Roberto Renzetti
(Novembre 2009)
PREMESSA
Ho già scritto un articolo su alcuni aspetti della vita culturale e scientifica del Rinascimento ed in particolare mi sono occupato delle reciproche relazioni che in questo periodo si realizzarono tra religione, magia e scienza. Il secondo lavoro si descrive con il solo titolo, gli argomenti che avevo trattato nel primo erano:
– la riscoperta della matematica;
– la funzione egli artisti e degli architetti;
– elaborazioni dei matematici;
– l’astronomia;
– Copernico;
– il De Revolutionibus;
– Giordano Bruno;
– Thyco Brahe;
– Johann Kepler;
– Primi passi in fisica (Tartaglia, Benedetti, Stevin).
In questo articolo, oltre a fornire alcuni caratteri generali del Rinascimento, intendo riprendere quest’ultimo paragrafo per approfondire quanto ho già detto sui tre autori citati e per estendere la trattazione ad altri scienziati. Aggiungerò poi alcuni elementi relativi allo sviluppo tecnologico che si andava producendo. Debbo infine ricordare che in altri lavori ho trattato sia della fondamentale opera di trasmissione araba dell’enorme eredità greca ed ellenistica sia del compimento che proprio nel Rinascimento si realizzava dell’acquisizione e traduzione di praticamente l’intero corpo delle opere fondamentali (che si sono salvate dalla furia distruttrice dei cristiani) degli autori classici.
SENSO COMUNE
Farrington osserva con molta ragione che Platone con la sua Repubblica disegnò uno Stato ideale, Stato nel quale era completamente assente il problema della schiavitù. Nella Repubblica vi era una grande preoccupazione per l’educazione, la sana educazione dell’Accademia, della classe dirigente. Ogni sforzo doveva essere fatto per migliorare la formazione dei politici. Ma Platone non ebbe mai il minimo dubbio che la classe dirigente dovesse essere esente alla necessità di lavorare e dovesse essere nutrita, vestita ed alloggiata col lavoro di una disprezzata classe di lavoratori, in gran maggioranza schiavi.
Gli schiavi appunto. Coloro che erano condannati ad ogni lavoro manuale da cui per facile opposizione si distinguevano i liberi, coloro che accedevano alle arti liberali che non riguardavano la manualità. E non si pensi l’idilliaco schiavo che serve a tavola o fa da educatore di qualche figliolo di padrone. Gli schiavi facevano dei lavori che rendevano preferibile la morte che spesso non veniva a liberarli per la forte struttura fisica iniziale. Gli schiavi lavoravano nei campi e ciò li rendeva privilegiati rispetto a quelli che lavoravano nelle cave e nelle miniere. Erano malvestiti, spesso nudi, malnutriti, spesso incatenati otto la frusta di guardiani aguzzini. Erano migliaia e provenivano dalle conquiste, in gran parte, in Oriente. Valevano così poco che era meno costoso e più facile rimpiazzarne uno che non mantenerlo e peggio curarlo.
Erano stati teorizzati gli schiavi anche da menti eccelse come Aristotele che li riteneva macchine umane, automi. Anche chi, pur non essendo schiavo ma facente parte degli operai meccanici era incluso da Aristotele nello stesso novero. Tali entità, non persone, andavano escluse dal novero dei cittadini e dovevano essere differenziate dagli schiavi solo perché questi ultimi si occupano di una sola persona mentre i primi di più persone. Lo schiavo, il suo bestiale lavoro, era il più basso livello della struttura di casta dominante nell’antichità. Da una parte lo schiavo, ma anche tutti coloro che pur non essendo schiavi esercitavano lavori manuali, dall’altra colui che si serviva di schiavi e di prestatori d’opera manuali, ed anche coloro che per disponibilità economiche potevano dedicarsi al pensiero, alle attività liberali. Da una parte, quindi, il lavoro manuale e dall’altra il lavoro intellettuale con valenze del tutto differenti che riguardavano non le condizioni economiche ma una sorta di rivendicazione da parte dei liberi di un qualche primato intellettuale, una qualche virtù insita che aveva creato la distinzione. Il lavoro manuale si specificò sempre più in ogni cosa che avesse a che fare con il lavoro e che utilizzasse strumenti e quindi tecniche, il lavoro intellettuale si specificò nell’uomo teoretico, un grande apporto alla storia del pensiero che dette la Grecia. In generale la tecnica ebbe in Grecia, e come vedremo la cosa continuerà per secoli, un ruolo subordinato di fronte alle elaborazioni dell’uomo teoretico che diventerà lo scienziato puro. Ho già accennato ad Aristotele, ma anche e particolarmente Platone si dedicò a teorizzare la distinzione tra le due attività stabilendo una netta rivendicazione di un primato. Il mondo di Platone, quello contingente fatto di cose, è un riflesso del mondo delle idee che è eterno ed immutabile. Chi lavora con le idee quindi è vicino alla perfezione. Si capisce allora che il fare esperimenti è avvicinarsi al lavoro manuale e non è operazione che aiuti chi cerca la perfezione mentre la geometria è attività eccelsa perché fondata su concetti che derivano dal mondo delle idee. Proprio due brani di Platone (dal Gorgia e dalle Leggi) ci aiutano a capire il discredito che avevano le attività manuali, siano esse state artigianali e/o tecniche.
Ma se uno ha molte incurabili malattie in quella parte del suo Io che è ancora più preziosa del suo stesso corpo, e cioè nell’anima, deve attribuire grande valore alla sua vita? gli può giovare essere salvato dalla furia del mare o dalla severità del tribunale o da qualsiasi altro pericolo? No: egli sa infatti che per l’uomo cattivo la vita non è un bene, poiché deve necessariamente vivere nel male.
Non v’ha perciò ragione alcuna perché il timoniere creda di avere fatto qualcosa di straordinario anche se ci ha salvati: e così pure il costruttore di macchine, il quale può condurre a salvazioni ben maggiori di quelle a cui può condurre un generale o un timoniere: infatti talora egli salva intere città. Si può misurare con l’oratore di fronte al tribunale? Caro Callimaco, se egli volesse parlare come voi e vantare il suo mestiere, potrebbe sommergervi di parole ed incitarvi a diventare dei costruttori di macchine, secondo lui, tutto il resto è senza valore. Egli non mancherebbe di argomenti. Ma tu, ciononostante, disprezzeresti lui e la sua arte e quasi per ischerno lo chiameresti “costruttore di macchine,” e a suo figlio non daresti tua figlia in isposa, né andresti a cercare sua figlia come sposa per tuo figlio. Eppure, per le stesse ragioni per le quali tu lodi la tua arte, con quale diritto disprezzi il costruttore di macchine e gli altri che io ho poc’anzi nominato? Lo so, tu risponderesti che sei migliore e di migliore famiglia. Se però il “meglio” non è ciò che io intendo con questo nome, bensì è virtù mantenere se stessi e le proprie cose, allora è del tutto ridicolo il tuo disprezzo per il costruttore di macchine, per il medico e per gli uomini delle altre arti, che hanno per scopo la conservazione: No, mio caro, rifletti se il Nobile e il Buono non consistano piuttosto in qualcosa di diverso dal salvare e dall’esser salvati. [Dal Gorgia]
Inoltre, a proposito degli artigiani, va precisato che nessun cittadino o schiavo di cittadino dovrà occuparsi di lavori manuali; inquantoché il buon cittadino sarà sufficientemente impegnato, ed in una attività che richiede assai maggiori cure che non lo svolgimento di una qualsiasi attività secondaria più ristretta. D’altra parte l’adempiere con diligenza a due arti o a due professioni è cosa che supera in pratica le forze di qualsiasi natura umana, e parimenti il compito di esercitarne una di persona, e di dirigere un altro che ne esercita un’altra …
No, nel nostro stato ciascuno deve svolgere soltanto un’unica attività, e da questa ricavare i mezzi per vivere. I responsabili della cosa pubblica devono far osservare questa legge e punire con ogni sorta di onta e di vergogna quel cittadino che sia più incline a svolgere una qualsiasi attività manuale che non a curare le sue virtù interiori, finché non lo avranno riportato sulla retta via. E se uno straniero intraprenderà insieme due attività, lo si dovrà parimenti punire con la prigione, la multa ed il bando, costringendolo casi ad essere un solo uomo, non molti. [Dalle Leggi]
Stesso atteggiamento lo si ritrova in Plutarco che racconta alcune vicende legate ad Archimede:
Archimede aveva approntato queste macchine non per la loro importanza, ma considerandole piacevoli applicazioni secondarie della geometria. Il re Gerone lo aveva già pregato e persuaso a tradurre in concreto qualche principio astratto della sua arte, rendendo utili anche alla pratica comune le sue profonde speculazioni.
Questa tanto amata arte della meccanica era stata praticata dapprima da Eudosso e da Archita: per rendere meno ardua la geometria essi avevano risolto mediante esempi meccanici concreti quei problemi geometrici che non potevano essere immediatamente compresi. Cosi avevano risolto per via meccanica il problema di due segmenti medi proporzionali, come fondamento per la risoluzione di molti altri problemi, impiegando a tale scopo dei mesolabi derivati da curve e sezioni coniche. Platone tuttavia ne era rimasto afflitto e li aveva rimproverati, deplorando che essi in tal guisa tradissero lo spirito della geometria, trasportando questa scienza dal campo delle cose irreali ed astratte a quello degli oggetti sensibili e impiegando oggetti che si addicevano soltanto ai comuni e rozzi operai. A seguito di tali considerazioni la meccanica venne scissa dalla geometria e per lungo tempo fu disprezzata dalla filosofia pura; essa restò così confinata al rango di una scienza militare. […]
Con tutta la ricchezza delle sue invenzioni, Archimede conservava una tale elevatezza di sentimenti e nobiltà di spirito, da non volere lasciar nulla di scritto su questa arte, che gli aveva procurata fama di intelligenza sovrumana e divina. Egli teneva in conto di cose volgari e manuali la necessità pratica e soprattutto ogni arte che fosse determinata da una necessità. Il suo spirito era attratto soltanto da quelle scienze nelle quali il bello ed il buono hanno un valore in sé e per sé e che non servono le necessità degli uomini; scienze che non possono essere paragonate ad alcun’ altra e nelle quali le cose trattate gareggiano per eccellenza con le dimostrazioni, in quanto le dimostrazioni sono importanti e fondamentali, e le cose stesse sono in sé nobili e belle. [Dalle Vite parallele. Marcello].
Da ultimo, anche Seneca muoveva sulla medesima strada:
Posidonio distingue quattro tipi di arti: prima le arti comuni ed umili, secondo, le arti che servono per passatempo; terzo, le arti che riguardano i ragazzi; quarto, le arti liberali. Le comuni sono quelle degli artigiani, che si esercitano con le mani e servono a procurarci i mezzi per vivere; in esse non vi è alcuna pretesa di bellezza o di nobiltà morale. […] Ma liberali, o per meglio dire, libere, sono soltanto quelle arti che indirizzano tutti i loro sforzi alla virtù. […]
Tutte quelle arti, che portano tanta animazione o fanno tanto rumore nella vita cittadina, stanno soltanto al servizio del corpo, al quale un tempo si dava ogni cosa come ad un servo, mentre ora si appresta tutto come a un padrone. E perciò trovi qui i laboratori di tessitori e fabbri, là quelli dei profumieri […] Infatti è scomparso quel naturale senso di misura, che poneva la necessità come limite ai desideri […]
È risaputo che alcune cose sono scomparse soltanto nel corso dei tempi attuali, come ad esempio l’impiego di lastre alle finestre che lasciano passare attraverso la massa trasparente del vetro la chiara ì luce del giorno, o le alte volte dei bagni con tubi inseriti nelle pareti per convogliare dovunque il calore e assicurare l’uniforme sua distribuzione in tutte le direzioni. Accenno appena all’uso del marmo, di cui risplendono templi e case; alle pietre arrotondate e levigate su cui poggiano le colonne e i soffitti delle sale, vaste abbastanza per contenere un’intera popolazione; alla tachigrafia, mediante la quale anche il più veloce discorso può venir fissato per iscritto, in quanto la mano che scrive procede con la stessa rapidità della lingua. Tutte queste sono invenzioni di individui inferiori; la sapienza siede su un trono più alto: e non le mani, ma le anime sono oggetto dei suoi ammaestramenti [Da Epistulae ad Lucilium].
Risulta con chiarezza la completa svalutazione del lavoro dello schiavo e del lavoro manuale in genere rispetto al prestigio ed alla dignità del lavoro intellettuale. Questa contrapposizione venne subito trasferita a quella tra la tecnica e la scienza, la prima un qualcosa di volgare che serviva a risolvere i problemi immediati della gente, la seconda con fini aulici che comprendevano il raggiungimento della verità. Disprezzare gli schiavi è disprezzare la loro attività ed un riflesso plastico di questa situazione lo troviamo nelle discipline che si apprendevano in qualunque processo educativo chiamate, non a caso, le sette arti liberali. Queste ultime avevano una ulteriore divisione nelle arti del trivio (grammatica, dialettica, retorica o logica) e arti del quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia). Arti liberali, come già detto, come arti di uomini liberi in contrapposizione ai lavori manuali e/o meccanici degli schiavi e della gran parte della popolazione, umile ed indigente.



Le arti liberali del trivio. La prima figura rappresenta la grammatica. Una donna (Nicostrata che secondo la leggenda inventò l’alfabeto) introduce uno studente alla torre della grammatica che è la base della conoscenza che conduce al più elevato livello della conoscenza medesima che è quella teologica. Nelle diverse stanze dei diversi stadi della torre alloggiano: i grammatici classici Donato al primo livello e Prisciano al secondo livello (rappresentanti gli elementi base del discorso); quindi Aristotele (logica), Cicerone (Retorica e Poesia), Boezio (Aritmetica) al terzo livello; seguono Pitagora (Musica), Euclide (Geometria), Tolomeo (Astronomia) al quarto livello; ancora più su, al quinto livello, si hanno Aristotele (Fisica), Seneca (Etica); al sesto il teologo rappresentato da Pietro Lombardo. La seconda figura rappresenta la dialettica o retorica. Giustiniano con le leggi domina la scena. A sinistra siede Seneca ed a destra Aristotele. La terza arte liberale è rappresentata nella terza figura. La logica è armata dalla spada del sillogismo. Il praticante si apre la strada in mezzo ad un bosco di opinioni, avanzando con cautela in mezzo ad una palude di errori e falsità, guidato dal fiuto di due cani che rappresentano la verità e la menzogna (nel bosco sono indicate varie scuole di pensiero: occamisti, tomisti, …). Le figure sono tratte da Gregor Reisch, Margarita Philosophica, 1503.




Le arti liberali del quadrivio: l’aritmetica (rappresentata dalla sfida tra algoritmisti che usano numeri indo-arabi come Boezio e da abacisti come Pitagora), la geometria (con vari tipi di sue utilizzazioni), la musica (con tutti i vari strumenti e gli artigiani che li costruiscono), l’astronomia (illustrata da Tolomeo). Le figure sono tratte da Gregor Reisch, Margarita Philosophica, 1503.
A proposito della pretesa separazione tra uomini liberi e schiavi e/o tecnici, osserva con grandissima lucidità e chiarezza Paolo Rossi [1997]:
La conoscenza non subordinata a fini che siano esterni a se medesima costituisce, in Aristotele e nella tradizione aristotelica, l’unico sapere nel quale si realizza l’essenza dell’uomo. L’esercizio della sophìa richiede agiatezza, esige che siano già state apprestate le cose necessarie alla vita. Le arti meccaniche sono necessarie alla filosofia, ne sono i presupposti, ma sono forme inferiori di conoscenza, immerse fra le cose materiali e sensibili, legate alla pratica e all’opera delle mani. L’ideale del saggio e del sapiente tende a coincidere (come avverrà anche nella filosofia degli stoici e degli epicurei e più tardi nel pensiero di Tommaso d’Aquino) con l’immagine di colui che dedica la propria vita alla contemplazione in attesa di raggiungere (per i pensatori cristiani) la beatitudine della contemplazione di Dio.
Siamo intorno al III secolo a.C., siamo nella Grecia Classica per passare alla Roma dell’Impero in espansione. I migliori pensatori dell’epoca ci dicevano quanto abbiamo letto. Il fatto drammatico, che mostra non solo il persistere delle idee ma il loro passaggio ad insulsi ripetitori acritici, è che ritroviamo le stesse posizioni, senza che nulla di esaltante sia accaduto nell’intermezzo, mille anni dopo. Dal punto di vista culturale sono spariti i grandi pensatori, gli Aristotele ed i Platone, e ci troviamo con una miserabile pseudocultura esegetica cristiana che non sa fare altro che richiamarsi proprio a quei pensatori di mille anni prima condendoli in salsa biblica. Con chi abbiamo a che fare ora, sul finire del Medioevo ? Quali sono le persone emblematiche, quelle che caratterizzano l’epoca come persone colte ? Abbiamo i frati, qualche santo, i medici, coloro che insegnano nelle università, i militari, gli artigiani ed i maghi. Non c’è novità culturale. Quando si dibatte in strette cerchie si prende un tema qualunque, si individua una posizione da sostenere, si cita cosa dice Aristotele in proposito, si cerca un contendente verbale, uno che contesti la tesi iniziale rispetto ad una migliore conoscenza di Aristotele. Le odiose dispute che risolvevano tutto in estenuanti dibattiti che ruotavano su se stessi senza mai aggiungere nulla che permettesse di fare un solo passo in avanti. Il dibattito, la disputa aveva come solo giudice di verità un libro, una verità del passato lontanissimo. Non ci si azzardava a contestare qualcosa, ad andare un pochino oltre. Le dispute non avevano mai come referente il mondo esterno, la vita quotidiana, ciò che facevano quotidianamente le persone che lavoravano ingegnandosi per risolvere questioni pratiche non così altisonanti come le cause e gli accidenti. Altrove, nella bottega che stava all’angolo dell’università qualcuno procurava che l’acqua fosse fornita alla casa del dotto peripatetico, qualcun altro scavava la terra con aratri che andavano sempre più in basso incontrando gli strati azotati, altri realizzavano mulini a vento e ad acqua, bussole per navigare magari non più bordeggiando, … Ma i mondi erano separati. Il meccanico, l’architetto, l’artigiano, … come potevano entrare nei colti dibattiti dei frati ? Costoro svilupparono una loro cultura ricca di pubblicazioni di ben altro contenuto e tenore. In breve, molto in breve, si può dire che nascevano le figure precedentemente assenti di meccanico, di filosofo naturale, di sperimentatore non ingenuo (questa espressione sta per colui che riesce a superare il senso comune). E questi artigiani, tecnici, lavoratori manuali, architetti, … nel loro insieme iniziarono a rivendicare un loro posto non secondario nella cultura, attraverso i loro libri ed opere in genere. Ancora Paolo Rossi [1997] ci dice:
L’elogio della vita attiva, che è presente in tanti autori del Quattrocento, l’elogio delle mani, che è presente nei testi di Giordano Bruno, la difesa delle arti meccaniche, che compare in tanti testi di ingegneri e di costruttori di macchine del Cinquecento e che viene ripresa da Bacone e da Cartesio acquista, alla luce di queste considerazioni, un significato molto rilevante. In uno dei testi più noti della tecnica del Rinascimento, il De re metallica (1556) di Giorgio Agricola (Georg Bauer), troviamo una appassionata difesa dell’arte dei metalli. Essa viene accusata di essere «indegna e vile» nei confronti delle arti liberali. Per molti essa si configura come un lavoro servile «vergognoso e disonesto per l’uomo libero cioè per il gentiluomo honesto e honorevole». Ma il «metalliere», per Agricola, dovrà essere esperto nella individuazione dei terreni, delle vene, delle varie specie di pietre, gemme e metalli. Gli saranno necessarie la filosofia, la medicina, l’arte delle misure, l’architettura, l’arte del disegno, la legge e il diritto. Il lavoro dei tecnici non può andare disgiunto da quello degli scienziati. A chi, per sostenere la tesi opposta, si fonda sulla contrapposizione liberi-servi, Agricola risponde che anche l’agricoltura fu praticata un tempo dagli schiavi, che all’architettura contribuirono servi, che non pochi illustri medici furono schiavi. Nei Mechanicorum libri di Guidobaldo del Monte pubblicati a Pesaro nel 1577 troviamo, fondata su argomenti non dissimili, questa stessa difesa: in molte parti d’Italia «si suole dire ad altrui mechanico per ischerno et villania, et alcuni per essere chiamati ingegneri si prendono sdegno». Il termine meccanico indica invece un «uomo di alto affare, che sappia con le mani e col senno mandare ad esecutione opere meravigliose». Archimede fu principalmente un meccanico. L’essere meccanico o ingegnere «è officio da persona degna et signorile, et mechanico è voce greca significante cosa fatta con artificio et in generale comprende ciascun edificio, ordigno, strumento, argano, mangano overo ingegno maestrevolmente ritrovato et lavorato in qual si voglia scienza, arte et esercitio».
Per rendersi conto del significato di queste «difese» del valore culturale della tecnica vale la pena di ricordare che alla voce mécanique il Dictionnaire français di Richelet (pubblicato nel 1680) recava ancora la seguente definizione: «il termine meccanico, in riferimento alle arti, significa ciò che è contrario a liberale e onorevole: ha senso di basso, villano, poco degno di una persona onesta». Le tesi di Callide sono ancora vive nel Seicento: vile meccanico è un insulto che, ove venga rivolto a un gentiluomo, lo induce a sguainare la spada. Alla discussione sulle arti meccaniche, che raggiunse una straordinaria intensità fra la metà del Cinquecento e la metà del Settecento, sono legati alcuni grandi temi della cultura europea. Nelle opere degli artisti e degli sperimentatori, nei trattati degli ingegneri e dei tecnici si fa strada una nuova considerazione del lavoro, della funzione del sapere tecnico, del significato che hanno i processi artificiali di alterazione e trasformazione della natura. Anche sul piano della filosofia emerge lentamente una valutazione delle arti assai diversa da quella tradizionale: alcuni dei procedimenti dei quali fanno uso tecnici e artigiani per modificare la natura giovano alla conoscenza della realtà naturale, valgono anzi a mostrare (come verrà detto in esplicita polemica con le filosofie tradizionali) la «natura in movimento».
Solo se si tiene presente questo contesto acquista un significato preciso l’atteggiamento assunto da Galilei e che è alla radice delle sue grandi scoperte astronomiche. Nel 1609 Galilei puntava verso il ciclo il suo cannocchiale. Ciò che segna una rivoluzione è la fiducia galileiana in uno strumento nato nell’ambiente dei meccanici, progredito solo per pratica, parzialmente accolto negli ambienti militari, ma ignorato, quando non disprezzato, dalla scienza ufficiale. Il cannocchiale era nato negli ambienti dell’ar-tigianato olandese. Galilei l’aveva ricostruito e l’aveva presentato a Venezia nell’agosto del 1609 per farne poi dono al governo della Signoria. Il cannocchiale non è per Galilei uno dei tanti strumenti curiosi costruiti per il diletto degli uomini di corte o per l’immediata utilità degli uomini d’arme. Egli lo impiega e lo volge verso il cielo con spirito metodico e con mentalità scientifica, lo trasforma in uno strumento scientifico. Per prestare fede a ciò che si vede con il cannocchiale bisogna credere che quello strumento serva non a deformare, ma a potenziare lavista. Bisogna considerare gli strumenti come una fonte di conoscenza, abbandonare quell’antico, radicato punto di vista antropocentrico che considera il guardare naturale degli occhi umani come un criterio assoluto di conoscenza. Far entrare gli strumenti nella scienza, concepirli come fonti di verità non fu una facile impresa. Vedere, nella scienza del nostro tempo, vuoi dire, quasi esclusivamente, interpretare segni generati da strumenti. Alle origini di ciò che oggi vediamo nei cieli c’è un iniziale, solitario gesto di coraggio intellettuale.
La difesa delle arti meccaniche dalla accusa di indegnità, il rifiuto di far coincidere l’orizzonte della cultura con quello delle arti liberali e le operazioni pratiche con il lavoro servile implicavano in realtà l’abbandono di una millenaria immagine della scienza, implicavano la fine di una distinzione di essenza tra il conoscere e il fare.
Questo paragrafo ha per titolo Senso comune, titolo che riprendo qui in fondo per spiegare ora meglio il suo significato. Vi è un modo, quello che riguarda ogni essere umano, di guardare il mondo che ci circonda. Acquisiamo delle immagini e le raccontiamo per come appaiono, con il senso comune che ognuno di noi (o quasi) ha. E’ il classificare, l’ordinare, il descrivere ciò che ci circonda per i caratteri appariscenti delle cose. Siamo quindi portati a valutazioni di grane e piccolo, di caldo e freddo, di alto e basso, di vivente e non vivente, di bello e brutto, di bianco e nero, di lento e veloce, … E’ un primo approccio che appartiene anche all’infanzia di ciascuna persona. E’ un approccio di buon senso o di senso comune che ci fornisce una descrizione empirica della realtà che ci passa davanti senza che noi si intervenga su di essa per indagarla più a fondo in modo non ingenuo, in modo cioè da non lasciarci condizionare dal senso comune. Ebbene l’indagine sulla realtà dei tecnici e dei meccanici è quella che ha fornito uno spaccato più articolato del mondo e ne ha permesso quell’interpretazione che superava il senso comune, l’empirismo. L’intersezione tra l’uomo teoretico di derivazione greca con la manualità, che acquisisce dignità forgiando strumenti e macchine, segna la nascita della scienza moderna ed anche, se si riflette un poco, il mondo moderno. Tutto questo avviene con grande chiarezza durante il Cinquecento, il secolo del Rinascimento che, non sembri paradossale, è il secolo che meno produce dal punto di vista scientifico in senso stretto, il secolo però che traghetta da alcune importanti e forse fondamentali acquisizioni dell’Alto Medioevo all’esplosione del Seicento che è tutto in gestazione nel Cinquecento.
SCIENZA VERSUS MAGIA
Il Cinquecento, oltre ad essere il secolo di gestazione di cui dicevo, è anche il secolo in cui vi è il trionfo della magia, in tutte le sue salse. Naturalmente il mago si pone ai suoi clienti come uno scienziato e, per un lungo periodo le due professioni hanno ampie aree di sovrapposizione. Diventa allora importante capire qualche differenza che esiste e caratterizza le due occupazioni, almeno le più evidenti.
In tutto il mondo occidentale, per molti secoli, si è radicata l’opinione che il sapere, il sapere liberale, è solo per pochi e non deve essere diffuso al volgo. Il sapere era un gran bene che solo pochi potevano apprezzare. L’uscita generalmente accettata da tale modo di pensare ed essere si andava sempre più codificando in un atteggiamento di segretezza. Il bene “sapere” non deve essere scambiato ma mantenuto dai pochi che lo hanno. Da qui a far intendere che i pochi che hanno il sapere (i sapienti) sono i pochi che hanno le virtù per averlo, il passo è molto breve. E da qui ad intendere il sapiente come una sorta di predestinato, e quindi iniziato (pura sapienza eletta) a pratiche che sono per pochi, il passo è ancora più breve. Per essere iniziati non bastava una scuola; occorreva avere delle proprietà particolari, essere dotati da Dio di particolari poteri, in modo che si può anche sostenere che il mago rinascimentale è un poco un eletto da Dio, una specie di Santo. In questo senso la magia non temeva smentite. Il linguaggio criptico conteneva in sé sempre una affermazione ed il suo contrario ed il mago era inattaccabile. Se delle cose non andavano poi come dovevano era perché il ‘paziente’ non aveva fatto esattamente, non si era attenuto, non era stato casto, non… Ed è così che in un paio di affermazioni apparentemente consequenziali si costruisce un’immagine distorta della realtà. E ciò che è peggio è che la realtà a cui si fa riferimento, che dovrebbe essere culturale, con tale segretezza non avanza ed è staticamente fotografata all’inutile sapere dei dotti che poi si va specificando in dotti maghi, alchimisti, astrologi. Ciò che infatti colpisce nelle pratiche segrete non è la varietà ma l’immutabilità delle formule.
In definitiva i sapienti non comunicano nulla delle loro pretese ricerche. Forniscono alcuni risultati senza che sia dato sapere come sono stati conseguiti. Frasi su frasi, meglio se completamente oscure, per informare della loro sapienza e della loro vicinanza a Dio (magia naturale) o al Diavolo (magia nera). La pratica del segreto veniva anche teorizzata facendo riferimento, ancora, ad un testo attribuito falsamente ad Aristotele, i Secreta secretorum, che fu ampiamente diffuso nel Medioevo. Anche tra uomini di scienza, come Ruggero Bacone nel XIII secolo, il segreto era teorizzato perché il volgo non è in grado di capire gran parte delle cose che discendono dalla scientia experimentalis. Scriveva Bacone: I sapienti hanno omesso questi argomenti dai loro scritti o li hanno velati in un linguaggio figurativo. […] Come hanno insegnato Aristotele nel suo libro sui segreti e il suo maestro Socrate, i segreti delle scienze non sono scritti su pelli di capra o di pecora in modo da poter essere accessibili alle moltitudini. Tutto ciò si fondava sulle teorie attribuite da Marsilio Ficino (1433-1499), traduttore per incarico di Cosimo dei Medici (il vecchio) della sua opera, al leggendario Hermes Trismegisto, una sorta di divinità egizia, contemporaneo di Mosè e grande ispiratore di Pitagora e Platone, che con i suoi Corpus Hermeticum ed Asclepius aveva dato inizio all’ermetismo (l’opera attribuita ad Hermes fu accessibile per la prima volta agli occidentali nel 1543, dopo la caduta di Costantinopoli). Ho trattato ampiamente l’argomento nel link offerto, ora ricordo solo che Ficino presentava Hermes come un profeta perché nella sua opera sembrava risplendere la luce divina e con essa si poteva pensare di riuscire ad avvicinare lo stesso Dio. È questo il percorso che in realtà interessava, quello che avrebbe dovuto ricondurre alla perfezione del “prima della caduta” ed alla riappacificazione con Dio(1). L’opera di Hermes sembrava che permettesse questo cammino. Ma molte delle cose che erano contenute nell’opera di Hermes erano o sembravano oscure. Serviva una persona di elevate conoscenze e capacità per permettere queste letture con il conseguente avvicinamento sempre maggiore a Dio. Non era cosa per tutti ma solo per maghi, per persone cioè in grado di aiutare altre persone a fare quel cammino che altrimenti sarebbe stato loro negato. Ed ecco che nel Rinascimento la magia che per secoli era vissuta all’ombra di un sottobosco incolto con pozioni e sortilegi, acquista un aspetto colto che interessa non solo regnanti ma alte gerarchie della Chiesa fino ad arrivare allo stesso Papa. E nell’acquistare tale dignità prende con sé anche i metodi della magia tradizionale con la reintroduzione di riti dei seguaci di Zoroastro ed Orfeo.
Ogni uomo che fosse stato capace di guardare al di là delle apparenze, avrebbe intravisto il mondo magico che Hermes offriva. Il mondo racchiude tutti i segreti ed i poteri magici per poter conoscere ed avvicinarsi a Dio, occorre solo dedicarsi con devozione a studiare il mondo e a scoprire tali segreti. Serve dedizione e misticismo. Il segreto ed il mistero nascono dal fatto che non tutti hanno le facoltà di avvicinarsi a tali segreti e chi li conosce non li divulga perché è un privilegiato cui si ricorre per essere illuminati (con la non piccola conseguenza che si è pagati per fare i maghi). A questo punto è facile capire come questa metafisica si saldò naturalmente con tutta la tradizione magica, astrologica, alchimistica povera che aveva vivacchiato di nascosto per centinaia d’anni.
Mi sembra sia chiaro che durante il Cinquecento (ma anche oltre) la magia e la filosofia naturale non erano attività separate: la stessa persona operava almeno nei due ambiti e dir questo vuol dire che ogni persona colta era persona che aveva un insieme di conoscenze complessivo dal quale estraeva quella parte che più era affine ai suoi interessi particolari. La scienza iniziò ad affermarsi ma non in modo chiaro. Essa si trovò invischiata in ogni forma di irrazionalismo e il dire ciò è affermare due cose: 1) non si fa un buon servizio a chi è riuscito con enorme fatica ad affrancarsi da tutto questo mondo irrazionale; 2) si falsifica la storia andando a recuperare nell’opera dei vari autori (oggi ritenuti scienziati e quindi pienamente razionali) quelle parti che più rispondono alle nostre concezioni di scienza, costruendo quella falsificazione che vorrebbe la conoscenza come un processo lineare di accumulo di conoscenze.
La divisione tra persone colte ed in grado di avvicinarsi alla verità fino all’iniziazione ed il volgo ignorante che non può neppure pensare di avvicinarsi alla conoscenza e quindi, per ciò che ho appena detto, a Dio, proviene dalla cultura gnostica ed averroistica ed anche dal Corpus Hermeticum che teorizza proprio tale divisione. E tale divisione è anche divisione tra conoscenze e scopi del sapere. Essere iniziati alla conoscenza occulta delle cose, possedere una conoscenza intuitiva, permette di liberarsi dal male, ottenere la perfezione e quindi la salvezza. La conoscenza razionale soccombe e conduce ad un triste destino terreno.
Il meccanico, lo sperimentatore ed il filosofo naturale, le figure che già ho indicato come emergenti nel Cinquecento, quelle figure estranee sia all’iniziazione sia alla cultura ufficiale e paludata dei frati universitari, non fanno esplicito riferimento alla salvezza ed all’avvicinamento a Dio. Costoro non puntano né alla santità né ad essere degli autori importanti come eminenti letterati. Il nuovo sapere scientifico, come ancora dice Paolo Rossi [1997]:
nasce anche sul terreno di un’aspra polemica contro il sapere dei monaci, degli scolastici, degli umanisti e dei professori: nelle università, scrive John Hall nel 1649 in una mozione rivolta al Parlamento, non si insegnano né la chimica, né l’anatomia, né le lingue, né gli esperimenti: è come se i giovani avessero appreso tremila anni fa tutta la scienza redatta in geroglifici e poi avessero sempre dormito come mummie per risvegliarsi solo adesso.
Una forte opposizione al sapere segreto dei maghi e degli alchimisti emerge, prima ancora che dal mondo dei filosofi, da quello degli ingegneri e dei meccanici. Vannoccio Biringuccio(2) (nella Pirotechnia del 1540) aveva, su questi argomenti, idee molto chiare. Gli alchimisti sono incapaci di codificare i mezzi e guardano immediatamente ai fini, adducono «più autorità di testimonianze che ragioni di possibilità overo effetti che dimostrar possino. Infra li quali è chi cita Hermete, chi Arnoldo, chi Raimondo, chi Geber, chi Occhan, chi Cratero, chi il sacro Thomaso, chi il Parigino et chi non so che frate Elia dell’Ordine di San Francesco alli quali, per la dignità della scienza lor filosofica overo per la santità, vogliono che si abbi certo rispetto di fede, o che, chi gli ascolta, taccia come ignorante o che confermi quel che dicono» (Biringuccio, 1558).A differenza di Biringuccio, che era uomo di scarse letture, Giorgio Agricola (Georg Bauer)(3) aveva letto molti libri. Ma nel De re metallica del 1556 (un testo che veniva incatenato agli altari delle chiese del Nuovo Mondo affinché funzionasse come un manuale per tutti) emerge con forza la polemica contro un sapere di principio incomunicabile: «Molti libri si truovano di questa cosa, ma tutti scuri; perché questi scrittori non chiamano le cose con li propri nomi e vocaboli, ma con istrani e trovati di lor capo et chi l’uno et chi l’altro se n’è finto d’una stessa cosa» (Agricola, 1563).
Più tardi, anche una serie di motivazioni sociali ed economiche tendono a rafforzare, all’interno del mondo dei meccanici, il valore della «segretezza». Molti artigiani e ingegneri del Rinascimento insistono sulla opportunità di mantenere segreti i propri ritrovati: non perché il volgo non sia degno di conoscerli, ma per ragioni economiche. Le prime patenti risalgono agli inizi del Quattrocento. Ma la crescita del numero delle patenti avviene in modo esplosivo nel secolo XVI.
Per altri versi la consapevolezza dell’importanza del proprio lavoro fa riunire i nuovi filosofi naturali in organizzazioni autonome ed autogestite dove sia possibile scambiare liberamente idee ma non più come accadeva nelle università in cui il referente finale era l’autorità di un testo o di un filosofo. Ognuno può criticare le tesi di qualunque altro (ed in tal senso spariscono le differenze tra il semplice ed il dotto ed in generale si iniziano a far scomparire le differenze tra gli uomini) ma solo portando a sostegno delle sue testi dimostrazioni ed esperienze e queste ultime dovranno essere ripetibili. Vi sono solo due limiti che quasi tutte tali organizzazioni, in genere chiamate Accademie, si danno: escludere dai dibattiti la teologia e la politica. In questi luoghi sparisce la segretezza che diventa addirittura un disvalore e si inizia a pensare in termini completamente diversi che possono essere riassunti in un ideale di sapere universale. Ciò nonostante non si creda che i grandi scienziati che verranno, come Copernico, Tycho, Kepler, Harvey, Descartes, Newton, … (in tal senso Galileo ed Huygens furono i primi veri e grandi laicizzatori della scienza), riusciranno a sbarazzarsi del piombo sulle ali prodotto da residui magici, astrologici, alchemici, cabalistici, mistici … Ho già detto che la cultura del Cinquecento era quella e non bastava un atto di volontà per togliere di torno tutte le zavorre. Ciò deve far rendere conto, a maggior ragione, del grande merito di chi è riuscito piano piano ad uscire da quel pantano per acquistare la scienza al sapere positivo, senza però fare processi a chi, pur essendo stato appunto un grande promotore delle novità, restava impigliato in qualche sporgenza magica. E la magia insieme ad ogni forma di metafisica non furono sradicate da una qualche volontà ma solo dal fatto che con il passare del tempo la ricerca razionale portò a risultati che da quella parte non solo non venivano ma neppure erano pensabili. Parole vuote, spesso incomprensibili, come riti o messe profane, erano le atmosfere di tali pratiche che mai lavoravano per l’uomo ma contro di esso. Ancora Agricola, a proposito dell’alchimia, scriveva: Io non ho scritto cosa niuna la quale habbia veduta o letta o con accuratissima diligenza esaminata quando che da altrui mi sia stata raccontata. I libri degli alchimisti sono tutti scuri perché le cose vengono indicate con nomi istrani et trovati di lor capo et chi l’uno et chi l’altro se n’è finto d’una stessa cosa (Agricola, 1563).
Il Rinascimento vide il consolidarsi delle attività artigianali e commerciali che dall’Alto Medioevo si erano andate affermando ed avevano arricchito un nuovo ceto, la borghesia, che piano piano si proponeva come imprenditoriale e portatore di nuove istanze culturali. Il latifondo feudale venne sempre più attaccato. Si sentiva il bisogno di rompere con i vincoli statici del vecchio potere feudale, dell’intreccio di potere tra nobiltà e clero. La borghesia pretendeva spazi autonomi di espansione, spazi che riguardavano anche la richiesta e la ricerca di più ampie visioni culturali. Fu questa borghesia che si mostrò più interessata alla riscoperta dei classici, al qualcosa di nuovo di cui si sentiva fortemente il bisogno.
Il forte impulso che ebbe la tecnica, il passaggio da produzioni con fortissimi connotati empirici alla voglia, da più parti avvertita, di tecniche e macchine sempre più affidabili e quindi alla richiesta di progettazioni più accurate, poneva la pressante richiesta di una scienza che si affermasse come supporto culturale alla produzione. La richiesta investiva anche ambiti culturali diversi. La vecchia cultura scolastica risultava chiusa ed opprimente per un ceto che aveva bisogno di espandersi. Le Università gestite da eminenti peripatetici, in cui si andava avanti con disquisizioni inutili ed immutabili verità che si ripetevano da secoli, non rispondevano più, non si mostravano al passo con quanto nasceva e veniva proposto dal mondo civile. Il nuovo sapere, che si occupa di progettare macchine, costruire arnesi da guerra, di realizzare opere come porti, canali, dighe e miniere, non è insegnato nelle Università. Gli ingegneri che lo elaborano vanno via via acquisendo una importanza legata alla produzione che promuovevano e diventando una vera alternativa storica a maghi di vario genere.
Fino ad allora uno scienziato veniva creato da un corso universitario lavorando su dispute infinite relative a questioni che quasi nulla avevano a che fare con quel mondo produttivo che invece andava crescendo. A partire dalla metà del ‘500 alle Università si affiancò la formazione che veniva data proprio dalle botteghe artigiane nelle quali il filosofo naturale e la nuova persona interessata alla cultura doveva entrare per chiedere, per capire, per informarsi. È l’epoca degli ingegneri, degli architetti, degli idraulici, dei maestri d’opera la cui preparazione nasceva dalla soluzione di problemi pratici molto distanti dai sillogismi e, comunque, da ogni preparazione di tipo universitario (si pensi a Filippo Brunelleschi e a quella Cupola di Santa Maria del Fiore che rappresenta ancora oggi una sfida tecnologica impressionante; a Leon Battista Alberti; a Francesco di Giorgio Martini; allo stesso Leonardo; a Biringuccio; ad Agricola). Questi “artisti”, per la prima volta accompagnarono la realizzazione delle loro opere con scritti, con elaborazioni teoriche che sarebbero diventate la base su cui altri avrebbero continuato, iniziando quel processo virtuoso di trasmissione di conoscenze che andava perfezionandosi. Il sapere diventa una costruzione progressiva con la realizzazione di risultati che si collocano sempre più a livelli superiori di complessità. Ed è utile notare che questa esplosione di produzione, questa richiesta di nuovi saperi sempre più ancorati alla pratica, nasceva dalla crescente disponibilità di denaro che proveniva essenzialmente dalla Spagna che doveva armare i suoi eserciti con l’oro e l’argento proveniente dalle Americhe. Di queste ricchezze ne beneficiarono essenzialmente l’Italia e l’Olanda.
ALCUNE REALIZZAZIONI TECNICHE E MECCANICHE DEL RINASCIMENTO
Ho già discusso della produzione degli architetti e degli artisti, darò ora un cenno, molto breve vista la vastità delle realizzazioni(4), a quella di tecnici e meccanici.
Nel 1543 vi fu la pubblicazione del De revolutionibus orbium coelestium di Copernico. A questa pubblicazione non era certamente estranea la scoperta dell’America del 1492, altro fondamentale avvenimento perché, insieme ad altre scoperte geografiche che si susseguirono(5), mostrò definitivamente che la Terra e quindi almeno Luna e Sole erano sferici. Le informazioni sulle scoperte erano riportate in differenti relazioni dalle Indie che ebbero sempre più facile circolazione grazie all’invenzione della stampa a caratteri mobili fatta da Johann Gutenberg nel 1456. Quest’invenzione fu straordinariamente importante perché funzionò da primo e gigantesco megafono di comunicazione di ritrovati e scoperte. Si pendi solo che in meno di 50 anni si disponeva già di 40 mila edizioni di differenti libri, due terzi delle quali in Italia e Germania(6). Non tutti sanno, e per questo ne accenno, che la stampa permise la diffusione in molte copie della Bibbia con imprevedibili conseguenze. Quando più e più credenti lessero il libro, che tra l’altro era anche proibito proprio perché la sua lettura avrebbe potuto scuotere qualche coscienza, si convinsero dell’impostura della Chiesa di Roma e si resero disponibili alla Riforma di Lutero e Calvino con altre conseguenze fondamentali, non ultime la possibilità di crescita della scienza nell’Europa non restata ostaggio della Chiesa, particolarmente della Controriforma.
La stampa permise la pubblicazione e la diffusione delle prime grandi opere con argomenti relativi alle macchine ed alla meccanica applicata opere che si affiancarono alle traduzioni colte fatte direttamente dai classici greci ed alessandrini (e non più attraverso traduzioni arabe o latine a loro volta ritradotte) ormai giunti a noi quasi completamente (tra queste sono da sottolineare le traduzioni latine dal greco di Euclide, Archimede, Apollonio e Pappo fatte da Federico Commandino). I due piani, quello scientifico e quello tecnico, erano lì messi in una sorta di confronto che presto vi sarà con ricadute fondamentali per la crescita scientifica dell’Occidente. Le opere più note di argomento tecnico e meccanico che furono pubblicate sono: il De la pirotechnia (Venezia 1540) di Vannoccio Biringuccio; il Trattato sui più importanti tipi minerali e composti metallici (Praga 1574) di Lazarus Ercher; Le diverse et artificiose machine (Parigi 1588) di Agostino Ramelli; il Theatrum instrumentorum et machinarum (Lione 1569) di Jacques Besson; il De re metallica (Basilea 1556) di Georg Agricola(6bis).
Va comunque detto che la meccanica non nasce nel Cinquecento ma molto prima. Ciò che accade in questo secolo è una molto maggiore richiesta di prodotti a seguito dell’intensificarsi dei traffici commerciali, di un maggior benessere economico derivante dai miglioramenti nell’agricoltura e nell’allevamento dei secoli precedenti, con conseguente inurbamento di un sempre maggior numero di persone. In ultima analisi ciò comportava che la meccanica nota doveva essere potenziata oltre che integrata da nuovi ritrovati. Così che a lato emergeva la necessità di nuove fonti di energia. La crescita della meccanica, ora diventata pesante, si ebbero principalmente nei settori minerari e della metallurgia che avevano subito grandissimo impulso proprio dall’espansione commerciale. La richiesta di metalli e di minerali lavorati spinse ad un maggiore sfruttamento a profondità sempre maggiori delle miniere con conseguente richiesta di ritrovati per poter scendere sempre più in basso (ventilare le gallerie e liberarle dall’acqua) e di potenza per poter azionare le macchine sempre più grandi che si richiedevano. La descrizione iconografica di molte di tali macchine è riportata nel De re metallica di Agricola ed alcune riproduzioni di quei disegni rendono molto meglio di una descrizione, la complessità e la grandezza di tali macchine che si coniugava con alcuni metodi che, al confronto, ci sembrano primitivi. L’opera tratta di ogni argomento connesso con la lavorazione dei metalli, a partire dalla loro ricerca, dal come si costruiscono ed organizzano le minire, come si evacua l’acqua di faglia, come vengono ventilate, … quindi si passa ai metalli estratti, come vengono sminuzzati, trasportati e lavorati attraverso altiforni per la loro fusione e quindi la creazione di leghe. Nelle figure che ora presenterò, si faccia caso a quanto accennato, a quanto sono grandi le macchine ed alla pochezza dell’energia disponibile che è acqua corrente (di rado il vento) o forza animale o forza umana. Si vede con chiarezza che manca solo l’energia del vapore da applicare a macchine non più in gran parte di legno ma con componenti di ghisa ed acciaio (già allora alcune ruote dentate erano realizzate in ghisa con denti d’acciaio riportati).


Miniere in profondità con vari pozzi ed un argano da miniera azionato da cavalli


Le due figure sono di grande interesse. Nella prima vi è l’opera di foratura di un tronco d’albero che poi servirà come tubazione per l’acqua. Nella seconda vi sono i tronchi d’albero forati ed utilizzati in una pompa aspirante acqua dal sottosuolo. Al centro della seconda vi è una cassetta di legno che è riportata anche a sinistra per far capire cosa vi è dentro. Si tratta, come si può osservare di un meccanismo biella-manovella (la manovella è azionata da apposito operatore sistemato a lato della cassetta) in grado di trasformare il moto rotatorio in alternativo.






Le sei figure precedenti mostrano varie pompe utilizzate per prosciugare l’acqua presente nelle miniere (la seconda figura mostra una pompa aspirante in serie con un altra; già si era capito che una pompa può sollevare l’acqua all’incirca per 10 metri e che per sollevarla a quote superiori occorre disporre di più pompe successive; la questione sarà compresa nel 1643 da Torricelli con l’introduzione nel problema del peso dell’aria. Nell’ultima figura la ruota ha un diametro di 10,70 metri)


Nella prima figura è rappresentato un sistema di aerazione della miniera (vi sono altre figure in cui l’aria è spinta addirittura da un mantice). La seconda figura rappresenta un frantoio, mulino e rimescolatore di minerali.


Mantici in azione. Nella seconda figura per alimentare un altoforno.


Catena a secchiello per il prosciugamento della miniera e un sistema di triturazione dei metalli (si noti che viene utilizzata una recente invenzione, la carriola)


Macchinari di grande mole alimentati ad acqua e forni a riverbero per la fusione di metalli non ferrosi.


Mantice per la forgia e vari forni per la fusione


Sistemi per produrre leghe e lavorazioni minute finali
Vi sono altri disegni da altre opere che meritano di essere riportati: dal Le diverse et artificiose machine di Ramelli, dal Theatrum instrumentorum et machinarum di Besson, dal Trattato sui più importanti tipi di minerali e composti metallici di Ecker.

Da Ramelli: Macchina per pompare l’acqua. Si noti l’alimentazione ad acqua corrente che origina un moto rotatorio che fa muovere un asse verticale su cui è innestata una vite senza fine. Questa vite mette in funzione un sistema biella-manovella montato su due alberi a gomiti che trasforma il moto rotatorio in moto alternativo.


I due disegni sono tratti da Besson. Nel primo vi è un mulino verticale con pale ricurve della ruota disposta in basso ed alimentata ad acqua corrente; nel secondo vi è invece un tornio per fabbricare viti alimentato dall’uomo (il lavoro avviene nella parte superiore a sinistra; l’utensile è spostato dalla lunga vite senza fine al centro; l’utensile e la vite sono fatti ruotare dall’albero che si trova in alto che è fatto ruotare dalle pulegge a pesi.

Da Ecker. Laboratorio d’assaggio con forni e recipienti per la distillazione.
E’ subito da notare che siamo in epoca in cui vi è una enorme fioritura di alchimisti e che l’alchimia primitiva prendeva la sua origine nella estrazione e lavorazione dei metalli. Facile quindi che chi si occupava di questioni legate alle miniere ed alla lavorazione dei metalli rischiasse di cadere dentro quell’ammasso di melma (anche sacra) che era l’alchimia. Ma non vi è alcun cenno di tutto questo nelle opere che ho citato. Qui abbiamo tecnici ed ingegneri che si muovono su piani di pura osservazione della realtà con estrema razionalità e, soprattutto, con voglia di comunicare i loro ritrovati in modo che siano sempre di più coloro che possano trarre benefici dalle scoperte fatte. Riporto di seguito quattro figure che rappresentano le famose fornaci alchemiche per la produzione della pietra filosofale e si potranno notare analogie con gli altiforni alimentati da mantici di meccanici, tecnici ed ingegneri che con la magia e la metafisica non avevano nulla a che vedere. Saranno anche i successi di questi ultimi confrontati con la vacuità condita da chiacchiere inutili dei primi ad aiutare all’emancipazione civile e morale dei cittadini.




Nelle realizzazioni che abbiamo visto, tutte riguardanti ambiti meccanici e tecnici, è utile farne risaltare alcune. Intanto la costruzione dei primi altiforni che hanno dietro la comprensione del meccanismo della combustione che se arricchita di ossigeno produce temperature più elevate. Quindi l’invenzione del congegno biella-manovella per la trasformazione del moto rotatorio in alternativo e viceversa. L’accoppiamento di mulini a vento alle pompe per il prosciugamento delle miniere (che non ho illustrato). A lato della realizzazione tecnica vi era evidentemente l’interesse economico. Si cominciò quindi a pensare al brevetto di ritrovati ritenuti di una qualche utilità (ed ecco che si realizzò la congiunzione vincente tra lavoro intellettuale, realizzazione pratica e guadagno). I primi brevetti furono realizzati a Firenze ed a Venezia. Si costruirono le prime società per azioni (Italia) ed ebbe un grande sviluppo la ragioneria.
Le realizzazioni meccaniche divennero sempre più sofisticate andando nel settore della meccanica fine e fu così che si inventarono e costruirono termometro, igrometro, miscele frigorifere, orologi tascabili, matita, macchine per tessuti a maglia, seminatrice automatica. La crescente urbanizzazione iniziò a rendere indispensabile l’approvvigionamento di acqua nei grandi centri urbani e ciò pose i complessi problemi della distribuzione capillare di acqua mediante acquedotti. Accenno solo al fatto che gli ormai fatiscenti acquedotti costruiti dai romani, che erano durati migliaia di anni senza manutenzione, perdevano acqua. Ripararli era impresa troppo complessa e costosa, come costosissimo era pensare a ricostruirli con la stessa tecnica a gravità. Si ricostruirono dei nuovi acquedotti ma con principi diversi che mettevano ora in gioco, oltre a questioni di idraulica, problemi di pressione anche dell’aria (molte cose si capirono dopo il 1643 quando Torricelli mostrò che l’aria pesa e che esiste il vuoto). Altro problema di grandi proporzioni era relativo alla fonte d’energia acqua corrente che metteva in moto ruote sempre più grandi per i più diversi scopi, primo fra tutti il drenaggio delle miniere. Se un mulino, un frantoio, un qualunque opificio si poteva decidere di sistemarlo sulle rive di un fiume con una portata sufficiente e sufficientemente costante nel tempo, la stessa cosa non si poteva realizzare per le pompe che dovevano evacuare d’acqua le miniere e per gli ascensori dei minerali dal fondo delle miniere medesime. La miniera era localizzata in genere lontana dal corso d’acqua e vi era quindi il grande problema del trasporto dell’energia del corso d’acqua a distanza. Una soluzione fu trovata verso la metà del XVI secolo da alcuni imprenditori tedeschi, trasferitisi da Norimberga nelle zone ricche di minerali dei Monti metalliferi (Erz Gebirge), situati al confine tra la Boemia e la Sassonia, con il metodo delle aste di trasmissione che, appunto, trasferivano l’energia dell’acqua, inizialmente ceduta ad una ruota idraulica, ad una data distanza mediante queste aste ruotanti legate tra loro con successivi ingranaggi che ne permettevano anche la deviazione. Il rendimento era evidentemente bassissimo.
A lato di tutto ciò, e non certo ultime per importanza, vi sono invenzioni e realizzazioni di armi che vanno considerate nel novero delle realizzazioni meccaniche. Ed uno dei problemi principali per i costruttori di artiglierie varie era quello del puntamento e quindi della traiettoria dei proiettili. Quanto aveva raccontato Aristotele con i suoi seguaci scolastici non era all’altezza del ruolo. Tartaglia si impegnò in questo su sollecitazioni che gli giunsero da vari costruttori di macchine da guerra. Egli facendo delle esperienze stabilì alcuni, pochi ma fermi, principi di base secondo i quali la traiettoria del proiettile risultava curva ed il massimo della gittata si aveva con un alzo di 45°. D’interesse è notare che Tartaglia indica nel quadrante e nel filo a piombo il modo di misurare l’alzo.

Il puntamento di una bombarda tramite quadrante (1547)

Lo stesso problema da un disegno tratto dalla Scientia nova di Tartaglia (1537)
Importante è sottolineare che a queste conclusioni si giungesse mediante l’esperienza che mostrava essere di massima utilità per poi trarre leggi con un carattere più generale e quindi sempre più vicine a risultati scientifici. Ma il problema del costruttore che doveva determinare la traiettoria del suo strumento da guerra restava intatto e sarà quello balistico uno dei fronti su cui si darà una mano alla nuova scienza della dinamica. A proposito del contributo dell’artiglieria alla dinamica, dice Gille:
Si sapeva da molto tempo [da osservazioni concrete, misurate, e dunque riflesse] che esisteva un legame tra la forza iniziale e la velocità del proiettile. La nozione di velocità, che all’inizio aveva maggiore importanza per gli artiglieri che non per i teorici, interveniva come un fattore che determinava al tempo stesso la distanza percorsa e la forza della percossa. Nell’uno come nell’altro caso interveniva un altro dato, che era costituito dal peso della palla. Dato che erano note le differenze di calibro, che traducevano in un certo senso differenze di peso (e comportavano egualmente che si fissassero limiti di potenza), si giunse a un momento in cui si poté stabilire la differenza di forza (vale a dire, la differenza di peso di polvere) necessaria per lanciare proiettili di peso diverso a una medesima distanza. In senso inverso, si poteva misurare l’influenza del peso utilizzando una medesima forza e misurando le distanze coperte da due proiettili di peso diverso. Ripetendo questi esperimenti con angoli di tiro variabili, si ottenevano i rudimenti di una tavola dei tiri. Ben presto si trovò che era vantaggioso utilizzare palle di peso identico per ciascun calibro, cariche di polvere invariabili, e di far variare la distanza coperta semplicemente modificando l’angolo del tiro. Il passaggio dall’uno all’altro di questi ragionamenti successivi, di cui si scoprono di tanto in tanto delle tracce, richiedeva seri sforzi di riflessione. Il passaggio dalle palle di pietra, più pesanti, alle palle di metallo fuso, richiese similmente un aumento di velocità per ottenere un colpo egualmente efficace. Si giunse così alla razionalizzazione dei calibri, che facilitava gli approvvigionamenti di munizioni e che pare abbia costituito il grande vantaggio dell’artiglieria francese all’inizio delle guerre d’Italia.
La ricetta, nella fattispecie, non poteva essere che espressa in cifre, vale a dire che si erano anche analizzati e distinti gli elementi principali del problema. Certo, rimanevano ancora molte incertezze, come è facile sospettare: la mancanza di omogeneità della polvere, il vento, ecc …. Ma i dati essenziali del tiro erano stati stabiliti. In ciò non v’era nulla di sorprendente, giacché il sussistere di certe confusioni non comportava conseguenze sul piano pratico. Se Leonardo confonde le nozioni di tempo e di spazio percorso, ciò non intacca minimamente l’efficacia tecnica della sua teoria. Pensiamo che, sotto questo riguardo, ci sarebbe molto da spigolare in tutti quei “manuali del cannoniere” di cui possediamo un certo numero di esemplari a partire dalla prima metà del Quattrocento.
La balistica del Tartaglia, quale egli la espone in quella piccola opera che porta il nome promettente di Nova scientia, pubblicata nel 1537, è ancora molto tradizionale. Se i nostri ingegneri avevano una teoria, essa doveva essere più o meno questa. Il Tartaglia fu il primo – come dichiara il Koyré – a sottoporre a un trattamento teorico un’arte che era rimasta fino allora puramente empirica. Certo non si disponeva in realtà che di ricette: ma queste ricette avevano aiutato lo scienziato a costruire qualcos’altro, poiché era stato determinato un certo numero di fatti, si erano potute precisare alcune nozioni e si erano introdotti rapporti espressi in cifre. Al di là di questi risultati l’artigliere non poteva più andare, ossia non poteva concentrare la sua attenzione sui ragionamenti astratti. Tuttavia non è escluso che vi si sia avvicinato, nella prospettiva di una tecnica teorica che era in via di formazione. […] La pura e solitaria meditazione al chiar di luna non sarebbe stata sufficiente a fornire al Tartaglia le basi indispensabili che egli desunse da modesti cannonieri. Tartaglia, del resto, cozza contro alcune proposizioni comunemente ammesse dagli artiglieri e alle quali egli non crede: l’accelerazione iniziale del proiettile, l’aumento della potenza del colpo in funzione di questa accelerazione. Per quanto riguarda il tracciato della traiettoria, egli riprende le idee già ammesse dai suoi predecessori. Egli deduce soltanto che le gittate delle traiettorie dei movimenti violenti di corpi egualmente gravi, proiettati al di sopra dell’orizzonte con una medesima inclinazione, sono proporzionali alle loro velocità iniziali. L’opera era del resto destinata ai tecnici: infatti si conclude con alcune questioni pratiche: determinazione delle distanze e delle elevazioni dei bersagli mirati, descrizione di uno strumento per misurare gli angoli ad uso degli artiglieri.
Più in generale, riguardo all’uso fatto della parola esperimento, prosegue Gille, con argomenti che condivido:
L’esperimento in senso moderno è diretto, provocato: l’esperienza tecnica è subita, con tutta quella confusione e complessità che ciò comporta. Non v’è dunque, in linea di principio, insistiamo su questo punto, nessuna misura comune tra la scienza e la tecnica.
Conviene però precisare l’esatto significato delle parole usate. Alcuni storici si sono sollevati, con piena ragione, contro l’identificazione semplicistica che si è spesso fatta tra quest’esperienza del senso comune e l’osservazione sperimentale dello scienziato. Ma l’esperienza tecnica, che fu senza dubbio, ai suoi inizi, in larga misura, un’esperienza del senso comune, lo era forse ancora verso la metà del Quattrocento? Per parte nostra siamo dell’opinione che i tecnici avessero, anch’essi, pianificato i loro problemi, distinto alcune componenti, fatta una prima scelta tra le nozioni, per non dire i concetti, che la pratica quotidiana offriva loro. E in ogni caso curioso constatare, precisamente nel corso del Quattrocento, che i problemi essenziali dei tecnici e degli scienziati presentavano un’esatta coincidenza. Alle incomprensioni degli uni corrispondevano le esitazioni degli altri, e i problemi contro cui tutti cozzavano erano in un certo senso concentrati su punti ben definiti.
Una scienza attratta dalla realtà, desiderosa di mettere i propri risultati a confronto con l’esperienza, e una tecnica preoccupata di darsi spiegazioni più valide e più generali, divenuta del resto sempre più esperta nell’esprimersi in cifre, dovevano fatalmente stringere stretti legami. Se l’una abbandonava un po’ della sua astrattezza, se l’altra cercava la generalizzazione, l’incontro diventava inevitabile. Due prove evidenti ce lo testimoniano. La prima è che tanto gli scienziati quanto i tecnici sono giunti ad avere un ideale comune, rappresentato da Archimede, il grande scienziato greco che era stato anche lui un ingegnere. Il suo spirito era esattamente uguale a quello che animava gli uomini che, verso la fine del Quattrocento, si interessavano alla scienza o si occupavano della tecnica. La sua ricerca si era imperniata su problemi al tempo stesso definiti e limitati. Egli formulava ipotesi, che venivano assunte, alla maniera di Euclide, come assiomi evidenti di per sé, o che egli poteva verificare mediante semplici esperienze. La sua scienza era, esattamente come quella di Leonardo, semplicemente una scienza da tecnico.
Poiché non era più costituita a sistema, come al tempo in cui dominava ancora Aristotele, la scienza non affrontava più le difficoltà se non spezzettandole, e, per questo fatto, veniva necessariamente a imbattersi in questioni analoghe a quelle che i tecnici si ponevano in termini generali. Quasi tutti i problemi di statica e di dinamica, che furono alla base del rinnovamento scientifico, si trovavano ad essere, nello stesso tempo, delle incomprensioni tecniche. Se i metodi di pensiero erano diversi, per lo meno la scienza e la tecnica si trovavano riunite, da un lato, da difficoltà formali parallele – in particolare, quella delle misure -, e dall’altro da obiettivi identici. Si spiega perciò facilmente il comune ideale archimedeo. […]
Interdipendenza, legami, tutti questi termini implicano, certamente, contatti molto stretti. Le interconnessioni erano senza dubbio ancor più profonde.
La scienza moderna ha un carattere essenzialmente matematico. Ora la matematica, anche se era stata utilizzata sporadicamente, dando luogo così a sviluppi interessanti, era universalmente considerata come il campo per eccellenza dei tecnici. La fisica di Aristotele aveva scarso bisogno della matematica: a farne un uso costante erano invece l’agrimensore, l’architetto, l’ingegnere. Dopo aver dichiarato che nessuna umana investigazione può chiamarsi vera scienza se non passa per le matematiche dimostrazioni, Leonardo poteva scrivere: La meccanica è il paradiso delle scienzie matematiche.
Non v’è alcun dubbio che, se certe scoperte o certe messe a punto furono opera di scienziati, ciò fu forse una conseguenza del fatto che precisi problemi erano stati posti loro da tecnici che erano incapaci di trovare essi stessi delle soluzioni. Lo sviluppo della trigonometria è dovuto essenzialmente a questioni di misurazione e di agrimensura. Quando i cinque libri De triangulis di Regiomontano pubblicati a Norimberga nel 1533, stabiliscono, per tutti i triangoli, la proporzionalità dei lati ai seni degli angoli corrispondenti, l’autore applica questo teorema fondamentale a casi concreti espressi in numeri.
L’Aritmetica di Treviso, pubblicata nel 1478, era stata scritta per giovani destinati a intraprendere carriere commerciali. E’ una opera tecnica per eccellenza: vi figurano tutte le operazioni con l’uso della prova del nove. L’Aritmetica tedesca e il Bamberger Reechenbuch, entrambi del 1483, sono perfettamente analoghi. Il manuale di Johann Widmann, pubblicato nel 1489, ha gli stessi obiettivi. Esso prevede l’alleanza tra l’aritmetica e l’algebra: i segni + e – indicano il premio e lo sconto. […]
Non a caso la matematica fiorì o rifiorì proprio in connessione con le richieste e necessità di tecnici rivolte a scienziati e con l’irrompere della matematica (di questo link si vada a leggere la nota 3) la saldatura tra il patrimonio tecnico ed il nascente spirito scientifico diventerà più facile.
Certo gli ingegneri erano ancora troppo ignoranti della maggior parte delle nozioni scientifiche perché potessero sentire la necessità, o semplicemente l’utilità, di strumenti matematici più sviluppati: l’espressione di Leonardo che abbiamo citato poco fa appare più come un desiderio che non come una realtà. Essi non impiegano ancora che formule estremamente semplici, non praticano ancora che un calcolo del tutto approssimativo, che è per loro pienamente soddisfacente. […] Gli strumenti matematici non erano evidentemente utilizzabili da parte dei tecnici, per lo meno nelle loro forme più sviluppate, se non nella misura in cui le loro conoscenze fisiche erano ben salde. Archimede non aveva tramandato che una statica, che in seguito era stata ulteriormente sviluppata, ma soprattutto nel quadro di una tradizione peripatetica rappresentata dalle Quaestiones mechanicae, un trattato anonimo attribuito ad Aristotele.
Osservo di passaggio qualcosa che ora sembra fuori luogo ma che ha profondi significati per la storia che seguirà. Su ognuna delle cose che o detto relative ai tecnici ed alla meccanica non vi furono interventi di rilievo della Chiesa in quanto istituzione. Tutti i primi lavori di Galileo furono incanalati proprio in queste problematiche e solo alcuni fattori esterni lo spinsero ad occuparsi del cielo a partire dal 1604 sull’apparizione del cielo di una stella nova e successivamente, nel 1609, dopo che ebbe realizzato il suo cannone occhiale. Da qui iniziarono i problemi di Galileo.
In questa sorta di travaso tra conoscenze tecniche e razionalizzazione scientifica attraverso la matematica che inizia nel Cinquecento, non vi è intervento delle Università. Fino ancora a gran parte del Quattrocento ogni discussione scientifica di rilievo avveniva dentro quelle mura. Ora non più. E ciò perché le Università continuavano a fare un’operazione di ripetizione di cose antiche distaccandosi sempre più da un mondo esterno che invece avanzava proprio con la tecnica. Quest’ultima non aveva alcuno spazio in qualche insegnamento a parte le Quaestiones mecanichae, l’opera dello pseudo Aristotele che era discussa negli insegnamenti di più basso livello, quelli di matematica, e che non aveva niente a che vedere con le tecniche alle quali ho appena accennato. Tanto per fare un esempio, in ambito matematico si insegnava Euclide ma non Archimede che presentava maggiori legami con le elaborazioni del mondo produttivo esterno. Era quindi l’Università che rinunciava ad occuparsi di alcune cose che maturavano rapidamente in ambito scientifico e tecnologico (pur senza trovare ancora una strutturata razionalizzazione) e ciò perché alla sua base vi era ancora quella pratica del confronto di ogni cosa con il filosofo (Aristotele) e con la Bibbia, cioè con cose dette e con verità rivelate contro le quali nulla si sarebbe potuto dire o fare.
Umberto Forti chiosa questi avvenimenti che vedono protagonista la tecnica come gestante della scienza con parole che richiamano, anche e forse soprattutto oggi, alle grandi responsabilità della formazione dei giovani ed alle posizioni ancora squalificanti ogni approccio scientifico e tecnologico alla cultura:
L’importanza dello sviluppo tecnico nella formazione dello spirito e del mondo moderno, l’umanesimo vero che in tale sviluppo si afferma e realizza, dovrà sempre più far riflettere i fautori di quella concezione prevalentemente letteraria e classicheggiante dell’ educazione e della cultura. Tale concezione, costituitasi fra noi come retrograda e «scolastica» nel peggior senso della parola proprio nel secolo in cui Bacone e Cartesio additavano una cultura nuova, si alimentò poi con la declamatoria valutazione del contributo dato dall’antico sapere, e dallo stesso umanesimo letterario, al, costituirsi della vita e della cultura moderna. La incomprensione del vero significato umanistico della tecnica, e della scienza, (del «fare» come più schietto realizzarsi della intima spiritualità umana, e del sapere matematico-naturalistico come più intimo «sapersi»), mettono capo, attraverso un vacuo e borioso umanesimo da parata, ad una organizzazione educativa inattuale, e perciò ad un senso di disagio che cresce e tormenta anche i più giovani o i meno colti, mentre urge, sempre più rapido, il trasmutarsi della vita umana per opera delle tecniche.
SCIENZIATI E SCIENZA DEL RINASCIMENTO
A fronte di una cultura peripatetica in grande decadenza anche se in auge nei potentati del mondo si fanno strada, come abbiamo visto, gli uomini pratici del borgo o della campagna, dell’esercito o della marina, i finanzieri, i tecnici che si avvicinano alle cose e le studiano a modo loro, non con l’intento filosofico di cercarne un’interpretazione o trarne una veduta d’insieme ma solo per risolvere problemi di immediata utilità. Sono gli inventori grandi o piccoli, noti e sconosciuti, ai quali ho accennato. E inventare non è descrivere, illustrare dal di fuori al modo degli scolastici, ma è penetrare nella forma e nel moto propri della natura, accordare l’opera propria alla “legge che in lei infusamente vive” per dirla con Leonardo: che è il primo passo verso la scienza, e l’unico che propriamente vi conduca (Forti). Dopo aver illustrato, in modo ancora generale per chi non è addentro alle problematiche che ho trattato, la struttura dei cambiamenti che ebbero il loro apice nel Cinquecento e che innescarono la Rivoluzione scientifica del Seicento, vediamo l’opera di alcuni degli scienziati noti di questo fondamentale periodo: Francesco Buonamici, Gerolamo Cardano, Nicolò Tartaglia, Giambattista Benedetti, Federico Commandino, Guidobaldo del Monte, Francesco Maurolico, Simon Stevin. Mi limiterò ai contributi di tipo tecnico e meccanico, tralasciando quelli di carattere matematico, ottico ed astronomico.
FRANCESCO BUONAMICI ( circa 1530 – 1603)
Di Francesco Buonamici si sa poco. Era un fisico e filosofo membro dell’Accademia fiorentina, probabilmente fiorentino, che insegnò metafisica, logica ed etica a Pisa anche all’epoca in cui Galileo vi studiava. Scisse, oltre ad un lavoro di medicina pratica, De alimento (Venezia 1601 e Firenze 1603), un De motu libri X, quibus generalia naturalis philosophiae principia summo studio collecta continentur (Firenze 1591) che Galileo lesse in quanto una copia di questo libro è stata trovata tra le cose ed i libri di Galileo. Alcune influenze di Buonamici si ritrovano nei primi lavori di Galileo del 1584 ed anche nel suo De motu, che scrisse più o meno nello stesso periodo del lavoro di Buonamici. Ma queste influenze si diradarono subito perché Buonamici era un convinto peripatetico e Galileo si svincolò subito da Aristotele. Il De motu di Buonamici è il sunto completo delle concezioni della filosofia naturale dell’epoca che si muoveva completamente nelle concezioni aristoteliche sia fisiche che cosmologiche. Il suo lavoro ha contiene citazioni dotte e non solo di chi aveva elaborato questioni attinenti al tema dell’opera come i commentatori di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Giovanni Filipono, come Archimede ed i matematici Nicomaco e Campano. Nel lavoro si discuteva anche delle concezioni della scuola averroista di Padova, di quelle platoniche e neoplatoniche sia ispano-arabe, sia dell’Accademia fiorentina, delle concezioni di Tommaso d’Aquino, di Dun Scoto ed altri scolastici. Nel De motu troviamo anche cenni dei lavori delle scuole di Oxford e Parigi oltre ad una discussione e confronto con molti suoi contemporanei di varie università italiane. Ciò che si ricava da questo lavoro è il suo essere un convinto conservatore della fisica di Aristotele. Infatti egli nel trattare tutte le posizioni cui ho accennato, critica e respinge tutte quelle che non sono in linea con il pensiero del Filosofo, anche le posizioni di giovani aristotelici che tentavano qualche piccola apertura e modifica, per non dire dell’impeto e di altre questioni più sostanziose che iniziavano ad intravedersi un po’ dovunque.
GIROLAMO CARDANO (Pavia 1501 – Roma 1576)
Anche con Cardano abbiamo una situazione familiare difficile. Egli nacque illegittimo dall’unione del padre Fazio, che era un noto giurista e matematico amico di Leonardo da Vinci, con una vedova, Chiara Micheria. Non ebbe affetti familiari ma solo continui lutti e malattie. Per vari anni fece da servitore di suo padre anziano ma riuscì a dedicarsi agli studi sia letterari che scientifici. Iniziò la sua carriera scolastica a Milano per poi proseguirla presso lo Studio di Pavia dove si iscrisse nel 1520 ed in quello di Padova dove passò nel 1524, abbandonando gli studi di giurisprudenza verso cui lo aveva avviato il padre per abbracciare quelli in medicina. Si laureò in medicina a Padova nel 1526. Esercitò nelle vicinanze di Padova provando nel 1530 l’iscrizione tra i medici di Milano. Da questa città fu respinto, probabilmente perché era un illegittimo. Ci riprovò con stesso insuccesso nel 1532. Nel 1533 si trasferì a Gallarate, vicino Milano, sperando da lì di riuscire a farsi conoscere ed ottenere l’ambita iscrizione. Passò un anno disastroso a Milano a causa della sua nefasta passione per il gioco che praticamente lo rovinò. Un prelato, Archinto che poi diventerà vescovo di Milano e che aveva la passione per l’astrologia e la magia, gli dette una mano aiutandolo ad ottenere un posto da insegnante di aritmetica, geometria, astronomia ed architettura nelle scuole palatine di Milano (1534) ma chiedendogli in cambio due testi, uno sul mago Agrippa Nettesheim (De occulta philosophia Agrippae) e uno sull’astrologia (De astrorum judiciis). Iniziò qui ad avere tempo da dedicare ai suoi interessi matematici, studi che, insieme alla sua fama di medico, suscitarono l’interesse dei dotti del tempo finché nel 1538 non gli fu offerta la cattedra di medicina presso lo Studio di Pavia. Cardano rifiutò perché non era sicuro di riuscire ad avere lo stipendio a seguito del suo non essere stato accettato nell’ordine dei medici di Milano. Finalmente, con alcuni appoggi tra cui quello di un senatore (Sfrondati), nel 1539 ottenne l’iscrizione a quell’ordine permettendo che la sua fama di medico stimato e richiesto crescesse. Intanto i suoi studi matematici e meccanici continuarono fino alla pubblicazione a Norimberga, nel 1545, della sua Ars Magna nella quale compariva la soluzione generale delle equazioni di terzo grado (ma anche le soluzioni delle equazioni di quarto grado che erano state trovate da un suo alunno, Lodovico Ferrari). Per quelle di terzo grado vi era stato un episodio, al quale farò cenno quando parlerò di Tartaglia, al quale in qualche modo le aveva estorte con la promessa di non pubblicare la scoperta.
Finalmente nel 1546 Cardano accettò la cattedra di medicina a Pavia, cattedra che mantenne fino al 1551. Il re di Danimarca, su consiglio del Vesalio, gli aveva offerto di trasferirsi presso di lui per 1300 scudi l’anno, ma Cardano rifiutò. Nel 1550 pubblicò a Norimberga il De subtilitate, libro che lo rese famoso e che venne ripubblicato l’anno seguente a Parigi, Londra e Basilea. E’ una trattato di tutto lo scibile in 21 libri (fisica, astronomia, metalli, pietre, piante, animali, uomini, scienze, arti, miracoli, demoni, sostanze prime, Dio e l’universo) nel quale non mancano parti magiche, metafisiche a fianco di capitoli che trattano le nuove scoperte tecniche che avanzavano nella vita civile. E’ una miniera di notizie, di osservazioni empiriche e superstizioni, di speculazioni filosofiche e citazioni di classici, di descrizioni di eventi prodigiosi e marchingegni curiosi, come i congegni cui ancora oggi è legato il suo nome, il giunto e la sospensione. Come accennato, nel 1551 lasciò Pavia e tornò a Milano. Nel 1552 si recò ad Edimburgo per praticare delle cure all’arcivescovo John Hamilthon. Il viaggiò lo vide sostare a Parigi e Londra dove conobbe il Re Edoardo VI. Nel 1553 rientrò a Milano dove ricevette un’offerta eccezionale dal Cardinale Ercole Gonzaga, reggente del Ducato di Mantova, per entrare al suo servizio ma Cardano non accettò preferendo restare libero nelle sue occupazioni. Nel 1557 pubblicò un altro trattato, il De rerum subtilitate in cui si mescolavano osservazioni empiriche con becero occultismo, e di seguito vennero opere di astronomia, astrologia, magia, occultismo ed anche di osservazioni fisiche naturali. Nel 1559 riprese ad insegnare a Pavia con condizioni economiche favorevolissime. Ma iniziarono grandissime disgrazie familiari: una sua figlia si dette alla prostituzione morendo di sifilide, il suo primogenito Giambattista avvelenò la moglie dalla quale si sentiva tradito e perciò fu condannato a morte nel 1560. L’altro figlio, Aldo, riprese l’insana passione del padre per il gioco che oltre a rovinarlo, dava enormi dispiaceri al padre che veniva continuamente derubato (Gerolamo scrisse anche, nel 1560, sulla probabilità nel gioco e sul modo di barare efficacemente in Liber de ludo aleae). Queste disgrazie sui figli gettarono ombre sul padre che iniziò a subire attacchi da chi voleva il suo posto allo Studio di Pavia. Venne accusato di eresia e si salvò per l’intercessione di due importanti prelati, il cardinale Morone ed il giovane Carlo Borromeo, nipote del Papa Pio IV. Quest’ultimo convinse Cardano a lasciare Pavia e ad accettare la cattedra a Bologna, cattedra che occupò nel 1562. Fino al 1570 tutto andò bene, almeno fino a quando, con la fine del Concilio di Trento, non iniziarono a sentirsi gli effetti della Controriforma. Nel 1571 il Sant’Uffizio lo fece arrestare con l’accusa di eresia (aveva fatto un oroscopo di Gesù, aveva esaltato Nerone ed aveva sostenuto che i teologi si compiacciono solo di cose che ai più sembrano paradossi; così, ad esempio, affermano che si deve abbracciare la povertà, mentre noi insegniamo che si deve fuggire) e subì una condanna mite per la sua età avanzata, per le sue conoscenze tra prelati potenti e per la sua fama. Ebbe comunque il divieto d’insegnare e pubblicare oltre all’obbligo di abiurare e di bruciare molti suoi manoscritti. Fu allora che si trasferì a Roma a curare molti alti prelati e cardinali acquisendo benemerenze che gli faranno assegnare una pensione da Papa Gregorio XIII. Anni tristi e solitari. Nel 1575 iniziò a scrivere la sua biografia, De vita propria, che terminò l’anno seguente, prima di morire e che saranno pubblicate postume nel 1643. La sua Opera omnia fu pubblicata a Lione in 10 volumi nel 1661.
Tralasciando matematica e magie varie, cerchiamo di cogliere i contributi di Cardano alla fisica in genere ed alla meccanica ed alla tecnica in particolare, anche se è difficile estrarli dai suoi scritti che sono il testimonio di una concezione metafisica e magica del mondo, legato a superstizioni secolari. Anche riguardo alle sue fonti vi sono delle difficoltà anche se si può dire molto in generale che egli deriva le sue affermazioni da Aristotele e Plinio ma con una attenzione molto maggiore ai fatti fisici. La stessa sospensione cardanica che da lui prende il nome e trattata nel De rerum subtilitate, non è attribuibile a lui ma a Filone di Bisanzio. Spesso i potenti erano trasportati con veicoli che facevano sentire ogni sobbalzo, ogni buca ed ogni pendenza del tragitto. Cardano realizzò, e fece costruire da un meccanico di Cremona, per l’Imperatore Carlo V la Sedes Mitra, ovvero il sedile mirabile affinché mentre viene trasportato, egli rimanga immobile e sieda comodamente, in qualunque posto ci si fermi. Cardano spiegava che se si dispongono tre anelli d’acciaio in modo che attorno ai poli si possano muovere in su e in giù, in avanti e indietro, a destra e a sinistra allora l’imperatore resta sempre fermo nella carrozza, comunque la si muova. Il sistema che in pratica è un giroscopio, ebbe grande impiego nelle bussole che furono montate su sospensioni cardaniche (tali impieghi, per uso marinaro erano già noti del XIV secolo). La vera e propria bussola è incernierata in un anello di ottone e può girare

intorno ad un suo diametro. Questo primo anello è a sua volta girevole su altro anello verticale secondo un diametro disposto perpendicolarmente al primo (questo anello sarà poi montato su un sostegno stabile). Poiché il baricentro della bussola è molto in basso, per la simmetria della costruzione, la bussola si dispone sempre in un piano orizzontale e il suo baricentro viene a trovarsi verticalmente al di sotto sotto del punto d’incrocio dei due diametri su cui girano rispettivamente bussola ed anello. Con questo sistema la bussola non segue le evoluzioni di chi la porta ed è sempre leggibile in piano.
Altra realizzazione del nostro fu il giunto cardanico o giunto universale che
permette la trasmissione di un moto rotatorio da un asse ad un altro di diverso orientamento (è uno strumento di estesissima utilizzazione ancora oggi).

Ultima nota di rilievo è la sua posizione contraria al moto perpetuo. Per il resto, e per questo mi sono soffermato sul personaggio, Cardano è un tipico figlio del Cinquecento. In lui magia, tradizione e superstizione indicano la via da percorrere. A lato di interessanti osservazioni naturali non vi è alcuna saldatura con una qualche teoria complessiva. Egli resta legato all’aristotelismo ed al geocentrismo che sono verità indiscusse. Le sue divagazioni avvengono soprattutto in ambiti magici ed occultistici che sono proprio l’aspetto rilevante che accompagna molti pensatori del Cinquecento. Non a caso ebbe udienza presso vari preti che non disdegnavano il suo approccio ai misteri del mondo naturale e particolarmente le sue previsioni per il futuro.
NICCOLÓ FONTANA detto TARTAGLIA (Brescia 1499/1500 – Venezia 1557)
Il giovanissimo Niccolò, di famiglia estremamente povera, quando i francesi presero e saccheggiarono Brescia nel 1512, perse suo padre ed egli stesso restò ferito al palato tanto da non riuscire più ad avere fluidità di parola. Da ciò il nomignolo Tartaglia che egli accettò di buon grado. La sua condizione economica era tale che egli non avrebbe potuto fare studi di alcun tipo ma sua madre, viste le sue grandi abilità matematiche conseguite da autodidatta, fu in grado di trovargli un padrino, Ludovico Balbisonio, che lo fece studiare a Padova. Si dedicò subito all’insegnamento e riuscì a mantenersi iniziando a fare l’insegnante a Verona, prima tra il 1516 ed il 1518, quindi a partire dal 1521. Nel 1534 si trasferì a praticare l’insegnamento a Venezia dove restò fino alla fine dei suoi giorni. Fu matematico di grande fama, uno dei massimi algebristi italiani del Cinquecento.
Dal punto di vista dell’algebra vi era una questione in sospeso da moltissimi anni, quello della risoluzione delle equazioni di terzo grado. Il matematico noto che risolse questo problema, senza però pubblicarne i risultati, fu Scipione dal Ferro (1465-1526). Solo di un tipo di tale equazioni del Ferro comunicò i segreti ad un suo studente, Antonio Maria del Fiore, in punto di morte (il caso particolare era quello dell’equazione, con notazione odierna, del tipo: x3 + px = q). Saputo della possibilità di risolvere tali equazioni, che Luca Pacioli aveva sentenziato nel 1494 essere irresolubili con regola generale, Tartaglia si mise al lavoro e trovò la loro soluzione in molti più casi, tanto che, in una disfida pubblica (1535) sulle equazioni di terzo grado nella quale del Fiore proponeva problemi a Tartaglia e viceversa, il primo non risolse alcun problema mentre Tartaglia tutti. Venuto a sua volta a sapere della scoperta di Tartaglia, Gerolamo Cardano lo invitò a Milano (1539) promettendogli una sistemazione migliore di quella comunque povera che aveva. Conosciuti i modi di soluzione di queste equazioni, Cardano li pubblicò subito nella sua Ars Magna (1545), citando comunque Tartaglia e dal Ferro (aveva promesso a Cardano che non lo avrebbe fatto). Ma ciò non bastò e ne nacque una dura polemica che durò per molti anni. Altro fondamentale lavoro di Tartaglia in ambito matematico fu la pubblicazione nel 1543 a Venezia ed in italiano degli Elementi di Euclide (Euclide megarense, philosopho, solo introduttore delle scientie matematice, diligentemente reassettato et alla integrità ridotto)(8) ed in latino le opere di Archimede (Opera Archimedis Siracusani, philosophi et mathematici ingeniosissimi e Archimedis de insidientibus aquae). E’ appena il caso di accennare alla costruzione da parte del nostro, del famoso triangolo di Tartaglia che fornisce i coefficienti della potenza ennesima del binomio.
Per ciò che più direttamente ora ci riguarda il lavoro di Tartaglia che riveste grande interesse è la Scientia nova, pubblicato a Venezia nel 1537 (sembra che il lavoro sia nato dalla domanda che gli fece un artigliere relativa a quale alzo doveva avere un cannone per per dar luogo alla massima gittata). Si tratta in realtà di una vera e propria scienza nuova, la balistica, che Tartaglia elaborò come ho qualche pagina più su accennato. Il titolo completo dell’opera descrive bene il suo contenuto: Inventione novamente trovata da Nicolo Tartalea bresciano: utilissima per ciascuno speculativo Matematico Bombardiero e altri intitolata Scientia nova divisa in cinque libri: nel primo di quali se dimostra theoricamente la natura e effetti de corpi egualmente gravi in li dui contrarij moti che in essi posson accadere e de lor contrarij effetti […] (l’opera era prevista in 5 libri ma gli ultimi due non furono mai pubblicati). A questo lavoro ne seguì un altro, più aggiornato e molto meglio argomentato, Delli quesiti et inventioni diverse, del 1546. La novità di questi lavori rispetto a quelli tradizionali risiede soprattutto nel non riferire i singoli argomenti a disquisizioni di tipo filosofico o meglio aristotelico. Tartaglia segue un approccio puramente geometrico iniziando con 14 definizioni, quindi con 5 supposizioni e 4 sentenze comuni (interpretazione dei fenomeni secondo il senso comune). A questo apparato iniziale seguono le proposizioni che Tartaglia deduce e va a dimostrare. Il trattato non è un trattato sul moto come quelli di vari altri autori ma un trattato sul moto che ha luogo quando dei proiettili sono sparati da bombarde. Egli tentava di studiare in modo empirico la traiettoria di tali proiettili cercando di svincolarsi dalle questioni dei moti naturali e violenti di Aristotele. Capisce che per descrivere tali movimenti che sono in definitiva composizione di movimenti, occorre definire dapprima l’istante, il tempo, il moto e stabilire quali corpi, tra i proiettili, sono ugualmente gravi e non risentono della resistenza dell’aria. La potenza in gioco è quella di una qualunque macchina artificiale in grado di lanciare violentemente nell’aria un proiettile. Da queste premesse ricava che ogni corpo egualmente grave va tanto più veloce quanto più si allontana dal punto di partenza e quanto più si avvicina al punto di arrivo (o meta). Ciò è vero anche per un corpo che dovesse raggiungere il centro della Terra in un canale scavato allo scopo. Questa posizione dette da discutere anche perché non era ben precisata nella prima edizione del lavoro. Nella seconda edizione (1550) venne aggiunto un brano in cui si diceva che il corpo non si sarebbe fermato lì, al centro della Terra, ma avrebbe oscillato alternativamente più volte intorno a tale centro fino a fermarsi definitivamente in esso.
Altre proposizione che Tartaglia ricava sul moto dei corpi sono le seguenti:
– Tutti i corpi che sono egualmente gravi iniziano il loro moto con la medesima velocità. Quelli che percorrono tragitti più lunghi raggiungono una velocità maggiore al loro punto di arrivo.
– Tutti i corpi di ugual peso, animati da un moto violento, hanno alla fine del loro moto (la meta) la medesima velocità. Quei corpi lanciati violentemente che arrivano più lontano sono dotati di una velocità iniziale maggiore.
– Per quanto piccola sia la durata o la traiettoria di un movimento, nessun corpo dotato di peso è capace di spostarsi con un miscuglio di moti naturale e violento. Questa proposizione, puramente aristotelica, verrà cassata e rifiutata da Tartaglia nel suo Delli quesiti et inventioni diverse del 1546 dove compare l’idea della composizione dei movimenti. Questo cambiamento radicale di posizione genera una trattazione balistica completamente differente della traiettoria dei proiettili; per questo è utile vedere come il problema risulta affrontato nei primi tre libri del lavoro del 1546 piuttosto che andare a descrivere la trattazione fatta nei capitoli che seguono della Scientia nova del 1537.

Un disegno della Scientia nova
Per capire meglio vediamo qual era la visione che si era affermata in precednza, detta tripartita: tre momenti distinti del moto del proiettile, come mostrato in figura.

Per Tartaglia il moto violento, quello della prima fase, si incurva a causa della pesantezza del proiettile, fin dall’inizio anche se tale curvatura non riusciamo ad apprezzarla ad occhio. Se così non fosse, nella traiettoria tripartita avremmo a che fare con pezzi di traiettoria rettilinea che, con un angolo, lascia spazio alla

successiva traiettoria rettilinea, una spezzata, insomma. In definitiva Tartaglia richiede che la curva che descrive il moto del proiettile sia continua. Egli resta nell’alveo della tradizione ma non così il modo di presentare le cose che, per la prima volta, subiscono un trattamento di tipo geometrico, alla Euclide. Inoltre egli rifugge da dibattiti filosofici per rivolgersi a coloro che operavano praticamente con le questioni oggetto di discussione. Seguiamo meglio ciò che ho ora riassunto.
Mentre nel 1537 una parte della traiettoria del proiettile era rettilinea ora, nel 1546, questa posizione viene rifiutata e quindi non viene più ammesso un moto rettilineo violento, escludendo il caso in cui un proiettile sia sparato verticalmente verso il cielo ed il caso in cui il proiettile sia sparato perpendicolarmente verso il centro della Terra. Se spariamo un proiettile con una bombarda, esclusi i casi appena detti, esso non avrà mai una traiettoria, seppure parzialmente, rettilinea. Appena il proiettile avrà lasciato la bombarda, inizierà la sua discesa verso Terra. Queste affermazioni avvengono in un dialogo fittizio che Tartaglia mantiene con il Duca di Urbino. A questo punto il Duca dice che ciò è impossibile perché lo ha verificato. Tartaglia chiede di dirgli quando il proiettile inizierebbe a cambiare il suo moto da rettilineo a curvo e perché dovrebbe farlo. Il Duca risponde che la traiettoria si mantiene rettilinea finché dura la grande velocità impressa dalla bombarda; da un certo punto al proiettile mancherà forza e velocità ed inizierà a muoversi con minore velocità dirigendosi verso Terra fino a raggiungerla. Tartaglia elogia il Duca per una così bella risposta. Infatti un corpo animato di moto violento è tanto meno pesante quanto più è veloce e, conseguentemente, avvicina sempre più la sua traiettoria nell’aria ad una retta. E l’aria sostiene i corpi tanto più quanto meno pesanti sono. Con un ragionamento inverso si ricava subito che quanto meno velocemente un proiettile va, quanto più rapidamente e fortemente è attratto dalla Terra. Il Duca concorda e Tartaglia inizia il seguente ragionamento che traduco in linguaggio corrente. Supponiamo che l’intero tragitto che ha fatto o debba fare il proiettile lanciato dalla bombarda sia l’intera linea ABCD. Se vi è la

possibilità di una parte perfettamente retta in questo tragitto essa dovrebbe essere la AB. Dividiamo questa in due parti mediante il punto E. E’ evidente (come Tartaglia ha dimostrato nella Scientia nova) che il proiettile andrà più veloce nel tratto AE che in quello EB con la conseguenza che il proiettile dovrà andare in una traiettoria più retta in AE che non in EB. Questo fatto è impossibile perché se l’intera retta AB è supposta tale, cioè retta, non può esservi nessuna sua metà più o meno retta dell’altra metà. E se una metà fosse più retta dell’altra seguirebbe subito che l’altra metà non sarebbe retta e cioè che la parte EB non è retta. Lo stesso ragionamento si può applicare al tratto AE dividendolo con F in due parti uguali. In tal modo si deduce che nessuna parte della traiettoria è perfettamente retta e quindi che tutta la traiettoria è curva.
Il Duca non è soddisfatto perché riferisce sue esperienze che mostrano che il proiettile va a bersaglio in linea retta. Tartaglia dice che questo argomento è falso perché siamo ingannati dai sensi che non sono così raffinati da seguire con precisione gli avvenimenti, come quando guardiamo la superficie del mare e ci appare perfettamente piana mentre in realtà è sferica. Ed i ragionamenti si fanno più complessi perché Tartaglia mette in gioco la teoria della leva con una similitudine tra proiettile lanciato da una data inclinazione della bombarda e bilancia. Con la bombarda che punta orizzontalmente ci troviamo con il proiettile che si trova in condizioni di equilibrio e quando è lanciato in tale posizione pesa più che in qualunque altra inclinazione dello strumento che lo lancia. In questo caso il proiettile cammina con maggior difficoltà e comincia la sua discesa prima che in qualunque altra inclinazione della bombarda. Dal punto di vista dell’artiglieria ciò significa che un tale colpo ha minore effetto. Quando invece il proiettile è fuori dall’equilibrio di un’inclinazione orizzontale del pezzo, esso si fa più leggero quanto più esso è inclinato. E ciò vuol dire che con la stessa forza (e cioè con la stessa quantità di polvere da sparo) si otterrà una gittata maggiore e che il tragitto quasi rettilineo, quello percorso con maggiore velocità, sarà più lungo. Se l’alzo diventa di 45° il tiro sarà 4 volte più lungo di un tiro orizzontale.
Più oltre nel testo, Tartaglia riprende la questione per rispondere ad altro interlocutore (Signor Gabriel Tadino da Martinengo Cavallier de Rodi, & Prior di Barletta) sulla questione posta dal Duca di Urbino e relativa al perché sembra che il proiettile raggiunga il bersaglio muovendosi in linea retta. Gli artiglieri credono che tutto vada con linee rette ma le cose non stanno così. Sembra che per raggiungere un bersaglio il proiettile percorra una linea retta ma in realtà la linea visuale e la traiettoria del proiettile non sono sovrapponibili e neppure parallele. Se

il proiettile raggiunge il bersaglio previsto è perché la linea visuale e la sua traiettoria curva si intersecano anche in due punti, ambedue situati sulla linea di mira ma originati in modo ben differente.
Altri due quesiti del Priore sono interessanti. Il primo riguarda il perché se si sparano due colpi successivi da un medesimo cannone, a parità di tutte le condizioni, il secondo tiro ha una gittata superiore. Tartaglia risponde che vi sono due motivi, il primo riguarda l’aria attraversata dal proiettile che nel primo caso è stagnante e deve essere attraversata in queste condizioni dal primo proiettile. Il secondo proiettile invece trova l’aria già mossa dal primo ed inoltre mossa nella stessa direzione in cui viaggia il proiettile. Ciò gli facilita la marcia e ne aumenta la gittata. Il secondo motivo riguarda il fatto che la prima accensione della polvere che lancia il proiettile, trova il cannone freddo ed umido e quindi produce un minore effetto che la seconda accensione della polvere.
L’altro quesito riguarda il perché il massimo effetto distruttivo su una muraglia si ottiene con un cannone non posto troppo vicino ad essa ma ad una data distanza. Qui Tartaglia accetta la questione senza negare il fenomeno e si imbarca in una discussione in cui inventiva e fantasia si rincorrono. Dice Tartaglia che tutto ciò che si muove, muove qualcosa. Il proiettile è espulso dalla bocca del cannone per la ventosità originata dalla polvere da sparo. A tale ventosità occorre aggiungere una specie di colonna d’aria (quella contenuta nella canna) che il proiettile, uscendo dal cannone, spinge davanti a sé. Tale colonna si muove molto più lentamente del proiettile ed è per questo che il proiettile la può penetrare e superare. Dopo di ciò la colonna d’aria, ad una piccola distanza dal cannone, si allarga e si dissolve. In conseguenza di ciò, se si piazza un cannone vicino alla muraglia da colpire, la colonna d’aria arriverà sulla muraglia prima del proiettile e, rimbalzerà, tornando a colpire in verso opposto il proiettile che avanza. Si ha a che fare con un cuscinetto d’aria che ammortizza il colpo. Ciò non avviene se il cannone è piazzato ad una certa distanza dalla muraglia in modo che la colonna d’aria possa dissiparsi senza fare da ammortizzatore.
GIAMBATTISTA BENEDETTI (Venezia 1530 – Torino 1590)
Giambattista Benedetti, contrariamente a Cardano, merita attenzione perché, ad unanime giudizio degli storici, pur muovendosi nell’ambito della teoria dell’impetus, ne rappresenta un superamento quando introduce in modo abbastanza chiaro concetti inerziali.
Nacque a Venezia ed ebbe la prima educazione dal padre. Passò i primi anni della sua vita, fino al 1559 a Venezia; quindi si trasferì a Parma, dove restò fino al 1567, come professore, matematico, astrologo e architetto alla corte di Ottavio Farnese; passò infine a Torino, dove restò fino alla morte, al servizio dei Savoia (Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele I). Da giovane lesse, come discepolo di Tartaglia (tra il 1546 ed il 1548), i primi quattro libri degli Elementi di Euclide, non fece però alcuno studio universitario. Conosceva comunque i rudimenti della filosofia peripatetica ma non il greco. A fronte della sua scarsa educazione in strutture pubbliche, possiamo comunque immaginare le infinite sollecitazioni che un giovane interessato aveva nel centro culturale europeo, quale era il polo Venezia-Padova nella metà del Cinquecento. Del pensiero di Aristotele conosceva solo la parte di filosofia naturale e probabilmente ciò fu un vantaggio perché egli vedeva quanto sosteneva Aristotele svincolato da un sistema filosofico compiuto e, nel suo insieme, assorbente. Nelle dispute che si sostenevano con gli aristotelici egli non doveva opporre ad Aristotele un sistema filosofico alternativo ma solo un sistema aperto. Non utilizzava i sillogismi ma la semplice e potente logica matematica che fondava sulla geometria di Euclide ma anche di Archimede. Le conclusioni della matematica avevano sempre il primato su quelle filosofiche ed egli era in grado di muovere il pensiero completamente al di fuori dalla gabbie peripatetiche. Così il suo studio del movimento prescindeva dai luoghi naturali ma era confrontato solo con gli studi di idrostatica ed idrodinamica di Archimede. Fu in tal modo che egli riuscì a comprendere in profondità le questioni della dinamica del moto restando però zoppicante in quelle della cinematica.
Dette vari contributi alla matematica, pubblicati nei suoi De resolutione omnium Euclidis problematum aliorumque, unatantummodo circini apertura (Venezia 1553) e Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber (Torino 1585). Altri all’astronomia nella De gnomonum umbrarumque solarium usu liber (Torino 1574), dove descrisse vari metodi per costruire quadranti solari inclinati, enella De temporum emendatione opinion (Torino 1578), dove, richiesto in proposito, propose una correzione alla riforma gregoriana del calendario.
La parte fisica del suo lavoro, quella che a noi interessa, fu sviluppata nella sua Demonstratio proportionum motuum localium contra Aristotelem et omnes philosophos (Venezia 1554)(9). Quest’opera fu riscritta suddivisa in sei parti, stemperata nei toni polemici contro Aristotele e gli aristotelici, con il titolo Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber (Torino 1585). In essa comparivano varie aggiunte e perfezionamenti che nascevano dai suoi ulteriori lavori, vi erano poi altri capitoli che includevano, oltre a questioni matematiche, critiche molto puntuali alle Quastiones mechanicae di Pseudo Aristotele e a quanto lo stesso Tartaglia aveva elaborato in proposito del movimento. La parte terza, De Mechanicis, e la quarta, Disputationes de quibusdam placitis aristotelicis, trattano questioni di meccanica e di movimento. Questo trattato è il vero capolavoro di Benedetti ed è quanto di più importante sia stato fatto in Italia, nell’ambito della fisica, fino a Galileo.
Benedetti fu il primo che si rese conto della totale insufficienza e dei difetti irrimediabili delle teorie aristoteliche per la spiegazione di fatti meccanici. L’interesse di Benedetti per i problemi del moto emerge già nella sua prima opera, la De resolutione omnium Euclidis problematum aliorumque, unatantummodo circini apertura. Nella prefazione, scritta sotto forma di lettera all’abate Gabliel de Guzman, egli ricorda al suo interlocutore quando questi gli chiese di occuparsi del movimento naturale mediante uno studio accurato e dimostrazioni matematiche. Benedetti dice ora di essersi ritirato in campagna per affrontare tali questioni e cioè sia problemi di filosofia naturale che di matematica. Il periodo di studi lo ha portato a scrivere tre lavori. Uno è quello di matematica che Guzman ha davanti, gli altri due, che contengono le dimostrazioni di molti segreti naturali e matematici molto più importanti di quelli riportati nel testo appena edito, impiegheranno uno molto tempo, l’altro meno, ad essere pubblicati. Altro cenno lo abbiamo nella prefazione a De gnomonum umbrarumque solarium usu liber in cui Benedetti attacca duramente uno svergognato plagiatore, Juan Taisner de Henao, che aveva pubblicato come sua una semplice traduzione di un opuscolo sulle proporzioni dei moti locali che Benedetti aveva dato alle stampe in Venezia prima del 1554.
Nel suo Diversarum speculationum, scrive Benedetti:
Aristotele alla fine dell’ottavo libro della Fisica è del parere che il corpo mosso violentemente e separato dal primo motore, si muova o sia mosso per un certo tempo dall’aria o dall’acqua che lo seguono. Il che non può accadere, perché l’aria la quale, per fuggire il vuoto, penetra nel luogo abbandonato dal corpo, non solo non spinge il corpo, ma piuttosto lo trattiene; infatti, nel caso di un tale movimento, l’aria è con forza respinta dal corpo e separata dalla parte anteriore di questo, e ugualmente gli oppone resistenza; inoltre, tanto più l’aria è condensata nella parte anteriore, tanto più rarefatta diviene in quella posteriore. In tal modo rarefacendosi con violenza, non permette al corpo di avanzare con quella velocità con cui è lanciato; poiché ogni agente in quanto agisce trova resistenza. Per tale ragione, quando l’aria è trascinata dal corpo, il corpo stesso è trattenuto dall’aria. Poiché questa rarefazione dell’aria non è naturale, ma violenta; e per questa ragione, gli resiste, e tira il mobile verso di sé, poiché la natura non tollera che, fra l’uno e l’altro di questi corpi, cioè tra il mobile e l’aria, vi sia un vuoto; cosi i due corpi sono sempre contigui, e siccome il mobile non può separarsi dall’aria, la sua velocità ne è ritardata. [citato da Koyré 1979]
E’ molto chiara la posizione di Benedetti: la teoria del moto violento di Aristotele secondo la quale sarebbe l’aria che, dopo essere stata tagliata, si richiude dietro il corpo per spingerlo ulteriormente, è priva di ogni fondamento. L’aria non aiuta il moto ma lo ostacola.
Ogni corpo grave, che si muova naturalmente o con violenza, riceve in sé un impetus, un’impressione del moto, tale che, separato dalla virtù motrice, continua a muoversi da sé durante un certo lasso di tempo. Dal momento che il corpo si muove con un moto naturale, la sua velocità aumenterà senza posa; infatti, l’impetus e l’impressio che sono nel corpo crescono incessantemente, perché il corpo è costantemente unito alla virtù motrice. Da ciò deriva il fatto che se, dopo aver messo in movimento la ruota con la mano, si toglie la mano, la ruota non si arresta immediatamente, ma continua a girare per un certo tempo. [citato da Koyré 1979]
Quindi Benedetti dichiara la sua adesione alla teoria dell’impetus con un paio di cosette che distinguono la sua posizione. Da una parte unisce alla parola impetus l’altra parola, impressio, che è nuova in questo contesto. Inoltre parla di impetus come una entità che cresce incessantemente. E cos’è l’impetus per Benedetti ? Lo spiega utilizzando l’esempio della fionda:
La vera ragione per la quale un corpo grave è lanciato più distante dalla fionda che dalla mano, è la seguente: quando il corpo gira nella fionda, il moto produce nel corpo grave una maggiore impressione dell’impetus di quanto non faccia la mano; in modo che il corpo staccatosi dalla fionda, guidato dalla natura, continua il suo percorso secondo una linea tangente alla rotazione che ha compiuto per l’ultima volta. Non c’è da dubitare che la fionda possa imprimere al corpo un impetus maggiore, perché in conseguenza delle numerose rivoluzioni il corpo riceve un impetus via via più grande. Quanto alla mano, fintanto che fa girare il corpo, essa non è il centro del suo movimento (checché ne abbia detto Aristotele) e la corda non è il semi diametro. [citato da Koyré 1979]
L’ultima affermazione è legata al fatto che Aristotele assegna particolari proprietà al moto circolare che qui Benedetti nega affermando che comunque, quando il sasso lascia il moto circolare impressogli dalla fionda, viaggia in linea retta con un moto costante rallentato dalla resistenza del mezzo (in queste considerazioni si intravede con una certa chiarezza un’anticipazione del principio d’inerzia). Benedetti ha idee qui molto chiare perché afferma che un corpo su cui ha smesso di agire l’azione esercitata dalla mano che lo fa ruotare se ne va in linea retta con una velocità persistente. Più oltre, discutendo dei corpi in caduta, completa questa affermazione con l’altra che adombra il secondo principio della dinamica: quando un corpo cade agisce su di esso sempre il medesimo effetto e da ciò si origina un continuo aumento della velocità. Ma di questo discuterò più oltre. Tornando a quanto dicevo, Benedetti sostiene che un corpo che ruota rapidamente intorno ad un asse esercita una tendenza ad allontanarsi da questo asse per seguire il suo cammino in linea retta (e ciò vale anche per un disco orizzontale in rotazione). Benedetti sta introducendo la forza centrifuga nella meccanica. A ciò segue un brano confuso che, osserva Koyré, non può essere altrimenti perché è la stessa teoria dell’impetus che è confusa:
Ora, quest’impetus impressus decresce continuamente, e a poco a poco vi si insinua l’inclinazione della gravità, la quale, componendosi [mescolandosi] con l’impressione data dalla forza, non permette che la linea ab rimanga retta a lungo; ben presto la linea si fa curva poiché il corpo in questione è mosso da due virtù,

di cui una è la forza impressa, e l’altra la natura. Tutto questo contrariamente all’opinione di Tartaglia il quale nega che un corpo qualunque possa essere mosso simultaneamente da movimenti naturali e violenti. [citato da Koyré 1979]
E l’impetus è un qualcosa che viene passato da chi spinge un oggetto a muoversi all’oggetto che si muove. Non fornisce tutta la spinta istantaneamente ma gradualmente in crescendo come si può osservare osservando che un oggetto scagliato parte da velocità zero fino ad acquisirne una maggiore. E’ come se gradualmente l’oggetto pesasse meno poiché si muove più velocemente. Vi è poi un qualcosa su cui non si è prestata troppa attenzione. Una trottola si muove di moto violento ma il suo moto avviene su un piano perpendicolare al centro della Terra e se si riuscisse a suddividerla in parti ci si renderebbe conto che essa esploderebbe in tanti pezzi verso l’esterno.
Dall’inclinazione delle parti dei corpi rotondi verso la direzione in linea retta del movimento risulta che una trottola che ruoti intorno a se stessa con una grande forza rimane, per un certo periodo di tempo, quasi diritta sulla sua punta, non inclinandosi né da una parte né dall’altra verso il centro del mondo poiché, in un tale movimento, ciascuna delle sue parti non tende in modo esclusivo e assoluto verso il centro del mondo, ma molto di più tende a muoversi perpendicolarmente alla linea della direzione, in modo che tale corpo, necessariamente, deve rimanere diritto. E se affermo che le sue parti non s’inclinano affatto verso il centro del mondo, lo affermo perché, malgrado tutto, queste non sono mai del tutto prive di questa specie di inclinazione, in virtù della quale il corpo stesso tende verso questo punto. È vero tuttavia che più è veloce, meno tende verso questo punto; in altre parole, che il corpo in questione diviene tanto più leggero. Ciò lo mostra bene l’esempio della freccia dell’arco, o non importa di quale altra macchina, la quale più è rapida nel suo moto violento, più acquista la tendenza a muoversi in linea retta, il che vuol dire che si inclina tanto meno verso il centro del mondo, in altre parole diviene più leggera. Ma se tu vuoi vedere in modo più chiaro l’evidenza di questa verità, immaginati che questo corpo, cioè la trottola, mentre gira molto rapidamente, sia tagliato o diviso in un gran numero di parti; tu vedrai allora che queste parti non scenderanno subito verso il centro del mondo, ma si muoveranno, per così dire in linea retta, verso l’orizzonte. Questo fatto (per quel che ne so) non è mai stato osservato a proposito della trottola. E l’esempio di una siffatta trottola, o di qualunque altro corpo di questo genere, mostra bene fino a che punto si sbaglino i peripatetici a proposito del moto violento, movimento che essi ritengono provocato dalla reazione dell’aria … mentre in realtà il mezzo ha tutta un’altra funzione. [citato da Koyré 1979]
I peripatetici non hanno mai considerato queste cose ma soprattutto non tengono in conto gli effetti del mezzo in cui un oggetto si muove ed il movimento medesimo. Da questo punto inizia la trattazione di Benedetti del moto, che prende le mosse dall’Idrostatica di Archimede. Egli ha fatto tesoro di quel principio che parla di un corpo che, immerso in un fluido, riceve una data spinta dal basso verso l’alto. Da qui egli trae le sue successive considerazioni, infatti egli assume come postulato di base il fatto che, a parità di ogni altra condizione, le velocità acquisite in uno stesso intervallo di tempo da un grave che cade rispettivamente in due mezzi di differenti densità, sono proporzionali allo sforzo che sarebbe necessario applicare al grave per sostenerlo quando fosse sommerso sia nell’uno che nell’altro dei differenti mezzi(10). Il riferimento non è solo all’immersione in acqua ma anche in aria e ciò già risulta una critica alla base della fisica aristotelica perché l’aria è considerata come un corpo dotato di peso e quindi capace di fornire la spinta archimedea verso l’alto. Vi è la ripresa addirittura dell’eretico Democrito che proprio su questo punto è attaccato da Aristotele nel De coelo [Del cielo, III (Γ), 4, 302b-304b, 20] come anche il matematico bizantino Simplicio (490-560) rileva nel suo Commento al De Coelo [294, 33-295, 10]. Scrive Benedetti:
il moto naturale di un corpo grave in diversi mezzi è proporzionale al peso di questo corpo negli stessi mezzi. Cosi, per esempio, supponiamo

che il peso totale di un certo corpo grave sia rappresentato da ai, e che questo corpo si trovi in un mezzo qualunque, meno denso del corpo stesso (perché, se si trovasse in un mezzo più denso, il corpo non sarebbe più grave, ma leggero, come ha dimostrato Archimede), questo mezzo ne sottrarrebbe la parte ei, in modo che solo la parte ae di questo peso agirebbe; e se questo corpo si trovasse in qualche altro mezzo più denso, ma tuttavia meno denso del corpo stesso, questo mezzo ne sottrarrebbe la parte ui di detto peso, e ne lascerebbe libera la parte au.
Io dico che la proporzione della velocità di un corpo nel mezzo meno denso starà alla velocità del medesimo corpo nel mezzo più denso come ae ad au; il che è più conforme alla ragione che se dicessimo che queste velocità stanno fra loro come ui a ei, poiché le velocità sono proporzionali solo alle forze motrici (quando la figura è la medesima in qualità, quantità e posizione). Quello che abbiamo detto ora è evidentemente conforme a ciò che abbiamo già scritto più sopra, poiché dire che la proporzione delle velocità di due corpi eterogenei, ma simili per quanto riguarda la forma, la grandezza, ecc. nel medesimo mezzo è uguale alla proporzione dei loro stessi pesi, è la stessa cosa che dire che le velocità di un unico e medesimo corpo in mezzi diversi sono in proporzione dei pesi che il corpo in questione assume in questi stessi mezzi. [citato da Koyré 1979]
E, commenta Koyré:
indubbiamente, dal proprio punto di vista, Benedetti ha interamente ragione. Se le velocità sono proporzionali alle forze motrici, e se una parte della forza motrice (del peso) è neutralizzata dall’azione del mezzo, è ovvio che si dovrà tener conto solo della parte restante e, nei mezzi via via più densi, la velocità del grave diminuirà seguendo una progressione aritmetica, e non geometrica come voleva Aristotele. Ma il ragionamento di Benedetti, fondato sull’idrostatica di Archimede, non muove affatto dalle stesse basi di quello di Aristotele: per Aristotele il peso del corpo è una delle sue proprietà costanti e assolute, e non una proprietà relativa, come invece per Benedetti e gli «antichi». Perché il peso, per Aristotele, agisce, in qualche modo, tutt’intero, nei diversi mezzi che gli oppongono resistenza. Per questo Benedetti ritiene che la fisica aristotelica dimostri a sufficienza che Aristotele
non conosceva la causa né della gravità, né della leggerezza dei corpi, che consiste nella densità o rarefazione del corpo grave o leggero, e la densità, o la rarefazione più o meno grande dei mezzi.
Da qui parte tutta una elencazione che Benedetti fa della teoria del moto di Aristotele cheebbero quanto Aristotele non abbia capito nulla del moto naturale né di quello violento. Per far ciò egli passa a discutere il comportamento di gravi differenti in forma e peso discendenti in mezzi differenti. Intanto il peso e la leggerezza non sono caratteristiche fondamentali di un corpo perché esso pesa più o meno a seconda in quale mezzo è immerso. Inoltre:
le proporzioni dei pesi del medesimo corpo in mezzi differenti non rispettanroducono delle inuguali prop velocità, e in particolare le velocità dei corpi gravi e leggeri della stessa forma o materia, ma di differente grandezza, seguono nei loro moti naturali nel medesimo mezzo una proporzione assai diversa da quella che sostiene Aristotele [citato da Koyré 1979]
Questo vuol dire che il peso non ha alcuna influenza nella determinazione delle velocità con le quali i gravi cadono. E ciò risulta perfettamente solo che uno voglia osservare, infatti velocità e densità sono importanti perché, a parità di peso, un corpo più piccolo si muove più velocemente proprio perché mostrerà una superficie minore al mezzo che attraversa. Ma poi, perché il moto rettilineo verso il basso o verso l’alto deve essere naturale ? E’ possibile provocare moti violenti sia verso l’alto che verso il basso. E nel caso del moto violento non ha osservato molti fenomeni che sono infiniti nel tempo anche se finiti nello spazio come i moti oscillatori(11). L’errore più grave resta comunque l’aver negato l’esistenza del vuoto e da ciò aver tratto delle conclusioni inaccettabili. Si ricorderà infatti che Aristotele nega il vuoto per assurdo perché in tal caso un corpo si muoverebbe con velocità infinita. E poiché ciò è, secondo lui, assurdo, allora il vuoto non può esistere. Ciò è errato afferma Benedetti perché la velocità di un corpo non è determinata dal suo peso diviso per la resistenza del mezzo ma dal suo peso meno la resistenza del mezzo. Nel primo caso, e la cosa è notevole, si andrebbe a velocità infinita; nel secondo invece ad una velocità più elevata ma finita. Quindi la dimostrazione per assurdo di Aristotele è sbagliata con al conseguenza che nel vuoto è possibile il movimento. Ed è pure errata l’ipotesi aristotelica relativa al caso di possibilità di moto nel vuoto. Egli infatti sosteneva che, in tal caso, non si sarebbe avuta modificazione dei rapporti delle velocità che si hanno nello spazio pieno Ma Benedetti dice che questa affermazione
completamente errata. Perché nello spazio pieno la proporzione delle resistenze esteriori si sottrae dalla proporzione dei pesi, e ciò che rimane determina la proporzione delle velocità, che sarebbe nulla se la proporzione delle resistenze fosse uguale alla proporzione dei pesi; a causa di ciò, i corpi avranno nel vuoto delle proporzioni di velocità diverse che nel pieno, c cioè: le velocità dei corpi differenti (vale a dire dei corpi composti da materie differenti) saranno proporzionali ai loro pesi specifici assoluti, cioè alle loro densità. Quanto ai corpi composti della stessa materia, avranno, nel vuoto, la stessa velocità naturale.

Siano, infatti o e g due corpi omogenei, e sia g la metà di o. Siano dati anche altri due corpi omogenei ai primi due, a ed e, ambedue uguali a g; immaginiamo che questi ultimi due (a ed e) siano posti alle estremità di una linea, della quale i indichi la metà; è chiaro che il punto i avrà altrettanto peso che il centro di o; così i per la virtù dei corpi a ed e si muoverà nel vuoto con la medesima velocità del centro di o. Ma se i detti corpi a ed e fossero distaccati da detta linea, non modificherebbero per questo la loro velocità, e ciascuno dei due sarebbe veloce quanto g. Dunque, g sarebbe tanto veloce quanto o. [citato da Koyré 1979]
Ma Benedetti non è solo un meccanico, un tecnico. Egli è un vero filosofo naturale che ricerca spiegazioni complessive ed unificanti a quanto sostiene. Aristotele ha costruito un fisica sbagliata e lo ha fatto per adattarla ad un concezione del mondo sbagliata, quella di un mondo finito in cui risulterebbe quasi necessario avere luoghi naturali. A ciò seguono delle affermazioni di grande valore epistemologico perché collocano la fisica che Benedetti sviluppa in un contesto di una differente concezione del mondo. Si chiede retoricamente Benedetti:
[Ci sarebbe] un inconveniente qualsiasi a che si possa trovare oltre il cielo un corpo infinito ? Certo, Aristotele lo nega, ma le sue ragioni non sono per nulla evidenti.
Infatti, Aristotele ritiene senza provarlo e anche senza fornirne alcuna spiegazione che le infinite parti del continuum non siano in atto, ma solo in potenza; ma su ciò non intendiamo affatto dargli ragione, giacché se il continuum tutto intero e realmente esistente è in atto, tutte le sue parti saranno in atto, perché è stupido credere che le cose che sono in atto si compongano di quelle che esistono solo in potenza. E non si deve dire neppure che la continuità di queste parti fa in modo che esse siano in potenza e prive di ogni atto. Sia data, per esempio, la linea continua au; dividiamola in parti uguali nel punto e; non c’è alcun dubbio che, prima della divisione, la medietà ae (benché sia unita all’altra, eu) è in atto quanto tutta la linea au, benché non sia distinta dai sensi. E io affermo la medesima cosa riguardo alla medietà di ae, vale a dire, della quarta parte di tutta la linea au, e anche riguardo all’ottava, alla millesima e a qualunque si voglia. [citato da Koyré 1979]
La dimostrazione parte ancora dalla matematica e la cosa è perfettamente in linea con la concezione generale di Benedetti. L’errore di Aristotele che abbarca tutti gli altri è quello di aver completamente trascurato la matematica.
Naturalmente Benedetti ha fatto degli enormi passi in avanti nella comprensione del moto ma, anch’egli, è restato impigliato in inevitabili errori data la vastità delle argomentazioni necessarie e delle esperienze possibili ma non realizzate. Tra questi l’errore più grande, dal quale discendono poi tutti gli altri, è l’affermazione che anche per corpi di differente densità le velocità acquistate, nello stesso intervallo di tempo, per due di essi che abbiano medesime forma e volume e che cadano attraverso uno stesso mezzo, stanno tra loro nello stesso rapporto degli sforzi necessari per sostenere tali gravi quando siano sommersi nel mezzo considerato (qui risulta chiara la mancanza del concetto di massa e dei suoi rapporti con il peso).
Passiamo alla discussione di Benedetti dei corpi in caduta.
Benedetti riprende qui una discussione che era stata fatta da Tartaglia con un importante cambiamento, l’eliminazione della meta di un grave in caduta che vuol dire che ci si occupa della sua storia passata senza anticiparne il futuro. E ciò al fine di ricavare la velocità dell’oggetto in caduta in ogni istante della sua traiettoria. Scrive Benedetti:
Aristotele non avrebbe dovuto affermare che un corpo è tanto più veloce quanto più si avvicina alla sua meta, ma piuttosto che il corpo è tanto più veloce quanto più si allontana dal suo punto di partenza. [citato da Koyré 1979]
E’ comunque da osservare che Benedetti non mantiene fede a tale proposito perché in brani successivi egli stesso richiama il punto di caduta di un grave come suo luogo naturale. Vi è una qualche confusione che rende il pensiero di Benedetti oscuro in alcuni punti ma va detto che egli sta coniugando in modo molto complicato la fisica aristotelica, che fortemente combatte con affermazioni prese da essa e dette come se gli si opponessero, la teoria dell’impetus e la nuova e più forte fisica di Archimede. D’altra parte molti epistemologi concordano che uno dei più potenti motori della nascita di nuove teorie scientifiche è proprio nell’indeterminatezza logica di quelle precedenti. Una teoria perfetta è paralizzante e frena più che essere motrice.
Tornando a Benedetti, egli ritiene che un corpo in caduta è soggetto alla continua azione di una stessa forza ed è questa la causa del suo continuo aumento di velocità. Un aiuto a svincolarsi dalla meta, dal luogo naturale, viene a Benedetti proprio dalla teoria dell’impetus che permette di trattare il moto di un corpo in modo indipendente da una teoria cosmologica (quella di Aristotele che prevede luoghi naturali). Infatti la discussione dell’impetus prescinde da altre considerazioni per concentrarsi solo sul corpo in movimento. Benedetti afferma che un corpo in caduta, che si muove quindi di moto rettilineo e cioè naturale, aumenta sempre la sua velocità per il continuo impulso che riceve da una causa continuamente unita ad esso, qual è quella di andare per il cammino più breve al suo luogo. E qui osserva giustamente Koyré che questo suo luogo è utilizzato non per dire verso una meta ma per indicare una direzione di movimento. Sotto questo aspetto e spogliandoci delle nostre conoscenze attuali, questa posizione di Benedetti è una assoluta novità.
FRANCESCO MAUROLICO (Messina 1494 – Messina 1575)
Riguardo ai nostri scopi, cito Maurolico come farò per Commandino, in quanto hanno dato importanti contributi alla determinazione dei centri di gravità dei corpi ed in quanto furono un primo riferimento per gli studi di Guidobaldo del Monte e Galileo. Ma i lavori di questi due scienziati possono essere annoverati più come esercizio matematico che come contributo alla meccanica.
Maurolico, di origine greca, fu uno scienziato in senso rinascimentale, si occupò infatti di molte discipline tra cui matematica, architettura ed astronomia. All’età di 27 anni fu ordinato sacerdote e nel 1550 passò all’ordine benedettino. A partire dal 1569 iniziò ad insegnare presso l’Università di Messina fondata nel 1548. Il suo lavoro più importante fu in ambito matematico con varie sue opere sui classici greci tra cui Euclide, Apollonio ed Archimede. Egli, nella sua Cosmographia, fornì anche metodi per effettuare la misura della Terra, metodi utilizzati nel 1670 da Jean Picard per la misura del meridiano terrestre. Si occupò anche di ottica e nei suoi Photismi de lumine et umbra (1521) e Diaphana (1523 e 1552, con pubblicazione postuma nel 1611) trattò di rifrazione, del modo di determinare il fuoco di una lente, del funzionamento della camera oscura e tentò la spiegazione del fenomeno dell’arcobaleno. Fece osservazioni astronomiche e fu in corrispondenza sia con Commandino che con padre Clavio. Del 1548 è la sua De momentis aequalibus, in cui determinò il baricentro di vari corpi aventi figure geometriche come la piramide, il paraboloide, …,che fu però pubblicata nel 1685 anche se i suoi risultati circolarono in corrispondenze varie. Nel 1575 dette alle stampe quella che è considerata la sua opera maggiore, Arithmeticorum libri duo, in cui comparvero due importanti novità, da un lato l’uso di lettere al posto di numeri e dall’altro l’introduzione del metodo di induzione.
FEDERICO COMMANDINO (Urbino 1509 – Urbino 1575)
Si hanno poche informazioni sulla vita di Commandino. Studiò latino e greco a Fano poi passò a studiare medicina a Padova per laurearsi a Ferrara. Fu uno dei più accreditati e prolifici traduttori in latino dell’opera dei classici matematici greci ed ellenisti. Tradusse in Archimedis Opera nonnulla (1558) alcune opere di Archimede tra cui il Trattato dei corpi galleggianti. Tradusse anche Aristarco, Pappo, Euclide, Apollonio, Tolomeo ed Erone. Dopo la pubblicazione nel 1562 di un libro sul funzionamento degli orologi solari, Horologiorum descriptio, scrisse l’opera sui baricentri dei corpi solidi, Liber de centro gravitatis solidorum(1565), in cui cercò una dimostrazione della determinazione del centro di gravità del paraboloide di rotazione, che era stato determinato da Archimede nel suo lavoro sui corpi galleggianti ma senza che ne fosse stata data dimostrazione. Fondò ed animò ad Urbino una importante scuola di matematica che fu riferimento costante per tutt’Italia e che dette impulso alla scuola di matematica italiana fino a portarla ai massimi livelli europei. Fu in corrispondenza con Maurolico e tra i suoi allievi vi fu Guidobaldo del Monte che sarà amico e protettore di Galileo.
GUIDOBALDO DEL MONTE (Pesaro 1545 – Mombaroccio 1607)
Di famiglia benestante, divenuta nobile appena una generazione prima, il marchese Guidobaldo studiò matematica a Padova quindi con Federico Commandino. Partecipò a la guerra contro i turchi ma la sua passione erano gli studi di matematica, meccanica, astronomia ed ottica che egli coltivava nella sua tenuta di Mombaroccio, vicino Urbino. Tra i suoi vari corrispondenti scientifici vi fu anche Galileo che con il suo aiuto (e del fratello Cardinale) riuscì ad ottenere per lo scienziato pisano il lettorato di matematica prima presso lo Studio di Pisa poi di Padova. Scrisse varie opere tra cui: Planisphaeriorum vniuersalium theorica (Pesaro 1579); Planisphaeriorum vniuersalium theorica (Colonia 1581); Perspectiuae libri sex, (Pesaro 1600); De cochlea. Libri quatuor. Superiorum permissu, et priuilegii (Venezia1615). Ricordato che probabilmente il libro di maggior successo fu quello sulla prospettiva che ebbe vasta diffusione per tutto il XVII secolo, i libri che rivestono maggior interesse per noi sono: Mechanicorum liber (Pesaro 1577, tradotto in volgare da Filippo Pigafettanel 1581) e In duos Archimedis aequeponderantium libros paraphrasis scholijs illustrata (Pesaro 1588).
Il Mechanicorum liber fu ritenuto il più importante lavoro di statica scritto dall’epoca dei classici greci, un ritorno ai lavori classici che esplicitamente rifiutava gli approcci di Nemorario, Tartaglia e Cardano. Un presunto storico italiano, Biagioli(12), ha sostenuto che il rifiuto di questi personaggi era dovuto al differente stato sociale. La cosa non è credibile perché del Monte ebbe grandissimo rispetto, apprezzamento e perfino amicizia per Galileo che come strato sociale non era certamente qualcuno.
Del Monte fece il tentativo di fondare la meccanica con una struttura analoga alla geometria, cioè in modo assiomatico sulla strada aperta da Archimede. Ma non restò in ambito puramente matematico e teorico perché egli perorò l’utilità delle macchine per lo sviluppo di ogni attività artigiana. Egli, contrariamente a quanto sosterrà ripetutamente Galileo, intende le macchine come artifici per ingannare la natura, un poco sulla strada che era delle Quaestiones mecanichae pseudo aristoteliche. Leggiamo alcuni passi della Prefazione del Mechanicorum liber:
Due qualità, che più delle altre son solite valere presso agli uomini per la conquista della ricchezza e di molti beni, e cioè la Utilità e la Nobiltà, sembrano aver insieme concorso e cospirato ad· adornare la disciplina meccanica, ed a farla amare da molti. Ché se noi ne vogliamo dedurre e valutare la nobiltà della sua prima nascita ed origine (come a questi giorni si vuoI fare dai più), incontriamo da una parte la Geometria e dall’altra la Fisica, dal cui armonico congiungimento e dalla cui concorde comunione viene infine alla luce la più nobile di tutte l’arti, quella della Meccanica. La più nobile, dico, avendo considerazione sì bene delle materie trattate, come della necessità degli argomenti suoi, come appare in un passo essere l’opinione di Aristotele. Poi che non solo (come testimonia Pappo) essa porta la Geometria alla sua intera perfezione e compiutezza, ma anche regna e comanda con pieno potere sulle cose fisiche e sulle cose naturali; ché tutto quanto è d’aiuto e conforto agli artigiani, ai costruttori, ai contadini, ai marinai ed a tant’altri (anche contro alle leggi della natura), tutto rientra nel regno della meccanica, ed è sottoposto a questa nobile arte. E però colui che i suoi molteplici dispositivi potentemente adopra contro alla natura, pure la va imitando. Ed è quindi degno della maggior meraviglia, ma pure vero e facilmente credibile a chi, avendolo appreso in prima da Aristotele, lo afferma, che ciascuno e tutti i problemi e i teoremi meccanici possono essere acconciamente ridotti alle macchine rotonde, e son fondate sul principio, ben concepibile dalla mente come pure apparente ai sensi esteriori, che dice: Rotunda machina est moventissima, et quo maior, eo moventior [una macchina rotonda si muove velocissimamente, e quanto più è grande tanto più velocemente si muove].[…]
E quindi con il tempo ha intrapreso la Meccanica […] a spinger l’aratro per i campi; con carri e carrette a trasportar viveri e merci e ogni sorta di pesanti carichi fra i popoli vicini ed a recarci dai loro luoghi il nostro bisogno. Inoltre, poiché ormai l’uomo non considerava solo il mero bisogno, ma anche l’ornamento e la comodità, si deve pure ascrivere all’acutezza della macchina, che essa ci abbia indicato come spingere una nave con i remi e come mediante un timone piccolo e modesto (secondo l’opinione) siano da dirigere e condurre magistralmente pesanti navi da carico. Come ancora si possano levare in alto e recare agli operai con una sola mano (anziché con molte) grandi e pesanti pietre, travi e legni di costruzione. Come sollevar l’acqua da pozzi profondi, per tener umidi pascoli, giardini e simili. Come spremere il vino, l’olio e ogni sorta d’altri utili liquori, a vantaggio del padrone. Come si possa con due leve messe per dritto e per contro tagliare ad arte alberi e pezzi di marmo. Come far breccia in guerra per mura e terrapieni, come combattere a cavallo, come assediare ogni sorta di siti, come condurre gli assalti, ed anche come difendersi e ripararsi nel bisogno. Per tutto ciò, dico ancora una volta, sono sorti innumerevoli e copiosissimi metodi utili dalla nobile arte e scienza meccanica, ed hanno con le loro indicazioni e il loro continuo ausilio reso più facile e svelto il lavoro di carpentieri, scalpellini, marmisti, vignaiuoli, spremitori d’olio, fabbricanti d’unguenti, fabbri, barbieri, medici, fornai, sarti, summa summarum di tutti gli utili artigiani, come si vede quotidianamente coi nostri occhi. E però ci sono alcuni nuovi logodedali e accaniti spregiatori di arti meccaniche: che divengano una buona volta rossi di vergogna (se ancora c’è vergogna in essi), e cessino di calunniare malvagiamente (e falsamente) con il pretesto dell’inutilità la lodevole arte dei saggi! Vadano al diavolo, dico loro, e ci· pensino meglio: ma se non vogliono smettere o rinsavire, bene, perseverino nella loro grossolana incomprensione, ché noi non ci curiamo di loro e vogliamo invece seguire e imitare il corifeo di tutti i filosofi e precursori di Aristotile, le cui acute Questiones mecanicae, tramandate alla posterità, dimostrano abbastanza il suo intimo amore per quell’arte. […]
Ci sono fra tutti i matematici alcuni che Archimede vogliono inalzare con maggiori e più giuste lodi, ché ci appare quasi un dio fra i meccanici, al quale tutti si indirizzano gli amanti di quest’arte. Poiché egli ha magistralmente racchiuso tutto. il globo celeste in una piccola e fragile sfera di vetro, in cui le stelle e i loro infallibili eterni moti non altrimenti apparivano che naturali […]
Pure questo Archimede ha con il suo Polispasta, e precisamente con la sola mano sinistra, tirato più di cinquecentomila staia di peso […] Infine si è egli talmente fidato in questa nostra arte meccanica, che ha osato proferire contro alla natura le seguenti parole: Da mihi ubi sistam, terramque movebo [dammi un punto d’appoggio e muoverò la terra]. [Citato da Klemm]
Più in particolare le critiche di del Monte a Tartaglia e dagli altri citati si centravano sulle affermazioni di costoro che parlavano di cammini paralleli per la discesa di corpi in caduta. Guidobaldo sosteneva che i cammini di due corpi diretti verso il centro della Terra non possono essere paralleli ma convergenti. E’ una sottigliezza che può avere senso in matematica ma certamente né in fisica né in tecnologia. A parte questa ed altre piccole sfumature l’opera di del Monte sarà un importante riferimento per Galileo anche per la condivisione di fondo dell’utilità della meccanica al servizio del lavoro degli uomini.
SIMON STEVIN (Bruges 1548 – L’Aia 1620)
Nel 1586 il fiammingo Simon Stevin nei Principi di statica (scritto in olandese con il titolo De Beghinselen der Weegconst)enuncia la teoria del piano inclinato (già indagato da Nemorario) e del parallelogramma delle forze, fondamenti della statica moderna. E’ famoso l’apparato di Stevin a proposito dell’equilibrio sui piani inclinati. Stevin lavorava alla costruzione di dighe, fortificazioni, mulini ad acqua. Per il suo lavoro erano indispensabili macchine che fossero in grado di alzare grandi pesi. Stevin cercò di trovare una macchina che realizzasse il moto perpetuo. Per eliminare ogni facile ironia occorre dire che all’epoca non vi era nulla di teorico che impedisse di pensare tale cosa.

L’apparato utilizzato da Stevin per mostrare l’equilibrio in un piano inclinato.
Non siamo a conoscenza degli apparati che costruì per realizzare la sua impresa ma, è certo, egli seppe trarre vantaggio dagli insuccessi iniziando con l’accettare l’impossibilità del moto perpetuo e quindi ricavando da un apparato che avrebbe potuto dare moto perpetuo (la catena che si sarebbe srotolata con continuità ruotando intorno al triangolo che disegna la sezione verticale del piano inclinato), le leggi del massimo che si sarebbe potuto ottenere e cioè l’equilibrio. Egli realizzò così due piani inclinati poggianti sullo stesso piano e con medesima altezza, tali che messi insieme avessero formato un prisma triangolare. Appoggiò sul sistema una catena chiusa con pesanti maglie in grado di scivolare con pochissimo attrito lungo i due piani inclinati. A prima vista sembrerebbe che la catena dovrebbe scivolare sulla sinistra della figura perché lì vi è maggiore peso (12 maglie invece di sei). Se ciò avvenisse avremmo realizzato il moto perpetuo perché sempre sulla sinistra vi sarebbero il doppio delle maglie che a destra. Stevin ebbe a scrivere wonder en is gheen wonder (un meraviglia che non meraviglia). Si era reso conto che il peso delle maglie opera tanto meno quanto minore è l’inclinazione del piano. Pertanto i pesi sistemati su piani inclinati si mantengono in equilibrio se sono proporzionali alle lunghezze dei piani. Se uno dei piani è perpendicolare alla base, allora il tratto verticale di catena rappresenta la forza che mantiene in carico sopra il piano obliquo: la forza sta quindi al carico come l’altezza del piano inclinato alla sua lunghezza. Questa conclusione è molto importante. Elaborandola si arriva alla regola del parallelogrammo delle forze che Stevin formulò nel 1585 (vedi tratta da Stevin) ma che dovette attendere il 1687 (Varignon) per averne una formulazione moderna.

Nella sua Statica, Stevin si occupò anche delle condizioni di equilibrio della leva riconducendole a quelle di una bilancia a bracci uguali. Un prisma retto omogeneo viene supposto sospeso per il suo centro (vedi figura), che è nello stesso tempo il suo centro di gravità, T.

È evidente che sarà in equilibrio. Dividiamolo mentalmente in sei parti uguali con le rette AD, FG, GH, IK, LM, VO, BC. Uniamo, ancora mentalmente, le quattro parti di sinistra e le due parti di destra: i loro centri di gravità rispettivi saranno in S e in X. Sostituiamo ciascuno di tali corpi con un peso uguale sospeso al centro di gravità di ciascuno, questi essendo uniti da una sbarra rigida: l’equilibrio non ne sarà modificato. Ora, la distanza che separa T da S e da X è inversamente proporzionale ai pesi sospesi. E questa proposizione ha valore generale qualunque sia la forma dei corpi in questione o la maniera in cui sono sospesi alla rigida della bilancia.
Stevin è anche noto per essersi occupato di idrostatica, lavorando su quanto aveva realizzato Archimede, nel suo De Beghinselen des Waterwichts e sempre con lo stesso spirito, quello della ricerca delle condizioni di equilibrio. Riuscì a mostrare che la pressione che si esercitata da un liquido su una determinata superficie dipende dall’area della superficie e dall’altezza del liquido. Nel 1605 dimostrò che la pressione di un liquido sul fondo di un recipiente è indipendente dalla forma del recipiente e proporzionale al peso specifico del liquido (paradosso idrostatico).
I lavori di Stevin avrebbero avuto certamente attenti lettori se solo fossero stati scritti in lingua diversa dall’olandese che, per il suo sciovinismo (la riteneva la lingua più antica del mondo e la più adatta a scrivere di scienza), egli si ostinava ad utilizzare. Purtroppo, oltre a questo inconveniente, le sue opere furono pubblicate molto tardi tra il 1605 ed il 1608 ed addirittura dopo la sua morte (1634) in traduzione francese.
QUALCHE CONSIDERAZIONE CONCLUSIVA
Quello delineato era il clima e la cultura del Rinascimento. Una quantità di influssi diversi e contraddittori che si sommarono facendo emergere con molta fatica quella che è in gestazione, la rivoluzione scientifica del Seicento. Personalmente sono convinto che fu proprio il cambiamento dei modi di produzione che costruì una tradizione di artigiani, costruttori ed ingegneri, ricollegandosi ai quali trovarono ispirazione gli scienziati del secolo XVII. L’Università dette qualche contributo ma l’anima dei cambiamenti avveniva nelle vari botteghe ed opifici che chiedevano di uscire da un mondo chiuso e dogmaticamente definito. Una lotta sotterranea tra i dotti peripatetici e coloro che si sporcavano le mani con la meccanica che i primi bandivano dalle loro discussioni o la relegavano ad insegnamento minore a lato della matematica. E’ l’entrare in problemi concreti e nel tentare di risolverli che sarà l’anima del cambiamento dietro il quale si stagliano i giganti del mondo greco ed ellenistico, con il fondamentale contributo di Archimede. Contribuì anche l’astronomia ma quella era un problema colto ed apparentemente astratto ed estraneo ai problemi dei drenaggi delle miniere. Poi le due cose si saldarono e le questioni cosmologiche assunsero la stessa valenza dei problemi delle gittate delle bombarde.
Le nuove conoscenze che si erano andate accumulando con rapidità durante il Cinquecento non erano più neppure interpretabili mediante i sillogismi aristotelici erano proprio cose dell’altro mondo in cui vecchi parrucconi, in genere preti, tentavano di esorcizzare il mondo con la messa di una lezione antica e vuota. I contenuti scientifici delle lezioni erano elementari e di base, comunque insufficienti a capire quanto di nuovo emergeva in meccanica, in astronomia, in geografia, in cartografia, in medicina. Fino alla Controriforma neppure vi era un’opposizione culturalmente organizzata contro il nuovo. Il petto dei peripatetici era gonfio della certezza che nessuno avrebbe potuto scalfire le certezze del Filosofo, del maestro di color che sanno. Intanto si facevano strada altre filosofie che diventarono sempre più pericolose. In Italia vi era un subbuglio culturale, un rimescolamento di conoscenze, di tentativi scollegati ma tutti portatori di profonde insoddisfazioni di tanta volontà di capire e cambiare sempre incanalata nella chiusa ed ottusa ortodossia peripatetica ed ecclesiastica. Ancora Valla, Ficino, Pico e fors’anche Pomponazzi poterono muoversi abbastanza tranquillamente. Poi i problemi con l’Inquisizione dei filosofi della natura di Telesio, di Patrizi, di Campanella, e, finalmente, del personaggio le cui aperture e spinte verso il futuro caratterizzarono il secolo, in tutto, anche nel far emergere la bestialità della Chiesa che iniziò con galere, torture, bracieri, roghi e morte, a reprimere ogni opposizione al suo satrapo potere.
Si ripassino ora le vicende del Cinquecento e ci si soffermi sul ruolo motore che ebbe l’Italia in tutti i campi del sapere. Si faccia attenzione a cosa accadde ancora in Italia neppure cinquanta anni dopo. Il nostro Paese era ridotto ad un deserto mentre il resto dell’Europa, che accorreva prima in Italia per istruirsi su ogni sapere, emergeva, cresceva e si imponeva, attenzione, non solo culturalmente ma economicamente perché cultura e sapere sono indissolubilmente legati alla crescita del benessere economico e sociale.
NOTE
(1) La credibilità di Hermes e la sua accettazione da parte cristiana è dovuta al pensatore cristiano Lattanzio che volle assegnare a tali testi una sorta di premonizione “pagana” del Cristianesimo ricercando in vari passi episodi accaduti e ritrovando le espressioni chiave del Cristianesimo (il Dio Padre, il Figlio di Dio, il Verbo). S. Agostino accreditò poi una datazione che portava Hermes ai tempi di Mosè mentre quegli scritti, frutto di vari autori, risalivano al II secolo d.C.
(2) Vannoccio Biringuccio (1480-1539) era un maestro artigiano nella fusione e nella metallurgia. Lavorò in miniere di ferro, nella zecca e nell’arsenale di Siena. Quindi lavorò alla fusione di cannoni prima per Venezia, poi per Firenze. E’ da notare che a Biringuccio è dovuta la prima descrizione della fusione dei caratteri tipografici che fu considerata la migliore fino alla fine del Seicento.
(3) Georg Bauer o Agricola (1490-1555) fu uno scienziato e mineralogista tedesco. Scrisse il dialogo Bermannus, sive de re metallica dialogus (1530) nel quale per la prima volta si intersecavano conoscenze scientifiche sui minerali con tecniche lavorative. Quindi scrisse il famoso De re metallica libri XII (1556) che fu tradotto in volgare nel 1563 (De l’arte de’ metalli), un vero trattato di metallurgia, insuperato per circa 200 anni. Nell’introduzione di questa fondamentale opera veniva citato Biringuccio:
Nuper uerò Vannocius Biringuccius Senensis, homo disertus, & multarum rerum peritus, uulgari Italorum sermone tractauit locum De metallis fundendis, separandis, agglutinandis.
(4) Non accennerò neppure a Leonardo da Vinci per la vastità della sua opera e perché egli è ancora all’interno della cultura della completa segretezza dei suoi lavori con l’unica attenuante che qui ci troviamo di fronte ad un creatore che tiene molto a difendere la sua opera da copiature e plagi. In ogni caso ho ampiamente trattato Leonardo in altro lavoro.
(5) Nel 1494 Bartolomeo Diaz arrivò al Capo di Buona Speranza. Nel 1497 Vasco de Gama circumnavigò il Capo di Buona Speranza e si spinse fino alle coste indiane, smentendo il fatto teorizzato da Tolomeo dell’esistenza di un continente meridionale. Tra il 1517 ed il 1520 Magellano circumnavigò la Terra. Si scoprì che le leggi naturali si manifestano allo stesso modo ovunque e che la volta celeste esiste con altre costellazioni anche nell’emisfero meridionale.
(6) Tommaso Campanella, nella Città del Sole (1602), scriveva: v’è più historia in cent’anni che non ebbe il mondo in quattromila; e più libri si fecero in questi cento che in cinquemila; e l’invenzione stupende della calamita e stampe ed archibugi, gran segni dell’unione del mondo. Vi è qui un cenno all’insieme delle invenzioni che creò un cambiamento radicale nella concezione ed articolazione del mondo: la stampa, la bussola e la polvere da sparo. Su queste invenzioni si soffermò Francesco Bacone (1551-1626) affermando (1620) che nessun impero, nessuna setta, nessuna stella sembra aver esercitato sulle cose umane un maggior influsso e una maggiore efficacia.
(6bis) Georgius Agricola, ovvero Georg Bauer (1494-1555), nato in Sassonia studiò discipline classiche all’Università di Lipsia, quindi per qualche anno si dedicò all’insegnamento del latino e del greco. Nel 1522 iniziò lo studio della medicina, prima a Lipsia, quindi a Bologna e Padova dove si laureò nel 1526. Esercitò come medico in una cittadina in cui si trovavano delle miniere d’argento ed i suoi interessi si diressero verso la geologia, la metallurgia e la mineralogia. Continuò ad esercitare la professione medica ma iniziò ad elaborare studi di mineralogia molto approfonditi che lo portarono a scrivere il suo famoso De re metallica che fu pubblicato nel 1556, un anno dopo la sua morte.
(7) L’intera De re metallica, con tutte le sue illustrazioni, si vede agilmente in http://knihovna.vsb.cz/knihovna/agricola/uvod.html . Il lavoro di Biringuccio, la Pirotechnia, si trova in http://fermi.imss.fi.it/rd/bdv?/bdviewer/bid=302960#
(8) Nel titolo di questa traduzione vi è un errore in cui caddero molti. Euclide viene dato per originario di Megara (dove vi era un Euclide filosofo, contemporaneo di Socrate e Platone) e non di Alessandria.
(9) Il titolo di questo lavoro è tutto un programma, tra l’altro molto coraggioso in un’epoca in cui i filosofi erano in gran parte preti (e forse è questo il motivo dell’addolcimento dei toni nella seconda versione del libro che sarà pubblicata nel 1585). Questo libro ebbe un grande successo e fu stampato anche all’estero. In particolare fu letto da Simon Stevin.
(10) Questo postulato di Benedetti richiama quanto aveva scritto Giordano Nemorario nel suo De ponderibus. In tale brano Nemorario aveva considerato un grave discendente su due piani diversamente inclinati affermando che il rapporto tra le velocità acquisite da questo grave nei sue piani, in dati intervalli di tempo, stanno tra loro nella medesima proporzione degli sforzi che sarebbe necessario applicare al grave per sostenerlo in riposo sia in uno che nell’altro piano inclinato.
(11) A tale proposito Koyré ci presenta due esempi:
– il moto rettilineo prodotto dalla rotazione di un cerchio

l’andirivieni al punto d passando sulla linea A non comporta arresto.
– la rappresentazione del moto del punto di intersezione i sulla linea xr nel caso in

cui la linea ao ruoti intorno al punto a. Il punto a, slittando verso t, fa si che mai il punto i possa raggiungere r.
(12) M Biagioli, The social status of Italian mathematicians, 1450-1600, Hist. of Sci. 27; 75; 1; p. 41-95; 1989.
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