LA BIBBIA: UNA CATTIVA MAESTRA (1)

Violenze, assassini, prostituzione, incesti: uno scenario orrendo raccontato dalla Parola di Dio

PRIMA PARTE

Roberto Renzetti

Settembre 2010

NON BISOGNA MENTIRE

2483 La menzogna è l’offesa più diretta alla verità. Mentire è parlare o agire contro la verità per indurre in errore. Ferendo il rapporto dell’uomo con la verità e con il suo prossimo, la menzogna offende la relazione fondamentale dell’uomo e della sua parola con il Signore.

        Tralasciando l’ultima parte che evoca una fede, una metafisica priva di ogni riscontro, la frase dice qualcosa di vero e di fondamentale per instaurare un rapporto tra due persone, una persona ed una comunità, una persona ed un’istituzione, tra due comunità, due istituzioni, … Questa frase è tratta dal Catechismo della Chiesa Cattolica, edito dalla Città del Vaticano nel 1992.

        E’ a partire da una ricerca delle menzogne che mi accingo a scrivere le pagine seguenti.  Di quelle menzogne che da secoli vengono accettate acriticamente e che abbisognano invece almeno di una discussione con tutti gli elementi che possono aiutare a capire.

        L’argomento che mi propongo di analizzare è molto antico ed ancora aperto, si tratta del libro per antonomasia, la Bibbia. Parto dalla Bibbia perché è un poco l’origine di tutti i nostri mali, di quelli occidentali dico. Su questo mito si sono costruite tantissime cose, alcune degne ma la gran parte orrende. La questione di fondo è: si può ritenere la Bibbia, nell’accezione Vecchio Testamento, un libro educativo ? Può essere utilizzato per essere la base di un  discorso civile che coinvolga le persone di un Paese presuntamente civile ? La mia tesi è che ciò non è possibile e che, di più, il libro è addirittura nefasto perché educa alla violenza, ad essere spietati, a difendere il proprio da clan da tutto e tutti con tutti i mezzi, soprattutto quelli più subdoli e, oggi diremmo, criminali.

        Ma perché occorre parlarne ? Perché la Bibbia viene spacciata come il libro con la massima diffusione al mondo e quindi va o dovrebbe andare a toccare le coscienze di un paio di miliardi di persone (i cristiani di ogni setta e gli ebrei). Ho utilizzato la parola “diffusione” perché dietro di essa vi è un primo grande imbroglio, almeno a livello dei cristiani cattolici (circa un miliardo di persone). Il libro è forse il più venduto tra i cattolici ma NON è certamente il più letto. Direi anzi che è il libro meno letto nella biblioteca dei cattolici. Non posso credere che chi abbia letto le oscenità presenti nella Bibbia, possa seguire a dirsi discendente di quegli insegnamenti. Più comprensibile è il credo nella Bibbia da parte ebraica. Quel libro è riferito a loro come popolo eletto, parla delle loro vicende, della loro storia e del loro diritto a determinate terre. Rinunciare ad esso è rinunciare a se stessi.

        Per parte mia parlerò di questo libro per ciò che è e non per ciò che ispira o dovrebbe essere. Tenterò di farlo non attraverso una visione ideologica ma solo attraverso dati di fatto, contesto storico, fonti e testo medesimo in discussione.

        Chi ha fede la manterrà, e forse la fortificherà. Non sono certo gli studi storico critici in grado di scuotere una fede, altrimenti che fede è ? Quindi il voler vedere in chi tenta una lettura storica, intersecantesi con una religiosa, uno che attacca i fondamenti della civiltà è esagerato ed a me fa sentire importante. Piuttosto sarebbe di interesse avere delle obiezioni sul contenuto e non, come da decenni mi accade, sul metodo e su questioni al contorno.

        Mi servirò di vari testi che ritengo documentati su ciò che scriverò. A lato di ogni mia affermazione inserirò tra parentesi quadra il numero del testo di bibliografia da cui ho tratto la citazione o l’argomento  che ho riassunto. Mi propongo di non mentire.

DOVE E COME NASCE LA BIBBIA

        Una premessa a ciò che dirò è relativa alla metodologia ed ai documenti. Poiché l’intero discorso che seguirà è riferito a fatti e/o leggende costruite in un territorio che in linea di massima va dalla Mesopotamia all’Egitto, passando in particolare per Siria e Palestina, è necessario conoscere almeno alcuni elementi di storia e geografia del territorio. Riporto in proposito quanto scritto nel volume 7 della Storia delle religioni [1]:

Per quanto riguarda l’aspetto metodologico, va detto subito che la possibilità di impostare discorsi storico religiosi dal respiro più o meno ampio è totalmente legata allo stato della documentazione. Le attuali conoscenze sono frammentarie perché limitate ad alcune formulazioni religiose locali, spazialmente e cronologicamente assai discontinue. La natura degli archivi, la tipologia dei testi, le rilevanti difficoltà filologiche che si frappongono spesso alla comprensione dei documenti, rendono improponibili sintesi che aspirino alla sistematicità. Parlare di «religione siriana» appare del resto illusorio e metodologicamente infondato, così come in parte fuorviante risulta isolare le culture su esclusiva base linguistica, essendovi sempre stata una continuità di contatti e di scambi in ogni senso. L’unica via realisticamente praticabile è quella di procedere per caute e parziali messe a punto, soffermandosi là dove le fonti lo consentono e additando altrimenti aspetti caratterizzanti o problemi specifici senza alcuna pretesa di esaustività o continuità cronologica. Abbiamo infatti di fronte un vastissimo mosaico, in cui il numero dei tasselli mancanti è incomparabilmente superiore a quelli che crediamo di poter inserire. L’esposizione che segue mira dunque soprattutto a mettere a fuoco alcuni momenti, aspetti e tendenze delle manifestazioni religiose dell’area siro-palestinese, in epoche privilegiate dal possesso di adeguata documentazione scritta, con l’impiego di ogni altro tipo di fonte utile dal punto di vista storico-religioso. Dal momento che i documenti solo raramente ci informano sulla mitologia o sul culto, grande attenzione meriterà l’onomastica personale e perfino la toponomastica, repertori in cui è frequente ritrovare teonimi, epiteti e piccole frasi che possono darci indizi sulla natura delle divinità menzionate.

        Fatta questa premessa, seguiamo le linee fondamentali di sviluppo del popolo (in linea di massima) ebraico che, nella zona siro-palestinese, ha originato la Bibbia. La situazione è ben descritta dallo storico del cristianesimo Ambrogio Donini [2] e la riporto di seguito:

    La convinzione popolare sull’origine antichissima degli ebrei, e della loro religione, è dovuta soprattutto ai primi libri della Bibbia, che fanno risalire la storia di questo popolo agli inizi della creazione del mondo.
    A parte il fatto che tutte le religioni tendono a richiamarsi alle origini stesse della vita sulla terra, la verità è che i primi libri del Vecchio Testamento, pur richiamandosi a tradizioni anteriori, sono dovuti a una elaborazione molto tarda e risentono di precedenti influssi egiziani, babilonesi, ugaritici, persiani e persino greci. Essi non ci danno una documentazione diretta sui primordi del popolo ebraico; ma ci riferiscono semplicemente quello che su queste origini si credeva, in Israele, tra il III e il II secolo a. C., cioè grosso modo nello stesso periodo di tempo che ha visto fiorire la letteratura della Grecia classica e iniziarsi la letteratura latina.
    La storia documentata di quasi tutti gli altri popoli del vicino ed estremo oriente, e dello stesso mondo mediterraneo, risale di alcuni millenni più indietro.
    La religione giudaica, contrariamente a quel che comunemente si pensa, si è formata dunque in età abbastanza recente.
    Si tratta di un processo molto complicato, al quale hanno contribuito le civiltà più varie dell’oriente: i fenici, gli assiri e i babilonesi, eredi della cultura sumerica, gli egiziani e gli ittiti, senza parlare delle genti dette indoeuropee, il cui apporto alla primitiva storia della nazione ebraica è forse più importante di quanto non si sia sino ad oggi ritenuto.
    I primi documenti nei quali si fa menzione degli ebrei sono del XIV secolo a. C.; il nome collettivo Israele, attribuito a popolazioni dimoranti in Palestina, s’incontra per la prima volta in un’iscrizione egiziana del 1225 a. C. circa.
    Genti di lingue profondamente diverse, le une di origine semitica (cananei, fenici) e le altre probabilmente di derivazione indoeuropea (filistei), abitavano già da decine di secoli la Palestina, prima che gli ebrei vi entrassero violentemente, le armi in pugno. È una striscia di terra che si estende tra il mar Mediterraneo e il deserto arabico, limitata a nord dalle catene montagnose della Siria (monte Ermon), a sud dalle ultime propaggini del territorio egiziano (deserto idumeo) e divisa in due dall’avvallamento del fiume Giordano, che nasce dall’Ermon; attraversa il lago di Tiberiade e finisce nel Mar Morto.
    Lo stesso nome di Palestina, che originariamente indicava soltanto la piccola fascia costiera da Giaffa in giù, e venne dato in seguito per estensione a tutta la regione, significa letteralmente «il paese dei filistei» (Pelishtim).
    La penetrazione ebraica in Palestina rientra quasi certamente nel complesso di quei grandi spostamenti di tribù beduine, che hanno avuto luogo nel corso del XII secolo a. C. e segnano, tra l’altro, la transizione di larghi agglomerati umani dal nomadismo alla vita sedentaria, dalla pastorizia alla coltivazione dei campi, in seguito alla scoperta di nuovi strumenti di produzione (passaggio dagli utensili di pietra a quelli metallici). A questo stesso periodo risalgono le invasioni degli Hyksos, di cui si sa ancora cosi poco, le migrazioni doriche in Grecia e l’insediamento delle tribù italiche nella nostra penisola.
[…]
    Le primitive popolazioni ebraiche facevano parte di quelle tribù erranti, del tipo dei beduini, ancora oggi localizzate nel deserto arabico, che si spostavano continuamente verso la costa, in cerca di territori su cui potersi fermare e in aspra lotta con le genti che già in precedenza si erano fissate sugli stessi luoghi, per esercitarvi l’agricoltura e forme più evolute di allevamento del bestiame.
Il carattere combattivo di questi popoli è dimostrato dall’etimologia del loro stesso nome.
    Israele, o meglio i «figli di Israele», al collettivo, una delle designazioni più antiche sotto le quali questo popolo si presenta alla storia, significa molto probabilmente «colui che combatte», il «guerriero», «colui che vince». La tradizione biblica vuole che l’eroe nazionale Giacobbe, considerato il padre delle dodici tribù, mutasse il suo nome in quello di Israele dopo essere uscito vittorioso da una partita di lotta con l’angelo di Dio, anzi con Dio stesso (Genesi, XXXII, 24 e sgg.); ma si tratta solo del tentativo di dare una spiegazione mitica di una designazione che non appariva più giustificata dai fatti.
    Anche il termine ebreo, che è entrato nell’uso in età meno arcaica, potrebbe significare il «nomade», il «razziatore», da una radice che implica il concetto di «operatori di scorrerie»; o anche, secondo un’etimologia accettata oggi dalla maggior parte degli studiosi, «colui che abita al di là del fiume» (ibri), sia esso il Giordano in Palestina o l’Eufrate in Mesopotamia, per indicare i clan nomadi che premevano dal deserto verso le terre alberate, fertili e irrigate delle zone più vicine alla costa del Mediterraneo orientale. Sono questi senza dubbio i Khabiru, menzionati nelle tavolette egiziane di El-Amarna, dei tempi di Amenofi IV, nel XIV secolo a. C..
    Quanto al nome di giudei, che spettava di regola solo a una delle dodici tribù di Israele, quella di Giuda (Yehudt) e che più tardi è stato attribuito, per estensione, all’intero popolo ebraico, dopo la distruzione del regno meridionale ad opera dei babilonesi, si deve osservare ch’esso non aveva affatto, nell’antichità, quei riflessi scioccamente dispregiativi che ha assunto in molte delle lingue moderne. È sotto il nome di «giudei», anzi, che la storiografia classica ha conosciuto questo popolo: e il termine di giudaismo è il più appropriato per indicare la loro religione, soprattutto a partire dal VI secolo dell’èra antica, quando avevano perduto la loro indipendenza nazionale.
Inizialmente, il popolo ebraico ha conosciuto le diverse manifestazioni della vita religiosa che accompagnano il sorgere di un agglomerato nomade e il suo graduale passaggio all’economia tribale. Il culto degli animali, degli alberi, delle pietre, dei fenomeni atmosferici, delle acque e delle sorgenti, caratteristico della fase totemistica della comunità primitiva, domina la parte più antica della Bibbia, appena mascherato dalle preoccupazioni teologiche e dall’incomprensione degli ultimi redattori. A questa stessa epoca si riferiscono quelle prescrizioni rituali che sono tipiche di una società dedita prevalentemente alla caccia e alla pastorizia, quali i tabù alimentari e la pratica della circoncisione: quest’ultima usanza, pur riscontrandosi di regola presso gli arabi e presso numerose tribù dell’ Africa tropicale ed equatoriale, è diventata poi nella fantasia popolare una delle caratteristiche fondamentali del giudaismo.
    Il serpente e il toro sono i due animali che hanno lasciato tracce più profonde nella tradizione religiosa di Israele.
    Come totem e come dio della fertilità il serpente appare in primo piano in tutta l’area palestinese. Dal racconto della funzione del serpente nella tentazione di Adamo al «serpente di bronzo» di Mosè, distrutto dal re Ezechia nell’VIII secolo a. C., la letteratura biblica ne offre testimonianze frequenti e pittoresche. Il nome del serpente, seraph, si ritrova nei Serafini, gli angeli alati che fanno la guardia al trono di Dio; ed è molto probabile che nell’arca santa, costituita da un cofanetto rosso, come quello usato dagli arabi nelle loro migrazioni nel deserto, fosse rinchiuso dapprima un serpente vivo, simbolo del dio Jahvè, nato nel deserto e identificato di volta in volta anche con il vento, il tuono, il fuoco, la pietra, il monte, la sorgente. Quello che è certo è che il nome dei primi sacerdoti di Jahvè, i «leviti», si ricollega al culto dei serpenti: il termine arabo lawah, che vuol dire snodarsi, strisciare, torcersi, e l’etimologia del Leviathan, il temibile drago dei primordiali miti ebraici, ci riportano allo stesso concetto.
    Quanto al toro, le cose sono ancora più chiare. Il gran sacerdote di \ questo culto, professato nel nord della penisola sinaitica, non era altri che Aronne, fratello di Mosè. Più tardi, in segno di disprezzo, la Bibbia ci parlerà solo di un vitello, raffigurato da una scultura d’oro. Ma resta il fatto che ancora all’epoca dei re nel «santo dei santi», la dimora di Jahvè, si trovavano le statuette dorate di due tori, che venivano portate a spalla in processione ed esposte alla venerazione dei fedeli (I Re, XII, 28; II Re, X, 29; XVII, 16). Il culto di un dio tauriforme della fertilità, diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo, doveva aver raggiunto tra gli ebrei un tale grado di sviluppo, che secondo il racconto biblico lo stesso Mosè morente, nel benedire le dodici tribù di Israele, attribuisce il soprannome di «toro maestoso» alla discendenza del figlio primogenito di Giuseppe, Efraim, che «ha corna di toro selvaggio» (Deuteronomio, XXXIlI, 17).
[…]
    Anche nella storia del popolo ebraico l’idea di un solo dio, superiore agli altri, compare nel momento in cui dalle varie tribù e genti si costituiscono le prime istituzioni monarchiche. Da molti capi, un solo re; dalla fede in molte divinità, emerge lentamente l’idea di un sommo iddio, che dapprima si presenta solo come «più forte» di tutti (enoteismo, o meglio monolatria, culto di un dio gerarchicamente più elevato) e poi come «unico», a esclusione di ogni altro.
[…]
    È esatto, tuttavia, che una concezione strettamente monoteistica non poteva nascere, nella mente degli israeliti, prima ch’essi avessero fatto l’esperienza del regime monarchico. Ma la credenza in un solo dio, difesa con tanto vigore dai profeti del VII-VI secolo, si è sviluppata poi in modo autonomo, indipendente dalle condizioni reali che ne spiegano l’origine, ha acquistato nuova forza e ha reagito a sua volta sullo stesso tessuto politico e sociale. L’evoluzione del giudaismo, dalla costituzione della monarchia nel 935 a. C. alla sua scissione e poi alla sua caduta sotto i colpi dei conquistatori assiro-babilonesi, ce ne offre una riprova molto efficace.
Accanto alle divinità tipiche della comunità primitiva, gli ebrei, nelle loro trasmigrazioni piene di rischi e dense di pericoli, quando non erano ancora usciti dal deserto arabico, avevano elaborato un’altra delle credenze dei nomadi: l’esistenza di forze misteriose, menzionate ora al singolare ora al plurale (ElElohim), che accompagnavano la tribù nella sua marcia, chiuse in una cassetta portata a spalle, nella quale prendono riposo durante le lunghe soste.
    La critica storica ha potuto identificare i due documenti fondamentali dell’antica tradizione religiosa ebraica, che sono stati fusi nei primi libri della Bibbia, sino a duplicare talvolta la narrazione degli stessi miti: quello che chiama la divinità Elohim e quello che usa invece la denominazione Jahvè. Ma quale dei due sia il più antico non è facile stabilirlo, dato il processo di rielaborazione cui questi testi sono stati sottoposti, dopo l’esilio babilonese, da parte delle caste sacerdotali.
    La voce El si legge anche in testa a un elenco di molte divinità nelle tavolette di argilla in lingua ugaritica, scoperte tra il 1929 e il 1933 dallo Schaeffer a Ras Shamra, il nome arabo dell’antica Ugarit, sulla costa siriaca, datate del XIV secolo a. C.; qualche volta si accompagna a un femminile, Elat, residuo forse dell’età matriarcale.
    La lettura esatta dell’altro termine, Jahvè, non può essere invece fissata con sicurezza, perché sino a età molto tarda, contemporanea alla nascita del cristianesimo, questo nome continuava a essere scritto con le lettere dell’alfabeto fenicio, da tempo sostituito nella prassi comune con la scrittura «quadrata» ancor oggi in uso: e la sua pronuncia esatta era tenuta segreta, per evitare il pericolo di una concorrenza magica da parte dei nemici d’Israele. Forse era Jahu o Jeho, che si ritrova in alcune formule rituali come hallelu-ja («sia glorificato Iddio») e in molti nomi propri, tra cui Jeho-shua («soccorso di Dio»), che stranamente noi rendiamo ora con Giosuè e ora con Gesù.
    Un’altra denominazione era Jao, che con etimologia immaginaria gli ambienti antiebraici di Alessandria facevano risalire all’egiziano Eio (asino). Di qui l’accusa che gli ebrei adorassero una divinità a testa asinina; nel II secolo d. C. tale insinuazione verrà ripresa contro gli stessi cristiani. Pompeo, quando nel 63 a. C. penetrò con la forza nel tempio di Jahvè a Gerusalemme, rimase stupito di non trovare nell’arca l’immagine del dio-asino, che gli era stata indicata come una caratteristica del culto giudaico.
    Può darsi che alla lettura Jahvè si sia arrivati sotto l’influenza di una spiegazione teologica, che accostava il nome di dio a una forma del verbo essere: «colui che è». Anche questa divinità aveva del resto una celeste consorte; e la sua storia, sino alla riforma profetica, non si differenzia molto da quella di tutti gli altri dèi succeduti al periodo pastorale, sempre idealizzato dagli antichi ebrei. Si ricordi che nel Vecchio Testamento la vita del pastore è tenuta nella più alta considerazione, tanto che una metafora stereotipata, che avrà grande sviluppo nel cristianesimo, assimilava Iddio al «buon pastore». Solo nel III secolo d. C., quando l’allevamento del bestiame era ormai da tempo svalutato, un rabbino, Hama Ben-Hamina, farà notare la contraddizione tra l’appellativo di «pastore», dato dalla Bibbia alla divinità, e la poca considerazione in cui veniva tenuto quel tipo di occupazione.
    Quanto alla dizione Jehovah, italianizzata in «Geova», essa ha un’origine linguisticamente chiara, perché dovuta a una pura e semplice traslitterazione liturgica.
    Ogni volta che nelle sacre scritture incontravano le quattro consonanti del nome divino, JHVH (il «tetragramma») – senza le vocali, che furono aggiunte soltanto alcuni secoli dopo l’inizio della nostra èra – il sacerdote o il pio lettore erano tenuti da tempi immemorabili, per la regola del «tabù», a sostituirlo per la recitazione ad alta voce con l’appellativo Adonaì, «il mio signore». Più tardi, le vocali di questo termine rituale vennero inserite tra le quattro consonanti JHVH, per facilitare la lettura obbligatoria e impedire che si violasse l’antica proibizione, divenuta rigida norma di fede: di qui Jahovah o Jehovah. […]
    Le divinità dei popoli che vivevano in Palestina prima degli ebrei non erano di tipo pastorale, ma prevalentemente legate all’agricoltura e alla vita sedentaria: le forze della natura, gli alberi sacri e infine i Baal, o «signori», l’equivalente celeste dei «padroni» della terra e dei campi. A differenza delle vaghe forze misteriose venerate dai nomadi, gli dèi cananei e filistei avevano templi e culti fissi. La vittoria delle tribù ebraiche su queste popolazioni è vista dalla Bibbia come una prova della superiorità del dio d’Israele sui Baal, gradualmente ridotti al rango di esseri demoniaci (Astarte-Astarotte, Baal Peor-Belfagor, Baal Zebub-Belzebù, Bel-Beliar, e così via).
    Ma la vera e propria religione giudaica, quale era praticata ai tempi del Nuovo Testamento, si è formata in un’epoca ancora più recente, quando le tribù che erano riuscite ad occupare la Palestina modificarono radicalmente il loro modo di vita.

Città della Fenicia sulla costa siro-palestinese. La Fenicia (1100 a.C. – 500 a.C.) era una stretta striscia di terra, larga al massimo 60 Km e lunga 300 Km, situata lungo la costa della Siria, tra le montagne del Libano, della Galilea ed i monti Ansariyya (a Est), il Mare Mediterraneo (a Ovest), la città di Ra’s Nakura ed il Monte Carmelo (a Sud) e la foce del fiume Oronte e la città di Nahr el-Kelb (a Nord). Suoi centri più importanti furono: Arad, Ugarit, Biblio, Berito (odierna Beirut), Sidone e Tiro. Ricca di boschi di cedro il cui legno è particolarmente adatto alla costruzione di navi, disponeva di metalli, coltivava cereali, lino, frutta e vite ma, soprattutto, era un Paese marittimo, un centro e crocevia di scambi fra Mesopotamia, Anatolia (penisola che separa il Mar Egeo dal Mar Nero), isole dell’Egeo ed Egitto. La Fenicia, invasa e caduta varie volte sotto il dominio dei grandi imperi che lo circondavano (egiziani, ittiti, popoli del mare, assiri, babilonesi, persiani), non fu mai uno Stato ma un insieme di città Stato spesso in lotta tra loro. L’essere troppo commercianti, impedirà ai fenici di sviluppare una cultura originale; si preferirà riprodurre i modelli stranieri e ricercare ciò che più era richiesto sui mercati.

Filistei ed Israeliti in Palestina (XIII – XII secolo)

A sinistra: il regno di David (X secolo); al centro: il mosaico politico dei secoli IX-VIII; a destra: le province assire e babilonesi (secoli VII-VI). [da Mario Liverani]

    I due regni nei quali si divisero ben presto le tribù ebraiche, quello di Israele nel nord, con capitale Samaria, e quello di Giuda, nel sud, con capitale Gerusalemme, ebbero vita molto effimera. Con la deportazione di migliaia di famiglie a Babilonia, all’alba del VI secolo a. C., la storia degli ebrei, in quanto entità statale indipendente, è praticamente finita: all’oppressione sociale, contro la quale avevano reagito i primi profeti, da Amos a Geremia, si aggiunse nelle sue forme più brutali la dominazione straniera.
    Oltre alle masse deportate in schiavitù dagli invasori, decine di migliaia di ebrei emigrarono allora, più o meno volontariamente, e si stabilirono in quasi tutti i centri abitati del mondo orientale, in Grecia, in Italia, in Africa e persino in India e nella lontana Cina. Secondo i calcoli raccolti dal Baron nella sua storia sociale e religiosa di Israele, nel I secolo d. C., entro i confini dell’impero romano, su una popolazione globale di 60-70 milioni si contavano circa 7 milioni di ebrei, oltre 6 milioni dei quali fuori della Palestina. E dalla catastrofe della libertà nacque e si sviluppò l’attesa di un «salvatore» politico e religioso, che non poteva essere concepito che sotto l’aspetto di un nuovo «re», il messia, capo di eserciti e liberatore nazionale.
    Questa nuova ideologia, di cui è facile ricostruire tutte le fasi di sviluppo, si è identificata con la riforma monoteistica predicata dai «profeti», contribuendo così a dare alla religione giudaica quell’aspetto tipico, che secoli e secoli di storia non hanno più cancellato.
Nel 621 a. C., secondo un’antica tradizione raccolta da Aristotele, venne promulgata ad Atene la costituzione di Dracone.
    La storia di Roma, che secondo la leggenda era stata fondata appena un secolo e mezzo prima, non era ancora uscita dalle nebbie del mito. In oriente dominavano sempre le grandi monarchie accentratrici, che avrebbero cercato ben presto di spingere le loro conquiste sino alla penisola greca. Ispirata ai principi di una rigida supremazia di classe, la riforma draconiana segnava il passaggio a un tipo di potere statale più evoluto, basato sull’alleanza tra la vecchia aristocrazia del sangue e la nuova aristocrazia del denaro (timocrazia), ai danni della grande massa dei liberi coltivatori, degli artigiani e degli schiavi.
    In Palestina, invece, nel regno meridionale di Giuda, dove i rapporti sociali si erano mantenuti a uno stadio più arretrato, lo stesso anno è contrassegnato dal primo delinearsi di quel tipo di regime statale che, con la perdita dell’indipendenza nazionale, gli ebrei avrebbero ulteriormente sviluppato sino all’occupazione romana: un governo teocratico, controllato dalle caste sacerdotali, direttamente o indirettamente. Proprio nel 621 a. C., nel diciottesimo anno del regno di Giosia, il gran sacerdote Ilchia annunziava di aver «ritrovato», nel corso dei restauri nel Tempio, un rotolo che conteneva il testo originale del «libro della legge».
    Di «scoperte» di questo genere, grazie alle quali si vuol giustificare una riforma politica o religiosa in contrasto con la prassi del tempo, è ricca la storia di tutte le antiche società. Che cosa fosse, in realtà, questo «libro della legge», è difficile precisarlo. La critica moderna è arrivata alla conclusione che si trattasse, in sostanza, di quel che si suol chiamare il Deuteronomio, cioè la «seconda legge», l’ultimo dei cinque libri che la tradizione attribuisce a Mosè.
    Con la riforma proclamata in questo testo, abilmente rimaneggiato, venivano cancellate tutte le tracce dei vecchi culti che il popolo d’Israele aveva adottato dai cananei: il Tempio venne purificato e l’altare dove i fanciulli erano immolati ai Baal solennemente sconsacrato. […] La legislazione di Giosia ribadiva l’obbligo per tutti gli ebrei di mantenersi fedeli a una sola divinità, a esclusione di tutte le altre.
Tra il popolo ebraico e il suo dio veniva stipulato una specie di contratto, un’alleanza, un «patto»: la nazione affidava le sue sorti a Jahvè e in cambio riceveva la promessa di salvezza, di prosperità, di vittoria sui nemici.
    I santuari delle divinità agricole palestinesi, «da Geeba a Beersceba», vennero dichiarati immondi e soppressi; alle vocali del dio Melèk, «il re», vennero sostituite quelle della parola boscet, lo «sterco», cambiandolo così in Molèk o Molòk. Ai sacerdoti di questi culti venne impartito l’ordine di trasferirsi tutti a Gerusalemme e una rendita fu loro assegnata sui proventi del Tempio (i cohanin, plurale di cohen, «sacerdote»); ma essi si videro esclusi dalla celebrazione dei sacrifici, riservati ai leviti e in modo speciale ai membri della «casa di Sadòk», il leggendario gran sacerdote del «vero» culto di Jahvè, da cui prenderanno il nome sia la setta dei sadducei, menzionati nei vangeli, sia quella dei «figli di Sadòk», che sono al centro dei manoscritti in lingua ebraica scoperti presso il Mar Morto nel 1947.
    Venne l’invasione babilonese, venne l’occupazione persiana, subentrò il dominio di una delle dinastie nate sulle rovine dell’impero di Alessandro il Macedone; ma il sistema di governo e di culto basato su questo «patto» ha continuato a svilupparsi in Israele, sino alla conquista romana.
    Artefici e gelosi custodi di questa riforma furono i «profeti», che cercarono di dare un’interpretazione di tutta la storia partendo da questo rigido contratto tra Jahvè e il suo popolo. Tutte le disgrazie, tutte le sconfitte di Israele vennero giudicate come un segno della collera divina per le trasgressioni religiose della nazione e i crimini commessi dai suoi gruppi dirigenti. Il profetismo ebraico, che ha dato pagine di elevato valore letterario e ideale alla raccolta degli scritti biblici, partiva da presupposti religiosi e sociali ben definiti ed esprimeva non di rado lo stato d’animo di protesta e di speranza degli strati popolari più umili e oppressi della Palestina.
    Contro la dura legge della responsabilità tribale, espressa nella vecchia tradizione con le parole: «I padri hanno mangiato l’uva acerba, e si sono allegati i denti dei figli», protestano Geremia e soprattutto Ezechiele: «Solo chi ha peccato dovrà espiare con la sua morte». La condanna dei ricchi e dei potenti assume toni abbastanza spinti; viene denunciata come il più grave peccato nazionale la detenzione di uomini e donne di stirpe ebraica in schiavitù. Per questo delitto, e per essersi rifiutati di concedere piena emancipazione ai propri schiavi, i padroni dovranno essere puniti sino alla desolazione dell’intero paese (Geremia, XXXIV, 8-22).
    A differenza dei vati, delle pitonesse, delle sibille del mondo greco-romano, in Israele la funzione dei «profeti» (nabi, nebiim) non era quella di pronunciare oracoli, di predire la buona o la mala fortuna, di prevedere l’avvenire. Il termine va preso nel suo senso etimologico: profeta è colui che «parla in nome» della divinità, ad ammonimento di tutto il popolo.
    Solo in un secondo momento, quando il profeta incomincia a delineare una specie di descrizione fantastica della futura rinascita della nazione e della sua liberazione, grazie all’avvento di un re salvatore, interviene il concetto di «profezia», come viene inteso comunemente. Ma agli scritti detti profetici succederà allora una vastissima letteratura popolare, che ci porta ancor più vicini alle origini del cristianesimo: la serie degli scritti apocalittici, che s’inizia dopo la rivolta contro Antioco IV re di Siria, verso la metà del II secolo a. C., e apre nuove prospettive di decisiva importanza.

        All’influenza dei profeti è dovuta anche una legislazione di base per il popolo d’Israele. Si tratta di precetti fondamentali che hanno assunto il nome di Dieci Comandamenti. La storia di essi ci viene raccontata in modo leggendario e mitico. Intorno al XIV secolo essi sarebbero stati dettati a Mosè (o scritti) direttamente da Dio. In realtà lo stabilirsi (quasi) definitivo di tali comandamenti fu un processo lungo, durato vari secoli e conclusosi qualche secolo prima dell’era cristiana, legato, anch’esso, all’evoluzione ed assestamento del popolo ebraico.

        Nei testi in lingua ebraica non si parla comunque mai di Dieci Comandamenti ma di Dieci parole. La prima traduzione greca, quella dei Settanta (o Settantadue), parla correttamente di Decalogo (Déka lógoi). Questa espressione fu tradotta da Clemente di Alessandria e Tertulliano (già siamo ai Padri della Chiesa) con dekálogos (laddove è sottinteso biblos) e cioè Dieci libri. Comunque le originali Dieci parole rappresentano un patto di alleanza tra il Dio ed il popolo di Israele: quest’ultimo avrebbe mantenuto quel Dio e quello solo e questi garantiva a quel popolo la conquista ed il possesso della Palestina. A questo proposito continuo a leggere da Donini [2]:

    Di questo «patto», nei primi cinque libri della Bibbia, o Pentatéuco, abbiamo numerose versioni, molto diverse le une dalle altre. Ma prima di riferirle, vediamo in quali circostanze i fatti si sarebbero svolti. Quando la leggenda della promulgazione del decalogo ha incominciato a prendere forma scritta, gli ebrei risiedevano già da alcune centinaia di anni nelle zone più fertili della «terra promessa». Le genti che da tempo vi abitavano erano ormai sottomesse e in gran parte assimilate: da esse i nuovi venuti avevano appreso l’arte dell’agricoltura e il culto delle divinità campestri. Occorreva tuttavia far risalire a un atto preciso, sanzionato dal potere divino, il diritto al possesso legale del suolo. Di qui la funzione assegnata a uno dei personaggi più cari alla tradizione tribale degli ebrei: Mosè, il condottiero e il legislatore.
    In realtà, nulla permette di affermare che Mosè sia stato un personaggio storico. Il nome è di derivazione egiziana, Mesu o Mose, e non significa affatto «salvato dalle acque», come vuole la tradizione, ma semplicemente «figlio» di una determinata divinità: per esempio, Amon-MoseAton-MosePtha-Mose ecc.; aggiungendo leggenda a leggenda, il geografo Strabone lo presenta addirittura come un filosofo stoico (XVI, 2, 3). Nel terzo mese dopo la liberazione dalla «schiavitù in terra d’Egitto», Mosè sale dunque su una delle alture della penisola sinaitica, che segna ancor oggi il confine tra egiziani ed ebrei: e il dio delle tribù, Jahvè, tra tuoni, lampi e spesse cortine di fumo – residuo del culto di qualche antica divinità locale di origine vulcanica – incide di suo pugno di fronte a lui il testo dell’alleanza su due tavole di pietra, dette d’allora in poi le «tavole della testimonianza» (Esodo, XXIV, 12) o le «tavole del patto» (Deuteronomio, IX, 9, 11, 15).
    Ma il popolo eletto è «duro di cuore»: e al culto del dio tribale, venerato quand’erano nomadi e pastori, preferisce ormai quello delle divinità agricole della Palestina, tra cui il dio-toro del gran sacerdote Aronne. Sdegnato, Mosè spezza le tavole della legge e minaccia ai suoi la collera divina. Ma Jahvè, se è un dio geloso (Esodo, XXIV, 14), sa anche essere misericordioso, come dovrebbe essere il padrone verso i propri servi; e dà ordine a Mosè di ritagliare altre due lastre di pietra, identiche alle prime, e si compiace di incidervi di nuovo personalmente i suoi comandamenti.
    Secondo un’altra versione, il decalogo numero due sarebbe invece stato inciso da Mosè, sotto divina dettatura (Esodo, XXXIV, 27-28);
ma queste varianti non hanno mai preoccupato seriamente i teologi. In ogni caso, le nuove tavole vengono deposte nell’arca, che d’allora in poi riceverà il nome di «arca della testimonianza» o «arca del patto».
    Quali sono le dieci parole, o norme rituali, contenute nel patto?
    Ripetiamo che ne esistono diverse versioni; ma la critica biblica è riuscita a individuare il testo più antico, che ci fa risalire ai tempi del clan pastorale. Lo troviamo nel capitolo XXXIV dell’Esodo, il libro che descrive la movimentata fuga di Israele dalla terra d’Egitto.
    Ecco come doveva essere articolato nella sua forma primitiva:

1. Non curverai la fronte dinanzi ad alcun dio straniero.
2. Non ti fabbricherai nessun dio di metallo fuso.
3. Osserverai sempre la festa degli azzimi nel mese di nizan (marzo-aprile), in ricordo del tuo «passaggio» nel deserto (il termine ebraico per «passaggio» è pesàh, trascritto in greco paseha, la nostra Pasqua).
4. Ogni primo nato è mio: riscatterai con un sacrificio ogni primo parto del bestiame, sia grosso che minuto, e ogni primogenito tra i tuoi figli.
5. Non comparirai mai dinanzi a me a mani vuote.
6. Tre volte all’anno tutti i tuoi maschi visiteranno la faccia del Signore (le tre feste pastorali della primavera, dell’estate e dell’autunno).
7. Non lascerai colare il sangue della mia vittima in presenza del pane fermentato (è una vecchia proibizione rituale, legata al carattere sacrale del sangue e del lievito).
8. Non rinvierai al mattino la consumazione della mia vittima pasquale (perché non si esaurisca la carica magica che porta in sé ogni animale sacrificato al Signore).
9. Il fior fiore delle primizie del suolo lo porterai alla casa di Jahvè.
10. Non farai cuocere il capretto nel latte della madre sua (anche questo è un antico tabù; il rapporto tra il latte e il capretto si ritrova, come formula magica, in una delle laminette auree del culto orfico, scoperte nel 1879 nella Magna Grecia, a Turi, oggi Terranova di Sibari, in Calabria, e risalenti al VI secolo a.C.: «Capretto, sono caduto nel latte», cioè sto per diventare immortale).

    Superata la fase nomade, fattisi sedentari e déditi alla coltivazione dei campi, gli ebrei adottarono nuove forme di vita sociale, basate sulla proprietà privata e su leggi religiose più rigide. A questo periodo si ricollega il decaIogo vero e proprio, che trasforma quasi tutte le norme più antiche, divenute ormai incomprensibili, e ne aggiunge delle altre, moralmente più elevate, ma sempre nei limiti di una struttura padronale.
    Le nuove «dieci parole» – la torah, o legge del popolo, ebraico ci sono giunte in due versioni non sempre identiche, che possiamo attribuire al periodo che va dal VII al IV secolo prima di Cristo. La più antica è riportata nel Deuteronomio, V, 5-18; essa riflette preoccupazioni di carattere sociale, assai vicine al programma di riforme etiche e religiose predicate dai profeti. L’altra, trascritta nell’Esodo, XX, 2-17, è più di tipo liturgico-rituale ed è stata quasi certamente redatta dai sacerdoti in età più recente, un paio di secoli dopo la caduta di Gerusalemme nelle mani dei babilonesi, nel 586 a. C.
    Questo è comunque il testo del decalogo nella sua formulazione più recente:

1. Non avrai altro dio di fronte a Jahvè. – È un’affermazione di monoteismo rituale, non teologico: gli altri popoli si tengano pure le loro divinità, ma gli ebrei prestano il loro culto solo al proprio dio.
2. Non ti fabbricherai nessuna immagine scolpita e nessuna raffigurazione di cose che si trovino nei cieli, sulla terra o nelle acque sotterranee. – Il ripudio dell’idolatria implica la proibizione di scolpire o dipingere figure d’uomo e di animali; tale divieto è passato, molti secoli dopo, anche all’arte musulmana.
3. Non pronuncerai ad alta voce il nome del Signore. – Chi possiede il segreto del nome della divinità, è in grado di servirsi della carica magica ch’esso contiene; occorre perciò evitare che uno straniero s’impadronisca di questo nome, misterioso e potente.
4. Ricordati di osservare scrupolosamente il sabato. – Nella versione più antica, il precetto del riposo settimanale viene collegato all’obbligo di non far lavorare gli schiavi ogni settimo giorno, in memoria degli anni trascorsi da tutti gli ebrei in servitù sotto gli egiziani; nel testo più recente, di ispirazione sacerdotale, la spiegazione è invece solo di carattere religioso (secondo il mito della creazione, anche Jahvè si è riposato «dopo sei giorni»)(1).
5. Onorerai tuo padre e tua madre, affinché anche tu possa vivere a lungo e felice sulla terra, aggiungono le due versioni del testo della Bibbia.
6. Non uccidere. – L’ebraico ha letteralmente «non assassinare» (tinzack), cioè non sopprimere un membro del tuo clan; l’uccisione del nemico, donne e bambini compresi, non solo è ammessa, ma rigorosamente imposta da Jahvè(2). Anche nel Corano il sesto comandamento suona così: «Non ucciderai nessuno di quelli che Allah ti ha proibito di uccidere, se non per giusta causa». Siamo di fronte a un lento processo di incivilimento urbano, in contrasto con le feroci consuetudini della tribù beduina originaria.
7. Non commettere adulterio, cioè secondo la legge ebraica, non sedurre una donna sposata o anche sotto promessa a un altro dopo che il prezzo dell’acquisto è stato pagato (Esodo, XXII, 16). Sedurre una donna nubile o una schiava non costituisce adulterio. Non si tratta tanto di morale, quanto di leso diritto di proprietà. Nel caso di una schiava, tutt’al più, il padrone potrà esigere un risarcimento in denaro.
8. Non rubare.
9. Non portare falsa testimonianza contro il tuo vicino.
10. Non desiderare la moglie del tuo vicino, né il suo campo, la sua schiava, il suo schiavo, il suo bue, il suo asino ecc– Veramente il termine ebraico per «desiderare» è «gettar l’occhio addosso»: ed è probabile che si tratti della pratica del malocchio. Si lancia cioè il malaugurio in direzione della proprietà di un altro, per trasferirla in proprio potere grazie all’azione magica della stregoneria. Quanto all’assimilazione della moglie con tutte le altre proprietà, va osservato che si tratta della versione più remota; già nel Deuteronomio la donna è posta in una categoria a parte. La tradizione cristiana ha diviso in due quest’ultimo comandamento e ha unificato i primi due: la condanna dell’idolatria, da un lato, era ormai superata ed era contraddetta, dall’altro, dal culto popolare delle immagini e dei santi.

    Quest’ultima considerazione ci permette di conchiudere ricordando che nel catechismo la formulazione dei dieci comandamenti differisce talora da quella che abbiamo riportato. Il nuovo testo risale a Sant’ Agostino, all’alba del V secolo; ma anche questa versione è stata rielaborata e abbreviata dal Concilio di Trento, nel secolo XVI (Sessione IV, canone 19).
    Da allora, nella chiesa cattolica, l’elenco non ha più subito variazioni sostanziali.

        A questo punto è possibile fornire qualche elemento che permette di capire come materialmente sia stata costruita la Bibbia a partire dal perché si chiami così. 

    Un’antichissima città della Siria, Biblo [si veda la prima cartina geografica, ndr], emporio commerciale fenicio e centro dello smistamento del papiro – forse il luogo dove per la prima volta venne usata la scrittura alfabetica(3) – ha dato il nome alla carta d’importazione egiziana, biblion, e poi per estensione all’intera raccolta dei fogli, da conservarsi arrotolati per la lettura  [i testi biblici erano scritti – in ebraico antico e con alcuni brani in aramaico – su lunghi rotoli di pelle o di pergamena, ndr](4).
    All’inizio della nostra èra, biblia (neutro plurale greco, «i libri»), indicava già una qualsiasi collezione di scritti, o una biblioteca; ma ben presto venne limitato dai fedeli, ebrei e cristiani, alla sola raccolta dei loro libri sacri. Il neutro greco diventò nel latino popolare un femminile singolare, Biblia; e di qui è passato in italiano e in quasi tutte le lingue moderne.
    La Bibbia è dunque, in primo luogo, il complesso dei libri sacri degli ebrei, o Vecchio Testamento; e poi, con l’aggiunta di una serie di testi cristiani, o Nuovo Testamento, acquistò la sua dimensione attuale. La prima parte rimase comune alle due religioni. La voce Testamento non s’incontra mai, come titolo, né nell’originale ebraico, né nel greco, che è la lingua esclusiva della parte cristiana. Da dove deriva, dunque, tale singolare denominazione?
    L’ebraico ha un termine, berith, che denota un contratto, un patto, e quindi anche, nei rapporti tra i popoli, una «alleanza». L’idea centrale della religione giudaica, come abbiamo visto, era che il dio delle dodici tribù aveva stretto un solenne patto con il suo popolo: «Voi mi considererete come il vostro solo Iddio, a esclusione di ogni altro, e io, Jahvè, vi prometto di proteggervi, di favorirvi ed eventualmente di farvi ereditare un giorno il dominio o per lo meno il controllo del resto della terra».
    La traduzione in lingua greca, detta dei «Settanta», dal numero leggendario degli esperti, 70 o 72, che sarebbero stati incaricati di questo lavoro in Alessandria dal re Tolomeo Filadelfo, verso la metà del III secolo a. C., complicò le cose. Il termine berith venne reso con diathéke, che oltre al significato di patto aveva anche quello accessorio di un lascito testamentario: in latino, testamentum. Quando s’incominciò a tradurre la Bibbia in latino, alla fine del II secolo d. C., il senso iniziale di un’alleanza tra il dio Jahvè e il popolo ebraico si era in gran parte perduto: e con «Testamento» si è sempre indicato, d’allora in poi, l’intero contenuto, vecchio il primo, per i cristiani, e nuovo il secondo.
    Il numero degli scritti di cui si compone il Vecchio Testamento è andato variando di secolo in secolo, sino a che un concilio di rabbini, a Jamnia, in Palestina, verso il 90 d. C., quando già la nazione era stata battuta dai romani, lo fissò a 22, quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico; con qualche rimaneggiamento nella divisione dei libri, si arrivò a 27, cioè le stesse lettere più i cinque segni finali, che hanno nella scrittura corrente una forma leggermente diversa.
    Già questo computo lascia pensare a manipolazioni di carattere magico o simbolico; tanto più, poi, se si riflette che anche gli scritti del Nuovo Testamento ammontano alla stessa cifra allegorica di 27.
    In ogni modo, e tenendo conto che i titoli dei vari libri sono stati dati dai greci prima, e dai latini poi, mentre nell’ ebraico ogni singolo testo è conosciuto solo dalla prima parola con cui ogni «rotolo» ha inizio, ecco l’elenco dei 27 scritti che compongono la parte più antica della Bibbia.

A. La legge (Toràh): Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio (il «Pentateuco» o i cinque libri).
B. I profeti (Nebiìm): sono divisi in profeti anteriori (Giosuè, Giudici e Rut, I-II Samuele, I-II Re) e posteriori (Isaia, Geremia, Ezechiele e i dodici profeti minori raccolti in un solo rotolo).
C. Gli scritti sacri o agiografi (Ketubim): Salmi, Proverbi, Giobbe, Cantico dei Cantici, Lamentazioni, Ecclesiaste, Ester, Daniele, Esdra e Neemia (I-II Esdra), Cronache.

PAROLA DI DIO

 

        I testi che compongono la Bibbia sono nient’altro che racconti tramandati a voce, poi scritti da persone diverse e in tempi diversi senza grande precisione, per sviluppare una teologia più che fare storia. In essi vengono raccolte ed elaborate idee ebraiche e di altri, in forma di eventi e regole soprannaturali anziché umane, poi sottoposti lungo i secoli a fantasiose aggiunte, traduzioni capricciose e convenienti interpretazioni. La Bibbia ha un suo significato preciso per un determinato popolo. E’ la storia leggendaria ed utilitaristica dell’insieme di quelle genti che, da un certo momento (intorno al XIII secolo), si è riconosciuta come popolo ebraico o d’Israele. Gli usi ed i costumi nonché gli insegnamenti di quel libro sono diretti a quel popolo per il quale hanno significati precisi. Anche se vedremo che tali insegnamenti non sono certamente edificanti se confrontati con il comune sentire dei Paesi occidentali odierni. La Bibbia è stata poi assunta come testo sacro anche dalla cristianità ed in particolare dalla Chiesa cattolica. Qui arriviamo ad un assurdo flagrante: il Dio che mediamente ci viene presentato nel Vecchio Testamento (VT), dove emergono differenti suoi comportamenti, non ha nulla, ma proprio nulla a che vedere con quello del Nuovo Testamento (NT). E neanche a dire che il richiamo della Chiesa cattolica al VT sia dovuto ad una qualche svista. Infatti quel richiamo è perentoriamente fatto da Gesù nel NT che mostra di essere un perfetto ebreo rispettoso della sua religione. Per convincercene leggiamo un paio di brani dai Vangeli in cui Gesù afferma che la Legge, quella del patto di alleanza con Mosè, dovrà compiersi:

17 Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. 18 In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla Legge, senza che tutto sia compiuto. [Mt 5; 17-18]

17 E’ più facile che abbiano fine il cielo e la terra, anziché cada un solo trattino della Legge. [Lc 16; 17]

      Ebbene cerchiamo di capire quali sono gli insegnamenti di questa sacra Bibbia per il cattolicesimo (ma anche per l’ebraismo), quegli insegnamenti che, volenti o nolenti, tutti noi abbiamo da centinaia di anni come sottofondo, soprattutto morale, di riferimento. Per noi europei la storia del popolo di Israele ha un interesse, appunto, storico e quella parte della Bibbia non può significare null’altro per noi. Quindi dobbiamo ricercare i suoi “insegnamenti” nelle metafore suggerite, negli esempi e nelle cose dette esplicitamente riguardo a quella morale che viene proposta in modo esplicito.

        La storia del popolo ebraico è raccontata nei vari libri che compongono la Bibbia ed è, come già abbiamo visto negli scritti di Donini, il prodotto di un processo di elaborazione molto lungo durante il quale i documenti più antichi sono stati via via modificati con l’interpolazione di aggiornamenti ed interpretazioni diverse che rispondevano ai nuovi interessi e necessità dei successivi compilatori. Per parte sua la Chiesa cattolica ha sempre sostenuto che l’ispiratore dei vari scritti sacri costituenti la Bibbia è stato lo Spirito Santo e, di conseguenza, direttamente di Dio. Materialmente furono degli uomini a scrivere ma sotto l’ispirazione di Dio.

e. La Sacra Scrittura, fissando per divina ispirazione i contenuti rivelati, attesta, in maniera autentica, di essere veramente Parola di Dio (cf. DV 24), del tutto orientata a Gesù, perché «sono proprio esse (le Scritture) che mi rendono testimonianza» (Gv 5, 39). Per il carisma dell’ispirazione i libri della Sacra Scrittura hanno una forza di appello diretto e concreto, che non hanno altri testi o interventi umani [Tratto dal Sinodo dei Vescovi, XII ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA, LA PAROLA DI DIO NELLA VITA E NELLA MISSIONE DELLA CHIESA, INSTRUMENTUM LABORIS, Città del Vaticano, 2008].

La Chiesa, assistita dallo Spirito Santo e quindi infallibile, i concili ecumenici e i papi, anch’essi infallibili, hanno sempre riconosciuto come Parola di Dio, e quindi vincolante per la fede e la vita del cristiano, la Sacra Scrittura [Tratto da Corso sui Fondamenti del Cristianesimo  Capitolo 11, La Bibbia parola di Dio]. 

        Il fatto che Dio abbia ispirato quegli scritti è davvero un qualcosa di incredibile e mostra quale scarsa considerazione, chi dice questo, abbia del proprio Dio. Partiamo, per esemplificare, dalla creazione e dal come è descritto il cosmo nella Genesi.

        1 “In principio Dio creò il cielo e la terra”.

Cosa sia la terra è abbastanza intuitivo (anche se si tratta di qualcosa di indistinto, una poltiglia di terra ed acqua) ma cosa sia il cielo è fatto del tutto oscuro. Sembrerebbe essere un contenitore vuoto dentro cui verrà sistemato il resto del cosmo. Ma il tutto era al buio !

        3 ” Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu.”

Poiché il cielo è, come azzardavo, un qualcosa di vuoto, un contenitore dove successivamente Dio disporrà gli astri, compreso Sole e Luna, cos’è la luce ? E’ poco importante perché Dio la separa subito dalle tenebreNon lo sappiamo ma Dio si accorse che era una cosa buona. Caspita, si tratta di una creazione senza progetto intelligente un qualcosa di empirico, un lavoro artigiano e non pensato a priori: vediamo come va, vediamo se mi piace, solo in tal caso lascio le cose come le ho fatte. Con questo sistema Dio creò il firmamento e lo mise nel cielo, chiamando quest’ultimo firmamento.

        Qui Dio deve aver avuto qualche problema con lo scriba del suo pensiero. Dio aveva in mente la pioggia che era acqua che sta in cielo ed aveva in mente l’acqua che sta in fiumi, laghi e mari, cioè in terra. Come gliela crea l’acqua all’uomo ?  

6 Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque». 7 Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne. 8 Dio chiamò il firmamento cielo.

Da Giovanni V. Schiaparelli. Il disegno è la ricostruzione schematica fatta da G. Schiapparelli, del mondo biblico(5): ABC rappresenta il cielo superiore; ADC il contorno dell’abisso; AEC il piano della terra e dei mari; in GHG vi è il firmamento o cielo inferiore; in KK i depositi dei venti; in LL i depositi delle acque superiori (piogge), della neve e della grandine; M è lo spazio occupato dall’aria dove corrono le nubi; in NN abbiamo le acque del grande abisso che alimentano in xxx le fonti, i fiumi ed i mari; PP è la zona del limbo mentre Q, la sua parte inferiore è l’inferno vero e proprio.

        A questo punto sistemò le acque sotto il cielo ammucchiandole tutte da un parte in modo da creare l’asciutto che Dio chiamò terra. Un’altra volta Dio si compiace di ciò che ha fatto  dice che la cosa è buona. Incoraggiato da ciò prosegue creando verdure e piante con frutti che hanno dentro di loro dei semi (deve rassicurare coloro che vivono dei frutti dei campi). Anche qui la cosa è di suo gradimento tanto che Dio prende coraggio e crea (solo al quarto giorno) il Sole e la Luna:

14 Dio disse: «Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni 15 e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra». E così avvenne: 16 Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. 17 Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra 18 e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa buona.

        Questa è la cosmologia che Dio dettò al suo scriba ed è davvero demoralizzante per un Dio che deve almeno divulgare quanto ha fatto in modo comprensibile ma corretto. Ma qui sorge un problema molto importante che è gestito nel suo complesso dai cosiddetti biblisti, coloro che devono accordare la Bibbia con il buonsenso, evitando brutte figure.

        Io mi occupo principalmente di questioni scientifiche ed è da questo punto di vista che vado ad indagare alcuni fenomeni alla base della nostra civiltà. Dal mio punto di vista di scienziato che ha seguito il dramma di Galileo devo fare riferimento all’episodio chiave che sta dietro la sua condanna da parte della Chiesa. Di fronte all’appassionato lavoro di Galileo nella Lettera a Cristina di Lorena per convincere i suoi giudici che Dio parlava al suo popolo in modo da farsi capire e che quindi la Bibbia non andava intesa in senso letterale, ottusamente ma caparbiamente gli inquisitori, capitanati da Bellarmino, gli rispondevano che la Bibbia era parola di Dio e quindi andava accettata per ciò che diceva alla lettera(6). Ora, di fronte alle assurdità manifeste in queste sole prime frasi ella Bibbia è la Chiesa che dice ciò che diceva Galileo vari secoli fa: la Bibbia è dettata da Dio in modo che la gente capisca di cosa si tratta. Ma anche qui le cose non tornano perché la creazione del cosmo come raccontato da Dio è veramente indegna di un Dio. E vi è ancora dell’altro.

        La gente deve essere messa in condizioni di capire ? Ma quando mai la Chiesa ed i sacerdoti di ogni religione hanno lavorato per far capire ? Il mistero è sempre stato il telone dietro il quale le religioni hanno prosperato. L’incomprensibile è l’anticamera dell’ultraterreno. Serve che esemplifichi ? Basta parlare di Trinità ? di eucarestia ? di transustanziazione ? di concepimento da madre vergine ? … e si potrebbe continuare all’infinito. Ebbene la gente, i fedeli, credono a tutto questo e non sono in grado di capire una spiegazione un poco meno trasandata di quella che Dio ha fornito nella Bibbia ? Questo modo di porre il problema non è credibile e, diciamocelo con franchezza: è falso.

        Questa era solo una esemplificazione relativa ad un Dio incapace di divulgare la sua opera. Vediamo ora meglio a quale popolo quegli scritti, redatti e rielaborati all’incirca dal 622 al 516 avanti Cristo, erano diretti (con la riserva di capire più oltre se quel popolo era un popolo o un insieme eterogeneo di genti). In questo lasso di tempo vi furono degli eventi tragici che riguardarono quel popolo che disponeva di un piccolo Stato, il Regno di Giuda che, attorno a Gerusalemme, aveva una piccola superficie, grande più o meno come l’Umbria. Questo piccolo Stato, con un popolo storicamente insignificante, era circondato da altri piccoli Stati, tutti sotto il dominio alla massima potenza dell’epoca, l’Impero di Babilonia. Il tentativo di ribellione del Regno di Giuda contro i babilonesi vide scatenarsi tutta la potenza dell’Impero guidato da Nabucodonosor che, dopo aver assediato Gerusalemme, la sconfisse e distrusse con il tempio del Dio YHWH (587 a.C.). Il sommo sacerdote ed una sessantina di notabili furono giustiziati e l’intera popolazione cittadina fu deportata in Mesopotamia (i contadini e gli allevatori, non rappresentando alcun pericolo per Babilonia, furono lasciati dove erano). Inizia il momento della deportazione degli ebrei (il profeta Geremia nel VII secolo parlava di solo 4600 anime deportate, ma esse erano l’élite intellettuale e sociale di Gerusalemme – si veda Ger 52; 28-30 ed anche II Re 24; 14-16) che riescono a mantenere la loro identità ed a rafforzarla affidandosi proprio ad un Dio, un Dio unico solo per loro, con il quale stabiliscono quel patto cui accennavo. Questi fatti drammatici per quel popolo lo furono ancor più perché, a lato di essi, si generò l’angoscia della coscienza di aver peccato contro Dio accompagnata dalla necessità di espiare. Ciò comportò qualcosa di ancora peggiore, la credenza nella virtù redentrice della sofferenza con notevoli ripercussioni religiose che avranno ricadute anche nel Cristianesimo(7). Ma la storia del popolo ebraico, mescolata alla leggenda ed alla tradizione tramandata oralmente(8), inizia anni prima e vale la pena seguirne le tappe poiché alcune conoscenze di base sono necessarie per comprendere meglio quanto racconta la Bibbia. La storia cui accennerò è in gran parte monca perché manca di documenti (e la Bibbia, come già detto, non è un documento storico) anche se recenti scavi archeologici (Ebla, Palmira, …) ci hanno fornito maggiori informazioni.

        La tradizione fa iniziare la storia del popolo ebraico nel momento in cui il pastore nomade Terach (diciannovesimo patriarca biblico a partire da Adamo), padre di Abramo, primo patriarca delle tre religioni monoteiste, con la sua tribù abbandonò la città di Ur, situata in Mesopotamia vicino alla confluenza dei fiumi Tigri ed Eufrate, per raggiungere la terra di Canaan, nell’attuale Palestina. Ciò sarebbe avvenuto intorno al 1870 a.C.(9). Comunque la data probabile dell’inizio del viaggio di Terach è quando in Mesopotamia regnava Hammurabi (circa 1728 – 1686).

     Il viaggio di Abramo (1800 – 1700 a.C. ?)

        A partire da Harran sarà il solo Abramo con la tribù e le greggi al seguito a portare a termine il viaggio fino a Canaan. In questa terra muore Abramo e qui si svolgono le vicende di suo figlio Isacco e suo nipote Giacobbe, che in un incomprensibile passo della Bibbia, mentre lotta con qualche spirito malvagio, viene chiamato Israele. Tra i figli di Giacobbe-Israele risalta in particolare Giuseppe che, venduto dai fratelli come schiavo in Egitto, dopo colorite vicende riesce a diventare viceré del paese. Riappacificato coi fratelli invita il clan nomade di Giacobbe-Israele, sofferente per fame, a stabilirsi in Egitto, nella terra di Gosen (probabilmente la parte orientale del delta del Nilo). Con l’entrata degli ebrei in Egitto si chiude la Genesi. In Egitto vissero in pace, prosperando, per molti anni (per la Bibbia sarebbero 400 ma questo è un numero che normalmente sta per molti anni) finché non salì al trono il faraone Ramses II che li rese schiavi obbligandoli ai lavori forzati nella costruzione delle città di Pitom e Ramses (tra circa il 1290 ed il 1220). Fu Mosè che con l’aiuto di Dio (le 10 piaghe d’Egitto) liberò il popolo d’Israele, facendolo uscire dall’Egitto mediante l’attraversamento del Mare dei Giunchi (è arbitrario affermare che si tratti del Mar Rosso, molto più probabile che si trattasse delle paludi note come Laghi amari, situate vicino Suez). Con il viaggio di Mosè inizia l’Esodo. Tutte queste notizie sono leggendarie ed occorrerebbe fare un discorso molto approfondito per giudicarne la veridicità e la loro sistemazione in una determinata epoca (vale sempre quanto scritto in nota 8). Si sa per certo che, come per la Genesi, non è possibile trovare una diretta conferma nelle fonti egizie circa il soggiorno e la fuga degli Ebrei. Si sa invece che dei nomadi semiti risiedevano all’epoca nel delta del Nilo e che le città citate furono costruite mediante persone ai lavori forzati.

        Wikipedia prosegue così: “Mosè, intermediario con Dio, fornì il popolo ebraico di norme religiose, sociali e giuridiche. Sono ricordate numerose tappe del viaggio ma la memoria toponomastica di queste si è persa, per cui è impossibile una ricostruzione geografica del viaggio. Le uniche tappe note con certezza sono l’inizio (Pitom e Ramses) e la fine (Kades-Barnea). […] Anche in questo caso la pressoché unica fonte relativa a questo periodo sono i racconti dei libri biblici. Preziosissima è la testimonianza della stele di Merneptah (o Stele d’Israele), datata intorno al 1220 a.C., nella quale si legge tra l’elenco dei nemici sconfitti dal faraone anche il nome ysrỉr, unito al suffisso indicante un popolo nomade: se l’identificazione tradizionalmente proposta dagli studiosi ysrỉr – Israele è corretta, si tratta della più antica testimonianza extrabiblica relativa a eventi biblici. In questo periodo di soggiorno nel Sinai si colloca la cosiddetta ‘ipotesi kenita’ (Gressmann 1913): il gruppo di fuoriusciti ebrei dall’Egitto si unì a popolazioni kenite o madianite [dal nome della Terra di Madian, citata in Esodo 3;1: 1 Ora Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb, dove avvenne la rivelazione di Jahvè a Mosè, ndr] formando un popolo unico, seppure con identità diverse, e assumendo da questi il culto a YHWH”. Queste 4 lettere erano tabù e non potevano essere pronunciate, nell’ipotesi che si sapesse come farlo. La lettura di esse come Jhavè è di Clemente Alessandrino (III secolo a.C.): Sembra che costui tentasse di metterla in relazione con la forma ebraica del verbo essere  Secondo l’ipotesi kenita, il monoteismo ebraico inizierebbe da questo momento(10). Mosè, che non era comunque un monoteista ma un enoteista monolatra (esistono più dèi tra i quali se ne sceglie uno solo, quello ritenuto il più potente)(11),  accompagnerà gli ebrei per molti anni nel deserto (anche qui vien fuori il numero 40 che vale come il 400) per arrivare alla terra promessa da Dio in un incontro tra i due sul Monte Sinai. E’ utile anticipare ciò che Dio disse a Mosé sul Sinai proprio per rendersi conto della natura dell’alleanza(Esodo 19, 3-9):

3 Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: «Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: 4 Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. 5 Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! 6 Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti».
7 Mosè andò, convocò gli anziani del popolo e riferì loro tutte queste parole, come gli aveva ordinato il Signore. 8 Tutto il popolo rispose insieme e disse: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!». Mosè tornò dal Signore e riferì le parole del popolo.
9 Il Signore disse a Mosè: «Ecco, io sto per venire verso di te in una densa nube, perché il popolo senta quando io parlerò con te e credano sempre anche a te».
Mosè riferì al Signore le parole del popolo.(12)

        Mosè comunque non riuscirà ad entrare nella terra promessa perché morirà prima. La guida del popolo d’Israele passerà a Giosuè che inizierà la conquista delle città stato della terra di Canaan. Ma qui la stessa Bibbia ci offre due libri, il Libro di Giosuè ed il Libro dei Giudici, che forniscono degli eventi due versioni differenti ed è a noi impossibile decidere quale sia quella corretta. Cercherò di ricostruire quel periodo attraverso dati storici che, alcune volte, intersecano la Bibbia con la continua osservazione che mancano riscontri storici su moltissime vicende raccontate dalla Bibbia.

        La conquista della Terra Promessa o di Canaan si accentra, nel racconto biblico, intorno alla figura di Giosuè (ma qui la Bibbia ci fornisce due versioni. Secondo il Libro di Giosuè gli Ebrei agirono in maniera concorde, con tutte le tribù a formare un vero e proprio esercito, e la conquista del paese fu totale. Secondo invece il Libro dei Giudici la conquista fu lenta e frammentaria e si sarebbe limitata alle zone scarsamente popolate, lasciando inizialmente intatte le città cananee delle pianure, e avrebbe visto in azione singole tribù). Per ciò che sappiamo da ricerche archeologiche le cose andarono in un modo molto più complesso di come sono raccontate dalla Bibbia (ad esempio la mitica conquista di Gerico è una sciocchezza perché, all’epoca di Giosuè, quella città era già da secoli abbandonata). Una volta attraversato il fiume Giordano, secondo la Bibbia, Giosuè conquistò Gerico e da qui irradiò la sua conquista verso il centro, il nord ed il sud della regione. Le campagne caddero prima delle città che resistettero più a lungo. La conquista di Gerusalemme avverrà solo con David. Moscati osserva che la conquista può essere avvenuta mediante una lenta e pacifica penetrazione, avvenuta in modo diverso da zona a zona (altri storici negano ciò). Per questo storico è possibile che gli Israeliti partecipanti all’occupazione abbiano trovato già sul luogo alcune tribù sorelle con cui si siano strettamente congiunti.

        Gli storici de La storia: Dalla preistoria all’antico Egitto, forniscono un’indagine più approfondita della penetrazione israelita a Canaan:

La presenza in Palestina delle tribù d’Israele è probabile dal 1220 ca., quando il faraone Merneptah menziona Israele come il nome di una gente asiatica che pagò tributo all’Egitto, ed è sicura almeno dal 1200, quando comincerebbe, secondo la lista biblica, il governo dei giudici. Questa presenza deriverebbe da nuclei di genti seminomadi, fermatisi in Palestina e identificabili, secondo taluni, con gli Apiru di Amarna, e da gruppi fuggiti dall’Egitto, dove erano immigrati in un periodo anteriore non precisabile. L’insediamento degli Ebrei in Palestina è presentato dalla tradizione biblica come un fatto unitario e come il risultato di una programmata conquista armata di tutte insieme le tribù, le quali si sarebbero spartite i territori conquistati. Tuttavia, sembra essere stato fenomeno di ben più notevole complessità ed è indubbiamente da connettere con il generale attestarsi, tra la fine dell’Età del Bronzo e gli inizi dell’Età del Ferro, delle popolazioni aramaiche in Siria e nella Mesopotamia settentrionale, come pure documentano i passi biblici relativi all’Arameo antenato di Israele e all’assunzione da parte degli Ebrei della «lingua di Canaan». In realtà sembra certo da parecchi indizi che ciascun gruppo ebraico avesse proprie tradizioni relative all’insediamento in Palestina e che la narrazione biblica della conquista, contenuta in Giosuè 1-12, rifletta la tradizione di un solo gruppo, quello che nel sistema della lega d’Israele si chiamò tribù di Beniamino, le cui gesta furono attribuite a tutto il complesso delle genti, che nel paese di cultura si federarono in un’unica unità politica.

La presa di possesso di gran parte della Palestina da parte degli Ebrei fu dunque il risultato di un processo non breve, che si attuò in varie fasi e con diverse modalità. Con ogni probabilità le tribù di Ruben, di Simeone e di Levi furono le prime che si stanziarono nella Cisgiordania centrale intorno a Sikem. Più tardi, disciolti questi primi nuclei, che figurano sempre in testa nelle liste bibliche, ma che sono indicati come dispersi, la Palestina centrale fu occupata dalle tribù di Efraim, Manasse e Beniamino e, a oriente del Giordano, dai nuclei efraimiti di Galaad e di Cad. Se i gruppi di Efraim e Manasse, due potenti tribù che nelle fonti bibliche formano la «casa di Giuseppe», devono aver attraversato la Transgiordania meridionale e quindi essersi dirette a occidente, il gruppo meridionale dei Calebiti e altri nuclei affini dovettero salire dal Negev, impossessandosi rapidamente di Hebron secondo una tradizione indipendente conservatasi in Numeri 13-14. Giuda precedette probabilmente questi nuclei meridionali inserendosi, forse da oriente, tra Gerusalemme ed Hebron. Nel nord del paese, nella zona montuosa che limitava a oriente la fertile pianura di Yesreel, trovarono sede le tribù di Aser, Zabulon, Issakar e Neftali, le quali tutte però, a eccezione forse dell’ultima, con la tribù di Dan che occupò la regione depressa delle fonti del Giordano, divennero tributarie delle potenti città costiere.

Stabilendosi in Palestina, gli Ebrei sfruttarono certamente una situazione di difficoltà economiche e di disordini sociali delle città cananee, di cui danno notizia parziale le lettere di Amarna. La penetrazione unitaria nelle terre di cultura, tuttavia, se non dovette essere totalmente violenta e di breve durata, come vorrebbero le fonti bibliche, non fu neppure esclusivamente una lenta penetrazione pacifica risultante dalla progressiva sedentarizzazione di seminomadi praticanti la transumanza. Il carattere violento di alcuni degli episodi che condussero gli Ebrei in questa regione non solo è largamente riflesso nella tradizione, che divenne canonica, della conquista di Giosuè, ma è documentata archeologicamente dalla distruzione delle città cananee di Debir (Tell Beit Mirsim), Betel (Beitin), Lakish (Tell ed-Duweir) e Hazor (Tell Wakkas) nel sec. XIII. Nessuna traccia di distruzione tra i secoli XIV e XII, invece, è stata riscontrata a Sikem e Gibeon, le quali infatti, secondo la tradizione, furono prese ma non devastate. Né i gruppi ebraici si limitarono a vivere ai margini delle città cananee, bensì presero anche alcuni grandi centri fortificati come Hazor, pur se non riuscirono a conquistare i grandi stati urbani, quali quelli di Gerusalemme e, nel nord, di Megiddo, di Taannak, di Aksaf e di Akko, che dominavano la pianura di Yesreel. Inoltre, immediatamente dopo la conquista, rioccuparono i centri distrutti, creandovi assai più modesti insediamenti, dei quali sono state rinvenute tracce archeologiche.

La federazione delle tribù sembra essersi compiuta dopo l’insediamento definitivo dei gruppi ebraici nei territori che la tradizione attribuì loro, come dimostrano certi nomi, quali la «montagna di Efraim» da cui certo presero nome i gruppi familiari attestatisi là attorno. La prima forma di unità politica in cui si raccolsero le tribù ebraiche, che fu una confederazione basata sulla comunanza di un determinato luogo cultuale, era fondata precisamente sulle tribù articolate in un sistema di alleanze senario. Costituita questa alleanza sacrale, probabilmente formata all’inizio da sei tribù e solo più tardi dalle tradizionali dodici, il popolo d’Israele si trovò nella necessità di salvaguardare la propria autonomia di fronte alle genti limitrofe. Da sud a est, infatti, gli Edomiti erano stanziati a est del Wadi el-Araba e a sud del Wadi el-Hesa, i Moabiti dal Wadi el-Hesa all’Arnon, gli Ammoniti lungo l’alto corso dello Yabbok. A ovest, i Filistei, uno dei «popoli del mare», avevano occupato, intorno alla metà del sec. XII, una lunga fascia costiera, impossessandosi delle città di Gaza, Ashhdod, Askalona, Ekrom e Gat, mentre a nord e nella zona centrale del paese restavano indipendenti alcuni stati urbani, che dominavano le regioni pianeggianti fertili. Negli scontri che Israele dovette sostenere sullo scorcio del II millennio, le sue genti furono guidate dai «giudici», capi carismatici che non venivano scelti come magistrati, ma nei quali le gesta compiute facevano riconoscere dalla comunità l’abbondanza dei doni divini. Tra costoro il beniaminita Ehud respinse un attacco di Moabiti; Gedeone della tribù di Manasse liberò il paese dalle razzie dei Madianiti, nomadi allevatori di cammelli; Barak di Neftali, con la sua tribù e con quella di Zabulon, riportò un’importante vittoria sui Cananei e i Filistei della valle di Yesreel, mentre le gesta di Sansone di Dan non ebbero conseguenze e terminarono con un insuccesso.

L’instabilità del governo dei «giudici» di fronte alle organizzate città filistee e alle incursioni devastatrici dei nomadi provocò vari tentativi di istituire un regime monarchico, dei quali la tradizione biblica ha tramandato il ricordo nel rifiuto di Gedeone e nell’impresa di Abimelek. Da questa situazione di pericolo – giunta a un punto critico per la duplice disfatta ad opera dei Filistei subita dalle tribù coalizzate a Ebenezer, dove fu catturata l’Arca Santa e aperta ai nemici la via alla distruzione del santuario comunitario di Silo – emerse la figura di Saul.

Egli iniziò la sua attività da Gabaa (Tell el-Ful), nel territorio di Beniamino, come capo carismatico e ottenne un’importante vittoria sugli Ammoniti, i quali avevano approfittato della critica situazione delle tribù cisgiordane semidisarmate dai Filistei per porre in difficoltà insediamenti forse manassei di Transgiordania. Il prestigio derivante a Saul dalla vittoria e da altri successi sugli Amaleciti e la drammatica soggezione delle tribù ai Filistei, che avevano imposto guarnigioni nei centri maggiori, furono certo i motivi che indussero Samuele e le tribù a proclamare re Saul. È indubbio, tuttavia, che fin dall’inizio vi furono contrasti di elementi tradizionalisti, che ritenevano incompatibile con la struttura religiosa della lega di Israele una monarchia analoga a quella affermatasi tra i popoli vicini di origini analoghe a quelle ebraiche, e che ben presto, se non dall’inizio, a capo di questa fazione antimonarchica si pose lo stesso Samuele. A tale opposizione deve aver contribuito, oltre una pregiudiziale istituzionale, la politica di Saul tendente a uno stretto controllo della classe sacerdotale. Saul, che sembra aver governato conformandosi alle tradizioni comunitarie della lega, ebbe una serie di successi di non grande rilievo contro i Filistei, liberando i centri maggiori della Palestina e insediandosi a Gabaa in una modesta fortezza forse strappata agli aggressori. Quando tentò uno scontro risolutivo, battendosi contro il grosso dell’esercito filisteo, ebbe però ancora successi parziali, che la tradizione attribuisce prevalentemente al suo primogenito Gionata, e infine subì la terribile disfatta di Gilboa, ove incontrò la morte con i figli.

Vedremo più oltre che a Saul, a seguito di questa disfatta, successe David. Ora vorrei osservare che quanto abbiamo letto ora suona di parte, sembra sia stato scritto da un ebreo che cerca una ricostruzione apparentemente distaccata delle vicende del suo popolo che debbono essere quelle narrate dalla Bibbia. Da dove lo deduco ? Basta soffermarsi sull’uso dei verbi e su quel liberare quando si tratta di attaccare a fini espansivi. Le stesse vicende, per ora fino al regno di David, sono così raccontate dall’ottimo Mario Liverani:

Le linee essenziali del quadro archeologico e contestuale possono riassumersi come segue. Crolla l’impero egiziano che aveva dominato la Palestina dalla metà del XVI secolo all’inizio del XII: si apre dunque per le popolazioni locali un’epoca senza dominio straniero e senza drenaggio delle risorse verso destinazioni esterne. I Filistei occupano una parte del vuoto lasciato dagli Egiziani, cercano di stabilire la loro egemonia sulle città cananee residue, e vi riescono lungo la costa e nelle vallate (Yezreel e medio Giordano); invece le zone collinari restano al di fuori della loro portata. Nelle zone collinari e montane della Cisgiordania, e nei tavolati semi-aridi della Transgiordania si sviluppa il processo di colonizzazione caratteristico della prima età del ferro: disboscamenti, terrazzamenti, sfruttamento idrico degli wadi, scavo di pozzi, costruzione di cisterne, diffusione di villaggi e di cittadine fortificate. Questo è l’elemento «nuovo» attribuibile alle genti (primi fra tutti appunto gli Israeliti) di derivazione tribale e pastorale. La crisi dei palazzi reali porta ad un nuovo orientamento verso il polo tribale degli sbandati e dei fuggiaschi. È probabile una connessione etimologica tra la designazione dei rifugiati (habiru, ‘br/pr) e il nome degli Ebrei (‘br), visti dai cittadini cananei come degli sbandati, senza radicamento socio-politico.

Su dimensione regionale, è difficile dedurre archeologicamente il modo di combinazione dei micro-sistemi insediativi in organismi politici. Come eredità del passato, abbiamo le residue città «cananee»: non tutti i palazzi furono distrutti, e comunque non tutti contemporaneamente, ma l’impoverimento delle strutture amministrative è evidente in generale. Come elemento nuovo, abbiamo le zone di colonizzazione, i nuovi villaggi, le cittadelle montane, esito della «sedentarizzazione» dei gruppi pastorali. Il sistema è in equilibrio composito, senza un centro di potere unificante (a parte il tentativo filisteo). E’ possibile, accogliendo le indicazioni delle fonti bibliche posteriori, che vi siano state delle leghe tra tribù (come se ne conoscono sin dal Medio Bronzo); è probabile che vi siano stati degli accordi tra tribù e città, per stabilire diritti di pascolo, di connubio, di commercio. È possibile infine che le tribù del rilievo centrale cisgiordanico abbiano sviluppato un precoce senso di unità nazionale, in contrapposizione ad altre entità che si delineavano sia a ovest (Filistei) sia a est (Ammoniti).
Quest’epoca formativa (pre-monarchica) dell’entità etnico-politica «Israele» diventa nelle sue stesse tradizioni storiografiche l’epoca di collocazione di tutte le storie dotate di valore «fondante» rispetto alle realtà e ai problemi posteriori. Innanzi tutto si costituisce quell’impalcatura genealogica che serve da «carta di fondazione» dei rapporti intertribali: un albero genealogico unico abbraccia i «patriarchi» eponimi dell’unità nazionale (Abramo, Isacco, Giacobbe), gli eponimi delle singole tribù (una dozzina di figli di Giacobbe, con artificiale delimitazione che relega altri gruppi in collocazioni inferiori), infine tutti gli eponimi dei clan/villaggi giù giù fino ai singoli capi-famiglia, dove subentrerà l’albero genealogico di dimensione familiare. Intrecciate alle genealogie sono tutte le storie «etiologiche» che spiegano il perché di certi riti, di certi confini, di certe istituzioni e che naturalmente vanno ricollocate all’epoca (di volta in volta diversa) della loro formulazione.

Intervengono però dei fatti specifici, pertinenti all’epoca di redazione dei testi, che deformano sostanzialmente il quadro. Un primo elemento è connesso con le vicende tarde dell’esilio babilonese e del ritorno dall’ esilio. A giustificazione del rientro degli esuli, e a sostegno delle loro pretese territoriali sui gruppi rimasti in Palestina, viene accreditata la vicenda «fondante» della primitiva immigrazione delle tribù israelitiche dall’esterno: c’è una primordiale presenza dei patriarchi (che si aggirano in territori che non sono loro se non in minima parte) , che ricevono la promessa divina di diventare un popolo sterminato e di occupare tutto il paese. Poi ci sono un primo esilio (in terra d’Egitto) e un esodo e ritorno alla Palestina (collocati nel XIII secolo), che servono a configurare l’esilio e il ritorno di età storica (quelli cioè del VII-VI secolo). La conquista di Giosuè (sostanziata da storie massimamente etiologiche come la conquista di Gerico, che all’ epoca in questione era abbandonata da secoli) serve dunque a giustificare la presa di possesso del paese da parte dei reduci dall’ esilio babilonese; i Cananei, che abitano il territorio ma sono come abusivi perché la promessa divina li condanna allo sterminio, servono a prefigurare i «Samaritani» e gli altri rimasti, che i reduci babilonesi considerano estranei ed abusivi. Tutta la storia dell’esodo e della conquista, dell’origine esterna e del rapporto con le popolazioni autoctone, è dunque una costruzione chiaramente «datata» ai problemi del VI secolo, e che non ha nulla a che vedere con quelli del XII.

Un secondo elemento evidentemente datato (dalle polemiche pro e anti-monarchiche che lo accompagnano) è la configurazione di un periodo dei Giudici «quando non c’era re nel paese e ognuno faceva quello che gli pareva». Questa età dei Giudici, magistrati tribali non ereditari, si sarebbe interposta dopo l’età delle monarchie cananee (distrutte da Giosuè) e prima della costituzione della monarchia israelitica con Saul e con David. L’età «non monarchica» dei Giudici diventa oggetto di polemiche fra chi considera la mancanza di re uno stato di debolezza e di caos politico, e chi invece vi colloca gli ideali di libertà, eguaglianza, sottrazione al peso fiscale ed amministrativo. Anche questo blocco di materiali risente piuttosto dei problemi dell’età post-esilica, quando non c’erano più le monarchie, e si poteva o auspicarne il ritorno come presupposto per una ripresa nazionale, oppure auspicare il consolidamento di strutture di governo diverse. Nel XII-XI secolo una vera e propria «età dei Giudici» come descritta dall’omonimo libro biblico, non è esistita: ci sono sempre stati re in Palestina, residui degli antichi regni cittadini cananei, verso i quali le strutture tribali avevano un atteggiamento conflittuale ma non un ruolo sostitutivo. Alcuni dei racconti del libro dei Giudici sono di carattere prettamente mitico, e servono a trasmettere piuttosto valori etico-religiosi che non notizie storiche. Naturalmente nel quadro può anche essere confluita qualche memoria storica autentica, e persino dei brani (poetici in specie) molto antichi.

Un terzo blocco di elementi anacronistici deriva dalla proiezione indietro nel tempo, fino ad una collocazione nell’età delle origini, della situazione religiosa caratteristica dell’ età più tarda: immediatamente pre-esilica, e poi post-esilica. Alla figura di Mosè si attribuisce una fondazione dello yahwismo come religione rivelata (e dunque già perfetta nella sua forma finale) sin dal periodo formativo, anzi sin da prima dell’ingresso delle tribù d’Israele in Palestina. Non solo il popolo d’Israele avrebbe fatto il suo ingresso nella terra promessa già perfettamente strutturato in senso socio-politico come lega di tribù con magistrati comuni; ma anche vi avrebbe fatto ingresso già come comunità religiosa di devoti di Yahweh, dio nazionale ed esclusivo, in regime di rigido monoteismo. In realtà questa è la situazione determinatasi progressivamente nel tempo, e che ebbe tappe fondamentali nelle riforme religiose di Ezechia e Giosia (VII secolo), e poi soprattutto nella comunità post-esilica per la quale la fede religiosa era il principale elemento di coesione nazionale dopo la scomparsa delle strutture politiche.

Quanto al «patto» (berīt) stretto tra Yahweh e il suo popolo già all’epoca di Mosè e Giosuè, a fondare la comunità nazionale e religiosa, pur nella sua sostanziale artificiosità e anacronismo possono essersi conservate delle tradizioni molto antiche: alcuni elementi sembrano ben inseriti nella temperie sociale della fine del Tardo Bronzo, più di quanto non siano riconducibili ad età neo-babilonese o persiana. È stato notato che il «patto» tra Yahweh e il suo popolo riecheggia dal punto di vista formale i «patti» che nel Tardo Bronzo venivano stretti tra grande re e piccolo re: e la sostituzione della divinità al grande re terreno, e del popolo al piccolo re sarebbero elementi di volontaria polemica socio-politica assegnabile a gruppi di collocazione extra-palatina (rifugiati, pastori), i quali avrebbero voluto manifestare le loro aspirazioni ad un più giusto ordinamento socio-politico sostituendo la volontà popolare e la sua ipostasi divina ai contraenti palatini nei rispetti dei quali nutrivano la massima diffidenza e sfiducia. Si potrebbe notare che anche gli aspetti di legislazione sociale che vengono affrontati dai «patti» mosaici, vengono risolti in maniera polemica verso le soluzioni in uso nel Tardo Bronzo. All’asservimento per debiti si contrappongono il divieto di asservire i connazionali e la periodica liberazione degli asserviti – riesumando procedure paleo-babilonesi ancorate ora (in mancanza di re che promulghino gli editti) ad un ritmo settennale costante (anno sabbatico). All’alienazione delle terre si contrappone il loro periodico recupero da parte delle famiglie (giubileo). Alla cattura e riconsegna dei fuggiaschi si contrappone l’indicazione di accoglierli e di non estradarli. Al prestito ad interesse si contrappone abbastanza utopicamente il divieto dell’usura. Simili norme di carattere artificioso possono essere state immaginate in qualunque tempo; ma colpisce il fatto che gli elementi di «rivoluzione» che segnano il passaggio dal Tardo Bronzo alla prima età del ferro si accentrano proprio sul problema della servitù per debiti, e su uno sfruttamento eccessivo delle classi economicamente meno forti, che la legislazione «mosaica» tende appunto a tutelare. Resta evidente la difficoltà estrema a individuare elementi che si possano sicuramente attribuire al XII secolo, da un blocco documentario che ha una lunga e tormentata storia compositiva, e che nelle linee portanti risale al VI secolo ed oltre.

Lo Stato unitario

Nel periodo dei Giudici la storiografia israelitica colloca il processo di consolidamento della nuova entità etnico-politica (lega tribale) costituitasi nelle alte terre cisgiordane e in parte del tavolato transgiordanico: la sua lotta contro le residue città-Stato cananee e contro altre entità emergenti (lotte reinterpretate come fasi di «oppressione» per punire i peccati del popolo e fasi di «liberazione» conseguente al perdono divino), l’esercizio di magistrature collegiali o individuali ma temporanee, la sperimentazione di procedure decisionali non burocratiche (oracolo, estrazione a sorte), infine la progressiva ricostituzione di uno Stato monarchico di tipo nuovo, coi primi tentativi (Jefte, Gedeone, Abi-Melek) di coinvolgere l’elemento tribale in forme di potere centralizzato.

Nel frattempo, e come esito di processi analoghi, avevano preso forma in Transgiordania altre entità «nazionali»: gli Ammoniti ad est del medio Giordano, i Moabiti a est del Mar Morto, gli Edomiti più a sud. E al di là di questi si intravedono tribù cammelliere (Madianiti, Amaaleciti) appartenenti alla nuova fascia del nomadismo «pieno» e capaci di penetrare fino in Cisgiordania con rapide quanto micidiali incursioni.

Il passaggio dal fluido periodo dei Giudici, con la sua forte eredità tribale, alla monarchia unita, in cui riemergono tratti del sistema palatino, viene personalizzato nelle figure di Samuele e di Saul (verso il 1000). Nell’occasione (necessità belliche) e nelle forme (designazione divina tramite un «profeta», acclamazione da parte del popolo) l’investitura di Saul è sulla linea di quella dei Giudici; ma la sua autorità acquista ben altro peso e ben altre implicazioni. Nel momento in cui la lega tribale, tenuta insieme da comunanza di sangue e di culto e da opposizione verso i regni cittadini, va a conglobare tribù e città, e non trova più la sua ragion d’essere nell’opposizione all’ordine ma rappresenta essa stessa l’ordine, l’autorità deve acquistare consistenza, continuità, complessità di funzioni. La storiografia posteriore idealizzerà il problema nel dialogo fra il profeta/giudice Samuele e il popolo sulla convenienza o meno di istaurare la regalità. Samuele ricorda le angherie e i soprusi dei re cananei contro i quali la lega si è costituita; ma il popolo contrappone un tipo nuovo di regalità: il re come giudice del suo popolo, come capo nelle guerre del popolo, come espressione stessa della sua individualità politica.

Nella piccola corte di Gabaa (villaggio montano), coadiuvato da una cerchia militare di estrazione familiare (il figlio Gionata, il cugino Abner, lo scudiero David) Saul riesce a conseguire vari successi contro gli Amaleciti e gli Ammoniti a est, e contro i Filistei a ovest, e soprattutto a raccogliere le tribù in un organismo compatto. Preoccupati di questo più che dei singoli scontri, i Filistei organizzano la reazione che culmina nella battaglia di Gelboe: Saul sconfitto si uccide, l’intera Palestina cade sotto il predominio filisteo. Non si torna tuttavia alla disorganizzazione politica precedente: le tribù settentrionali (Israele) riconoscono re Ish-Ba’al figlio di Saul, mentre il sud (Giuda) è il nucleo di un regno costituito da David con la probabile connivenza dei Filistei che ritengono giovevole una divisione. Ma alla morte di Ish-Ba’al gli anziani delle tribù propongono a David la regalità su tutto Israele e lo incoronano a Hebron. La reazione filistea è tardiva e inefficiente, e David riesce a ricacciarli sulla costa, assicurandosi il controllo della zona montana dove maggiore è la presenza israelitica.

Anche qui, prima di continuare la storia, soffermiamoci su come un ultimo storico, Karlheinz Deschner, alternando storia e brani della Bibbia, descrive questo periodo (con l’avvertenza che i brani della Bibbia riportati sono tratti dalla Bibbia tradotta in tedesco da Martin Lutero):

Già ai tempi di Mosè, gli Israeliti distrussero gli importanti regni di Sion e di Og a nord di Moab. Eliminarono Sion, re degli Amoriti: “colpimmo tutte le città, gli uomini, le donne e i bambini, senza lasciare in vita nessuno, tenendo per noi il bestiame e il bottino”. Non diversamente si abbatterono su Og, re di Basan, uccisero “i suoi figli e tutto il suo esercito, senza risparmiare nessuno”; “non ci fu città che non cadde nelle nostre mani: settanta città … E colpimmo uomini, donne e bambini, ma tenemmo per noi tutto il bestiame e il bottino sottratto alle città”. Anche riguardo la vittoria sui Madianiti la “sacra Scrittura” proclama: “E andarono in battaglia … come il Signore aveva ordinato a Mosè e annientarono tutto ciò che di umano trovarono sulla loro strada. Uccisero anche i re dei Madianiti …. I figli d’Israele fecero prigioniere le donne dei Madianiti e i loro figli; fecero razzia di tutto il loro bestiame, dei loro averi e dei loro beni, diedero alle fiamme le città in cui questi vivevano e tutti i loro accampamenti”.

Ma tutto ciò non bastò a Mosè, cui già lo scritto del 1598, dal titolo “Von den drei Betrügen” (“l tre impostori”), imputava i più gravi e atroci delitti” (summa et gravissiima Mosis crimina). Egli, infatti, si adirò perché avevano lasciato in vita donne e bambini e gridò: “Perché avete risparmiato le donne? .. Uccidete i bambini più grandi e tutte le donne che non sono più vergini; le fanciulle, invece, che ancora lo sono tenetele per voi …. Così il bottino ammontò a … 675000 capre, 72000 montoni, 61000 asini; e per quanto riguardava gli uomini, a 32000 fanciulle ancora vergini”. Ma l’omicidio e le brutali razzie non contravvenivano, forse, quel quinto e quel settimo comandamento che, proprio Mosè, aveva portato al suo popolo dal monte Sinai?

In tal modo, “il popolo di Dio”, tra il 1250 e il 1225 a. C. circa, devastò la maggior parte della terra di Canaan, “arditamente” fece piazza pulita di tutti i cattivi, per lo più al grido di slogan religiosi del tipo: “Alle armi per il Signore e per Gedeone”. Nel migliore dei casi, deportò donne e bambini, e non mancò mai di razziare il bestiame. In breve, commise le più deplorevoli atrocità, gloriandosene, e diede alle fiamme villaggi e città. Lo spesso strato di cenere, emerso nel corso di scavi archeologici condotti nella regione di Canaan, ancora oggi testimonia di queste distruzioni avvenute per mezzo d’incendi. Alla stessa maniera, venne annientata, nel XIII secolo, anche Asdod (Tell-isdud), collocata nei pressi della “via del mare” (Via maris), uno dei più grandi centri urbani della Palestina nell’età del ferro, e in seguito, città principale della lega promossa dai Filistei. Sorte analoga toccò, probabilmente, alla vicina Tell-mor, e, sicuramente, ad Hazor, uno dei luoghi più muniti di tutta la regione di Canaan, tra il lago Hule e il lago di Genezareth, e, inoltre a Lachis, oggi Tel ed-duwer, piazzaforte d’importanza strategica, a Debir (Tell bet mir-sim), a Eglon (Tell el hesi) e via dicendo. Indubbiamente, non si hanno prove certe che tali distruzioni prodotte dal fuoco siano da ascrivere tutte alla penetrazione degli Israeliti in queste terre, tuttavia “è innegabile che l’intolleranza etnica percorra tutta la storia d’ Israele”.

In alcuni casi, furono sterminate addirittura intere tribù. Si offrivano, infatti, spesso – ed era questa la più “osservante” tra le forme di guerra volute da Dio – vale a dire la negazione assoluta della vita (in ebraico heräm, la cui radice etimologica, per i semiti occidentali, ha il significato di “santo”) – i nemici a Jahwe come una sorta di “dono sacro”, di immane “olocausto”. Ciò non sorprende se si confronta la rappresentazione biblica della “conquista” della Terra Promessa con l’avanzata trionfale e meno sanguinosa, parecchi secoli dopo, dell’Islam, e si rileva come i conquistatori dovessero sentirsi, realmente, “portatori della parola di Dio” e combattenti di una “guerra santa”. “Solamente le “guerre sante”, a differenza di quelle profane, si concludevano sempre con l’annientamento di ogni vita umana per ordine di Jahwe”. Di qui quella spietata radicalità delle distruzioni … che unicamente il fanatismo religioso degli Israeliti può spiegare”. Il “conflitto si definiva, in primo luogo, in senso religioso-sociale”. Il SIGNORE imponeva espressamente in questi casi: “Non devi risparmiare nulla di ciò che ha vita, piuttosto devi colpire Ittiti, Amoriti, Cananei, Perizziti, Evei, Gebusei, come il SIGNORE, tuo Dio, ti ha ordinato, perché non vi insegnino le azioni vergognose che essi compiono nel servire le loro divinità e voi, dunque, pecchiate nei riguardi del SIGNORE, vostro Dio”.

Il presupposto di un tale ardore di fede era, in primo luogo, quel nazionalismo estremista tipico del mondo antico, che, nel caso d’Israele, si univa all’esclusivismo, sconosciuto agli altri popoli, della religione monoteista. Nazionalismo ed esclusivismo si alimentavano reciprocamente dando vita ad un sentimento di ostilità che, in breve tempo, si venne configurando come “odium generis humani“, cioè odio nei confronti di tutta l’umanità, un consapevole atteggiamento di disprezzo che il “popolo di Dio” non abbandonò mai, neppure nel periodo difficile dell’esilio. Di “adversus omnes hostile odium“, di “pervicacia superstizionis” parla Tacito a proposito degli Ebrei, nell’excursus loro dedicato all’interno delle “Historiae“, definendoli una stirpe invisa agli dèi (taeterrima gens), dai costumi di vita “sgradevoli e immondi”, “assurdi e meschini”. Altro presupposto fondamentale del fanatismo religioso ebraico era la supposta depravazione di tutti i “non credenti”, depravazione che discendeva proprio dalla loro “miscredenza”. Presunti misfatti a sfondo sessuale, enumerati accuratamente dalla Bibbia, azioni vergognose che rendevano la terra “impura”: tali cose rientravano nei costumi dei pagani rendendoli così riprovevoli “che la terra disgustata rigettava i suoi abitanti”. “Dunque, tutti coloro che compiono tali scelleratezze saranno spazzati via … io sono il SIGNORE, vostro Dio”.

Per quanto i pagani fossero sempre disposti a riconoscere il Dio degli Ebrei, e nonostante (o forse poiché) essi in genere conducessero le loro guerre in maniera evidentemente meno spietata, gli Israeliti, anche nel periodo predavidico, compirono i crimini più atroci, praticando la distruzione totale dei nemici quasi fosse un atto religioso, l’equivalente di una professione di fede. Questa “guerra santa”, intrapresa sempre con peculiare veemenza, per cui non era possibile aprire un negoziato, pervenire ad un accordo di pace, ma solo attuare l’annientamento radicale dei non circoncisi, dei non battezzati, degli “eretici”, dei “cattivi”, è un “fatto tipicamente ebraico” (Ringgren). L’Antico Testamento che, nel libro dei “Giudici” – una fonte, a giudizio degli esperti non sempre affidabile ma, nel complesso, valida – descrive il periodo tra il 1200 e il 1050, circa un secolo e mezzo dopo la conquista della terra promessa, racconta, quasi esclusivamente, “guerre sante”. Queste si aprivano con cerimonie religiose e pratica della continenza e si concludevano, per lo più, con la liquidazione totale dei nemici, lo sterminio di uomini e animali. “Le rovine di villaggi e città ripetutamente distrutti nel corso del XII e del XI secolo offrono una testimonianza archeologica di particolare vivezza”.

Anche il libro di Giosuè, che presenta lo stesso retroterra storico e, soprattutto, è strettamente legato al libro dei Giudici, descrive l’occupazione della terra di Canaan come una “guerra santa” in nome di Jahwe, sostenuta con insuperata brutalità. L’arca dell’ alleanza, garanzia della presenza di Dio, fu testimone dei massacri. Per intervento dell’arca dell’ alleanza, gli Ebrei riuscirono ad attraversare il Giordano. Per sette giorni trasportarono l’arca intorno alla città di Gerico, mentre sette sacerdoti, senza posa, suonavano le trombe, finché la città non fu conquistata, “e uomini e donne, vecchi e giovani, bovini, ovini e asini non furono passati a fil di spada”. In modo non dissimile si comportarono Giosuè e i “figli d’Israele” con le altre città, riducendole ad un mucchio di rovine, con Ai, Makkeda, Libna, Laschis, Eglon, Hebron, Debir, Hazor, e Gabaon dove, per tutta la durata della battaglia, “quasi un giorno intero, il sole restò alto nel cielo”. (La dottrina cattolica attuale spiega tale incredibile racconto della Bibbia nel senso che “Il sole fu oscurato da fitte nuvole”: Msgr. Rathgeber). Con stancante monotonia la “parola di Dio” proclama ogni volta: ” … e nessuno fu lasciato in vita”, ” … e nessuno sopravvisse”, ” … e nessuno trovò una via di scampo”, ” … applicarono la legge dello sterminio su ogni forma di vita”, “i figli d’Israele si spartirono tra loro le ricchezze di queste città e il bestiame, ma passarono tutta la popolazione a fil di spada, senza risparmiare nessuno, fino all’ annientamento totale”.

Il processo di stanziamento definitivo degli Israeliti, probabilmente, giunse a compimento non solo a seguito di queste campagne di sterminio. È ipotizzabile anche una lenta ma inesorabile penetrazione degli indigeni nel tessuto del popolo ebraico, che portò, con il tempo, a una graduale fusione. Jahwe stesso, del resto, in linea di massima, non escludeva del tutto un atteggiamento pacifico. “Se nel corso della tua avanzata ti imbatti in una città, in primo luogo, le farai una proposta di pace. Se la sua risposta sarà positiva ed essa ti aprirà le sue porte, allora renderai schiavo il suo popolo e lo porrai al tuo servizio”. In caso contrario, non resta che la “guerra santa”: “la tua spada colpirà senza pietà tutti gli uomini di quella città”. In tal modo non poté esserci pace in Palestina, anzi tutti gli espedienti noti alla strategia bellica del tempo furono ampiamente impiegati: spionaggio, attacchi di sorpresa, marce notturne, assalti nel cuore della notte, abbattimenti di mura, irruzioni attraverso i pozzi, macchine da guerra ed altro. Gli Ebrei, tuttavia, per lungo tempo, non ebbero né carri da guerra né cavalleria. Infatti, a causa del loro passato di popolo nomade, per diverso tempo non seppero far uso di cavalli: solo Assalonne viene descritto alle porte di Gerusalemme su un carro trainato da questi animali. Del resto, Giosuè fece tagliare i garretti ai cavalli dei nemici e bruciare i loro carri da guerra. E anche David, che, come Giosué, ordinava di azzoppare i cavalli dei nemici, usava esclusivamente asini e muli.

Credo che questi brani, nel loro insieme, diano bene l’idea di come la storia e la Bibbia si intersechino. A questo punto siamo alla fine dell’epoca dei Giudici e con Saul e David inizia l’età dei Re, età nella quale il popolo di Israele raggiunse la sua massima estensione per poi iniziare una inarrestabile decadenza.

        A questo punto, al fine di capire i brani della Bibbia che seguiranno nei paragrafi successivi, è importante raccontare, almeno per sommi capi, la storia del popolo d’Israele dall’avvento di David fino al regno di Giosia, momento nel quale la riforma religiosa comporterà una riscrittura di interi brani biblici con fini politico-religiosi, come abbiamo già letto nello scritto di Liverani. Come viene detto e spiegato in nota 8, ricerche scientifiche moderne hanno dimostrato che il Deuteronomio ed il resto dei libri deuteronomici sono stati redatti per conferire al Re Giosia una base d’autorità sulla quale fondare proprio la sua riforma religiosa che centralizzò la religione intorno ad un solo Tempio, quello di Gerusalemme, assegnando un grande potere ai sacerdoti leviti. Giosia fu abilissimo ad imporre la riforma attraverso gli scritti deuteronomici perché li fece ritrovare sotto le fondamenta del Tempio e li attribuì a Mosè. D’interesse è che alcuni scritti deuteronomici incaricati da Giosia narravano un promettente futuro per il popolo d’Israele (sembra dimostrato che la letteratura deuteronomica sia opera del profeta Geremia, aiutato dallo scriba Baruc, che collaborò dal 621 con Giosia nella riforma religiosa). Di fronte ai disastri provocati dai Re che seguirono, fino alla distruzione di Gerusalemme nel 587, quegli scritti diventarono inservibili, cosicché venne realizzata una nuova redazione con aggiunta di capitoli e con paragrafi intercalati ex novo, come quelle frasi di minaccia che Dio pronuncia rivolto agli ebrei se non avessero rispettato l’alleanza, in modo da far sembrare profetici di quanto sarebbe accaduto ciò che già si sapeva essere accaduto. Il lavoro di Giosia sarà portato a termine da Esdra: “salvaguardare l’eredità nazionale, continuare a dimostrare che Israele è sempre, malgrado tutto, il popolo di dio, che il suo futuro gli riserva un riscatto. Il profetismo messianico, ovverosia l’attesa di un liberatore che ripeta la figura di David e ricostruisca il regno di dio, diventa un motivo ricorrente, finché si trasforma in autentica ossessione e porterà, sotto la dominazione romana, ad una crisi fatale. L’imperatore Tito, interprete della esasperazione romana nei confronti di questo popolo, visto come affetto da una patologia teocratica maniacale, farà strage e rovina degli ebrei e della loro capitale, ed essi ricadranno improvvisamente nella condizione in cui si trovavano in Egitto, come emarginati vittime di una diaspora penosa” (David Donnini). Se non si ha a mente tutto questo, non si riesce a capire la Bibbia (VT). A partire da questo punto però non riporterò nel testo gli scritti degli storici dei quali mi sono servito ma solo quelli di Deschner perché è l’unico che alterna ai fatti storici passi biblici che al nostro fine sono molto utili. Gli stessi periodi storici trattati dagli altri autori a cui mi sono riferito, li riporterò comunque per intero in nota(13).

Durante il periodo dei re le guerre, le razzie, le aggressioni si susseguirono senza soluzione di continuità.
Samuele, ultimo giudice d’Israele e primo profeta, che aveva combattuto e vinto i Filistei, divenuto vecchio, consacrò Saul come suo successore alla guida dell’esercito. E gli ordinò in nome di Dio: “Va e attacca Amalek, colpisci lui e tutto ciò che gli appartiene; non risparmiare nessuno, anzi sii implacabile nello sterminare uomini e donne, bambini e neonati, buoi e pecore, cammelli e asini … “. […] Consacrato da Samuele, Saul, primo re d’Israele, si presenta come una tipica figura “carismatica”, pervasa dallo spirito divino, eppure “chiaramente affetta da depressione e manie di persecuzione” (Beek), che prosegue la tradizione della “guerra santa”.

Stando al racconto biblico, egli combatté “contro tutti nemici che lo circondavano”, i Moabiti, gli Ammoniti, gli Edomiti, contro il re Zobas, contro i Filistei e gli Amaleciti. Tuttavia, allorché egli, per ordine divino, fece trucidare tutti gli Amaleciti, bambini e neonati compresi, ma risparmiò il bestiame migliore, scatenò l’ira del SIGNORE insieme a quella del suo profeta Samuele. Alla fine, venne duramente sconfitto dai Filistei in battaglia e si diede la morte: il primo caso di suicidio raccontato nella Bibbia.

Il suo successore, David, cioè il prediletto (di Dio), che, grazie ai prepuzi tagliati a cento Filistei, aveva ottenuto in sposa Micol, figlia di Saul, condusse Israele, alla svolta del secolo, al vertice della sua potenza, mettendo fine alla rigorosa identificazione del Regno d’Israele con il popolo d’Israele. Sotto di lui, il territorio controllato da Israele si estese dalla Siria centrale fino ai confini dell’ Egitto, quello d’Israele fu il più forte tra i regni di Mesopotamia, di Hamath e di Egitto.

Come già Saul, anche David (1000-961) fu pervaso dallo “spirito del Signore” ed anch’egli inanellò una guerra dietro l’altra “contro avversari ormai noti”: contro le ultime enclave di Cananei nel Nord, contro gli Ammoniti, i Moabiti, gli Edomiti, gli Aramei ed il re Adad-Ezer. “Ho dato la caccia ai miei nemici e li ho annientati, non sono mai tornato indietro senza averli prima distrutti”, proclama il canto di ringraziamento di David. “Voglio far mangiare ai miei nemici la polvere della terra, come fango sulla strada voglio calpestarli e ridurli in polvere”. Ambrogio, dottore della Chiesa, lodava il fatto che David “non avesse intrapreso nessuna guerra senza aver prima interpellato il Signore. Questa era la ragione per cui era risultato vincitore in tutte le battaglie, con la mano alla spada fino in età avanzata … “. Con il suo passato di consumato capobanda … David, l”’affascinante eroe di guerra” (Basilio, dottore della Chiesa), perseguì i suoi obiettivi con particolare determinazione, al punto che, in fin dei conti proprio per questa ragione, non solo la teologia ebraica, ma anche, senza eccezioni, quella cristiana e islamica, lo hanno celebrato come personaggio di capitale importanza dal punto di vista religioso. “Quante volte David ha assalito la terra dei nemici, senza lasciare in vita né uomini né donne”, racconta, in toni elogiativi la “sacra scrittura”. “Così agì David, questa fu la sua condotta per tutto il tempo in cui risiedette nella terra dei Filistei”, dove per sedici mesi, egli godé della protezione del re filisteo Achis di Gath, per timore di Saul. In seguito, proprio David avrebbe colpito i Filistei in modo così drastico da farli scomparire, pressoché del tutto, dalla scena del racconto biblico. Del resto, l’eletto di Dio – che per primo pose le basi per la formazione di un esercito di professione permanente, e fece della religione di Jahwe la religione di stato ufficiale, così come i sacerdoti di rango più alto divennero, sotto di lui, ufficiali regi e membri della corte – all’ occasione fece azzoppare i cavalli dei suoi nemici, o ordinò che a questi ultimi venissero tagliati piedi e mani. E, con sottile piacere, “il divino David, questo grande profeta così mite” (Bischof Theodoret, scrittore di storia della chiesa), deportò le popolazioni di tutte le città degli Ammoniti e, con metodi che ricordano quelli hitleriani, “le torturò con Seghe, picconi e scuri di ferro e le fece bruciare nelle fornaci dove si fabbricavano mattoni”.

[…]

Si racconta, nella Bibbia, che un certo Simei gettò delle pietre contro David il “sanguinario”, appellativo che ricorre più volte a suo riguardo. Addirittura il SIGNORE sembra confermarlo: “Hai versato molto sangue, hai intrapreso grandi guerre”. Ma non dimentichiamolo: egli ha combattuto CON DIO, sempre CON DIO! “Dio è stato al fianco di David, ovunque egli si sia recato”, così si commenta dopo lo sterminio di 22000 Aramei o quello di 18000 Edomiti. “Tutto ciò che il tuo cuore ti detta, fallo; Dio sarà con te”, si dice in un altro passo; “io sono stato al tuo fianco, ovunque sei andato, ho sbaragliato i nemici sotto i tuoi occhi, ti ho reso illustre tra i grandi della terra” Ma chi sono i grandi della terra se non i più pericolosi criminali?

David il “sanguinario”, tende a presentarsi – in modo non dissimile da tutti i sanguinari devoti – come l’incarnazione dell”’equità” e dell'”integrità”. “Io agisco con prudenza e rettitudine”. “Mi astengo da azioni malvagie”, “Seguo il cammino indicatomi dal SIGNORE”, “puro mi presento al suo cospetto”. Anche in punto di morte David si definisce “puro come la luce del giorno quando sorge il sole, in un mattino senza nuvole”. Il Dio dell’Antico Testamento – come, del resto, anche il Dio del cristianesimo – si presenta un po’ come David, da un lato, “senza macchia”, dall’altro, incomparabilmente più “sanguinario”, al punto da sterminare, per esempio, 50700 uomini per il semplice fatto che hanno rivolto lo sguardo verso l’arca dell’alleanza. …

E come Dio esalta il “sanguinario” David, poiché “egli obbedisce ai miei ordini, mi segue con ardore e compie solo imprese che mi procurano gioia”, come lo stesso David si autocelebra, analogamente il clero cristiano loda questo re d’Israele senza posa. Ma, non dimentichiamo che il clero è ben disposto verso i grandi criminali della storia, quando e fintantoché essi gli servono: dimostrare questo assunto è uno dei principali obiettivi del mio lavoro. In tal senso David “il sanguinario” fu, senza dubbio, utile al clero, in quanto quest’ultimo poté fare di lui un modello per i secoli a venire: David fu fedele a Dio, combatté per il SIGNORE, di buon grado “santificò” il bottino di guerra destinandolo alla costruzione del Tempio, compreso l’oro e l’argento che aveva sottratto ai pagani, cioè agli Edomiti, ai Moabiti, agli Ammoniti, ai Filistei e agli Amaleciti (per l’appropriazione indebita di tale bottino fu minacciato addirittura lo sterminio dell’intera stirpe e dei capi di bestiame). David, infine, ridusse al silenzio chiunque fosse contro Dio e i suoi servitori. “Non posso sopportare i malvagi …. Ogni giorno metto a tacere gli empi che sono nel mio regno, così da spazzar via dalla città del SIGNORE tutti i malfattori”. Una condotta siffatta ottenne la piena approvazione del clero. …
GIUDA, ISRAELE E IL FURORE DEL SIGNORE

Dopo il collasso del regno fondato intorno al 1000 da David, che comprendeva l’intera Palestina, e che nel 926 si era diviso nel regno di Giuda a sud, sotto la dinastia di David, con capitale Gerusalemme, e nel regno d’Israele a nord, sotto re che mutavano di frequente e con capitale Samaria, la catena di lotte per il potere, sollevazioni, colpi di Stato e guerre tra i due regni indipendenti non s’interruppe. Per generazioni i rispettivi sovrani si combatterono vicendevolmente e si avventarono l’uno sull’ altro al suono delle trombe di guerra, mentre Gerusalemme distava soltanto 16 km dal confine settentrionale. Del regno di Giuda, formato esclusivamente dalle tribù di Giuda e di Beniamino, fu primo re Roboamo, figlio di Salomone, mentre il suo avversario Geroboamo resse il regno d’Israele, di cui facevano parte 10 tribù. Ma i due, come racconta la Bibbia, si fecero guerra, come i loro successori Asa e Baasa. Se si dovesse prestare fede alla “parola di Dio”, si direbbe che il sangue scorse come l’acqua. “500000 uomini scelti rimasero sul campo di battaglia, sterminati dall’esercito d’Israele”. A loro volta, “i figli di Giuda si affidarono al SIGNORE, il Dio dei loro padri. Così Abiam cacciò Geroboamo …. Il SIGNORE lo colpì a morte. Abiam divenne re. Ebbe quattordici mogli e generò 21 figli maschi e 16 figlie femmine”.

(Per inciso: Salomone (961-922), il simbolo della saggezza, ebbe 700 mogli e 300 concubine; poiché queste, essendo straniere, lo spinsero ad adorare altre divinità, “il suo cuore non fu proprietà esclusiva del SIGNORE”).

Nel corso di questa lotta che vide Ebrei opposti ad altri Ebrei, era previsto che i prigionieri di guerra venissero rimessi in libertà, sempre che, senza grandi scrupoli, non fossero già stati trucidati o venduti come schiavi. L’Antico Testamento presenta questi ultimi come uomini particolarmente bisognosi dell’aiuto divino e promette loro la liberazione, ma solo con l’avvento del Messia.

Occasionalmente, ci furono, comunque relazioni tra i due regni, si stipularono addirittura delle alleanze, come quella tra il re d’Israele Joram (852-841) e il re di Giuda Josappat (870-849) contro i Moabiti, stretti alleati degli Ebrei. Ampie zone del territorio di Moab vennero terribilmente devastate, si usò, per l’appunto, la tattica del fare terra bruciata. “Distrussero le città, ogni uomo gettò un sasso nei campi, finché non furono tutti integralmente coperti, otturarono i pozzi e abbatterono tutti gli alberi da frutta”. Ma le lotte fratricide non cessarono, vi furono saccheggi, devastazioni, altri Stati vennero coinvolti nei conflitti come alleati o come nemici. Furono 150 anni di guerra pressoché ininterrotta. La Bibbia, esagerando come al solito, in un passo afferma quasi con millanteria: ” … e Israele sterminò in un solo giorno 100000 fanti aramei. I sopravvissuti si rifugiarono presso Aphek in città, ma le mura di questa crollarono uccidendo 27000 uomini”. “Come appare ora desolata la città, un tempo rinomata e sempre in festa”, dice Geremia ironizzando su Damasco e formulando la profezia per cui “la sua gioventù cadrà per le strade e il suo esercito verrà sbaragliato”. “Appiccherò il fuoco alle mura di Damasco, così da far crollare i palazzi del re Ben-Adad”. ln questi termini si esprime sempre Geremia, “il più originale e profondo di tutti profeti”, annoverato tra i più grandi “spiriti religiosi di tutti i tempi, avvicinabile a Cristo”.

Del resto, proprio i profeti ritornano sull’idea di “guerra santa”. In particolare Isaia interpreta, alla luce di questo concetto, tutta la storia d’Israele, le cui battaglie, in ultima analisi, vengono trasfigurate in momenti di una lotta voluta da Dio e per Dio in previsione del giudizio finale.

Certamente, come tutte le vittorie si conseguono CON DIO, così, inevitabilmente, le sconfitte non possono essere altro che la punizione per un atto di disobbedienza nei suoi riguardi. È questa, per così dire, una “filosofia della storia” che informa di sé non solo i due libri dei Re.

Ancora san Cirillo d’Alessandria … formula questo giudizio a proposito dei re della “terra di Giuda”: “Alcuni hanno disprezzato empiamente il timore di Dio … e su questi meschini miseramente si è abbattuta la rovina …. Altri, al contrario, sono stati custodi scrupolosi della devozione verso Dio … e questi, senza difficoltà, hanno sconfitto i loro nemici e abbattuto coloro che gli si opponevano”.

Quando Israele liquidò “in un solo giorno 100000 fanti Aramei”, era stato Jahwe che aveva consegnato nelle sue mani tale “immensa schiera di uomini”, perché il popolo eletto lo riconoscesse come il suo SIGNORE”. Durante la guerra fratricida tra il regno di Giuda, sotto Abiam (914-912) e il regno d’Israele, sotto Geroboamo (931-910), il primo sterminò, con l’aiuto di Dio, nel corso di una battaglia, circa 1200000 uomini. “Guarda, alla nostra guida ci sono Dio e i suoi sacerdoti … “. In occasione della vittoria sugli Etiopi furono abbattuti tutti i centri intorno a Gerar. Il terrore di Dio s’impossessò di loro e gli Israeliti poterono saccheggiare tutte le città … “. Di fronte all’avanzata degli Ammoniti e dei Moabiti, così il SIGNORE infondeva coraggio al popolo eletto: “Non abbiate timore, non perdetevi d’animo alla vista di questo grande esercito che incede; non sarete, infatti, voi a combattere, ma Dio”. Senza posa si abbatté il “furore di Dio su tutti i regni che sorgevano intorno a quello di Giuda”, i cui sovrani dovevano ridurre città ben munite a un cumulo di pietre, gettando nel panico gli abitanti e calpestandoli come l’erba dei campi, come l’erba sui tetti che si secca, quasi sul nascere”.

Non di rado, tuttavia, “il furore di Dio” colpì anche il popolo eletto.

Circa la metà dei re d’Israele furono assassinati. Nella “Sacra Scrittura”, la vita di quasi tutti questi re viene condensata nella frase: “egli agì in un modo che a Dio risultò sgradito”. Ad esempio, si legge: “Nel trentottesimo anno di regno di Azaria, re di Giuda, Zaccaria, figlio di Geroboamo, divenne sovrano d’Israele”. Ma regnò solo sei mesi a Samaria. Infatti: “Sallum, figlio di Jabes, ordì una congiura ai suoi danni, lo uccise e divenne re al suo posto”. Sallum, tuttavia, governò un mese soltanto. “Menachem, infatti … assassinò Sallum, figlio di Jabes e gli successe come re alla guida d’Israele”. E Menachem, che in occasione della conquista di Tiphsach, aveva ordinato di squartare tutte le donne incinte, grazie all’aiuto costante di Dio, resse il regno per un decennio e morì in pace. Ma suo figlio Pekachia governò due soli anni. Infatti, Pekach organizzò un complotto contro di lui, lo assalì e lo uccise a Samaria, nella torre di guardia del palazzo reale, insieme ad Argob e Arie e resse le sorti d’Israele al suo posto”. Egli regnò venti anni, ma, alla fine, Osea si ribellò contro di lui, “lo uccise e divenne re al suo posto”.

Sempre sotto il patrocinio di Dio, si arrivò ad eccidi dinastici di proporzioni ancora più rilevanti. Basti citare, a titolo d’esempio, Baasa che, dopo aver assassinato Nadab, re d’Israele (910-909) ed “essere divenuto re al suo posto”, “sterminò la stirpe di Geroboamo, non risparmiando nessuno, secondo quanto aveva prescritto il SIGNORE”. Geroboamo, infatti, aveva attirato su di sé l’ira del SIGNORE, Dio d’Israele”. Basa (909-886) riuscì a regnare ben ventiquattro anni, fino a quando, cioè, suo figlio Ela non prese in mano le redini dello Stato, tenendole, tuttavia solo due anni”. Il suo servo Simri, che aveva il comando di metà dei carri da guerra … lo uccise … e fu fatto re al suo posto”. E come un tempo Baasa, seguendo gli ordini del SIGNORE, aveva eliminato la stirpe del peccatore Geroboamo, anche Simri, ora, sempre assecondando la volontà del SIGNORE, annientò la stirpe di Baasa, “senza lasciargli, – come tradusse Lutero nel suo tedesco fortemente espressivo – nemmeno il tempo di pisciare”.

Ma Simri rimase seduto sul trono d’Israele, nella città di Tirza, soltanto sette giorni dell’ anno 885. Si gettò tra le fiamme nella torre di guardia del palazzo reale, allorché seppe che “tutto il popolo d’Israele” aveva innalzato alla dignità regale Omri, comandante dell’esercito. Omri (885-874) salì, dunque, al potere senza macchiarsi le mani di sangue; egli, fu uno dei re più capaci della storia d’Israele: consolidò il regno, fondò una dinastia che avrebbe governato per quarant’anni, lasciò, insieme a suo figlio Acab, un’impronta significativa a livello politico, economico e culturale, al punto che in alcune iscrizioni assire, di età successiva, il regno d’Israele viene indicato facendo riferimento al “Bit Humri”, cioè alla “stirpe di Omri”. Eppure, l’Antico Testamento ci racconta molto poco di lui. Ma questo non sorprende: Omri, infatti, aderì ad una sorta di sincretismo religioso che lo portò ad agire contro la volontà del SIGNORE, in modo ancora più grave dei suoi predecessori”.

Riguardo suo figlio Acab (874-853), gli studi più recenti hanno restituito l’immagine di un amministratore capace (naturalmente a vantaggio, soprattutto, dei ceti dirigenti) e di un grande costruttore di città, mentre la Bibbia, al contrario, lo dipinge come la quintessenza della malvagità e dell’empietà, come il despota crudele per eccellenza. E questo perché, nonostante egli ufficialmente facesse professione di fede in Jahwe, si preoccupasse d’interrogare i profeti prima di prendere importanti decisioni e chiamasse i propri figli con nomi graditi a Dio, tuttavia tollerò anche altri culti religiosi. Sua moglie Gezabele, principessa di Tiro (la cui figura viene demonizzata in Ap. 2,20) fu un’adoratrice devota di Baal e reintrodusse il culto di Atirat jam, dea della fecondità, e di Asera. Acab stesso fece costruire un altare e un tempio dedicati al venerato Baal, fece eseguire un ritratto di Asera, riuscendo, in tal modo, a far adirare il SIGNORE, Dio d’Israele, più di tutti i re che lo avevano preceduto”.

S’intraprese, allora, una crociata contro le religioni straniere, nell’ambito della quale incalzante divenne il momento del castigo. Promotore della Crociata fu il profeta Eliseo, discepolo e compagno del famigerato Elia, persecutore fanatico di Baal, i cui strali polemici avevano avuto, quale bersaglio prediletto, la coppia regale Acab-Gezabele. Eliseo seppe muoversi con avvedutezza, senza esporsi in prima persona, servendosi, piuttosto, di un” giovane profeta”. Costui apparteneva alla schiera di coloro che, in modo non dissimile dai sacerdoti cristiani, facevano i profeti a pagamento, opponendosi alla politica religiosa eccessivamente tollerante dei re d’Israele, seguendo l’esercito sui campi di battaglia come zelanti patrioti, propagandando la “guerra santa”. Per mezzo di questo giovane profeta, Eliseo istigò alla rivolta il comandante dell’esercito Jeu e lo fece consacrare re, evitando così di farlo personalmente, in quanto era a conoscenza che Jeu l'”assassino” sarebbe divenuto re solo dopo aver versato molto sangue. Il giovane profeta, nel nome di Dio, gli ordinò: “Tu distruggerai la dinastia di Acab, il tuo re …. Voglio che i discendenti di Acab siano annientati, dal primo all’ultimo rappresentante maschile che vive in Israele …. Il corpo di Gezabele sarà divorato dai cani, nella campagna di Izreel”.

In tal modo Jeu (841-814) liquidò la stirpe di Omri. Per primo uccise Joram (852-841), figlio di Acab. Poi fece uccidere la regina Gezabele in Izreel, e, non molto tempo dopo, il figlio di Joram, Acazia, re di Giuda. Analogamente, a Samaria fece sterminare altri 70 discendenti di Acab. Le teste recise delle vittime gli furono inviate in canestri e, alla vista di tale spettacolo, Jeu disse: “Nessuna delle minacce proferite dal SIGNORE contro la stirpe di Acab è caduta nel vuoto”. Ma, per saldare ancor meglio il debito che la casa di Acab aveva con Dio, Jeu eliminò il resto della famiglia del suo re di un tempo: i suoi parenti, i suoi grandi, i suoi sacerdoti, senza pietà per nessuno. Tuttavia, la catena di vendette non si fermò qui. Allorché sulla strada di ritorno verso Samaria Jeu s’imbatté nei fratelli di Acazia, il re di Giuda che già aveva fatto assassinare, ordinò di massacrare anche loro. “Catturateli vivi! Gli uomini di Jeu li presero vivi e poi li uccisero presso la fonte di Beth-Eked. Erano in 42, non ne rimase in vita nessuno”.

Tutto ciò avvenne secondo “la parola del SIGNORE” che il giovane profeta, mandato da Eliseo, aveva annunciato a Jeu. Probabilmente, fu in questa occasione che Eliseo propagandò anche la rimozione dei sacerdoti di Baal, tanto più che già il profeta Elia, suo signore e maestro, celebrato dai cattolici come “colui che infuse nelle famiglie lo stimolo ad agire con purezza di cuore” (Hamp), a suo tempo, aveva massacrato, presso il torrente Bach Kison, tutta la congrega dei sacerdoti di Baal che risiedevano in Israele, “450 uomini”, racconta la Bibbia, “uno dei momenti più esaltanti della sua esistenza”. Eppure, come osserva espressamente uno studioso cristiano: “I profeti di Baal non erano certo diventati aggressivi” (Caspari). Ma “il profeta”, sostiene Ilario, dottore della Chiesa, “è sempre pervaso di spirito divino”. Questa affermazione sembra tagliata proprio su Elia, il cui nome, che significa “Jahwe è il mio Dio”, già suona come “un programma teologico” (Preuss). Il re Jeu seguì drasticamente questa tradizione d’intransigenza religiosa. Egli invitò tutti i seguaci e i sacerdoti di Baal ad un “banchetto sacro”, con il pretesto di voler offrire un grande sacrificio a Baal, e ordinò ai suoi uomini: “Fate irruzione e uccideteli tutti, senza lasciarvi sfuggire nessuno! Essi obbedirono passandoli a fil di spada”. Per tutto questo, Dio lodò personalmente il re Jeu: “Poiché hai assecondato docilmente i miei voleri … i tuoi discendenti sederanno sul trono d’Israele fino alla quarta generazione”. Lo stesso Jeu, per quanto non si fosse astenuto dai peccati di Geroboamo, tenne le redini del regno d’Israele per 28 anni.

Ma la catena degli odi era destinata a non spezzarsi ancora. Atalia (841-835), madre di Acazia, dopo l’assassinio di suo figlio, rimase reggente unica del regno di Giuda. Non appena si fu impadronita del potere, come suo primo atto di governo, decretò lo sterminio di tutti i membri della casa di David che avrebbero potuto costituire per lei un pericolo. Si trattava, in sostanza, di una misura preventiva che restò in vigore finché Atalia stessa non fu assassinata per ordine del sommo sacerdote Ioiada. Atalia, in quanto figlia di Acab e Gezabele, aveva favorito 1’espansione del culto di Baal, attirando così su di sé l’odio della casta sacerdotale. “Lo spirito di Elia ed Eliseo trionfò nel Regno del Nord come in quello del Sud”.

Un secolo dopo, nel 722, gli Assiri assalirono il Regno d’Israele e lo annientarono: era il castigo divino per le sue ripetute mancanze nei confronti della vera religione! Tra il 597 e il 587, i Babilonesi, guidati da Nabucodonosor, conquistarono il Regno di Giuda. Nel 586, Gerusalemme fu espugnata e rasa al suolo, il territorio circostante devastato, un gruppo cospicuo del ceto nobiliare, tra cui il sommo sacerdote Seraia, giustiziato, la popolazione deportata, eccetto “vignaioli e contadini”. Anche la caduta del Regno di Giuda si configurava come la punizione di Dio per le colpe di Salomone, che non aveva condotto alcuna “guerra santa”, e di alcuni altri re. Era, in sostanza, il frutto della collera del Signore, indignato per tutti i peccati commessi”.

L’Impero babilonese, che era sembrato solido e praticamente invincibile al tempo di Nabucodonosor, solo mezzo secolo dopo, crollava sotto i colpi della potenza persiana, il cui fondatore, Ciro II, riuscì ad espugnare la capitale Babilonia, senza scagliare neppure una freccia. Duecento anni più tardi, anche il grande impero persiano si era dissolto, divenendo facile preda dei Macedoni, guidati da Alessandro Magno, che, tra il 331 e il 323, fece di Babilonia la sua residenza. Al tempo dell’Impero seleucide (312-64), la città continuò a rivestire un ruolo di rilievo, fino alla penetrazione romana in quest’area. Ma già nell’anno 100 d. c., Babilonia era ormai, soltanto, un cumulo di celebri rovine.

        Con queste utilissime informazioni, che fanno capire molto bene la funzione della Bibbia per il popolo ebraico ed il perché di successivi rimaneggiamenti e sistemazioni con profeti che profetizzano ciò che già sanno, è ora di tornare alla lettura della Bibbia per cogliere le parti sommamente edificanti del racconto che la Parola di Dio ci fornisce.

I COMANDAMENTI IMMORALI DI DIO

        Quando Gesù, in Matteo e Luca, diceva quanto già detto:

17 Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. 18 In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla Legge, senza che tutto sia compiuto. [Mt 5; 17-18]

17 E’ più facile che abbiano fine il cielo e la terra, anziché cada un solo trattino della Legge. [Lc 16; 17]

a quale Legge, per l’esattezza, si riferiva ? In linea del tutto generale si può dire che è l’intera Bibbia (VT) nella quale vi sono tre codici legali. Il più antico è il Codice del Patto che risale all’epoca di Mosè (circa XIII secolo a.C.) con molteplici cambiamenti ed interpolazioni fatte tre secoli dopo, quando il testo orale venne trascritto. Si tratta dell’Esodo (con la Genesi ed i Numeri) e quindi del Patto tra Dio e Mosè riferito al popolo, al quale ho accennato. Durante questa trascrizione venne anche aggiunto il Levitico che raccoglie il codice noto come Codice di Santità con norme riguardanti templi, sacerdoti e gestione del patto medesimo. Il terzo è il Codice Deuteronomico,che si trova nel Deuteronomio la cui redazione iniziò intorno al 621 a.C., nel quale figurano, oltre ad alcune novità, leggi già enunciate nei codici precedenti con alcune variazioni ed aggiustamenti.

        La ristrutturazione e redazione definitiva del Pentateuco, che si fece ai tempi di Esdra (458-445 a. C.) considerato il secondo Mosè, comportò tra l’altro una rivisitazione di tutti i codici legali e la loro sistemazione nei luoghi dove oggi sono situati nella Bibbia. Il contenuto di questi codici è talmente inaccettabile ed inumano che la Chiesa lo nasconde dietro l’ipocrita dicitura di Legge mosaica. Ma è la Bibbia stessa che smentisce i saggi teologi che stanno dietro queste truffaldine definizioni. Infatti quelle leggi sono di Dio e non di Mosè, come Dio stesso affermò in moto indiscutibile ordinando a Mosè di farle conoscere al popolo ebraico:

  1 Queste sono le norme che tu esporrai loro. [Es. 21, 1]

ribadendo più oltre:

 27 Il Signore disse a Mosè: «Scrivi queste parole, perché sulla base di queste parole io ho stabilito un’alleanza con te e con Israele». [Es. 34, 27].

Ma Dio non si accontenta di questi ordini perentori. Usa accompagnarli con terrorifiche minacce:

14 Ma se non mi ascolterete e se non metterete in pratica tutti questi comandi, 15 se disprezzerete le mie leggi e rigetterete le mie prescrizioni, non mettendo in pratica tutti i miei comandi e infrangendo la mia alleanza, 16 ecco che cosa farò a voi a mia volta: manderò contro di voi il terrore, la consunzione e la febbre, che vi faranno languire gli occhi e vi consumeranno la vita. Seminerete invano il vostro seme: se lo mangeranno i vostri nemici. 17 Volgerò la faccia contro di voi e voi sarete sconfitti dai nemici; quelli che vi odiano vi opprimeranno e vi darete alla fuga, senza che alcuno vi insegua. 18 Se nemmeno dopo questo mi ascolterete, io vi castigherò sette volte di più per i vostri peccati. 19 Spezzerò la vostra forza superba, renderò il vostro cielo come ferro e la vostra terra come rame. 20 Le vostre energie si consumeranno invano, poiché la vostra terra non darà prodotti e gli alberi della campagna non daranno frutti.
21 Se vi opporrete a me e non mi ascolterete, io vi colpirò sette volte di più, secondo i vostri peccati. 22 Manderò contro di voi le bestie selvatiche, che vi rapiranno i figli, stermineranno il vostro bestiame, vi ridurranno a un piccolo numero e le vostre strade diventeranno deserte.
23 Se nonostante questi castighi, non vorrete correggervi per tornare a me, ma vi opporrete a me, anch’io mi opporrò a voi 24 e vi colpirò sette volte di più per i vostri peccati. 25 Manderò contro di voi la spada, vindice della mia alleanza; voi vi raccoglierete nelle vostre città, ma io manderò in mezzo a voi la peste e sarete dati in mano al nemico. 26 Quando io avrò spezzato le riserve del pane, dieci donne faranno cuocere il vostro pane in uno stesso forno, ve lo riporteranno a peso e mangerete, ma non vi sazierete.
27 Se, nonostante tutto questo, non vorrete darmi ascolto, ma vi opporrete a me, 28 anch’io mi opporrò a voi con furore e vi castigherò sette volte di più per i vostri peccati. 29 Mangerete perfino la carne dei vostri figli e mangerete la carne delle vostre figlie. 30 Devasterò le vostre alture di culto, distruggerò i vostri altari per l’incenso, butterò i vostri cadaveri sui cadaveri dei vostri idoli e io vi avrò in abominio. 31 Ridurrò le vostre città a deserti, devasterò i vostri santuari e non aspirerò più il profumo dei vostri incensi. 32 Devasterò io stesso il vostro paese e i vostri nemici, che vi prenderanno dimora, ne saranno stupefatti. 33 Quanto a voi, vi disperderò fra le nazioni e vi inseguirò con la spada sguainata; il vostro paese sarà desolato e le vostre città saranno deserte.
34 Allora la terra godrà i suoi sabati per tutto il tempo in cui rimarrà desolata e voi sarete nel paese dei vostri nemici; allora la terra si riposerà e si compenserà dei suoi sabati. 35 Finché rimarrà desolata, avrà il riposo che non le fu concesso da voi con i sabati, quando l’abitavate.
36 A quelli che fra di voi saranno superstiti infonderò nel cuore costernazione, nel paese dei loro nemici: il fruscìo di una foglia agitata li metterà in fuga; fuggiranno come si fugge di fronte alla spada e cadranno senza che alcuno li insegua. 37 Precipiteranno uno sopra l’altro come di fronte alla spada, senza che alcuno li insegua. Non potrete resistere dinanzi ai vostri nemici. 38 Perirete fra le nazioni: il paese dei vostri nemici vi divorerà.
39 Quelli che tra di voi saranno superstiti nei paesi dei loro nemici, si consumeranno a causa delle proprie iniquità; anche a causa delle iniquità dei loro padri periranno. 40 Dovranno confessare la loro iniquità e l’iniquità dei loro padri: per essere stati infedeli nei miei riguardi ed essersi opposti a me; 41 peccati per i quali anche io mi sono opposto a loro e li ho deportati nel paese dei loro nemici. Allora il loro cuore non circonciso si umilierà e allora sconteranno la loro colpa. 42 Io mi ricorderò della mia alleanza con Giacobbe, dell’alleanza con Isacco e dell’alleanza con Abramo e mi ricorderò del paese. 43 Quando dunque il paese sarà abbandonato da loro e godrà i suoi sabati, mentre rimarrà deserto, senza di loro, essi sconteranno la loro colpa, per avere disprezzato le mie prescrizioni ed essersi stancati delle mie leggi.
44 Nonostante tutto questo, quando saranno nel paese dei loro nemici, io non li rigetterò e non mi stancherò di essi fino al punto d’annientarli del tutto e di rompere la mia alleanza con loro; poiché io sono il Signore loro Dio; 45 ma per loro amore mi ricorderò dell’alleanza con i loro antenati, che ho fatto uscire dal paese d’Egitto davanti alle nazioni, per essere il loro Dio. Io sono il Signore». 46 Questi sono gli statuti, le prescrizioni e le leggi che il Signore stabilì fra sé e gli Israeliti, sul monte Sinai, per mezzo di Mosè. [Lv. 26, 14-46]

        Non tregge quindi in alcun modo l’imbroglio della Chiesa che parla di Legge mosaica. La Legge è Legge di Dio ed è lo stesso Gesù che la reclama e Gesù non era uno sprovveduto, sapeva bene a cosa si riferiva. A meno che qualche teologo non neghi questa mia ultima frase.

        In definitiva la volontà e la legge di Dio afferma:

58 Se non cercherai di eseguire tutte le parole di questa legge, scritte in questo libro, avendo timore di questo nome glorioso e terribile del Signore tuo Dio, 59 allora il Signore colpirà te e i tuoi discendenti con flagelli prodigiosi: flagelli grandi e duraturi, malattie maligne e ostinate. 60 Farà tornare su di te le infermità dell’Egitto, delle quali tu avevi paura, e si attaccheranno a te. 61 Anche ogni altra malattia e ogni flagello, che non sta scritto nel libro di questa legge, il Signore manderà contro di te, finché tu non sia distrutto. [Dt. 28, 58-61]

Vediamo in dettaglio, dopo questa premessa, quali sono i primi comandamenti immorali di Dio estratti dalla Bibbia (VT). Ne riporto qui 16:

1 28 Nondimeno quanto uno avrà consacrato al Signore con voto di sterminio, fra le cose che gli appartengono: persona, animale o pezzo di terra del suo patrimonio, non potrà essere né venduto né riscattato; ogni cosa votata allo sterminio è cosa santissima, riservata al Signore. 29 Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere riscattata; dovrà essere messa a morte. [Lv. 27, 28-29]

Questa era una richiesta di sterminio (o anatema) che Dio faceva al suo popolo, quello di Israele, nei riguardi di ogni popolo, città, regno conquistati. Ogni abitante di queste popolazioni, non importa di che età, sesso o condizione, doveva essere sterminato. L’anatema, lo sterminio, si estendeva alle greggi. Tutti, persone ed animali, infilzati senza pietà. E, come nelle migliori tradizioni del mondo, dovevano essere salvate solo le fanciulle vergini. Questo comandamento barbaro nel Levitico è ripetuto con molto maggiore dettaglio anche nel Deuteronomio:

2 10 Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla, le offrirai prima la pace. 11 Se accetta la pace e ti apre le sue porte, tutto il popolo che vi si troverà ti sarà tributario e ti servirà. 12 Ma se non vuol far pace con te e vorrà la guerra, allora l’assedierai. 13 Quando il Signore tuo Dio l’avrà data nelle tue mani, ne colpirai a fil di spada tutti i maschi; 14 ma le donne, i bambini, il bestiame e quanto sarà nella città, tutto il suo bottino, li prenderai come tua preda; mangerai il bottino dei tuoi nemici, che il Signore tuo Dio ti avrà dato. 15 Così farai per tutte le città che sono molto lontane da te e che non sono città di queste nazioni.
16 Soltanto nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun essere che respiri; 17 ma li voterai allo sterminio: cioè gli Hittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei, come il Signore tuo Dio ti ha comandato di fare, 18 perché essi non v’insegnino a commettere tutti gli abomini che fanno per i loro dèi e voi non pecchiate contro il Signore vostro Dio. [Dt. 20, 10-18]

Sempre nel Deuteronomio troviamo il comandamento che segue:

3 7 Qualora il tuo fratello, figlio di tuo padre o figlio di tua madre, o il figlio o la figlia o la moglie che riposa sul tuo petto o l’amico che è come te stesso, t’istighi in segreto, dicendo: Andiamo, serviamo altri dèi, dèi che né tu né i tuoi padri avete conosciuti, 8 divinità dei popoli che vi circondano, vicini a te o da te lontani da una estremità all’altra della terra, 9 tu non dargli retta, non ascoltarlo; il tuo occhio non lo compianga; non risparmiarlo, non coprire la sua colpa. 10 Anzi devi ucciderlo: la tua mano sia la prima contro di lui per metterlo a morte; poi la mano di tutto il popolo; 11 lapidalo e muoia, perché ha cercato di trascinarti lontano dal Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. [Dt. 13, 7-11]

Come si può osservare vi è una intransigenza folle e criminale che vuole la distruzione di chi crede e propaganda un altro Dio, fosse esso anche un amico un parente stretto. D’altra parte questo carattere di Dio è scritto anche nei comandamenti canonici, in quella parte che la Chiesa omette, quando Dio dice: “Io sono un Dio geloso“. E l’intransigenza è articolata più oltre come segue con un Dio gonfio d’ira:

4 13 Qualora tu senta dire di una delle tue città che il Signore tuo Dio ti dà per abitare, 14 che uomini iniqui sono usciti in mezzo a te e hanno sedotto gli abitanti della loro città dicendo: Andiamo, serviamo altri dèi, che voi non avete mai conosciuti, 15 tu farai le indagini, investigherai, interrogherai con cura; se troverai che la cosa è vera, che il fatto sussiste e che un tale abominio è stato realmente commesso in mezzo a te, 16 allora dovrai passare a fil di spada gli abitanti di quella città, la voterai allo sterminio, con quanto contiene e passerai a fil di spada anche il suo bestiame. 17 Poi radunerai tutto il bottino in mezzo alla piazza e brucerai nel fuoco la città e l’intero suo bottino, sacrificio per il Signore tuo Dio; diventerà una rovina per sempre e non sarà più ricostruita. 18 Nulla di ciò che sarà votato allo sterminio si attaccherà alle tue mani, perché il Signore desista dalla sua ira ardente, ti conceda misericordia, abbia pietà di te e ti moltiplichi come ha giurato ai tuoi padri, 19 qualora tu ascolti la voce del Signore tuo Dio, osservando tutti i suoi comandi che oggi ti dò e facendo ciò che è retto agli occhi del Signore tuo Dio. [Dt. 13, 13-19]

Dopo questi insegnamenti divini, Dio continua a fornire comandamenti immorali specificando i termini dell’assassinio che va punito e quello che no. Per Dio la cosa è relativa (capito sig. Ratzinger ?) a chi uccide:

5 12 Colui che colpisce un uomo causandone la morte, sarà messo a morte. 13 Però per colui che non ha teso insidia, ma che Dio gli ha fatto incontrare, io ti fisserò un luogo dove potrà rifugiarsi. 14 Ma, quando un uomo attenta al suo prossimo per ucciderlo con inganno, allora lo strapperai anche dal mio altare, perché sia messo a morte.
15 Colui che percuote suo padre o sua madre sarà messo a morte.
16 Colui che rapisce un uomo e lo vende, se lo si trova ancora in mano a lui, sarà messo a morte.
17 Colui che maledice suo padre o sua madre sarà messo a morte. [Es. 21, 12-17]

Subito dopo Dio ci spiega che la schiavitù è cosa buona. Che gli schiavi possono essere bastonati fino a quasi ammazzarli. Che se la morte avviene dopo almeno un giorno di agonia il padrone non è condannabile anche perché quegli schiavi gli appartenevano.

6 20 Quando un uomo colpisce con il bastone il suo schiavo o la sua schiava e gli muore sotto le sue mani, si deve fare vendetta. 21 Ma se sopravvive un giorno o due, non sarà vendicato, perché è acquisto del suo denaro. [Es. 21, 20-21]

I comandamenti di Dio arrivano, e come no ?, anche all’aborto trattando il feto come un oggetto di proprietà del maschio da mercanteggiare con chi provoca l’aborto:

7 22 Quando alcuni uomini rissano e urtano una donna incinta, così da farla abortire, se non vi è altra disgrazia, si esigerà un’ammenda, secondo quanto imporrà il marito della donna, e il colpevole pagherà attraverso un arbitrato. 23 Ma se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: 24 occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, 25 bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido. [Es. 21, 22-25]

e ciò fa capire che la morte di una donna in età fertile è cosa molto più grave che la perdita di un feto. Ma su questo tema Dio continua con un trattamento della donna alla pari di un oggetto:

8 15 Quando un uomo seduce una vergine non ancora fidanzata e pecca con lei, ne pagherà la dote nuziale ed essa diverrà sua moglie. 16 Se il padre di lei si rifiuta di dargliela, egli dovrà versare una somma di denaro pari alla dote nuziale delle vergini. [Es. 22, 15-16]

se si riflette si tratta di un modo intelligentemente religioso per rendere biblica la prostituzione organizzata dai padri con le figlie vergini. Ma le vergini sono una ossessione non per l’uomo ma per Dio. Dio non ha mai spiegato perché ma qualche pastore nomade avrebbe potuto spiegarlo a Dio. I figli eredi non potevano essere figli di un altro padre !

9 28 Se un uomo trova una fanciulla vergine che non sia fidanzata, l’afferra e pecca con lei e sono colti in flagrante, 29 l’uomo che ha peccato con lei darà al padre della fanciulla cinquanta sicli d’argento; essa sarà sua moglie, per il fatto che egli l’ha disonorata, e non potrà ripudiarla per tutto il tempo della sua vita. [Dt. 22, 28-29]

Quest’ultimo comandamento raggiunge l’indegno sublime: una fanciulla viene violentata da un maschietto. Se nessuno lo scopre la passa franca. Ma se qualcuno lo scopre paga il padre e potrà tenersi la vittima per tutta la vita senza che quest’ultima possa opinare. Insomma la vittima di uno stupro diventa proprietà dello stupratore.

10 1 Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa. 2 Se essa, uscita dalla casa di lui, va e diventa moglie di un altro marito 3 e questi la prende in odio, scrive per lei un libello di ripudio, glielo consegna in mano e la manda via dalla casa o se quest’altro marito, che l’aveva presa per moglie, muore, 4 il primo marito, che l’aveva rinviata, non potrà riprenderla per moglie, dopo che essa è stata contaminata, perché sarebbe abominio agli occhi del Signore; tu non renderai colpevole di peccato il paese che il Signore tuo Dio sta per darti in eredità. [Dt. 24, 1-4]

Non sentite la puzza dello schifo che questo comandamento comporta ? La donna è ancora oggetto di un maschietto e di una vergognosa società patriarcale. Queste cose forse avevano un senso in una comunità di pastori nomadi ma il fatto che Dio fosse un pastore nomade c’è da riflettere come c’è da chiedersi se è possibile che dopo 3 mila anni la società si sia evoluta ed abbisogna un Dio che provenga da questo mondo e non da una pastorizia nomade.

11 11 Se alcuni verranno a contesa fra di loro e la moglie dell’uno si avvicinerà per liberare il marito dalle mani di chi lo percuote e stenderà la mano per afferrare costui nelle parti vergognose, 12 tu le taglierai la mano e l’occhio tuo non dovrà averne compassione. [Dt. 25, 11-12]

Così Dio risolve i problemi: bastonando sempre sempre le donne anche quando intervengono per aiutare il proprio consorte. Che poi Dio pensi che l’intervento di una donna debba per forza andare a prendere i testicoli di un uomo è quantomeno stravagante ma Dio ha sue idee precise che non debbono essere discusse. Ma veniamo all’omosessualità.

12 22 Non avrai con maschio relazioni come si hanno con donna: è abominio. [Lv. 18, 22] 29 Perché quanti commetteranno qualcuna di queste pratiche abominevoli saranno eliminati dal loro popolo. [Lv. 18, 29]
13 Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna, tutti e due hanno commesso un abominio; dovranno essere messi a morte; il loro sangue ricadrà su di loro. [Lv. 20, 13]

L’omofobia è imperante nella mente di Dio e del suo popolo. Nella società di pastori il sesso deve essere utilizzato solo per la riproduzione. Se poi Dio si dimentica che è stato proprio lui a creare l’omosessualità (quella ad esempio che legò il Re David con Gionata, il figlio maggiore di Saul(14) …) per una creazione sballata allora merita un poco di compassione. La creazione era sballata perché Dio non sapeva bene cosa fare. Quando si accorse che Adamo aveva bisogno di compagnia gli creò gli animali. Solo dopo capì che gli serviva una donna. Nel fare Eva qualche costola  gli è andata storta (rispetto ai suoi voleri) e sono venuti fuori gli omosessuali, frutto solo di una creazione e non di volontà umane.

18 Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile». 19 Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. 20 Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. 21 Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. 22 Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. 23 Allora l’uomo disse:
«Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta». [Gn. 2, 18-23]

E la compassione per un tale Dio deve essere molto grande se colui che è stasto liberato deve pagargli un riscatto ed ancora maggiore se il riscatto è lo stesso per ricchi e poveri:

13 11 Il Signore parlò a Mosè e gli disse: 12 «Quando per il censimento farai la rassegna degli Israeliti, ciascuno di essi pagherà al Signore il riscatto della sua vita all’atto del censimento, perché non li colpisca un flagello in occasione del loro censimento. 13 Chiunque verrà sottoposto al censimento, pagherà un mezzo siclo, computato secondo il siclo del santuario, il siclo di venti ghera. Questo mezzo siclo sarà un’offerta prelevata in onore del Signore. 14 Ogni persona sottoposta al censimento, dai venti anni in su, paghi l’offerta prelevata per il Signore. 15 Il ricco non darà di più e il povero non darà di meno di mezzo siclo, per soddisfare all’offerta prelevata per il Signore, a riscatto delle vostre vite.  [Es. 30, 11-15]

Un Dio davvero straordinario se non ammette alle sue assemblee delle perone menomate nell’apparato sessuale:

14 2 Non entrerà nella comunità del Signore chi ha il membro contuso o mutilato.  [Dt. 23, 2]

Questa sciocchezza è comprensibile solo se si ricorda che Dio è molto distratto e non è onnipotente. Infatti nella Genesi aveva sostenuto:

 11 Vi lascerete circoncidere la carne del vostro membro e ciò sarà il segno dell’alleanza tra me e voi. [Gn. 17, 11]

e se Dio non è in grado di vedere materialmente la circoncisione non sa riconoscere un figlio del suo popolo. E ve ne sono altri che il buon Dio non vuole nelle sue assemblee, i bastardi fino a generazioni infinite con eventuali colpe su chi davvero non solo non c’entra ma neppure immagina da chi sia nato.

15 3 Il bastardo non entrerà nella comunità del Signore; nessuno dei suoi, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore. [Dt. 23, 3]

Da ultimo Dio fornisce una lezione di strozzinaggio al suo popolo, veramente edificante:

16 21 Allo straniero potrai prestare a interesse, ma non al tuo fratello, perché il Signore tuo Dio ti benedica in tutto ciò a cui metterai mano, nel paese di cui stai per andare a prender possesso. [Dt. 23, 21]

Dopo aver ricordato ai cristiani questi comandamenti (gli ebrei li conoscono molto bene), passo ad illustrare altri insegnamenti del Buon Dio che occorre tenere in grande considerazione se si vuole accedere al regno dei cieli. Lo farò nell’articolo seguente.


NOTE

(1) Il nome del «sabato», in ebraico shabbath, deriva dal babilonese shabattu, la festa della luna piena; un altro giorno era dedicato alla festa della luna nuova. I babilonesi lo avevano preso dai sumèri, e i cananei dai babilonesi; ma la sua applicazione al «settimo giorno» della settimana sembra di stretta origine ebraica. I babilonesi si astenevano dal lavoro nei giorni che «portavano sfortuna»: il 7, 14, 21 e 28 dei due mesi di Elul Il e di Marcheswan. Sotto la spinta dei profeti del VII secolo, questi giorni divennero invece per gli ebrei «giorni di riposo e di ringraziamento» e furono estesi agli schiavi. Ai signori romani tale concessione parve assurda; il tanto ammirato Seneca lamentava che in questo modo si faceva «perdere la settima parte del lavoro umano» e Tacito cita il riposo del sabato come una riprova della propensione degli ebrei alla pigrizia (Storie, V, 2, 4). Per cercare di spiegarne in qualche modo l’origine, si fantasticò di un collegamento di quel giorno con il pianeta Saturno. Di qui il nome, che si è conservato in qualche lingua moderna, di «giorno di Saturno» (Satur-day in inglese). Non solo per differenziarsi dagli ebrei, ma soprattutto per motivi di prestigio religioso, data la grande diffusione del culto del «dio-sole» negli ultimi secoli dell’impero pagano, i cristiani adottarono invece la festa del «Signore Sole» (dies dominica) e ne fecero il loro giorno di preghiera e di riposo, consacrata ormai al «Signore Gesù» (la domenica). Ma questo passaggio non si è compiuto senza resistenze; l’osservanza del sabato si mantenne presso varie correnti cristiane dissidenti e alcune sètte protestanti, oggi ancora, si richiamano al sabato, il «settimo giorno» (per esempio, gli «Avventisti del settimo giorno», sorti in America nel 1862 allo scopo di ritornare alla stretta osservanza biblica, nell’attesa del «secondo avvento» del Cristo sulla terra).

(2) Questa specificazione non vale o non dovrebbe valere per i cristiani per i quali è sempre proibito uccidere. Vedremo oltre che questa è una delle bugie nell’uso della Bibbia fatto dai cristiani.

(3) La scrittura fenicia (semitica), risalente al XII secolo a.C. e sviluppata dai trafficanti fenici per le necessità dei loro traffici, sembra derivi da quella corsiva (ieratica) egizia. Da tale scrittura derivarono, oltre a quella greca, quella aramaica, ebraica e probabilmente araba. La grande novità di tale scrittura è il non essere più patrimonio di una qualche casta di scribi ma di tutti. Deve essere fonetica, facile da apprendere, semplice, flessibile e pratica per facilitare al massimo la comunicazione. Essa era consonantico-sillabica, cioè priva della notazione delle vocali. La notazione sillabica fenicia aveva operato una drastica riduzione di sillabe perché raggruppava le sillabe accomunate dalla medesima consonante iniziale (in precedenza infatti si disponeva di segni dotati di valori fonetici corrispondenti alle sillabe, unità fonetiche pronunciabili ed empiricamente identificabili. I “sillabari” però, dato l’elevato numero di sillabe, erano ancora difficilmente memorizzabili e poco maneggevoli perché vi erano tante sillabe quanti oggetti da indicare con la conseguenza che le stesse sillabe si ripetevano). Era una grande semplificazione che si pagava con l’ambiguità (il caso di parole differenti ma con consonanti uguali è tutt’altro che raro) perché era il lettore che doveva capire quale vocale inserire subito dopo la data consonante. [Il corsivo è in gran parte tratto da: http://www.thanx.it/Web/Web-Writing/03-Avvento-alfabeto-greco.pdf]   E’ solo intorno alla metà del VII secolo a.C. che viene via via reintrodotta la scrittura derivata da quella consonantica fenicia. La principale differenza sta nell’introduzione di vocali con simboli presi da consonanti fenicie deboli (Alef, Heh, Het, Yod, ‘ayin) non possedute dalla lingua greca. Si tratta di una scrittura alfabetica, basata sul primo vero alfabeto della storia. Esso sarà utilizzato, con poche differenze e varianti, da varie città dell’Egeo e sarà adottato ufficialmente come alfabeto greco classico per tutta la Grecia da Atene nell’anno 403 a.C., solo 4 anni prima della morte di Socrate.
    L’utilizzo della scrittura (che come supporto aveva tavolette di legno, tavolette di cera, pelli e papiri), e di quella alfabetica in particolare, istituisce una nuova mentalità volta a modificare per sempre le pratiche degli uomini ad essa educati. Entro questo orizzonte, e non altrove, s’instaura lo sguardo logico e razionale con i suoi prodotti: la filosofia e successivamente la scienza.
    Con la scrittura alfabetica è possibile mettere in moto i processi di astrazione che sono tipici di conoscenze evolute e non ingenue. Le parole non sono più legate ad oggetti, a cose, ma via via diventano concetti, cioè oggetto autonomo di riflessione, del tutto separato dalle parole e dal linguaggio. E’ ora possibile non solo pensare ma pensare su ciò che è stato pensato instaurando un processo virtuoso di crescita intellettuale che non potrà essere fermato. Un discorso più completo su queste importanti questioni l’ho sviluppato in Preludio alla scienza ed in La nascita della scienza in Grecia (Ionici e Pitagorici).

(4) Leggo da Breve storia della Bibbia:

    Ben lungi dall’essere leggibili a prima vista questi rotoli apparivano al lettore come una sequenza interminabile di lettere, dalla prima all’ultima riga. (In realtà, come si vede dalla figura, ogni tanto ci sono delle spaziature multiple, che indicano però delle pause “emotive” e non hanno nulla a che vedere con la composizione delle singola parole).


P r a t i c a m e n t e l a b i b b i a a p p a r i v a s c r i t t a c o s ì


    Non sono indicate le parole vere e proprie, ma devi trovartele tu separando i gruppi di lettere al punto giusto; siccome in realtà gli ebrei non scrivevano nemmeno le vocali, l’equivalente per noi sarebbe stato questo:


P r t c m n t l b b b p p r v s c r t t c s

    Moltiplicate questo rebus per circa 2 milioni e mezzo di lettere consecutive ed avrete davanti la Bibbia.

    Il problema dell'”interpretabilità” della Bibbia è quindi a strati multipli, poiché bisogna prima di tutto mettersi d’accordo su quello che c’è effettivamente scritto sopra. Soltanto dopo si potrà affrontare un’eventuale lettura allegorica o simbolica, del testo e casomai, in ultimo, quella ancor più complessa ed arcana detta esoterica o “cabalistica”.
    In un testo cosi lungo si verificano, per pura legge statistica, migliaia di casi in cui certe lettere possono essere attribuite sia alla parola precedente che a quella seguente, dando comunque un senso compiuto. L’udito, oppure lu dito? (per un sardo, il problema potrebbe anche porsi).
    Vi sono poi altrettanti casi in cui la variazione delle semplici vocali può dare adito a letture completamente diverse. Una cosa è dire “ti amo tanto”, ben altra è dire “tu mi tenti”, anche se le consonanti – t m t n t – rimangono le stesse. (Per non parlare poi di “temo i tonti”, o di “Tom è tinto”). Naturalmente, nel corso del tempo le varie generazioni di rabbini sono giunte ad un consenso di massima sul significato di ogni frase che è rispecchiato dalla moderna versione ebraica della Bibbia. Già che c’erano hanno pensato bene di aggiungere anche le vocali e di staccare le parole. Anche l’occhio vuole la sua parte.
    Come facciamo noi a sapere che questa versione “ufficiale” corrisponde davvero all’antico originale? In fondo, abbiamo visto come i Vangeli canonici siano stati martoriati, nel corso dei primi secoli, da correzioni, tagli e interpolazioni di ogni genere, volute dai padri della chiesa per adattare il credo, originariamente nato in Palestina, al mondo e alla mentalità dei gentili.
    Per quel che riguarda la Bibbia, diciamo innanzitutto che per “originale” si intende, in realtà, la versione redatta nel 539 a.C. dal profeta Ezra sulla via del ritorno da Babilonia, andando completamente a memoria. I “veri” testi antichi, infatti, erano stati tutti distrutti nel rogo del Primo Tempio, dai soldati di Nabuccodonosor. Fortunatamente sono stati ritrovati, nell’ultimo dopoguerra, i cosiddetti Rotoli del Mar Morto, i libri sacri che la comunità sacerdotale degli Esseni aveva nascosto nelle inaccessibili grotte di Qumran (vedi foto) e che così sono sfuggiti anche alla distruzione del Secondo Tempio ad opera dei Romani, nel 70 d.C.


    Fra questi rotoli si è ritrovato un libro quasi completo di Isaia (foto sotto) che antedatava l’esodo di Babilonia e che risultò essere identico, lettera per lettera, alla versione tramandataci a memoria da Ezra.


    Questa fu messa definitivamente per iscritto nel secondo secolo a.C., nella versione cosiddetta “masoretica”, della quale però nessun originale riuscì a superare intatto le intemperie della storia. Il più antico testo completo della Bibbia ebraica disponibile oggi è il Codex Leningradensis che è una copia del masoretico che fu redatta “soltanto” nel 1008 dopo Cristo.
    Nonostante questo, grazie ad una serie di complicatissimi riscontri incrociati fra tutti i reperti biblici ritrovati finora – dal completo Isaia di Qumran, al più microscopico frammento di testo sacro – è stato possibile affermare con relativa certezza che la Bibbia ebraica contemporanea, cioè la versione masoretica, corrisponda fedelmente al testo originale del tempo dei profeti.

        In ogni caso si deve tener presente che la Bibbia è una ricostruzione fantastica di alcuni fatti riguardanti il popolo ebraico. “Due filoni della ricerca, da una parte l’analisi filologica dei testi biblici, dall’altra l’archeologia arrivano alle stesse conclusioni”, sostiene Mario Liverani, che insegna Storia del Vicino Oriente Antico all’università La Sapienza di Roma ed è autore del volume Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele (Laterza, 2007), “E le conclusioni sono che non possono essere considerati storici i racconti più celebri del Vecchio Testamento, come le vicende di Abramo e dei Patriarchi, la schiavitù in Egitto, l’Esodo e la peregrinazione nel deserto, la conquista della terra promessa, la magnificenza del regno di Salomone”. “Gli ebrei, come del resto tanti altri popoli, si sono dati un mito delle origini nel momento in cui ne avevano più bisogno”, dice Liverani. “Oggi, con evidente anacronismo, ma con qualche ragione, si potrebbero accostare quelle pagine del Vecchio Testamento a un documento di propaganda politica”. Occorreva dare un passato nobile ad un popolo che rischiava di perdere la propria identità. E questa dovrebbe essere l’ottica con cui affrontare il documento Bibbia.

(5) Per farsi un’idea delle altre cosmologie primitive, particolarmente di quelle mesopotamica ed egiziana, si può vedere Preludio alla scienza.

(6) L’episodio biblico al centro della feroce (da parte della Chiesa) controversia è quello di Giosuè. L’esercito israeliano, capitanato da Giosuè, è impegnato in una delle continue battaglie. Sta vincendo ma sta terminando il giorno con il rischio di dover sospendere la battaglia e che, durante la notte, il nemico si riorganizzi. Come fare ? Giosuè si rivolge a Dio (al suo, che non era certamente lo stesso dell’avversario) chiedendo di fermare il Sole nel cielo. La cosa andrà come Giosuè chiedeva fino alla vittoria definitiva. Da questo episodio la Chiesa traeva la conclusione che il Sole era in moto, altrimenti non avrebbe avuto senso il chiedere che si fermasse. Se avesse avuto ragione Galileo che parlava di Terra in moto intorno al Sole immobile, si sarebbe dovuto dire “fermati o Terra”.

(7) Scrive Pepe Rodriguez [11] a proposito della virtù redentrice della sofferenza:

    Il disegno ella virtù redentrice della sofferenza, che sarà uno dei punti saldi del cristianesimo, avrà la sua spinta decisiva nel cosiddetto Deutero-Isaia, cioè il libro attribuito a Isaia, ma scritto dal redattore deuteronomista due secoli dopo. Nel testo detto Canto di Servo di Dio (Is 42, 1-9; 49, 1-6; 50, 4-9; 53, 12) si presenta come già accettato dal Signore il sacrificio espiatorio delle sofferenze del Servo (personificazione della comunità esiliata e rappresentazione del vero popolo d’Israele); in questo modo l’élite – sacerdotale – dichiarava di assicurare la «salvezza» di tutto il popolo, anche se esso non avesse fatto niente per meritarla, poiché «il giusto mio servo giustificherà molti» (Is 53, 11) e sarà «formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni» (Is 42, 6) in quanto, prodotta l’inevitabile fine dell’ esilio, si dimostrerà di fronte al mondo il potere senza uguali che emana il Signore. In questo testo, assolutamente fondamentale per il futuro del cristianesimo, si trovano le prove consolidate della possibilità di vedere nell’«uomo dei dolori» (Is 53,3) l’annuncio del ruolo del Messia sofferente che si farà poi coincidere con la storia di Gesù di Nazareth.
    Come è facile indovinare, le profezie che sono state scritte durante l’esilio, contrariamente a quelle datate in tempi precedenti, sono tutte di consolazione. Cosi, in testi come Isaia, Gioele, Zaccaria o Salmi, si coincide nel presentare la promessa di un miracoloso intervento del Signore che distruggerà tutti i popoli pagani, in modo particolare i babilonesi. Per la stessa ragione, non stupisce la confluenza delle speranze nel messianismo regale davidico con le intense speculazioni escatologiche che sorgono in mezzo alla costretta povertà dell’esilio. Il testo di Zc 9, 9-10, dove si annuncia l’arrivo a Gerusalemme di un «re … umile, cavalca un asino», risulta emblematico delle chiare speranze che albergavano dietro l’imminente ritorno a Giuda, ma anche delle condizioni poco più che patetiche in cui credevano che si sarebbe trovato il messia davi dico dopo le miserie subite dalla cattività babilonese.
    Anche il profeta Daniele, un contemporaneo di Zaccaria che secondo la tradizione visse alla corte del re Nabucodonosor senza attraversare difficoltà economiche, postulò il messianismo escatologico, ma lo fece in linea con l’ambiente che respirava, senza, cioè, nessun segno di miseria. Nel settimo capitolo del libro di Daniele viene descritta la futura vittoria del popolo ebreo sulle altre nazioni  (simboleggiate da quattro bestie mostruose) per mano di «uno simile ad un figlio di uomo” (Dan 7, 13).
    Ma ciò che per Daniele era stato un simbolo all’interno di una visione, il «figlio di uomo» che voleva descrivere un personaggio di portamento reale, avrebbe finito per trasformarsi in una questione fondamentale per la fede nel momento in cui questo «figlio di uomo» cominciò a essere identificato con un personaggio divino che viveva con Dio fin dagli inizi dei tempi e che verrà chiamato a occupare la presidenza il giorno del Giudizio universale. […] questa sbagliata e capricciosa interpretazione onirica verrà impiegata dai primi cristiani per contribuire alla fondazione del loro disegno sulla personalità divina di Gesù di Nazareth.

(8) Su questo occorre essere molto chiari perché negli anni vi è stata violenza contro chi voleva sovrapporre alla Bibbia una ricerca storica fondata su documenti. Riporto su questo problema ciò che scrive autorevolmente uno studioso come Mario Liverani:

l. Il problema delle origini

    Il caso d’Israele è unico tra i vari popoli dell’antico Oriente, perché le sue tradizioni storiografiche sono sempre state conservate in ambiente giudaico e cristiano. Le scoperte archeologiche ed epigrafiche dell’ultimo secolo non hanno dovuto riscoprire ex novo delle realtà storiche delle quali si fosse perduta ogni memoria, ma hanno portato chiarimenti aggiuntivi da confrontarsi caso per caso con i testi antico-testamentari. Si deve anzi riconoscere che gli apporti archeologici ed epigrafici alla ricostruzione della storia d’Israele sono particolarmente modesti, se confrontati a quelli relativi agli Assiri o agli Hittiti, agli Egiziani o ai Sumeri, e che senza l’Antico Testamento sarebbe assai difficile una ricostruzione storica della Palestina preclassica, che rimarrebbe del tutto vaga e incerta.
    Il caso fortunato della conservazione attraverso il tempo delle memorie storiche d’Israele, dovuto al loro valore di «libro sacro» per il Giudaismo e per il Cristianesimo, ha prodotto delle difficoltà per l’uso critico dei documenti, difficoltà che hanno imperato ufficialmente fino a tempi recenti, e che a tutt’oggi ostacolano l’adozione di un approccio critico normalizzato. Il fatto è che questo corpus di testi ha per i credenti il valore di «verità», rivelata da Dio tramite agenti umani, ciò che comporta l’impossibilità di mettere in dubbio il contenuto storico dei libri «sacri». Per lunghi secoli l’approccio storiografico occidentale è rimasto come bloccato di fronte al carattere di «verità rivelata» che la religione attribuiva alle memorie storiche d’Israele, e a tutt’oggi il blocco permane per ambienti sia giudaici tradizionalisti sia cattolici e protestanti fondamentalisti, ed a livelli inconsapevoli e indiretti condiziona persino studiosi «laici».
    In particolare il confronto tra le storie dell’Antico Testamento e le evidenze dell’archeologia e dei testi extra-biblici è stato spesso praticato come una ricerca di «conferme» (o viceversa di «contraddizioni» ) spesso arbitraria. La contraddizione tra un racconto «vero» ed un dato archeologico «reale» può condurre ad uno stallo completo. Ma i racconti biblici sono di norma elaborazioni storiografiche posteriori (e spesso molto posteriori) degli avvenimenti narrati, non solo basate su dati indiretti e incerti, ma soprattutto motivate da scopi precisi del loro tempo. Occorre perciò riassegnare i testi biblici all’epoca, agli ambienti politico-culturali, ai problemi che hanno portato alla loro redazione. Che poi queste posteriori ricostruzioni storiografiche possano conservare delle tracce documentarie o delle memorie attendibili questo è possibile, anche se difficile da accertare (dopo aver «depurato» le notizie da tutte le concrezioni politiche e religiose pertinenti ai periodi seguenti e all’epoca di redazione finale). Il materiale extra-biblico è invece di uso più immediato, perché coevo agli avvenimenti e di norma dovuto a motivazioni più ovvie e banali.
    Sul problema delle origini queste difficoltà si avvertono di più: sia perché i racconti biblici sono particolarmente lontani (come epoca di redazione) dai tempi che intendono ricostruire; sia perché le fonti extra-bibliche sono poco esplicite (archeologiche più che epigrafiche) su un’età in cui i turbamenti socio-politici contribuirono a diradare la documentazione scritta. Per quanto riguarda il racconto biblico, inoltre, è sul problema delle origini che vanno a sommarsi in misura particolare intenti di auto-identificazione nazionale, di promozione politica e di giustificazione religiosa, deformando più del consueto il rapporto con la realtà storica.
    Le linee essenziali del quadro archeologico e contestuale possono riassumersi come segue. Crolla l’impero egiziano che aveva dominato la Palestina dalla metà del XVI secolo all’inizio del XII: si apre dunque per le popolazioni locali un’epoca senza dominio straniero e senza drenaggio delle risorse verso destinazioni esterne. I Filistei occupano una parte del vuoto lasciato dagli Egiziani, cercano di stabilire la loro egemonia sulle città cananee residue, e vi riescono lungo la costa e nelle vallate (Yezreel e medio Giordano); invece le zone collinari restano al di fuori della loro portata. Nelle zone collinari e montane della Cisgiordania, e nei tavolati semi-aridi della Transgiordania si sviluppa il processo di colonizzazione caratteristico della prima età del ferro: disboscamenti, terrazzamenti, sfruttamento idrico degli wadi, scavo di pozzi, costruzione di cisterne, diffusione di villaggi e di cittadine fortificate. Questo è l’elemento «nuovo» attribuibile alle genti (primi fra tutti appunto gli Israeliti) di derivazione tribale e pastorale. La crisi dei palazzi reali porta ad un nuovo orientamento verso il polo tribale degli sbandati e dei fuggiaschi. È probabile una connessione etimologica tra la designazione dei rifugiati (habiru, ‘br/’pr) e il nome degli Ebrei (‘br), visti dai cittadini cananei come degli sbandati, senza radicamento socio-politico.
    Su dimensione regionale, è difficile dedurre archeologicamente il modo di combinazione dei micro-sistemi insediativi in organismi politici. Come eredità del passato, abbiamo le residue città «cananee»: non tutti i palazzi furono distrutti, e comunque non tutti contemporaneamente, ma l’impoverimento delle strutture amministrative è evidente in generale. Come elemento nuovo, abbiamo le zone di colonizzazione, i nuovi villaggi, le cittadelle montane, esito della «sedentarizzazione» dei gruppi pastorali. Il sistema è in equilibrio composito, senza un centro di potere unificante (a parte il tentativo filisteo). È possibile, accogliendo le indicazioni delle fonti bibliche posteriori, che vi siano state delle leghe tra tribù (come se ne conoscono sin dal Medio Bronzo); è probabile che vi siano stati degli accordi tra tr:ibù e città, per stabilire diritti di pascolo, di connubio, di commercio. E possibile infine che le tribù del rilievo centrale cisgiordanico abbiano sviluppato un precoce senso di unità nazionale, in contrapposizione ad altre entità che si delineavano sia a ovest (Filistei) sia a est (Ammoniti).
    Quest’epoca formativa (pre-monarchica) dell’entità etnico-politica «Israele» diventa nelle sue stesse tradizioni storiografiche l’epoca di collocazione di tutte le storie dotate di valore «fondante» rispetto alle realtà e ai problemi posteriori. Innanzi tutto si costituisce quell’impalcatura genealogica che serve da «carta di fondazione» dei rapporti intertribali: un albero genealogico unico abbraccia i «patriarchi» eponimi dell’unità nazionale (Abramo, Isacco, Giacobbe), gli eponimi delle singole tribù (una dozzina di figli di Giacobbe, con artificiale delimitazione che relega altri gruppi in collocazioni inferiori), infine tutti gli eponimi dei clan/villaggi giù giù fino ai singoli capi-famiglia, dove subentrerà l’albero genealogico di dimensione familiare. Intrecciate alle genealogie sono tutte le storie «etiologiche» che spiegano il perché di certi riti, di certi confini, di certe istituzioni e che naturalmente vanno ricollocate all’epoca (di volta in volta diversa) della loro formulazione.
    Intervengono però dei fatti specifici, pertinenti all’epoca di redazione dei testi, che deformano sostanzialmente il quadro. Un primo elemento è connesso con le vicende tarde dell’esilio babilonese e del ritorno dall’esilio. A giustificazione del rientro degli esuli, e a sostegno delle loro pretese territoriali sui gruppi rimasti in Palestina, viene accreditata la vicenda «fondante» della primitiva immigrazione delle tribù israelitiche dall’esterno: c’è una primordiale presenza dei patriarchi (che si aggirano in territori che non sono loro se non in minima parte), che ricevono la promessa divina di diventare un popolo sterminato e di occupare tutto il paese. Poi ci sono un primo esilio (in terra d’Egitto) e un esodo e ritorno alla Palestina (collocati nel XIII secolo), che servono a configurare l’esilio e il ritorno di età storica (quella cioè del VII-VI secolo). La conquista di Giosuè (sostanziata da storie massimamente etiologiche come la conquista di Gerico, che all’epoca in questione era abbandonata da secoli) serve dunque a giustificare la presa di possesso del paese da parte dei reduci dall’ esilio babilonese; i Cananei, che abitano il territorio ma sono come abusivi perché la promessa divina li condanna allo sterminio, servono a prefigurare i «Samaritani» e gli altri rimasti, che i reduci babilonesi considerano estranei ed abusivi. Tutta la storia dell’esodo e della conquista, dell’origine esterna e del rapporto con le popolazioni autoctone, è dunque una costruzione chiaramente «datata» ai problemi del VI secolo, e che non ha nulla a che vedere con quelli del XII.
    Un secondo elemento evidentemente datato (dalle polemiche pro e anti-monarchiche che lo accompagnano) è la configurazione di un periodo dei Giudici «quando non c’era re nel paese e ognuno faceva quello che gli pareva». Questa età dei Giudici, magistrati tribali non ereditari, si sarebbe interposta dopo l’età delle monarchie cananee (distrutte da Giosuè) e prima della costituzione della monarchia israelitica con Saul e con David, L’età «non monarchica» dei Giudici diventa oggetto di polemiche fra chi considera la mancanza di re uno stato di debolezza e di caos politico, e chi invece vi colloca gli ideali di libertà, eguaglianza, sottrazione al peso fiscale ed amministrativo. Anche questo blocco di materiali risente piuttosto dei problemi dell’età post-esilica, quando non c’erano più le monarchie, e si poteva o auspicarne il ritorno come presupposto per una ripresa nazionale, oppure auspicare il consolidamento di strutture di governo diverse. Nel XII-XI secolo una vera e propria «età dei Giudici» come descritta dall’omonimo libro biblico, non è esistita: ci sono sempre stati re in Palestina, residui degli antichi regni cittadini cananei, verso i quali le strutture tribali avevano un atteggiamento conflittuale ma non un ruolo sostitutivo. Alcuni dei racconti del libro dei Giudici sono di carattere prettamente mitico, e servono a trasmettere piuttosto valori etico-religiosi che non notizie storiche. Naturalmente nel quadro può anche essere confluita qualche memoria storica autentica, e persino dei brani (poetici in specie) molto antichi.
    Un terzo blocco di elementi anacronistici deriva dalla proiezione indietro nel tempo, fino ad una collocazione nell’età delle origini, della situazione religiosa caratteristica dell’ età più tarda: immediatamente pre-esilica, e poi post-esilica. Alla figura di Mosè si attribuisce una fondazione dello yahwismo come religione rivelata (e dunque già perfetta nella sua forma finale) sin dal periodo formativo, anzi sin da prima dell’ingresso delle tribù d’Israele in Palestina. Non solo il popolo d’Israele avrebbe fatto il suo ingresso nella terra promessa già perfettamente strutturato in senso socio-politico come lega di tribù con magistrati comuni; ma anche vi avrebbe fatto ingresso già come comunità religiosa di devoti di Yahweh [o Jahvè, ndr], dio nazionale ed esclusivo, in regime di rigido monoteismo. In realtà questa è la situazione determinatasi progressivamente nel tempo, e che ebbe tappe fondamentali nelle riforme religiose di Ezechia e Giosia (VII secolo), e poi soprattutto nella comunità post-esilica per la quale la fede religiosa era il principale elemento di coesione nazionale dopo la scomparsa delle strutture politiche.
    Quanto al «patto» (berīt) stretto tra Yahweh e il suo popolo già all’epoca di Mosè e Giosuè, a fondare la comunità nazionale e religiosa, pur nella sua sostanziale artificiosità e anacronismo possono essersi conservate delle tradizioni molto antiche: alcuni elementi sembrano ben inseriti nella temperie sociale della fine del Tardo Bronzo, più di quanto non siano riconducibili ad età neo-babilonese o persiana. È stato notato che il «patto» tra Yahweh e il suo popolo riecheggia dal punto di vista formale i «patti» che nel Tardo Bronzo venivano stretti tra grande re e piccolo re: e la sostituzione della divinità al grande re terreno, e del popolo al piccolo re sarebbero elementi di volontaria polemica socio-politica assegnabile a gruppi di collocazione extra-palatina (rifugiati, pastori), i quali avrebbero voluto manifestare le loro aspirazioni ad un più giusto ordinamento socio-politico sostituendo la volontà popolare e la sua ipostasi divina ai contraenti palatini nei rispetti dei quali nutrivano la massima diffidenza e sfiducia. Si potrebbe notare che anche gli aspetti di legislazione sociale che vengono affrontati dai «patti» mosaici, vengono risolti in maniera polemica verso le soluzioni in uso nel Tardo Bronzo. All’asservimento per debiti si contrappongono il divieto di asservire i connazionali e la periodica liberazione degli asserviti – riesumando procedure paleo-babilonesi ancorate ora (in mancanza di re che promulghino gli editti) ad un ritmo settennale costante (anno sabbatico). All’alienazione delle terre si contrappone il loro periodico recupero da parte delle famiglie (giubileo). Alla cattura e riconsegna dei fuggiaschi si contrappone l’indicazione di accoglierli e di non estradarli. AI prestito ad interesse si contrappone abbastanza utopicamente il divieto dell’usura. Simili norme di carattere artificioso possono essere state immaginate in qualunque tempo; ma colpisce il fatto che gli elementi di «rivoluzione» che segnano il passaggio dal Tardo Bronzo alla prima età del ferro si accentrano proprio sul problema della servitù per debiti, e su uno sfruttamento eccessivo delle classi economicamente meno forti, che la legislazione «mosaica» tende appunto a tutelare. Resta evidente la difficoltà estrema a individuare elementi che si possano sicuramente attribuire al XII secolo, da un blocco documentario che ha una lunga e tormentata storia compositiva, e che nelle linee portanti risale al VI secolo ed oltre.

[Si deve osservare che ricerche scientifiche moderne hanno dimostrato che il Deuteronomio ed il resto dei libri deuteronomici sono stati redatti per conferire al Re Giosia una base d’autorità sulla quale fondare proprio la sua riforma religiosa che centralizzò la religione intorno ad un solo Tempio, quello di Gerusalemme, assegnando un grande potere ai sacerdoti leviti. Giosia fu abilissimo ad imporre la riforma attraverso gli scritti deuteronomici perché li fece ritrovare sotto le fondamenta del Tempio e li attribuì a Mosè. D’interesse è che alcuni scritti deuteronomici incaricati da Giosia narravano un promettente futuro per il popolo d’Israele (sembra dimostrato che la letteratura deuteronomica sia opera del profeta Geremia, aiutato dallo scriba Baruc, che collaborò dal 621 con Giosia nella riforma religiosa). Di fronte ai disastri provocati dai Re che seguirono, fino alla distruzione di Gerusalemme nel 587, quegli scritti diventarono inservibili, cosicché venne realizzata una nuova redazione con aggiunta di capitoli e con paragrafi intercalati ex novo, come quelle frasi di minaccia che Dio pronuncia rivolto agli ebrei se non avessero rispettato l’alleanza, in modo da far sembrare profetici di quanto sarebbe accaduto ciò che già si sapeva essere accaduto. Un esempio chiaro è nel Deuteronomio (4; 23-30):

23 Guardatevi dal dimenticare l’alleanza che il Signore vostro Dio ha stabilita con voi e dal farvi alcuna immagine scolpita di qualunque cosa, riguardo alla quale il Signore tuo Dio ti ha dato un comando. 24 Poiché il Signore tuo Dio è fuoco divoratore, un Dio geloso. 25 Quando avrete generato figli e nipoti e sarete invecchiati nel paese, se vi corromperete, se vi farete immagini scolpite di qualunque cosa, se farete ciò che è male agli occhi del Signore vostro Dio per irritarlo, 26 io chiamo oggi in testimonio contro di voi il cielo e la terra: voi certo perirete, scomparendo dal paese di cui state per prendere possesso oltre il Giordano. Voi non vi rimarrete lunghi giorni, ma sarete tutti sterminati. 27 Il Signore vi disperderà fra i popoli e non resterete più di un piccolo numero fra le nazioni dove il Signore vi condurrà. 28 Là servirete a dèi fatti da mano d’uomo, dèi di legno e di pietra, i quali non vedono, non mangiano, non odorano. 29 Ma di là cercherai il Signore tuo Dio e lo troverai, se lo cercherai con tutto il cuore e con tutta l’anima. 30 Con angoscia, quando tutte queste cose ti saranno avvenute, negli ultimi giorni, tornerai al Signore tuo Dio e ascolterai la sua voce, […]

Da questo brano (al quale se ne possono associare vari altri, come ad esempio Re 11; 31-39) si vede con chiarezza che chi lo ha modificato, rispetto alla prima redazione, si trovava già in Egitto dopo la diaspora e la prigionia degli israeliti. ndr].

(9)  Ancora restando alla leggenda biblica, vi sono in proposito varie incertezze dovute al fatto che nella Bibbia si parla di Ur dei Caldei – Ur di Kasdim – ed i caldei si sistemarono ad Ur intorno al 900 a.C.; oltre a ciò sembra che Ur sia stata fondata intorno al 1700 a.C. come detto nel Libro dei Giubilei 11;3. Ma vi sono altre considerazioni che spostano radicalmente il tutto ad Harran (Siria del Nord) da dove il pastore nomade Abramo avrebbe deciso di spostarsi verso pascoli abbondanti, in seguito a siccità e carestia. Lo spostamento da Ur sembra improbabile perché quelle terre erano ricchissime ed abbondavano di pascoli. Vi sono anche coloro che negano ogni validità storica ad Abramo che non compare mai citato nei testi precedenti l’esilio di Babilonia. In tali testi il nome usato è il generico padri. Una ipotesi interessante e realistica è stata fatta da Mario Liverani. Da Wikipedia leggo che Mario Liverani ha proposto di vedere nel nome Abramo l’eponimo mitico di una tribù palestinese del XIII secolo a.C.,  quella dei Raham, di cui si è trovata menzione nella stele di Seti I trovata a Bet-She’an e risalente all’incirca al 1289 a.C. La tribù abitava probabilmente nella zona circostante o vicina a Bet-She’an, in Galilea (la stele infatti si riferisce a lotte avvenute nella zona). Le tribù semitiche seminomadi e pastorali dell’epoca usavano anteporre al proprio nome il termine banū (“figli di”), per cui si ipotizza che i Raham chiamassero loro stessi Banu Raham. Inoltre, molte di esse interpretavano i legami di sangue tra i membri della tribù come una discendenza comune da un antenato eponimo (cioè che ha dato il nome alla tribù), anziché come risultato di legami intra-tribali. Il nome di questo mitico antenato eponimo veniva costruito con il prefisso Abū (“padre”) seguito dal nome della tribù; nel caso dei Raham, sarebbe stato Abu Raham, poi divenuto Ab-raham, Abramo. Il Viaggio di Abramo da Ur a Harran si spiegherebbe come un riflesso retrospettivo della vicenda del ritorno degli ebrei dall’esilio di Babilonia. L’arrivo di Abramo in Palestina e le vicende della sua integrazione tra la popolazione locale dovevano servire da modello per un’integrazione pacifica dei reduci dall’esilio tra le popolazioni della Palestina a loro contemporanea.

(10) Sull’origine del monoteismo ebraico vi è una interessante riflessione storica di David Donnini che riporto:

1 – UN FARAONE PARTICOLARE.

    […] Sotto il regno di Amenofi III (negli anni dal 1405 al 1377 a.C.), quando Tebe era la città reale, una fortissima casta sacerdotale, custode e amministratrice del culto del dio Ammon, aveva sviluppato, in connubio con l’aristocrazia del paese, un grande potere, ed era entrata in una posizione conflittuale con l’egemonia della corte faraonica. Per questo motivo, ma anche per una propensione caratteriale e ideologica, allorché succedette ad Amenofi III il figlio che costui aveva avuto dalla regina Tiye, Amenofi IV (intorno all’anno 1377 a.C.), l’Egitto fu protagonista del suo più grande sconvolgimento, quale nemmeno le precedenti invasioni degli Hyksos avevano potuto produrre.
    In breve tempo, a partire dalla sua nomina al trono, il nuovo faraone rivoluzionò la religione di stato, spodestò la classe sacerdotale, sostituì il molteplice pantheon egizio con una curiosa fede monoteistica. Si trattava forse del primissimo esempio nella storia di monoteismo di stato, incentrato sul culto del disco solare, che era chiamato Aton. Anche la capitale fu spostata ad Akhet-aton, più a nord rispetto a Tebe, e il sovrano mutò il proprio nome da Amenofi ad Akhenaton, o Ekhnaton (amato da Aton).
    Nell’insegnamento di Akhenaton possiamo notare la insistente ricorrenza del termine “maet” (verità), ed egli stesso si definiva “vivente nella verità”, al punto da sovvertire la tradizione che, nelle opere d’arte, era solita presentare il sovrano in una forma stereotipata, coerente col formalismo celebrativo, e si faceva ritrarre in scene di vita familiare, mentre insieme alla moglie Nefertiti e alle figlie passeggiava e faceva offerte al dio sole.
    Fu, probabilmente, un faraone dal volto umano; sappiamo che perseguì una politica pacifista, riducendo le spese militari e rinunciando alla difesa ad oltranza dei territori fuori dall’Egitto. Possiamo ragionevolmente ipotizzare che ciò comportasse una diminuzione del prelievo fiscale; possiamo anche avanzare l’idea che il popolo percepisse, nella figura del suo bizzarro faraone, qualcosa di meno lontano da sé di quanto non fossero stati i precedenti sovrani e sacerdoti. Ma queste, ci tengo a chiarirlo, sono speculazioni arbitrarie, senza un fondamento nelle prove storiche.
    E’ abbastanza immediato pensare che un sistema del genere difficilmente avrebbe potuto funzionare a lungo. Infatti gli hittiti premevano ai confini orientali del regno e sfruttarono la circostanza per espandere il loro dominio a spese dell’Egitto. Molti fra i sacerdoti spodestati e gli aristocratici intuirono i pericoli della circostanza e tramarono per preparare una restaurazione del precedente regime e riconquistare i privilegi perduti. Allorché Akhenaton morì (intorno al 1362 a.C.), la moglie Nefertiti si adoperò per far salire al trono il giovanissimo genero Tut-ankh-aton, ma, alla morte della stessa Nefertiti, sacerdoti ed aristocratici approfittarono della situazione instabile e dell’inesperienza del nuovo faraone, per iniziare una rapida controriforma e per rimettere in piedi gli antichi poteri e la religione tradizionale dell’Egitto. La città di Akhet-aton fu abbandonata e la capitale fu ristabilita a Tebe. Anche il nome del faraone fu opportunamente corretto in Tut-ankh-amon, coerentemente col culto restaurato del dio Ammon. Tutti conosciamo il famoso faraone, è l’unico di cui è stata scoperta la tomba intera, inclusa la mummia, e questo ritrovamento è stato l’evento più spettacolare dell’archeologia egiziana.
    E’ ovvio che, con l’avvento della restaurazione, una parte della società egiziana, che si era sviluppata alla corte di Akhenaton, visse un pesante tracollo. Possiamo facilmente immaginare in quale difficile situazione si siano trovati i suoi ex funzionari e sacerdoti, improvvisamente esautorati e, probabilmente, perseguitati.
    Ora, come spesso succede in questi casi, se sono i grandi poteri a stabilire certe tappe importanti del cammino storico, sono alcuni poteri meno appariscenti (oserei dire occulti) a dirigere il cammino definitivo della storia, anche se a lunga scadenza. Infatti è assolutamente certo che l’esperienza del regno di Akhenaton aveva lasciato una traccia profonda, non solo negli interessi politici e nei rancori di quanti erano stati colpiti dalla controriforma, ma anche, e forse soprattutto, nell’inconscio collettivo, grazie all’idea di una teologia monoteistica, che sostituiva le figure fantasiose delle numerose divinità col concetto affascinante di un principio creatore unico ed universale, irrimediabilmente superiore a quello delle immagini dall’aspetto antropomorfico o animale, simboleggiato dal disco solare; in cui chiunque riconosce istintivamente la paternità di ogni manifestazione della vita terrestre.
    Sebbene non ci siano elementi per riportare alla luce, dall’oblio in cui sono stati definitivamente sepolti, i movimenti e le trame di coloro che, per interesse o per adesione ideologica, simpatizzavano con le concezioni dell’ormai sconfitto sistema politico-religioso di Akhenaton, possiamo essere certi che questo desiderio di ritorno alle novità di cui l’Egitto aveva avuto un assaggio, non ha mai più abbandonato almeno una parte della società di questo paese, e ha giocato un ruolo non indifferente nella dinamica delle conflittualità interne.

2 – GLI EBREI IN EGITTO.

    A questo punto, nel nostro discorso, possiamo innestare la realtà dei popoli semitici che erano penetrati in Egitto, pur non essendo egiziani, in una condizione che troppo spesso è semplicisticamente rappresentata dal termine “schiavitù”.
    Già in precedenza i rozzi nomadi semiti avevano preso di mira, con le loro migrazioni di massa, altre grandi civiltà sedentarie, attratti dallo straordinario sviluppo tecnologico di cui queste erano depositarie, e della loro imponente organizzazione urbanistica e sociale. Mi riferisco ai sumeri, che furono letteralmente schiacciati da questa corrente migratoria. I semiti in questione erano gli accadi. Un grande condottiero di questi uomini (siamo intorno all’anno 2450 a.C.), protagonista di una clamorosa vittoria sui sumeri, fu Sargon. Di lui la leggenda accadica narra che era stato abbandonato dalla madre nelle acque del fiume, in un canestro di giunchi, per poi essere raccolto da un acquaiolo, su indicazione della dea Ishtar, che lo aiutò a diventare un re potente. E’ una storia che già conosciamo, anche se con altri protagonisti.
    Adesso, nell’Egitto degli ultimi faraoni della XVIII dinastia, e dei primi della XIX, succedeva qualcosa di somigliante a ciò che era successo nel paese dei sumeri mille anni prima; e che succede ancora oggi nei paesi opulenti dell’occidente cristiano. Le popolazioni circostanti, etnicamente diverse, socialmente e culturalmente meno evolute, economicamente più povere (potremmo considerarli gli extracomunitari dell’epoca), entravano in Egitto e qui si stabilivano in cerca di fortuna. Gli stessi Egiziani tolleravano la loro presenza perché, non ostante gli evidenti svantaggi del fenomeno immigratorio, questa gente offriva forza lavoro a basso costo, e poteva svolgere gli innumerevoli compiti che i contadini egizi non avrebbero potuto né voluto svolgere. La Bibbia li rappresenta come un popolo che aveva già maturato una sua identità nazionale, chiamandoli ebrei. Ma questa è pura leggenda. Infatti le popolazioni che si erano introdotte in Egitto per lavorare erano molte e diverse, così come oggi, da noi, sono diversi i marocchini dai senegalesi, gli albanesi dagli slavi …
    E’ probabile che, ad un certo punto, questa parte della varia umanità che componeva il tessuto sociale egiziano, abbia acquistato un certo peso e una certa coscienza di sé, maturando il bisogno di acquistare anche un senso della propria identità che, ovviamente, fino a quel momento non esisteva perché si trattava di un gruppo eterogeneo per lingua, razza e culti religiosi, in cui, probabilmente, prevaleva una componente semitica.
    […]
    E’ probabile che il monoteismo incentrato sulla figura divina del sole offrisse l’idea di un concetto universalistico che si prestava alle istanze di quanti, in seno alla società egiziana, erano collocati in una posizione fortemente emarginata e subordinata. Ed è anche probabile che gli ex funzionari e sacerdoti di Akhenaton, o i loro discendenti, abbiano trovato nelle popolazioni semitiche, che vivevano in Egitto in una condizione di pesante asservimento, una comunità disposta ad ascoltarli, interessata a seguirli, a dare loro peso e importanza. Si sarebbe così determinata una simbiosi fra la parte dissidente della società egiziana, costituita da quanti avevano subito il tracollo del sistema di Akhenaton, e le popolazioni immigrate, le quali, fino a quel momento, non erano state capaci di darsi né una identità né una forza come gruppo.
    Freud [in Mosè ed il monoteismo, Pepe Diaz, Milano, 1952, ndr] si è spinto fino ad avanzare l’idea che l’uomo che noi conosciamo come Mosè fosse stato un ex funzionario di Akhenaton, anche se ciò dà adito a qualche obiezione. Una di queste, per esempio, riguarda i tempi; infatti una delle probabili datazioni dell’uscita delle popolazioni semitiche dall’Egitto è intorno al 1250 a.C., durante il regno del faraone Ramses II. Sono passati cento anni dalla restaurazione del culto di Ammon e Mosè non potrebbe essere stato un protagonista in prima persona dell’esperienza del sistema di Akhenaton. Anche se, in realtà, la datazione dell’esodo è quanto di più incerto ci sia e non è possibile porre questa obiezione come decisiva. Personalmente non credo affatto che determinare una datazione certa per il cosiddetto esodo sia molto importante, ai fini del nostro discorso; infatti non è così fondamentale che Mosè sia stato, oppure no, un funzionario del faraone Akhenaton. A noi importa soprattutto introdurre un’idea: quella che gli egiziani accomunati da un interesse nostalgico per il sistema di Akhenaton e per la sua concezione monoteistica, da un lato, e la componente emarginata della società egiziana che aveva avuto origine nei trascorsi flussi immigratori, dall’altro lato, avessero trovato un’intesa che li poneva in serio conflitto con le classi dominanti e che li aiutava a maturare una identità di gruppo.
    Ora, gli interpreti di questo più che verosimile processo possono essere stati sia gli ex protagonisti del sistema di Akhenaton, in un’epoca immediatamente successiva alla restaurazione (fra il 1350 e il 1300 a.C.), sia i loro discendenti (fra il 1300 e il 1200 a.C.), ovverosia all’epoca in cui siamo soliti ambientare l’esodo biblico.

3 – MOSE’ EGIZIANO?

    C’è un aspetto estremamente importante che Freud sottolinea con argomentazioni puntuali e, direi, piuttosto ineccepibili. Si tratta del fatto che Mosè sarebbe stato un egiziano e non, come si crede comunemente, un ebreo. Una delle basi di questa opinione risiede nel nome stesso: “…E’ importante notare che il suo nome (il nome di questo capo), Mosè, è egiziano. Esso è semplicemente la parola egiziana “mose” che significa “fanciullo”, ed è la contrazione di forme nominali più complesse, quali ad esempio “Amon-mose”, che significa “Amon un fanciullo”, o “Ptah-mose”, che significa “Ptah un fanciullo”, i quali nomi sono a loro volta abbreviazioni della forma piena “Amon ha donato un fanciullo”, o “Ptah ha donato un fanciullo”. L’abbreviazione “fanciullo” presto divenne una forma rapida più conveniente dell’ingombrante nome completo, ed il nome Mose, “fanciullo”, non è infrequente sui monumenti egizi. Il padre di Mosè senza dubbio prefisse al nome del figlio quello di un dio egizio, quale Amon o Ptah, e questo nome divino si perdette gradualmente nell’uso corrente, finché il fanciullo venne chiamato Mose” [Citazione da History of Egypt, di J.H.Breasted, in Freud, Mosè e il monoteismo].

“…nella lingua [egiziana] Mosè equivaleva a bambinofiglio, discendente, sia in senso letterale che metaforico…” [J.Lehmann, Mosè l’egiziano, Garzanti, Milano, 1987].

    E ancora: “…non ci resta perciò che il nome, il quale, malgrado la spiegazione giudaica tratto dalle acque, riallaccia Mosè ai nomi egiziani Tutmosi o Ramesse (Rah-mose)” [F.Castel, Storia d’Israele e di Giuda, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Mi), 1987].

    C’è poi un’altra importante considerazione da fare. Il Mosè biblico ha un abito del tutto leggendario, a sostegno dell’idea che la sua identità sia il frutto di una operazione artificiale finalizzata a rappresentarlo come il padre nazionale degli ebrei. Infatti il racconto della sua nascita, coerentemente con le leggende semitiche, è la copia esatta del racconto che riguarda la nascita del grande Sargon di Accad, che fu abbandonato nelle acque e poi salvato per diventare, infine, un grande re. Evidentemente, allorché fu redatta la storia del popolo che era sfuggito dall’Egitto, si voleva che il suo condottiero possedesse i requisiti che lo rendevano meritevole, a pieno titolo, di quella dignità. Il racconto non fu scritto da storici, animati da uno spirito scientifico di cronaca, ma da apologeti, che dovevano contribuire alla creazione di una coscienza nazional-religiosa.
    Ora, esistono altri elementi di sostegno alla tesi del Mosè egiziano, seguace della teologia di Akhenaton: uno è il nome che gli ebrei utilizzano spesso per riferirsi al loro dio, al posto del termine tabù (indicato comunemente dal tetragramma YHWH) che nessuno poteva pronunciare ad alta voce. Si tratta della parola Adonai, che ha la stessa radice (Adon) del dio solare di Amenofi IV (Aton). I glottologi sanno bene che le lettere t e d sono del tutto intercambiabili nelle radici etimologiche, pertanto Adon e Aton sono esattamente lo stesso nome. Si osservi quanto afferma ancora Sigmund Freud: “Il credo ebraico, come è noto, recita: “Schema Jisroel Adonai Elohenu Adonai Echod”. Se la somiglianza del nome dell’egizio Aton alla parola ebraica Adonai e al nome divino siriaco Adonis non è casuale, ma proviene da una vetusta unità di linguaggio e significato, così si potrebbe tradurre la formula ebraica: “Odi Israele il nostro Dio Aton (Adonai) è l’unico Dio”” [Sigmund Freud, Mosè e il Monoteismo].
L’altro elemento è l’aspetto della famosa “arca dell’alleanza”, che, nel racconto biblico (Es 25, 10-22), Dio aveva ordinato a Mosè di edificare e che, in seguito, sarebbe stata conservata nel tempio di Salomone fino all’invasione assira. Essa riproduce la “barca degli dei” dei templi egizi, anch’essa coi cherubini ad ali spiegate.
    Ma c’è un altro elemento, senza dubbio quello di maggior peso: Mosè è comunemente considerato il padre del monoteismo, ma dobbiamo ammettere che la sua idea ha un precedente molto vicino nello spazio e nel tempo, e molto analogo, nella teologia di Akhenaton, pertanto ci rimane difficile credere che la sintesi monoteistica di Mosè non abbia alcun debito nei confronti della rivoluzione religiosa del faraone Amenofi IV.
Riassumendo:
1 – Mosè predica in Egitto, come Akhenaton 50 o 100 anni prima, una teologia monoteistica;
2 – Mosè ha un nome egiziano;
3 – Mosè ha, nel racconto biblico, una nascita assolutamente leggendaria;
4 – Un nome del dio ebraico (Adonai), ha la stessa radice del dio solare (Aton) di Amenofi IV;
5 – L’arca dell’alleanza degli ebrei è quasi identica alla “barca degli dei” dei templi egizi.

4 – UN POPOLO ETEROGENEO.

    Ci troviamo davanti ad importanti constatazioni: le genti che uscirono dall’Egitto, attraverso quel processo che la Bibbia rappresenta nel libro dell’Esodo, erano costituite, per una componente, da una parte della società egiziana, quella dissidente, erede della riforma politico-religiosa di Akhenaton, fedele alla teologia monoteistica, e, per l’altra componente, da un insieme variegato di tribù, in prevalenza semitiche, che avevano trascorso in Egitto molti decenni, trovando interessi da condividere. Si trattava comunque di genti che parlavano lingue o dialetti diversi, con tradizioni religiose diverse, legate agli dei tribali. Non si trattava affatto di un popolo omogeneo, che potesse riconoscersi sotto il nome di ebrei. Ed è per questo che il racconto biblico ci testimonia la grande difficoltà di tenere unito questo insieme di persone ma, soprattutto, la difficoltà di Mosè a mantenere una egemonia su queste genti. Si ricordi a questo proposito il ritorno di Mosè dal monte Sinai, col popolo che, in sua assenza, aveva iniziato ad adorare il vitello d’oro, restaurando, chi lo sa, qualche culto tribale.
    E’ molto verosimile che la componente egizia di questo insieme di genti, ovverosia gli eredi del sacerdozio di Aton, fossero quelli che la tradizione ebraica chiama “Leviti” e che Mosè ne fosse il capo.
    Volendo mantenere un atteggiamento storicamente onesto, noi dobbiamo dissociarci dall’immagine biblica e riconoscere che, all’epoca dell’esodo, non esistevano affatto, o ancora, gli ebrei, intesi come un popolo che potesse essere considerata tale a tutti gli effetti, ovverosia con una sua omogeneità etnica, linguistica, culturale e religiosa, e con una storia comune oltre al fatto di avere condiviso uno stato di emarginazione e di subordinazione in Egitto. Quello che la Bibbia ci rappresenta come il momento in cui gli ebrei realizzarono il loro riscatto dalla schiavitù egiziana è, in realtà, il primo momento in cui gli ebrei iniziano ad inventarsi come popolo. Mosè fu il loro punto di riferimento, come Maometto, 1800 anni più tardi, fu il punto di riferimento per la nascita di una nazione araba. Allora possiamo quasi affermare che la Bibbia non fu un prodotto degli ebrei ma, al contrario, furono gli ebrei un prodotto della Bibbia, nel senso che i principi teologici della Bibbia furono concepiti col fine primario di offrire una base adatta a creare e consolidare l’identità etnico-religiosa di quell’insieme di tribù che si era voluto far diventare popolo.

(11) Quanto detto è per rendere plausibili alcune frasi ricorrenti nella Bibbia. In Esodo 15; 11, Mosè dice: 11 Chi è come te fra gli dèi, Signore? Chi è come te, maestoso in santità, tremendo nelle imprese, operatore di prodigi?. Più oltre (Esodo 18; 11) Ietro, suocero di Mosè, dirà: 11 Ora io so che il Signore è più grande di tutti gli dèi, poiché egli ha operato contro gli Egiziani con quelle stesse cose di cui essi si vantavano. E Dio stesso affermerà che vi sono altri dèi Esodo 20; 2-5): 2 «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: 3 non avrai altri dèi di fronte a me. 4 Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. 5 Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, […].  

(12) Lo scambio di parole tra Dio e Mosè rappresenta i termini dell’alleanza tra Dio ed un popolo, attraverso un suo rappresentante. Stese parole tra diversi attori sono archeologicamente documentate fin dal III millennio a.C. in diverse culture della Mesopotamia. Quanto Dio dice a Mosè nell’Esodo e che richiede via via l’accettazione del popolo è una riproduzione dei trattati di vassallaggio degli hittiti e di altri popoli, trattati dei quali si conservano molti esemplari incisi su tavolette d’argilla. La struttura di questi trattati di vassallaggio è riportata nel testo di Puech:

«Si enunciano i titoli dell’imperatore hittita; si richiama la vicenda dei suoi rapporti con il vassallo che sta per concludere il patto; si elencano le condizioni che deve rispettare il vassallo stesso per restare fedele al patto e conservare in tal modo la protezione del suo sovrano; è quindi prescritto che si depositi il resto di un trattato in un tempio e che se ne dia lettura per la circostanza; si richiamano gli dèi invocati come testimoni; infine seguono una serie di maledizioni e benedizioni indirizzate al vassallo, a seconda che egli violi o rispetti questo patto. In Esodo, in Giosuè 24 e nel Deuteronomio si ritrovano vari elementi dello schema suddetto: le imprese passate di YHWH, le sue richieste, l’ordine di leggere il Libro dell’alleanza, l’invocazione di testimoni (“il cielo e la terra”, Deuteronomio 4, 26), le maledizioni e le benedizioni. Dio viene dunque definito, nei confronti di Israele, come l’imperatore hittita nei confronti del vassallo, senza che per questo si tratti necessariamente dell’imitazione di formule specificamente hittite, dal momento che anche il trattato di vassallaggio dell’VIII secolo a.c. trascritto nelle iscrizioni aramaiche di Sugín presenta gli stessi elementi».

Sui Comandamenti vi è un discorso più generale da fare. I Comandamenti sono delle leggi di comportament0o per il popolo d’Israele (e quindi per i cristiani). Ogni popolo ha le sue leggi che letti in chiave civile sono le leggi di quel Paese che sono in definitiva il codice di comportamento di quella data comunità. Va detto quindi che i Comandamenti che incontriamo nella Bibbia sono di derivazione sia Babilonese che Egiziana anche perché riportano delle norme di carattere così generale che in linea di principi0o nessuno potrebbe affermare di credere il contrario (fatto salva evidentemente la parte religiosa che è racchiusa nei primi 3 comandamenti). La scoperta di documenti relativi alle zone in cui venne scritta la Bibbia ci ha permesso di stabilire che moltissime narrazioni bibliche sono riscritture di fatti raccontati e presenti in fonti più remote. Il racconto del Diluvio Universale, per esempio, si trova già nel poema epico di Gilgamesh, eroe sumero-babilonese del 2000 a.C., come testimoniato dalle tavolette con scrittura cuneiforme trovate a Ninive. Ma relativamente al tema Comandamenti è stata la scoperta nel 1902 del Codice di Hammurabi (un Re di Babilonia nel XVIII secolo a.C.), trascritto in una stele di basalto alta oltre due metri, che ci ha permesso di ritrovare alcuni Comandamenti che sono diventati biblici ma che traggono origine da quella civiltà. Il Codice di Hammurabi risalente al 1780 a.C. è la prima raccolta di leggi che noi conosciamo ed in essa figurano anche delle norme identiche ai Comandamenti biblici. Riporto alcune leggi del codice in discussione, tra le quali è facile ritrovare alcuni dei 10 Comandamenti:

– Non commettere rapina.
– Non spostare una pietra confinaria.

– Non frodare.

– Non concupire.

– Non desiderare la roba d’altri.

– Non rapire.

– Non si faccia falsa testimonianza. – Un uomo non deve avere rapporti sessuali né con sua madre, né con la sorella della madre, né con un altro uomo, né con la moglie di un altro uomo. Né l’uomo né la donna devono accoppiarsi con le bestie. Non si deve indulgere in comportamenti provocanti che possano condurre a un’unione proibita. Non sia castrato alcun maschio, né uomo né animale.

– Non si nutra il pensiero che esista altra divinità al di fuori del Signore. Non si intagli immagine alcuna. Non si facciano idoli per uso altrui. Non ci si inchini davanti a un idolo e non si facciano libagioni o sacrifici, né si bruci incenso davanti a un idolo. Non si facciano passare i figli attraverso il fuoco del culto del Moloch.

– Non profanare il nome di Dio.

– Non adorare altra divinità al di fuori del Signore.

Ma non basta perché dei Comandamenti simili li ritroviamo anche in documenti dell’antico Egitto come il famoso Libro dei Morti,  risalente almeno al 1500 a.C. I Comandamenti che troviamo in tale testo sono poi riportati sulle tombe degli antichi egizi, in ognuna delle quali veniva deposto il Libro dei Morti. Il defunto si presenta ai suoi giudici dell’al di là, Osiride e 42 dei o demoni che costituiscono la corte della dea per dichiarare di essere innocente. Vediamo quali sono i Comandamenti del Libro dei Morti (che possono essere scritti anche in modi leggermente differenti)tratti dal capitolo CXXV del Libro:

O corridore, che vieni da Eliopoli,
non ho commesso iniquità.

O splendente, che vieni dalle sorgenti del Nilo,
non ho rubato.

O faccia tremenda, che vieni da Rosetau,
non ho ucciso.

O spezzatore di ossa, che vieni da Eracleopoli,
non ho detto falsa testimonianza.

O malvagio, che vieni da Busiri,
non ho desiderato la roba d’altri.

O vedente, che vieni dal macello,
non ho fornicato con la donna d’altri.

O comandante, che vieni da Nu,
non ho bestemmiato.

Ma ho dato pane agli affamati, acqua agli assetati, vestiti agli ignudi.

In altre tombe non vi è il richiamo diretto al dio che si occupa di un dato peccato ed il tutto si legge come segue:

Non ho rubato esercitando violenza
Non ho commesso atti violenti
Non ho rubato
Non ho ucciso né uomo né donna
Non ho agito in modo ingannevole
Non ho rubato oggetti di proprietà divina
Non ho pronunciato il falso
Non ho pronunciato malvagità
Non ho attaccato altri
Non ho violato la donna d’altri
Non ho commesso peccato contro la purezza
Non ho intimorito altri
Non ho vissuto nella rabbia
Non ho finto sordità alle parole giuste e veritiere
Non ho incoraggiato conflitti
Non ho abusato d’altri
Non ho espresso giudizi affrettati
Non ho contaminato le acque
Non non stato insolente
Non ho perseguito alcuna distinzione

O, come segue:

Non ho fatto piangere nessuno
Non ho ostacolato la Verità
Non ho terrorizzato nessuno
Non ho commesso iniquità contro gli uomini
Non ho maltrattato i sottoposti
Non ho maltrattato gli animali
Non ho cercato di conoscere ciò che non si deve .
Non ho calunniato
Non ho affamato nessuno
Non mi sono arrabbiato senza giusta causa
Non sono stato ingiusto
Non ho esagerato con le mie parole
Non ho agito con arroganza
Non ho agito con odio

Insomma si tratta di affermare ai giudici del Regno dei Morti che NON si sono fatte cose disdicevoli. Sono riportati come negazione di aver fatto quella determinata azione, quelli che sono i Comandamenti biblici.

(13) Seguiamo ora il periodo trattato nel testo (da David a Giosia) riportando cioè successivamente i brani degli storici de La storia: Dalla preistoria all’antico Egitto edi Mario Liverani (alla fine dei brani di questi storici riporterò anche quanto scrive in proposito David Donnini). Gli storici de La storia: Dalla preistoria all’antico Egitto, come si potrà agevolmente osservare, sembrano descrivere i fatti nascondendo i misfatti ed, in definitiva, aderire al racconto della Bibbia, cioè a quello del popolo d’Israele, con benevolenza verso le violenze scatenate, soprattutto da David, verso popolazioni molto spesso inermi:

Il massacro dei Saulidi costituì la premessa per l’avvento di David (ca. 1002-962), un giovane capo della tribù di Giuda, dotato di eccezionali qualità politiche e militari, che, divenuto scudiero di Saul e accattivatesi le simpatie popolari, era successivamente fuggito lontano dal re per evitare le sue persecuzioni. Dapprima era vissuto con alcuni compagni di razzie e quindi era passato con le sue bande mercenarie al servizio del signore filisteo di Gat. L’accorta politica di David gli permise, nonostante il suo apparente tradimento, di farsi proclamare re dalle tribù meridionali di Israele, le quali forse costituivano da sole una lega sacrale intorno al santuario di Mamre sotto la denominazione di «Casa di Giuda», e di non porsi in aperto contrasto con i Filistei, i quali dovettero considerare favorevolmente che un loro vassallo fosse riconosciuto sovrano da parte delle tribù d’Israele. Una serie di circostanze, alle quali è assai dubbio che David rimanesse estraneo, consentirono al re di Giuda di sbarazzarsi dell’ultimo dei Saulidi, Eshbaal, che nel frattempo era stato proclamato re d’Israele nel nord, e di concludere a Hebron un’alleanza con rappresentanti delle tribù settentrionali, dopo la quale fu unto re d’Israele.

Riconosciuto re dal complesso delle tribù, David dovette immediatamente affrontare l’attacco dei Filistei, ma egli, impiegando la loro stessa tecnica di guerra, li sconfisse due volte. Consolidò per alcuni anni il suo potere dalla città meridionale di Hebron e conquistò quindi con le sue truppe mercenarie Gerusalemme, rimasta fino allora indipendente, per farne la capitale del regno e il centro religioso di Israele sul sito di un antico luogo cultuale gebusita, Evitò così di irritare e di deludere sia le tribù settentrionali, che costituivano numericamente il nerbo della confederazione, sia le tribù meridionali, e cui il re doveva l’iniziale elevazione al trono. Domati i Filistei e limitata la loro influenza alla fascia costiera, l’attività militare di David continuò contro i vicini meridionali e orientali di Israele: Edomiti, Moabiti, Ammoniti e Aramei furono vinti soprattutto per merito dei mercenari del re e del suo generale Gioab, Né le vittorie di David furono effimere, poiché egli cinse la corona ammonitica e continuò a controllare gli Edomiti e gli Aramei mediante governatori.

Lo Stato davidico assunse, dunque, un carattere decisamente sovranazionale e, con il controllo di Damasco, ebbe un ruolo di grande rilievo nella generale situazione politica siro-palestinese. Sebbene l’assorbimento nel nuovo Stato delle città cananee e la cintura di territori soggetti a est e a nord garantissero alle tribù d’Israele una sicurezza mai prima raggiunta, fu forse proprio il dissolversi dell’autonomia d’Israele nel grande Stato di David ad alienare al potente sovrano molte simpatie, fino a far scoppiare gravissime insurrezioni, quale quella descritta nell’episodio biblico di Assalonne.

Al costituirsi di potenti fazioni che appoggiavano eredi presuntivi al trono davidico, derivante dall’incerta e debole condotta del sovrano negli ultimi anni della sua vita, pose fine, sopprimendo alcuni tra i più rappresentativi personaggi della corte, Salomone (961-922), il figlio designato da David alla successione. La politica di Salomone mirò prevalentemente alla conservazione dello Stato davidico inteso come Stato nazionale d’Israele, rinunciando a difendere certi territori ribellatisi come quello di Damasco. Inoltre puntò al consolidamento e allo sviluppo delle sue strutture economiche rinnovate dall’immissione delle città cananee nella confederazione, dagli scambi commerciali con le città fenicie e con i centri carovanieri della penisola araba, dallo sfruttamento sistematico di giacimenti minerari e dalle grandi imprese edilizie. Infine si preoccupò della riorganizzazione dell’esercito fondata sull’impiego dei carri da guerra e della creazione di servizi amministrativi adeguati alle esigenze del nuovo Stato e della corte, tenendo a modello l’organizzazione dello Stato egiziano.

Le gravi incertezze in materia istituzionale e i contrasti tra i quali era sorta la monarchia israelitica – a differenza di quanto era presumibilmente avvenuto per i popoli vicini seminomadi, che nella maggioranza avevano rapidamente assunto l’istituto monarchico degli stati urbani cananei – condussero, in occasione della morte di Salomone, alla scissione dei regni di Giuda e di Israele, che in realtà anche sotto David erano rimasti uniti in regime di unione personale. Il grande prestigio della casa di David impose in Giuda la successione del figlio di Salomone, Roboamo (922-915), ma nel nord i rappresentanti delle tribù, rifacendosi probabilmente al precedente costituito dall’elevazione di David, richiesero un trattato e un alleviamento di imposte. Di fronte al rifiuto di Roboamo, approfittarono della designazione che il profeta Ahia aveva fatto di Geroboamo (922-901), un funzionario di Salomone esiliato, come futuro sovrano d’Israele, per proclamarlo re. Quest’ultimo probabilmente assunse il governo d’Israele forte del favore di Sheshonq d’Egitto, che parimenti appoggiò la ribellione di un altro esule, Hadad, in Edom. Ma l’intento del faraone doveva essere quello di scardinare l’efficiente organismo politico creato da David, che costituiva un serio ostacolo a un’espansione egiziana in Asia, se in uno dei primi anni della monarchia separata compì un’incursione vittoriosa attraverso il Negev, Edom e Israele, saccheggiando questi territori e riscuotendo un pesante tributo da Giuda.

La situazione politica nei due regni appariva fin dall’inizio assai diversa. Giuda presentava caratteri di maggiore stabilità con la sua fedeltà alla casa di David e con l’inserzione nel suo territorio di Gerusalemme, sede del santuario comunitario. In Israele, invece, la monarchia appariva debole, dal momento che si riconosceva legittimo il criterio della designazione sacrale del sovrano e si poneva come problematica c comunque fittizia un’unità cultuale che pretendesse di avere una qualche sostanziale tradizionalità. Se all’interno la posizione d’Israele era difficile, all’esterno erano venuti meno, con la morte di Salomone, tutti quegli elementi di stabilità che David aveva precostituiti, avendo ormai recuperato l’indipendenza tutte le popolazioni che cingevano a sud e a est i due regni ebraici ed essendosi ricostituito l’importante regno aramaico di Damasco. Delle difficoltà interne del regno settentrionale sono testimonianze le due successive scelte, da parte di Geroboamo, come capitale di Sikem e di Tirza e il suo tentativo di costituire a Betel e a Dan i centri cultuali ufficiali. Nel sud, invece, i primi re di Giuda provocarono azioni di guerra ai confini settentrionali, strappando a Israele lembi di territori di Beniamino per difendere Gerusalemme, troppo esposta presso il confine settentrionale.

Dopo i brevi regni di Abiyam (915-913) nel sud, che sembra aver ottenuto un successo su Geroboamo, e di Nadab (901-900) nel nord, Asa (913-873) di Giuda si liberò di un debole attacco egiziano e, invocando l’aiuto degli Aramei di Damasco per respingere le iniziative di Baasha (900-877) d’Israele alla frontiera, provocò l’invasione dello Stato settentrionale da parte di Barhadad I di Damasco. Poiché quest’ultima azione di guerra sembra aver fatto perdere a Israele il territorio a est del Giordano e a nord dello Yarmuk, dopo i due regni poco significativi e conclusi da sanguinose congiure di Elah (877-876) e Zimri (876), Omri (876-869), che pure assassinò il suo predecessore, volle porre fine alle contese con Giuda e instaurò una politica di amicizia con lo Stato meridionale per resistere alle minacciose forze che avevano iniziato lo sgretolamento di Israele sulle frontiere nordorientali. Nel quadro di queste alleanze, per contrastare soprattutto la crescente potenza dello Stato aramaico di Damasco, Acab (869-850), il figlio e successore al trono di Omri, sposò Gezabele, figlia di Ittobaal di Tiro, attirandosi i violenti attacchi del profeta Elia contro i culti idolatri tollerati e praticati a corte e senza che questo matrimonio recasse grandi vantaggi al re d’Israele, tranne la neutralità dello Stato fenicio, probabilmente già scontata. In Israele iniziava così la prima dinastia durevole, mentre in Giuda finiva il lungo regno di Asa e iniziava quello di Giosafat (873-849), che in un periodo di benessere economico consolidarono la stabilità della dinastia davidica, il primo abolendo pratiche cultuali di origine cananea, penetrate nella corte con l’autorevole appoggio di regine ammonite e gheshurite, e il secondo compiendo una riforma giudiziaria che prevedeva la sostituzione dei magistrati locali con giudici reali e del diritto consuetudinario con una legislazione codificata.

In Israele, Omri con un governo forte e autoritario iniziò la riconquista dei territori moabitici a nord dell’Arnon e forse di quelli a nord e a sud dello Yarmuk, se è vero che conseguì qualche successo nella lotta contro Damasco. È comunque indubbio che con Omri si aprì un periodo di una certa espansione economica, sia per i rinnovati rapporti coni centri fenici, sia perché, a seguito delle lotte con Damasco, Israele conseguì alcuni vantaggi commerciali, peraltro reciproci, sul grande mercato damasceno; frutto di tale espansione fu la fondazione della nuova capitale di Samaria.

Acab ebbe a sostenere violenti attacchi da parte di Barhadad II di Damasco, che arrivò ad assediarlo a Samaria, ma riuscì sempre a liberarsi vittoriosamente dagli Aramei e alla fine strinse con essi un’alleanza per fronteggiare l’invasione assira di Salmanassar III. Una coalizione di re della Siria e della Palestina, guidata da Acab d’Israele, Barhadad II di Damasco e Irkhuleni di Hama, fermò gli Assiri a Qarqar nell’853, scontro vantato da Salmanassar come vittorioso, ma che fu almeno di esito incerto. L’esercito assiro riapparve in Siria qualche anno più tardi, ma Israele non figura tra gli antagonisti, secondo le fonti assire; in realtà, poco tempo dopo la battaglia di Qarqar, Acab, che voleva riprendere agli Aramei alcuni territori transgiordani, con l’alleanza, attiva questa volta, di Giosafat di Giuda, cadde in battaglia sotto Ramot di Galaad.

L’avvento al trono di Israele di Yehu (842-815), conseguito attraverso l’eccidio degli ultimi Omridi, è presentato non univocamente dalle tradizioni bibliche, in quanto egli appare come un designato da Dio per il tramite di Eliseo a porre fine alle empietà della casa di Acab contro cui aveva lottato Elia, ma poi le sue stragi sono deplorate da Osea. È indubbio, tuttavia, che Yehu fu favorito dagli ambienti più tradizionalisti e ortodossi, rappresentati a quel tempo dai Recabiti, fautori dei severi costumi della vita nomadica. Molto probabilmente il nuovo re d’Israele non corrispose alle aspettative, sia militari sia sociali, che secondo alcuni avrebbero favorito il suo avvento, perché, con lo stesso eccidio di Yoram (849-842) di Israele e di Acazia (842) di Giuda e dei loro congiunti che lo condusse al trono, si dovettero troncare le relazioni con Giuda e con le città fenicie. Un’analoga reazione antifenicia può essere stata all’origine del colpo di stato di Hazael a Damasco, contemporaneo di quello di Yehu, che riaccrebbe potenza allo Stato della Siria meridionale. Il primo obiettivo dell’usurpatore damasceno fu costituito proprio dall’indebolito Israele e soltanto le vittoriose incursioni di Salmanassar III tra 1’841 e 1’838 sospesero la penetrazione aramaica in Israele. Immediatamente dopo, i successi di Hazael dovettero essere notevolissimi, usufruendo anche di un’alleanza con i Filistei; oltre l’annessione di importanti territori transgiordanici, Hazael prese diverse città d’Israele al tempo di Gioacaz (815-801) e sottomise a tributo anche Giuda, dove, dopo l’interregno della crudele Atalia (8422837), regnava il pio Gioash (837-800), autore di importanti riforme sacerdotali.

L’assedio subito da Gerusalemme ad opera di Hazael e rotto da Gioash con l’offerta dei tesori del tempio fu forse uno degli ultimi atti di aggressione di Damasco in Palestina. Dopo la conquista assiil’a ad opera di Adadnirari III nell’802 del grande centro aramaico, Gioash (801-786) sottomise a tributo Amasia (800-783) di Giuda e iniziò la liberazione dei territori transgiordanici, che fu completata da Geroboamo II (786-746). I regni. paralleli di Geroboamo II su Israele e di Uzzia (783-742) su Giuda rappresentano, secondo molti studiosi, un periodo di espansione economica dei due Stati ebraici, mentre gli Assiri non mostrano ancora di interessarsi alla politica delle regioni occidentali e gli Aramei sono impegnati in lotte di supremazia nella Siria interna attorno a Zakir di Hama. Diversi indizi fanno ritenere che l’economia dello Stato settentrionale doveva essere aperta alle città fenicie, mentre Giuda dovette piuttosto curare la penetrazione verso la zona mineraria del golfo di Aqaba e il controllo dei centri carovanieri.

Con la scomparsa di Geroboamo Il e di Uzzia – il quale potrebbe avere avuto un ruolo importante contro la risorgente potenza assira proprio alla fine del suo regno, se è veramente da identificare con un re citato negli annali di Tiglatpileser III, da taluni peraltro ritenuto un contemporaneo re di Yaudi nella Siria settentrionale -, inizia il periodo di intervento assiro, che in breve porterà a un completo controllo della Siria-Palestina. La ripetuta minacciosa presenza di Tiglatpileser III fin sulla più meridionale costa del Mediterraneo dovette indurre Acaz di Giuda (735-715) non solo a non rispondere all’appello antiassiro di lsraele e di Damasco, bensì anche a richiedere l’intervento assiro, quando i re di questi paesi assediarono Gerusalemme nel 734, nel corso della «guerra siro-efraimita». Conseguenza immediata della liberazione di Gerusalemme fu il saccheggio di Israele e la conquista di Damasco. Le condizioni imposte da Osea portarono alla ribellione di Israele, alla susseguente capitolazione di Samaria nel 722 dopo un assedio triennale, alla distruzione della città, all’annessione e allo smembramento in province dell’antico territorio di Israele.

Mentre nel nord iniziava la diaspora delle popolazioni israelitiche, Giuda sotto Ezechia (715-687) conduceva una politica piuttosto accorta, fatta di cauti tentativi di adesione alle rivolte antiassire, evitando di subire gravi danni dagli insuccessi, come nel caso della ribellione guidata da Ashdod e mal sorretta dal faraone Shabaka, che portò alla distruzione della città filistea. L’opposizione di Ezechia all’Assiria venne realizzandosi, tuttavia, sia all’interno con una serie di riforme cultuali tendenti a rimuovere le infiltrazioni dei culti assiri subiti da Acaz, sia all’esterno mediante contatti con le città filistee e soprattutto con Merodakbaladan di Babilonia. L’esito della rivolta fu però gravemente negativo, in quanto Sennacherib, domata la ribellione in Mesopotamia e isolato Giuda, ne conquistò il territorio e pose a Gerusalemme il celebre assedio del 701, che tuttavia si risolse con il ritiro delle truppe assire. Successivamente, benché manchi documentazione sicura, con ogni probabilità lo stesso Ezechia seguì una politica di sottomissione all’Assiria; è dubbio se essa fu interrotta poco prima della morte del re da una nuova insurrezione, chiusasi con un nuovo fallito assedio a Gerusalemme.

Durante il sec. VII i re di Giuda ottennero di conservare l’indipendenza, pur come vassalli assiri; culturalmente, l’influsso assiro dovette diventare sempre più massiccio sotto Manasse (687-642). È significativo che la riscossa nazionale fosse guidata da Giosia (640-609), che approfittò dell’indebolimento della potenza assira, proclamò un’importante riforma cultuale che imponeva la centralizzazione del culto e tentò di ristabilire l’unità di Israele, ottenendo il controllo di larghe zone dell’antico regno settentrionale. Giosia deve aver agito, inizialmente almeno, nel nord come tributario assiro, ma poi deve aver svolto la sua azione in maniera sempre più decisamente autonoma, Fino a distruggere il santuario di Betel, organizzato e protetto dagli Assiri in funzione antigerosolimitana, e infine a contrastare nel 609 il passo al faraone Nekao, diretto in Siria settentrionale per tentare di portare un estremo soccorso agli Assiri. L’azione di Giosia contro l’Egitto cercava a un tempo di salvaguardare la nuova situazione in Siria-Palestina, non ancora compromessa da troppo clamorosi successi neobabilonesi, e di opporsi a eventuali egemonie egiziane sulla Palestina, ma il re di Giuda sembra essere caduto in un’imboscata a Megiddo.

Nekao assunse il controllo di Giuda, catturando il successore di Giosia, Yoacaz, e ponendo sul trono Yoakim (609-598). I rapidi progressi in Siria di Nabucodonosor II consigliarono dapprima al nuovo re di Giuda di pagare tributo, ma poi si ribellò. I Babilonesi intervennero prendendo Gerusalemme nel 597, quando a Yoakim era successo Yoakin. Le misure prese da Nabucodonosor furono estremamente severe, poiché deportò a Babilonia il re, la sua corte e parte rilevante della popolazione economicamente attiva, saccheggiò il tempio di ogni ricchezza e pose sul trono Sedecia, ponendo le premesse per una definitiva soggezione di Giuda. Nella disperata situazione economica del piccolo Stato, gravi contrasti interni nati dall’opera di Geremia, contrario a Sedecia e fautore di una politica di ossequio a Babilonia, vennero a turbare i tentativi di ribellione. A essa si giunse impreparati per il mancato appoggio dell’Egitto e la conclusione ne furono il sacco di Gerusalemme dell’estate 587, la successiva, pur parziale, deportazione babilonese e l’annessione di Giuda come provincia neobabilonese.

Leggiamo ora cosa scrive, sullo stesso periodo storico, da David a Giosia, Mario Liverani:

Con David (1000-960) si attua un passo decisivo sul piano istituzionale. Base del regno non è più solo la lega tribale, ma insieme ad essa altri elementi costituiscono un complesso che trova nella contiguità territoriale e nell’obbedienza ad un solo re la ragione della sua coesione. È il ritorno allo Stato territoriale, ma con due differenze. La prima è dimensionale, giacché lo Stato davidico abbraccia tutta la Palestina precedentemente frammentata in città-Stati; la seconda sta nel permanere del carattere nazionale, con la tendenza dell’ elemento prevalente (Israele) a conglobare nella sua struttura tribale anche gli elementi originariamente estranei (città, gruppi tribali minori). Questo superamento dello Stato tribale si attua con una politica di consolidamento e di espansione militare assai notevole: ai due nuclei di Giuda e d’Israele (distinti se non altro per la successiva sottomissione a David) si aggiungono la città-Stato di Gerusalemme che David conquista e trasforma in capitale (estranea al sistema tribale e dunque «neutra»), e in seguito vari territori circostanti, legati in vario modo alla persona del re – Edom viene annesso direttamente, Ammon in regime di unità personale, Moab è sottoposto a tributo. Aramei a nord-est e Filistei a sudovest vengono tenuti a bada, e la tradizione, sopravvalutando certo l’estensione del regno davidico (che in seguito diventerà modello e culmine della gloria nazionale) parla di una guarnigione a Damasco e di un omaggio del re di Hama. I successi militari e politici di David faranno favoleggiare di un Israele esteso dal confine egiziano all’Eufrate, ben oltre i limiti della «terra promessa» e dell’effettivo stanziamento delle tribù israelitiche. Se questo orizzonte rimane un’utopia, è tuttavia chiaro che il regno davidico si pone nello spazio siro-palestinese del X secolo in una posizione di preminenza.

Cominciano le costruzioni di prestigio, si costituisce una classe di funzionari amministrativi, si costituisce una milizia mercenaria distinta da quella tribale di leva, riprende forma una situazione in cui il palazzo coi suoi dipendenti rappresenta il nucleo dello Stato e il resto della popolazione è respinto ai margini della vita politica e considerato fonte di tasse, di contribuzioni, di lavoro. Questo aspetto si accentua con Salomone (ca. 960-920), figlio e successore di David, che giunge al trono come esponente di un gruppo di potere all’interno della corte, contrapposto ad altri gruppi di potere (che puntavano su altri candidati alla successione), con l’autorità divina e quella popolare chiamate solo a ratificare e non più a determinare. Con Salomone lo Stato davidico trova la sua fase matura: non vi è più bisogno di guerre e di politica espansionistica (vi è piuttosto qualche decurtazione territoriale, soprattutto per il risveglio di Damasco); i rapporti politici si impostano soprattutto sul piano diplomatico (l’imparentamento col re d’Egitto è segno di prestigio notevole). Fervono i commerci, in associazione con i Fenici di Tiro, e si cerca di sfruttare soprattutto la direttrice dell’Arabia meridionale, dalla quale vengono l’oro e l’incenso. Si tenta dapprima di percorrere la vecchia via marittima già monopolio egiziano, con spedizioni che partono dal porto di Esiongaber e discendono tutto il Mal’ Rosso fino ad Ofir. Poi si allacciano rapporti lungo la via carovaniera che l’uso del cammello ha ormai reso praticabile, e che dallo Yemen risale fino alla Transgiordania: la visita della regina di Saba a Gerusalemme ha il tono di una novella, ma lo sfondo commerciale e diplomatico è attendibile.

Le grandi costruzioni pubbliche, già iniziate con David, trovano con Salomone un deciso potenziamento. Si concentrano soprattutto nella capitale dove viene costruito un vasto palazzo reale, ed un tempio di Yahweh che dovette essere inizialmente di dimensioni modeste e strutturalmente dipendente dal palazzo reale: il sacerdozio in età salomonica (e per tradizione cananaica) è una classe di dipendenti regi, e il culto che si pratica nel tempio palatino rappresenta l’espressione ufficiale, che per nulla contrasta con altri culti e con altri centri diffusi in tutto il paese. Saranno le vicende posteriori a conferire già al tempio salomonico una centralità assoluta nel territorio ed una indipendenza ed autorevolezza anche superiori al palazzo reale; ma si tratta di evidenti anacronismi, e l’analitica descrizione della costruzione e dell’arredo del tempio salomonico è sostanzialmente un modello in vista della ricostruzione del «secondo» tempio. Oltre alle costruzioni in Gerusalemme, il regno di Salomone cura l’organizzazione di centri amministrativi e militari decentrati (con magazzini, stalle, fortificazioni), con un impegno di spesa e di lavoro non indifferente.

Per far fronte alla nuova dimensione finanziaria del palazzo e dello Stato, tutto il regno è suddiviso in dodici distretti fiscali che conglobano insieme città e tribù, Cananei ed Israeliti: a tutti ugualmente si chiedono quelle contribuzioni in beni e in lavoro cui la componente cittadina e contadina è già abituata, ma gli elementi tribali mal si sottomettono. Si manifestano (soprattutto al nord) fermenti di ribellione contro la «casa di David», rimproverata di abbandonare la linea dei padri non solo in politica economica, ma anche nell’atteggiamento religioso, affiancando alla venerazione di Yahweh quella degli dèi stranieri. Alla morte di Salomone i fermenti di opposizione si innestano nella vecchia bipartizione tra Giuda e Israele, portando alla frattura: Giuda, raccolta intorno alla capitale, rimane fedele alla casa di David, ma il nord si rende autonomo tornando ad un tipo di monarchia assai fluido, sul modello di quello di Saul, senza capitale fissa, senza continuità dinastica, senza apparato burocratico e fiscale.

3. Il mosaico politico

Il tentativo unificante ed anzi espansionistico di David e Salomone si esaurisce alla morte di quest’ultimo, subentrando un nuovo frazionamento politico che caratterizza tutto il periodo fino alla conquista assira (dunque dalla fine del X alla metà dell’VIII secolo). Il mosaico si stabilizza su sei elementi fondamentali: la pentapoli filistea, il regno di Giuda, il regno d’Israele, Ammoniti, Moab, Edom. La pentapoli filistea, dopo i colpi subiti ad opera di David, deve rinunciare a pretese egemoniche sulla Palestina, ma rimane abbastanza forte da mantenere l’indipendenza rispetto al più vasto regno d’Israele e all’adiacente regno di Giuda. La diversità filistea rispetto alla popolazione semitica prevalente nell’area viene progressivamente meno, attraverso un inarrestabile processo di assimilazione linguistica e di acculturazione. Gli elementi culturali di connessione egea (ceramica filistea) o egiziana (sarcofagi antropoidi) che avevano caratterizzato la prima fase di presenza filistea vengono meno, e la cultura materiale si pareggia a quella delle città dell’interno. I nomi di persona diventano tutti semitici, le divinità hanno nomi locali (Dagon a Gaza e Ashdod; Astarte ad Ascalona). I capi politici portano una designazione in lingua filistea (serānīm, che è stato confrontato al greco tyrannnos) ma non sappiamo se e quanto diversa fosse questa leadership filistea dalla regalità cananea. Gli altri elementi caratteristici del sistema socio-politico (milizie mercenarie, assegnazione di feudi ai vassallli, ecc.) sono di derivazione cananaica. Pur se di origine esterna nella loro classe dirigente, le città-Stato filistee finiscono così per rappresentare gli elementi di massima continuità dal Tardo Bronzo, rispetto al carattere più innovativo dei regni «nazionali» che si istaurano nell’interno.

Fra questi il regno di Giuda formalmente continua la grande formazione statale di David e Salomone, e la capitale Gerusalemme ospita un palazzo reale ed un tempio che sono ormai sproporzionata eredità rispetto alla ben modesta realtà del presente. La continuità dinastica della «casa di David» e il tempio di Yahweh mantengono un prestigio politico e religioso che potenzialmente travalica i confini di Giuda per coinvolgere tutte le popolazioni israelitiche. Ma nella realtà politica dei secoli IX e VIII il regno di Giuda è formazione secondaria, sempre in rapporto di subordinazione e protezione o rispetto ad Israele, o rispetto a Damasco in funzione anti-israelitica, o infine rispetto all’Assiria in funzione anti-israelitica e anti-damascena. Dal punto di vista economico, il tesoro ammassato da Salomone nel tempio di Gerusalemme viene ceduto per far fronte all’incursione del faraone Sheshonq; e in seguito il regno di Giuda, tagliato fuori sia dal Mediterraneo (dalle città filistee) sia dalle carovaniere transgiordane (per l’indipendenza recuperata da Edom e Moab), deve con tare sulle sue esigue risorse agro-pastorali derivanti dall’ ecosistema collinare (montagna di Giuda) e semi-arido (Negev) che costituiva il suo territorio.

Più vasto, più articolato a comprendere pianure (Yezreel e medio Giordano) e montagne, città e campagne, con sbocco al Mediterraneo (zona a sud del Carmelo, tra Filistei e Fenici) e con accesso alle carovaniere transgiordane (Galaad), il regno di Israele è lo Stato egemone della Palestina nell’intermezzo che separa l’unificazione davidica dalla conquista assira. La vicenda storica e istituzionale attraversa varie fasi: dapprima (Geroboamo I) si ha la «ribellione» al sistema impositivo di Gerusalemme, la costituzione di un regno a base tribale e rappresentativa (anziani), la guerra contro Giuda per la reciproca sopravvivenza e poi più banalmente per la definizione del confine (territorio di Beniamino). Segue una fase in cui gli aspetti «non-statali» del regno (mancanza di una capitale, di una dinastia, di un’amministrazione stabile) degenerano nel caos, con seguito di usurpazioni, di regni brevissimi, di lotte interne. Terza fase è quella della normalizzazione con la «casa di Omri» (e cioè coi re Omri e Achab) che stabilisce la capitale a Samaria, nuova fondazione dinastica, e la dota di un palazzo e di una corte regia, di una burocrazia e di un’amministrazione statale – pareggiando per così dire Israele a Giuda sul piano organizzativo. I regni di Omri e Achab sono una fase di costruzioni pubbliche, di imparentamento con la casa reale di Tiro, di coinvolgimento in attività commerciali, di impegno militare contro Damasco per il controllo della regione-chiave di Galaad, di protettorato sul regno di Giuda, di impegno anche contro le prime avvisaglie del pericolo assiro. Il regno d’Israele è ora la potenza egemone in Palestina, e svolge una politica complessa che fa rapidamente dimenticare l’origine tribale e anti-fiscale per assumere tutti i caratteri dello Stato palatino dell’ età del ferro. Questa rapida trasformazione comporta difficili problemi interni, tra l’atteggiamento più «modernizzante» che fa capo alla corte di Samaria e l’atteggiamento più tradizionale che si riveste di argomenti religiosi ed etico-sociali, per bocca di «profeti» che accusano i regnanti di idolatria e di corruzione. La rivolta «yahwistica» del generale Jehu, se porta ad un ricambio della dinastia regnante, non può però invertire il processo di normalizzazione che continua secondo le linee precedenti. Ma l’avvicinarsi del pericolo assiro diventa sempre più preoccupante, e polarizza tutte le energie di Israele, paese che la conquista assira della Siria metterà ben presto nella posizione di «prima linea» e di difficile scelta tra resistenza armata e sottomissione.

Gli altri tre regni disposti lungo la fascia transgiordanica (Ammon, Moab, Edom) hanno scarsa influenza nelle vicende politiche: il loro problema principale è quello di mantenersi indipendenti. Per Ammon la minaccia viene da Israele ed eventualmente da Damasco, e gli Ammoniti si inseriscono anch’essi nelle guerre «siro-efraimite» per il controllo di Galaad e della «via del re». Per Moab c’è una fase di sottomissione ad Israele, ed abbiamo nella stele del re moabita Mesha la rara opportunità di confrontare la versione israelitica dei fatti, conservata dal racconto biblico, e quella moabitica conservata dalla stele stessa – versioni opposte nei dettagli fattuali ma analoghe nei presupposti teologici. Per Edom invece c’è un rapporto di potenziale subordinazione rispetto a Giuda ed una vicinanza all’Egitto che offre qualche possibilità di gioco politico. Edom fra i tre regni transgiordanici è apparentemente il più marginale, meno forte e meno organizzato: però ha una posizione strategica di controllo sui collegamenti tra Giuda e il Mar Rosso, ed ha il controllo delle zone minerarie (rame e ferro). Tutti e tre i regni transgiordanici hanno poi una base economica comune costituita da ricche greggi ma soprattutto dal transito delle carovaniere che collegano lo Yemen alla Siria. La ricchezza di questi regni è dunque sorprendentemente maggiore di quanto le loro risorse interne farebbero prevedere, maggiore anche di quelle dei regni cisgiordanici, ciò che spiega anche la precoce attenzione assira nei loro confronti.

In tutta questa fase di indipendenza e di pluralismo politico, la Palestina fa parte di un continuum con gli Stati aramaici, fenici e neo-hittiti più al nord, che solo per convenienza di esposizione viene qui suddiviso per tratti geografici e per entità etnico-linguistiche. Sul piano dei rapporti politici, come pure sul piano della cultura materiale, ben pochi elementi diversificano le corti di Gerusalemme o di Samaria o di Rabbat ‘Ammon dalle corti di Tiro, di Damasco o di Hama. Acquista però sempre più peso la diversificazione «nazionale» basata su elementi quali la lingua, e la scelta di divinità dinastiche o nazionali (Yahweh per Gerusalemme, Milkom per gli Ammoniti, Kemosh per i Moabiti, come Ba’al per Tiro e Hadad per Damasco). Queste entità statali e nazionali interagiscono per vari secoli secondo una dinamica interna palestinese, potendo contare sulla relativa lontananza degli imperi circostanti. Gli Egiziani fanno la loro ultima isolata incursione con Sheshonq, e gli Assiri faranno le loro prime incursioni con Salmanassar III. Per tutto il lungo arco di tempo che va dal 1200 al 750 la cessione di risorse palestinesi all’esterno sotto forma di tributo o di saccheggio sarà episodica e modesta nell’entità e nelle conseguenze sull’economia locale. Il periodo potrà dunque contare su una buona base economica, come non era più avvenuto dopo il Medio Bronzo.

I rapporti tra i vari regni e le varie casate reali assumono ovviamente o la forma dell’alleanza o quella della guerra. Paradossalmente (ma non troppo) le alleanze esterne incontrano resistenze e problemi a livello interno, di coesione nazionale, che è invece potenziata dal coinvolgimento bellico. Il fatto è che le alleanze tra case reali appartenenti a diversi ambiti nazionali (linguistici, religiosi, culturali) tendono a legare tra di loro le corti passando al di sopra della popolazione comune. Queste alleanze si sostanziano di matrimoni dinastici, di scambi di doni e di specialisti, di associazione in imprese commerciali, e portano dunque ad un più massiccio arrivo di prodotti e di mode straniere, alla presenza a corte di persone (mogli del re in particolare) di lingua e cultura straniera, soprattutto alla penetrazione di culti stranieri. La popolazione, presso la quale i valori nazionali e religiosi hanno maggior presa dell’apprezzamento per i prodotti esotici, reagisce con condanne che trovano canali di espressione in «profeti» che gravitano intorno alla corte e si fanno portavoci di opinioni esterne ed al limite anti-regie. Anche nei gravi problemi connessi alle guerre regionali, e poi all’atteggiamento da assumere di fronte all’incombere del pericolo assiro, si assiste ad un confronto di opinioni, interne alla corte ma anche esterne, che assumono il tipico «codice» del messaggio profetico.

L’esito delle guerre – la vittoria come la sconfitta, la distruzione propria come l’altrui, l’intervento di potenze esterne – riceve una spiegazione teologica, come esito di fattori etico-religiosi più che come esito del semplice confronto di potenzialità militari ed economiche. Come già del resto nell’età del bronzo, la guerra è sempre una «guerra santa», combattuta apparentemente dagli eserciti ma in ultima analisi dai rispettivi dèi. Se le guerre dell’età del bronzo erano sante in quanto tecnicamente ordaliche, elemento di prova della ragione e del torto nel dibattito politico e diplomatico che aveva preceduto le ostilità, invece nell’età del ferro le guerre sono sante in quanto scontri tra divinità nazionali (mediante i rispettivi eserciti) che prevalgono a seconda della rispettiva forza: il nemico sarà sconfitto non in quanto aveva tecnicamente torto, ma in quanto portatore del peccato basilare di essere devoto di una divinità sbagliata, di non essere parte del popolo «eletto». È dunque piuttosto la guerra che non la pace a mobilitare e a consolidare i sentimenti nazionalistici, col popolo più facilmente al seguito dei profeti della resistenza ad oltranza che non delle corti fautrici di atteggiamenti più opportunistici e più realistici.

4. L’impatto degli imperi

L’intervento assiro, fattore esterno che dapprima si inserisce nelle lotte interne palestinesi, si fa sempre più pesante col passare del tempo, progressivamente scendendo verso il sud ed acquistando centralità. Già nell’853 Achab d’Israele aveva portato il suo contributo alla coalizione di Stati siro-palestinesi che avevano ricacciato l’esercito assiro di Salmanassar III: episodio apparentemente occasionale, semplice pausa che aveva unito contro un pericolo comune dei contendenti abituali, ma in realtà avvisaglia di una minaccia della quale gli Stati più settentrionali avrebbero fatto ben presto esperienza. Per la Palestina il pericolo assiro diviene concreto solo con l’VIII secolo, quando l’alternativa di pagare il tributo o di vedere il proprio territorio devastato diventa abituale. La conquista attraversa normalmente tre stadi: un regno locale viene dapprima sottoposto a tributo annuo; poi – approfittando di velleitarie ribellioni – gli Assiri impongono re di loro scelta al posto dei ribelli; infine – ancora con l’occasione di ribellioni o resistenze – vengono attuate la distruzione e la riduzione a provincia dell’impero. Nel giro di 25 anni, da Tiglatpileser III a Sargon II, divennero province assire Megiddo, Dor e Galaad (734), Qarnaym e Hauran (733), cioè tutte le zone esterne del regno d’Israele; poi Samaria (722), cioè il nucleo centrale di Israele; infine Ashdod (711).

Gli Stati palestinesi, anziché coalizzarsi contro l’invasore, adottarono politiche diverse (sottomettendosi alcuni, combattendo gli altri), cercando di usare l’invasore per risolvere vecchie discordie, ed usati a loro volta dagli invasori come ausiliari e quinte colonne nella prospettiva di partecipare alla spartizione delle spoglie. I rapporti tra Stati ed etnie palestinesi si incattivirono in questo periodo (e poi in quello di intervento babilonese), come testimoniano le numerose «profezie» contro i popoli stranieri, di parte giudaico-israelitica: in esse la distruzione altrui è acclamata come dimostrazione degli altrui torti, si lamenta viceversa l’approfittare altrui delle proprie rovine, e infine si configura l’invasore imperiale come strumento divino di distruzione e punizione.

Anche all’interno dei singoli regni si accendono dibattiti sulla strategia da seguire: alcuni propugnano la resistenza strenua, altri suggeriscono (anche a costo di passare per filo-assiri, o in seguito per filo-babilonesi) la sottomissione. Data la superiorità dell’armata assira sulle fortificazioni palestinesi bisogna dire a posteriori che la politica di sottomissione (praticata prevalentemente da Giuda) valse almeno a salvare un minimo di autonomia, mentre la resistenza armata (praticata prevalentemente da Samaria) portò al rapido disastro. Ma era più facile comunque resistere per gli Stati più meridionali (Giuda, Edom, Gaza); più lontani e spalleggiati anche dall’Egitto: Gerusalemme poté superare un duro assedio (701) pur perdendo allora parte dei territori esterni.

La conquista assira non è un fenomeno esclusivamente politico e militare, comportando conseguenze di notevole portata sul piano economico e demografico. La Palestina aveva conosciuto periodi anche lunghi di sottomissione ad imperi esterni (particolarmente all’Egitto durante tutto il Tardo Bronzo), senza che ciò comportasse conseguenze troppo drammatiche, poiché le distruzioni e le forme di sfruttamento erano allora lievi, e l’autonomia politica locale era salvaguardata. Ora invece il pagamento periodico di pesanti tributi significa una perdita di ricchezza non indifferente per le risorse limitate della regione. Ma sono le devastazioni dei raccolti, il taglio delle colture arboree, la distruzione dei villaggi agricoli e delle opere di irrigazione e terrazzamento ad inferire i colpi più duri all’economia palestinese. Le stragi e le deportazioni portano ad un innegabile depauperamento demografico e soprattutto tecnico e culturale. Le deportazioni riguardavano soprattutto gli abitanti delle città, mentre i «poveri della terra», cioè i contadini, rimasero nelle campagne seriamente intaccate dalle devastazioni. All’effetto di spopolamento seguì quello altrettanto grave dello scoraggiamento e della deculturazione. Le città non erano più sedi di dinastie locali, con le loro esigenze di ostentazione e di accumulo (che stimolavano l’artigianato locale e i traffici), e con la conseguente ricaduta in termini di coesione e motivazione nazionale. Erano ormai sedi di governatori assiri, di amministratori assiri, di guarnigioni assire, di culti assiri, semplici «terminali» di un complesso meccanismo di centralizzazione delle risorse in funzione dello sviluppo delle capitali imperiali e del ripopolamento delle campagne assire.

Il processo è comune a tutta la Palestina, ma il momento decisivo, che è quello della riduzione a provincia, è rimandato di molto per Giuda (come anche per Gaza, Moab, Edom), grazie alla sua posizione più appartata e al sostegno egiziano. Alla prevalente politica di rinunciataria sottomissione subentra talvolta una politica più ardita, che trae spunto dalla situazione internazionale (sostegno egiziano, difficoltà dell’Assiria sul fronte babilonese) per rivendicare un’indipendenza che assume connotati religiosi (riforma del culto). Da una più rigorosa fedeltà a Yahweh il popolo ebraico e i suoi esponenti politici si aspettano la reintegrazione in una condizione politica più fortunata; come nell’incombere del pericolo non manca chi veda una conseguenza dei vacillamenti religiosi. Si ha un episodio significativo con Ezechia (715-687), che riorganizza lo Stato e il culto, fortifica Gerusalemme e resiste all’assedio di Sennacherib (701), evitando la rovina completa ma perdendo gran parte del territorio. E si ha un altro episodio ancor più consistente con Giosia (640-609), che attua una politica di ricostituzione nazionale approfittando del crollo dell’impero assiro, breve parentesi in cui la striscia siro-palestinese è politicamente disponibile, prima che si decida la contesa tra i Babilonesi che scendono dal nord e gli Egiziani che risalgono dal sud. Giosia recupera momentaneamente i territori già israelitici, e sogna di restaurare il regno davidico. Con lui giunge ad un livello abbastanza cosciente l’identificazione dello Stato col dio nazionale, con una politica religiosa assai drastica contro i culti non yahwistici. Ma la parentesi è breve, Giosia trova la morte combattendo contro gli Egiziani.

Pochi anni dopo, quel che non era riuscito agli Assiri riuscirà ai Babilonesi: Nabucodonosor espugna Gerusalemme una prima volta, riducendola alla condizione di regno vassallo (597), e poi una seconda volta ponendo fine all’autonomia locale (586); il tempio salomonico è distrutto, le mura sono smantellate, la classe dirigente è deportata a Babilonia. Analoga sorte tocca a Gaza, ad Ammon, a Moab. L’entità delle deportazioni babilonesi è più modesta di quelle assire. Per le deportazioni assire si ha la cifra di 27.290 deportati da Samaria, e quella di 200.150 per la Giudea del 701. Invece da Gerusalemme pare fossero deportate 3000 persone nel 597, 1500 nel 586. Ma a differenza degli Assiri i Babilonesi non ripopolavano le campagne devastate con ulteriori deportati da altre zone (concentrando tutti i deportati nella zona babilonese). Perciò mentre le campagne del nord (Israele, Stati aramaici) vennero ricolonizzate da una mistione tra contadini residui e nuovi immigrati, quelle del sud (Giuda) rimasero semivuote ma etnicamente più compatte. E mentre i deportati in altre zone assire venivano fusi (anche forzosamente) alle popolazioni locali, gli esuli giudei in Babilonia mantennero maggiore coesione e individualità (col loro re anch’egli esule ma ancora considerato tale). Oltre alla differenza del tempo trascorso in esilio, fu anche la diversità dei sistemi di sfruttamento e di deculturazione a far sentire i suoi effetti: tremendamente efficace il sistema assiro nel pareggiare fra loro varie etnie e varie culture, ma capace anche di praticare una nuova colonizzazione e ricostituire una situazione produttiva; più tenue e permissivo il sistema babilonese, ma anche più disinteressato alle condizioni delle regioni conquistate. A partire dalla conquista assira (seconda metà dell’VIII secolo) e culminando sotto i Babilonesi alla metà del VI secolo, si ha una caduta verticale del sistema insediativo palestinese e della quantità di popolazione in presenza, che tocca il livello probabilmente più basso di tutto il periodo pre-classico.

Nel vuoto politico e demografico creatosi soprattutto nel sud e in Transgiordania, si attuano anche degli spostamenti di popolazioni. Gli Edomiti passano dalla loro sede antica (ad est della ‘Arabah) alla parte meridionale dell’ex regno di Giuda, nella zona di Hebron e Beersheva, che da loro diverrà la classica Idumea. Tutta la fascia ad est del Giordano è sempre più interessata dalla penetrazione di popolazioni di lingua araba, tribù cammelliere in origine, ma poi coinvolte in processi di sedentarizzazione e di occupazione dei centri urbani e carovanieri, man mano che questi venivano abbandonati dalle popolazioni precedenti. Come effetto invece delle deportazioni assire, soprattutto nel nord, si ha una penetrazione di gruppi linguisticamennte aramaici, provenienti da altre zone della Siria centrale e settentrionale, dell’alta Mesopotamia e della Caldea.

I deportati in arrivo portarono le loro divinità e le loro costumanze, inizialmente estranee alle tradizioni del paese, ma suscettibili di fondersi coi resti della cultura locale. La Palestina soprattutto del nord vide il costituirsi di una popolazione mista e culturalmente piuttosto dequalificata, fatta di contadini indigeni residui e di gruppi di deportati allogeni, senza élite dirigente (se non quella assira provinciale), parlanti aramaico, religiosamente tendenti al compromesso e al sincretismo. Parallelamente invece i nuclei di deportati palestinesi (e specialmente giudei), colti e consapevoli (perché già membri delle élites palatine o templari) cercarono di perpetuare altrove, nell’esilio babilonese, la purezza della loro lingua, delle loro costumanze. della loro religione, per difendersi dall’assimilazione al mondo circostante e prevalente, senza neppure accorgersi di quanto questo rigore e questo isolamento fossero fatti nuovi ed anomali. Questi nuclei di esiliati consideravano se stessi (e non i contadini rimasti in Palestina) quale autentico «resto» di scampati al disastro nazionale, e continuarono a guardare alla Palestina (e particolarmente a Gerusalemme) come alla loro terra, caricandola di valori simbolici che andavano ben oltre la realtà concreta, e che col ritorno dall’esilio (prima età persiana) cercheranno di recuperare senza accorgersi di dar vita a qualcosa di completamente diverso ed innovativo.

Proprio quando il «rullo compressore» degli imperi universali riduce la Palestina ad una sostanziale uniformità, decapitandola dei suoi originali centri di produzione culturale e di identità politica, si producono le condizioni per l’emergere di «frontiere invisibili» (ma non meno drastiche), interne al tessuto sociale ed etnico, basate sulle formulazioni teologiche, sulle convinzioni, sul comportamento personale.

E’ ora utile leggere quanto scrive Donnini all’interno del suo “Come nacque la Bibbia“:

5 – DAVID, L’UNTO DI YHWH.

I fuoriusciti dall’Egitto, governati da una casta egiziana e da un capo che aveva riciclato il monoteismo di Akhenaton, ebbero vita difficile e peregrinarono in cerca di una casa finché non giunsero nei pressi di quella striscia di territorio che sta tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo. In quel contesto di deserti infuocati (Sinai, Negev, penisola arabica…), dove in estate il sole, picchiando sulle rocce e sulle sabbie nude, produce comunemente temperature di 50 e persino 60 gradi che arrostiscono ogni creatura vivente, le colline della Palestina, che sfiorano i mille metri d’altitudine, arrestano il vento che viene dal mare e facilitano le piogge, creano un ambiente assolutamente idilliaco. Clima temperato, boschi verdeggianti, erba adatta al pascolo, stambecchi che scorrazzano, sorgenti di acqua fresca e terra fertile.

Chi non avrebbe pensato che quella sorta di oasi incredibile era un giardino preparato apposta dal creatore come dote per un popolo che godeva di una sua particolare simpatia?

Ma, ahimé, altre genti occupavano questo suolo. Tribù che non erano molto intenzionate ad accettare l’intromissione di questa nuova banda di nomadi.

Certamente i fuoriusciti dall’Egitto ebbero da affrontare prove molto dure, come del resto è chiaramente testimoniato dal racconto biblico relativo al tutto il lungo periodo che separa Mosè da David (due o tre secoli). Un periodo di lotte interne e di conflitti esterni in cui queste genti, oltre a combattere con gli indigeni che trovavano sul loro cammino, dovevano anche combattere contro quella crisi di identità che non poteva non affliggere coloro che tentavano di comportarsi come popolo, pur essendo un miscuglio molto bastardo. Ed è per questo che la società di Israele ha sempre conservato nella sua struttura una molteplicità che, nei fatti, si è espressa nella suddivisione in dodici tribù.

Ovviamente, le vicende e i disagi che questo insieme di genti ha dovuto vivere nei due o tre secoli successivi all’uscita dall’Egitto, ha influito profondamente sulla maturazione della loro concezione religiosa. Infatti, sebbene l’eredità teologica della concezione monoteistica di Akhenaton fosse il concetto di un creatore unico per tutto l’universo e per tutti gli esseri, fu impossibile evitare che queste tribù, impegnate in una dura lotta per la sopravvivenza, non sviluppassero un’immagine del dio come “proprio” dio, un dio che amava intervenire a favore del suo popolo prediletto, un dio che determinava gli esiti delle battaglie e veniva definito per questo “dio degli eserciti”.

Questa, filosoficamente parlando, è senz’altro una involuzione del monoteismo pacifista di Akhenaton, che sembrava accarezzare l’idea incredibilmente moderna di una religione universale, legata all’immagine di dio non come signore tribale, ma come signore della natura, depositario di quella potenza che elargisce e governa la vita di tutte le creature. Ma è anche vero che Akhenaton, in giovane età, come principe ereditario, si è trovato senza fatica sul trono di una antica e splendida civiltà. Per lui è stato facile immaginare una religione universale e pacifica, e non possiamo dimenticare che la sua politica idealista, in fin dei conti, è stata abbastanza rovinosa per l’Egitto.

Il dio unico di Israele non è più quel sole equanime che splende per tutti, i cui raggi scendono sulla terra come mani amorose che accarezzano tutte le creature. Il dio di Israele diventa molto partigiano, intende sterminare coloro che non vogliono essere suoi fedeli, incarica un popolo prediletto di farsi esecutore impietoso di questo piano finalizzato al risanamento spirituale dell’umanità. Questa è ovviamente la proiezione narcisistica eseguita da un gruppo umano che, a differenza di Akhenaton, non ha ereditato lo splendore di un antico e ricco paese, bensì non ha ancora una terra, non ha una storia comune, non ha altro che povertà, nemici ostili e crisi di identità collettiva.

Che altro può fare, un gruppo umano come questo, se non inventarsi un orgoglio nazional-religioso, anzi, una missione spirituale, un patto privilegiato col creatore, colmare il proprio immaginario collettivo con l’idea di essere, fra tutti i popoli, il favorito del creatore e di legittimare il proprio interesse promuovendolo al rango di una causa di giustizia universale? Non solo è una idea necessaria, ma si tratta di una idea geniale, assolutamente vincente e, sebbene il presunto favore di dio sia solo una invenzione narcisistica, chi, in Israele, avrebbe osato metterlo in dubbio? Ed è così che l’idea di un monoteismo di stato, presa in prestito da Akhenaton, che non si era rivelata utile per il vecchio Egitto, si rivelò utile per il giovane Israele; adattando però una parte della sua filosofia alle necessità di questo popolo nascente e assumendo tinte di spiccato nazionalismo.

 6 – IL REGNO DI DIO.

Uno dei momenti più gloriosi della sua storia Israele l’ha vissuto quando, a seguito di brillanti vittorie contro i popoli indigeni della Palestina, si è trasformato in un regno, prima sotto Shaul, capo della tribù di Beniamino, e subito dopo sotto David, un umile pastorello della tribù di Giuda, che era andato in sposo alla figlia di Shaul.

Shaul era riuscito a riunire sotto lo stesso regno solo tre tribù e non aveva stabilito una capitale, mentre David, un individuo affascinante, abile, spregiudicato, anzi, decisamente cinico, seppe riunire tutte e dodici le tribù sotto un grande regno. E poiché si trattava del regno di un popolo che aveva ormai maturato la convinzione di essere depositario di una missione affidatagli direttamente da dio, o meglio, che era cresciuto e aveva vinto proprio perché aveva trovato la sua identità e la sua forza inventandosi tale convinzione, quel regno non poteva essere altro che il “regno di dio”. E il suo compito era quello di splendere davanti a tutti i popoli della terra come luce di verità.

David fu l’unto del signore, messia (mashiah in ebraico, che si traduce christos in greco e cristo in italiano). Le sue umili origini devono in qualche modo essere promosse e la Bibbia ci racconta del profeta Samuele che va a Betlemme (città natale di Davide) e, ispirato da dio, lo riconosce come colui che regnerà su Israele e lo cosparge con l’olio dell’unzione.

David esprime un disegno ambizioso: dare una capitale grandiosa al regno di dio e erigervi un tempio monumentale, che potesse competere con la memoria degli splendori egiziani, sumeri, babilonesi… E’ sua la scelta felice di Gerusalemme come capitale, sopra uno dei colli più fortunati della Palestina, fra i boschi, a ottocento metri di altitudine, dove i nemici non possono sorprendere con attacchi imprevedibili, dove zampillano sorgenti rigogliose e dove il clima estivo è quello, delizioso, di una località di vacanze di mezza montagna.

Ma David dovette anche affrontare un problema che non era per niente risolto e che dimostra, in modo inequivocabile, quanto eterogeneo fosse questo popolo e come fosse difficile tenerlo unito. David dovette superare gravi difficoltà interne, fra cui una ribellione voluta da uno dei suoi figli, Assalonne, che egli non esitò a far uccidere.

E così David non riuscì a edificare il tempio, sarà uno dei suoi figli, Salomone, che egli ebbe da Betsabea, a realizzare questa ambizione, ma i costi di tale impresa furono talmente elevati, in termini umani e fiscali, da far precipitare il problema della coesione interna, che non poteva non essere sempre minaccioso in un popolo che si era inventato tale, appiccicando insieme tribù diverse e dalle origini più varie.

E così il sedicente “regno di dio” si sfasciò troppo presto sotto il proprio peso e si trasformò in due regni: quello di Israele, nelle regioni della attuale Samaria (Palestina centro settentrionale), e quello di Giuda, nelle regioni a ovest del Mar morto (Palestina centro meridionale). Il regno di dio durò meno di un secolo, né mai più trovò il suo antico splendore. Furono uomini come quello che Pilato fece crocifiggere alla vigilia di una festività pasquale che, mille anni dopo David, tentarono di replicarne l’impresa, ma fallirono e finirono puntualmente i loro giorni con le mani e coi piedi inchiodati.

(14)  «L’animo di Gionata si legò all’animo di Davide fino ad amarlo come se stesso»   [1 Samuele 18,1]; ed alla morte di Gionata Davide disse «Il tuo amore per me era più meraviglioso dell’amore delle donne»   [2 Samuele 1,26].


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(20) Enrico Galavotti – Le bugie della Bibbia

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(22) Enrico Peyretti – In questa Bibbia crudele io non credo più 

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