastici un documento (manifesto di Lunghezza) in cui il Papa si dichiarava decaduto. Il Papa reagì non cristianamente destituendo i due cardinali Colonna con una bolla che inveiva contro la loro dannata stirpe e dannato sangue che dall’alto del suo soglio egli avrebbe voluto sterminare per non avere più a che fare con la loro superbia e disprezzo. Seguirono violenze incrociate con il Papa che fece sequestrare tutti i beni dei Colonna e distruggere tutti i loro castelli e fortezze. Naturalmente vi fu anche la scomunica agli ex cardinali che si rifugiarono in Francia alla corte di Filippo. Bonifacio usciva però mal messo dalle concessioni a Filippo il Bello proprio perché a tanta richiesta di primato seguiva un cedimento così grande ad un Re laico.

        Intervenne a questo punto una invenzione geniale che doveva servire e servì a distrarre l’attenzione dei popoli e che riportò sostegno ad una Chiesa che traballava sotto i colpi dei differenti poteri temporali. Bonifacio VIII inventò l’Anno Santo, il Giubileo. Esso fu indetto per l’anno 1300 con la Bolla Antiquorum habet fidem. Si dava indulgenza plenaria a chiunque in quell’anno o in ogni centesimo anno avesse visitato le Basiliche di San Pietro e San Paolo a Roma. Roma si riempì di pellegrini che versarono oboli in gran quantità alle casse della Chiesa sempre più bisognose e Bonifacio riacquistò credibilità e rispetto almeno per quell’anno, finito il quale ricominciò la dura lotta con la Francia. Filippo il Bello era l’immagine speculare laica di Bonifacio, anch’egli credeva che sopra al suo potere non ve ne fosse un altro. Vi furono lotte furibonde che ebbero un momento culminante nel tentativo di arrestare Bonifacio da parte di un inviato di Filippo il Bello, Guglielmo di Nogaret. Costui, insieme ad un Colonna, si recò alla residenza papale ad Anagni e qui sembra abbia schiaffeggiato il Papa con il suo guanto di ferro. Nogaret voleva incatenare Bonifacio e portarlo in Francia, l’altro voleva ammazzarlo seduta stante. La mancanza di accordo salvò la vita al Papa.

        In ogni caso quell’affronto, per di più da un Re straniero, sollevò il popolo che assaltò il castello dove Bonifacio era tenuto prigioniero e lo liberò. Protetto dagli Orsini tornò a Roma, la città nella quale aveva fondato l’Università della Sapienza (Studium Urbis) nel 1303 anno in cui morì, secondo un cronista dell’epoca, impazzito (Carlo d’Angiò, quando fu senatore della città nel 1265, era in procinto di fondare una Università a Roma, lo Studium generale, richiamandosi ad un decreto di Innocenzo IV che prevedeva però solo un Scuola Palatina al seguito degli spostamenti dei Papi. Nello Studium, laico da non confondersi con quello domenicano in cui insegnò teologia Tommaso d’Aquino, dovevano essere insegnate arti, diritto civile e canonico). Scrive di lui Gregorovius:

Rare volte un papa ha avuto intorno a sé tanti nemici e tanti amici, e raramente è accaduto che su altri pontefici i contemporanei ed i posteri i siano pronunciati con tanta veemenza. Sebbene le passini partigiane abbiano alquanto deformato i diversi giudizi, tuttavia si può dire che nel complesso rimane fermo questo: Bonifacio VIII fu uomo dotato di molte qulità, tutte proprie di un despota. Gli mancò ogni autentica virtù dello spirito: ebbe indole collerica, autoritaria, senza lealtà né coscienza. Amante del lusso e dei tesori del mondo, fu altero ed avido di dominio. […] Fu l’ultimo papa a concepire l’idea della Chiesa gerarchica dominatrice del mondo con l’arditezza che aveva informato il pensiero di Gregorio VII e di Innocenzo III. Di costoro però Bonifacio non fu che una triste reminescenza: egli non portò a compimento nulla di grande e i suoi sforzi ambiziosi invece che ammirazione suscitano in noi un ironico sorriso.

        Rendina chiosa ricordando la sua narcisistica idolatria:

Nessun Papa prima di lui si fece immortalare ancor vivo in un così gran numero di statue di marmo e bronzo, tuttora visibili ad Orvieto, Bologna, Firenze, Anagni e nel Laterano, senza contare l’affresco di Giotto che lo tramandò ai posteri mentre leggeva dalla loggia di San Giovanni la bolla di proclamazione del Giubileo. Questa mania non costituisce un semplice peccato di debolezza, nel segno di una smodata ambizione della fama postuma; è boria e superbia in un’autentica divinizzazione della propria persona. La colpa più grave in cui potesse incorrere colui che in effetti avrebbe dovuto esserer, secondo le parole di San Gregorio Magno, servus servorum Dei.

LA DELINQUENZA FRANCESE

        Per l’elezione del successore di Bonifacio si mobilitarono gli eserciti di mezza Europa che confluirono a Roma. I cardinali nominarono in fretta il nuovo Papa Benedetto XI (1303-1304) prima che vi fossero influenze esterne e scontri militari. Iniziò lo smantellamento delle bolle di Bonifacio contro Filippo ma anche la pubblicazione (1304) di una bolla che scomunicava Nogaret per l’offesa al Papa e che faceva intendere che il mandante era Filippo. La cosa non piacque a quest’ultimo che approfittò della golosità del Papa per i fichi per (probabilmente) avvelenarlo appena un mese dopo dalla bolla.

        Seguì un conclave diviso in due fazioni che impiegò oltre un anno a scegliere un successore. La vinse Filippo il Bello che nominò un suo uomo, un vero Papa al guinzaglio: il francese Clemente V (1305-1314).

        Basta poco per dire di questo personaggio che lavorava esclusivamente per il Re di Francia. Intanto trasferì il trono di Pietro, assegnato al vescovo di Roma, in Francia (Lione, Cluny, Poitiers, Bordeaux) dove vi rimase per 70 anni. Quindi abrogò ogni norma e scomunica che riguardasse il Re di Francia ed i suoi collaboratori. Creò gran quantità di cardinali francesi in modo da avere sempre la maggioranza nel collegio dei Cardinali. Infine lavorò in quanto ho accennato qualche riga più su: screditare ogni azione ed ogni atto di Bonifacio VIII. E già che c’era lavorò anche per sé e la famiglia:  almeno cinque suoi familiari entrarono tra i cardinali, molti ebbero episcopati di prestigio ed i rimanenti ricchi benefici. La politica a sostegno di Filippo il Bello emerge in modo particolare nelle azioni di questo servo docile contro l’Ordine dei Templari. Quest’Ordine, molto in breve, era stato costituito,  con una regola scritta da Bernardo di Chiaravalle, durante le Crociate che ormai erano finite. I Templari erano la banca, la cassaforte delle Crociate. Ogni offerta, ogni denaro che, almeno in linea di principio, fosse servito per la Crociata confluiva nei loro forzieri. Era un Ordine ricchissimo che disponeva, soprattutto in Francia, di una gran quantità di edifici, di conventi, che traboccavano di ricchezze provenienti anche dalla Terra Santa. Inoltre con l’inizio dei commerci tra il Levante e l’Occidente i Templari, che erano conosciuti dalle due sponde ed avevano molte conoscenze e facilitazioni, avevano iniziato un’attività commerciale estremamente redditizia che li vedeva principalmente come una sorta di banchieri di tali commerci. Ma queste ricchezze facevano gola a Filippo il Bello che spinse il Papa a sciogliere l’Ordine. Poiché Clemente aveva paura ad avviare un processo contro Bonifacio VIII e tergiversava, Filippo ebbe buon gioco a barattare le ricchezze dei Templari con la rinuncia al processo.

        Gli strumenti usati da questo Papa, criminale tra i criminali, per carpire ogni cosa ai Templari furono Commissioni collegate all’Inquisizione che dovevano fare attente ispezioni in ogni convento per stabilire i beni di cui l’Ordine disponeva. I commissari e gli inquisitori furono scelti da Filippo e costoro, mediante tortura, estorsero ai massimi rappresentanti dell’Ordine confessioni di eresia che li mandarono tutti al rogo. La decisione definitiva sull’Ordine dei Templari  fu rimandata ad un Concilio che si tenne nel 1311 a Vienne. Testimoni furono gli inquisitori e la sentenza la si conosceva già. Il Papa la scrisse sulla bolla Vox in excelso con lo scioglimento dell’Ordine perché non serviva più e perché molti suoi membri erano eretici. Tutti i beni e le ricchezze dei Templari passarono agli Ordini degli Ospedalieri e dei Giovanniti ma tutti sapevano e sanno che Filippo il Bello prese quasi tutto per sé andando addirittura a vivere nella Torre che i Templari avevano a Parigi. In compenso (anche se la cosa non ha senso) non si fece il processo a Bonifacio ma ormai non serviva perché lo scopo era raggiunto: era stato diffamato a fondo come eretico e simoniaco dallo stesso Papa. Altra perla criminale di questo Papa fu la messa al rogo nel 1307 di Fra Dolcino insieme alla sua compagna Margherita, una storia di crudeltà inenarrabile.

        Il conclave seguente, anche se in terra francese, non fu differente dalle vergogne del passato. Litigi furibondi, nessun accordo, irruzione nella sala delle riunioni di bande armate di guasconi guidate dal nipote del Papa morto. I cardinali italiani (solo 6 su 23, in gran maggioranza francesi) dovettero scappare. Dopo un paio d’anni le fazioni non trovavano accordo anche se un tentativo era venuto da Luigi X (primogenito di Filippo il Bello). Ci riuscì invece Filippo V alla morte di Luigi X, suo fratello. Rinchiuse i cardinali in un convento domenicano a Lione e questi elessero il nuovo Papa, il francese Giovanni XXII (1316-1344). Fu un altro Papa francese, cioè sciovinista e quindi al servizio dei voleri del Regno di Francia, che ai suoi 70 anni fu eletto perché si sperava in una sua celere dipartita. Ma anche in questo tradì chi aveva avuto fiducia in questo evento perché visse fino a 90 anni.

         Nel Sacro Romano Impero, alla morte di Enrico VII, si era avuta una crisi per la successione tra Ludovico il Bavaro e Federico d’Austria, ambedue eletti dai principi elettori ed ambedue aspettando la decisione del Papa. Costui fece finta di nulla e nominò, come no !, il francese Roberto d’Angiò come  vicario imperiale a Roma. Questa posizione, pur nei crimini costanti dei cosiddetti vicari di Cristo, era semplicemente stupida e rovinosa per la Chiesa.

        Altra vicenda che si presentò al Papa fu la controversia sorta tra i francescani che avevano visto una loro ala, gli Spirituali nati nel 1274, in contrasto con l’intero Ordine e quindi disubbidienti poiché rivendicavano un ritorno alla povertà predicata alle origini ed affermata nella Regola sia per gli abiti indossati che per i cibi consumati. Il Papa disprezzò gli Spirituali anche denigrandoli con il nome di fraticelli e li obbligò all’ubbidienza (con la Bolla Gloriosam ecclesiam). I più seguirono l’ordine, gli altri furono denunciati all’Inquisizione e bruciati al rogo (ormai la dialettica della Chiesa era o con me o il rogo, per maggior gloria di Gesù). Se qualcuno non veniva catturato risultava comunque scomunicato come lo furono Ubertino da Casale e Angelo Clareno da Cingoli. Anche i francescani normali (i conventuali) videro nei confratelli bruciati un orrendo crimine ed iniziarono a considerare il Papa un anticristo. Si ricostituì una unità e lo stesso generale dell’Ordine, Michele da Cesena dichiarò che rispondeva alla dottrina della Chiesa affermare la povertà di Cristo. Giovanni XXII intervenne immediatamente nel 1323 per dichiarare eretica tale asserzione con una prima decretale Cum inter nonnullos,e con altre due successive decretali (il 1323 è anche l’anno in cui l’assassino inquisitore Bernardo Gui pubblicò il suo Manuale dell’Inquisitore al quale nel 1376 seguirà il più perfezionato Manuale dell’Inquisizione di Nicolau Eymerich;  nel 1326 invece con la bolla Super illius specula, il Papa equiparò la stregoneria all’eresia ed autorizzò la tortura contro i sospetti di stregoneria). Si rifletta un attimo sulle bestialità papali ma soprattutto sul fatto che queste cose erano idiozie in libertà senza alcun riferimento da testi sacri o da qualunque teologia per i poveri di spirito. Andò anche oltre questo Papa perché biasimò se stesso per aver canonizzato Tommaso d’Aquino (1323) che era in un Ordine, il domenicano, che celebrava moderatamente la povertà.

        Intanto a Roma era guerra per bande tra le due famiglie nobili del momento, gli Orsini ed i Colonna con assassinii degli Orsini in agguati e sgozzamenti di bambini dei Colonna per vendetta. Alle spedizioni punitive partecipò attivamente anche il cardinale Giovanni Orsini , legato pontificio in Toscana, con la distruzione della rocca dei Colonna. Il Papa lo richiamò ai suoi doveri pastorali (sic !). Scrive Gregorovius, raccontando il seguito:

In questo stesso periodo Giovanni XXII dovette tollerare una situazione ben più grave di quella determinata dagli incessanti tumulti di Roma. Lo stato della Chiesa era quasi tutto in aperta ribellione, e le città della Romagna rovesciarono il giogo della Chiesa esasperate dai soprusi dei suoi rettori e castellani. Durante il periodo avignonese i papi mandarono nelle province dello Stato ecclesiastico reggenti quasi sempre guasconi e francesi, per lo più loro parenti. Non conoscendo la natura degli Italiani e non amando quella terra e quel popolo, inadatti spesso all’importante ufficio cui erano preposti, questi rettori, come i proconsoli dell’antica Roma, si servivano della loro carica per estorcere ricchezze e per far sentire il peso della loro potenza. Il nipote di Giovanni, Bertrando del Poggetto, era riuscito a rendersi quasi del tutto indipendente nel lungo periodo in cui aveva governato Bologna. Gli Italiani odiavano questo arrogante straniero che tutti sospettavano fosse figlio del pontefice. Il Petrarca, che aborriva Giovanni XXII per le interminabili guerre che aveva scatenato in Italia, disse di lui che con Bertrando non aveva mandato un sacerdote ma un predone con le sue legioni, una specie di secondo Annibale. Infine il 17 marzo 1334 Bologna si sollevò al grido di: «Popolo! Popolo! Morte al legato e a quelli della Languedoc!». Chiunque parlasse francese fu passato per le armi; i palazzi della curia furono presi d’assalto e lo stesso legato fu assediato nella rocca che aveva appena terminato di costruire. Bertrando fu salvo grazie soltanto al contegno prudente tenuto dai Fiorentini, che accompagnarono il cardinale mentre fuggiva attraverso la regione insorta. La rocca di Bologna fu rasa al suolo fino all’ultima pietra; l’intera Romagna issò il vessillo della libertà e il legato che aveva compiuto tante violenze dovette ricomparire fuggiasco davanti al trono del papa.

        Sull’altro fronte, quello del Sacro Romano Impero, Ludovico il Bavaro vinse la contesa e poiché aveva intenzione di scendere in Italia per riprendere la potestà che gli spettava, venne scomunicato (1324). Ma Ludovico non era uno sprovveduto e due mesi dopo, nell’Appello di Sachsenhausen, accusò il Papa della stessa eresia di cui lo avevano accusato i frati Minori, cioè della sua presa di posizione nella disputa francescana sulla povertà e per abuso delle censure ecclesiastiche a fini personali. E non era un pretesto qualsiasi. Il fatto è che questo Papa era ignorantissimo anche nelle cose di Chiesa riuscendo a sostenere nelle sue prediche (Ognissanti 1331) che la visione beatifica, il vedere cioè direttamente Dio, per coloro che sono morti nella sua grazia, non avviene subito dopo la morte ma al momento del Giudizio Universale, nel frattempo avrebbero dormito godendo del conforto di Cristo sotto l’altare. Questa sciocchezza fu subito (1333) condannata dai teologi dell’Università di Parigi che dopo estenuanti discussioni addivennero al fatto che la immensa e meravigliosa visione di Dio ai morti in sua grazia è a loro concessa immediatamente. Chiesero un Concilio per discutere della questione per il 1334 ma qui Dio dette una mano a questo Papa criminale, sciocco ed ignorante che morì prima di essere svergognato pubblicamente.

        Tornando alle vicende dello scontro con Ludovico il Bavaro vi sono alcuni eventi che occorre ricordare. Già ho detto che Giovanni fu eletto e restò in Francia e che questa posizione contrastava con l’essere uno dei successori di Pietro come vescovo di Roma. Questa accusa veniva rivolta a tanto Papa da molte parti ed egli ne era al corrente. Per rispondere ad essa egli riuscì ad avere la sfrontatezza di pubblicare un documento, Defensor pacis, in cui si sostenevano le cose che molti storici sostengono ma non la Chiesa di Roma e cioè che Pietro non era mai stato a Roma e che quindi il primato di Roma a seguito di ciò non esisteva e che comunque il tutto non era una imposizione divina. Ludovico trasse subito la conclusione che il Papa non aveva allora alcun diritto su Roma e quindi scese in Italia per prendere possesso della città (1327) tra l’entusiasmo dei ghibellini. I ghibellini romani riuscirono comunque a cacciare i guelfi seguaci di Roberto d’Angiò da Roma prima dell’arrivo di Ludovico. In città fu eletto senatore ed incoronato Imperatore.

        Se la cosa non fosse ovvia chiederei al lettore come reagì Giovanni. Infatti riaffermò la scomunica di Ludovico e lanciò un interdetto a tutti i suoi sostenitori, compresi i francescani che lo avevano seguito verso Roma, come Marsilio da Padova, Jean de Jandun e Guglielmo di Ockham (il francescano investigatore del libro Il nome della Rosa di Umberto Eco) che naturalmente furono scomunicati.

        Ludovico tentò allora di mettere su un processo per eresia contro Giovanni, dichiarandolo decaduto e facendo eleggere un nuovo Papa a Roma. In realtà, date le norme vigenti, quella elezione era illegale anche se convalidata dall’Imperatore Ludovico (incoronato illegalmente non dal Papa) e quel Papa, Niccolò V (1328-1333) era un antipapa, anche perché si trattava di persona più squalificata di un Papa. Dopo essere stato eletto Niccolò incoronò di nuovo come Imperatore Ludovico. Passò del tutto inosservato e riconosciuto solo dai Minori e da tutti gli scomunicati da Giovanni. Tanto fu insignificante che nel 1330 si recò da Giovanni chiedendogli il perdono che ottenne. Anche Ludovico risultò persona da poco che per ringraziare i romani aumentò le tasse in modo incredibile tanto che sentì di non essere più persona grata e se ne tornò in Germania (1329) lasciando di nuovo il campo a Roberto d’Angiò, con Roma che si sottomise di nuovo al Papa. Scrive Gregorovius su questo Papa:

Il 4 dicembre 1334 Giovanni XXII moriva ad Avignone, all’età di novanta anni. Aveva passato il lungo periodo del suo governo senza perseguire altro scopo che quello di accumulare denaro e, animato da un astio e da un desiderio di dominio assai poco cristiani aveva seminato in tutto il mondo la guerra. L’immagine di quel vecchio assiso sul trono dei papi ispira ripugnanza e disgusto. La sua indole litigiosa, la sua intemperanza e la sua meschinità trascinarono l’impero tedesco in una pericolosissima lotta contro il papato e produssero un nuovo scisma in seno alla Chiesa. Ad onta degli intrighi di cui aveva riempito il mondo, egli dedicava i giorni e le notti a gratuite meditazioni su argomenti privi di qualsiasi interesse. […] Del resto al principio da lui sostenuto che Cristo e gli apostoli non possedessero beni terreni, Giovanni diede una conferma pratica col suo stesso operato; e infatti questo Mida di Avignone, benché vecchio e morigerato, fu uno dei papi più ricchi della storia. Nel suo tesoro si trovarono diciotto milioni di fiorini d’oro e sette milioni in oggetti preziosi, tesori che la smisurata avarizia aveva estorto con i mezzi riprovevoli nuovamente introdotti delle annate e delle riserve di tutte le cariche ecclesiastiche della cristianità.

        In definitiva Giovanni risultò un Papa indegno sotto ogni profilo. Manca dire che fu un nepotista impenitente che estese il nepotismo dai parenti ai compaesani, estremamente avido tanto da inventare il sistema delle commende, l’affidamento dei redditi di un’abbazia ad un “commendatario”, che poteva essere un ecclesiastico od anche un laico. Agli inizi, era il modo di concedere a vescovi, che risultavano cacciati dalla loro sede episcopale a causa di invasioni o di guerre, di mantenere il proprio tenore di vita senza tuttavia dover abbracciare lo stato monastico. Questo nelle intenzioni proclamate ma nella realtà vi fu una degenerazione grave dell’istituto che divenne un vero e proprio mercimonio che spogliò le chiese ed i monasteri di ogni bene. Come conseguenza vi fu il fiorire della burocrazia pontificia che poi passò inevitabilmente all’amministrazione civile.

        Seguì un altro francese scialbo, Benedetto XII (1334-1342). Di fronte alle richieste dei romani di ritornare alla sede di Roma provò ad accennare un sì ma fu subito redarguito dal Re di Francia, Filippo VI, che gli ricordò che la sede papale era in Francia. Provò anche a tentare una riappacificazione con Ludovico il Bavaro ma ancora Filippo VI lo impedì (in compenso, sotto il suo pontificato, la Francia si infilò nel 1337 nella Guerra dei Cento Anni con l’Inghilterra). Per parte sua lo scomunicato Ludovico emanò nel 1338 una costituzione, Licet juris, con la quale affermava che l’Imperatore non può essere giudicato dal Papa in quanto il suo potere emana direttamente da Dio. Ma l’audacia si spinse anche più in là perché egli si assunse il compito di sciogliere un vincolo matrimoniale creando profondo sconcerto perché si entrava in ambito di sacramenti. Il problema era grande e seguì con il successivo pontefice, ancora un francese, Clemente VI (1342-1352) che iniziò con l’affermare che Avignone era la sede papale (tanto che arrivò a comprarla dalla Regina Giovanna di Napoli che ne era la proprietaria feudale) e che non pensava minimamente a Roma. Per dare maggior forza a ciò fece ampliare i palazzi papali arricchendoli e rendendoli fastosi e con una corte intorno alla quale gravitavano oltre 4000 persone tra ambasciatori, trafficanti internazionali, commercianti, banchieri. A fianco di costoro prosperavano alchimisti, avventurieri, contrabbandieri, ricettatori, ladri e prostitute. Tutto ciò mostrava quale centro di potere economico era la Chiesa che apertamente iniziava a partecipare in ogni traffico anche di dubbia origine e moralità. Ed il Papa era corrotto ed amorale. Aveva diversi figli ed amanti che prendevasno parte alle sue indulgenze plenarie speciali che distribuiva dal suo letto diventato un altare. E Petrarca, che non era tenero con i corrotti, dalle chiare, fresche et dolci acque di Avignone scrisse che la Chiesa era diventata una nuova Babilonia (Rime, CXIV, 1-4). Ed il nostro grande poeta scriveva ancora, in riferimento alle splendide dimore papali: “Pessimo sempre … mi parve quel luogo … per l’accolta che ivi si fece delle nequizie e delle lordure del mondo intero. Sebbene, infatti, per non parlar del resto, mai non vi trovassero albergo la fede e la carità, e di quel luogo ciò dir si possa che già fu detto di Annibale, nulla essere in esso di vero, nulla di sacro, non timore di Dio, non santità dei giuramenti, non religione” (Seniles, X, 2).

        La questione di Roma restava in sospeso anche se le scelte provvisorie ebbero successo. Ad amministrare la città fu inviato Cola di Rienzo che merita una breve digressione.

        Di umile famiglia Cola di Rienzo fu ottimo oratore che riuscì a farsi strada come tribuno e rappresentante popolare. Studiò e divenne notaio ed i Romani lo inviarono come ambasciatore del governo popolare ad Avignone presso la corte del Papa Clemente. Era persona gradevole che riuscì ad entrare in confidenza con il Papa al quale raccontò dei crimini che la nobiltà romana (all’epoca soprattutto Colonna ed Orsini) compiva quotidianamente (lli baroni de Roma so derobatori de strada: essi consiento li omicidii, le robbarie, li adulterii, onne male; essi voco che la loro citate iaccia desolata). Questi racconti fecero inferocire il cardinale Giovanni Colonna dove egli comunque tornò (1344) con un incarico di notaio da svolgere per i beni della Chiesa. L’incarico gli dava facoltà di parlare nel Senato di Roma dove egli denunciò a più riprese (anche con affreschi che servivano per comunicare con il popolo analfabeta) le condizioni miserande dei cittadini, la decadenza di Roma, lo strapotere e le violenze dei nobili. Con azioni successive egli tentò di educare ad una gestione repubblicana della città preparando un programma di governo che prevedeva: una dura legge che reprimesse, mediante milizie di rione, le violenze private; il sostegno economico ed alimentare per i cittadini indigenti; un nuovo modo di rapportarsi con i nobili e le città vicine che avrebbero dovuto vigilare sulla delinquenza e avrebbero dovuto destinare terre ai cittadini bisognosi. Ognuno può immaginare un programma di questo genere che tipo di accoglienza ebbe tra i potenti. Il popolo ne fu entusiasta ed affidò a Cola di Rienzo, affiancato da un delegato del Papa, la signoria della città. Uno dei banditi della nobiltà, Stefano Colonna, scese a Roma con l’intenzione di “gettare Cola di Rienzo dalle finestre del Campidoglio“. Il popolo richiamato dalle campane accorse in difesa del proprio rappresentante mettendo in fuga il Colonna. Cola si fece nominare Tribuno del Popolo e prese in mano la situazione ordinando ai nobili di lasciare la città che assediavano sui ponti. Fece quindi giustiziare tutti gli sgherri e provocatori dei nobili trovati in città. Infine impose, in accordo con il delegato papale, il suo programma. I nobili, talmente sciocchi e presuntuosi non riuscirono ad accordarsi sul come sbarazzarsi di questo indesiderato. Alla fine ognuno per suo conto (Stefano Colonna, Rinaldo Orsini, Giovanni Colonna, la famiglia Giordano, Francesco Savelli) andò a giurare fedeltà al Tribuno ed ai Romani. Scrive Wikipedia che

Cominciò allora un breve periodo in cui sembrò che Roma, partendo dalla memoria dell’antica grandezza, potesse sviluppare una civiltà comunale: le classi che allora rappresentavano la modernità e altrove conducevano le città fuori dal Medioevo – giudici, notai, mercanti – vennero a giurare fedeltà al nuovo Comune; in Campidoglio si amministrava una giustizia equa, severa contro i baroni ma anche contro i popolani che avessero approfittato del proprio ufficio; i vessatori fuggivano dalla città.

L’Anonimo romano ne riferisce, nella sua Cronica scritta poco dopo i fatti, con commosso entusiasmo:

 « Allora le selve se comenzaro ad alegrare, perché in esse non se trovava latrone. Allora li vuovi [i buoi] comenzaro ad arare. Li pellegrini comenzaro a fare loro cerca per le santuarie. Li mercatanti comenzaro a spessiare li procacci e camini [moltiplicare gli affari e i viaggi]. […] In questo tiempo paura e timore assalìo li tiranni. La bona iente, como liberata da servitute, se alegrava. »
  

Tutta Roma, compresa la maggior parte dei nobili, mostrava a Cola grande rispetto e attaccamento e pagava al Comune senza protestare i tributi prima prelevati dai signori feudali.

Non mancarono guerre, ai pochi che non volevano assoggettarsi come il signore di Viterbo, con i quali Cola, forte della propria armata e della propria fama, concluse una pace equa.

Cola intraprese anche una sua politica estera, mandando messi per l’Italia a città e nobili, all’Imperatore e al Papa, ad annunciare la nuova Roma. I messi venivano onorati ed assai bene accolti, ambascerie arrivavano da tutta l’Italia centrale e fino da Venezia, da Milano e dalla Puglia, e c’era chi veniva a Roma a chiedergli giustizia fin da Perugia e dalla Toscana.

Poi l’incantesimo si ruppe: in Cola il sentimento della grandezza, di Roma e sua propria, cominciò a sconfinare nel delirio. Si proclamò cavaliere, nel battistero di San Giovanni, tra grandi festeggiamenti e proclamazioni (che cominciavano a suscitare resistenze e mormorii)”.

        Insomma, anche questa meteora cadde al suolo in modo indegno. Dopo alterne vicende che non meritano più attenzione ma che descrivono un Cola di Rienzo ubriacone, crudele, vendicativo e prepotente, lo troviamo l’ultimo giorno della sua vita, l’8 settembre 1354, mentre cercava di fuggire dal Campidoglio travestito da pezzente ed alterando la voce. Venne riconosciuto, smascherato e condotto in una sala per essere giudicato ma un popolano lo ammazzò con un coltello nel ventre. Anche gli altri si misero ad infierire su di lui già morto. Il cadavere fu trascinato per le vie di Roma e appeso davanti alla casa dei Colonna per due giorni e poi fu bruciato e le ceneri furono disperse.

        Torniamo a Clemente VI che molto indirettamente entrava in questa storia e solo da quando Cola si fece incoronare cavaliere, cosa non gradita. Fu allora incaricato il vicario pontificio di denigrare Cola in ogni modo, di dichiararlo decaduto da ogni carica e di scomunicarlo (1348). Clemente si trovò di fronte ancora la questione dei rapporti con Ludovico il Bavaro e pensò di risolverla facendo eleggere (1346) da vari principi tedeschi un altro Imperatore nella persona di Carlo di Moravia con il nome dei Carlo IV. L’operazione riuscì perché Ludovico morì l’anno successivo e tutti riconobbero Carlo IV come Imperatore. L’avvenimento ebbe la conseguenza che tutti i teologi avversari del Papa, tra cui Guglielmo di Ockham, si sottomisero a Carlo e quindi a Clemente.

        Ultimo evento di grande importanza che vide Clemente come attore fu un nuovo Anno Santo bandito per il 1350. Sembrava troppo aspettare i 100 anni che erano stati previsti da Bonifacio VIII per indire nuovi giubilei, troppi soldi erano allora entrati per rinunciare a questo enorme reddito. Questa volta vi fu una organizzazione speciale per carpire soldi tramite le indulgenze, per ricomunicare gli scomunicati, per essere perdonati da Dio. Pagando tariffe, invece che offrendo quella che una volta era una elemosina spontanea, si poteva rimettere ogni peccato. Il malloppo confluiva nelle casse del clero amministrate da due cardinali francesi e dal vicario del Papa a Roma il cardinale Annibaldo Gaetani. Era quest’ultimo l’anima del mercimonio e portò i pellegrini all’esasperazione tanto che uno di loro attentò alla sua vita. Il vicario del Papa scomunicò praticamente l’intera città non badando nemmeno al fatto che quello era un Anno Santo. La bestialità fu corretta da Clemente che trasferì immediatamente Annibaldo a Napoli dove non arrivò mai perché qualche sant’uomo lo avvelenò durante il viaggio. Due anni dopo anche questo Papa gaudente e spendaccione che si aggirava in una corte piena di sfarzi e lussi, antesignana di quelle rinascimentali, lasciava questo mondo. Come i suoi simili fu persona avida di denaro. Fece del nepotismo una sua bandiera arricchendo ogni suo parente anche se giovane e dissoluto con cariche ecclesiastiche e cardinalizie. A lui successe ancora un francese, Papa Innocenzo VI (1352-1362) che iniziò da degno Papa.

        In sede di conclave si era deciso che i cardinali dovessero essere al massimo 20, che i redditi della Curia fossero suddivisi in parti uguali tra Papa e cardinali (questo doveva essere scritto in qualche Vangelo scomparso), che il Papa non poteva nominare suoi parenti  in cariche ecclesiastiche di rilievo.. Esattamente l’anno dopo Innocenzo emanò la Bolla Sollicitudo pastoralis con la quale dichiarava nullo ogni accordo precedente e riaffermava la piena e totale potestà del Papa in ogni scelta della Chiesa. In compenso sembrò assumere uno spirito severo ed una condotta intransigente che, inizialmente, lo fecero apprezzare. La Curia di Avignone fu sfoltita di molti cerca prebende, molte investiture di Clemente furono revocate e fu fatto obbligo ai prelati di dimorare nelle loro sedi di competenza. Per il resto e con il tempo il nepotismo e la corruzione continuarono senza freni a fronte di una recrudescenza dell’Inquisizione contro gli Spirituali francescani che continuavano ad ardere sui roghi d’Europa. Anche Petrarca che aveva sperato in lui, rinunciò per completo disaccordo al posto di segretario particolare che lo stesso Innocenzo gli aveva offerto.

        Tra i meriti di Innocenzo vi fu quello di tentare di rimettere ordine nella completa decadenza e nella gran confusione che i nobili Orsini, Colonna e Savelli, dopo l’esperienza di Cola di Rienzo, avevano provocato. Individuò in un vescovo che aveva operato nella corte di Alfonso XI di Castiglia e che si era rifugiato ad Avignone perché aveva sollecitato le ire del successore di Alfonso, Pedro el Cruel, la persona che gli avrebbe potuto risolvere i problemi a Roma ed in Italia. Si trattava del vescovo Egidio Albornoz che, per i fini di Innocenzo, fu fatto cardinale (1350). Costui era stato un militare, un diplomatico una persona colta che sapeva di diritto. Non conosceva Roma ed a tal fine gli affiancò Cola di Rienzo che, al momento, era esule ad Avignone. Nel 1353 ebbe pieni poteri dal Papa e, con un esercito mercenario entrò in Italia. Dopo accordi con vari vescovi e signori locali che riportò all’ubbidienza papale, si scontrò con il Prefetto di Roma, Giovanni di Vico, sconfiggendolo ad Orvieto nel 1354. Ciò riportò Roma, le città e le terre limitrofe sotto la diretta potestà papale. Fu qui che Albornoz fece entrare Cola di Rienzo a Roma nominandolo senatore tra una rinnovata esultanza popolare che durò poco. Presto Cola, che pure servì ad Albornoz per fare approvare al popolo una costituzione che toglieva il potere ai nobili cedendolo al popolo stesso, fu ammazzato da uno dei suoi popolani come ho già detto in un disegno di discredito guidato dallo stesso Albornoz per togliere di mezzo un personaggio comunque scomodo.

        Roma era tornata sotto il controllo del Papa e, con Roma, fu possibile riordinare varie cose, tra cui l’incoronazione dell’Imperatore Carlo IV (1355) ultimo dei capetingi, anche se, con questo Imperatore si chiudeva l’epoca dell’Imperatore dei Romani in quanto Carlo stesso in un documento, la Bolla d’oro, annullava il diritto del Papa a partecipare all’incoronazione dell’Imperatore. Intanto la campagna di Albornoz per riportare tutte le terre italiane sotto il dominio della Chiesa continuò e, a parte complicazioni con Forlì, il compito fu esaurito nel 1359. Albornoz comunque proseguì con un grandioso progetto di militarizzazione del territorio, facendo costruire molte fortezze che dalla Romagna, passando per Marche ed Umbria, rendessero più difendibile il territorio fino a Roma. Quando nel 1362 Innocenzo morì e fu eletto Papa il francese Urbano V (1362-1370), Albornoz era ancora impegnato nell’assoggettare Milano, governato da Bernabò Visconti, alla Chiesa. La cosa risultò complessa ed il nuovo Papa aveva fretta perché nella sua mente si agitava il desiderio di lanciare una nuova Crociata contro i Turchi. Si addivenne così ad una pace frettolosa (1364) che convenne di più al Visconti che alla Chiesa: Visconti lasciava Bologna in potere della Chiesa in cambio di una favolosa somma di denaro. L’insieme dei successi della Chiesa in Italia fu comunque opera di Albornoz ma Urbano ascoltò i suoi denigratori che l’accusavano di aver rubato beni della Chiesa e in un primo tempo (finché si convinse della falsità delle accuse) lo allontanò da posti di potere. Con i successi di Albornoz fu possibile pensare ad un ritorno del Papa a Roma. Restava il grave problema, non si sorrida però, sollevato dal Papa e dalla Curia di Avignone. A Roma non sarebbe stato possibile gustare gli splendidi vini di Borgogna e di Beaune. Ancora Petrarca che da sempre richiedeva la presenza del papa a Roma scrisse a quella Curia dicendo che il Tevere era navigabile e per quella via potevano arrivare a Roma tutte le botti di vino desiderate (ed ancora questo per maggiore gloria di Gesù, in particolare per ricordarlo alticciamente nell’Eucarestia). Da ultimo occorreva vincere la forte resistenza del Re di Francia, Carlo V, che non voleva perdere quella potenza a suo lato. Per convincere Urbano inviò il grande pensatore (e matematico) Nicola Oresme, che era stato suo maestro. Oresme qui fece una meschina figura rivolgendo al Papa un’orazione che sosteneva essere Avignone il centro del mondo, con applausi dei cardinali tutti. Finalmente, nel 1367, Urbano V prese la via di Roma con una flotta di 23 galere, offerte dalla Regina di Napoli, dai Veneziani, dai Pisani e dai Genovesi, che mossero da Marsiglia. Era un vero spostamento faraonico di una corte di potenti (solo tre cardinali restarono in Francia) che sbarcò a Corneto (la odierna Tarquinia) cittadina vicina Viterbo. Albornoz era ad attendere il Papa per accompagnarlo ma morì prima che il papa potesse entrare in Roma. La città era completamente distrutta ed in totale abbandono, piena di “ruderi e acquitrini … torri diroccate e case consunte dalle fiamme e da ogni sorta di devastazione” (Gregorovius). Iniziò il restauro delle Chiese e degli edifici del Vaticano ma la città non era di gradimento né dei cardinali francesi né del Papa. Secondo i cardinali gli italiani non erano capaci a nulla, neppure a cantare in chiesa dove sembravano belare come capre (chevroter). Vi era poi il vino che non era di gradimento dei santi palati, infatti poco dopo l’arrivo a Roma partì un ordine di un grande quantitativo di vino di pregiati vigneti di Francia: LX buttas vini de Belna et de Grurejo, et totidem vni de Neumaso vel de Lunello, pro uso hospitii nostri. Sommando a ciò il fatto che bande di delinquenti dominavano nel territorio riconquistato da Albornoz, che nessuno si proponeva come difensore della Chiesa (Carlo IV che era venuto in visita se ne era andato facendo orecchie da mercante), che all’appello per la nuova crociata nessuno aveva risposto, … nel 1370 Urbano tornò in Francia, appena in tempo per morire come Brigida di Svezia glia aveva profetizzato.

        Il Papa che seguì, in un conclave di cardinali  in gran maggioranza francesi, fu ancora un francese, il nipote di Clemente VI che l’augusto zio (ricordo però che i figli dei Papi erano chiamati nipoti anche se non so dire quale parentela si sia avuta davvero in questo caso) aveva innalzato alla porpora cardinalizia a 18 anni e che assunse il nome di Papa Gregorio XI (1370-1378). Iniziò subito con un vergognoso sciovinismo e nepotismo nominando solo cardinali francesi e suoi parenti. Seguì con l’annunciato progetto di riportare il papato a Roma subito frenato, oltre che dai cardinali per il solito problema del buon vino, dal Re di Francia che voleva utilizzare la sua mediazione per una pace la meno ingloriosa possibile con l’Inghilterra; continuò con l’altro progetto di una nuova Crociata; andò avanti con altri smacchi subiti dall’Imperatore Carlo IV; finì con il ricreare una situazione incontrollabile in Italia che dall’onesto e competente Albornoz era passata al cardinale de Cabassoles. Insomma un Papa corrotto ed incapace che ammazzava con fervore gli eretici: un criminale come gli altri. I provvedimenti che prese per l’Italia riguardarono, come no !, la scomunica dei fiorentini e l’invio di un esercito di mercenari della Bretagna al comando del sanguinario, corrotto e criminale cardinale Robert de Genevois (il futuro antipapa Clemente VII) che doveva annientare l’opposizione di Bologna per aprire la strada di Roma al Papa. Intanto una mediazione era tentata dall’ambasciatrice di Firenze ad Avignone, Caterina da Siena. Costei ebbe grandissimi meriti se non altro nel denunciare la corruzione della Chiesa, nell’invocare la necessità di una riforma e nel sollecitare il Papa a tornare a Roma, ma nello specifico della mediazione per Firenze, fallì. Partito da Avignone nel 1376 (con sei cardinali francesi che restarono), arrivò a Roma nel 1377 con uno Stato pontificio che era in completo subbuglio per un territorio lasciato per troppo tempo abbandonato nella mani di delinquenti, profittatori e gentaglia senza scrupoli ma anche di rivoltosi contro il potere autoritario, capace solo di esigere balzelli, della Chiesa. Naturalmente il boia criminale cardinale Robert si esercitò nelle più dure repressioni contro i rivoltosi riuscendo ad ammazzare in un sol colpo 4000 abitanti di Cesena. Anche Roma si sollevò ed il Papa temette per la sua augusta vita lasciando la città per la più sicura Anagni. Si tentò di realizzare un congresso a Sarzana per  mettere ordine nei possedimenti della Chiesa ma non se ne fece nulla per la morte del Papa che qualche giorno prima di morire aveva emanato una Bolla in cui si diceva che il Papa poteva essere eletto con i cardinali presenti senza dover aspettare coloro che si trovavano in altere sedi. Con questa Bolla si passò all’elezione del nuovo Papa senza i sei cardinali francesi restati ad Avignone. I cardinali restavano comunque in maggioranza francesi ma si convinsero per un italiano al sentire le urla che provenivano dalla città e le forti pressioni dei vari potentati locali reclamanti un Papa italiano. Fu eletto un italiano e, per l’ultima volta nella storia, un non partecipante al conclave, il vescovo di Bari Bartolomeo Prignano che assunse il nome di Papa Urbano VI (1378-1389). Le condizioni per questa elezione, lo stato di costrizione e paura dei cardinali elettori, avrebbero potuto essere impugnate per invalidare l’elezione medesima ma ciò non avvenne né a Roma né ad Avignone da dove arrivò l’ordine al plenipotenziario della città di consegnare le chiavi al  nuovo Papa.

LO SCISMA

        Poi, la vita lussuosa diradata mancò ad Avignone, gli stessi cardinali francesi in Italia si trovarono privi dei medesimi lussi francesi (e senza il buon vino), tanto che si arrivò a dichiarare nulla l’elezione di Urbano. Carlo IV sostenne Urbano ma il Re di Francia Carlo V e la Regina di Napoli si schierarono sciovinisticamente con i cardinali francesi. Senza scrupoli si passò all’elezione di un nuovo Papa, in realtà un antipapa, che era quel boia assassino del cardinale Robert, che assunse il nome di Clemente VII. Qui non si trattava di un antipapa qualunque di una famiglia nobile romana contro altra famiglia nobile ma di un antipapa tutto interno alla Chiesa che quindi definiva un vero e proprio scisma nella Chiesa (che si sarebbe chiuso nel 1415 con il Concilio di Costanza).

        Prima di prendere possesso della sua sede ad Avignone, Clemente, da boia qual era, tentò di impadronirsi di Roma con la forza ma neanche i boia riescono a sopraffare l’indignazione popolare. Clemente fu sconfitto a Marino (1379) e se ne andò dall’Italia che già aveva un Papa (due sarebbero stati tropi per qualunque Paese al mondo). Urbano restava ma era un Papa e doveva mantenere alto tale onore. Fece strangolare Giovanna di Napoli che era l’unica in Italia che sosteneva lo scisma e cercò, trovandolo, il sostegno di un emergente nella politica europea, Carlo di Durazzo Re d’Ungheria che presto divenne Carlo III di Napoli. Quest’ultimo riuscì a fermare Luigi d’Angiò, erede al trono di Napoli, che comunque moriva nel 1384. Ma la storia si ripeteva e per noi è ormai quasi noiosa: Carlo III non volle dipendere dal Papa che fu quasi recluso a Napoli. Appena riuscì a liberarsi per un poco riunì la Curia ed elesse addirittura 29 nuovi cardinali che, comunque, si indignarono contro l’assolutismo del personaggio, che voleva tutto fare e tutto decidere, arrivando a complottare contro di lui con Carlo III. Vi fu chi tentò di assassinarlo ma il grande Papa venne a conoscenza del mancato tentativo facendo arrestare e poi uccidere vari cardinali, scomunicando Carlo III ed interdicendo il suo Regno (tutti scomunicati senza più eventi religiosi e sacramenti). Insomma un pazzo maniaco criminale al potere che cercò aiuti mercenari, li pagò profumatamente restando loro ostaggio con la Curia che lo aveva abbandonato. Era solo nella sua follia ed allora ebbe un’idea. Cristo era morto a 33 anni (a cosa non può essere utile la numerologia ?) e quindi i giubilei si debbono fare ogni 33 anni. Il prossimo doveva quindi avvenire nel 1390. Dio tolse il disturbo di questo Papa nel 1389 al quale successe un altro campione, Papa Bonifacio IX (1389-1404) con Clemente VII che si rodeva il fegato per non essere riconosciuto il suo diritto al soglio di Pietro che, in quanto boia certificato, credeva di avere il diritto a ricoprire. Il nuovo Papa celebrò l’Anno Santo del 1390 e in modo molto furbo fece effettuare anche il Giubileo del 1400 con l’evidente motivo che le ultime regole sugli anni santi non toglievano le vecchie relativa ad ogni scadenza centenaria. Ed un Papa che si fa un paio di anni santi è un Papa che diventa super ricco. Comunque l’indegno Papa (ma serve ancora un qualche aggettivo per una genìa di banditi sempre uguali ?) non era mai sazio di denaro anche perché aveva una famiglia di succhiatori di sangue, tra madre, fratelli e nipoti (figli ?) a cui comunque assegnò ogni possibile beneficio ecclesiastico. M a questo non bastò. Per esaudire i desideri delle sanguisughe (Rendina) dovette diventare un simoniaco impenitente che vendeva cariche ed indulgenze al miglior offerente. I rapporti con i Romani oscillarono con il benessere della città. Ad ogni Anno Santo era amato (anche se i pellegrini portarono una pestilenza), salvo i tentativi di rivolta negli intervalli. Intervalli nei quali, dopo la morte di Clemente VII, fu eletto il nuovo antipapa nell’aragonese Pedro de Luna che assunse il nome di Benedetto XIII (1394-1423). Altro bandito e delinquente simoniaco denunciato pubblicamente anche per le esose tasse che aveva imposto all’Università di Parigi, Università che rifiutò obbedienza a tale antipapa, non dandola comunque al Papa. Il Re si schierò con l’Università,  anche perché non gradiva ad Avignone un Papa (leggi antipapa) aragonese, ed assediò Avignone mentre tentava la conciliazione con Bonifacio IX ( Papa legittimo). Quest’ultimo tentò un riavvicinamento all’Impero di Germania ma il tutto degenerò in politiche indegne e fallimentari che denigrarono sia Papa che antipapa fino alla morte di Bonifacio nel 1404 che le cronache descrivono ancora come Papa avido e simoniaco.

        Tutto come già noto e nelle migliori tradizioni papali per il successore, Papa Innocenzo VII (1404-1406): tumulti, violenze, buone intenzioni, nepotismo e simonia. A questo Papa seguì Gregorio XII (1406-1415), altro italiano di Venezia che, come Papa, non aveva certo da invidiare crimini ai francesi. Era un accanito giocatore che aveva enormi debiti di gioco. Appena eletto fece impegnare la tiara d’oro per pagarne in parte. Faceva sapere al popolo di Roma che intendeva por fine allo scisma ma nel frattempo era in trattative con Ladislao, Re di Napoli, per vendergli tutti i beni della Chiesa che non fossero legati al suolo. Anche i suoi cardinali lo abbandonarono facendosi accogliere alla corte di Benedetto XIII. L’insieme di cardinali ed anticardinali si riunì a Pisa nel 1309 e decise che ambedue i Papi erano deposti in quanto scismatici ed eretici impenitenti e spergiuri. La sede papale fu dichiarata vacante e riempita con l’augusto deretano di Alessandro V (1409-1410) che, a questo punto, doveva essere un antipapa ma, essendo questa funzione già occupata da Benedetto XIII, si poteva forse chiamare antiantipapa. I vicari di Cristo, a questo punto erano tre e, se si fosse insistito, potevano crescere. Un vero bordello di nome e di fatto per maggior gloria di Gesù. E poiché Alessandro decise di morire l’anno seguente, ad esso successe un altro antiantipapa, Giovanni XXIII (1410-1415). Il bordello fu rimesso al Concilio di Costanza (1414-1418) per una qualche soluzione. Gregorio abdicò nel 1415. Benedetto tentò di resistere scappando finché non fu dichiarato decaduto dal Concilio nel 1417 come eretico e scismatico. Altrettanto fece Giovanni che durò una sola settimana. Poi, su enormi pressioni esercitate da ogni potere oltreché dall’interno della Chiesa, si ritornò alla normalità criminale. Non si perdeva nulla, tra Papi, antipapi ed antiantipapi, la gara era a chi fosse maggior criminale. Alla successione di tanti vicari di Cristo fu chiamato, nello stesso Concilio di Costanza, l’italiano Papa Martino V (1417-1431) che metteva fine allo Scisma  di Occidente ma nascondeva in sé molte insidie essendo il rampollo Oddone della nobiltà romana dei Colonna. Eletto il Papa il Concilio si occupò dei problemi finanziari della Chiesa che, dopo anni di sperperi e per il mantenimento di tre Papi, richiedevano molti introiti. Come sempre gli sperperi dei potenti vengono fatti pagare ai poveracci che, con tre concordati per tre diverse zone geografiche (l’Inghilterra; la Spagna, l’Italia e la Francia; la Germania con vari Paesi dell’Est e scandinavi), si videro aumentare le tasse. Si stabilirono nuove norme di rapporto tra Stati e Chiesa, sulla composizione del collegio dei cardinali e si decise che in fatto di dogmi era la sola Chiesa a poter dettare legge. E la Chiesa riassunse il suo volto più manifestamente criminale perseguitando con i roghi ogni eretico. Seguiamo alcune delle ultime tappe criminali.

JAN HUS

        Nel 1375 in Inghilterra il teologo dell’Università di Oxford John Wycliffe aveva dato vita al movimento cristiano dei Lollardi (nato nel XIV secolo ad Anversa  e derivato dagli eretici beghini) che si intrecciava con movimenti sociali di rivolta contadina. Secondo il teologo inglese era solo la pietà del sacerdote che gli dava l’autorità di impartire i sacramenti e quindi chiunque avesse pietà del prossimo poteva farlo. Inoltre anche i Lollardi credevano che l’autorità fosse dei Vangeli e non della Chiesa, con la conseguenza che la tasse ecclesiastiche erano un furto alla povera gente e che, l contrario, la Chiesa doveva distribuire i suoi beni ai poveri. Infine avevano problemi con il dogma della transustanziazione. Nel 1415 le idee di Wycliffe che era morto nel 1384, furono condannate come eretiche ed il suo corpo fu riesumato per essere messo al rogo. La Spagna stava completando la Reconquista e sostituiva la tolleranza araba con la peggiore intolleranza cristiana. Le idee di  Wycliffe ebbero un grosso impatto sociale con la liberazione dei carcerati, l’attacco cruento a preti, frati, magistrati, finanzieri, nobili. Il 13 giugno 1381 fu presa Londra e furono giustiziati l’arcivescovo di Canterbury ed il priore di San Giovanni di Gerusalemme. Le teste di costoro furono infilate in alti pali e portate in processione-trionfo per le vie della città. A Barcellona, nel 1391, i cristiani massacrarono 4000 persone in parte conversos (dall’Islam) ed in parte ebrei. Nel 1397 a Graz (Austria) furono bruciati 100 valdesi. Nel 1412 a Praga fu scomunicato Jan Hus, ritenuto un  seguace di Wycliffe che abbandonò la città. E’ utile soffermarsi su Hus perché si tratta di una storia molto istruttiva.

        Il Concilio di Costanza condannò, oltre a Wycliffe anche Jan Hus (1371-1415), leader del movimento ereticale e rivoluzionario degli hussiti, che era ritenuto un seguace di Wyckliffe e che comunque aveva posizioni analoghe: il potere non può appartenere a chi non è in stato di grazia. Da notare che prima di quella del Concilio di Costanza, Hus fu condannato dai teologi domenicani dell’Università di Parigi. Hus aveva fatto pubblica richiesta al potere della Chiesa di redistribuire le proprietà con l’attuazione di alcune riforme a sostegno delle moltitudini diseredate ed affamate a fronte, sempre, delle strabordanti ed ostentate ricchezze di clero e nobili. A questo, Hus aggiungeva una condanna radicale della vergogna della vendita delle indulgenze. L’Inquisizione lo catturò e con uno spettacolare processo lo condannò al rogo che, per maggior gloria della Chiesa, lo arse a Costanza davanti la sede del Concilio e durante il suo svolgimento (1415). Questo atto di crudele imperio scatenò rivolte in tutta la Boemia, rivolte che durarono per gran parte del XV secolo.        

        Le posizioni di Hus sono così riportate da Deschner [1]:

Hus, conosciuto con il nome di “evangelicus doctor”, non fa che richiamare alla memoria, senza posa, la Bibbia. Lo fa, per esempio, con parole come “Per niente avete ricevuto, per niente quindi darete”. Oppure rievocando le parole di Matteo 19,21 “Se vuoi essere perfetto, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, ed avrai un tesoro nei cieli …”. Ma come stavano le cose, nella realtà? Hus lo dice chiaro e tondo: “Si paga per la confessione, per la messa, per i sacramenti, per l’indulgenza, per la benedizione, per la sepoltura, per le preghiere. Neanche l’ultimissima monetina, che la nonnina si è nascosta in un fazzoletto, rimane alla poveretta. Gliela invola il parroco rapace … “. Hus bolla i canonici, marchia quei “pigri accoltellatori” che non vedono l’ora che finisca la messa per precipitarsi nelle osterie, per darsi alle danze, “come bestie selvatiche” dietro a mammona, all’usura, alla fornicazione, alle gozzoviglie – ecco, sono costoro “i peggiori nemici di nostro Signore Gesù Cristo”.
Hus stigmatizza i lucrativi affari che si fanno con le reliquie portentose, flagella il “male” dei monaci mendicanti, che dissanguano il popolo “con presunti miracoli”, con “mendaci miraggi”, mettendo in vendita la terra di cui è impastato Adamo, la paglia della stalla di Betlemme, il letame dell’asino, l’acqua del Giordano, la manna del deserto, i peli della pelliccia del Battista, i peli della barba di Gesù, i riccioli della vergine Maria, il cerume delle sue orecchie, il suo latte. Oppure quelli che spillano denari con le tre ostie insanguinate in Wilsnack (Havelland), dove i pellegrini sciamano a migliaia dall’Ungheria alla Svezia e alla Norvegia, anche se è dimostrato che si tratta di truffe e raggiri, “nient’altro che impostura”.
Hus fa propaganda contro vescovi e prelati, “i signori del demonio” e i loro immensi averi. “Possano costoro dimostrare dove Cristo il Signore li ha mai chiamati a possedere e regnare su tanti patrimoni!”. Ma è sicuro che “là dove una chiesa non ha beni, non vi si trova un solo prete”.
Proprio la critica al patrimonio mondano e ai diritti di egemonia della chiesa è quella che più dispiace all’arcivescovo. Ed è comprensibile. E non meno gli dispiace la crescente predilezione per John Wicklef.  Del quale, nel 1406, mette al bando le dottrine. Nel 1408 – l’anno in cui si effettua il primo attacco documentato ad Hus, precisamente ad opera del clero parrocchiale di Praga, che si vede palesemente minacciato da Hus nella sua materiale esistenza – proprio nel 1408 l’arcivescovo ordina la consegna degli scritti di Wicklef e li fa bruciare il 16 luglio 1410 nel cortile arcivescovile, alla presenza di molti preti, contrariamente ad un ordine reale di proroga. La cerimonia fu accompagnata da un Tedeum e tutte le campane suonarono come per i defunti. Due giorni dopo Hus venne messo al bando con i suoi compagni e la scomunica colpì anche chiunque non avesse consegnato le opere di Wicklef.
A questa azione di annientamento seguirono a maggior ragione lacerazioni interne. I seguaci di Hus vennero frustati sotto una volta della corte arcivescovile, ma non mancarono sevizie e maltrattamenti anche per gli avversari di Hus. Anche all’interno delle chiese avvennero scenate imbarazzanti, a dir poco. Con le spade sguainate ci si avventava su un predicatore, fautore di questo o quello schieramento, e i chierici fuggivano a frotte dagli altari, perfino nel bel mezzo alla messa, come toccò una volta all’arcivescovo, circondato da quaranta sacerdoti.
Senza comprendere appieno la situazione, poiché di massima era ottimista, Hus si appellò al papa contro la bruciatura dei libri e il divieto di predicazione. E se nel 1405, già Innocenzo VII aveva incoraggiato l’intervento contro la diffusione della dottrina di Wicklef in Boemia, ora Giovanni XXIII (che affidò il processo ad Hus a mani diverse, anche alle proprie) raccomandò attraverso il cardinale Oddo Colonna un più incisivo procedere da parte dell’arcivescovo in Praga, se necessario con l’aiuto del braccio secolare, il che voleva dire l’uso della forza; in caso contrario lo stesso arcivescovo è minacciato di scomunica. 
Ma il metropolita, un docile servitore del suo padrone, non tardò a ribadire e ad inasprire la scomunica di Hus. E questo, tra l’altro, aggravò ulteriormente la situazione nella città, dove disordini e sommosse si andavano aggravando. Tuttavia Hus che, diversamente dal suo amico Girolamo, non si unì mai ai radicali, che non di rado attenuava le tesi di Wicklef e che in principio accettava l’ordinamento sociale esistente, come del resto anche Wicklef, non voleva misure coercitive né alcuna rivoluzione. E se già una volta il re aveva dichiarato la sua disponibilità a far bruciare i seguaci della “eresia” wicklefiana, Hus cercò invece di evitare il conflitto.
Già in precedenza egli aveva evitato il confronto, si era umilmente sottomesso da figlio ubbidente all’arcivescovo, si era piegato alle sue indicazioni, al suo biasimo, alla sua protezione; nel 1409 aveva sottolineato, in un discorso all’università, di considerare Wicklef come uno studioso di cui aveva studiato i libri, come tanti altri, e da cui aveva imparato molto di buono. “Nondimeno egli non riteneva per verità di fede ciò che scrive un erudito. Verità di fede le offre solo la Sacra Scrittura. Egli incoraggiava gli studenti a studiare gli scritti di Wicklef; ciò che ancora non capivano in essi, dovevano accantonarlo per l’avvenire; opinioni che fossero in contrasto con la fede – e tali non mancavano in Wicklef – non dovevano né accettarle né difenderle. Dovevano soltanto sottomettersi alla fede”.
Ma presto toccò ad Hus un nuovo grave oltraggio, che gli venne inflitto dal papa in persona.
Nella lotta contro re Ladislao di Napoli, Giovanni XXIII aveva emesso il 9 settembre del 1411 una bolla di crociata e in essa prometteva la remissione dei peccati (venia peccatorum) non solo ai combattenti, non solo a quelli che combattevano a proprie spese, ma addirittura a tutti quelli che avessero anche solo versato denaro a sostegno della crociata. Forse a provocare questa decisione era stato proprio Hus, che in passato aveva speso il suo ultimo denaro per l’acquisto di un’indulgenza, ma che ora certamente da tempo, e per principio, era sceso in campo contro le indulgenze, contro l’intera dottrina ecclesiastica sull’indulgenza, beffandosi di essa in una predica, dal momento che Paolo stesso, quando aveva raccolto elemosine per i santi di Gerusalemme, non aveva concesso ai Corinti alcuna remissione dei peccati,
Allorché nel maggio 1412, a Praga, si annunciarono solennemente una crociata e le indulgenze ad essa connesse, vennero esposte in tre grandi chiese – tra cui nel duomo, accanto all’altare di san Vito – tre cassapanche in cui gettare direttamente i denari per l’acquisto dell’indulgenza. “Adesso c’è la somma grazia per i popoli! Ecco il cielo aperto per tutti!”, strombazzavano gli esattori papali, “gli avidi maestri dell’ Anticristo “, ispirati dal “demonio di Mammona”. Tant’è vero che anche un cieco – tuonava Hus – potrebbe toccare con mano che al papa stava a cuore solo il denaro e non spendeva una sola parola per la preghiera; senza contare che né lui né i sacerdoti sapevano se chi comprava l’indulgenza fosse davvero contrito. Una “vergogna”, dichiarò a gran voce Hus, imputando al papa “imperdonabile temerarietà”, “la più oscena simonia”, al punto che la gente canticchiava versetti di scherno, motti sarcastici e gettava nelle cassapanche cocci, ossi e pesci marci.
A Praga, nei pressi dello Hradscin, venne trovato quell’estate, in uno di quei cassoni, un cartello con veementi attacchi contro i “seguaci di Belial e di Mammona”, contro il papa, considerato l”’Anticristo”, la cui frase conclusiva recitava: “Si deve credere di più al veritiero maestro Hus che al prelato, alla massa ingannevole, ai concubinari e ai simoniaci corrotti”. Ma Girolamo da Praga, a differenza di Hus famigerato per le sue azioni spettacolari, fece andare per le strade certe meretrici assai conosciute, con copie della bolla papale appese al collo, e fece poi dare alle fiamme gli originali sulla piazza del mercato del bestiame (oggi piazza Carlo).
Quello che certamente eccitò anche Hus, e forse anche di più, fu il fatto che il vicario di Cristo si appellasse al versamento di sangue e che egli, come si esprime Hus, non prendesse a cuore le parole di Paolo: “Mia è la vendetta, darò io ciò che spetta” (Romani, 12,19), il fatto che la sua bolla si rivolgesse anche contro dei cristiani, per cui Giovanni XXIII rampogna dal pulpito il re di Napoli – con tutti i barbugliamenti apostolici -, quale violatore della maestà, spergiuro, blasfemo, scismatico ed eretico.
Fu tuttavia evidente che, col suo attacco a Giovanni, il papa regnante, Hus si era spinto troppo in avanti. Pur rappresentando ancora un’istanza dominante dei riformatori boemi, egli si vide d’un tratto – fatta eccezione per gli studenti e parte del popolo – piuttosto isolato e abbandonato perfino da amici. La facoltà teologica, come anche la massima parte del clero cittadino, era contro di lui; altrettanto lo erano il capitolo del duomo e l’arcivescovo. Questi era, dopo la morte di Zbynek di Hasenburg nell’autunno 1411, il moravo tedesco Albich, regolarmente sposato fino a poco tempo prima, e non aveva alcun titolo in teologia. Albich era dottore in legge ed eccellente studioso di medicina, medico personale di Venceslao, che lo aveva voluto arcivescovo e a tal fine aveva corrotto il papa con 3600 fiorini d’oro. Tuttavia, poco attratto dalle controversie praghesi e teologicamente impreparato, il nuovo principe della chiesa si ritirò presto nella prepositura di Vyshehrad, nel quartiere sud della città, e più tardi in Moravia e a Breslavia.
Re Venceslao, che dopo il generale riconoscimento di Sigismondo come re romano-tedesco non aveva più alcun motivo per proteggere il movimento riformistico praghese, ora non appoggiò più Hus; si arrivò alla rottura, seguita da un ‘aperta ostilità. Venceslao preferì appoggiarsi a papa Giovanni che lo aveva riconosciuto re romano ed era forse ancora indispensabile per un’ incoronazione regale. Fu lo stesso Venceslao ad incitare il monarca di Polonia a sostenere il profitto dell’indulgenza papale e a vietare in questo periodo sotto pena di morte le diffamazioni di papa Giovanni e le proteste contro le sue bolle. Quando si arrivò alle prime esecuzioni capitali, si dice che Venceslao si sia espresso in questi termini: “E anche se ce ne fossero a migliaia, accada a loro come a questi”.
Da entrambe le parti si susseguirono attacchi e contrattacchi, tra cui l’assalto con armi pesanti di una masnada, per lo più tedeschi, alla Cappella di Betlemme, dove Hus tuonava senza tregua contro l’indulgenza papale e dove sarebbe stato ucciso, a suo avviso, se il suo seguito non lo avesse protetto.
Alcuni degli “urlatori più chiassosi” (così li definisce lo storico protestante Albert Hauck), tre giovani artigiani praghesi – Martin Kridelko, Jan Hudec e Stasec Polak – che si opponevano con maggiore veemenza alle “ipocrite e false indulgenze” e urlavano frasi come “Tu menti, prete!” e “È tutta una truffa!” all’annuncio delle indulgenze, vennero giustiziati l’11 luglio, in contrasto con le pacificazioni tentate dai consiglieri comunali, allora tutti tedeschi, come si dice in una fonte secondo cui, “anche gli armati erano tutti tedeschi”. I tre vennero condannati nonostante che Hus, il quale definiva ingiusta la loro condanna e incolpasse se stesso – “Io ho consigliato di opporsi all’indulgenza. Io l’ho fatto!” -, avesse promesso di non versare sangue. Già poche ore dopo i tre giovani venivano decapitati ancora prima di giungere sul luogo dell’esecuzione, a causa del pericoloso assembramento popolare.
Benché Hus anche ora cercasse di non rompere completamente con la gerarchia e anzi si ritirasse e si chiudesse nel silenzio – almeno dopo la liquidazione dei tre uomini, presto esaltati come “martiri” -, tuttavia gli montò incontenibile la collera, dichiarò i suoi antagonisti complici dell’Anticristo, svillaneggiò il papa con tutti i magisteri, bollando dottori e giuristi come collaboratori “di questa bestia ripugnante”, “i massimi nemici di Cristo”, sicché sul trono di Pietro poteva ben sedere “il Satana con dodici diavoli”.
In luglio, avendo i seguaci praghesi del papa “non lesinato affatto i denari”, la curia aveva nuovamente lanciato il bando ecclesiastico sul capo dell”’eretico” e inasprito in ottobre la sentenza di bando, per cui l’applicazione di tutti i divieti e delle minacce significava la totale espulsione della persona bandita da qualsiasi umana comunità: “A nessuno sia lecito, a rischio di interdetto in ogni luogo di soggiorno, di offrire a Hus cibo o bevanda, di parlare con lui, di avviare con lui compere o vendite, di offrirgli da dormire, fuoco o acqua. Tutti i contravventori saranno colpiti dal medesimo bando. Se Hus o i suoi seguaci non dovessero ottenere l’assoluzione entro i prossimi 12 giorni, l’interdetto, il divieto di tutte le operazioni ecclesiali saranno estese a tutte le città, villaggi e borghi in cui Hus possa trovare alloggio … “
Il papa ordina inoltre di scacciare i seguaci dell’ eretico dalla “loro tana”, la Cappella di Betlemme, e di smantellare immediatamente il luogo della “eresia”.
Hus è indeciso. Pensa non solo a se stesso, forse neppure in prima istanza. Teme inoltre le conseguenze dell’interdetto per i suoi fedeli. “Non so cosa mi convenga fare”, confessa sgomento, e si trattiene fuori Praga, da ottobre a dicembre 1412; però continua a diffondere le sue idee riformistiche, segretamente favorito dal nuovo arcivescovo Corrado di Vechta, soprannominato “il tedesco zoppicante”, che passerà addirittura dalla parte degli hussiti. Hus fa ritorno a Praga, scompare, va e viene, fino a che dal primi di luglio 1413 fino al suo viaggio a Costanza, per più di un anno, vive e lavora senza sosta – “Predico nelle città, tra i borghi, in campagna e nei boschi” -, sotto la protezione di alcuni nobili nella Boemia del sud. Nel frattempo abita sulla piccola Ziegenburg (Kozi hràdek), poi presso una nobile vedova Anna von Mochov – giudicata nel 1418 da un antihussita “la più zelante hussita di tutta la Boemia” -, ma stranamente mai menzionata da Hus stesso nella sua corrispondenza.

        Le vicende che portarono al rogo Hus meritano un cenno perché mostrano il modo disonesto ed osceno di operare nei secoli della Chiesa di Roma. Hus si muoveva in terra tedesca, insieme a Gerolamo da Praga (arso insieme a Hus), con un salvacondotto rilasciato dal Re Sigismondo del Sacro Romano Impero. Doveva recarsi proprio a Costanza per appianare le divergenze con la Chiesa. A nulla valse il salvacondotto che, di fatto, era stato rilasciato proprio per poter catturare il rivoluzionario Hus. Invitato a un incontro dai cardinali Pierre d’Ailly, Oddone Colonna, futuro Papa Martino V, Guillaume Fillastre e Francesco Zabarella, è da loro fatto subito arrestare e incarcerare (27 novembre 1414). Il 18 maggio 1415 gli viene chiesta l’abiura. Chiede di parlare per spiegare le sue dottrine nell’udienza pubblica che era stata fissata per il 5 giugno. In tale udienza gli venne impedito di parlare. Il 18 giugno il Concilio ratificò un elenco di 30 capi d’accusa contro Hus, proposizioni considerate eretiche tratte da tre sue opere dandogli tempo due giorni per contestarle. Egli risponderà punto per punto ma è tutto risulterà inutile perché il 6 luglio, nella chiesa di Costanza, sarà dichiarato colpevole di eresia. La Relatio de Magistro Johanne Hus, stilata da Pietro Mladenoviç, cronista del tempo, ci ha raccontato le fasi del processo e del rogo. Ancora nella chiesa, fu fatto salire su un palco e, rivestito di paramenti sacri, fu invitato ad abiurare. Rifiutò. Disceso dal palco, «i vescovi cominciarono subito a spogliarlo. Prima gli tolsero di mano il calice, pronunciando questo anatema: “O Giuda maledetto, perché hai abbandonato la via della pace e hai calcato i sentieri dei giudei, noi ti togliamo questa coppa della redenzione” […] e così di seguito, ogni volta che gli toglievano uno dei paramenti, come la stola, la pianeta e tutto il resto, pronunciavano un anatema appropriato. Al che egli rispondeva di accogliere quelle umiliazioni con animo mansueto e lieto per il nome del nostro Signor Gesù Cristo».

        Dopo averlo denudato e rivestito di un saio, gli posero sulla testa una corona di carta con tre diavoli dipinti e la scritta “Questi è un eresiarca“. Fu quindi portato in corteo verso il luogo dove era stato approntato il rogo (tanto per dimostrare che la richiesta di abiura in cambio di perdono è sempre stata una ipocrita buffonata). Lungo la strada ardevano i roghi dei suoi libri. Dal racconto del cronista dell’epoca si è appresa anche la tecnica che spesso veniva usata per arrostire gli eretici. Il condannato, dopo essere stato denudato, fu fatto inginocchiare su di un mucchio di fascine per essere poi legato saldamente ad un palo. Le corde lo tenevano alle caviglie, sotto e sopra le ginocchia, all’inguine, alla cintola e sotto le braccia. Una catena gli fu fatta passare intorno al collo. Quando i carnefici si resero conto che Hus aveva la faccia rivolta verso Oriente, lo girarono verso Occidente, posizione più conveniente ad un eretico. Si fece quindi una catasta di legna, paglia e fascine intorno a lui per coprire il condannato fin sotto il mento. A questo punto si avvicinarono due rappresentanti del potere civile per chiedere al condannato se ritrattava le sue eretiche teorie. Hus rifiutò e ciò comportò che i due che si erano precedentemente avvicinati, si ritirarono e batterono le mani. Era il segnale per accendere il rogo. Finita la combustione, restò il ributtante compito di distruggere il corpo arrostito e carbonizzato. Il corpo fu fatto a pezzi, le ossa spezzate, il tutto, con le viscere fuoriuscite dall’esplosione della pancia, fu gettato di nuovo sul fuoco ancora ardente in alcune parti. Poiché si aveva l’esperienza del rogo di Arnaldo da Brescia, si ebbe cura di raccogliere ogni resto, anche piccolissimo: non si voleva che fosse raccolto per farne reliquie. Il procedimento descritto fu certamente seguito, oltreché  i citati di Arnaldo ed Hus, per i roghi degli spirituali e di Savonarola.

        Anche qui è utile leggere cosa scrive Deschner [1] sulla condanna al rogo di Hus:

Si andava intanto preparando il Concilio di Costanza e re Sigismondo – “imperatore del concilio” – premeva perché vi partecipasse Jan Hus per porre così termine ai disordini religiosi in Boemia e liberare il paese dal sospetto di eresia.
Più volte Sigismondo fece pregare Hus di presentarsi a Costanza: nella primavera del 1414 tramite i due cavalieri cechi Jan di Chlum e Wenzel di Dubá, entrambi operosi seguaci di Hus, poi attraverso Heinrich Leffl, un uomo di fiducia di re Venceslao, simpatizzante dei riformatori. In più, un terzo inviato di Sigismondo, Nicola di Jemniste avviò trattative con Hus e lo informò della buona volontà del suo signore “di portare la questione ad una soluzione soddisfacente”. E quando finalmente una lettera del notaio reale Michele di Priest, dell’8 ottobre, annunciò a Hus la “viva gioia del sovrano per la sua decisione di venire a Costanza”, promettendo anche di inviare una lettera d’accompagnamento reale insieme ad un rappresentante del re come scorta ufficiale del viaggio “per maggiore sicurezza”, allora la lettera non giunse più al destinatario, essendo Hus già in viaggio dall’11 ottobre insieme ai cavalieri di Sigismondo Chlum e Dubá, con oltre trenta cavalli e due carrozze. Alla fine i due re – quello romano e quello boemo – si trovarono d’accordo sul fatto che Hus, qualora il concilio avesse condannato la sua dottrina e lui non si fosse sottomesso, avrebbe potuto rimpatriare incolume. Da ultimo, anche il salvacondotto di Sigismondo, che metteva il “venerato maestro Johannes Hus” sotto usbergo e protezione del santo regno, garantiva il libero ritorno di Hus.
Il 3 novembre 1414 Hus giunse a Costanza, e due giorni dopo papa Giovanni XXIII apriva il concilio.
Ora il santo padre, che aveva in precedenza bandito e condannato Hus, lo rassicurò al suo arrivo della sua personale protezione, ribadendo di non volerlo ostacolare in nessun modo, nemmeno, come disse, “qualora avesse ucciso il mio stesso fratello” – e però lo fece arrestare ancora in quello stesso mese. E il re, che l’aveva invitato ripetutamente a Costanza, informato della violazione della scorta e dell’arresto di Hus,
pur minacciando che l’avrebbe liberato anche se fosse stato costretto ad abbattere personalmente le porte del carcere, a questo punto consigliò a Hus di “arrendersi totalmente alla grazia del santo concilio”, di essere disposto a pentirsi, di non ostinarsi nell’errore, perché altrimenti i padri conciliari sapevano bene cosa dovevano fare di lui. Anzi, egli aggiunse: “Ho detto loro che non voglio difendere un eresiarca, al contrario, che un eretico ostinato l’avrei dato alle fiamme con le mie stesse mani!”.
Verso la fine di novembre, col pretesto totalmente inventato che si era nascosto in un carro di fieno nel tentativo di fuggire da Costanza, Hus venne incarcerato, gli venne proibito di parlare, senza essere peraltro interrogato né processato né condannato, per non dire del salvacondotto. Fu dapprima ospitato brevemente nell’abitazione di un canonico locale, poi nel convento dei domenicani sull’isola della città, dove fu rinchiuso in una cella vicina alla cloaca (in quodam carcere iuxta latrinas). In seguito il vescovo di Costanza lo condusse nel suo castello di Gottlieben, in un freddo cunicolo nel piano superiore della torre. Lassù Hus giacque incatenato di giorno, di notte legato con una manetta di ferro in una gabbia di legno, sorvegliato a vista da tre armati. A più riprese il detenuto, debilitato da vecchi malanni al fegato e alla cistifellea, cadde malato. Soffriva di dolori alla testa e per i calcoli, per attacchi di soffocamento, febbre alta, sbocchi di sangue. Si temette già il peggio; ma i medici personali del papa fecero in modo che il prigioniero, come si disse, “non perdesse la vita in maniera così ordinaria”.
I lavori del concilio erano incominciati ormai da tempo. Dapprima quelli così importanti, fatti dietro le quinte; soprattutto tramite alcuni avversari colà precipitatisi dalla Boemia, come il procuratore pontificio Michele di Causis, tramite Giovanni “Il Ferreo”, guerriero e vescovo di Leitomysl, nonché il teologo Stefano Palec, in passato uno dei più intimi amici di Hus e dal 1412 uno dei suoi peggiori nemici, autore anche di un libello “Anti-Hus”. Palec versò lacrime nel carcere dell’ex amico … e finì poi per spedirlo sul rogo.
Con subdola perfidia e sofisticherie furono usati spioni, infiltrati, delatori, inquisitori, interrogatori speciali. Si esercitarono pesanti pressioni su singoli testimoni, su cardinali, vescovi, teologi e monaci. Si sparsero ad arte voci, notizie false, arrivando a contraffare qua e là avvisi pubblici, falsificando i carteggi di Hus e la stessa Bibbia. Si intercettò e manomise anche la sua corrispondenza, usandola contro di lui. E non si mancò di ricorrere alle corruzioni. Davanti al carcere di Hus, Michele di Causis ebbe a dichiarare: “Con l’aiuto di Dio bruceremo presto questo eretico, per questa causa ho speso già molti fiorini”.
D’altronde, ancora nella tarda estate 1414, l’inquisitore papale a Praga, il vescovo Nicola Condemone, in presenza di parecchi nobili boemi e di un notaio, aveva dichiarato: “Mi sono intrattenuto spesso e a lungo col maestro Hus, ho mangiato e bevuto in sua compagnia, ascoltato le sue prediche e avuto molte conversazioni riguardo alla Sacra Scrittura, ma non ho mai rilevato in lui alcuna posizione ereticale; piuttosto 1’ho riconosciuto come uomo leale e cattolico, senza notare nulla di erroneo in lui. Fino ad ora nessuno ha potuto dimostrare in lui tracce di eresia; e nessuno ci si è provato quando solo pochi giorni fa durante l’assemblea ecclesiale nel palazzo arcivescovili egli vi è stato sollecitato con pubbliche affissioni”. Cose analoghe aveva detto a suo tempo, durante una riunione di preti, l’arcivescovo di Praga Corrado di Vechta.
Incrollabilmente fedele a Hus, in questo mondo conciliare oscuro e ipocrita, rimase il nobile boemo Jan di Chlum, anche se tutto quanto lui fece fu ostacolato e reso inefficace. Eppure giunsero al re anche due epistole di protesta scritte in ceco dall’aristocrazia morava, oltre che (anch’esso diretto al sovrano e anch’esso in ceco), il solenne memorandum di una grande assemblea di baroni, cavalieri e nobili, scritta il 12 maggio a Praga, provvista di non meno di 250 sigilli dell’aristocrazia boemo-morava indignata per l’incarcerazione del Maestro, avvenuta in dispregio della verità e del diritto. Sosteneva che Hus era stato calunniato senza colpa, ma con lui anche la Boemia e la “lingua ceca”. E adesso, vi si dice, egli si trova “in tuo potere e ostaggio nella tua città, sebbene lui abbia le tue promesse e i tuoi salvacondotti!”
Ma il re temeva i cardinali e ormai da tempo, se non già da principio, si era deciso contro Hus, prendendo opportunisticamente posizione a fianco della grande maggioranza. In modo tanto abile quanto calcolato, con animo tanto infido quanto ambizioso, Sigismondo intendeva presentarsi come salvatore della chiesa e della cristianità intera. E non voleva vedere la sua Boemia bollata col marchio di regione culla “di eretici”. Sicché lasciò cadere Hus, tanto più che – come informa Eberhard Dracher, un testimonio oculare – lo avevano convinto “che egli non era obbligato a mantenere la sua parola verso uno sospettato di eresia, fintantoché egli stesso lo credeva”, spingendolo a non lasciarsi irritare dal “caso Hus e da altre piccolezze”.
Nel capodanno 1415, dunque, re Sigismondo consente formalmente ai cardinali di procedere contro Hus secondo il loro proprio giudizio, Capitolò quindi totalmente al cospetto dei preti radunati a migliaia. Voleva che Hus abiurasse, oppure la condanna avrebbe fatto il suo corso e l’eretico sarebbe stato bruciato, Già una della sue eresie, ebbe ad esternare allora, poteva bastare. Anzi, incitò i cardinali a diffidare di Hus, anche qualora avesse ritrattato. Ritornato in Boemia, la sua dottrina si sarebbe diffusa anche in Polonia e nei paesi limitrofi.
Troppo tardi Hus, messo in guardia già in Boemia dal salvacondotto del re, riconobbe il nemico in colui che per lungo tempo aveva ritenuto il suo “benevolo benefattore e forte protettore”. Si ricordò allora di un messaggero del re, del signor Mikes Divoky, che un tempo, nella fortezza Krakovec, gli aveva promesso nel nome di Sigismondo una scorta sicura e una felice conclusione, eppure, diffidando lui stesso dell’incarico di Sigismondo aveva aggiunto di suo: “Sappi per certo, maestro, che verrai condannato!”. Troppo tardi Hus riconobbe “che Mikes aveva scrutato fin troppo bene le intenzioni del re”. Anzi, era ormai convinto che il sovrano l’avesse illuso e ingannato fin dall’inizio. E scrive a Chlum e Dubá: “Suppongo che questa sia la mia ultima lettera a voi, giacché domani, sperando in Gesù Cristo, sarò purificato dai miei peccati mediante un’orribile morte. Ciò che mi è accaduto in questa notte, non posso scriverlo. Certo è che Sigismondo ha ormai decretato tutto con animo proditorio”.
Già da tempo anche la regia ufficiale del concilio, in special modo una commissione d’inchiesta di diciannove membri – composta da dichiarati nemici di Hus -, aveva designato la sua vittima. In sostanza, però, Hus fu un uomo morto fin dal suo apparire nella città sul lago di Costanza, o quantomeno fu la persona predestinata che, seppure in caso di ritrattazione, si sarebbe lasciata languire a vita in qualche carcere monastico.
Dopo che, il 4 maggio 1415, Wicklef era stato “condannato per l’eternità”, con l’ordine di disseppellire le sue ossa e buttarle in luogo sconsacrato come immondizia, incominciarono ai primi di giugno gli interrogatori pubblici di Hus, una pura e semplice formalità, in cui lo si trattò spesso in modo scandaloso: troppa gente gli urlava contro, non lo lasciava parlare, lo copriva di epiteti sarcastici, gli poneva domande capziose, lo derideva, lo fischiava, gli sputava addosso, lo colmava di maledizioni e di contumelie, gli dava del rettile e della vipera, lo insultava dandogli del sodomita, del turco, dell’ebreo, del Caino e Giuda, trovava ridicoli i suoi scrupoli di coscienza, senza nemmeno prendere in considerazione i suoi ragionamenti. Si ascoltarono testimoni, quasi tutti a lui ostili, quindici in un solo giorno, tutti a suo carico. Furono estorte dichiarazioni e prove, tutte a suo carico. Non gli si riconobbe nessun difensore, dato che nessuna protezione giuridica poteva spettare “ad un individuo sospetto di eresia”. Gli si addebitarono dichiarazioni che non aveva mai rilasciato, tesi che non aveva mai sostenuto, che anzi erano state falsificate; e lo si incolpò addirittura di essersi spacciato come la quarta persona divina.
In breve, Hus poteva dire e comportarsi come voleva, ma tutto gli veniva sempre ritorto contro. Se gli s’impediva di parlare con schiamazzi da tutte le parti, in modo che non potesse rispondere chiaramente, gli si dava del confuso. Se discuteva con precisione, gli si rinfacciava arzigogolo e cavillosità da leguleo e si voleva udire da lui soltanto dei sì o dei no. Se non proferiva parola, si vedeva in questo un’approvazione degli errori. E se argomentava sulla base e con l’autorità dei padri della chiesa, lo si giudicava fuorviante, elusivo e lo si richiamava all’argomento. “Datemi due righe di un qualsiasi autore – si gloriava non senza ragione un inquisitore medievale – e io dimostrerò che è un eretico e lo farò bruciare”. Alla muta scatenata del concilio, una volta, Hus ribatté tranquillamente: “Avevo pensato di trovare più decoro e più disciplina in questo Concilio!”. E agli amici di Praga fece sapere: “Costoro urlavano tutti contro di me. come i giudei contro Gesù!”
Si accusava ripetutamente Hus di cocciutaggine, dandogli dell”’eretico” pervicace. Eppure l’accusato non faceva che ripetere la sua disponibilità a correggersi, offrendo spesso al concilio la sua ritrattazione, la sua umile ritrattazione, qualora lo avessero convinto dell’errore, inducendolo a ricredersi, confutandone le tesi sul fondamento della Bibbia, in base ai padri della chiesa.
Ancora poco prima della sua esecuzione, il 5 luglio, Hus dichiarò ad una delegazione ufficiale (tra i quali erano due dei più insigni cardinali, d’Ailly e Zabarella), quand’era ormai stremato e sfinito, già segnato dalla morte: “… se fossi consapevole di aver scritto o predicato qualche cosa contraria alla legge di Cristo e alla sua vera Chiesa, Dio mi è testimone che avrei ritrattato in umiltà. lo pretendo soltanto che mi si mostrino migliori e più accettabili prove dalla Scrittura, più convincenti di quelle che ho scritto e insegnato – allora ritratterò di buon grado!”. E quando uno dei vescovi lo interpellò direttamente “Vuoi forse essere tu più saggio di tutto il Concilio?”, Hus ribatté: “lo non intendo essere più saggio del Concilio … Datemi solo, ve ne prego, il più infimo esponente di questo consesso che mi insegni qualcosa di meglio che non sia la Bibbia e io farò tutto quanto il Concilio pretende da me!”
Avrebbe dovuto agire contro la sua coscienza, abiurare da ciò che non aveva mai detto, raccontare bugie di fronte al concilio? Proprio questo era ciò che si desiderava, si voleva piegarlo, umiliarlo, pretendendo la sua totale ritrattazione; si voleva colpire, annientare l’opera della sua vita, tutto il pericoloso movimento di Boemia. “Il Concilio voleva la menzogna, anticipando la tattica dei clamorosi processi spettacolo del XX secolo: esigeva una globale confessione di colpa anche là dove non si era trovata o dimostrata alcuna colpa” (Rieder).
Fin troppo comprensibile, dunque, che Hus a Costanza, con la morte davanti agli occhi, usasse la tattica in modo particolarmente circospetto, riflessivo, che lasciasse valere grande prudenza, che fosse esposto a “tentazioni”. Aveva paura di dover forse abiurare, di perdere la sua credibilità, di mostrare anche debolezze, timore; cercò quindi di smorzare i toni e di limitare molte cose prima asserite e difese, replicando talvolta in modo non molto concreto, tentando di essere evasivo, perfino contestando alcune cose, anche quando pareva spingersi troppo oltre. Dopo una visita presso Hus l’ambasciatore dell’università di Colonia afferma: “Non ho mai visto un tipo così arrogante e capace di falsare il diritto che sapesse rispondere con tanta prudenza e nascondere la verità”. Ma in tutto l’essenziale, nelle cose decisive, in tutto quanto riguardava il proprio rigorismo morale, la propria impavida critica alla chiesa, la sua alta considerazione per Wicklef, il maestro boemo si rivelò inflessibile. Sempre incalzato perché abiurasse, sempre e senza tregua martellato per la ritrattazione spontanea con minacce e lusinghe, Hus rimase irremovibile.
Giunse così sabato 6 luglio 1415, l’ultimo atto della cruenta messinscena. Di prima mattina, nel duomo di Costanza, tutti i personaggi importanti e famosi presenziarono alla santa messa dalla quale Hus restò dapprima escluso, incatenato e circondato nell’atrio da armati. L’arcivescovo di Gnesen cantò il vangelo secondo Matteo 7, 15: “Guardatevi dai falsi profeti: essi vengono a voi in veste di pecore, ma nel loro intimo sono lupi rapaci …”. Il vescovo di Lodi tenne l’omelia sulla massima di Paolo “Il corpo peccaminoso deve essere distrutto”, facendo appello al re, presente sotto la corona e circonfuso da tutte le sue insegne, affinché annientasse la “eresia”, “eliminando soprattutto questo eretico matricolato, incancrenito, per la cui malvagità diverse regioni del mondo sono ormai infettate da peste ereticale e avviate alla perdizione …”.
Hus, fatto entrare nel frattempo, era caduto sulle ginocchia e pregava.
Fu dunque data lettura dei capi d’accusa e delle numerose false testimonianze, da tempo invalidate, su cui incombeva un “Decreto del silenzio”. Ma Hus, utilizzando la sua ultima occasione di informare il pubblico, di ribadire la propria ortodossia, continuò a gridare a voce alta le sue proteste e le sue precisazioni, finché si diede ordine agli sbirri di farlo tacere con la forza, tanto che lui con le braccia levate al cielo implorò con veemenza: “Ascoltatemi, per l’amor di Dio, prestatemi orecchio, perché almeno non tutti quelli qui presenti credano che io abbia affermato dottrine sbagliate! Dopo, farete  di me ciò che volete!”
Quando lo s’incolpò nuovamente di essersi definito come la quarta persona della divinità, Hus pretese, ma inutilmente, di sapere il nome del presunto testimone, ribadendo la propria fede cattolica. E quando gli fu imputata la sua noncuranza del bando, dichiarò di aver chiesto tre volte udienza al papa per difendere la propria causa, oppure che lo si convincesse dell’errore. Ma poiché questo gli era stato negato, affermò di essere intervenuto “a questo Concilio per libera decisione, dopo che il re, qui presente, mi ebbe promesso sicura scorta e che mi avrebbe protetto contro qualsiasi violenza”; nel dire ciò Hus volse lo sguardo sul sovrano, “the playboy ruler of the Holy Roman Empire”, sulla cui faccia, dice il testimone oculare Mladenoviç “si stese un rossore di vergogna”, apparendo senza dubbio “the saddest figure in this drama” (Molnar).
Una triste figura, perciò, la fa ancora oggi il cattolico Brandmüller, storico ecclesiastico, quando scrive: “Alla fin fine il Concilio cercò in ogni modo di rendere il più agevole possibile all’imputato la ritrattazione … “. [Devo a questo punto dire che Brandmüller è quel personaggio che Papa Ratzinger richiama a sostegno delle sue tesi miserabili su Galileo, ndr]
Data lettura del verdetto con cui il “santo Sinodo” giudicava un “uomo ostinato, incorreggibile e non disposto all’abiura delle sue erronee teorie”, un “eretico” vero e manifesto, uno che ha “insegnato e pubblicamente predicato obbrobriosi errori e molte cose scandalose, temerarie e sovversive”, Hus cadde in ginocchio ed esclamò: “Signore Gesù Cristo, ti prego, perdona tutti i miei nemici per la tua grande misericordia; tu lo sai, costoro mi hanno falsamente accusato, producendo testimoni falsi e adducendo articoli bugiardi contro di me! Perdona loro per la tua incommensurabile grazia”. Molti vescovi scoppiarono a ridere; ma il consigliere reale conte Schlick lasciò indignato il duomo, dichiarando a voce alta di non poter essere presente in buona coscienza ad una così iniqua condanna.
A questo punto Hus venne solennemente degradato. In piedi su un podio nel mezzo della navata centrale della chiesa e vestito di tutti i paramenti sacerdotali, sette vescovi maledicenti che lo oltraggiavano, dato che una volta di più rifiutava l’abiura “per non mentire in faccia a Dio e non dover urtare contro la mia coscienza”, come disse tra le lacrime – gli strapparono di dosso i paramenti pezzo per pezzo, storpiarono la sua tonsura e lo consegnarono al “braccio secolare”. Non senza avergli calcato prima sulla testa il copricapo dell”‘eretico”, fregiato con “tre orrendi demoni”, accompagnandolo col fatidico annuncio: “Consegniamo la tua anima al demonio”.
Hus venne quindi trascinato, davanti ai suoi libri dati alle fiamme, attraverso un ‘immensa folla che faceva ala al percorso. Alla vista della catasta del rogo cadde sulle ginocchia e pregò a voce alta: “Gesù Cristo, figlio del Dio vivente, che hai sofferto per noi, abbi pietà di me”. Ma quando, nel luogo del sacrificio, volle iniziare una predica in lingua tedesca, gli venne impedito. E nemmeno gli fu consentito di pronunciare i tre discorsi che sintetizzavano i princìpi riformistici della Boemia, quelli che Hus aveva elaborato appositamente per il concilio di Costanza.
Fu legato con corde bagnate ad un palo e furono ammucchiati trucioli e paglia intorno al suo corpo fino al mento. Racconta il testimonio oculare Peter von Mladenoviç: “A questo punto i boia appiccarono il fuoco al maestro. Al che, con voce alta, egli intonò dapprima “Cristo, figlio del Dio vivente, abbi pietà di me”, ripetendo per la seconda volta “Cristo, figlio del Dio vivente, abbi pietà di me”. E alla terza volta aggiunse “Tu che sei nato da Maria la vergine!”. E quando ebbe incominciato per la quarta volta a cantare, subito il vento gli spinse le fiamme in faccia e quindi, pregando tra sé e muovendo labbra e capo, se ne andò al Signore. Ma nell’attimo di silenzio, prima di spirare, sembrò che si muovesse, e precisamente per il tempo necessario per recitare in fretta due o tre paternoster. Quando la legna delle suddette fascine fu ridotta in cenere c tuttavia restava ancora una massa corporea, appesa per il collo alla succitata catena, i carnefici precipitarono al suolo quella massa insieme alla colonna, ravvivarono nuovamente il fuoco con una terza carrata di legna e bruciarono la massa completamente … Dopo che ebbero trovato tra gli organi interni il suo cuore, affilarono una stanga alla maniera di uno spiedo e vi fissarono in cima il cuore, lo bruciarono con cura e lo scrollarono con delle pertiche e finalmente ridussero in cenere tutta quella massa. E per ordine dei succitati signori, del conte palatino e del maresciallo, i boia gettarono nel fuoco la sua camicia insieme con le scarpe dicendo: “Affinché i Boemi non conservino queste cose come reliquie …”. E così caricarono gli avanzi su un carro e affondarono il tutto nelle acque dell’attiguo fiume Reno”. 
Secondo il cronista di Costanza Ulrich Richental “il boia lo afferrò e lo legò coi vestiti e con tutto ad un’asse verticale, gli mise uno sgabello sotto i piedi, spinse legna e paglia sotto il suo corpo, vi versò dentro un po’ di pece e vi appiccò il fuoco. A quel punto Hus incominciò a gridare e fu presto avvolto dalle fiamme. E una volta ridotto in cenere, l’infuia (il berretto dell’eretico) apparve ancora intatta. Allora il boia la spinse tra le braci in modo che anch ‘essa finì di bruciare e si diffuse un cattivo odore; perché Il cardinale Pancrazio aveva avuto un mulo che era morto in quel luogo e vi era stato sepolto: per la calura si aprì il terreno da cui emanò quel fetore”.
Così la massa degli astanti – buona la regìa! – poté avere una prova ulteriore del gusto sopraffino del diavolo.
Il giorno dopo i padri conciliari celebrarono una cerimonia di ringraziamento a Dio. E il teologo cattolico Brandmüller, ancora nell’anno di grazia 1999, giunge in ultima analisi a tirare la “conclusione” della sua apologia col seguente giudizio finale: “Il processo fu equo e corretto”. […]
E l’anno successivo fu mandato al rogo Girolamo da Praga, amico e compagno di lotta di Hus.
In precedenza Girolamo aveva promesso a Hus di seguirlo in caso di pericolo e, sebbene fosse egli stesso bandito e messo in guardia da Hus, era giunto in aprile a Costanza, abbandonando tuttavia ben presto la città, dopo che Chlum e Dubá l’ebbero avvertito del pericolo imminente. Ma poco prima del confine boemo venne catturato a Hirsau, nell’Alto Palatinato, e in maggio rispedito indietro dal duca Giovanni di Baviera. Lo trasportarono, mani e piedi legati, a Costanza, dove giunse il 23 maggio e rimase incarcerato per un anno, sempre con mani e piedi in catene, in posizione ricurve, mantenuto a pane e acqua finché fu bruciato sul rogo il 30 maggio 1416.
Per la verità, ammorbidito dalle spaventose condizioni detentive, Girolamo era stato indotto a dissociarsi nel settembre 1415 da Wicklef e da Hus; ma anche quella ritrattazione venne da lui ritrattata e Girolamo difese le proprie originarie convinzioni con un atteggiamento che fece impressione perfino sui suoi nemici. ‘Lo riconobbe Poggio Bracciolini, famoso umanista, partecipante al concilio e segretario della Curia pontifica: “Non ho mai visto un uomo così eloquente che fosse così vicino agli antichi oratori quanto Girolamo. I suoi nemici avevano elaborato diverse accuse per incolparlo di eresia, ma lui si difese in modo così suggestivo, tanto modesto quanto saggio, che io non sono in grado di esprimerlo … Girolamo aveva languito per 340 giorni in una torre umida e buia, eppure fu in grado di tenere un discorso così eccellente, costellato di esempi di uomini famosi e di tesi desunte dai Padri della chiesa. Il suo nome merita onore imperituro … Girolamo fu della scuola dei saggi antichi; né Muzio Scevola ha tenuto la sua mano nel fuoco con tanto coraggio quanto Girolamo vi tenne il suo corpo né Socrate vuotò il veleno dal calice con tanta pacatezza quanta ne mostrò Girolamo salendo sul rogo.

        L’orrenda esecuzione di Hus mostrò quale seguito avesse in Boemia. Immediatamente vi furono dovunque rivolte i cui inizi sono così raccontati da Deschner [1]:

La morte tra le fiamme di Hus e di Girolamo condusse, né ci si poteva aspettare diversamente, all’insurrezione popolare in Boemia, che generò nuovi crimini mostruosi. La regione si trasformò in un ribollente pandemonio e il popolo – dalla nobiltà fino all’ultimo contadino formò un unico fronte contro l’ortodossia cattolica. Mentre si elevava Hus alla santità, mentre si veneravano lui e Girolamo come martiri, si ignorarono le decisioni conciliari prese a Costanza, non ci si curò delle incriminazioni, delle maledizioni dell’interdetto su Praga e venne distribuita la comunione sotto forma di pane e vino facendo del calice un attributo di identificazione, un simbolo attrattivo e potente degli hussiti. Indignati, assetati di vendetta, disposti alle rapine, i “credenti del calice” cacciarono il clero della vecchia chiesa. Ne seguirono prolungati eccessi, massicce espulsioni, con uccisioni di chierici avversari. Lo stesso arcivescovo di Praga fu costretto a tagliare la corda.
Mentre re Sigismondo cercava di destreggiarsi tra le parti, mentre Venceslao si barcamenava ancora di più, le menti radicali si misero alla testa del movimento, rapidamente spaccatosi in gruppi diversi, più di tutti negli hussiti radicali – chiamati Taboriti – e nei gruppi moderati, verso i quali propendevano università e alta nobiltà (detti Utraquisti, o calicisti, o calistini), i quali accettavano la comunione sotto le due specie del pane e del vino. Costoro formularono le loro rivendicazioni nei “Quattro articoli di Praga”, vale a dire, oltre alla comunione “sub utraque specie”: libera predicazione per i chierici ad essa abilitati, assenza di proprietà per i religiosi, punizione dei peccati mortali (eresia, simonia, furto, alcolismo, tra l’altro), tanto per i sacerdoti quanto per i laici, da parte dell’autorità civile.

        Una decina d’anni dopo il criminale rogo, nel 1424, il Cardinale Branda, ambasciatore in  Boemia, ebbe a scrivere le seguenti bestialità che sembrano uscite dalla bocca del centurione che martellava sui chiodi della croce:

La maggioranza di questi eretici vuole la comunità dei beni e sostiene che alle autorità non si deve né tributo né obbedienza. Ora con questi principi si distrugge tutta la civiltà. Gli hussiti reputano come inesistenti i diritti divini ed umani e non pensano che a sbarazzarsene con la violenza. Le cose andranno tanto lontane che né i re, né i principi nei loro regni o principati, né i borghesi nelle loro città, né i privati nelle loro case, saranno più al sicuro; questa abominevole setta non danneggi solamente la fede e la Chiesa; guidata da Satana, dichiara guerra all’umanità intera, di cui attacca e capovolge ogni diritto.

Ed ancora a circa metà Novecento presunti storici cattolici come Guiraud scrivevano:

Non bisogna dimenticare tutto quanto vi era di socialista e di comunista nelle rivendicazioni Hussite; da questo punto di vista il movimento rivoluzionario della Boemia, nel XV secolo, procedeva direttamente dalle dottrine di Jan Hus e di Wicklef, sincretismo di tutto quanto esisteva di antisociale nei sistemi degli Spirituali, dei Begardi, dei Valdesi e dei Catari.

        Socialista ? Comunista ? Chi dice queste sciocchezze dovrebbe essere radiato da ogni biblioteca e le sue opere utilizzate come spessori per sistemare in piano i tavoli traballanti. Per leggere il capolavoro di questo esegeta dell’orrore si vada al suo Elogio dell’Inquisizione, libercolo esaltato dai cattolicisti nostrani.

UNA PARENTESI CIVILE TRA PAPI CRIMINALI

         Riprendiamo da Martino V che nei primi tempi del pontificato operò da Costanza. Era reclamato da vari Re perché prendesse la residenza nel proprio Paese. Alcuni offrivano addirittura la proprietà di intere città ma egli aveva deciso per Roma, sede del vicario di Cristo. Nel 1418 iniziò il suo viaggio complicato verso Roma perché, di nuovo, l’Italia era terra non affidabile con diverse bande che operavano dovunque, con sovrani differenti in lotta tra loro e con i beni della Chiesa dispersi in differenti mani. L’avvicinamento fu lento ma, sul finire del 1420, Martino entrò in Roma accolto dai Romani con entusiasmo perché, dopo 135 anni, avevano a che fare di nuovo con un Papa romano (in realtà era di Genazzano un paesino vicino Roma). Roma era una città che era in condizioni addirittura peggiori di come l’aveva vista Papa Urbano V nel 1367. Tutto diroccato, sporco, con fogne a cielo aperto, con fango ed abbandono ovunque. Come scrive Gregorovius, era “un labirinto di vicoletti sporchi, irti di torri, in cui una popolazione miserabile ed infingarda trascorreva le sue giornate senza gioia. Le vendette di sangue tenevano divise le grandi famighlie; i borghesi erano perennemente in lotta con i baroni che, a loro volta, combattevano senza tregua tra loro”. Martino non operò come Urbano al solo restauro di qualche chiesa ma tentò di ridare un volto alla città innanzitutto fermando la criminalità e la delinquenza mediante una sorta di polizia di strada. Si preoccupò anche, in alcune occasioni, di ingentilire i costumi regalando alle dame, in occasione della quarta domenica di Quaresima, delle Rose d’Oro (si trattava di un ramo con più rose in oro e pietre preziose, secondo un’usanza introdotta da Urbano II nel 1096, alla fine del Concilio di Tours) ed a funzionari di rango dei cappelli e delle spade d’onore. Anche Martino si preoccupò di restaurare e decorare le chiese utilizzando i massimi artisti dell’epoca come Gentile da Fabriano e Masaccio il giovane. Per fare ciò servivano molti denari ed a questo provvide un riordino delle finanze dell’intero patrimonio della Chiesa sparso in svariate province.  Ma per riordinare il tutto servivano persone di fiducia che Martino trovò nei suoi parenti. Forse l’unico atto di nepotismo giustificato, anche perché la sua corte non fu sfarzosa, anzi umile.

        Con la voga dei Giubilei ebbe a che fare anche Martino e per il 1423, ai 33 anni di Cristo successivi all’ultimo Giubileo del 1390, fu bandito un nuovo Anno Santo che fu quello con il maggior contenuto religioso anche perché vi era Bernardino da Siena che predicava ovunque facendo roghi degli emblemi del lusso e, tanto per mostrare la pietà del Signore Gesù, bruciando anche streghe (tra cui Finicella). In quello stesso anno, come si era deciso a Costanza, fu convocato un Sinodo di vescovi a Siena (dopo una precedente convocazione a Pavia con pochi partecipanti a causa della peste). Il Sinodo fu un fallimento: pochi partecipanti che si defilavano rapidamente e pochi provvedimenti presi tra cui, come no !, la condanna della teologia di Jan Hus e dei seguaci di Benedetto XIII che era morto l’anno precedente nel suo castello di Peñiscola nel Regno di Aragón. Ma Benedetto aveva nominato 4 cardinali, tre dei quali, con il consenso del Re di Aragón, avevano eletto il suo successore (antipapa anch’egli) Clemente VIII. Costui si era dimesso nel 1429 ed era stato riammesso nella Chiesa di Roma da Martino. E’ d’interesse sapere che anche il quarto cardinale aveva eletto il suo Papa (altro antipapa) Benedetto XIV che morì nel 1430. Non serve dire che il tutto è solo buffonesco.

        Maggiori problemi Martino ebbe con il Re di Francia Carlo VII, anche se ancora in guerra con l’Inghilterra, e con il clero francese. Il Re ed i cardinali rivendicavano antichi privilegi che affermavano di aver perso. Vi era alle porte un Concilio, quello di Basilea del 1431 e Martino pensò di risolvere lì delegando allo scopo il problema al presidente di quell’Assemblea il cardinale Giuliano Cesarini. Ma Martino morì prima che iniziasse questa Assemblea. Nonostante il ruolo complessivamente di grande livello rispetto a quasi tutti i predecessori, “senza ritegno alcuno, incurante dell’opposizione dei cardinali, largì ai suoi parenti i beni ecclesiastici sicché un secolo dopo il cardinale Egidio poteva pronunciare su di lui questo giudizio: «Pose le basi della grandezza e dello splendore della Chiesa … che avrebbero toccato la vetta ai tempi di Giulio II; restituì alla Chiesa un’età d’oro di pace, ma fu cagione che nell’accrescimento delle dovizie e del potere andasse perduta l’autorità dell’onesto e della virtù»” (Gregorovius).

        Come successore fu eletto il nipote (nipote o figlio ?) di Gregorio XII che lo aveva anche fatto cardinale, si trattava del veneziano Papa Eugenio IV (1431-1447), espressione degli Orsini ed avversario dei Colonna. Costui pubblicò subito una Bolla con la quale dava esecuzione a scelte fatte in precedenza durante il Conclave: il Papa autolimitava la sua potestà perché le decisioni importanti si sarebbero prese insieme al Collegio dei cardinali; la Corte pontificia sarebbe stata riformata e trasferita fuori Roma. Appena venuti a conoscenza di questi propositi i parenti di Martino V, lasciati da costui ricchi e potenti, la poderosa e banditesca famiglia Colonna, si opposero con forza perché si sarebbero visti privati di loro importanti proprietà come Castel San’Angelo, il Lido di Ostia ed altre terre. Eugenio li scomunicò sostenuto da Giovanna di Napoli perché la potenza dei Colonna faceva paura. Dopo vari scontri si arrivò ad una pace che vide i Colonna umiliati da Eugenio (dovettero pagare una grossa somma al Papa, cedere le città di Narni, Orte e Soriano, far sgomberare tutti i capitani dalle rocche di proprietà della Chiesa nelle quali li aveva sistemati Martino).

        Eugenio si trovò, come primo impegno, di fronte al Concilio di Basilea ed era intenzionato in esso a porre fine allo scisma con la Chiesa di Costantinopoli. Sorsero difficoltà perché il Presidente del Concilio, il cardinale Cesarini, al quale Eugenio aveva dato incarico di sostituirlo, tardò 5 mesi ad arrivare nella città perché occupato dalle sconfitte della Chiesa nella disastrosa crociata contro gli hussiti. La cosa preoccupò o finse di preoccupare Eugenio al punto che sospese quel Concilio, in un luogo in cui si sentiva l’influsso di Hus, per trasferirlo a Bologna entro un anno e mezzo. Ciò irritò coloro che erano arrivati a Basilea per partecipare al Concilio, compreso Cesarini, e trovò la contrarietà sia della Spagna, sia di Carlo VII di Francia che di Sigismondo del Sacro Romano Impero (figlio di Carlo IV, che ambiva all’incoronazione a Roma come ricompensa per aver catturato e consegnato alla violenza criminale della Chiesa Jan Hus). I padri conciliari non si sciolsero e, forti del gran sostegno che avevano (tra cui va notato quello del giovane umanista Nicolò Cusano che diventerà l’autorevole Cardinal Cusano, dichiararono che solo la volontà del Concilio derivava da Cristo e che ad esso il Papa doveva sottomettersi (febbraio 1432). Questa presa di posizione fu recepita con grande interesse e fece affluire a Basilea una sempre maggiore quantità di vescovi che deliberò non essere il collegio dei cardinali che doveva eleggere il Papa ma il Concilio stesso. Conseguenza di ciò era l’invalidazione dell’elezione del Papa con l’ulteriore conseguenza che la sede di Roma fu considerata vacante. Fu fatto prigioniero il Nunzio del Papa ed al medesimo Eugenio fu intimato di presentarsi a Basilea (giugno 1432). Con la mediazione interessata di Sigismondo, il Papa, anche per evitare un nuovo scisma, si impegnò (1433) a riconvocare il Concilio a Basilea a patto che fosse annullato quanto fino ad allora deliberato. Intanto Sigismondo si fece incoronare a Roma dove convinse il Papa a pubblicare una Bolla in cui, previo annullamento del decreto che negava l’autorità pontificia, riconvocava il Concilio che doveva essere presieduto da un suo rappresentante e riconosceva il valore ecumenico di esso.

        A Roma Eugenio stava scontrandosi con altri problemi perché Sigismondo, una volta incoronato, se ne era tornato in Patria mentre gli Sforza ed i Visconti invadevano i possedimenti pontifici. Poiché la Chiesa aveva ripreso il potere sulla città, la nobiltà romana, guidata dai Colonna, si scagliò contro il Papa perché l’aveva resa indifesa. Eugenio scappò nottetempo con una barca lungo il Tevere travestito da frate. Riconosciuto dalle rive, fu fatto oggetto di lancio di sassi e frecce ma si salvò. Riparò prima a Pisa poi a Firenze. Intanto aveva messo contro gli Sforza ai Visconti (dietro molte concessioni in terre e titoli) tanto che Sforza riprese la città di Roma occupata dai Colonna e la riconsegnò al Papa.

        Prima di tornare a Roma, da Firenze, il Papa inviò due cardinali a Basilea per tentare una qualche soluzione. I Padri conciliari continuarono ad essere rigidi nelle loro richieste ed il Papa intimò che si sciogliessero chiedendo ai vari sovrani europei che richiamassero in Patria i loro sudditi. Il Concilio si spaccò con parte dei partecipanti che si sottomisero al Papa e l’altra che chiese di nuovo la presenza del Papa a Basilea. A questo punto Eugenio sciolse d’autorità il Concilio convocandone uno a Ferrara nel 1438. A quest’ultimo, presieduto dal cardinale Albergati, partecipò il Papa. Evidentemente fu deciso di scomunicare i partecipanti al Concilio di Basilea che non si preoccupò della cosa continuando i suoi lavori. Il Papa contava su Sigismondo ma l’Imperatore era morto alla fine del 1437 e così i cristiani dell’intero Sacro Romano Impero si trovarono divisi tra i due Concili.

L’Europa intorno al 1450     

L’Europa intorno al 1450 con maggiori dettagli

        A Ferrara, accompagnato da molti vescovi, arrivò l’Imperatore d’Oriente, Giovanni VII Paleologo, alla testa di un Impero che stava morendo sotto l’attacco turco, per tentare il superamento dello scisma tra le due Chiese (dopo l’occupazione di Salonicco nel 1430 da parte dei Turchi Giovanni VII Paleologo era venuto a sollecitare una Crociata accettando personalmente la riunione della due Chiese: riunificazione delle Chiese in cambio della Crociata). Nel 1439, però, un’epidemia di peste costrinse il Concilio a trasferirsi a Firenze. Il 7 luglio 1439, anche per gli interventi di conciliazione del prelato di Oriente Giovanni Bessarione (futuro Cardinale Bessarione)  venne firmato l’Atto di Unione in latino e in greco dove si riconosce il “Papa romano successore autentico del Beato Pietro, Capo degli Apostoli, vero Vicario di Cristo, Padre e Dottore di tutti i Cristiani“. Il capo delegazione della Chiesa d’Oriente, il Patriarca Giuseppe di Costantinopoli, morì in pieno Concilio solo due giorni dopo la firma dell’accordo e l’intera delegazione riprese la via di Costantinopoli.

        Mentre accadeva questo, a Basilea il Papa era dato per decaduto ed in suo luogo fu eletto il Principe Amedeo VIII di Savoia che da laico, dopo la morte della moglie, si era ritirato in eremitaggio lasciando la gestione delle sue terre al figlio Ludovico. Il Principe accettò e dopo vari preliminari che lo resero eleggibile, fu incoronato nel 1440 come Papa Felice V (1440-1449), che risulterà essere un antipapa, l’ultimo ufficiale, che terminerà di essere in carica alla fine del Concilio di Basilea nel 1449. Da notare che tra gli elettori di Felice vi era Enea Silvio Piccolomini che poco dopo, come vedremo, diventerà Papa Pio II. Da Firenze, Felice venne immediatamente scomunicato ed addirittura Carlo VII, Re di Francia, che era dalla parte del Concilio di Basilea, non ebbe il coraggio di sostenere Felice ed impose ai suoi sudditi di schierarsi con  Eugenio.

        Insomma Eugenio raccoglieva molti successi: le Chiese d’Oriente e d’Occidente si erano riunificate, altre Chiese che si erano allontanate da quella di Roma negli anni (Caldei, Maroniti, Siri) tornarono a confluire in essa, praticamente tutti i sovrani d’Europa, compreso il nuovo Re di Napoli Alfonso d’Aragona ed il successore di Sigismondo al trono del Sacro Romano impero, Federico III d’Asburgo (che a sua volta successe ad Alberto II d’Asburgo che regnò solo due anni senza essere mai incoronato Imperatore). Alla corte di Federico era poi giunto (1442) Enea Silvio Piccolomini che aveva abbandonato l’antipapa per schierarsi con il Papa. A questo punto Eugenio poteva tornare a  Roma con l’intero Concilio che si chiuse in questa città con la Bolla Benedictus sit Deus del 1445. La gioia qui espressa fu subito soffocata dalle notizie dall’Oriente: i principali patriarchi di quella Chiesa non accettarono l’accordo di Firenze e lo stesso imperatore fu minacciato di scomunica. Con ciò lo scisma con la Chiesa d’Oriente riprese con più vigore. In Occidente fu invece firmato un Concordato tra Chiesa e Principi tedeschi (1447) che in pratica garantiva la neutralità dell’Impero con il riconoscimento delle decisioni del Concilio di Costanza. Poco dopo Eugenio moriva avendo proseguito, nel campo dell’arte, quanto iniziato da Martino e cioè la chiamata dei maggiori artisti dell’epoca per decorare le Chiese: Donatello, Pisanello, Angelico, Filarete. Stiamo pian piano entrando nel Rinascimento. Da ultimo occorre dire che Eugenio non fu un nepotista. Non favorì in alcun modo gli Orsini che lo avevano aiutato a divenire Papa. Anche i cardinali li scelse accuratamente tutti fuori da Roma.

        Ad Eugenio IV successe Papa Niccolò V (1447-1453) che aveva come caratteristica saliente quella di essere uno studioso umanista appassionato di libri (fu lui a raccogliere e comprare manoscritti in tutto il mondo dando vita al primo embrione della Biblioteca Vaticana). Non ebbe particolari problemi di politica generale, seguì quanto iniziato da Eugenio arrivando a concludere i trattati restati in sospeso e sistemando varie piccole questioni relative alla definizione dei confini dello Stato Pontificio. Sotto il suo mandato, nel 1449, fu annunciato il Giubileo dell’anno successivo. Fu una manifestazione imponente che vide arrivare pellegrini da tutto il mondo, tutti disponibili a pagare molti soldi per ottenere indulgenze. Forse per la grande affluenza di persone, durante l’Anno Santo, scoppiò una pestilenza a seguito della quale Papa e curia scapparono da Roma (il Papa verso un castello a Fabriano). Pessima figura denunciata da tutti i rappresentanti di Paesi stranieri che non riuscivano a parlare né con un cardinale né con una qualche autorità pontificia. Il Papa arrivò a minacciare di scomunica chiunque, proveniente da Roma, tentasse di mettersi in contatto con lui. Per quel che riguarda gli affari delle indulgenze non vi furono cali delle entrate, anzi ! Il Papa aveva fatto un  listino prezzi per varie indulgenze richieste e aveva permesso l’ottenimento delle indulgenze anche senza la venuta a Roma. Si valutava il costo del viaggio da un dato Paese a Roma e si aggiungeva al costo dell’indulgenza la metà del costo del viaggio. In tal modo neppure serviva la presenza di papa e cardinali. L’enorme quantità di denaro raccolto servì al Papa per dare una struttura moderna all’amministrazione del potere temporale con investimenti finalizzati alla politica. Scrive Rendina: “In tal modo l’ideale cristiano dell’istituzione papale veniva tradito”. E Gregorovius aggiunge che Niccolò “agli occhi degli apostoli commetteva un errore scambiando il papato con la Chiesa e le cose dello Stato ecclesiastico con quelle della repubblica di Cristo”. In tal modo, anche dal punto di vista pratico, si scioglieva il rapporto con il Sacro Romano Impero che, per sole ragioni di prestigio, vide ancora l’incoronazione di Federico III d’Asburgo nel 1452.

        Ma un dramma di grande portata stava avvenendo nell’Impero d’Oriente. Il 9 maggio 1453 Costantinopoli cadeva in mano dei Turchi guidati da Maometto II. Cadeva definitivamente l’Impero d’Oriente e terminava l’ultima traccia dell’Impero Romano. A questo proposito scrive Gregorovius:

L’ombra dell’ultimo imperatore di Bisanzio avrebbe potuto rivolgere duri rimproveri ai due capi della cristianità cattolica. Avevano forse fatto qualcosa per salvare la Grecia, questa prima madre della civiltà umana? Invano lo sventurato Costantino [ultimo Imperatore di Bisanzio, ndr] aveva scongiurato l’Occidente di soccorrerlo; troppo impegnato nelle sue gravi preoccupazioni, esso fu incapace di organizzare un’impresa comune. L’imperatore romano se ne stava ozioso nelle sue ville a curare fiori e a cacciare uccelli; quanto al papa, egli aveva rinnovato le proprie esortazioni all’imperatore bizantino affinché tenesse fede ai patti di Firenze condizionando in tal modo l’aiuto che gli avrebbe prestato. Parve così, e gliene fu rivolta l’accusa, che tenesse al dogma più che all’impero d’Oriente. Il cardinale Isidoro era stato presente alla caduta di Costantinopoli ed era fuggito mentre l’ultimo Costantino, più fortunato in questo dell’ultimo Romolo Augusto, chiudeva la lunga serie degli imperatori d’Oriente con una morte gloriosa per mano del nemico.
L’indifferenza con cui principi e nazioni videro crollare il baluardo d’Europa dimostra che la religione cristiana aveva cessato di essere il principio vivificatore del genere umano. La caduta di Bisanzio non sollevò altro che una tempesta di perorazioni eloquenti; le retoriche lamentazioni degli umanisti gareggiarono con le bolle papali nel piangere la perdita dei tesori letterari della Grecia dei quali con Niccolò V essi si diedero a salvare i frammenti trasportandoli in Italia. I parlamenti, le scuole, le chiese non risuonarono d’altro che di discorsi sui Turchi; essi divennero l’argomento di moda e servirono a riempire gli ozi dell’Occidente, mentre imperatore, principi e papa trovavano nelle imposte destinate alla guerra contro il Turchi una fonte ideale per arricchire le proprie finanze, sull’esempio di quanto avevano fatto i loro antenati con le tasse per le crociate.

        Poca cosa per lo stomaco di Niccolò che iniziò ad utilizzare i palazzi del potere per feste sfarzose ad imitazione del lusso e sfarzo di Clemente V e VI ad Avignone. Anch’egli comunque si circondò da umanisti tra cui emerge il grande Lorenzo Valla, quello che, frugando negli Archivi Vaticani, aveva scoperto (1440) la falsa Donazione di Costantino. Altro grande dell’arte che lavorò per Niccolò fu Leon Battista Alberti che preparò un piano urbanistico per la Città del Vaticano con la nuova Basilica di San Pietro che rimarrà come base per futuri lavori. Ma qui occorre denunciare una manìa distruttiva di molti Papi che utilizzarono tutti i marmi, le colonne, le statue ed i bronzi della Roma Imperiale per abbellire le loro dimore faraoniche e le chiese. In particolare si deve a Niccolò si deve la spoliazione di marmi e travertini dal Colosseo e dal Circo Massimo ed anche la demolizione delle Mura Serviane. La cosa, anche allora indignò soprattutto quegli umanisti di cui il Papa si era fatto protettore.

RITORNIAMO ALLA DELINQUENZA

        Dopo Martino ed Eugenio, già Niccolò aveva iniziato a riprendere vecchi costumi di nepotismo, lusso e corruttela. Il livello di quest’ultimo fu comunque basso rispetto ai riferimenti noti per cui  l’ho inserito nel paragrafo precedente.

        A Niccolò seguì l’elezione di un cardinale spagnolo (già al seguito dell’antipapa Benedetto XIII, poi perdonato da Martino V), Alonso de Borja (che sarà per noi Alonso Borgia), che assumerà il nome di Callisto III (1455-1458). Dopo gli italiani ed i francesi inauguriamo la famiglia spagnola con un nome che è già un programma. 

        Il personaggio si qualifica come un ignorante che lasciò da parte la sistemazione della città, fece ammuffire i libri, non si occupò di cultura e di sostenere l’umanesimo emergente. In  compenso il nepotismo andò alle stelle mosso dalla religiosità che gli fece emettere varie bolle a sostegno della Crociata contro i Turchi che servì solo a portare molti soldi alla Chiesa per mantenere lussi, sfarzi, sprechi ed arricchimenti. Infatti le bolle papali ormai non erano neppure ascoltate dai sovrani cattolici europei. Quei soldi servirono anche per mettere su una misera flotta pontificia di 16 triremi che partì da Ostia (1456) per salvare Bisanzio e che vinse una piccola battaglia presso Mitileno, oltre al saccheggio di un’isoletta. Per il resto, nulla. Intanto era l’ungherese Giovanni Hunyadi che fermava l’avanzata dei Turchi sconfiggendoli vicino Belgrado (1456). Questo per dire che la cosiddetta cristianità unita avrebbe potuto fare molto contro i Turchi ma ogni sovrano aveva sue beghe ed interessi e non prestava alcuna attenzione a politiche comuni.

        Fu il nepotismo che aprì la strada alla potenza successiva della sua famiglia. Fece cardinali due sue nipoti (o figli ?) e li nominò in posti di prestigio: Luis Juan de Mila rappresentante pontificio a Bologna e Rodrigo Borgia vicecancelliere della Chiesa, capitano dell’esercito pontificio e vescovo di Valencia (un terso nipote, Pedro Luis, rimase laico, ebbe cariche prestigiosissime e fu arricchito dal presunto zio. Costui mise in tutti i posti disponibili di prestigio e molto ben pagati tutti i suoi amici e gli amici degli amici). Scrive Gregorovius:

Sotto il regime dei Borgia Roma subì una vera e propria invasione spagnola; a frotte parenti e partigiani dì questo casato, avventurieri spagnoli in cerca di fortuna, affluivano nella città. E’ ad allora che risalgono le mode e i costumi spagnoli e persino l’accento del dialetto romano. L’intera fazione dei Borgia fu chiamata dei «Catalani» [era in realtà di vicino Valencia nel Regno di Aragón, ndr] e poiché nelle sue mani risiedeva tutto il potere militare e l’organizzazione di polizia, essa esercitava un vero e proprio dispotismo. L’amministrazione della giustizia era arbitraria; si rubava e si uccideva impunemente. Il papa aveva affidato a don Pedro Castel S. Angelo e molte altre fortezze; infine egli osò addirittura concedere a questo suo indegno nipote il vicariato di Benevento e Terracina (31 luglio 1458). Poiché Eugenio IV aveva concesso ad Alfonso [d’Aragona, ndr]in privilegio vitalizio il governo dì queste città, dopo la morte del re esse erano legalmente tornate alla Chiesa. Così dunque don Pedro salì a grandi altezze splendido di gioventù e di fortuna: ricco come un principe, meraviglioso cavaliere, egli era l’uomo più potente di Roma.

ed aggiunge Rendina:

Ovviamente si trattò di una grande «ammucchiata» perché Callista, come scrisse un biografo, «pervertì tutti gli uffici di Curia; creò cubiculari, protonotari, uditori, suddiaconi, chierici di camera, sino a formare una corte pretoriana, una cinquantina di segretari e vi cacciò dentro notai, operai, ignoranti in gran numero. Disonorò tutte le incombenze della curia conferendo la dignità a indegni». Nobili e clero defraudati, dissero la loro su questo papa nepotista e sull’invasione dei Borgia nella città; a tale epoca risale infatti quella che in genere è considerata la prima vera «pasquinata» della storia, anche se il busto di Pasquino ancora non era venuto alla luce:

Ai poveri suoi apostoli la chiesa
avea lasciato Cristo;
preda dei ricchi suoi nipoti è resa
oggi dal buon Calisto.

        Per fortuna che questo primo Borgia morì presto ed il nipote Pedro Luis scampò per miracolo al linciaggio ma non alla malaria che lo ammazzò durante la fuga a Civitavecchia. La città tornò in mano agli Orsini e le case dei Borgia furono saccheggiate.

        Dopo Callisto il collegio cardinalizio si preoccupò, prima di eleggere un nuovo Papa di tracciarne le linee su cui avrebbe dovuto operare: crociata contro i Turchi, riforma della Curia, maggior potere del collegio dell’elezione di nuovi cardinali e nell’assegnazione di diocesi ed abbazie. Venne quindi eletto quell’Enea Silvio Piccolomini che abbiamo incontrato come sostenitore dell’antipapa Benedetto XIII, poi redento e perdonato (anche se coinvolto in un tentativo di rapimento dello stesso Papa), e che assunse il nome di Papa Pio II (1458-1464), elevandosi al rango del Pius Aeneas di Virgilio.

        Rendina, riportando il parere di Falconi, afferma che questo fu un “Papa neopagano” che nella sua autobiografia disse di se stesso di essere un vero e proprio idolo, di essere la sua vera e propria divinità. Insomma un vero Gesù tornato in Terra per alleviare le sofferenze e strare vicino ai diseredati. Fu uno svergognato libertino che tracciò tracce del suo osceno passaggio in giro per l’Europa. Da collaboratore del cardinale Albergati si recò in Scozia e, nella missione che egli definì di astinenza, ebbe due figli, uno con una scozzese ed uno con una bretone, figli che accreditò a suo padre.

        Da Papa fu un avaro che non destinò alcuna risorsa per sostenere gli umanisti preferendo spendere tutto per la cura di se stesso, proprio come un Papa neopagano. Fu un accanito nepotista che sistemò tutti i suoi parenti, conoscenti ed addirittura compaesani, nominando infine due sue nipoti (o figli ?) a cardinali aprendo la strada all’elezione a Papa di uno di essi, Andrea Todeschini, che diventerà Pio III.

        Con lui si inizierà a delineare la figura del Papa Re che identificherà il nemico politico con il nemico della fede lanciando disinvoltamente scomuniche ed interdetti a destra e manca. Al fine di darsi una fama imperitura pensò di realizzare quella Crociata contro i Turchi. A tal fine convocò una Dieta a Mantova che fu un totale fallimento perché nessun sovrano cristiano si preoccupò di recarsi a questo incontro. Ma Pio credeva in se stesso ed allora scrisse a Maometto II chiedendogli di convertirsi con tutti i Turchi (megalomane pazzo) in cambio della corona dell’Impero d’Oriente. Poiché Maometto II non rispondeva allora ebbe allucinazioni che lo portarono a recarsi ad Ancona per imbarcarsi alla guida dell’immensa flotta che i Paesi cristiani avevano messo insieme. Arrivato al porto della città e visto che era deserto si convinse che aveva sognato e si avviò a morire paganamente.

        Seguì l’elezione di un veneziano, nipote (o figlio?) di Eugenio IV, che assunse il nome di Paolo II (1464-1471) dopo che i cardinali gli tolsero dalla testa l’idea di chiamarsi Formoso.

        La sua prima azione fu lo smentire quanto aveva accordato in sede di collegio cardinalizio il rendere cioè il Papato una sorta di monarchia costituzionale. Per ripagare i cardinali di essere stati fregati per l’ennesima volta, fu generoso con loro in elargizioni di denaro e con la promessa di non dare più incarichi a laici ma solo a ecclesiastici designati dai cardinali (la conseguenza fu che molti letterati si trovarono improvvisamente disoccupati ed al bibliotecario vaticano che protestò Paolo rispose “Io sono il Papa e posso, secondo che più mi piace, fare e disfare“). La Chiesa diventava completamente clericalizzata ed il Papa nella sua infinita modestia cambiò la semplice tiara in un copricapo d’oro tempestato di pietre preziose.  

         Essendo egli persona colta, capiva bene quale potenzialità aveva il conoscere ed agì di conseguenza creando ogni possibile ostacolo all’educazione elementare dei ragazzi, arrivando anche a proibire a tutti i maestri di leggere poeti latini poiché tali letture portavano a diventare eretici. In cambio offrì divertimenti e feste al popolo addirittura permettendo il festeggiamento del Carnevale, prima proibito e facendo rivivere a Roma il carattere pagano dei ludi carnascialeschi. La parte culminante delle feste doveva svolgersi sotto il suo palazzo dove egli osservava seduto nel suo balcone. Offriva poi lauti pasti e gettava monete ai convenuti. Un signore ? No, un vero porco che utilizzava il vecchio imbroglio del panem et circenses che oggi conosciamo a menadito. Tutti i letterati ed umanisti che si rivoltarono contro questo modo di agire, vennero accusati di complotto e rinchiusi nella fortezza di Castel Sant’Angelo. L’Accademia Romana, diretta da Pomponio Leto, fu chiusa. Fine di ogni possibilità di critica. Il potere assoluto era ormai davvero assoluto anche con il sostegno di gendarmi ed inquisitori.

        Nonostante il rifiuto della cultura diffusa come politica di Paolo II, una minaccia clamorosa sorgeva proprio durante il suo pontificato, minaccia che si sostanzierà dando un sostegno enorme alla Riforma protestante laddove la Bibbia diventerà lettura non solo di pochi studiosi ma di sempre più vaste categorie di persone. Parlo dell’invenzione tedesca della stampa a carattere mobili che fu importata in Italia tra il 1464 ed il 1465. Dall’officina di Gutenberg di Magonza tre tipografi, Corrado Schweinhein, Arnoldo Pannartz e Ulrico Hahn, con gli attrezzi ed alcuni operai si trasferirono in Italia e precisamente nel monastero benedettino di Santa Scolastica a Subiaco la cui Abbazia era data in commenda (cioè: affidata in custodia) a Juan de Torquemada, zio dell’Inquisitore Tomás, dove dettero vita ai primi libri stampati in Italia che piano piano si diffusero anche a Roma e nel resto d’Italia. Ma il discorso è un poco più complesso perché non aveva senso venire da Magonza a Subiaco, semmai da Magonza a Roma. Ma a Roma questi poveri ed umili artigiani non trovarono ospitalità o qualcuno che li proteggesse. Poiché a Subiaco vi erano dei monaci tedeschi, qualcuno dei quali probabilmente conosciuto, fu là che si diressero. Questo problema di persone che avrebbero potuto leggere testi sacri è stata sempre presente nelle gerarchie ecclesiastiche. Nel Sinodo di Tolosa del 1229 venne approvata una Disposizione secondo la quale “Ai laici non è consentito il possesso né dei libri del Vecchio Testamento né di quelli del Nuovo Testamento”. Nel Regolamento ecclesiastico di Papa Giulio III (1550-1555) si legge invece “…darsi da fare in tutti i modi e con tutte le forze, affinché a nessuno venga consentita né oggi, né in futuro, la lettura, anche solo frammentaria del Vangelo…”. Se si sono lette queste pagine con una qualche attenzione si capisce perfettamente il perché. Osservo di passaggio che l’Abbazia di Subiaco, dopo Torquemada, passò al cardinale Rodrigo Borgia, che fortificò la Rocca, dove sarebbero nati Cesare e Lucrezia. Nel 1492, eletto Papa con il nome di Alessandro VI, trasmise la Commenda al cardinale Giovanni Colonna.  

        Questo Papa chiuse la sua indegna vita decidendo che il Giubileo si dovesse fare ogni 25 anni sperando di realizzarlo nel 1475. Ma Dio intervenne prima eliminandolo dalla faccia della Terra.

        Seguì l’elezione del cardinale di Savona Francesco della Rovere che assunse il nome di Papa Sisto IV (1471-1484).

        Anche questa volta si iniziò con l’impegno alla Crociata. Dopo varie azioni diplomatiche si arrivò a mettere insieme un qualcosa di misero, costituito da navi fornite da Venezia e Napoli, che andò incontro ad un totale insuccesso dovuto anche al nepotismo del Papa che mise degli incompetenti ai posti di comando. Questo Papa, infatti, fu un vero campione nella storia dei Papi, con lui il nepotismo raggiunse vertici insperati. Aveva 2 fratelli e 4 sorelle che gli dettero 15 nipoti (qualche figlio ?). Due nipoti furono subito fatti cardinali: Giuliano della Rovere che diventerà Papa Giulio II e Pietro Riario, un vero delinquente (sperperò le infinite rendite che gli erano state concesse in una vita che un cristiano definirebbe indegna e che io dico essere quella di un cardinale. Morì a 28 anni proprio in seguito alla sua vita dissoluta. Ma Sisto aveva pronta la porpora per il fratello Raffaele. L’altro fratello, Girolamo, fu fatto Conte con in dono il feudo di Imola. Con tale titolo ed averi sposerà Caterina Sforza, figlia del Duca di Milano (tanto per capire da dove discende la nobiltà italiana e chi ha governato nei vari feudi italiani). Descrive molto bene il seguito di questa storia vergognosa Rendina:

    Fu proprio Girolamo Riario, ignorante di politica, che trascinò lo zio papa in guerre e intrighi deleteri per lo Stato pontificio: l’aspirazione di Sisto IV a creare per questo nipote da strapazzo un grande principato lo portò a minacciare l’equilibrio politico italiano. Il maggior ostacolo al progetto veniva da Firenze; Lorenzo de’ Medici, contrariato con il papa perché non aveva elevato alla porpora cardinalizia il fratello Giuliano, appoggiò i diversi vassalli pontifici nella loro insubordinazione, puntando in pratica ad isolare economicamente il papa. Sisto IV per regolare le finanze della Curia si appoggiò alla fiorentina banca dei Pazzi, fonte di aggancio per possibili investimenti del Vaticano; e ci scappò il morto, con processi e condanne dalle quali il papato ne uscì infangato.
    Il 26 aprile 1478 venne attuata, com’è noto, la congiura dei Pazzi nel duomo di Firenze, tramite due chierici; Lorenzo si salvò, ma il fratello Giuliano restò ucciso. La rivoluzione popolare contro i Medici, su cui speravano i Pazzi, non scoppiò e fu fatta invece vendetta dei congiurati e dei loro familiari.
    I membri della famiglia dei Pazzi e l’arcivescovo Salviati di Pisa furono impiccati alle finestre del palazzo della Signoria; il cardinale Raffaele Riario, che si trovava a Firenze ospite dei Pazzi, imprigionato, fu poi rilasciato perché risultò del tutto estraneo alla congiura. Si è sempre discusso fino a che punto Sisto IV fosse implicato nell’attentato, ma è difficile pensare che egli fosse all’oscuro di tutto e una complicità indiretta è certa.
    Logiche comunque le sue reazioni per la condanna dell’arcivescovo Salviati e la detenzione del cardinal Riario, con pretesa di soddisfazione, ovviamente respinta. Lorenzo de’ Medici si prese la sua brava scomunica e Firenze finì nell’interdetto; si arrivò anche alle armi, ma Sisto IV restò paurosamente isolato. A salvarlo intervennero indirettamente i Turchi; nel 1480 erano arrivati a superare l’Adriatico conquistando Otranto. Tutta l’Italia improvvisamente ebbe paura e si ritrovò unita intorno al papa, che sciolse Firenze dall’interdetto e rilanciò di nuovo l’idea della crociata; questa non si realizzò, e ci fu solo l’impegno temporaneo per ributtare a mare i Turchi e liberare Otranto.
    Ma Girolamo Riario impelagò lo zio in nuove disavventure politico-militari; si era alleato con Venezia, promettendogli Ferrara, dove avrebbe provveduto ad eliminare Ercole d’Este, suo personale nemico. Questi peraltro trovò appoggio nel suocero, il re Ferdinando di Napoli, il cui esercito veniva però sconfitto dalle truppe pontificio-veneziane nel 1482 a Campo Morto nelle Paludi Pontine. Ma chiaramente Venezia era così potente che avrebbe finito per costituire un grosso pericolo per il principato del suo caro nipote, e Sisto IV pensò di cambiare politica, unendosi ai suoi nemici e isolando la repubblica lagunare.    
    In questa lotta, condotta in maniera sconsiderata su un piano prettamente politico, il papa ricorse naturalmente anche alle armi ecclesiastiche e lanciò l’interdetto su Venezia; fu una delusione. Nel continuo mutare degli eventi diplomatici, la grande repubblica riguadagnò l’appoggio degli alleati del papa, che restò nuovamente isolato e costretto all’umiliante pace di Bagnolo nel 1484.
    Non meno caotica si presentò proprio in quegli anni la situazione a Roma, sempre a causa di Girolamo Riario; per sostenere gli Orsini, si era messo in guerra aperta con i Colonna, che insieme ai Savelli nel 1482 avevano saccheggiato la Campagna romana. Ne fecero le spese i cardinali delle due rispettive famiglie; restarono come ostaggi in Castel S. Angelo per un anno, finché gli Orsini riuscirono a conquistare Albano, cacciandone Antonio Savelli, e a mettere le mani sul maggior rappresentante dei Colonna, Oddone, che, nonostante si fosse barricato in casa del cardinale, fu preso e decapitato. Il palazzo venne dato alle fiamme.
    A questa disastrosa politica Sisto IV accompagnò una gestione finanziaria deficitaria; era inevitabile infatti che per le smisurate elargizioni ai parenti, le guerre e gli intrighi, le sue finanze si trovassero in crisi paurosa, specialmente quando si ebbe il crack della banca dei Pazzi, in connessione alla congiura. Per far fronte a ciò si ricorse ovviamente ad abusi nel conferimento di benefici, che portarono a manovre simoniache, senza contare i proventi delle indulgenze in occasione del giubileo del 1475; si ebbe anche un aumento sistematico di nuove imposte, arrivando a speculare su un impopolare rincaro del pane.
     La riscossione dei tributi fu assegnata alla Dataria, che venne così a costituire, accanto alla Camera apostolica, l’altra potenza finanziaria di rilievo della Santa Sede. In conclusione ogni mezzo per raccogliere denaro gli sembrò buono, tanto che era solito dire: «II papa non ha bisogno che di penna e d’inchiostro per la somma che vuole».

        Sisto IV passò anche alla storia come famoso omosessuale. Un cronista dell’epoca, Stefano Infessura, raccolse nel 1484 nel suo Diario in latino una congerie di fatti documentati e di pettegolezzi infondati:   

“Costui, come è tramandato dal popolo, e i fatti dimostrarono, fu amante dei ragazzi e sodomita, infatti cosa abbia fatto per i ragazzi che lo servivano in camera lo insegna l’esperienza; a loro non solo donò un reddito di molte migliaia di ducati, ma osò addirittura elargire il cardinalato e importanti vescovati.

Infatti fu forse per altro motivo, come dicono certi, che abbia prediletto il conte Girolamo,e Pietro [Riario], suo fratello e poi cardinale di san Sisto, se non per via della sodomia?

E che dire del figlio del barbiere? Costui, fanciullo di nemmeno dodici anni, stava di continuo con lui, e lo dotò di tali e tante ricchezze, buone rendite e, come dicono, di un importante vescovato; costui, si dice, voleva elevarlo al cardinalato, contro ogni giustizia, anche se era bambino, ma Dio vanificò il suo desiderio“.

         Il denaro ricavato dal Giubileo e dall’aumento di tasse servì, oltre che per pagare i circenses di cui ho detto, anche per riprendere l’opera di abbellimento della città di Roma. A tal fine servì anche qualcosa che non si dice mai: la Roma con un via vai di preti aveva circa 50 mila abitanti ed era allietata da un numero spropositato di prostitute, 7 mila censite, che operavano in svariati bordelli allietando la città. Il Papa Sisto IV prendeva tangenti sotto forma di tasse dai tenutari dei bordelli per una quantità calcolata in circa 30 mila ducati ogni anno. A ciò va aggiunto il pizzo che i preti pagavano alla Chiesa per poter avere in casa una concubina. Comunque, per abbellire Roma, il Papa non poteva fare a meno delle persone di cultura, degli umanisti. Riaprì quindi l’Accademia Romana. Ed a lui si deve la Cappella Sistina decorata inizialmente da Mino da Fiesole, Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio ed il Perugino (Michelangelo interverrà con altri Papi). Dal punto di vista religioso a lui si deve solo l’aver dedicato la Cappella alla Madonna e di aver spinto molto nel mondo cristiano per il suo culto.

        Merita chiudere su questo degno Papa con una delle cose più oscene che abbia fatto. L’autorizzazione all’Inquisizione Spagnola del 1° novembre 1478 ai sovrani Fernando di Castiglia ed Isabella di Aragona che ebbero facoltà di operare indipendentemente dalla Chiesa nella nomina degli inquisitori e nelle procedure della vergognosa Inquisizione, esempio più fulgido della pietà di Cristo. Ma su questa Inquisizione che si estenderà poi alle Americhe in grazia della loro sfortunata scoperta, ho parlato diffusamente altrove.

        Alla morte di questo criminale, visto che ormai ci si era convinti che fare il Papa era il massimo affare pensabile, iniziò uno scambio simoniaco da paura gestito dai due massimi candidati, Rodrigo Borgia e Giuliano della Rovere, che avrebbero anche accettato un loro candidato. Ma nottetempo vi fu un cardinale che promise di più, il genovese Giovanni Battista Cibo, poi eletto con il nome di Papa Innocenzo VIII (1484-1492). Il personaggio aveva corrotto tutti con promesse strabilianti ed era stato eletto nonostante la sua vita ben nota di libertino che aveva già ben otto figli, due dei quali riconosciuti (Franceschetto e Teodorina), otto figlie ed altri che passarono (questa volta è certo) come nipoti alla corte pontificia (l’età d’oro dei bastardi !). Ma il personaggio dal bel fisico attraente e dalle strane (per un ecclesiastico, diamine !) voglie era anche un noto sodomita esercitatosi a lungo in quel di Napoli.  Passato a Roma fu egli stesso a dover soddisfare i piaceri del cardinale Filippo di Bologna che lo adorava. Come osserva Rendina, un Papa che ha famiglia ha poco tempo da dedicare ad affari di fede perché deve occuparsi di accumulare denaro per sé e la numerosa discendenza. Franceschetto era anche un giocatore di carte che perdeva regolarmente, anche con il cardinale Raffaele Riario con il quale perse in una volta una cifra enorme (60 mila scudi). E Franceschetto fu sempre un debosciato perché con il cadavere del padre ancora caldo vendette agli Orsini le due città che il padre gli aveva concesso in feudo nel 1490, Cerveteri ed Anguillara. Purtroppo Sisto IV si era mangiato quasi tutti i denari vaticani e Innocenzo, pover’uomo, dovette impegnarsi quella tiara d’oro tempestata di pietre preziose per far fronte alle prime necessità. L’idea di un Giubileo era purtroppo non praticabile perché al successivo mancavano ben 16 anni. Dovette inventare nuovi posti alla segreteria vaticana mettendoli in vendita. Ciò significò avere degli incapaci in alcuni posti che erano stati comprati da persone che, anche loro, volevano sfruttare economicamente la situazione. Il Vaticano diventò come mai lo era stato uno sperperificio di denaro. Si pensi solo che per piombare le bolle papali erano state assunte 52 persone. Costoro, per arricchirsi, avevano ideato il sistema di falsificare le bolle per venderle. Solo nel 1489 furono scoperti e giustiziati.

        La politica di questo Papa incompetente con altri Stati fu il seguito ideale dei disastri di Sisto. Si arrivò al quasi scontro armato con il Regno di Napoli irritando la potente famiglia Aragona. Si dimenticò la Crociata da vari Papi promessa. Si raggiunse invece una tregua a Roma tra gli Orsini ed i Colonna e si raggiunse una pace con Firenze mediante il matrimonio di suo figlio Franceschetto con la figlia di Lorenzo de’ Medici, Maddalena. Di questi matrimoni concordati a tavolino ve ne furono altri per i figli ed i nipoti (figli di Teodorina) del Papa. Alcuni per ragioni politiche (la giovanissima Battistina, seconda figlia di Teodorina, con Luigi d’Aragona, matrimonio non consumato per la morte di quella adolescente e la riparazione del Papa con Luigi fatto cardinale), altri per stretto interesse economico (la figlia Teodorina con un ricco mercante che per buon peso fu fatto tesoriere del Vaticano).

        Tutti gli eventi suddetti portarono a livelli intollerabili il prestigio della Santa Sede ma, nonostante figlie nipoti, il vero discredito venne dalla sua persona che dette prove pubbliche di crapula partecipando a banchetti in compagnia di belle dame. Commenta amareggiato Rendina:

D’altronde lo stesso collegio dei cardinali era un’accozzaglia di porporati che perlopiù tutto erano fuorché preti o vescovi, nel senso religioso della parola; e non poteva essere diversamente, se il papa nominava cardinale un figlio illegittimo di suo fratello e, ridicolizzando il collegio, su pressione di Lorenzo il Magnifico, assegnava la porpora al tredicenne Giovanni de’ Medici, già all’età di sette anni protonotaro apostolico con il corrispettivo di ricchi benefici e commende. Quest’ultima nomina cardinalizia rientrava peraltro nelle trattative che avevano portato al matrimonio di Maddalena de’ Medici con il figlio del papa […]

        Un personaggio di questa levatura fece anche danni enormi in questioni che egli, dall’alto della sua caprina ignoranza, riteneva di carattere religioso, firmando bolle stupide e criminali. Mentre in Germania vi era un  dibattito aperto sulla questione delle streghe, il Papa dette immediatamente credito a due inquisitori domenicani Enrico Institore e Giovanni Sprenger, cacciati dalla Germania, che gli chiesero di intervenire. Con la bolla Summis desiderantes affectibus (1484) incaricò gli stessi domenicani di sradicare l’errore con la zappa del saggio agricoltore; il  Malleus Maleficarum (1487), un libro redatto dai due domenicani e basato sui principi espressi in questa bolla, codificò la caccia alle streghe con torture e roghi che continueranno per moltissimi anni. Si scatenò anche contro i valdesi emettendo un’apposita bolla contro di loro. Nominò poi Tomás de Torquemada come Grande Inquisitore di Spagna (1487) in quell’Inquisizione che lo trovò entusiasta sostenitore. Nella sua visione religiosa festeggiò in modo pagano la caduta di Granada (gennaio 1492) sotto gli attacchi delle truppe cristiane. Il carnevale coincideva con quella vittoria della cristianità ed i romani si accorsero dell’evento per l’accrescersi dei festeggiamenti di strada e per le campane di tutte le chiese che suonarono a distesa. La data era certamente importante: dopo 750 anni l’intera Spagna era riconsegnata alla cristianità con un repentino ritorno alla barbarie che aveva vinto contro una civiltà di gran lunga più evoluta(10). Iniziava da questo momento l’annullamento del pluricentenario sincretismo etnico tra le tre religioni monoteiste ed iniziava la limpieza de sangre (pulizia etnica) e l’intolleranza dei cristiani contro musulmani ed ebrei (ed anche contro la cultura, il sapere, con l’incendio, tra l’altro, della enorme e prestigiosissima Biblioteca di Granada qualche anno dopo).

        Alla morte di questo degno Papa ne arrivò uno ancora più degno. Ritornavano gli spagnoli a Roma con il cardinale Rodrigo Borgia, il nipote (o figlio ?) di Callisto III che quel Papa rese potente, eletto con il nome di Papa Alessandro VI (1492-1503). Vi fu una corruzione imponente per portare questo uomo (già assassino di un coetaneo all’età di 12 anni)  al pontificato ma contò anche il prestigio della Spagna che si era unificata con l’espulsione dei moriscos e della Spagna che implacabilmente lottava contro l’eresia con quel criminale di Torquemada (a questo proposito, nel 1494, Alessandro concesse ai Re di Spagna il titolo di Re Cattolici, titolo che solo questi sovrani di Spagna ebbero). Accrebbe successivamente il prestigio del Papa spagnolo la scoperta dell’America dell’ottobre 1492(11).  Come dice Deschner Rodrigo divenne molto presto uno “sciupafemmine seducendo una vedova spagnola e le sue figlie insegnando loro le perversioni più disgustose e facendo fare alla più giovane tre bambini che lui ricon0obbe come suoi: Pedro Luis, Geronima e Isabella. Un pro-pronipote di quest’ultima sarebbe poi divenuto Papa: Innocenzo X”. La parte simoniaca previde come pagamento ai cardinali più potenti (grandi elettori) che: al cardinale Ascanio Sforza andasse il suo palazzo e il vicecancellierato dello Stato Pontificio; al cardinale Orsini i suoi possedimenti di Monticelli e la cittadina di Soriano; al cardinale Colonna la cittadina di Subiaco con i castelli circostanti; al cardinale Savelli la città di Civitavecchia. Era già noto come cardinale libertino, attività iniziata a 25 anni, e approfittò del papato per incrementare vita dissoluta, lussi e libertinaggio. Da Cardinale non aveva nemmeno lo scrupolo di nascondere i suoi fasti amorosi. Aveva una relazione con una romana, Vannozza de’ Cattanei, dalla quale aveva avuto quattro figli (prima di Vannozza aveva giaciuto con la mamma e la sorella); da altre relazioni i figli noti erano altri tre. Anche da Papa continuò senza pudore avendo ancora almeno due figli, uno dei quali prima di morire o forse appena dopo morto. Ebbe un’amante ufficiale, la moglie di Orsino Orsini (begli ambienti, eh?), la bella Giulia Farnese nota ai Romani come la sposa di Cristo. Naturalmente il fratello di Giulia, Alessandro, fu fatto cardinale. Molti storici e psicologi hanno tentato di capire la smodata lussuria di questa sagra dell’erotismo con la ricerca spasmodica di amori profani da parte di Alessandro, non dissimile da un personaggio oggi noto nella politica italiana, ed hanno concluso che si è trattato di forme patologiche che hanno avuto come conseguenza una tiara portata dal più indegno vicario di Cristo che si sia mai avuto.

        Dopo una partenza che fece ben sperare, un lampo e basta, in cui vennero presi provvedimenti contro il dilagare della delinquenza di strada a Roma, venne iniziato un riordino delle finanze e venne promesso un impegno per la pace in Italia, uscì fuori la vera insopprimibile natura del personaggio al quale fu fatale lo smodato ed innaturale amore per i figli(12) ed il Papato e la Chiesa servirono a lui solo come mezzo per arricchire e rendere potenti sé ed i suoi figli, tra i quali Cesare e Lucrezia nati nell’Abbazia di Subiaco. E Cesare Borgia sarà quello che emergerà indubbiamente di più nel panorama della politica e delle guerre italiane dell’epoca. Con lui avranno rapporti sia Leonardo da Vinci che Niccolò Machiavelli(13). Questo personaggio, il Principe di Machiavelli, aveva iniziato presto la sua carriera. A soli 6 anni (sic!) Sisto IV lo aveva nominato protonotaro apostolico. Alessandro, appena eletto, lo fece subito cardinale (l’altro figlio, il prediletto Giovanni, ebbe grandi benefici terrieri con i ducati di parte dello Stato Pontificio ma non poté goderne perché venne ammazzato in modo mai chiarito).        

        La figlia Lucrezia, indipendentemente dal fatto non dimostrato di suoi rapporti incestuosi con il padre-Papa ed il fratello Cesare, fu usata dal padre per risolvere vari interessi personali e di famiglia. Fu data in sposa a Giovanni Sforza, della famiglia di Ascanio Sforza, come buon peso della simonia che lo portò al soglio pontificio, dopo qualche anno annullò questo matrimonio perché (così dissero gli interessati) non era stato consumato al fine di un altro matrimonio di Lucrezia a fini politici con un personaggio che Lucrezia gradiva, il principe Alfonso di Bisceglie, figlio di Alfonso II di Napoli (1498). Il matrimonio durò solo due anni perché il fratello Cesare, ancora per motivi politici, uccise il marito. Si poté così passare al terzo matrimonio, ancora a fini politici, celebrato nel 1501 per procura con Alfonso d’Este. Mentre il primo matrimonio fu sfarzoso e celebrato in Vaticano dal papà-Papa, quest’ultimo fu orgiastico con festeggiamenti e baccanali iniziati il 30 dicembre ed andati avanti fino all’Epifania. Da questo momento Lucrezia visse a Ferrara come una normale duchessa. Precedentemente aveva dovuto gestire la politica del Vaticano assolvendo i compiti di vice-Papa che gli incaricava il padre quando si allontanava da Roma(14).

        Il resto dell’intricata politica del Papa e della sua famiglia per gli interessi della famiglia li racconta molto bene Rendina, nel suo più volte citato libro di bibliografia, che è una miniera di informazioni. Leggiamo:

    Per i figli dunque Alessandro vi impegnò il pontificato in chiave esclusivamente politica, dimostrando peraltro eccezionali qualità di fronte a Carlo VIII di Francia che, tra il 1492 e il 1493, in una serie di trattati si era assicurato l’appoggio dell’Inghilterra, della Spagna e dell’imperatore Massimiliano, nonché del signore di Milano Ludovico il Moro, con il fine d’impadronirsi del regno di Napoli come erede degli Angiò. Il papa, inizialmente ostile agli Aragona, nel 1493 riappacificò con Ferrante concretizzando l’alleanza nel matrimonio di suo figlio Goffredo con Sancha, figlia naturale di Alfonso di Calabria, e quando Ferrante nel gennaio dell’anno dopo morì, si affrettò ad infeudare Alfonso II re di Napoli; l’incoronazione fu celebrata a Napoli dal cardinale Giovanni Borgia. Era una sfida alle pretese di Carlo VIII che immediatamente invase l’Italia: Firenze si arrese scacciando i Medici, e Alfonso II di fronte al pericolo cedette la corona al figlio Ferdinando II e fuggì in Sicilia. Gli Aragonesi in pratica non erano neanche ben visti dal popolo e il papa si trovò improvvisamente in una situazione difficile, accresciuta dallo stato di ribellione che subito i Colonna e altre famiglie nobili romane, appoggiate dal cardinale Giuliano della Rovere, fomentarono nello Stato pontificio. Si arrivò anche a parlare di una deposizione del papa.
    Carlo VIII il 31 dicembre 1494 entrava a Roma senza trovare resistenza; Alessandro VI nel chiuso di Castel S. Angelo, trasformato in una nuova fortezza da Antonio da Sangallo, meditò un diverso atteggiamento nei confronti del re. Il 15 gennaio 1495 concedeva ufficialmente il libero passaggio alle truppe francesi nello Stato della Chiesa, offrendo il figlio Cesare in qualità di cardinale legato come guida per le truppe francesi fino ai confini del regno di Napoli. Fu un’abile mossa che riscattò in pieno Alessandro VI e non si parlò più di deposizione anzi, in concistoro, Carlo VIII giurò obbedienza al papa.
    Il 22 febbraio il re francese entrava a Napoli senza colpo ferire; anche Ferdinando II, vistosi abbandonato dal papa, era scappato a Ischia e di lì in Sicilia. Ma la facilità con la quale Carlo VIII aveva conquistato il regno nell’Italia meridionale rivelò subito a tutti gli Stati italiani la grave minaccia che si profilava per la loro stessa esistenza; e così il 31 marzo a Venezia si stipulava una coalizione antifrancese, con la presenza del papa, che nuovamente cambiava posizione. Carlo VIII ritenne opportuno ritirarsi. Riattraversò lo Stato pontificio senza che Alessandro VI s’impegnasse in un’inutile opposizione; l’esercito della lega le bloccò a Fornovo, ma il re riuscì a passare ugualmente. A Napoli tornavano gli Aragona con Ferdinando II.
    Salito sul trono di Francia Luigi XII Alessandro VI mutò ancora politica e si alleò con il nuovo re; quando questi riuscì a scacciare Ludovico il Moro dal ducato di Milano unendone il territorio alla Francia, il papa vide aprirsi ampi orizzonti per il figlio Cesare. Questi aveva rinunciato già dal 1498 alla dignità cardinalizia; svanito il matrimonio con una Aragonese e tramontata la prospettiva del principato di Taranto, egli si vide impalmato con la principessa Carlotta d’Albert, sorella del re di Navarra, per i buoni uffici di Luigi XII, che gli concesse inoltre il ducato di Valentinois, promettendogli aiuti per la conquista di uno stato in Romagna.
    In questo modo Luigi XII si assicurò la neutralità dello Stato pontificio nella nuova spedizione che egli intendeva organizzare per la riconquista del regno di Napoli; e durante lo svolgimento delle campagne francesi in Italia tra il 1500 e il 1503, si attuò anche l’impresa del Valentino in Romagna. Alessandro VI s’impegnò nella ricerca dei mezzi occorrenti per finanziarla ricorrendo alla simonia con la nomina di dodici cardinali, che dovettero pagare la porpora con una cospicua somma di denaro, e al mercato delle indulgenze in occasione del giubileo del 1500. L’impresa militare fu opera principalmente di Cesare che, non rifuggendo da nessun mezzo pur di raggiungere il suo scopo, da autentico «principe» alla Machiavelli, occupò successivamente Pesaro, Cesena, Rimini, Faenza, Urbino e Senigallia, ricevendo dal padre il titolo di duca di Romagna; lo Stato pontificio perdeva in tal modo una sua grande provincia, che diventava principato ereditario dei Borgia.
    Ma i piani di Alessandro VI e suo figlio non si fermarono qui; l’obiettivo finale era la secolarizzazione di tutto lo Stato pontificio sotto il regime dei Borgia. Essi si buttarono in questo grandioso progetto senza tregua, confiscando i possedimenti alle famiglie Colonna, Savelli e Caetani, impotenti di fronte alla situazione italiana così favorevole alle mire dei due. Il ducato di Sermoneta fu assegnato al figlio di Lucrezia, Roderico, di appena due anni, che si vide cosi infeudato da un nonno papa; il ducato di Nepi finì al più piccolo dei figli di Alessandro VI, Giovanni, anch’egli di soli due anni. Cesare s’impadroniva del ducato di Urbino e Camerino e con diabolica abilità sterminava spietatamente a Senigallia alcuni suoi capitani, che stavano tramando una congiura contro di lui.
    Una volta spodestati anche gli Orsini, con l’eliminazione del cardinale Giovan Battista e la messa al bando di tutti gli altri, Alessandro VI e Cesare pensavano di completare l’opera con la conquista della Toscana; occorreva ancora denaro e il papa se lo procurò con altre nomine cardinalizie e la vendita di nuovi uffici della Curia. Il difetto fondamentale di questa grandiosa costruzione politica era quello di non esser sorretta da una effettiva classe di governo, tutto era basato sulla rapidità d’azione di un principe fornito di machiavellica «virtù» pronto a sfruttare la «fortuna» che gli proveniva da suo padre. Era chiaro che l’impalcatura sarebbe crollata non appena uno dei due elementi portanti fosse venuto meno; e così fu quando Alessandro VI morì improvvisamente il 18 agosto 1503. Cesare avrebbe seguitato a difendere il proprio prestigio sotto il breve pontificato di Pio III fino ad accordarsi inizialmente anche con il successivo papa Giulio II; ma poi, abbandonato a se stesso, avrebbe perso tutto, fino ad essere arrestato da Consalvo di Cordova, gran capitano delle truppe spagnole a Napoli. Prigioniero in Spagna, avrebbe trovato sì rifugio presso il cognato, il re di Navarra, ma anche la morte nel 1507 nella sua ultima impresa sotto il castello di Viana.

        A quanto ben raccontato da Rendina vi sono da aggiungere alcune cose su quanto accadeva simultaneamente nella vita civile.

        Sei peggio delle bestie, sei un mostro ed un luridume. Vergognosa meretrice. Bordello. Così predicava dal pulpito del Duomo di Firenze  il domenicano Girolamo Savonarola dirigendosi alla Chiesa, alla Curia (meretrice di Babilonia) ed ai costumi corrotti dilaganti anche tra i tiranni laici come i Medici. E durante la Repubblica, instauratasi con l’esilio di quest’ultima famiglia, pretese per chiunque l’avesse voluta far ritornare al potere la pena di morte perché i tiranni meritano di essere fatti a pezzi, senza fare peccato. Invocò inoltre l’alleanza con la Francia di Carlo VIII per estirpare la corruzione. Fu oggetto di tentativi di corruzione da parte dei Medici che gli offrirono molto denaro e da parte del Papa Alessandro VI che gli offrì la porpora cardinalizia ancora nel 1497, dopo che nel 1495 gli aveva intimato di sospendere le predicazioni. Egli rifiutò la porpora perché ciò si inseriva nello sporco commercio della compravendita delle cariche ecclesiastiche alla quale il Papa partecipava, ed il rifiuto comportò la sua scomunica sempre nel 1497.

        Era amato ed odiato a Firenze dove perse il suo ascendente tra la popolazione nel 1498 quando il Papa minacciò di sospendere tutte le manifestazioni pubbliche di culto e di ritirare i sacramenti della Chiesa da Firenze e tutto il Granducato (interdetto), con gravi ripercussioni economiche per l’intera popolazione. Fu facile da questo punto di forza aizzare la gente contro Savonarola. Il suo convento (San Marco) fu attaccato e Savonarola finì in catene, torturato con estrema durezza, condannato per eresia e scisma, impiccato e subito dopo bruciato con due confratelli (23 maggio 1498).

        Resta solo da dire che vi sono seri dubbi sul motivo della morte di questo Papa, ufficialmente per malaria. Sembra, come accreditò il Guicciardini, che Alessandro restò vittima di un avvelenamento che egli stesso e Cesare avevano preparato per il cardinale Castellesi di Corneto per appropriarsi dei suoi averi. Altri storici mettono in dubbio questa versione ma, dato il personaggio, ogni morte non naturale risulta più attendibile dell’altra. Gli unici motivi non disdicevoli per cui merita di essere ricordato sono l’incarico a Michelangelo della Pietà e la decorazione dei suoi appartamenti in Vaticano ad opera del Pinturicchio.

        Alla morte di Alessandro VI vi fu paura ed apprensione tra i cardinali. Si temeva una sortita in armi di Cesare Borgia per condizionare il conclave. Ma Cesare patteggiò accettando il mantenimento dei suoi possedimenti in Romagna ed un salvacondotto per attraversare lo Stato Pontificio. Restava comunque una grande incertezza su chi eleggere anche perché il nepotismo di Alessandro VI aveva portato il numero dei cardinali a 38 con difficoltà a metterli tutti d’accordo. Si scelse di eleggere un Papa di transizione, Pio III (1503) figlio di una sorella di Pio II e padre di una dozzina di figli, che era molto malato e malandato ed avrebbe presto tirato le cuoia, quasi certamente aiutato da una dose di veleno. Infatti fu eletto il 22 settembre ed il 18 ottobre dipartì. Era un uomo pio, un vero religioso ed una brava persona, come si addice ai Papi di transizione.

        I circa 30 giorni di papato di Pio III avevano permesso ogni operazione di simonia davvero scandalosa e quindi avevano già preparato il nuovo Papa che infatti fu eletto immediatamente nella persona di Giuliano della Rovere, fatto cardinale dallo zio (o padre ?) Sisto IV, che assunse il nome di Papa Giulio II (1503-1513). L’ancora cardinale della Rovere aveva fatto un  preconclave con i cardinali spagnoli e con Cesare Borgia (che era tornato a Roma autorizzato dalla bontà di Pio III che perdonò tutto e che aveva preso possesso di Castel Sant’Angelo). In esso con una serie di promesse si garantì il loro appoggio siglato dalla paura che faceva Cesare Borgia. Il bello della vicenda è che come altre volte, ma in questa più smaccatamente, uno degli atti di Giulio II fu la bolla Cum tam divino in cui il Papa eletto sarebbe stato da considerare decaduto nel caso l’elezione fosse avvenuta con simonia (1506).

        Il Papa, padre felice di tre figlie anche se da qualche parte o per pederastia o per sodomia prese la sifilide, era noto per le sue abilità politiche che non entrarono mai a far parte non dico di quelle evangeliche ma neppure di quelle religiose. Come altri suoi predecessori aveva figli che ormai non si aveva pudore a riconoscere mentre in passato e, come vedremo, nel futuro si nasconderanno dietro la parola magica nipoti. Si comportò come un sovrano di uno Stato qualunque amministrando le cose terrene del potere temporale ed occupandosi della famiglia. Il suo compito era di nuovo arduo perché Alessandro VI aveva dissanguato il tesoro della Chiesa, aveva portato a livelli infimi il prestigio del Papa ed aveva compromesso in vari modi e con varie cessioni i territori dello Stato pontificio. L’idea di ricostituire il prestigio ed il potere della Chiesa guidò Giulio (chiamato Papa guerriero) fino al punto di fare guerre a destra e manca facendo e disfacendo spudoratamente alleanze. Minacciò guerra a Venezia che tentava l’espansione in territori romagnoli. Ebbe scontri con Cesare Borgia che tentò l’alleanza con Napoli, ormai spagnola, per attaccare Roma (qui iniziò la fine del Principe che fu arrestato e condotto in carcere in Spagna dove morì, come già accennato). Riconquistò Perugia e Bologna dopodiché fece più ferme le minacce a Venezia. E poiché la città lagunare non cedeva mise in piedi il trattato di Cambrai (1508) che istituiva una lega internazionale formata dall’Imperatore Massimiliano di Germania, il Re Luigi XII di Francia, il Re di Spagna ed il duca di Ferrara (marito di Lucrezia Borgia). Con le spalle tanto forti da riuscire a battere in battaglia Venezia (Agnadello 1509), il Papa fece una pace separata con questa città non interessandosi del fatto che ciò spezzava la lega (ma i Papi hanno sempre funzionato e funzionano solo per interessi personali). Lo Stato Pontificio ottenne le terre romagnole rivendicate e addirittura si incamminò sulla strada di un’alleanza con Venezia finalizzato a contrastare il pericolo turco e ad avere un alleato forte per far perdere forza alla dominazione francese in Italia (questa alleanza fu chiamata Lega Santa). La mossa ebbe successo contro i francesi ma compì il miracolo di far penetrare in Italia una potenza molto più invasiva come la Spagna. La reazione degli altri Paesi che avevano costituito la lega avrebbe potuto essere contundente se avesse operato in modo unitario invece di dividersi con alleanze differenti addirittura in contrasto d’interessi tra loro. Alcuni cardinali fedeli al Re di Francia convocarono un Concilio a Pisa (1511) per dichiarare deposto il Papa. Quest’ultimo rispose con un Concilio ecumenico a Roma (1512) per dichiarare nullo quello di Pisa e per scomunicare tutti coloro che vi avevano partecipato. Niente di nuovo, deja vu. Poi Luigi XII non sostenne più il Concilio di Pisa; i pochi cardinali che vi avevano aderito provarono a resistere spostandosi in altre città; non riuscendo a convincere nessuno chiesero perdono al nuovo Papa (Leone X) e furono reintegrati (anche qui: deja vu). La Lega Santa fu inizialmente sconfitta dai francesi (1512) ma alcune vicende (principalmente la venuta meno del sostegno dell’Imperatore Massimiliano a Luigi XII) le ridettero forza tanto che i negoziati con la Francia fecero riacquistare altre città allo Stato Pontificio (Modena, Reggio, Parma, Piacenza.

        Mentre accadevano questi fatti vi era un ribollire di questioni dal carattere strettamente religioso che da lì a poco avrebbero portato alla rottura con la Chiesa di Roma di Lutero. Non lo si capì fidando nel potere temporale e nel Concilio Lateranense V del 1512 non si disse sui problemi, già vivi dei quali dirò più oltre, neppure una parola. Furono approvati molti Decreti che avrebbero dovuto rappresentare riforme e nell’organizzazione e nella dottrina della Chiesa. Altri provvedimenti riguardarono il Concordato con il Re di Francia, la prescrizione di fare guerra ai turchi, l’obbligo di tutti i paesi cristiani di pagare la decima (una tassa) alla Chiesa. I Decreti fatti circolare attraverso bolle pontificie riguardavano: l’invalidità dell’elezione di un Papa attraverso la simonia (questo fu l’unico decreto fatto approvare da Giulio II ed al quale ho accennato); la sottomissione di ogni pensiero e teoria filosofica alle verità teologiche; la proibizione di ogni discussione sull’immortalità dell’anima l’interdizione di ogni profezia particolarmente riguardante l’avvento dell’Anticristo; la censura preventiva sui libri la cui stampa deve avere l’imprimatur dalla Chiesa; l’autorizzazione all’esistenza dei monti di pietà gestiti dalla Chiesa e con capitali iniziali rastrellati mediante indulgenze (vero furto pretesco sui poveri); e varie altre questioni organizzative interne (predicazione da parte dei chierici, privilegi dei religiosi, riforma di abusi ecclesiastici per venire incontro a richieste della base, libertà ecclesiastica e dignità episcopale, abolizione di alcune esenzioni non autorizzate per i religiosi). Il Concilio chiuse i suoi lavori il 16 marzo 1517 senza che però la parte relativa alle riforme interne avesse un minimo di applicazione immediata, vista l’urgenza delle istanze che da ogni parte provenivano. Ultima occasione persa che non fu neppure recuperata da Leone X alla chiusura del Concilio.

        Poiché questo Papa operò nel Rinascimento italiano non fu immune dal culto del bello che sprizzava da ogni lato. A lui si deve una prima sistemazione urbanistica di Roma con una strada tutta in linea retta che rompeva con il dedalo dei vicoli. Si tratta della splendida Via Giulia. Grandi artisti ed architetti operarono poi per il Vaticano in quel periodo: Bramante per la ricostruzione integrale del Vaticano; Michelangelo con gli affreschi alla Cappella Sistina e con la statua al medesimo Giulio II; Raffaello con gli affreschi degli appartamenti di Niccolò V.

        Il successore di Giulio II fu Giovanni de’ Medici, il figlio secondogenito di Lorenzo il Magnifico, che fu eletto Papa all’età di 38 anni con il nome di Leone X (1513-1521). Era quel figlioletto del potente Lorenzo che per motivi politici fu fatto protonotaro apostolico da Innocenzo VIII a soli 7 anni, abate di Front Douce in Francia ad  8 anni, abate a Passignano a 9 anni, abate a Montecassino a 11 anni e cardinale a 13. Sembra che la sua elezione sia stata esente da simonia e che sia avvenuta perché il giovane cardinale era molto malato e pronto alla dipartita (si scoprì poi che il trono di Pietro fu una cura formidabile). Come nel caso di Pio III, fu scelto probabilmente perché avrebbe garantito il tempo necessario per ulteriori accordi simoniaci tra cardinali.

        In linea generale il grasso nuovo Papa, corpulento, molto simile alle immagini satiriche dei preti crapuloni, fu persona priva di polso, perdonò tutti compresi coloro che avevano partecipato al Concilio di Pisa, un Colonna che aveva tentato di instaurare una repubblica, fu una volta filo ed una antifrancese, non chiarì mai la sua posizione rispetto all’Impero tedesco, ma una cosa portò avanti con decisione, l’affermazione e l’arricchimento della famiglia con lo sperpero di ingentissime fortune (si pensi che il suo medico guadagnava 86 ducati l’anno a fronte delle sue spese ordinarie che erano di 59.600 ducati l’anno e che solo per la festa nuziale del fratello spese 150.000 ducati. In totale si valuta che durante il suo regno Papa Leone spese per le sue proprie necessità ben 4 milioni e mezzo di ducati lasciando inoltre 400 mila ducati di debito). Fece cardinali il cugino Giulio (che poi diventerà Papa Clemente VII) ed il nipote Innocenzo della famiglia di Innocenzo VIII (un modo di ricambiare).

        Per una vendetta maturata tra famiglie in quel di Siena il cardinale Petrucci, sostenuto da altri 4 cardinali, ordì una congiura per ammazzare il Papa Leone mediante del veleno aggiunto dal suo medico personale alla medicazione periodica delle sue emorroidi. La congiura fu scoperta e il Papa diventò crudele: il cardinale Petrucci fu fatto strangolare, notare la finezza, da un musulmano (1517) mentre il medico ed il suo segretario furono cristianamente squartati. I quattro cardinali coinvolti furono cacciati e salvarono la loro vita solo dietro pagamento di forti somme. Questo episodio comportò il sospetto e la sfiducia in Leone tanto da non fidarsi più di nessun cardinale. Il problema della necessaria collaborazione lo risolse nominando in un sol colpo ben 31 cardinali. Il malcontento però cresceva sia in ambiente ecclesiastico che in ambiente civile. La cosa che più colpì fu la vendita delle indulgenze che raggiunse vette impensate. Il motivo ufficiale era la costruzione della cattedrale di San Pietro ma le cose andarono molto oltre con vergognose richieste di denaro che avrebbero, in nome di Dio, mondato ogni peccato per turpe che fosse. Nel 1517 fu addirittura pubblicato un listino, la Taxa Camarae, che è un qualcosa di orrendo ed inimmaginabile da una mente normale ma probabilmente in linea con menti naturalmente criminali.  Non vi era alcun delitto, nemmeno il più orrendo, che non avesse potuto ricevere il perdono in cambio di denaro. Leone X dichiarò aperto il cielo a clerici o laici, non importa se avessero violentato bambini e adulti, assassinato uno o più, truffato creditori, abortito … se avevano l’accortezza d’essere generosi con l’arca papale. L’indulgenza era acquistabile sia per persone  in vita che per i morti. Furono anche le banche, come quella dei Fugger, a raccogliere i fondi. Tra lo schifo generale vi erano anche dei monaci che davano indulgenze fai da te. E’ il caso del domenicano Tetzel che prometteva la liberazione immediata dal Purgatorio di un’anima peccatrice se un parente in vita di tale anima gli avesse consegnato un fiorino.

        Questo scandalo delle indulgenze, sommato ai lussi e dissolutezze dei costumi della Chiesa provocò lo scisma protestante, inizialmente ad opera del monaco agostiniano Martin Lutero. Seguiamo un poco questa vicenda.

LA RIFORMA DI LUTERO

        Il monaco agostiniano Martin Lutero o Luther (1483-1546) fu teologo e professore di Studi Biblici a Wittenberg (Germania). Viaggiò molto in Germania ed in Italia dove tra l’altro fu inviato a Roma come rappresentante del convento agostiniano di Erfurt (1510). Rimase in città il tempo che gli permise di cogliere l’ipocrisia e la corruzione della Curia senza riuscire a risolvere nessuno dei problemi di cui era ambasciatore. Il primo ciclo di lezioni di Studi Biblici tenute da Lutero nel 1515-1516 venne dedicato al Libro dei Salmi, all’Epistola di San Paolo ai Romani ed ai Galati (1517). Scrive Mussgnug:

Attraverso queste letture Lutero giunse a una nuova visione di Dio e della fede, che costituiscono la base della teologia della sua maturità e dell’intera riforma protestante. In anni di disperata ricerca della grazia divina, Lutero si era convinto della corruzione radicale della natura umana. Il peccato originale ,aveva scavato un abisso tra uomo e Dio, che l’uomo da solo non poteva superare. Prigioniera della sua natura corrotta, l’umanità era destinata a subire dolori e afflizioni senza poter aspirare alla perfezione della fede. Niente poteva essere più lontano dalla dottrina tomista della riconoscibilità del bene c del male, che la teologia medievale aveva trasformato in un elaborato sistema “retributivo” di pesi c contrappesi, secondo cui tante pene spettavano a chi faceva del male e tanti meriti a chi operava del bene. Davanti al profondo pessimismo di Lutero svanivano tutte le certezze su cui era basata l’organizzazione medioevale della Chiesa. Né la vita contemplativa dei monasteri, né la mediazione delle gerarchie ecclesiastiche potevano garantire all’uomo la grazia divina, perché nessuno sforzo umano aveva merito davanti a Dio. Ma in tutto questo non c’era motivo di disperazione. «Il giusto vivrà per fede» furono queste parole di San Paolo che colpirono profondamente il professore di Wittenberg e in cui trovò la risposta a tutte le sue paure. Dio aveva dato un segno di speranza all’umanità intera nella sofferenza di Gesù Cristo, che aveva cancellato la colpa per tutti e trasformato l’ira del Padre in misericordia. In nome dei meriti di suo figlio, Dio aveva perdonato l’umanità e nel Vangelo aveva dato l’annuncio della salvezza, messa a portata dell’umanità al solo prezzo di accettare con fede il sacrificio di Cristo. Per descrivere questa sua nuova concezione della fede, Lutero parlò di una “teologia della croce”, contrapposta alla “teologia della gloria” delle dottrine medioevali. Era l’inverno dcl 1515 c solo pochi studenti di teologia udirono le parole di Lutero. Nessuno di loro sospettò che fra pochi anni le idee del loro professore avrebbero affascinato c turbato migliaia di fedeli in ogni parte della Germania.

        Queste erano lezioni e riflessioni personali che ancora non avevano avuto confronto diretto con il potere, confronto che iniziò con una disputa del 4 settembre 1517 nella quale egli rifiutò categoricamente l’aristotelismo e quindi si pose in netta linea di collisione con San Tommaso e con tutti i frati colti e teologi dell’epoca. E questo era il retroterra culturale al quale Lutero aggiunse la sua esperienza di parroco e confessore di Wittenberg. Proprio il 13 settembre 1517 una bolla di Leone X aveva concesso l’indulgenza plenaria a chi avesse pagato un tributo al vescovo (questa volta servivano soldi perché il nobile Alberto di Brandeburgo, arcivescovo di Magonza, potesse pagare una multa al Papa stesso). Il banditore delle indulgenze(15) (Appena il soldo in cassa ribalta, l’anima via dal purgatorio salta) era un domenicano, Johann Tetzel che operava in terra tedesca ma in Magdeburgo, appena al di là del confine con Wittenberg. I parrocchiani di Lutero fecero viaggi per andare al di là del vicino confine a comprare indulgenze e ciò fu per Lutero un colpo durissimo che lo spinse ad agire. La vendita delle indulgenze(16) per avvicinarsi a Dio era del tutto insopportabile come lo era il fatto che il Papa avesse il potere di cancellare tutti i peccati. Lutero comunque, ad evitare problemi con il signore di Wittenberg che avrebbe perso importanti introiti, si scagliò solo contro il signore di Brandeburgo. Ad ogni modo, il 31 ottobre 1517 a soli sei mesi dalla chiusura del Concilio Laterano V, Lutero si recò alla porta della Chiesa annessa all’Università e lì affisse dei fogli contenenti le sue riflessioni ed osservazioni sulle indulgenze espresse in 95 tesi. Inviò questo scritto ai suoi superiori, il vescovo di Brandeburgo e l’arcivescovo di Magdeburgo e Magonza (ed anche a Tetzel). L’affissione alla porta della chiesa del documento era nell’uso accademico, in tal modo si proponeva alla discussione pubblica con dotti e teologi il contenuto del suo scritto. Non vi erano violazioni delle leggi canoniche perché nel suo ruolo di professore di teologia Lutero poteva proporre a discussione qualsiasi argomento. La questione più scottante era la seguente: se il Papa può liberare le anime dei defunti, perché non può farlo qui subito e gratuitamente ? Le tesi di Lutero ebbero grande attenzione e sostegno da parte di molti colleghi, sia in Germania che fuori, che si fecero propagandatori di esse. Piano piano anche l’opinione pubblica ne rimase colpita, anche perché esausta delle esose tasse che la Chiesa richiedeva. In breve si creò un’ondata di opinione ostile a Roma. Ma Tetzel denunciò immediatamente Lutero come eretico al Papa Leone X il quale tentò di mantenere le cose in termini di soluzione diplomatica per evitare di crearsi inimicizie tra i potenti agostiniani (ed anche perché preparava la guerra ai turchi e gli serviva il sostegno della Germania). Lutero venne convocato a Roma ma Lutero sapeva dei pericoli che correva nella tana del lupo e, mediante consigli ed aiuti politici (l’elettore di Sassonia), riuscì a fare trasferire l’incontro in terra tedesca. Tra il 12 ed il 14 ottobre del 1518 Lutero si incontrò con il delegato papale, il profondo teologo domenicano di Gaeta (per ciò detto Caetano)  Tommaso de Vio che subito chiese a Lutero di ritrattare le sue tesi. Lutero rifiutò e l’inviato papale se ne ritornò a Roma senza nulla in mano ma, dopo aver letto che Lutero non considerava il sacramento della penitenza, con la certezza che questo significa costruire una nuova Chiesa. Ed il bravo teologo capì che il problema delle indulgenze era marginale rispetto al fatto che in quanto sosteneva Lutero vi era il disconoscimento della suprema autorità del Papa. La rottura era insanabile e fu realizzata. In situazioni normali vi sarebbe stata la dura reazione della Chiesa che avrebbe messo a tacere l’eretico. Ma varie circostanze politiche si sommarono (politica delle alleanze alla morte di Massimiliano I, imperatore del Sacro Romano Impero, nel gennaio 1519 e la questione della sua successione con Carlo V in Germania ed altre diatribe con Francia ed Inghilterra) dettero tempo a Lutero di far conoscere le sue tesi a più e più persone con un suo scritto ricco di citazioni e riferimenti biblici, Risoluzioni riguardo alle 95 tesi,e conferenze in giro per le università tedesche (vi fu anche uno scontro a Lipsia nel luglio 1519 con un suo avversario in una classica disputa scolastica: fu l’abilità retorica di Lutero a vincere ed a portarsi dietro un sostegno molto grande). Questo tempo gli bastò perché fosse considerato come l’emblema della rivolta tedesca contro la Chiesa di Roma e, questo è importante, non solo in termini teologici.

        Il 15 giugno 1520 arrivò la risposta del Papa alle Risoluzioni che rese pubblico il risultato del processo canonico contro Lutero attraverso la bolla Exsurge Domine. In essa Lutero era paragonato ad un cinghiale nella vigna del Signore. I suoi libri erano condannati al rogo e Lutero era scomunicato, a meno che non avesse ritrattato tutto. Lutero non fece marcia indietro anzi, tra il giugno ed il novembre 1520, scrisse 4 libri (tre dei quali in tedesco) in cui fece leva sull’orgoglio nazionale del popolo tedesco sfruttato da Roma e si scagliò contro la dottrina dei sacramenti della Chiesa affermando che solo due di essi dovevano restare, il battesimo e l’Eucarestia. E poiché spariva il sacramento dell’ordine del sacerdozio, si ridefinivano le strutture del clero ecclesiastico: tutti i fedeli sono sacerdoti ma solo alcuni, i ministri, svolgono funzioni a servizio della comunità. In tal modo anche l’intero diritto canonico veniva rifiutato in quanto risultava essere una legge del clero che ora non c’era più. In una cerimonia pubblica (10 dicembre 1520) Lutero bruciò la bolla del Papa con molti testi canonici della Chiesa e, fatto importante, la Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino. Il 3 gennaio 1521 il Papa rispose con un’altra bolla, Decet romanum pontificem, in cui Lutero era definitivamente scomunicato. A questo atto della Chiesa doveva seguire l’azione della giustizia civile con l’espulsione dell’eretico dalle terre cristiane. Carlo V sapeva però il gran seguito che già aveva Lutero tra la popolazione e tra i potenti inoltre per la legge tedesca nessun suddito di tale Paese poteva subire condanne senza processo. Egli decise di convocarlo alla Dieta di Worms, con ogni garanzia di immunità durante il viaggio ed il soggiorno in città, in modo da fornire le sue ragioni davanti ad un Tribunale civile. In una prima sessione (17 aprile 1521) esitò e chiese un giorno per pensare ma il giorno successivo ribadì tutti i punti delle sue tesi e concluse con:

Non posso e non voglio ritrattare nulla perché non è giusto né sano andare contro la coscienza. Iddio mi aiuti. Amen.

        Carlo V doveva procedere con quanto gli imponeva la legge ed il 26 maggio 1521 dichiarò Lutero eretico e lo bandì dalle terre tedesche. Ciò voleva dire la condanna a morte. Lutero era però sparito, era stato fatto evadere in un viaggio di trasferimento da alcuni suoi seguaci che aggredirono la scorta. La sua fama crebbe ed egli era ormai un eroe per la popolazione ma si ebbe anche paura di un suo rapimento per assassinarlo. Lo aveva fatto rapire Federico il Savio (e non perché avesse una qualche simpatia  per Lutero), un principe tedesco, che lo teneva al sicuro in una sua fortezza (Wartburg in Turingia). La Riforma luterana già aveva raggiunto un importante obiettivo. le masse erano con Lutero ed un principe aveva dato maggior credito ad esse che non al potere centrale, l’Impero, che si muoveva per volontà della Chiesa.

        La storia di Lutero segue con gravissime contraddizioni tra cui quella di tradire la popolazione umile che aveva creduto in lui per una sua emancipazione per lo schierarsi dalla parte vincente nella guerra che si era scatenata tra contadini e proprietari terrieri per migliori condizioni di vita (il tutto terminato con orrendi massacri di contadini).  Lutero per portare avanti la sua Riforma aveva scelto la nobiltà feudale e terriera ed aveva addirittura scritto contro i contadini che si ribellavano il suo Contro le bande brigantesche e assassine dei contadini (1525). Ciò gli tolse un grande sostegno popolare e la sua Riforma invece di essere legata alle speranze degli umili andò avanti con le possenti gambe dei potenti fino alla definitiva alleanza con i principi tedeschi, senza tenere in conto del fatto più grave: l’eretico si era trasformato in cacciatore di eretici e contro ogni minima deviazione dalla sua vera religione (cattolici, battisti, maghi, streghe, …) richiedeva il rogo. Per gli ebrei solo l’espulsione affermando che gli ebrei andavano trattati con ogni spietatezza […] come Mosè fece nel deserto, ammazzandone tremila. Aggiungendo che tra gli ebrei ne avrebbe volentieri atterrato uno e poi pugnalato con rabbia. Dato che, secondo il diritto umano e divino, si è pure autorizzati ad uccidere, non sarà lecito a maggior ragione sopprimere un blasfemo senzadio ? e concludendo con che si vietasse ai loro rabbini nel corpo e nella vita di continuare ad insegnare, come dire: ammazziamoli !

        Per ritornare all’Inquisizione, posso terminare qui con Lutero sottolineando che iniziò con lui il primo grande scisma nella Chiesa con la nascita della prima Chiesa Protestante(17), con la seconda che sarebbe nata di lì a poco dopo la pubblicazione a Basilea della Institutio christianae religionis del teologo francese Johannes Calvinus o Jehan Cauvin o Giovanni Calvino nel 1536 (una corrente riformata del protestantesimo iniziata a Zurigo da Huldreich Zwingli che pubblicò una famosa Bibbia a Ginevra). In Svizzera, a Zurigo per l’esattezza, nel 1525 nacque un’altra famiglia protestante, costituita da ex allievi di Zwingli, quella dei Fratelli in Cristo (chiamati per discredito anabattisti). Si trattava di cristiani che ritenevano nullo il battesimo dato alla nascita perché non vi era volontà del bambino. Quindi credevano in un battesimo volontario da adulti (la parola anabattista significa battezzato di nuovo e quindi erano chiamati così per dire che erano battezzati due volte). Oltre a ciò teorizzavano una totale separazione tra Stato e Chiesa (intesa priva di gerarchie) per una vita vissuta in modo non violento, tra uguali ad imitazione del Cristo. In tal modo il Vangelo, vissuto con fede e con l’ispirazione dello Spirito Santo, assumeva un ruolo preminente sul Vecchio Testamento. Il 12 aprile 1529 Carlo V emanò un decreto di durissima condanna di questa famiglia protestante, l’Editto di Spira, nel quale si diceva: Chiunque ribattezza o si fa ribattezzare dopo aver raggiunto l’età della ragione, uomo o donna che sia, deve essere condannato a morte, sia con la spada, sia con il fuoco, sia con ogni altro mezzo, senza alcun processo preliminare.

        Già prima però un’altra crisi con Roma, che aveva portato ad una scissione d’autorità, si era avuta in Inghilterra con Enrico VIII, per questioni dinastiche. Per volontà espressa dal padre poco prima di morire, egli si era sposato nel 1509, quando aveva 18 anni, con Caterina d’Aragona (zia di Carlo V), vedova di suo fratello Arturo e più avanti negli anni. Dopo 18 anni di matrimonio, nel 1527, poiché non era nato alcun erede maschio, Enrico VIII chiese al Papa Clemente VII l’annullamento del matrimonio per poterne fare un altro che gli desse il desiderato maschio. Il Papa che già aveva subito il Sacco della città da parte di Carlo V, non voleva irritarlo ulteriormente e tergiversò allungando i tempi in vane trattative. Nel 1531, quando l’irritazione era cresciuta per 4 anni, Enrico VIII fece votare dal Parlamento un atto di supremazia in cui egli proclamava se stesso Capo della Chiesa d’Inghilterra. La parte più dura per la Chiesa, allora come ora, venne nel 1532, quando stabilì che i tributi non dovevano essere più pagati alla Chiesa ma direttamente alla corona. Finalmente nel 1533 Enrico VIII sposò Anna Bolena (Elisabetta I d’Inghilterra era nata da questo matrimonio), dalla quale già aspettava un figlio, facendosi sciogliere dal precedente vincolo dal suo rappresentante presso la Chiesa inglese, Thomas Cranmer. Nel luglio 1534, due mesi prima di morire, Clemente VII scomunicò il Re, la moglie ed il rappresentante Cranmer (interdisse pure l’Inghilterra ma della cosa non si accorse nessuno). Il problema venne preso in mano da Paolo III quando già Enrico VIII, nel novembre dello stesso anno aveva decretato, oltre alla chiusura dei monasteri ed al sequestro di ogni bene ecclesiastico:

  • Un ulteriore atto di supremazia (il re era il Capo Supremo sulla Terra della Chiesa di Inghilterra) con il diritto di reprimere le eresie e di scomunicare;
  • L’obbligo per tutti gli inglesi di giurare solamente davanti al re, e non davanti a qualche autorità straniera come era la Chiesa;
  • La condanna per tradimento per chi osasse sostenere che il re fosse eretico, tiranno o scismatico.

        Nasceva così la Chiesa Anglicana che era un’altra pezzo che si aggiungeva allo scisma di Lutero ed a quello che sarebbe seguito di Calvino. Solo due persone si opposero: l’umanista autore de l’Utopia Thomas More ed ex Lord Cancelliere e l’ex confessore di Caterina, il vescovo di Rochester John Fisher. Ambedue furono decapitati. Intanto penetrava in Inghilterra luteranesimo e calvinismo ed il Parlamento, nel 1549, promulgò il Book of Common Prayer (Libro della preghiera comune) che era una ufficiale ammissione di allontanamento dalla Chiesa di Roma. La storia qui accennata ebbe un lungo seguito che non è qui il caso di seguire. E’ solo utile dire che Papa Pio V aiutò la ribellione dei cattolici (i papisti), che mal vedevano Elisabetta I sul trono d’Inghilterra per le sue simpatie calviniste, scomunicando la regina e dichiarandola deposta con la bolla Regnans in Excelsis del 1570 che però fu promulgata solo dopo che la ribellione era stata domata. Dopo la bolla Elisabetta cessò con la sua politica di tolleranza religiosa cominciando ad attaccare i suoi nemici papisti, che a loro volta reagirono con cospirazioni volte a rimuoverla dal trono.  La decapitazione della cattolica Maria Stuart (1587), Regina sanguinaria di Scozia conosciuta come Bloody Mary, sostenuta dal Papa Sisto V, dai cattolici Re di Spagna e Francia ed aspirante al trono d’Inghilterra, per opera di Elisabetta I fa parte del seguito di questa storia, come l’espulsione dei gesuiti (1585), accusati di istigare alla disobbedienza. Come ulteriore conseguenza la cattolica Spagna di Felipe II intervenne in difesa dell’ortodossia attaccando l’Inghilterra (1588) con la sua Invincible Armada che affondò nella Manica insieme ai sogni imperiali della Spagna medesima. Alla morte di Elisabetta I nel 1603, salì al trono Giacomo I. Da questo momento  le controversie religiose assunsero sempre più una connotazione politica, a seguito della lotta del Parlamento contro l’assolutismo monarchico degli Stuart. Intorno al 1645 il Parlamento dichiarò fuori legge il Book of Common Prayer e nel 1649 il nuovo Re Carlo I fu condannato a morte. Nel 1662, dopo il processo di restaurazione condotto da Carlo II, fu di nuovo imposto il Book of Common Prayer nella forma ancor oggi in uso; in seguito, Giacomo II cercò di reintrodurre il cattolicesimo, ma perse il trono nel 1688 allo scoppio della Gloriosa Rivoluzione.

        Ma qui siamo andati molto oltre ed è meglio ritornare al 1517. Prima però vorrei osservare che questo rapidissimo excursus credo mostri con chiarezza quali fossero i livelli di insoddisfazione della base dei credenti (indipendentemente poi dal loro essere presi in giro, come da Lutero). Ebbene a questo diffuso malcontento la Chiesa di Roma sapeva solo rispondere con ogni crimine, lusso e vergogna.
  

RITORNIAMO A LEONE X

        Di fronte a questi avvenimenti una specie di Papa come Leone X non aveva alcuno strumento né politico né culturale da poter mettere in campo. Qui le scomuniche, le minacce, l’Inquisizione poco avrebbero potuto e poterono. Vecchi metodi logori per gentucola come Leone che disse a suo fratello Giuliano, appena eletto, “Godiamoci il papato, perché Dio ce l’ha dato“. Scrive Rendina:

E fu una festa continua, come ricorda il Gregorovius, «nella più strana mescolanza di paganesimo e cristianesimo: mascherate carnevalesche, spettacoli di mitologia antica, storie romane rappresentate sopra magnifiche scene; e d’altra parte processioni e splendide feste di chiesa e rappresentazioni della passione nel Colosseo, e classiche declamazioni in Campidoglio e altre feste e discorsi nell’anniversario della fondazione di Roma; e quotidiane cavalcate di cardinali; e cerimonie d’ingressi d’ambasciatori e di principi, con comitive così numerose che sembravano eserciti; e cortei del papa, quando usciva alle sue cacce a Magliana, a Palo, a Viterbo, con falchi in pugno, traendosi dietro mute di cani e pesanti bagagli e turbe di servi e il seguito dei cardinali e degli oratori stranieri e l’allegro sciame dei poeti di Roma e una caterva di baroni e di principi, con un chiasso da sembrare una compagnia di baccanti».
Il vicario di Cristo si abbandonava a burle e mostrava di divertirsi per le insipide sciocchezze dei buffoni di corte che il suo cameriere, Serafica, aveva l’incarico d’introdurre alla sua corte; tra questi il Querno che, vestito da Venere, come riferisce un cronista dell’epoca, «cantava versi de diversa sententia e sbevacchiava assai», e fra’ Mariano Petti, piombatore apostolico alla Cancelleria, ma più noto come buffone di corte. Formidabile mangiatore e bevitore rallegrava il papa con i suoi «capricci», ovvero buffonate, e lo invitava a godersi la vita dicendogli: «Viviamo, babbo santo, che ogni cosa è burla». […] Non possono essere dimenticate le «etere» del tempo, ovvero le cortigiane, per le quali il termine «puttane» sarebbe stato improprio, come nota Georgina Masson, considerando che la loro «arte di piacere non si limitava all’aspetto sessuale», perché «istruite nelle arti, e soprattutto nella musica… per il loro fascino, per il gusto di cui sapevano far mostra nel vestire, per la conversazione arguta e spiritosa che erano in grado di condurre, erano molto ricercate come ospiti nelle varie feste». Alla corte di Leone x andavano per la maggiore Beatrice Ferrarese, probabilmente immortalata da Raffaello nella Fornarina, e Lucrezia da Clarice, soprannominata «Matrema non vole» secondo la risposta che era solita dare agli intraprendenti suoi amanti per vender cara la propria «pelle».
È indiscutibile che lussuria e corruzione dei costumi giunsero sotto Leone X alle forme più abiette e giuste suonano le «pasquinate» a riguardo […]
Rientra in questo clima mondano e non certo artistico il gusto per le rappresentazioni teatrali, viste come espressione tipica di piacere; le commedie di Plauto, la Mandragola di Machiavelli o la Calandra del cardinal Bibbiena, integralmente rappresentate in Vaticano, facevano furore non per il loro significato culturale, ma per quel che di piccante e scandalistico potevano rivelare. Questi è la «Roma di Leone X», perché «la fama che ha fatto di Leone il più grande del pontefici mecenati è esagerata», come è costretto a notare anche il Castiglioni: «era salito al pontificato quando Roma era già divenuta la patria di tutti gli intellettuali dell’Europa d’allora» e, seppure l’ambiente letterario e artistico della città ebbe un certo impulso, non fu per un impegno culturale del papa ma per un suo «dilettantismo, per così dire, da ghiotto buongustaio, non di persona geniale, intelligente ed illuminata».
Non si capirebbe altrimenti perché un ignobile poetastro come il Baraballo, prete di Gaeta, potesse essere incoronato in Campidoglio, novello Petrarca, mentre l’Ariosto non ebbe un tale riconoscimento. Diciamo che Roma fu il palcoscenico di tanti «poeti a braccio» come Camillo Querna «l’Archipoeta laureato», Giovanni Gazzoldo e Girolamo Britonio, capaci più che altro di rallegrare la mensa del papa tra un bicchiere e l’altro, proprio alla stregua dei «buffoni» ricordati in precedenza. E meno male che il Britonio una volta fu fatto stonare da Leone X per aver declamato dei «cattivi» versi! E così letterati più in vista come il Bembo, il Castiglione e l’Aretino, pur essendo presenti alla corte pontificia, non riuscirono a toglierle quel volto «istrionico» che in pratica era il solo desiderato dal loro mecenate.
Piuttosto Leone X fu abile nello sfruttare quanto Giulio II gli aveva lasciato in eredità con i numerosi artisti all’opera nell’abbellimento della città; tra questi preferì Raffaello, che continuò gli affreschi delle Stanze, disegnò i cartoni per i 10 arazzi della cappella Sistina, condusse a termine le Logge Vaticane e trovò anche il tempo per immortalare il papa in un ritratto famoso, mentre l’incompiuta Trasfigurazione fu ultimata da Giulio Romano.

        Questo campione del crimine si spense a soli 46 anni. Il sospetto mai provato che sia stato avvelenato è molto forte. Anche questa storia non è nuova e resterà nei costumi dei Papi fino ai nostri giorni. A lui si deve una frase, rivolta al suo segretario Pietro Bembo (il primo studioso che iniziò ad organizzare la lingua italiana) che non possiamo far altro che condividere: Quantum nobis nostrisque ea de Cristo fabula profuerit, satis est omnibus saeculis notum e cioè: Quanto abbia giovato a noi e ai nostri codesta favola di Cristo è abbastanza notorio in tutto il mondo.

        Questo Papa neppure si accorse che con lui iniziava tutta un’altra storia per la Chiesa (ma non per i Papi che restarono criminali). Da Leone X iniziò lo Scisma con i protestanti e le altre ricadute accennate. La Chiesa cominciò a rompersi anche se fu l’ultima ad accorgersene: pensò di reagire con la Controriforma del Concilio di Trento. Niente di evangelico, per carità ! Poi con l’Inquisizione romana e con gli assassinii mirati delle nostre massime intelligenze mentre il lusso e la crapula continuavano. Una storia affascinante, quasi dell’orrore. Chi credeva si parlasse di Gesù, dei suoi insegnamenti, del suo messaggio, ha sbagliato tutto. Comunque di tutto questo parlerò in un prossimo articolo.

Roberto Renzetti

NOTE

(1) L’origine delle parole Saraceni ed Agareni è probabilmente biblica (Genesi 21; 8-21). Saraceni sarebbero i discendenti di Sara, la donna che con Abramo generò Isacco. Abramo ebbe anche varie relazioni, una delle quali con la schiava Agar da cui nacque l’altro figlio Ismaele (Genesi 16; 15). Sara, gelosa, fece scacciare Ismaele da casa con l’accordo di Dio e costui ebbe un’altra discendenza (quella degli arabi) che, dal nome Agar, si chiamano Agareni.

Riguardo alle parole che incontreremo per designare alcuni popoli, riporto quanto afferma l’arabista Kadidja Mandili: «Le parole “arabi, saraceni, mori, turchi e berberi” erano utilizzate senza alcuna distinzione ed indicavano i soldati musulmani che, a partire dal VII secolo, solcavano il Mar Mediterraneo alla ricerca di bottini. La parola “saraceno” che noi troviamo nei libri di storia, designava inizialmente un popolo della penisola del Sinai per indicare, in seguito, tutti i popoli arabi. Non si trova nessuna differenza terminologica nelle fonti medioevali. Oggi invece, distinguiamo nettamente tra le parole “arabo” e “musulmano”. La prima fa riferimento all’etnia dominante nell’Islam e la seconda indica i fedeli di tale religione. […] Bisogna rilevare che le invasioni saracene – ma sarebbe più corretto definirle “incursioni” – non miravano alla conquista dei territori, ma al bottino e alle prede. La flotta musulmana doveva essere capace di contrastare quella di Bisanzio sia militarmente che commercialmente. I pirati della marina musulmana rifornivano merce umana quando era necessario per il commercio degli schiavi, ma essi ricoprivano allo stesso tempo un ruolo ufficiale: proteggevano i convogli governativi; ciò avvenne regolarmente per tutto l’VIII secolo. Così, diversi pirati saraceni, fra i quali i Berberi, gli Andalusi e di Cretesi, operavano per proprio conto sulle coste della Sardegna, della Sicilia, delle Puglie, della Campania e sulle coste della Liguria e di Venezia. Al contrario, le occupazioni temporanee d’Ischia, di Ponza, di Lampedusa e di altri luoghi strategici d’Italia, come il sacco di Civitavecchia, spinsero i Bizantini e – a partire dall’800 i Carolingi – ad organizzare delle flotte capaci di difendere le coste italiane.

(2) La Spagna, provincia di Roma, nel 409 viene invasa da varie tribù barbare (svevi, vandali, …). Nel 411 i Visigoti vengono in aiuto di Roma e scacciano gli altri barbari. Da questo momento l’amministrazione di questa provincia è lasciata loro. Nel 475, un anno prima della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, viene fondato in Spagna il regno Visigoto che, a partire dal 589, sarà interamente cristianizzato. In soli tre anni, tra il 711 ed il 714, gli arabi musulmani del califfato Omeya di Damasco occupano la penisola iberica provenendo da Sud. I cristiani vengono respinti verso nord e lì si attesteranno in piccoli regni situati in posti strategici sulle montagne della cordigliera Cantabrica e dei Pirenei. Nel 756 gli Omeya di Spagna si rendono indipendenti da Damasco e costituiscono il Califfato di Cordova. Questo Califfato si manterrà fino al 1031 per poi smembrarsi in tanti piccoli regni (taifas). A questa data la penisola contava al Nord i regni cristiani di León, Navarra, Aragón, Cataluña (circa un terzo del territorio) una striscia di terra di nessuno divideva questi piccoli regni dai taifas arabi costituenti la regione di ‘Al Andalus‘. La debolezza militare araba avvia, nel 1045, la Reconquista che si concluderà nel 1492. Da sottolineare la conquista cristiana di Toledo del 1085, il formarsi al Nord di tre stati cristiani sempre più grandi ed aggressivi (Portogallo, Castiglia, Aragona e il piccolo Navarra). Dalla metà del XIII secolo il regno di Granada è tutto ciò che resta di arabo nella penisola. Nel 1469 Isabella I di Castiglia sposa Fernando II di Aragona dando inizio alla prima convergenza di regni ispani che in poco tempo occuperà tutta la penisola ed inizierà una impetuosa espansione in altri territori. Nel 1492 cade il regno di Granada, compiendosi il disegno di Fernando e Isabella: unificare i popoli di Spagna in nome della cristianità contro gli invasori arabi. La Crociata è portata a termine vittoriosamente e Papa Alessandro VI Borgia concede ai Re di Spagna il titolo di ‘Re Cattolici‘ (1494).

(3) La vita ascetica, che faceva parte della pratica religiosa di alcuni monasteri cristiani, non era una soluzione praticabile per tutti i fedeli. Risultava difficile ad esempio per coloro che avevano responsabilità pubbliche o semplicemente erano lavoratori che dovevano alimentare le famiglie. Una alternativa alla vita ascetica poteva quindi essere il pellegrinaggio verso i luoghi sacri. L’altra alternativa e cioè le pene che venivano comminate per redimersi dai peccati (digiuno a pane acqua, pubblica umiliazione) mal si adattavano a orgogliosi e fieri cavalieri ma anche a persone più umili ma orgogliose.

(4) Si tratta della natura attribuita allo Spirito Santo che nella religione ortodossa d’Oriente è “qui ex Patre procedit”, mentre nella cattolica romana è “qui ex Patre Filioque procedit“.

(5) Leggiamo come racconta Gregorovius [storico tedesco che terminò di scrivere la sua opera nel 1876, pochi anni dopo la realizzazione dell’Unità d’Italia con al conclusiva Breccia di Porta Pia] gli avvenimenti che ho brevissimamente riassunti in questo capoverso. Occorre premettere che anche con Gregorio VII il popolo romano doveva dare il suo assenso, magari era solo formale, all’elezione di un Imperatore. Ora accadeva che non solo il popolo risultava espropriato dal dare il suo assenso all’elezione del papa ma anche a quella dell’Imperatore. Infatti Federico arrivava a Roma senza aver fatto richiesta formale all’autorità della città che, in questo periodo, era il Senato della Repubblica. Ebbene degli ambasciatori della città andarono incontro a Federico in arrivo per chiedergli l’approvazione della Costituzione della città e fargli presente le difficoltà del popolo di Roma di fronte ad un sovrano che si presentava solo come occupante in sodalizio solo con il Papa. Da questo punto inizia il brano di Gregorovius:

La dissennatezza che aveva spinto i Romani a provocare con tanta esagerata fiducia in se stessi quell’uomo potente si addiceva perfettamente all’alta idea che essi si erano fatti della Città Eterna, cui credevano di aver rifuso nuova vita con l’istituzione del senato; ma se in quel momento nella tenda imperiale si fosse trovato un uomo capace di superare i limiti inteìlettuali della propria epoca, egli avrebbe potuto ridere davvero di cuore sentendo Federico stesso condividere l’esaltazione dei senatori e la loro fantastica idea del legittimo potere sul mondo posseduto dall’imperatore romano.
Gli ambasciatori romani tornarono a Roma col cuore gonfio di stizza. Ora Federico non poteva aspettarsi altro dalla repubblica se non che gli chiudesse in faccia le porte e difendesse la città. Il papa [vero nemico in casa, ndr] gli consigliò di occupare nascostamente la Leonina con truppe scelte, che sarebbero state accolte ivi dai suoi, e suggerì anche di mandare con questa schiera il cardinale filotedesco Ottaviano, suo ambizioso rivale, che in tal modo veniva allontanato dalla tenda dell’imperatore. Mille cavalieri partirono all’alba del 18 giugno e occuparono la città Leonina senza incontrare resistenza.
Quello stesso giorno, senza ricevere il saluto dei Romani, Federico, sceso da Monte Mario, entrò in ordine di battaglia nella Leonina dove era atteso dal pontefice che lo aveva preceduto. L’incoronazione si svolse immediatamente nel duomo di S. Pietro, occupato militarmente. Possente come un tuono echeggiò nell’alta basilica il grido di giubilo dei Tedeschi, quando il giovane Cesare prese in mano la spada, lo scettro e la corona dell’impero. Roma, però, non lo riconobbe come suo imperatore; la città rimase sbarrata e il popolo si raccolse sul Campidoglio, dove si ergeva il palazzo dei senatori, ultimato da poco, Quanto confusa e fallace fosse persino a Roma l’idea dell’impero, lo, dimostrano queste incoronazioni compiute nel sobborgo pontificio, mentre ansiosamente si aspettava che i Romani, dai quali gli imperatori traevano il loro titolo, irrompessero in armi” dai ponti del Tevere. La diversità di cultura, di esigenze e di origine costituiva un abisso incolmabile che separava dai Romani gli imperatori di nazione tedesca. Essi odiavano in Adriano IV lo straniero che dominava la loro patria; tuttavia lo veneravano anche perché era il pontefice; ma Federico già allora doveva riuscir loro insopportabile. Egli non aveva giurato le leggi della città, come tutti gli altri imperatori si erano dati cura di fare, né aveva atteso e tanto meno pagato con doni l’elezione o la tradizionale acclamazione dei Romani; essi perciò avevano buoni motivi per sentirsi lesi nei propri diritti. La richiesta, che gli era stata fatta, di approvare la loro costituzione, era ragionevole ed egli fu incauto nell’opporvi un rifiuto. Sarebbe venuto un tempo in cui l’imperatore; costretto a pentirsi, avrebbe prestato giuramento a quei cittadini tanto disprezzati. Dopo che i papi avevano cessato di essere candidati eletti dal popolo romano, quest’ultimo. si era visto portare via anche il diritto di partecipare all’elezione del suo imperatore; ma in un tempo in cui le antiche tradizioni permeavano tutti i concetti giuridici sia civili che politici, i Romani non potevano piegarsi a riconoscere che la Città Eterna non aveva ormai altra funzione che quella di essere il luogo dove l’imperatore e il papa ricevevano la loro consacrazione solenne. Mentre altre città rifulgevano per ricchezza e potenza, Roma aveva un solo motivo d’orgoglio: essere Roma. Gregorio VII aveva affidato al papato la missione di rappresentare la monarchia universale e i Romani, dal canto loro, sognavano di fare lo stesso per mezzo della maestà del popolo e della dignità imperiale da esso conferita.
Per secoli e secoli le loro pretese ereditarie e le loro lotte coi papi, che cercavano di spogliare la città della sua veste politica, hanno dato alla sua storia un carattere tragico che non ha l’eguale nella vita dell’umanità. In questa battaglia combattuta sempre contro lo stesso destino, battaglia che si protrasse fino ai giorni nostri e sotto la cui impressione noi ci troviamo mentre scriviamo questa storia della città, gli unici alleati dei Romani furono le mura Aureliane, il Tevere, la malaria e le ombre e i monumenti dei loro grandi antenati. Solo oggi che aspira unicamente al comune rango di capitale, la città di Roma ha trovato un difensore e un alleato nella nazione italiana.
Dopo l’incoronazione l’imperatore si recò nel suo accampamento, nei Prati Neroniani, mentre il papa si tratteneva nel Vaticano; il pomeriggio, stesso i Romani irrompevano inferociti nella città Leonina dopo aver attraversato, i ponti del Tevere. Trucidarono quanti nemici isolati trovarono, assalirono preti, cardinali e fautori della causa imperiale e si gettarono infine sull’accampamento di Federico, sperando forse di liberare il loro profeta Arnaldo. L’imperatore e i suoi uomini balzarono in piedi abbandonando il banchetto dell’incoronazione; corse voce che il papa e i cardinali fossero caduti nelle mani del popolo. Enrico il Leone, passando attraverso la breccia aperta tanto tempo prima da Enrico IV, irruppe nella Leonina e piombò alle spalle dei Romani; ma anche per quell’esercito, che era il più valoroso di tutti, non fu facile avere la meglio sui cittadini di Roma. li loro splendido coraggio dimostrò che la fondazione della Repubblica non era stata soltanto un frutto di fantasia. A Castel S. Angelo e, coi trasteverini, presso l’antica piscina, si combatté fino a tarda notte con alterna fortuna, fino a che i Romani dovettero soccombere al numero superiore dei nemici. Scrive lo storico tedesco: « Bisognava vedere i nostri come davano addosso ai Romani, quasi volessero dire: qui, Roma, prenditi ferro tedesco in cambio di oro arabo; cosi la Germania si compra l’impero!». Circa un migliaio di Romani furono passati a fil di spada o annegati nel fiume; molti di più furono i feriti, press’a poco 200 i prigionieri; gli altri si diedero a fuga precipitosa e furono accolti nella città saldamente fortificata, mentre Castel S. Angelo, che era in mano ai Pierleoni, restava neutrale.
La mattina dopo, il papa si presentò al campo dell’imperatore e pregò quest’ultimo di lasciar liberi i prigionieri [che infame !, ndr], che furono invece affidati al prefetto Pietro. Tuttavia la pur cruenta vittoria era stata cosi incompleta che questo grande imperatore che si considerava il legittimo signore del mondo dovette andarsene via senza aver messo piede a Roma. I Romani in quell’occasione si mostrarono veramente degni della propria libertà; virilmente asserragliati dietro le proprie mura, sfidarono l’imperatore, si rifiutarono di rifornirlo di viveri e vollero continuare la lotta. Perciò, il 19 giugno, Federico fu costretto a togliere il campo. Condusse con sé il papa e i cardinali, che fuggivano tutti da Roma, e si diresse quindi verso il Soratte. Durante la marcia attraverso il territorio romano fece radere al suolo tutte le torri che i grandi di Roma avevano fatto erigere sui loro possedimenti.
E’ probabile che allora, e proprio in quella campagna nei dintorni del Soratte, abbia avuto luogo la esecuzione di Arnaldo. La fine di quel famoso demagogo è oscura quanto quella di Crescenzio, poiché i contemporanei vi accennano di sfuggita e con una sorta di timidezza. Dopo la sua estradizione, egli era stato consegnato al prefetto della città. Questi insieme coi suoi, una potente famiglia di capitani che aveva ricchissimi possedimenti nella contea di Viterbo, aveva combattuto a lungo contro il comune romano e a causa di esso aveva subito danni non indifferenti; perciò odiava ferocemente Arnaldo. Fu certo con l’approvazione dell’imperatore che egli lo condannò a morte come ribelle ed eretico dopo una probabile sentenza del tribunale ecclesiastico. Lo sventurato rinunziò coraggiosamente all’appello; dichiarò che le proprie dottrine erano giuste e salutari e dichiarò di essere pronto a morire per esse. Chiese soltanto una piccola dilazione per confessare a Cristo i suoi peccati; pregò in ginocchio con le mani levate al cielo e raccomandò a Dio la propria anima. Gli stessi carnefici furono mossi a compassione. Cosi narra una poesia scoperta di recente, composta da un bresciano seguace dell’imperatore. Anche costui, come altri autori contemporanei, dice che Arnaldo fu prima impiccato e poi bruciato, per evitare che qualche reliquia giungesse fino ai Romani, e questo dimostra sino a qual punto il popolo lo avesse adorato. Secondo altri, le sue ceneri furono sparse nel Tevere. Il luogo del supplizio non fu mai individuato con esattezza.
Il fumo che si levò da quel rogo oscurò la maestà del giovane re le cui mani si erano tanto spesso lordate di sangue; Arnaldo fu sacrificato alle esigenze politiche del momento, ma sopravvissero i suoi vendicatori, i cittadini delle città lombarde che un giorno avrebbero piegato Federico a riconoscere la gloriosa opera della libertà cui lo spirito del monaco di Brescia aveva tanto efficacemente contribuito. Spesso la mano dei forti, senza che la loro mente lo preveda, mette in moto ingranaggi che provocano grandiosi avvenimenti, dai quali essi stessi sono sopraffatti. L’Arnaldo da Brescia che stava davanti a Federico non era lo stesso uomo che è oggi per noi, e ben poco il re doveva aver sentito parlare di lui. Che cosa poteva importargli della vita di quell’eretico? Se poi, al contrario, era informato sulla sua persona certo non era ben disposto verso questo lombardo dalle idee politiche innovatrici, lui che era stato in lotta con le città dell’Italia settentrionale e con Roma stessa. Così egli ne annientò la forza benché più tardi essa avrebbe potuto essergli di grande aiuto. Bisogna dire che a Roma Federico non diede prova di molta accortezza; invece di ricondurre la democrazia romana nei suoi giusti limiti – cosa che non gli sarebbe stato difficile attuare – mostrando fermezza e benevolenza al tempo stesso, e anziché strapparla all’influenza del papa per ricondurla sotto l’autorità dell’impero, egli ciecamente la respinse da sé. In tal modo si inimicò molte altre città e vide infine miseramente fallire tutti i suoi dissennati progetti.
Arnaldo da Brescia apri la serie dei gloriosi martiri della libertà che morirono sul rogo, ma il cui spirito indomito risorse come una fenice dalle fiamme per sopravvivere nei secoli.
Si potrebbe definirlo profeta, tanto chiaramente egli penetrò l’essenza dell’epoca sua, tanto lontano egli vide perseguendo uno scopo che Roma e l’Italia avrebbero raggiunto 700 anni dopo di lui. La coscienza del tempo in cui visse, ormai matura, fece di lui un riformatore geniale, sicché il primo eretico politico del Medioevo nacque dalla lotta per le investiture e ne fu la naturale conseguenza. La lotta tra i due poteri e la trasformazione delle città furono i grandi fenomeni concreti che gli servirono da fondamento storico. Una necessità interiore dovette guidarlo là dove stava la radice di tutti i mali. Se non avesse sperimentato a Roma se stesso, se ivi non avesse trovato la morte, Arnaldo avrebbe rappresentato il suo tempo in maniera incompleta. Roma, schiacciata contemporaneamente sotto il peso dell’antica grandezza e delle due massime potenze del mondo, non poteva durevolmente mantenere la sua libertà. Tuttavia la sua costituzione, cui Arnaldo aveva tanto contribuito in qualità di legislatore, resistette ancora a lungo dopo di lui; né a Roma si estinse mai la scuola degli arnaldisti, cioè dei politici. Tutto ciò che sul piano filosofico o su quello pratico si è opposto al carattere secolare del sacerdozio, ha sempre trovato in Arnaldo una esemplificazione storica; questo è tanto più vero in quanto le sue teorie non vennero mai guastate da volgari finalità tanto che persino i suoi più acerrimi oppositori riconobbero che egli era spinto soltanto da imperativi spirituali. Per la grandezza del tempo in cui viss e per il vigore del suo pensiero Arnaldo supera di gran lunga tutti coloro che sorsero dopo di lui a combattere per la libertà di Roma. Il Savonarola, al quale egli è stato paragonato, può suscitare un moto di repulsione in un animo virile per il suo spirito schiettamente monastico e l’affiato taumaturgico che da lui emanava; ma dell’amico di Abelardo non si narrano né oracoli né portenti; egli appare sano, vigoroso e chiaro, sia che lo fosse veramente, sia che la storia abbia taciuto molte cose di lui; le sue dottrine avevano tanta vitalità da essere ancora attuali oggi, nell’anno 1862. Ai nostri giorni Arnaldo da Brescia sarebbe ancora l’uomo più popolare d’Italia; è tanto arduo, infatti, infrangere quelle catene che dal lontano Medioevo tengono avvinte Roma e l’Italia, che lo spirito di quel monaco eretico del XII secolo, non può ancora trovare riposo e continua ad errare senza pace per le strade di Roma [con la Chiesa ancora oscenamente al potere, ndr].
Federico passò il Tevere presso Magliano e attraverso Farfa, sulle orme di Enrico IV, giunse a Ponte Lucano. Ivi, nell’accampamento tedesco, fu celebrata con pompa solenne la festività di Pietro e Paolo e in questa occasione il papa assolse le truppe germaniche dai peccati commessi, mondando le loro anime dal sangue versato a Roma [infame !, ndr]. Le città della Campagna si affrettarono a pagare all’imperatore il gravoso foderum [l’obbligo di alimentare i soldati e la corte imperiale al passaggio per le loro terre, ndr], altre gli resero omaggio mettendosi sotto la sua protezione e Tivoli, che in odio ai Romani si era schierata dalla parte del papa, sperò in quel momento di liberarsi anche dal giogo di quest’ultimo. Ambasciatori del comune alla cui testa c’erano ormai senza dubbio i consoli, consegnarono all’imperatore, che riconoscevano come capo supremo, le chiavi della città. Per vendicarsi dei Romani, questi avrebbe rafforzato volentieri una città nemica del senato, ma Adriano rivendicò, i diritti della Chiesa e l’imperatore sciolti i Tivolesi dal giuramento di sottomissione, restituì loro la città. Questo fu il solo misero compenso che il papa ricevette da Federico, il quale non aveva potuto mantenere la promessa di fare di lui il signore di Roma.
Proseguì quindi per Tuscolo e fino alla fine di luglio si trattenne con Adriano sui monti Albani. Di la fingeva di voler riprendere le ostilità contro Roma, ma in realtà la sua spedizione non aveva nessuno scopo; né poteva acconsentire alla preghiera di portare la guerra in Puglia contro Guglielmo I, perché i suoi grandi vassalli tedeschi ragionevolmente vi si opponevano, né in quella stagione dell’anno poteva intraprendere qualche cosa ai danni di Roma. Perciò, quando le febbri estive contagiarono i soldati, tra i quali già serpeggiava il malcontento, dovette prendere la via del ritorno, non senza un moto di dolorosa vergogna, e abbandonare al suo destino il pontefice. Consegnatigli i prigionieri, egli si congedò da lui a Tivoli e poi, dopo essere passato per Farfa, prese la via del ritorno. Durante la sua marcia verso la patria, la longobarda Spoleto, città ricca di onore e di fama, fu messa a ferro e fuoco con barbaro furore. Con pieno diritto lo Hohenstaufen poteva farsi. chiamare ora, come l’antico Demetrio, «distruttore di città».

(6) Riporto da Wikipedia le notizie su una leggenda nata intorno alla Battaglia di Legnano. Devo farlo visto che alcuni bipedi implumi delle valli del Nord utilizzano la leggenda a fini politici:

Come afferma Federico A. Rossi di Marignano nella sua biografia su Federico Barbarossa, il nome di un Alberto de Gluxano appare per la prima volta in una pergamena di data incerta, risalente secondo gli studiosi al 1196, posteriore cioè di vent’anni alla battaglia di Legnano. Il documento, conservato nell’Archivio dell’Ospedale Maggiore di Milano, contiene una supplica sottoscritta da alcuni abitanti di Porta Comacina che si appellavano contro una sentenza dell’arcivescovo di Milano a un papa indicato con la sola iniziale del nome: C., probabilmente Celestino III. Il nome di Albertus de Gluxano è il ventottesimo in un elenco di cinquanta postulanti. Un Alberto de Gluxano è dunque realmente esistito nella seconda metà del XII secolo, ma non è documentata la sua coincidenza con il leggendario eroe di Legnano. Con l’esclusione della possibile provenienza, Giussano, una città a 25 km a nord di Milano, non si hanno notizie storiche e biografiche certe. Appare per la prima volta nella cronaca storica della città di Milano scritta dal frate domenicano Galvano Fiamma nella prima metà del XIV secolo. La cronaca fu scritta per compiacere Galeazzo Visconti signore di Milano, ricostruendo la storia del medioevo del comune in toni eroici. Alberto venne descritto come il cavaliere che si distinse insieme ai due fratelli nella battaglia di Legnano del 29 maggio 1176 per aver guidato la Compagnia della Morte.

Secondo Galvano Fiamma, egli fondò, organizzò ed equipaggiò la Compagnia della Morte descritta come un’associazione militare di 900 giovani cavalieri scelti con il compito di difendere fino alla morte il carroccio, simbolo della Lega Lombarda, contro l’esercito imperiale di Federico I Barbarossa, imperatore del Sacro Romano Impero. Tale Compagnia della Morte sarebbe stata per la verità assemblata alla svelta e composta quasi totalmente da Bresciani o cavalieri provenienti dalle regioni orientali della Lombardia e forniti da quei comuni che, primo fra tutti Brescia, appoggiarono l’ideale comunale (e papale) contro quello imperiale (la città di Alessandria stessa deve il suo nome al papa che appoggiò i comuni contro l’impero). Alberto da Giussano, secondo alcune credenze verificabili in maniera incrociata potrebbe, ma non esiste sicurezza, essere stato podestà, “notaro” o altrimenti pubblico funzionario. Tale credenza è rafforzata dalla origine (Giussano) in un contesto sì Lombardo, ma di portata certo superiore (i pubblici funzionari erano originari di altri comuni per evitare “conflitti di interessi”). Alcuni storici ritengono tuttavia la sua figura poco attendibile in quanto “troppo romanzata ed idealizzante“. Nell’immaginario collettivo egli rimane comunque un simbolo della battaglia di Legnano celebrata durante il risorgimento come una vittoria del popolo italiano contro l’invasore straniero, tanto da esser inclusa nel “Canto degli Italiani” di Goffredo Mameli e da diventare l’argomento dell’omonima opera di Giuseppe Verdi, senza però citare il leggendario condottiero.

Sebbene più recentemente Alberto da Giussano sia divenuto un simbolo per alcuni movimenti indipendentisti del Nord, vale la pena ricordare che fu invece l’intervento dell’Imperatore Barbarossa ad essere in realtà invocato proprio da alcuni Comuni, come Lodi, Pavia e Como, che ne implorarono l’aiuto contro la prepotenza di Milano che, dopo aver distrutto Lodi e dopo aver vinto una guerra decennale contro Como (1127), ne limitava l’indipendenza e impediva lo sviluppo delle altre città.

Nel 1876, in occasione del settecentesimo anniversario della battaglia, il comune di Legnano, stimolato da un discorso di Garibaldi tenuto in città nel 1862, fece erigere in suo onore una statua che lo raffigura, inizialmente realizzata dallo scultore Egidio Pozzi e poi sostituita nel 1900 da un’altra realizzata da Enrico Butti. La statua definitiva, rappresenta l’eroe in una posa poi diventata famosa, con la spada alzata e lo scudo nella sinistra e si trova in Piazza Monumento, nei pressi della stazione ferroviaria.

Nel 1879 Giosuè Carducci ne fece uno dei protagonisti della sua celebre opera “Della Canzone di Legnano“. […]

(7) Tra Alessandro III e Clemente III vi furono i seguenti Papi:

171. — Lucio III, Lucchese, Ubaldo Allucingoli, 1. 6.IX.1181 — 25.XI.1185.
172. — Urbano III, Milanese, Uberto Crivelli, 25.XI, 1.XII.1185 — 20. X.1187.
173. — Gregorio VIII, di Benevento, Alberto di Morra, 21. 25.X.1187— 17.XII.1187.

Lucio ebbe rapporti durissimi con il popolo di Roma che voleva riconosciuto il Senato del Comune. Iniziò una lotta armata che finì con un “odio selvaggio e barbarico dei romani contro il clero” (Gregorovius). Lucio dovette scappare da Roma per riparare a Verona dove emanarono un decreto comune contro gli eretici di allora, i Catari ed i Valdesi (sulle persecuzioni criminali contro le pretese eresie tornerò oltre).

Urbano III, che mai riuscì ad arrivare a Roma, fu talmente poco considerato dall’Imperatore che Barbarossa fece sposare a Milano, dove Urbano era stato vescovo, suo figlio Enrico VI con Costanza d’Altavilla. Per rappresaglia Urbano rifiutò d’incoronare Enrico VI.

Gregorio VIII si mostrò disponibile ad incoronare Enrico VI Imperatore ma gli premeva di più lanciare la Terza Crociata e fece gestioni in tal senso presso le Repubbliche Marinare. Anch’egli non riuscì mai ad arrivare a Roma.

(8) Tra Gregorio VIII ed Innocenzo III vi furono i seguenti Papi:

174. — Clemente III, Romano, Paolo Scolari, 19, 20.XII.1187 — … III. 1191.
175. — Celestino III, Romano, Giacinto Bobone, 10, 14.IV.1191 — 8.I.1198.  

Clemente III, citato nel testo come colui che lanciò la Terza Crociata, desideroso di mettere piede a Roma, dove i precedenti Papi erano stati impossibilitati a farlo per non aver voluto riconoscere la potestà comunale del Senato, fece un accordo con le autorità di Roma con il quale veniva riconosciuta la sovranità papale su Roma, il Senato gli giurava fedeltà, la Chiesa poteva battere moneta con un terzo degli introiti che andavano al Senato per pagare le ipoteche della Chiesa. Per parte sua il Papa si impegnava a risarcire i Romani dei danni di guerra. La milizia di Roma, dietro pagamento, poteva essere utilizzata dal Papa per difendere i suoi patrimoni. Come conseguenza i nobili, legati da sempre al Papato, dovettero riconoscere il Comune con lo sgradevole risultato che i nobili si inserirono nella gestione civile snaturando via via le conquiste liberali di plebe e borghesia.

Celestino III dovette affrontare da subito la discesa dalla Germania di Enrico VI che voleva essere incoronato. Il Senato di Roma non accettò l’entrata in città degli armati tedeschi se i medesimi non se ne fossero andati via dalla difesa di Tuscolo. Enrico VI accettò e venne incoronato insieme a sua moglie Costanza (1191), subito dopo i Romani rasero al suolo Tuscolo, quel covo di nobili che tanto danno aveva fatto alla città. La degenerazione del Senato di Roma avvenne sotto questo Papa. Le lotte non erano più contro di lui ma per essere eletti senatori e qui vinse chi aveva più denaro che erano i nobili, cioè gli illustri accattoni che vivevano a spese del papa, ei vescovi e dei luoghi pii di Roma (Gregorovius). Il Senato cambiò la sua natura e divenne aristocratico con ilo sostegno attivo del Papa (non si sono mai smentiti e non si smentiranno mai, per maggiore gloria di Gesù). Celestino senza più l’opposizione del Senato poté incrementare le entrate della Chiesa con balzelli a tutti (chi si occupava delle finanze era Cencio Savelli, il futuro Papa Onorio III). Ma Celestino lanciò anche la IV Crociata che gli era stata chiesta da Enrico VI che voleva vendicare il padre morto affogato.

(9) Carlo II d’Angiò (detto lo Zoppo) era il figlio di Carlo I che, qualche riga più su, avevamo visto catturato dal comandante della flotta del Regno di Aragona, Ruggero di Lauria. Nel 1288, dopo molte richieste di sua liberazione da parte del Papato, Re di Francia (Filippo IV) e d’Inghilterra ad Alfonso III di Aragona, fu trovato un accordo e Carlo II venne liberato in cambio di tre dei suoi figli che rimasero in ostaggio al suo posto.

(10) Nella Spagna araba, precedentemente alla Reconquista, vi era una sorta di divisione del lavoro che vedeva gli arabi padroni di una agricoltura che con irrigazioni avanzatissime, con l’introduzione dell’arancio, del riso, del cotone, della canna da zucchero e di molte altre piante commestibili avevano reso molto fiorente, artefici di un artigianato tecnologicamente avanzato di articoli di lusso (pelli, tessuti, ceramica), ottimi commercianti; gli ebrei gestori di commercio, prestiti e finanza, mentre i cristiani erano il popolaccio, la forza lavoro in massima parte povera ed ignorante, costituita da discendenti dei visigoti, schiavi, slavi, schiavi liberati. I cristiani vedevano con grande ammirazione gli arabi per la loro cultura, raffinatezza ed addirittura per il suono della lingua e, spontaneamente, si convertivano alla religione musulmana diventando mozarabi (arabizzati). Con il passare degli anni cominciarono a nascere musulmani nella stessa Spagna (muladì) che andava pian piano arabizzandosi. Tutti vedevano crescere il livello materiale della loro vita. Non vi erano momenti della precedente dominazione cristiano-visigota di cui andar orgogliosi. Gli stessi cristiani riconoscevano in svariati scritti la loro ignoranza rispetto allo splendore della cultura araba.

        Fino alla fine del XIV secolo (più o meno in corrispondenza dello Scisma d’Occidente, 1378) la situazione di tolleranza tra le varie etnie si era mantenuta. Con l’avanzare della Riconquista i cristiani si impadronivano di territori sempre pia vasti ma la ricchezza, l’artigianato, il commercio, l’agricoltura restavano arabe ed ebraiche. Certo vi erano state le spoliazioni tipiche di una conquista, le razzie, … Ma l”economia’ non si razzia. Fu Papa Gregorio XI che ordinò ai Paesi d’osservanza cattolica-romana di tenere d’occhio gli ebrei per evitare che facessero proselitismo sotto pena di morte. L’Inquisizione romana vigilava (poco in realtà). Effetti di questa prima campagna antiebraica su vasta scala si ebbero subito. Intanto gli ebrei furono obbligati ad avere segni distintivi (un panno legato sul braccio sinistro). Iniziarono poi tutte quelle denigrazioni che spettavano a chi aveva ‘assassinato Gesù’; gli ebrei avevano la coda (giuocando con la parola castigliana, ‘rabo’ = coda ed ebraica ‘rabis’= rabbino); gli ebrei, in occasione delle processioni del Venerdì Santo, usavano crocifiggere dei bambini e oltraggiare le ostie bucandole con degli spilli, … Il problema principale era che in realtà tutti dovevano del denaro agli ebrei, anche i potenti di Spagna, fino ai Re. E tutti sognavano di poter mettere mano alle loro ricchezze. Iniziarono così i linciaggi di massa (Toledo 1355, Siviglia 1391, e poi Cordova, di nuovo Toledo, Zaragoza, Valencia, Barcelona, Lerida, …), a cui si accompagnavano furti, depredazioni, confische ed espropri. Molti ebrei iniziarono a battezzarsi (i conversi).

        Arriviamo al 1478 quando una Bolla di Papa Sisto IV concede il privilegio della gestione dell’Inquisizione al Regno di Castiglia. Isabella e Fernando sono i più puri difensori della fede cattolica-romana. A loro spetta il compito di superare l’inefficienza degli Inquisitori nominati dai vescovi. A loro riconquistare l’intera Spagna alla cristianità lottando contro ogni eresia. Isabella e Fernando fecero dell’ Inquisizione un potente strumento di lotta politica che, a lato dell’esaltazione popolare per la riconquista di Granada (iniziata nel 1481), cementò la corona di Spagna in modo indissolubile con la Chiesa (questo connubio, a parte brevi interruzioni – i periodi liberali, la Prima e la Seconda Repubblica – , è durato fino alla morte di Franco nel 1975).

        L’anno 1492 è un anno chiave nella Storia di Spagna. Viene completata la Reconquista (ai musulmani di Granada viene garantita l’immunità) e le armate cristiane sono in gran parte finanziate dai prestiti che gli ebrei avevano fatto alla Corona. I Re non possono pagare questi debiti. Fanno un decreto di espulsione dalla Spagna di tutti gli ebrei che non si convertono. Naturalmente vengono sequestrati tutti i loro beni e non vengono onorati gli impegni finanziari. Molti ebrei se ne andranno dalla Spagna e vari di essi troveranno rifugio anche in Italia (Livorno, Venezia) portando il loro importante contributo di ingegno e conoscenze. Altri invece si convertiranno dando esca a tutte le future persecuzioni contro di essi (ogni volta che un converso ritornava benestante ecco che era un falso converso e quindi interveniva l’Inquisizione con sequestri e ‘tostature‘ – termine che ho spesso trovato al posto di rogo -). Ma il 1492 è l’anno della scoperta dell’America ed all’inizio i missionari sono piuttosto tranquilli: la teoria dominante voleva che gli ‘indios’ non avessero anima. Poi alcuni teologi stabilirono che queste persone avevano anima ed allora iniziarono anche lì conversioni di massa forzate. I Re, a questo punto ‘cattolici’, non mantennero neanche i patti con i musulmani di Granada: nel 1502 iniziò la loro conversione forzata.

(11) La disgrazia si abbatté sulla Spagna proprio con la scoperta dell’America. Quelle montagne d’oro e d’argento armarono sì gli eserciti ed elevarono il livello di vita (di relativamente pochi) ma tutto veniva comprato fuori di Spagna (si deve eccettuare un artigianato elementare e povero che serviva le necessità ecclesiastiche come cera, legno intagliato, ceramiche o simili). Così, paradossalmente, il più grande merito scientifico della Spagna è l’aver finanziato la Rivoluzione scientifica del resto d’Europa ed il Rinascimento italiano. La Spagna comprava tessuti pregiati in Toscana e nel Comasco; comprava chiodi in Olanda; orologi in Francia; nessuna attività di artigianato preindustriale fu sviluppata in questo Paese.
     Le Americhe, per parte loro, furono solo considerate territorio di conquista, di rapina, di massacri. Non intendo qui entrare nei dettagli che hanno dato alimento alla già citata Leggenda Nera ma dare solo dei dati riconosciuti anche dai testi spagnoli; in pochi anni, a partire dallo sbarco di Colombo, più del 90% degli indios trovò la morte. Generalmente, in casi del genere si parla di genocidio ma storici spagnoli fanno dei sottili distinguo con l’altra parola, che accettano, etnocidio. Sarebbero state le malattie importate dalla vecchia Europa ad uccidere (lo straordinario è che nessun fenomeno inverso, di proporzioni simili, sia avvenuto). Certo è che i Cortés ed i Pizarro, alla ricerca di sempre maggiori tesori (Eldorado), distrussero le civiltà Inca, Maya, Azteca. E a nulla valsero le proteste di frate Bartolomé de las Casas che scrisse (1522) una Brevissima relazione della distruzione delle Indie che l’Inquisizione aveva titolato Storia e brevissima relazione della distribuzione dell’India orientale: i suoi scritti non furono fatti circolare e furono ripubblicati solo nel 1879.

(12) Scrive Gregorovius:

ciò che doveva riuscire fatale a lui stesso e all’Italia fu l’amore sfrenato che portò ai suoi figli; esso lo trascinò a compiere delitti di cui altrimenti non si sarebbe mai macchiato. Mentre era ancora cardinale, aveva guardato alla propria patria, la Spagna, come alla terra che avrebbe provveduto all’avvenire della sua prole, e la benevolenza mostratagli da Ferdinando il Cattolico lo aveva aiutato a realizzare questo piano. Il figlio maggiore, don Pedro Luis, tornato in Spagna, era stato accolto a corte con tutti gli onori e si era distinto combattendo contro i Mori sotto gli occhi del re e partecipando valorosamente alla presa di Ronda. Ferdinando lo lodò e lo accolse insieme coi suoi giovani fratelli Cesare, Juan e Jofré nei ranghi dell’alta nobiltà spagnola, vendendogli anche Gandìa in Valenza con il titolo di duca. Inoltre diede il suo consenso al matrimonio chiesto dall’ambizioso cardinale per suo figlio con donna Maria, la figlia di don Enriquez, zio di Ferdinando, matrimonio col quale il giovane s’imparentava con la casa regnante. Tuttavia don Pedro Luis prima ancora di celebrare le nozze, tornava a Roma e quivi moriva nell’estate del 1488 all’età di trent’anni. Nel testamento redatto il 14 agosto nel palazzo di suo padre nominava erede di Gandìa suo fratello Juan e lasciava un legato di 100 mila fiorini alla sorella Lucrezia per le sue nozze. Il giovane Cesare guardava con invidia alla splendida carriera di don Juan, che non soltanto era divenuto duca di Gandìa, ma era anche avviato verso la Spagna, dove avrebbe sposato la fidanzata del fratello morto. Egli invece era destinato alla carriera ecclesiastica. Innocenze VIII lo aveva nominato protonotaro e lo aveva prescelto come vescovo di Pamplona. Studiava già a Pisa, quando suo padre era divenuto papa; alla notizia dell’avvenimento si recò a Roma e Alessandro, il giorno stesso dell’incoronazione, gli conferì il vescovato di Valenza che era stato già suo. Tali furono gl’inizi della carriera di un uomo che in breve tempo sarebbe assurto a formidabile grandezza. Ben presto i Borgia, come era avvenuto sotto Calisto III, si appropriarono delle più importanti cariche di corte; ma, gente prolifica e numerosa com’erano, non si accontentarono come Cybo [Callisto III, ndr] di titoli, matrimoni e guadagni provenienti dall’esercizio dell’usura. Già nel suo primo concistoro, il 1° settembre, il papa nominava Juan Borgia, vescovo di Monreale, cardinale di S. Susanna.
    Sua figlia Lucrezia, nata il 18 aprile 1480, aveva allora 12 anni. Sin dal febbraio 1491 Alessandro l’aveva promessa legalmente in moglie ad un gentiluomo di Valenza, don Cherubin Juan de Centelles, signore di Val Ayora; ma aveva poi rotto il contratto e fidanzato Lucrezia a Gasparo di Procida, figlio del conte Gian Francesco di Aversa, spagnolo. Divenuto papa, però, il Borgia il 9 novembre 1492 mandava a monte anche quest’unione, mirando ormai a nozze più favorevoli per la sua giovane figlia. Ascanio Sforza, il più influente tra i cardinali e fido consigliere di Alessandro, intendeva infatti dare Lucrezia a un membro della propria famiglia, Giovanni Sforza di Pesaro, che anzi, fin dai primi di novembre, si era recato segretamente a Roma. Quanto al più giovane dei suoi figli, Jofré, il papa sperava di renderlo potente nel Napoletano, non appena gli si fosse presentata un’occasione favorevole. Da Napoli nel frattempo, capitava a Roma l’11 dicembre 1492, don Federico di Altamura, secondo figlio di Ferrante, per prestare l’«obbedienza» e guadagnare il papa alla causa della sua famiglia. Tuttavia, il 10 gennaio 1493, il principe ripartiva fortemente corrucciato da Roma, perché vi era in aria il sospetto che Alessandro pensasse a nuove alleanze che avrebbero annullato quelle esistenti. Autore di questi cambiamenti era Ascanio, dietro il quale si celava il fratello Ludovico il Moro. Molte cause concorrevano a turbare i buoni rapporti con Napoli e una di queste era che dopo la morte di Innocenzo VIII il figlio Franceschetto era tornato presso il cognato Pietro dei Medici e il 3 settembre 1492 aveva venduto Cerveteri e Anguillara a Virgìnio Orsini. La cessione di quei possedimenti al capo della famiglia Orsini, potente vassallo di Napoli e favorito di Ferrante, suscitò le proteste del pontefice incitato anche da Ludovico Sforza, duca di Bari e dal cardinale Ascanio, suo fratello. La rottura fra il pontefice e il re, infatti, andava a tutto vantaggio di Ludovico, che aspirava a stabilire a Milano la propria signoria assoluta e rifiutava di rinunciare alla tutela di suo nipote Gian Galeazze, divenuto ormai maggiorenne; la moglie di quest’ultimo, Isabella, se n’era lamentata presso suo padre, Alfonso di Calabria, sicché la corte di Napoli aveva ammonito Ludovico a desistere dalla sua usurpazione. Fu questa la fonte della rovina di un intero paese, causata dall’ambizione di un uomo solo; infatti la paura e l’avidità di dominio spinsero Ludovico a causare la caduta della dinastia aragonese di Napoli e non con una federazione di stati italiani, ma con l’intervento di Carlo Vili. Non già che egli si proponesse di allontanare questa famiglia dal trono; voleva soltanto causare confusione in Italia, tanto da poterne trarre il proprio vantaggio. Per mezzo del cardinale Ascanio aizzò pertanto il pontefice contro il re di Napoli, accusando questo ultimo di essere stato l’istigatore del contratto stipulato tra Franceschetto e l’Orsini, e al tempo stesso strinse un’alleanza con Venezia la quale, per parte sua, sperava che Alfonso rivendicasse su Milano i diritti che l’ultimo dei Visconti aveva trasmesso al proprio avo. Al contrario, Pietro dei Medici, parente stretto di Virginio, si allontanò da Milano e si strinse ai Napoletani, mentre il cardinale Medici partiva da Roma per trasferirsi definitivamente a Firenze.

(13) Su questi rapporti si può vedere il mio Leonardo da Vinci, tecnico, ingegnere, scienziato.

(14) Alessandro VI era conosciuto come il Papa delle orge.  L’orgia più famosa che vide al centro questo Vicario di Cristo è nota come El Torneo de las Rameras (Il torneo delle prostitute) ed ebbe luogo nella notte di domenica 30 ottobre 1501. Ne siamo a conoscenza perché il maestro di cerimonie del Papa, JohannesBurckardt, la raccontò nel suo diario, il Liber notarum. Il Papa, invitato da Lucrezia, arrivò accompagnato da Cesare in un salone per banchetti dove, allietate dalla musica proveniente da un nascosto anfratto, una cinquantina delle più belle e giovani (alcune adolescenti) prostitute di Roma ballavano, coperte di soli veli, in modo lascivo. Di qualcuna abbiamo anche il nome: Ludovica con i capelli rossi, le giovanissime Giovanna e Lisa arrivate dal Sud d’Italia per il loro essere di capelli neri, Giuliana con dei grossi bracciali che tintinnavano al muoversi delle braccia, … Iniziò il banchetto mentre le fanciulle ballavano e si spogliavano. Ad un certo punte tutte, ormai nude, si disposero in circolo intorno alla tavola. Ed una volta assalite carnalmente le prostitute e soddisfatte le passioni, il Papa lanciò loro delle castagne in atteggiamento analogo a quello in cui si spruzza acqua benedetta. Le giovani fanciulle dovevano contendersi le castagne sparse al suolo «nude e strisciando carponi» a «raccoglierle con la bocca». L’assemblea era presieduta da Lucrezia che, alla fine del Torneo, distribuì i premi. Beh, credo che basti.

(15) La strutturazione delle indulgenze prese forma nel Sinodo di Firenze del 1429. Naturalmente l’istituzione di questa vergogna doveva avere una qualche giustificazione teologica. E la teologia, occupandosi dello studio del nulla, può inventare ciò che vuole. Vediamo come fu architettata l’indulgenza. I Santi hanno fatto molte più opere buone di quelle ritenute necessarie per la loro Salvezza e lo stesso Gesù aveva versato tutto il suo sangue per l’umanità quando una sola sua goccia sarebbe stata sufficiente per questo scopo. Sono queste Quantità di Salvezza in più che il Papa ha a disposizione. E’ un vero tesoro da utilizzare per redimere quanti soffrono pene nel Purgatorio. Si discusse se dovesse essere il Papa il destinatario di tanto bene da diffondere.  Nel 1449 fu l’arcivescovo di Firenze, il teologo Antonino Pierozzi, personaggio molto ascoltato in Vaticano (poi fatto santo), che sostenne pubblicamente e con forza la tesi che la disponibilità della Quantità di Salvezza in più dovesse essere assegnata al Papa. Fu Sisto IV che si schierò con questa interpretazione teologica. Si stabilì poi che le indulgenze potevano essere di vari prezzi e, secondo la quantità di denaro pagata per essa, poteva essere di giorni, mesi, anni, secoli (vi furono indulgenze anche per un milione di anni !). Si fissarono anche prezzi per ottenere indulgenze plenarie che servivano per togliere di un colpo ad un condannato al Purgatorio tutta la sua pena. Erano le indulgenze più costose tenendo conto che quel periodo di tempo era stato fissato da Dio e quindi nessuno poteva conoscerlo. Un ulteriore avanzamento dottrinale previde che le indulgenze, precedentemente pensate per i soli morti, potessero essere date anche ai vivi che investivano i loro soldi per il futuro potendo pagarsi anche i futuri peccati (è incredibile quante bestialità si possono fare in nome di Dio !).

Poiché il traffico delle indulgenze raggiunse cifre astronomiche, non erano più gestibili artigianalmente e per questo ci si rivolse alle banche che anticipavano i soldi alla Chiesa per le future indulgenze vendute. Altre volte si andava direttamente in banca a comprare le indulgenze, come oggi si comprano azioni: da un listino si sceglieva cosa occorreva per i peccati fatti !

(16) Scrive in proposito Deschner:

Già all’epoca di Jan Hus, il precursore ceco di Lutero, si trovavano allineate in bella mostra, nelle chiese di Praga, delle capaci cassapanche per la raccolta delle offerte per indulgenze dove, in mancanza di contanti, si accettavano anche merci. Al debutto di Lutero, l’indulgenza era diventata da lungo tempo un puro affare finanziario, uno sfruttamento vero e proprio delle masse dei credenti, E a trarre profitto dall’imponente gettito non erano solo il clero, la curia romana, i vescovi, i predicatori a ciò specializzati, i confessori, ma anche i principi laici, i cambiavalute, gli agenti,
Indulgenza: ma che cosa vuoi dire propriamente?
Nel mondo cattolico di tradizione latina (ma non nelle chiese orientali) si fa distinzione tra il peccato (culpa) e la cosiddetta punizione temporale dei peccati (poena). Peccato e punizioni eterne dei peccati vengono cancellati nella confessione, mediante il cosiddetto sacramento della penitenza. Restano però stranamente (come se in queste cose non fosse tutto strano!) le punizioni temporali, da espiarsi sulla terra oppure nel “fuoco del purgatorio”. E manifestamente restano soltanto per potere essere appunto estinte per mezzo di indulgenze: o totalmente (attraverso indulgenze plenarie o perfette) oppure mediante indulgenze imperfette, che vanno a condonare soltanto una limitata misura di queste punizioni. E dunque, qualora uno morisse subito dopo l’acquisto di una indulgenza perfetta, arriverebbe “subito in cielo, senza toccare le fiamme del purgatorio”.
Non tutti, purtroppo, hanno questa fortuna. Ragion per cui madre chiesa, nella sua indefessa cura delle anime, diede vita alle indulgenze imperfette. Tuttavia, i rispettivi periodi di tempo ivi dichiarati non determinano un tempo da espiare sulla terra o nel purgatorio, bensì il periodo che, nel primo Medioevo, un penitente assumeva su di sé per liberarsi dai suoi peccati. […].
Ulteriori dettagli relativi a questo problema ce li vogliamo risparmiare dal momento che qui – come di solito nella teologia – praticamente tutto è basato su finzioni, su fantasticherie, su idee cervellotiche. E quantunque la chiesa affermi che “Cristo” le avrebbe dato pieni poteri per la concessione delle indulgenze, nel Nuovo Testamento non v’è traccia di indulgenze. […]
In verità, la prestazione richiesta per l’indulgenza poteva ben essere di natura religiosa, ma finiva per sfociare sempre di più in sovvenzioni materiali. Il clero elargiva la grazia, il credente ci metteva i denari.
I papi promossero attraverso le indulgenze perfino istituti di credito, naturalmente società apposite e specifiche, chiamate “montes pietatis“, e poiché all’inizio il procacciamento del capitale aziendale era difficoltoso, incitarono i fedeli a “modeste spese” con la promessa di indulgenze: così fecero Pio II, Sisto IV, Innocenza VIII, Alessandro VI, Giulio II, Leone X. Specialmente sotto Sisto e Leone si moltiplicarono all’infinito le grazie ottenibili per tramite di indulgenze. In maniera del tutto evidente, poi, il fenomeno s’intensificò in conseguenza di croniche ristrettezze finanziarie. […]
In ciò si seppe bene come tenere sotto tutela anche i più poveri, le masse nullatenenti e indigenti, e capitalizzare quanto meno la loro forza lavoro, ad esempio nella costruzione di chiese, soprattutto di quelle grandi, come il completamento del duomo di Friburgo, per il quale si reclutarono gratuitamente operai perfino da regioni lontane. Allo stesso modo si apprese ad istituire le agognate “grazie”, concesse in cambio di trasporto di sabbia e di pietrisco nella costruzione di conventi. Oppure per contributi lavorativi da prestare (persino le domeniche e in altri giorni festivi) nella costruzione di fortezze E nel 1503, nel ducato di Brunswick, si poteva acquistare un’indulgenza di 100 giorni prestando la propria opera addirittura in assai profani lavori stradali.
Presto papi e vescovi presero ad elargire indulgenze a piene mani, per tutti gli usi e tutte le incombenze possibili ed immaginabili.
Ad esempio, a Venezia, per la partecipazione ad una processione con tanto di pubblica flagellazione. O per la rispettosa pronuncia dei nomi di Gesù e Maria. Nel 1514 il Sinodo Laterano concesse un’indulgenza di dieci anni a tutti i delatori e giudici di comuni bestemmiatori. Nel 1287 i vescovi tedeschi avevano conferito un’indulgenza a tutti quanti evitavano di chiamare i Carmelitani (portatori di una tonaca bianca) “i fratelli bianchi”, ma che continuavano a chiamarli “Frauenbrüder”, ossia fratelli della Signora (col che non s’intendeva nulla di sconveniente, come si potrebbe credere dal coevo motto popolare – puttaneggiare come un carmelitano -, ma significava soltanto la Santa Vergine, che costoro veneravano in modo particolare).
Si concedevano indulgenze per chiunque avesse dimenticato i peccati o le loro espiazioni, se ne elargivano a beneficio di violatori di voti, di spergiuri, di ladri e briganti (retentio rei alienae). Vi furono indulgenze anche per madri che nel sonno avessero schiacciato i loro lattanti, o per credenti che avessero contribuito o acquistato il loro nuovo messale. A questo scopo il vescovo Rodolfo di Wiirzburg concesse nel 1481 un’indulgenza di 40 giorni, un beneficio piuttosto misero. […] 

(17)   Mentre Carlo V era impegnato in guerre e con i turchi e con la Francia, aveva dedicato poca attenzione agli sviluppi religiosi del suo Paese. In molti Stati tedeschi i principi avevano spontaneamente aderito alla Riforma di Lutero e ciò comportava che in Germania si stava originando un grande scisma. Carlo V intervenne nel 1529 durante la Dieta di Spira denunciando alcuni accordi che aveva fatto con i principi nel 1526 (dovevano essere i principi a scegliere la forma di religione all’interno del proprio stato) e riaffermando la validità della condanna a Lutero di Worms. Ma ormai la cosa era andata troppo avanti fino al punto che la maggioranza dei principi e dei delegati delle città imperiali si rifiutò di abolire nei propri Stati le riforme in materia religiosa già avanzate e protestò con forza contro l’ordine imperiale. Da qui il nome di protestanti.

Aggiungo qui che Lutero ed in generale la Chiesa protestante fu una grande delusione per chi aveva una qualche speranza. Anche con questa Chiesa funzionò allegramente il rogo per i dissidenti e vi furono da parte dello stesso Lutero degli scritti violentemente antiebraici. Aveva iniziato nel 1523 con uno scritto, Anche Gesù Cristo è nato ebreo, nel quale chiedeva in modo bonario agli ebrei di convertirsi criticando la rigida posizione della Chiesa di Roma. Nel 1526 gli ebrei gli sembrarono ostinati e maliziosi contro il Vangelo.. Nel 1543, con il suo Degli Ebrei e delle loro menzogne, consigliò ai fedeli di cacciare gli ebrei dalle loro case per confiscarne i beni, i libri con la bruciatura delle sinagoghe.. Tre giorni prima di morire, Lutero fece un discorso in cui ci fu l’istigazione ad ogni fedele di cacciare ogni ebreo dalla sua città. Non a caso i nazisti considerarono Lutero come uno degli ispiratori del movimento criminale.
 


BIBLIOGRAFIA

(1) Karlheinz Deschener – Storia criminale del Cristianesimo – Ariele 2000-2010

(2) Paolo Cammarosano – Storia dell’Italia Medievale. Dal VI all’XI secolo – Laterza 2001

(3) Claudio Rendina – I Papi, storia e segreti – Newton Compton 1999

(4 ) Ferdinand Gregorovius . Storia di Roma nel Medio Evo – Avanzini e Torraca, Roma 1967

(5) Ludovico Gatto – Le crociate – Newton & Compton 2005

(6) Franco Cardini – L’inquisizione – Giunti 1999

(7) John Edwards – Storia dell’Inquisizione – Mondadori 2006

(8) Jean Guiraud – L’Inquisizione medioevale – Corbaccio 1933

(9) Juan Blázquez Miguel – La Inquisicion – Penthalon Madrid 1988

(10) M. Baigent, R. Leigh – L’Inquisizione – Marco Tropea 2000

(11) Henry Ch. Lea – Storia dell’Inquisizione – Feltrinelli/Bocca 1974 (l’opera è del 1888)

(12) N. Eimeric, F. Peña – El manual de los inquisidores – Muchnik Barcelona 1983

(13) Karlheinz Deschner – Il gallo cantò ancora. Storia critica della Chiesa – Massari 1998

(14) F. Musslung – Lutero e la Riforma protestante – Giunti 2003



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