Larry Chin
Da http://www.asslimes.com/nel%20mondo/dossier%20iraq/retroscenairaq/primaparte.htm
http://www.asslimes.com/nel%20mondo/dossier%20iraq/retroscenairaq/secondaparte.htm
http://www.asslimes.com/nel%20mondo/dossier%20iraq/retroscenairaq/terzaparte.htm
Pubblicato da http://globalresearch.ca/articles/CHI211A.html
Centro di ricerche sulla globalizzazione
Rivista Online ottobre-novembre 2002.
Copyright Larry Chin 2002. For fair use only/ pour usage équitable seulement
Traduzione dall’inglese per www.asslimes.com a cura di Belgicus
Testo completo. Pubblicato originariamente come una serie in cinque parti (24 ottobre – 22 novembre 2002)
Come va in stampa questo rapporto, ha inizio un nuovo giro di “ispezioni sugli armamenti” da parte dell’ONU. Questa sciarada, designata a creare l’apparenza di un consenso internazionale, rinvierà, ma non fermerà, il furioso agitarsi americano. In assenza di prove idonee ad implicare l’Iraq, la prova sarà fabbricata. In assenza di giustificazioni, nuovi pretesti saranno costruiti e quelli vecchi rispolverati e reiterati. Il capo delle ispezioni ONU, Hans Blix, l’uomo incaricato di decidere se l’Iraq stia detenendo armi di distruzione di massa, “non può garantire che le sue squadre d’ispezione non includano spie occidentali”.
I) Dentro l’abisso
L’amministrazione Bush sta dando i ritocchi finali all’invasione dell’Iraq e possibilmente dell’Arabia Saudita, dell’Iran e oltre. La prossima fase della guerra, da lungo tempo pianificata e susseguente all’11 settembre, comporterà la rimozione di Saddam Hussein e l’instaurazione di un nuovo regime fantoccio di occupazione militare USA oppure l’assorbimento e la suddivisione del territorio irakeno da parte di surrogati USA (Giordania, Kuwait e Curdi). Questo rapporto tenterà di spiegare i modi in cui l’Iraq presumibilmente cadrà, i gruppi e gli individui che portano avanti questo discorso e i vari ordini del giorno occulti che i principali media hanno rifiutato di analizzare, o almeno di riportare.
Il Medio Oriente: premio-chiave della Guerra dell’11/9
Il “cambio di regime”, il rovesciamento criminale di nazioni sovrane, è stato con noncuranza annunciato per mesi dall’amministrazione Bush e dai media USA, ma non è una novità. L’Iraq Liberation Act, che è stato approvato dal Congresso USA ed è divenuto legge nel 1998, si riferisce esplicitamente ad un cambio di regime. L’interesse predatore di Washington verso l’Iraq viene esplicitamente dichiarato nella Strategia per la Sicurezza Nazionale del Presidente:
“Lo scopo dell’impegno degli USA, come esposto nella NSS è quello di proteggere gli interessi vitali degli Stati Uniti nella regione—un ininterrotto, sicuro accesso per gli USA/Alleati al petrolio del Golfo.”
http://www.milnet.com/pentagon/centcom/chap1/stratgic.htm
Inoltre, la
“agevolazione dell’accesso degli USA alle forniture del Golfo Persico” è una priorità dichiarata nel Rapporto Nazionale USA sulle Politiche per l’Energia del 2001 – il noto “Cheney Report”. A breve termine, l’obiettivo dell’amministrazione Bush è di spezzare la schiena all’OPEC, portarsi fuori da un imminente crollo dell’industria petrolifera USA e salvare un’economia USA disastrata che è sull’orlo del collasso. Prendere l’Iraq significherebbe realizzare questo. Come riportato nell’Observer (10/06/02) da Ed Vulliamy, Paul Webster e Nick Paton Walsh, “Gli attuali elevati prezzi del petrolio stanno trascinando l’economia USA ancor più nella recessione. Il controllo USA delle riserve irakene, forse il maggiore deposito inesplorato del mondo, romperebbe la supremazia saudita sul cartello dell’OPEC e detterebbe i prezzi per il prossimo secolo.” Gli addetti ai lavori di Washington non si sono curati di dissimulare il loro zelo da sangue-contro-petrolio. Lawrence Lindsey, consigliere economico di George W. Bush, ha detto, “Quando ci sarà un cambio di regime in Iraq, potrete aggiungere dai 3 ai 5 milioni di barili di produzione alle forniture mondiali. Il successo nel perseguimento della guerra sarebbe un bene per l’economia.” L’ex direttore della CIA James Woolsey ha fatto eco a questa modo di sentire: “L’Iraq sta esportando solo un milione di barili al giorno e sotto un’occupazione USA la produzione potrebbe crescere da 3 a 4 milioni di barili al giorno come misura di controllo del prezzo.” Un altro ex operativo della CIA, Reuel Marc Gerecht, componente dell’American Enterprise Institute, ha aggiunto, “L’OPEC è già divisa in modo significativo e il controllo USA sul petrolio irakeno si aggiungerebbe alle frizioni interne già esistenti. Farebbe diminuire in modo definitivo l’influenza saudita (sugli Stati Uniti) e causerebbe un mucchio di problemi al regime iraniano. “
Il Grande Rivolgimento
Il vero ordine del giorno a lungo termine che sta guidando la progettata operazione nel Medio Oriente è puntare alle maggiori riserve rimanenti di petrolio in un mondo che lo sta esaurendo. Questo terrorizzante fatto scientifico, che è stato ben compreso dalle elites mondiali, è stato volutamente tenuto fuori dalla conoscenza del pubblico. (Vedi http://www.dieoff.com/ ) Come illustrato in una serie di rapporti da Dale Allen Pfeiffer, geologo ed editore esperto in energia per From the Wilderness, “in base alla Curva di Hubbert (una misura standard dei massimi e minimi di produzione del petrolio), in cinque anni, noi non saremo più in grado di produrre abbastanza carburante per andare incontro alle necessità della nostra civiltà del petrolio.”
· Il retroscena è il petrolio
· Quale sarà il prossimo obiettivo del colpo petrolifero
· E’ l’Impero sul petrolio?
· E’ la Cina il gioco finale per il petrolio?
· http://www.fromthewilderness.com/free/ww3/102302_campbell.html
Il Professor Richard Heinberg, editore di
The Museletter scrive: “Dopo quel ‘Grande Rivolgimento’ come viene chiamato da uno dei geofisici USGS, ogni anno ci saranno pochi punti percentuali in meno disponibili per andare incontro alla crescente domanda mondiale, qualsiasi sia l’attività.” Nel contesto di questo cataclisma incombente, il conseguente accaparramento da parte dell’amministrazione Bush delle maggiori ricchezze petrolifere mondiali (Asia Centrale, Medio Oriente, Balcani, Venezuela, Colombia, Mar Cinese Meridionale, etc.), con il pretesto di una “guerra al terrorismo”, è tanto prevedibile quando spudorato:
· L’Iraq ha 113 miliardi di barili di riserve petrolifere accertate, secondo nel mondo solo ai
Sauditi. L’Iraq controlla l’11% del petrolio del pianeta. Il Dipartimento Usa per l’Energia valuta che l’Iraq abbia quantomeno 220 miliardi di barili in riserve non ancora scoperte.
· Vi sono in Iraq 70 campi petroliferi conosciuti, solo 15 dei quali sono stati sviluppati.
· L’Arabia Saudita, che è sull’orlo della guerra civile e contemporaneamente un conveniente obiettivo di conquista per gli USA, possiede un altro 25% dei rifornimenti mondiali di petrolio.
· “I due paesi insieme, che non hanno ancora raggiunto il massimo della capacità produttiva e che sono le due sole nazioni con la capacità di un immediato aumento del prodotto, possiedono il 36% del petrolio accertato nel mondo” secondo Michael C. Ruppert (From the Wilderness, 8/12/02)
· Michael Klare, autore di The Resource Wars, aggiunge: “L’Iraq è il solo paese accanto ai Sauditi che può aggiungere alla produzione giornaliera milioni di barili per i prossimi 10-20 anni.”
“Negli anni a venire,” scrive Pfeiffer, “l’egemonia continuata degli USA dipenderà dal mantenimento del controllo e dell’accesso delle riserve di idrocarburi in diminuzione, la maggior parte delle quali si trovano nel Medio Oriente.” E l’elite del petrolio, guidata dall’amministrazione Bush, non si fermerà di fronte a nulla per assicurarsi le riserve rimanenti e disporre del loro uso. Contro questo assaggio di crisi globale, l’esplicita politica degli USA nei confronti dell’Iraq è stata quella di un cambio di regime, un processo iniziato dapprima sotto l’amministrazione di George H.W. Bush. Come ha osservato Joe Taglieri (From the Wilderness
10/1/02), sin dal 1991, una cricca strettamente intrecciata di attuali ed ex funzionari e guerrafondai della Casa Bianca, affiliata con i circoli conservatori stava sviluppando una strategia per rimuovere il regime irakeno.
Nel piano più recente tracciato da Dick Cheney e Paul Wolfowitz e riportato da Stratfor , l’Iraq scomparirà e la nazione stessa sarà sparpagliata in tre direzioni. La parte centrale dell’Iraq, attualmente popolata da Arabi sunniti, dovrebbe divenire parte della Giordania e governata dal re giordano Abdullah. La regione curda dell’Iraq settentrionale e nord-occidentale, compresa Mosul ed i vasti campi petroliferi di Kirkuk, diventerebbe uno stato autonomo. L’Iraq sud-occidentale diventerebbe una parte del Kuwait. Un altro punto cardine di Washington riportato nel Wall Street Journal (11/12/02) comporta un piano simile a quello per il Giappone del secondo dopoguerra – un’occupazione militare capeggiata da un americano e assistita da esuli irakeni alleati degli USA e da tecnocrati. In base a liste predisposte da oppositori irakeni, gli attuali funzionari del Partito Ba’ath verrebbero processati come criminali di guerra. Come messo in luce dall’installazione di nuove basi militari permanenti in tutto il Medio Oriente ed in Asia Centrale e da nuove forniture di guerra a lungo termine (come un contratto di cinque anni firmato il 5 agosto del 2002, tra la US Navy e la Maersk Shipping Line per approntare serbatoi per mezzi corazzati anfibi, munizioni ed altri armamenti da Diego Garcia al Golfo Persico), gli USA sembrano preparati
per un grande conflitto in Medio Oriente. La regione è completamente accerchiata dalle forze USA, le quali continuano a rafforzarsi di giorno in giorno. Secondo la Reuters, “Washington ritiene che le migliori condizioni per un attacco all’Iraq da parte delle forze USA siano nei primi mesi dell’anno prossimo.” La piena complicità del Congresso USA ha già “posto il timbro” sulla guerra. L’intransigenza di certi membri delle Nazioni Unite la rinvierà, ma probabilmente non la fermerà, in quanto si continua a negoziare sulla spartizione delle spoglie del post-Saddam.
Confronto per i predomini
Non è una sorpresa che gli “sgradevoli” regimi di Giordania, Kuwait e Turchia stiano assistendo l’impegno USA La monarchia che regna in Giordania è stata strettamente connessa a Washington per decenni. L’ultimo re giordano Hussein si giovava di un rapporto con la CIA risalente agli anni 1950. L’attuale regime giordano è stato installato dagli Stati Uniti. Secondo il Guardian (2/17/99), “all’inizio del 1999, una combinazione di manipolazioni della CIA, di intrighi di palazzo e di pressioni da parte della moglie americana di Hussein, la regina Noor, ebbe per risultato che colui che da lungo tempo era il Principe della Corona, Hassan, fu scaricato a vantaggio di Abdullah, figlio della moglie britannica di Hussein e comandante delle Special Forces giordane. E così, Abdullah II divenne re del regno hashemita di Giordania”. La Giordania è anche il quartier generale dell’Accordo Nazionale Irakeno, connesso alla CIA ed uno dei gruppi di opposizione irakena favoriti. Similmente, il regime del Kuwait, guidato dalla famiglia Sabbah, è profondamente legato a Washington e alla famiglia Bush. Furono le trivellazioni Kuwaitiane in Iraq, unite alle numerose provocazioni di George H.W. Bush (compreso un piano per fissare il prezzo del petrolio a livello internazionale) che innescarono l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein nel 1990. Anche il Kuwait assistette l’amministrazione Bush nella creazione di parte della più ingannevole propaganda della Guerra del Golfo.
Secondo il corrispondente dell’UPI Morgan Strong, la virulenta propaganda anti-Saddam Hussein prodotta durante la Guerra del Golfo fu creata da membri del regime kuwaitiano e da una impresa di pubbliche relazioni di Washington, DC, con stretti legami con l’amministrazione Bush.
“Anche se le truppe irakene commisero delle atrocità nel Kuwait, essi non strapparono mai i neonati dalle incubatrici né li uccisero”, ha scritto Strong. “La giovane che testimoniò l’orrore di fronte al Congresso? Era la figlia dell’Ambasciatore kuwaitiano a Washington. Mentre gli Irakeni invadevano il Kuwait, ella si trovava a Parigi. Non ha mai lavorato in un ospedale; non ha mai lavorato in vita sua. Suo padre fa parte della dinastia immensamente ricca che comanda in Kuwait. La donna che testimoniò davanti all’Assemblea generale? Neppure lei era in Kuwait al tempo dell’invasione. Era la moglie del ministro dell’informazione kuwaitiano.”
Alla Turchia, alleato di vecchia data degli USA, è stata offerta la diretta compartecipazione al petrolio irakena e maggiori finanziamenti per l’oleodotto Baku-Tblisi-Ceyhan in cambio della sua assistenza. Secondo il giornalista curdo Husayn Al-Kurdi, “Il coinvolgimento della CIA in Turchia è antico quanto la stessa Agenzia e gli Stati Uniti sostengono fino in fondo la Turchia e i suoi gruppi paramilitari di destra.”
11/9: la madre di tutti i pretesti creati
L’uomo della strada non si accorge del diavolo nemmeno quando il diavolo lo sta tenendo per la gola. (Goethe)
La legittimazione della prossima grande guerra è stata incardinata nella narrativa ufficiale dell’11 settembre, che promuove il mito per cui gli Stati Uniti si trovano sotto attacco da parte di terroristi stranieri impazziti. Basata su prova documentaria compilata ed analizzata dal Professor Michel Chossudovsky www.globalresearch.ca/articles/CHO210A.html , la “guerra al terrorismo” – che comprende ora per estensione la “guerra agli stati canaglia” (Iraq) – è una gigantesca frode.
In effetti, una preponderanza di prove raccolte durante lo scorso anno accusa l’amministrazione Bush per la sua complicità negli attacchi dell’11/9 e il probabile coinvolgimento in numerosi incidenti di terrorismo post 11/9 – tutto ciò sembra un’operazione sofisticata di intelligence fatta scattare da interruttori controllati dalla CIA e dai massimi livelli all’interno dell’amministrazione Bush. Come riassume Ruppert:
“Noi ora sappiamo che Bush e altri erano abbastanza a conoscenza da poterlo prevenire, ma non l’hanno fatto. È già stato dimostrato che membri dei servizi segreti del Pakistan collegati alla CIA hanno aiutato a finanziarlo; che cinque dei dirottatori hanno ricevuto l’addestramento al volo presso installazioni militari USA; che nessun caccia è stato fatto decollare in tempo per fare qualcosa e che il Presidente Bush ha mentito dicendo di non avere alcuna idea che gli aerei potessero essere usati come armi. Noi sappiamo che è un segreto di stato se le agenzie di intelligence abbiano riferito a Bush quello che noi sappiamo essere a loro conoscenza.”
“Le precedenti amministrazioni USA hanno sostenuto, incoraggiato e dato rifugio al terrorismo internazionale”, scrive Chossudovsky. Sin dalla Guerra Fredda, gli USA hanno continuato a proteggere la “Rete dei Militanti Islamici” ed altri gruppi terroristici come un esplicito strumento della loro politica estera. Inoltre:
·
La “Rete dei militanti islamici” è stata una creazione della CIA, costruita appositamente per combattere la guerra sovietica in Afghanistan come uno strumento della politica estera USA a partire dall’amministrazione Carter sotto il suo pioniere, Zbigniew Brezezinski, che rimane all’avanguardia della pianificazione della politica USA.
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I gruppi militanti islamici post-guerra fredda, compresa al Qaeda sono delle risorse dell’intelligence USA.
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Tramite i gruppi che agiscono per procura, molti dei quali non sono consapevoli di chi o che cosa li finanzi e li controlli, la CIA continua ad usare il terrorismo per gestire gli interessi geo-economici USA e occidentali
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La CIA esercita un sostanziale controllo sui suoi terroristi per procura e fa il monitoraggio delle sue cellule in tempo reale tramite numerosi metodi sofisticati. Non c’è stato nessun “vuoto di intelligence” l’11 settembre, né ce n’è oggi.
Per mesi, l’amministrazione Bush ha corroborato la sua menzogna della “guerra al terrorismo” con un crescendo di nuove falsità sulle “armi di distruzione di massa” dell’Iraq. Queste bugie sono state ripetutamente scoperte. In una sessione ristretta con i funzionari dell’amministrazione Bush, il membro del Congresso Anna Eshoo (D-Calif.) ha chiesto più volte se avessero la prova di un’imminente minaccia di Hussein contro i cittadini degli Statin Uniti. “Essi hanno risposto ‘no’,” ha detto. “Non ‘no, ma’, oppure ‘forse’, ma ‘no’. Io rimasi sbalordita. Non scioccata. Non sorpresa. Sbalordita.” (San Francisco Chronicle, 9/20/02). Secondo l’ex ispettore dell’ONU sugli armamenti Scott Ritter, che ha fornito chiara prova che l’Iraq non pone nessuna minaccia credibile, “Il Presidente Bush rifiuta di considerare il “sì” una risposta. Le azioni dell’amministrazione Bush si fondano sulla vuota mitologia che si combatta questa guerra al di là di qualsiasi minaccia portata da armi di distruzione di massa irakene. È diventato chiaro che il suo obiettivo è l’eliminazione di Saddam Hussein.”
Una guerra di terrorismo: il terrorismo americano
Non è una sorpresa che la rimozione del regime irakeno caratterizzerà ancora un altro lancio di gruppi paramilitari armati “sgradevoli” e criminali d’allevamento USA, messi in pista con cura dalla CIA sin dalla Guerra Iran-Iraq. L’amministrazione Bush e la CIA stanno mettendo insieme una coalizione simile all’afghana “Alleanza del Nord” che consiste essa stessa di banditi, narco-trafficanti, stupratori, signori della guerra e criminali di guerra. I gruppi di opposizione irakena e di esiliati che stanno ora ricevendo un addestramento aggiuntivo dell’ultimo minuto dalla CIA e dalle US Special Forces parteciperanno all’attacco terrestre. I loro principali leaders presumibilmente prenderanno i posti chiave nel nuovo regime(i) fantoccio, una volta conclusa la carneficina. Il vaso di Pandora è spalancato.
II) La CIA ed i gruppi di opposizione irakeni
Se l’invasione dell’Iraq va secondo il copione dell’amministrazione Bush e della confraternita dei guerrafondai di Washington, il mondo sarà testimone di uno spettacolo familiare da incubo. Un rampollo della CIA (un Bush) rovescerà un ex alleato degli USA, un’ex risorsa della CIA ed ex partner in affari (Saddam Hussein) utilizzando gruppi paramilitari, di opposizione e dispositivi della CIA per installare nuovi regimi di clienti affiliati alla CIA, controllati da e in vista degli interessi USA.
Saddam Hussein: un gioco a lungo condotto dalla CIA e l’ossessione degli USA
Il potere reale gioca in tutti i campi di un conflitto, alternativamente sostenendo o sovvertendo (dall’interno e dall’esterno), manovrando una parte contro un’altra, “gestendo la tensione”, fino a raggiungere i risultati desiderati. Un esempio ben documentato è l’Afghanistan dove, sulla scia della Guerra Sovietica afgana, gli USA hanno installato e rovesciato con la violenza una successione di regimi (Rabbani, Hekmatyr, Alleanza del Nord, Talibani), fino a raggiungere il risultato soddisfacente: un governo fantoccio degli USA, guidato dall’ex consulente della Unocal e strumento della CIA Hamid Karzai, dai signori della guerra/banditi trafficanti di droga dell’Alleanza del Nord ed affiancato dall’assistenza dell’inviato USA Zalmay Khalilzad, addetto ai lavori di intelligence per il Pentagono, ex consulente della Unocal e assistente dell’attuale Vice-Segretario della Difesa Paul Wolfowitz. In Iraq, gli US e la CIA hanno fatto per decenni un gioco del genere, mettendo in piedi gruppi paramilitari e armati con origini che risalgono alla Guerra Iran-Iraq degli anno 1980 e oltre. “Gli Americani sono stati lasciati all’oscuro per quanto riguarda i maneggi della CIA nel Medio Oriente, nutriti con una continua dieta di poltiglia fantasy in cui Arabi e Musulmani sono inesorabilmente presi di mira come terroristi irrazionali, fanatici,” ha scritto il giornalista curdo Husayn Al-Kurdi. “La vera storia del coinvolgimento della CIA nella regione ci narra una vicenda di gran lunga differente.” Il ruolo diretto della CIA in Iraq si estende all’indietro negli anni 1950. Lo stesso Saddam Hussein è stato una creazione USA, un alleato USA ed una carta della CIA. Come ha osservato Al-Kurdi, “dopo aver sostenuto il regime corrotto di Nuri Said, gli USA si rivolsero contro Abdul Karim-Kassem, il cui colpo di stato con sostegno popolare aveva eliminato il vecchio agente britannico Nuri nel1958. Tra coloro che furono reclutato dalla CIA per fare il lavoro sporco ci fu il Partito Baath Irakeno, compreso uno sfrontato avventuriero assetato di potere di nome Saddam Hussein. “La CIA progettò allora il rovesciamento e l’assassinio di Kassem nel 1963, con Saddam a svolgere un ruolo principale nel colpo verso Kassem e nella successive liquidazione dei Comunisti. Per decenni, fino all’inizio della Guerra del Golfo nel 1990, Saddam fu un alleato chiave degli USA nella regione, sia come loro partner commerciale che come associato in affari di George Herbert Walker Bush. (In un altro emisfero, l’uomo forte di Panama Manuel Noriega svolgeva un ruolo simile nello stesso periodo) Le Direttive di Decisione per la Sicurezza Nazionale dell’Amministrazione Bush (rivelate in un’inchiesta del LA Times del 1992), come le registrazioni dettagliate dei rapporti Bush-Saddam attraverso la nota BCCI e la Banca Nazionale del Lavoro (BNL), offrono la prova evidente che il governo di Saddam Hussein era esplicitamente e consapevolmente armato e finanziato dagli USA e coinvolto personalmente con Bush. Dopo la Guerra del Golfo, con il pretesto di un “rifugio sicuro per i Kurdi”, la CIA creò un protettorato ed una base per attività coperte designate a destabilizzare il regime irakeno, mentre contemporaneamente continuava il permesso di sopprimere curdi e Musulmani. Con George H.W. Bush, la CIA ha speso a quanto si dice, 20 milioni di dollari in propaganda anti-Saddam e almeno 11 milioni di dollari in aiuti a numerosi gruppi d’opposizione irakeni e curdi. Come ci mostra As Al-Kurdi: “Era chiaro dall’inizio che questo “rifugio sicuro” era un’operazione per fornire “copertura” alle operazioni della CIA contro l’Iraq e alle incursioni turche sui Curdi e non “sicurezza”, come implicava la sua designazione ufficiale. Veniva rafforzato uno stato di dipendenza in cui i ‘fornitori’ potevano tenere i fantocci curdi a briglia corta.” Quando i Musulmani shi’iti nell’Iraq meridionale inscenarono una rivolta contro Saddam nella primavera del 1991 sotto l’occhio attento della CIA, l’amministrazione di Bush (padre) permise alle truppe irakene di Saddam di schiacciarla. Per prevenire un movimento popolare islamico all’interno dell’Iraq (uno che poteva minacciare gli interessi petroliferi occidentali e gli interessi affaristici), Bush non fece nulla quando il suo ex partner e nemico sconfitto schiacciò la rivolta. Lasciare Saddam Hussein vivo ma castrato (attraverso le sanzioni, le no-fly zones, etc.) ha permesso agli USA di mantenere forze militari in Arabia Saudita, mentre si discutevano i piani per un eventuale cambio di regime in Iraq. Nel frattempo, la ricostruzione dell’Iraq e varie forme di commercio coperto si rivelavano lucrose per numerose corporations occidentali (come la Halliburton, la General Electric e altre). Il mercato nero era anche un mezzo di controllo. “Chiudendo un occhio sul contrabbando di petrolio”, scrive l’ex agente della CIA Robert Baer nel suo libro “See No Evil, “gli USA combinarono di rivolgere l’opposizione curda contro se stessa anche perché aiutavano Saddam a pagare la sua guardia pretoriana, proprio ciò che vi aspettereste da una superpotenza intelligente che vuole sostenere segretamente il despota locale.” A metà degli anni 1990, la CIA dell’era Clinton iniziò a perseguire due strategie primarie contro Saddam. Una comportava un’operazione militare tesa ad un’insurrezione popolare guidata dal Congresso Nazionale Irakeno (INC) e dai paramilitari curdi. La seconda strategia si focalizzava su una “congiura di palazzo” da parte dell’Accordo Nazionale Irakeno (creazione CIA-MI6 britannico), un gruppo di ex ufficiali militari irakeni con base fuori Londra. Mascherata da “aiuto umanitario”, l’operazione del governo USA “Operation Provide Comfort” serviva da copertura per queste ed altre operazioni. Nel 1994, l’INC capeggiò un’insurrezione da una base nel Kurdistan irakeno spalleggiata dalla CIA. Nel marzo 1995, la CIA assisteva ad un’operazione combinata INC-Curdi per prendere le città di Mosul e Kirkuk ed ad una ribellione simultanea di truppe irakene. Senza il sostegno USA, l’operazione andò in pezzi, permettendo alle forze di Saddam Hussein di invadere il rifugio sicuro e distruggere l’opposizione. Circa 130 membri dell’INC furono uccisi. Il tirarsi indietro all’ultimo minuto da parte dell’amministrazione Clinton fece infuriare la CIA. Per coprire il suo abbaglio politico nel Nord dell’Iraq, l’amministrazione Clinton lanciò dei missili Cruise sull’Iraq meridionale. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU riprese il Programma Petrolio-per-Cibo.
Gli sforzi della CIA nel corso degli anni 1990, che ebbero come risultato una manciata di sollevamenti, di tentativi di assassinio (la CIA e il MI6 britannico complottarono di assassinare Saddam Hussein nel 1995), fallirono a causa delle lotte per il potere tra i gruppi di opposizione curda, le fughe d’informazioni e i tradimenti e i bisticci tra i falchi all’interno della CIA e alla Casa Bianca di Clinton.
George W. Bush scatena l’inferno
Una volta salito al potere, George W. Bush promise di attuare pienamente l’Iraq Liberation Act, che era stato votato come legge da parte del Congresso e firmato da Clinton nel 1998, ma gestito in modo prudente da un’amministrazione Clinton impreparata a scatenare una guerra nel Medio Oriente. All’inizio del 2002, Bush (che durante la sua campagna presidenziale si era vantato che avrebbe “preso Saddam”) diede alla CIA ed alle Special Forces USA la facoltà di usare la forza letale ed “ogni risorsa disponibile” per uccidere o catturare Saddam Hussein e di condurre operazioni coperte mirate a rovesciare il suo regime. Questo ordine esecutivo implicava un accresciuto sostegno ai gruppi di opposizione irakena (denaro, addestramento, intelligence ed equioaggiamento) ed il raccordo di quanto raccolto dall’intelligence della CIA all’interno dell’Iraq. Gli ufficiali USA hanno lavorato in modo continuo con l’opposizione irakena per tutto il 2002.
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Ex ufficiali irakeni si sono incontrati nel marzo 2002 presso una sede militare a Washington per discutere i piani atti a rovesciare Saddam Hussein e formare un governo post-Saddam.
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Nell’aprile 2002, i leader curdi sono volati fino a Francoforte in Germania e poi verso un campo di addestramento della CIA nella Virginia del Sud per discutere le strategie del colpo.
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In giugno, secondo lo Scotsman, fonti locali curde hanno riferito che “truppe USA e inglesi hanno già iniziato ad installare equipaggiamenti per le comunicazioni nella provincia di Sulaimaniya nella regione del Kurdistan irakeno”
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Tra il 12 ed il 15 luglio 2002, circa 70 esiliati tra ufficiali militari irakeni e capi di vari gruppi di opposizione irakena si sono incontrati a porte chiuse in una località presso Londra per pianificare una nuova rivolta per rovesciare con la forza Saddam Hussein e per richiedere un maggiore ruolo nell’imminente operazione USA, insieme all’aiuto militare (addestramento ed equipaggiamento di combattenti). A capo di questo meeting vi era il Congresso Nazionale Irakeno, il gruppo di opposizione paravento con stretti legami con gli ufficiali militari irakeni in esilio e con la CIA.
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In agosto, i rappresentanti di sei differenti gruppi dell’opposizione irakena si sono incontrati a Washington in seguito ad un “invito congiunto” del Dipartimento della Difesa e del Dipartimento di Stato. Hanno partecipato a questo incontro al vertice:
– Donald Rumsfeld
– Marc Grossman, sottosegretario di Stato per le questioni politiche
– Doug Feith, sottosegretario alla difesa
– Dick Cheney (via video-conferenza dal Wyoming)
– Colin Powell
– Richard Myers, Presidente dei Capi Congiunti
– Ahmed Chalabi (Congresso Nazionale Irakeno)
– Jalal Talabani (Unione Patriottica del Kurdistan)
– Maggiore Generale Tawfiq al-Yassiri (Coalizione Nazionale Irakena)
– Hoshyar Zebari, aiutante di Massoud Barzani (Partito Democratico Kurdo)
– Ayadh Allawi (Accordo Nazionale Irakeno)
– Shaif Ali Bin Hussein (Partito Monarchico Costituzionale)
– Abdelaziz Al-Hakim fratello del leader SCIRI Muhammad Bakr al-Hakim
– Maggiore Generale Saad Obeidi, già capo della guerra psicologica irakena
– Principe Hassan di Giordania, zio di re Abdullah di Giordania.
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In un altro incontro di metà agosto, secondo Knight-Ridder, “rappresentanti dei vertici USA e membri dell’opposizione irakena hanno elaborato i dettagli del governo post-Saddam Iraq, aggiustando il numero di seggi in parlamento.”
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“Dozzine di militari USA e dei servizi di intelligence sono stati inviati nel nord dell’Iraq” secondo l’Agenzia France-Presse (12/10/2002). Il capo della CIA George Tenet ha”visitato personalmente l’Iraq settentrionale durante il suo ultimo giro nella regione e ha dato l’ordine di far partire i piani per la sicurezza dopo che il Presidente George W. Bush approvava una decisione di chiedere alla CIA di rovesciare Saddam”. Al Re giordano Abdullah è stato dato ordine di tenere pronti due aeroporti militari in Giordania per le forze USA. Circa 2.000 soldati americani sono già stati finora schierati in Giordania. Dozzine di questi militari USA, insieme ad agenti della CIA, sono già stati inviati in territorio irakeno.
Quali sono i gruppi di opposizione?
– Congresso Nazionale Irakeno (INC) : Il Congresso Nazionale Irakenp, una coalizione di monarchici irakeni, di Curdi e di Musulmani sanniti e shi’iti irakeni, è una creazione della CIA. Il gruppo fu formato nel 1992 quando le due principali fazioni curde, il Partito Democratico Curdo (KDP) e l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK), parteciparono ad un incontro che fu il primo importante tentativo di unire le forze da parte delle fazioni anti-Saddam. Al gruppo venne dato il nome dalla CIA e nel corso degli ultimi anni 1990 ha ricevuto oltre 100 milioni di dollari in finanziamenti occulti, poi ha ricevuto ulteriori fondi dopo la promulgazione nel 1998 dell’Iraq Liberation Act. Esso riceve correntemente 8 milioni di dollari l’anno dal governo USA. La CIA ha, tra le altre cose, finanziato le stazioni radio e televisiva dell’INC nell’Iraq settentrionale. L’INC è capeggiato da Ahmed Chalabi (di educazione Americana), intimo amico di Dick Cheney, che alcuni hanno etichettato come “protegé di Cheney”. Egli gode di stretti legami con l’American Enterprise Institute ed ha partecipato alle riunioni del think tank a Beaver Creek in Colorado. Dopo essere fuggito dall’Iraq sulla scia del colpo mancato dall’INC nel 1995, Chalabi fu co-firmatario, con quaranta “importanti americani”, di una lettera aperta al Presidente Clinton nel 1998 che in seguito divenne nello stesso 1998 l’Iraqi Liberation Act. Tra i firmatari di quella lettera troviamo l’attuale Vice Presidente ed ex Segretario alla Difesa Dick Cheney, Richard Perle, l’attuale Vice Segretario alla Difesa Paul Wolfowitz, l’attuale Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, l’ex Segretario alla Difesa e partecipe dello scandalo Iran-Contra Caspar Weinberger, l’ex Segretario alla Difesa Frank Carlucci, l’attuale Sottosegretario alla Difesa Douglas Feith e l’attuale Vice Segretario di Stato e compartecipe dell’Iran-Contra Richard Armitage. Chalabi è un banchiere shi’ita in esilio ed un criminale. All’inizio degli anni 1990, Chalabi fu dichiarato colpevole di riciclaggio di denaro in Giordania e a quanto si dice “ha perduto” 4 milioni di dollari dei finanziamenti ottenuti da Washington. Proviene da una ricca famiglia irakena shi’ita di banchieri ed ha un dottorato in matematica all’Università di Chicago. Dopo un periodo susseguente alla Guerra del Golfo in cui l’INC ricevette tra i 15 e i 100 milioni di dollari in finanziamenti da Washington, Chalabi entrò in disgrazia con certi elementi della CIA e dell’amministrazione Clinton. Il Dipartimento di Stato USA si chiuse temporaneamente per l’INC dopo il tentativo di far fallire una conferenza di esuli irakeni sponsorizzata dal Dipartimento di Stato in cui l’INC non era incluso. Quando George W. Bush assunse il potere nel gennaio 2001, i finanziamenti all’INC ripresero. L’INC riceve correntemente 8 milioni di dollari l’anno. I documenti della strategia di Chalabi per ’chiudere i giochi’ sono circolati per Washington ed hanno ricevuto per un decennio l’attenzione di varie commissioni di esperti. Questo piano comporta una rivolta popolare ed un colpo militare, portati avanti dalle fazioni curde e dai dissidenti irakeni, con l’uso di armi americane. Dall’11 settembre 2001, Chalabi ha fatto pressione per un nuovo piano di battaglia, caratterizzata da una base all’interno dell’Iraq, da una dichiarazione di un governo provvisorio (senza dubbio con rapido riconoscimento degli USA), reclutamento tra gli shi’ti irakeni, pesanti bombardamenti da parte degli USA e spiegamento di migliaia di unità delle US Special Forces. Anche questo piano fa appello all’assistenza militare dall’Iran. In base a promesse di finanziamenti dal Dipartimento del Tesoro USA dell’Ufficio Controllo sui Beni Stranieri, il regime di Khatami in Iran è d’accordo nel concedere alle forze dell’INC di attraversare il confine iraniano nell’Iran meridionale. In un’intervista del febbraio 2002 con il Guardian di Londra, Chalabi ha detto che “tutto ciò di cui avevo bisogno erano 11 settimane di addestramento per i suoi seguaci, armi anti-tanks, copertura aerea, sostegno da parte delle Special Forces e delle attrezzature contro attacchi chimici e biologici’. Una volta andato incontro a queste necessità, egli ha dichiarato che le sue forze saranno pronte ad attraversare il confine del Kuwait nella regione di Basra e ad organizzare una resistenza di massa. La sua posizione verrebbe protetta dalla forza aerea USA, che presumibilmente terrebbe sgombra una via per lui ed i suoi uomini sino a Badgad.” Nonostante il generale sostegno di Washington nel corso degli anni verso l’INC in quanto “alternativa democratica”, i massimi ufficiali USA hanno dubbi sulla limitata esperienza militare dell’INC, come sulla sua capacità di tenere in piedi un governo sulla scia del colpo militare. Il tentativo fallito dall’ INC-PUK-KDP di Chalabi nel 1995, lo ha costretto a spostare la sua base operativa a Londra. Vi è un’altra ragione per cui Chalabi è preferito a Washington: il petrolio. L’INC propone la creazione di un consorzio di compagnie americane per sviluppare i campi petroliferi irakeni. Secondo il San Francisco Chronicle (29/9/02), “Chalabi ha dichiarato che l’INC a capo di un nuovo governo irakeno, significherebbe contratti per le compagnie petrolifere USA. Le compagnie russe e francesi sarebbero, nel migliore dei casi, dei partners minori.”
– Il Gruppo dei Quattro e l’opposizione kurda:
Il Gruppo dei Quattro consiste nell’Accordo Nazionale Irakeno (INA, di Waffik), nel Partito Democratico Curdo (KDP), nell’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK) e nel Consiglio Supremo della Rivoluzione Islamica in Iraq (SCIRI). Come riferisce Al-Kurdi, i due gruppi principali curdi, capeggiati dal PUK e dal KDP hanno “un terrificante apparato di sicurezza che porta avanti una repressione stile squadroni della morte contro i Curdi loro oppositori. Entrambi i partiti si sono guadagnati il disgusto dei Curdi con le loro operazioni da gangster nel quadro di “rifugio sicuro.” Si stima che il KDP e il PUK abbiamo una forza combinata tra i 40.000 e i 70.000 combattenti. Sin dagli anni 1990, i due gruppi si sono reciprocamente combattuti nel tentativo di controllare i processi del contrabbando e di altre attività economiche, reprimendo ferocemente in questo la popolazione curda. Secondo il New York Times (6/7/02), “I leaders curdi sono dilaniati da lotte intestine e devono ancora giungere ad un accordo con la CIA per consentire ai funzionari dell’intelligence americana, agli addestratori delle special forces o ai diplomatici di fissare lì il campo”. Essi sono riluttanti a sostenere l’operazione USA “a meno di non ottenere forti garanzie che l’amministrazione Bush progetti di andare comunque fino a Baghdad” e che le città curde siano protette dall’attacco irakeno.
– Accordo Nazionale Irakeno (INA)
: L’Accordo Nazionale Irakeno è stato fondato nel 1990 ed è una creazione della CIA, del MI6 britannico e dell’intelligence giordana, su iniziativa di Turki ibn Faisal. L’ex agente della CIA Ralph McGehee ha confermato che “l’INA è pesantemente sponsorizzato dagli Stati Uniti e sotto l’influenza della CIA” e ha citato un’altra figura dell’opposizione irakena la quale afferma che “è di dominio comune tra i dissidenti irakeni che l’Accordo è direttamente finanziato dalla CIA. “L’INA è capeggiato da Shi’ite Ayad Alawi. L’INA cerca di rovesciare Saddam Hussein utilizzando ex funzionari irakeni ed alti ufficiali di Baghdad, conservando lo stato irakeno. Sono terroristi che hanno rivendicato la responsabilità di attentati esplosivi verso obiettivi civili, compreso un cinema a Baghdad e sedi di quotidiani. Secondo addetti dell’INA, le attività sono state effettuate al fine di “impressionare la CIA”. Secondo la Federazione degli Scienziati Americani, il genero di Saddam Hussein Husayn Kamil al-Majid (un autore dei programmi irakeni sulle armi di distruzione di massa), era fuggito in Giordania “per collaborare con l’INA, il che aveva fatto pensare a molti nella regione che la presa di Saddam sul potere si fosse indebolita. Ma nel giugno 1996, il tentativo dell’INA fu denunciato, portando all’arresto di 100 militanti dell’INA ed all’esecuzione di altri 30. L’INA è stato in grado di ricompattarsi dopo questa debacle, con il supporto della Giordania.
– Partito Democratico Kurdo (KDP): Il suo fondatore, Mulla Mustafa Barzani, lavorava per la CIA da prima degli anni 1960. “Fu raggiunto un accordo segreto tra la CIA e Mulla Mustafa Barzani inell’agosto 1969. Negli anni 1970, il KDP combatté il governo irakeno a vantaggio di Iran, Israele e USA. Il vecchio Barzani fu un fedele alleato USA, che aveva promesso di cedere agli USA i campi petroliferi irakeni. Dopo che Iran ed Iraq giunsero ad un accordo, sancendo la fine della necessità della ribellione del KDP, Barzani si trovò in esilio negli USA, dove morì nel 1979. Il KDP è attualmente guidato da Massoud Barzani, figlio del fondatore. Il KDP cerca di formare uno stato curdo nell’Iraq settentrionale, mantenendo il controllo sui campi petroliferi di Kirkuk. Il gruppo ha una faida con il PUK suo rivale, su una varietà di questioni, come i proventi del contrabbando di petrolio. Questo conflitto è proseguito per tutta la metà degli anni 1990. Il disprezzo di Barzani per Jalal Talabani ed il PUK erano così forti che egli aiutò Saddam Hussein a schiacciare il PUK e a cacciare l’INC alla fine degli anni 1990. Barzani non ha partecipato a numerosi importanti meetings dell’opposizione Bush-Irakena a Washington, nonostante gli venisse offerto un aereo privato (che lo portasse in volo dalla Turchia sud-orientale) e un incontro personale con Bush. La sua assenza, secondo il New York Times 158/02), è stata “un colpo per i funzionari dell’amministrazione Bush che avevano orchestrato il meeting in parte per dimostrare che le forze dell’opposizione irakena erano state unificate dietro una nuova campagna”. Barzani era agitato per il rifiuto dell’amministrazione Bush di fornire garanzie che le aree curde sarebbero state protette da un violento attacco irakeno. Dick Cheney, a quanto si dice, ha dato una tipica, ambigua non risposta: “Le forze USA risponderanno a debito tempo e luogo alle sue scelte”. Il successivo piano “hshemita” tracciato da Cheney-Wolfowitz riguarda alcuni interessi di Barzani.
– Fronte Patriottico del Kurdistan (PUK) : Il PUK è stato fondato negli anni 1960 dal suo attuale leader, Jalal Talabani, un ex membro del KDP. Grande opportunista, egli si è guadagnato una reputazione di “agente di chiunque”. Il primo obiettivo del PUK è di rimuovere Saddam Hussein e di fondare uno stato curdo. Secondo Al-Kurdi, il PUK “pone un approccio ‘moderno’ alla politica curda, cucinando gli interessi curdi in ogni salsa concepibile, con sapori che servono a costruire ed attrarre sostenitori tra i governi di Israele, Arabia Saudita, Iran, Turchia, Stati Uniti e l’ospitalità di altri.. Il leader del PUK Talabani ha apertamente corteggiato Israele, gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, l’Iran, Saddam Hussein e la Turchia, entrando in una varietà di “intese” con tutti questi stati in tempi recenti.”
– Consiglio Supremo della Rivoluzione Islamica in Iraq (SCIRI) : Il SCIRI consiste negli Shi’iti dell’Iraq sud-orientale ed è spalleggiato dall’Iran. La sua forza di guerriglia conta tra i 7.000 e i 15.000 uomini. L’Ayatollah Mohammad Bakr al-Hakkim è il capo del SCIRI. Il gruppo si oppone all’invasione USA dell’Iraq, ma sosterrà un’operazione interna aiutata dagli USA per rovesciare Saddam e un governo provvisorio di un anno seguito da elezioni. Mohammad al-Harari, rappresentante libanese del SCIRI, ha detto in un’intervista con la Reuters del luglio 2002, “qualsiasi azione militare deve essere nelle mani degli Irakeni, non in mani straniere dall’estero”. E che il gruppo si oppone ad un attacco che causi “inutile sofferenza tra il popolo irakeno”. Il SCIRI è stato selezionato come gruppo da finanziare da parte degli USA in base all’Iraq Liberation Act del 1998, ma esso ha rifiutato.
Altri gruppi dell’opposizione
Oltre ai gruppi principali, ci sono altri 60 gruppi minori di opposizione irakena e numerosi individui coinvolti in attività anti-Saddam, molti dei quali hanno legami con la CIA. Secondo il New York Times (18/8/2002), essi comprendono Nizar al-Khazraji, che collaborò all’uso di gas tossico contro l’Iran verso la fine degli anni 1980, con l’aiuto delle amministrazioni Reagan e George H.W. Bush .
– Liberal Nazionali Irakeni (INL) è un gruppo di opposizione composto da altri ex ufficiali irakeni in esilio. Secondo il Centro per la Ricerca Cooperativa , l’INL ha di recente tentato di reclutare il generale Nizar al-Kharraji, sotto inchiesta in Danimarca per un massacro di 100.000 Kurdi nel 1988.
– Movimento Nazionale Irakeno (INM): fondato nel 2001, una scheggia sunnita dell’ INC comprendeva 100 ex ufficiali militari e funzionari politici. Il gruppo si è incontrato di recente con Wayne Downing, vice-consigliere USA alla sicurezza nazionale per la lotta al terrorismo. Successivamente, il Dipartimento di Stato ha concesso a questo gruppo la soma di 315.000 dollari.
– Coalizione Nazionale Irakena (o Consiglio Nazionale Irakeno) : è un gruppo-ombrello composto da 2000 ex ufficiali militari irakeni guidati dall’ex generale di brigata Tawfiq al-Yasiri, capo dell’accademia militare irakena e dal generale Saad Ubeidi, ex capo delle operazioni psicologiche militari. Questo gruppo è a favore di un crescendo degli attacchi aerei USA, ma si oppone ad un’invasione americana.
Un ex ufficiale della CIA descrive l’opposizione curdo/irakena
In una discussione presente su internet sulle operazioni della CIA in Iraq dagli anni 1990, Ralph W. McGehee, ex agente della CIA da tempo critico nei confronti dell’Agenzia, ha detto che l’atteggiamento dell’allora direttore della CIA John Deutch e del suo direttore delle operazioni, David Cohen, si rifletteva anche nella catena di comando tramite il capo divisione per le operazione nel Vicino Oriente e capo della stazione irakena della CIA, ‘Bob’.” “Bob” faceva riferimento al caso dell’ex ufficiale della CIA Robert Baer, operativo in servizio nell’Iraq durante quel periodo, il cui libro “Non vedo alcun male” contiene 42-pagine di prima mano circa i tentativi della CIA dell’era Clinton contro Saddam e osservazioni dettagliate su INC, PUK e KDP. Il memoriale Baer è un lavoro parziale che ritrae la CIA come un’istituzione “priva di artigli” e “demoralizzata” che manca di sufficienti “risorse umane”. Il contrariato Baer è un sostenitore del ritorno ai “vecchi tempi d’oro” delle operazioni clandestine condotte senza restrizioni.dagli Americani. Inoltre osservando l’efficacia di “outsourcing” delle carte non americane e delle branche affiliate come l’ISI pakistano e della nuova tecnologia di spionaggio, l’accusa di Baer è contraddetta dalle dichiarazioni ufficiali della CIA comprese quelle del Vicedirettore James Pavitt, che si vantava “Nell’intera storia della CIA, io sono quello che ha più spie che rubano più segreti.” http://www.cia.gov/cia/public_affairs/speeches/pavitt_04262002.html
Comunque, il libro di Baer è utile prima di tutti per gli aneddoti che vengono rivelati e non intenzionalmente condannati.
– Sul sostegno della CIA e del governo USA per un colpo di stati irakeno:
“Bob, sto portando avanti un’operazione sporca della CIA di cui il Consiglio di Sicurezza Nazionale non sia a conoscenza. L’assistente di (Anthony) Lake per il Vicino Oriente, Martin Indyk, ha autorizzato personalmente la CIA ad organizzare una base clandestina nell’Iraq settentrionale, quella di cui ora sono stato messo a capo.”
“Vogliamo buttare fuori Saddam. È il popolo irakeno che lo ha tenuto al potere in tutti questi anni.”
“Il solo segnale che dovevo dare era ciò che avevo inteso essere la politica americana: che avremmo sostenuto qualsiasi serio movimento per sbarazzarci di Saddam Hussein. Quelli erano i miei ordini come io li ho intesi, la ragione che aveva portato la mia squadra nell’Iraq settentrionale. Ed io presi i miei ordini sul serio.”
“Non molto tempo dopo, Saddam iniziò lo scambio petrolio per cibo, che alleviò la sofferenza all’interno dell’Iraq, proprio quel tanto da arginare la marea delle defezioni nel suo esercito. Così, se ora lo vogliamo eliminare, ci vorrà probabilmente una guerra, non un colpo di stato.[mia sottolineatura – LC].”
– Su Ahmed Chalabi (INC): “Camminando attraverso l’atrio di Key Bridge Marriott nel suo completo Saville Row, cravatta italiana in seta da $150 e oxfords in pelle di vitello cuciti a mano, assomiglia di più al banchiere levantino di successo che era una volta, che ad uno che sta per entrare a Baghdad sopra un tank. Basso e pesante, il suo fisico mostra gli effetti di troppi pranzi d’affari in ristoranti europei di prima classe. Quando mi dà la mano, avverto una debole traccia di sapone profumato. Per quanto l’apparenza di Chalabi sia incongrua, la prosecuzione offre meno ancora la promessa che egli un giorno possa guidare un’opposizione irakena vincente… Al di fuori dell’Iraq, Chalabi è stato un criminale; all’interno è rimasto quasi del tutto sconosciuto”. Egli aveva prodotto un lungo documento dal titolo ‘Fine del gioco’ su come dare il via alle sollevazioni nel marzo 1991, quando gli Shi’ti e i Curdi avevano approfittato della fine della Guerra del Golfo per tentare di ottenere potere da Saddam. Il documento era stato ben accolto nei dintorni di Washington al tempo in cui Chalabi si presentò a me con una copia – ad un ristorante sushi di Georgetown, due giorni dopo il nostro primo incontro, ma se l’idea non era particolarmente nuova, ‘Fine del gioco’ lo aiutò a a mettersi in luce”. Baer, rispondendo alla domanda di Chalabi sul sostegno di Washington ad un’insurrezione condotta dall’INC: “Ne programmi una e poi chieda”, risposi.
– Su Masoud Barzani (KPP): “Quando si giunse a convincere i Curdi ad unirsi alla rivolta, l’osso più duro da rodere fu Barzani. Le mie relazioni personali con Barzani furono acide dall’inizio…Una volta quando gli dissi che gli USA erano stufi dei Curdi e che un giorno avrebbero abbandonato il nord, Barzani perse le staffe. Si portò dov’ero seduto, mi puntò l’indice addosso e sibilò a denti stretti, ‘Non minacciarmi’.” L’ “Operation Provide Comfort, la protezione aerea fornita dagli aerei americani, giunse gratis – gli USA non hanno quasi mai tentato di interferire con i suoi (di Barzani) affari – e alla fine del 1994, Barzani ha avuto il suo piccolo business nel contrabbando di petrolio irakeno.”
– Sul contrabbando di petrolio irakeno: “Il petrolio contrabbandato era vitale anche per Saddam, che usava il denaro per finanziare i servizi di intelligence e le Guardie Speciali Repubblicane – le forze che lo mantenevano in vita. Infatti ciascuno sembrava guadagnare dal contrabbando, eccetto Talabani che non otteneva un penny perché nessun tratto della via contrabbandiera passava per il suo angolo di Kurdistan. Con Barzani che accumulava denaro nella sua cassa di guerra, il petrolio contrabbandato iniziò a destabilizzare il nord in modo pericoloso. Bastava solo fare poche miglia nel nord, per capire le dimensioni delle operazioni del contrabbando. I camion per il trasporto del petrolio formavano file indiane lunghe spesso anche venti miglia, in attesa di entrare in Turchia”. “Washington sapeva tutto del contrabbando, ma fingeva che non esistesse. Per quanto ne so, né il Dipartimento di Stato né la nostra ambasciata ad Ankara ha mai pressato la Turchia che avrebbe potuto chiudere l’intera operazione con una sola telefonata”. “Quello che non potevo capire era perché la Casa Bianca non intervenisse. Tutto ciò che doveva fare era chiedere all’Arabia Saudita di vendere alla Turchia un centinaio di migliaia di barili di petrolio a prezzo di favore. Era quasi come se la Casa Bianca volesse che Saddam avesse un po’ di movimento di denaro”. [mia sottolineatura – LC]”
– Su Jalal Talabani (PUK): “Talabani ha goduto del ruolo di simpatica canaglia. Talabani era un nazionalista irakeno. Credeva che i Curdi dovessero avere un grado di autonomia ma non voleva vedere l’Irak diviso tra i suoi gruppi etnici. Diversamente da Barzani, Talabani sembrava sinceramente volere che Saddam se ne andasse ed era pronto ad ogni sacrificio per raggiungere quello scopo”.
Non se, ma quando
Anche se non è chiaro come saranno effettivamente condotte la guerra e la “cancellazione” dell’Iraq, lo sfacciato piano “hashemita” Cheney-Wolfowitz (www.stratfor.com/fib/fib_view.php?ID=206509) sembra rimuovere molti degli ostacoli precedenti sulla strada della “rimozione di regime”. La formazione di uno stato autonomo curdo appagherà il KDP e il PUK. Mentre l’assegnazione a due surrogati USA, la Giordania ed il Kuwait, delle due rimanenti porzioni del territorio garantisce “stabilità” – controllo USA – sui più importanti pozzi petroliferi. Non occorre dire che qualsiasi “operazione” del genere comporterà epurazioni politiche ed etniche, atrocità e distruzione ad ampio raggio, innescherà un allargamento del conflitto a tutto il Medio Oriente e l’Asia Centrale e minaccerà la stessa umanità. Che genere di persone intendono aprire un tale vaso di Pandora? Ne La CIA e il culto dell’Intelligence, Victor Marchetti e John D. Marks hanno scritto, “Nonostante occasionali sogni di grandezza da parte di alcuni suoi operatori clandestini, la CIA non agisce di scelta propria per rovesciare governi sgraditi o per determinare quale regime dittatoriale vada sostenuto. I metodi e le disponibilità dell’Agenzia sono una risorsa che viene con la Presidenza.”
III) La lobby USA della guerra: i discepoli del NSC-68
Le origini della politica dell’amministrazione di George W. Bush per il “cambio di regime” in Iraq possono essere rintracciate nelle strategie formulate dall’inizio degli anni 1990 da un piccolo network di inveterati elementi da Guerra Fredda legati da un linguaggio filosofico e da collaborazioni in politiche di intelligence militare. Questa cricca strettamente intrecciata si estende attraverso l’attuale Casa Bianca e la precedente, attraverso il Dipartimento di Stato, la Cia, il Consiglio di Sicurezza Nazionale, le commissioni di esperti neo-conservatori e i consigli di amministrazione delle corporations transnazionali (comprese le compagnie dell’energie e della tecnologia militare legate a Washington). Virtualmente tutti i protagonisti sono dei membri degli organismi di pianificazione dell’elite (come il Council on Foreign Relations). Molti di loro sono accusati di crimini – cinque individui sono stati dei diretti partecipi dell’operazione Iran-Contra. Tutti hanno, durante le loro intersecate carriere, sostenuto delle politiche imperialistiche comportanti 1) guerre preventive, 2) conquista dell’Iraq e dell’Iran e frammentazione dell’Arabia Saudita, 3) forte sostegno ad Israele, e 4) accerchiamento e contenimento di Russia e Cina.
Lo schema del network per il cambio di regime irakeno: tutti gli uomini della gang
1. 1992 Direttiva di Pianificazione Difensiva del Pentagono. Come osservato da Joe Taglieri (From the Wilderness 10/1/02), questo fu uno dei primi piani ufficiali di rimozione del regime, preparato per l’allora Segretario alla Difesa, Dick Cheney. I suoi autori:
· L’attuale Vice-Segretario alla Difesa Paul Wolfowitz
· Lewis Libby
2. La lettera aperta del 1998. Nel febbraio del 1998, quaranta “eminenti Americani” firmarono una lettera aperta al Presidente Clinton http://www.iraqwatch.org/perspectives/rumsfeld-openletter.htm , che formò la base dell’Iraqi Liberation Act del 1998. Questa lettera che faceva appello per un’insurrezione e per un riconoscimento del Congresso Nazionale Irakeno (spalleggiato dalla CIA) come governo ufficiale dell’Iraq, fu pilotata da Ahmed Chalabi dell’INC e si basava sui precedenti progetti di colpo di stato di Chalabi. Firmatari di questa lettera:
· Wolfowitz
· Il presidente del Consiglio per la Politica di Difesa Richard Perle
· Il vice presidente Dick Cheney
· Il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld
· L’ex Direttore della CIA James Woolsey
· Il Sottosegretario alla Difesa Doug Feith
· L’ex vice-assistente del segretario alla Difesa, Frank Gaffney
· L’ex Vice-Segretario di Stato e partecipe all’Iran-Contra Richard Armitage
· L’ex agente della CIA e partecipe all’Iran-Contrat Duane “Dewey” Clarridge
· Il funzionario del NSC, ex segretario di Stato e partecipe all’Iran-Contra Elliott Abrams
· L’ex Segretario alla Difesa e partecipe all’Iran-Contra Caspar Weinberger
· L’ex Segretario alla Difesa e presidente del Carlyle Group Frank Carlucci
· Zalmay Khalilzad, attuale inviato USA in Afghanistan, ex consulente della UNOCAL e funzionario della RAND Corporation
· L’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale e partecipe all’Iran-Contra Robert McFarlane
3. Iraq Liberation Act del 1998. L’Atto stesso www.fcnl.org/issues/int/sup/iraq_liberation.htm fu promosso al Congresso da Woolsey, Clarridge e dall’attuale Vice-Consigliere della Sicurezza Nazonale per il contro-terrorismo Wayne Downing. L’Atto (un pezzo di retorica propaganda anti-Saddam pieno di falsi storici) passò al Congresso e fu siglato da Clinton tra la scarsa attenzione da parte del vasto pubblico. I suoi principali sponsors:
· Wolfowitz
· Cheney
· Rumsfeld
· Feith
· Woolsey
· Clarridge
· Downing
· Carlucci
· Armitage
· Newt Gingrich
4. 1998-Viene selezionato il team di politica estera di Bush II. Nell’estate del 1998, in un incontro organizzato dall’ex Presidente George H.W. Bush a Kennebunkport nel Maine e capeggiato da Condoleeza Rice, viene scelto il team di politica estera di George W. Bush – i “Vulcans”. “Se il gruppo di cervelli riflette chi il governatore metterà in carica se eletto presidente, la sua amministrazione sarà sulla linea non solo di quella del padre, ma anche di quella di Ronald Reagan”, scrive Robert Novak al Washington Post. Tra i membri che guidano il gruppo troviamo:
· Perle
· Wolfowitz
Giungendo veloci al presente, noi ritroviamo questo network alla guida della politica dell’amministrazione Bush e all’interno del Pentagono.
5. Consiglio per la Politica di Difesa. Questo gruppo di consulenza “di civili”, fornisce “raccomandazioni” sulla politica del Pentagono al Dipartimento della Difesa (Rumsfeld, Wolfowitz e Feith)
· Perle presidente
· Woolsey
· Gaffney
· Eliot Cohen, presidente del PNAC
· Henry Kissinger
· L’ex Direttore della CIA James Schlesinger
· Gingrich
6. La Paul H. Nitze School di Studi Internazionali Avanzati (SAIS). Questa commissione di esperti della Johns Hopkins University è assai nota per sfornare politiche basate sull’aggressione USA. Associati alla SAIS sono:
· Perle
· Wolfowitz
· Woolsey
· Zbigniew Brezezinksi
· Gaffney
· Cohen
· Thomas Donnelly
7. Il Progetto per un Nuovo Secolo Americano (PNAC). Questa commissione ha pubblicato nel 2000 un piano per rovesciare l’Iraq basato sulla Direttiva per la Pianificazione Difensiva di Wolfowitz-Cheney-Libby del 1992.
· Wolfowitz
· Cohen (presidente)
· Cheney
· Rumsfeld
· Gaffney
· Donnelly
· Abrams
· Jeb Bush
8. Centro per la Politica di Sicurezza (CSP).
· Gaffney (presidente)
· Perle
· Woolsey
· Feith (ex presidente)
9. Centro per gli Studi Strategici e Internazionali (CSIS). Attorno alla tavola di questa commissione troviamo uno spaccato dei peggiori falchi della lobby della guerra all’Iraq, accanto ad ex funzionari orientati a “maggiore diplomazia”:
· L’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale Brent Scowcroft (presidente)
· Cheney
· Woolsey
· Kissinger
· Schlesinger
· Ray Lee Hunt (Hunt Oil, Texas)
10. Commissione Consultiva per l’Intelligence all’Estero
· Scowcroft (presidente)
· L’ex Direttore della CIA John Deutch
· Hunt
11. American Enterprise Institute (AEI).
· Perle
· L’ex consulente di Reagan per la sicurezza nazionale, Michael Ledeen
· L’ex agente della CIA Reuel Marc Gerecht
12. Istituto Ebraico per le Questioni di Sicurezza Nazionale (JINSA). Gruppo sostenitore della guerra totale in Medio Oriente.
· Ledeen
· Perle
· Woolsey
· Gaffney
· Abrams
13. Camera di Commercio USA-Azerbaijan. Come documentato dal Professor Michel Chossudovsky in Guerra e Globalizzazione, l’alleanza per il GUUAM (Georgia-Ukraina-Uzbekistan-Azerbaijan-Moldavia) formata dalla NATO nel 1999 si trova al fulcro della ricchezza del petrolio e del gas del Caspio. Centrale per il GUUAM è l’Azerbaijan , stato-cliente degli USA. La sua Camera di Commercio va letta come un who’s who della Guerra 11 settembre
· Wolfowitz
· Perle
· Cheney
· Armitage
· Brezezinski
· Kissinger
· Schlesinger
· Scowcroft
· L’ex Segretario di Stato James Baker
· L’ex SenatoreLloyd Bentsen
14. Comitato per la Liberazione dell’Iraq (CLI). Un gruppo “di sostegno” di Washington e sottoprodotto del Progetto per un Nuovo Secolo Americano. Costituito nel novembre 2002.
· Bruce Jackson, ex VP Lockheed Martin
· Randy Scheunemann, ex consigliere del Senatore Trent Lott
· Perle
· Rice
· Il Vice Consigliere per la Sicurezza Nazionale Stephen Hadley
· Gaffney
· Downing
· McCain
· L’ex Senatore Bob Kerry
· L’ex Segretario di Stato George Schultz
Quando tutto cominciò: Nitze e NSC-68
Gran Parte se non tutti i leaders della lobby della guerra all’Iraq sono discepoli, protégé e studenti dei proto-falchi Paul H. Nitze e della Nitze School of Advanced International Studies (SAIS). Nitze, ex banchiere nella Dillon, Read investment (la cui company aveva lanciato prestiti per il Terzo Reich) e membro del Council on Foreign Relations, fondava la SAIS nel 1944. Nitze fu consigliere di cinque presidenti e tenne posizioni governative di alto livello in ogni amministrazione presidenziale (eccetto quello di Jimmy Carter) fino al suo ritiro nel 1989. Nel 1950 il NSC Memorandum 68, scritto da Nitze (per l’allora Segretario di Stato Dean Acheson) costituì la base politica della Guerra Fredda. Ogni successiva amministrazione USA ha messo in atto politiche le cui linee principali si possono direttamente far risalire al NSC-68, che si appellava alla distruzione dell’Unione Sovietica e ad un potere militare americano senza rivali. Secondo l’ex agente della CIA Philip Agee, il NSC-68 fu il piano di rimilitarizzazione che portò all’istituzione di una permanente economia di guerra e ad un perenne apparato di “sicurezza nazionale”. Il memo affermò anche per la prima volta, in nome della sicurezza nazionale, le preventive rivendicazioni USA sulle scarse risorse economiche e sociali, ovunque nel mondo. Il NSC-68 dichiarava specificamente che “la dominazione sovietica del potere potenziale dell’Eurasia, se acquisita con un’aggressione armata o con mezzi politici e sovversivi, sarebbe strategicamente e politicamente inaccettabile per gli Stati Uniti.” La stessa Guerra dell’11 settembre è la realizzazione dell’imperativo “eurasiano” del NSC-68. Zbigniew Brzezinski, un protégé di Nitze, membro del consiglio della SAIS è stato a lungo ossessionato dall’ “Eurasia”. La sua geostrategia dello “Scontro di Civiltà”, che include la creazione e l’alimentazione dell’Islam militante, è espressa nel libro “La Grande Scacchiera” – una mappa virtuale dell’attuale conflitto. Un’altra figura in vista alla Johns Hopkins è Fouad Adjami che per un decennio è apparso sui programmi dei network televisivi come esperto del Medio Oriente per castigare il “pazzo” Saddam Hussein ed esprimere il suo sostegno alle guerre USA nella regione.
La cricca Perle-Wolfowitz
Altri due discepoli di Nitze, Paul Wolfowitz e Richard Perle, si può sostenere che siano i conduttori chiave della politica di guerra di Bush. I due fanatici falchi, hanno collaborato per oltre due decenni. Come rivelato in un articolo sul New York Times (10/12/01), i componenti della fazione Perle/Wolfowitz si riunirono per oltre 19 ore il 19-20 settembre 2001 per “creare il caso” per una guerra contro l’Iraq, per la rimozione di Saddam Hussein e per impossessarsi del petrolio irakeno, immediatamente dopo la conclusione della guerra in Afghanistan. Il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld partecipò a questi incontri. Parte della discussione si focalizzò sul come collegare Saddam Hussein agli attacchi dell’11 settembre. Prima di diventare Vice segretario alla Difesa, Wolfowitz è stato presidente e decano della SAIS. É uno “stratega” sin dal 1973, ha assunto numerosi incarichi di alto livello nella difesa ed è stato sottosegretario alla difesa durante l’amministrazione di George H.W. Bush. Dall’11 settembre, Wolfowitz ha spinto in modo aggressivo per l’azione militare unilaterale USA in Iraq e ovunque nel mondo. Immediatamente dopo l’11 settembre, Wolfowitz sottoponeva un piano (al quale dentro il Pentagono si fa riferimento come “Operazione Guerra Infinita”) che propugnava il bombardamento di Iraq, Siria e Libano. Perle si è guadagnato il soprannome di “Il Principe delle Tenebre” per i suoi punti di vista fanatici che comprendono l’uso di armi nucleari. Perle, sostenitore militante di Israele, cerca di “mettere in ginocchio il mondo musulmano.” E’ stato assistente segretario della difesa per la sicurezza internazionale durante l’amministrazione Reagan ed è un esponente dell’American Enterprise Institute. E’ attualmente presidente della potente Defense Policy Board che fornisce consulenza (e molti ritengono che controlli) il team di Bush preposto alla Difesa. È al corrente di informazioni classificate (pur essendo un “civile”) e si dice che abbia manipolato delle informazioni al fine di portare avanti gli obiettivi politici della sua fazione. In una (amichevole) intervista con David Corn del The Nation (5/10/02) riguardante i progetti per un colpo irakeno, l’arrogante Perle ha dichiarato che ci sarebbero voluti solo quarantamila uomini per “prendere il controllo del nord e del sud, tagliare fuori il petrolio di Saddam e renderlo povero”.
James Woolsey: agente dell’opposizione irakena
L’ex Direttore della CIA Woolsey è un importante discepolo di Nitze, membro della Defense Policy Board, membro del consiglio della SAIS e collega di Perle-Wolfowitz. Nitze chiamò Woolsey nel team dei negoziati SALT I durante gli anni di Carter. Woolsey servì Perle come consulente generale della Commissione del Senato per i Servizi Armati. Durante l’era Reagan-Bush, Woolsey lavorò con la commissione per le forze strategiche di Brent Scowcroft e in altri incarichi per la difesa. Woolsey fa anche parte del consiglio di amministrazione di certe compagnie industriali militari-spionistiche come DynCorp, Martin Marietta, British Aerospace Inc, Fairchild Industries. Assieme a numerosi esponenti dell’elite USA, egli è profondamente coinvolto nelle politiche petrolifere dell’Asia Centrale ed è membro della Camera di Commercio USA-Azerbaijan. Subito dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, Woolsey comparve sui media per incolpare dell’operazione Saddam Hussein. Woolsey volò a Londra nell’ottobre 2001 con funzionari dei Dipartimenti di Stato e della Difesa per raccogliere prove che collegassero Hussein all’11 settembre. Ad un simposio svoltosi il 24 luglio 2002 a Washington presso l’Institute of World Politics, Woolsey diceva al pubblico, “Ci troviamo in una guerra mondiale, nella Quarta Guerra Mondiale”. Egli dichiarava anche che essa aveva avuto inizio l’11 settembre e faceva appello per un attacco preventivo contro l’Iraq – anche senza una “pistola fumante”. Nel suo discorso, Woolsey affermava che il “generale sostegno di Saddam al terrorismo” era una giustificazione sufficiente. La posizione anti-Saddam di Woolsey non è una sorpresa, considerando che egli è un partner dello studio legale di Shea & Gardner. Shea & Gardner è registrato come un “Agente all’Estero” per il Congresso Nazionale Irakeno. Nel 1998, Woolsey difese sei combattenti della resistenza irakena affiliati all’INC che l’amministrazione Clinton stava cercando di far rientrare in Iraq. (http://www.library.cornell.edu/colldev/mideast/wools.htm) Woolsey alla fine negoziò un accordo che domiciliò cinque degli angenti irakeni nel Nebraska. Woolsey era così infuriato con l’amministrazione Clinton e la comunità di intelligence che lo aveva “disdegnato”, da definire con amarezza l’America “un paese fascista”. I fanatici punti di vista di Woolsey sull’Iraq continuano ad essere rappresentati prevalentemente attraverso il media Salon.com, su cui Woolsey ha connesso l’11 settembre all’attentato del 1993 al World Trade Center e ha insinuato che Ramsey Youssef fosse un agente irakeno (non un membro di Al Qaeda).
Rumsfeld “va pesante”
L’11 settembre 2001, appena cinque ore dopo che il volo American Airlines 77 era piombato sul Pentagono, il Segretario alla Difesa Rumsfeld chiedeva ai suoi collaboratori di presentarsi con dei piani per attaccare l’Iraq – anche se non c’era alcuna prova che collegava Saddam Hussein agli attacchi. L’11 settembre, secondo il corrispondente della CBS David Martin (9/5/02):
“Rumsfeld ordinò ai militari si iniziare a lavorare sui piani di attacco (contro l’Iraq). E alle 2:40 del pomeriggio, le note citano Rumsfeld dicendo che egli voleva “al più presto le migliori informazioni. Valutare nel contempo le possibilità di colpire S.H.” – vale a dire Saddam Hussein – Non solo UBL” – iniziali che egli usava per identificare Osama bin Laden. “Andate pesante,” le note citano le sue parole. “Spazzate via tutto. Le cose correlate o meno.” Ora, circa un anni dopo, non c’è ancora nessuna prova che l’Iraq sia stato implicato negli attacchi dell’11 settembre. Ma se queste note sono precise, questo non ha importanza per Rumsfeld.”
In un articolo dell’11 agosto 2002 sul New York Times, il sinistro Rumsfeld dichiarava cinicamente, “Sarebbe meraviglioso se l’Iraq fosse simile all’Afghanistan, se un pessimo regime venisse rovesciato, se la gente venisse liberata, potesse entrarvi del cibo, i confini potessero essere aperti, se cessasse la repressione, se le carceri fossero aperte. Intendo, non sarebbe favoloso?”. Rumsfeld, sostenitore da tempo del Congresso Nazionale Irakeno, fu anche direttamente responsabile per l’armamento di Saddam Hussein nel corso della sua permanenza come inviato in Medio Oriente durante la presidenza Reagan. Il giornalista Jeremy Scahill, “Nel 1984, Donald Rumsfeld si trovava in una posizione tale da focalizzare l’attenzione mondiale sulla minaccia chimica di Saddam. Egli era a Baghdad quando le Nazioni Unite avevano concluso che armi chimiche erano state usate contro l’Iran. Egli era fornito di una recente comunicazione dal Dipartimento di Stato che parlava di prove concrete che l’Iraq stesse usando armi chimiche. Ma Rumsfeld non disse niente.”
Note su altri personaggi
Oltre ad essere da tempo alleato dell’INC e di altri gruppi dell’opposizione irakena, Dick Cheneysfruttò la situazione post-guerra del Golfo come dirigente operativo della Halliburton. Secondo il Washington Post (2/20/00), Dresser-Rand e Ingersoll-Dresser Pump, controllate della Halliburton Corporation, svolsero un ruolo dominante nella ricostruzione dell’industria petrolifera irakena. Mentre gli Stati Uniti e i Britannici effettuavano raid aerei quasi ogni giorno contro installazioni militari nel nord e nel sud dell’Iraq, la Halliburton faceva affari con il governo di Saddam Hussein e lo aiutava a ricostruire la sua industria petrolifera colpita. Si ritiene che la Halliburton abbia guadagnato un miliardo di dollari supplementari dall’esportazione illegale di petrolio attraverso i canali del mercato nero. Come Cheney, John Deutch ebbe un doppio percorso in Iraq. Come Direttore della CIA, fu il supervisore di alcuni tentativi dell’Agenzia di colpo di stato e di assassinio di metà-fine anni 1990. Ma Deutch trasse profitto nel periodo post-Guerra del Golfo in quanto membro del consiglio di amministrazione della Schlumberger, la seconda maggiore compagnia USA di servizi petroliferi (oggi egli rimane nel consiglio). La compagnia ottenne almeno tre contratti per fornire attrezzature per il carotaggio e software geologico all’Iraq attraverso una filiale francese, la Services Petroliers Schlumberger e tramite la Schlumberger Gulf Services di Bahrain. Deutch è in ottima posizione. Oltre ad essere Professore al MIT, un direttore di Citigroup, un membro del Council on Foreign Relations, della Trilateral Commission e del Bilderberger, egli siede nel consiglio di Raytheon. Nel 1999, la CIA sospese l’accesso alla sicurezza di Deutch dopo aver concluso che egli aveva gestito arbitrariamente dei segreti nazionali sul suo computer di casa. Wayne Downing è l’attuale Direttore del consiglio di Lotta al Terrorismo per la Difesa della Sicurezza Nazionale. Come riferisce il giornalista Seymour Hersh (New Yorker, 12/20/01), Downing gestì il commando delle Special Forces durante la Guerra del Golfo e fu coinvolto in un’operazione Delta Force che si valuta abbia ucciso 180 Irakeni, senza nessuna perdita per gli USA. Secondo Hersh, “A Downing questo piaceva.” Nel 1997-1998, Downing redasse un piano con il veterano della CIA Duane “Dewey” Clarridge per rovesciare Saddam Hussein utilizzando combattenti curdi e shi’iti. Clarridge è stato Capo Divisione alla CIA e capo delle operazioni CIA di sostegno ai Contras dal 1982-1984. Clarridge si incontrava regolarmente con Manuel Noriega, Jorge Morales e altri narco-trafficanti. Aveva aiutato Oliver North a creare la base aerea di Ilopango (El Salvador) come tappa delle operazioni CIA di rifornimenti ai Contras/traffico di cocaina. Uno dei principali protagonisti dell’Iran-Contra che fu accusato di spergiuro in sette contee dal Consigliere indipendente Lawrence Walsh. Egli forniva anche aiuto logistico inviando armi USA all’Iran. Nel suo famoso atto finale come presidente, George H.W. Bush graziò Clarridge, Elliott Abrams, Caspar Weinberger e Robert McFarlane – i quali avevano tutti svolto un ruolo attivo nelle recenti operazioni anti-Saddam.
Contrasti all’interno della lobby della guerra
Mentre c’è intesa unanime con l’amministrazione Bush sul “cambio di regime” in Iraq, (ed un forte sostegno dal Congresso, compresi i Senatori Lieberman, Biden, McCain e Daschle), ci sono stati dei disaccordi tra i falchi su come esso andrebbe realizzato. La fazione militante di Perle-Wolfowitz si è scontrata con le elites favorevoli ad un approccio orientato ad un maggiore “consenso internazionale” (Powell, Kissinger, Scowcroft). Anche il Vice segretario di Stato e operativo coperto Richard Armitage, firmatario della lettera originaria anti-Irq del 1998 e di supporto all’Iraq Liberation Act, ha visto con sospetto alcuni dei piani Perle-Wolfowitz-Congresso Nazionale Irakeno. Nell’imbarazzante agitarsi per dare una scadenza, ad un briefing del 10 luglio 2002 del Consiglio per le Politiche di Difesa, l’analista della RAND e protégé di Perle, Laurent Murawiec identificava l’Arabia Saudita come un nemico degli Stati Uniti. Molti ritengono che Perle abbia progettato questa mossa, la quale ha provocato agitazione sul piano mondiale e fatto arrabbiare altri membri del gabinetto Bush. Resta da vedere quale fazione di guerra prevarrà e che tipo di furia sarà scatenata.
Fu la Casa Bianca a commissionare alla Cia il falso dossier sull’uranio
L’impero che mente
Daniele Zaccaria
http://members.xoom.virgilio.it/infocontro/SocFor2003/NW726.htm
Liberazione 17 luglio 2003
E’ possibile che «sedici parole» di troppo facciano scricchiolare le fondamenta dell’impero? La vicenda del falso traffico d’uranio yellowcake tra il Niger e l’Iraq sembra avvalorare questa tesi.
La Casa Bianca, che aveva accusato la Cia di averle fornito le finte informazioni per poi assolverla nello spazio di poche ore, è ora gravata dall’ombra di uno scandalo di Stato. Altro che «nuvoletta», come spera candidamente il senatore repubblicano Charles Hagel. Il perdono presidenziale alle “barbe finte” si è in realtà rivelata un’ipocrita messa in scena. E’ stata infatti la stessa presidenza Usa ad aver commissionato all’intelligence la manipolazione delle prove contro il regime iracheno. Non si è trattata di una «leggerezza» della Cia che ha mal selezionato i dossier forniti dagli 007 stranieri (italiani? inglesi? francesi?). La Cia ha eseguito solo gli ordini dell’amministrazione, o almeno di una sua parte rilevante. Solo l’entourage del Segretario di Stato Colin Powell ha apertamente contestato la spregiudicato copione pre-bellico dei falchi, salvo poi interpretarne una parte di prim’ordine.
Sotto accusa il “taciturno” vicepresidente Dick Cheney, rimasto nell’ombra in questi giorni di crisi, ma indicato dai grandi giornali come l’artefice del depistaggio. E’ stato il suo gabinetto, per opera del fido Lewis “Scooter” Libby ad esercitare l’asfissiante pressione sui servizi. Il calendario di guerra era già compilato, il teatrino degli indizi doveva essere allestito in fretta. Il “lobbismo” del gabinetto Libby (già collaboratore di Ronald Reagan) costituiva d’altra parte un fatto noto da tempo (cfr. Liberazione del 6 giugno 2003), anche se soltanto ora lo scandalo rompe la cortina d’indifferenza, attirando le pulsioni investigative dei media e il furore dell’opposizione democratica. Il dossier dell’uranio infatti non è che un piccolo tassello del colossale imbroglio architettato ai danni comunità internazionale. La manipolazione doveva essere (ed è stata) realizzata a tutto campo: dalle armi di distruzione di massa ai “legami” tra Bagdad e la rete terrorista “al-Qaeda”, l’intero impianto accusatorio americano si sosteneva su dati costruiti e truccati ad arte. Bastava soltanto renderli presentabili.
Le stanze del potere sono proprio come uno se le immagina, uffici gelosi dei propri segreti, funzionari devoti all’intrigo, spie che spiano altre spie. E’ in quei corridoi che sono state confezionate le “prove” sugli arsenali di sterminio di Saddam Hussein, ed è sempre lì che si è consumato un violentissimo scontro tutto interno all’amministrazione.
Ma come in ogni intrigo che si rispetti, le “piccole” bugìe creano più danni delle grandi truffe. E’ attraverso i dettagli che si riesce a mettere a fuoco il disegno d’insieme di una strategia. La sceneggiata delle responsabilità incrociate tra la Casa Bianca e la Cia non solo non ha convinto l’opinione pubblica americana, ma l’ha bruscamente svegliata dal torpore della propaganda bellica. Ecco il paradosso: il cittadino Usa può bersi la frottola della missione civilizzatrice del suo Paese, della crociata del bene contro il male. Ma di fronte a un dossier che contiene «sedici parole» inesatte, si sentono presi per i fondelli. Ora molti responsabili dei servizi segreti si sollevano in un coro di proteste: «così non siamo più credibili», mentre un’associazione di spie in pensione chiede addirittura le immediate dimissioni di Cheney. Che ovviamente non ci pensa nemmeno. In compenso è il direttore della Cia George Tenet che sta passando i guai più seri. Ieri è stato ascoltato dalla commissione del Senato. Se molti organi di stampa vedono in lui un perfetto capo espiatorio per uscire puliti dalla vicenda, il fatto che l’audizione sia avvenuta a porte chiuse conferma l’ipotesi che anche stavolta i panni sporchi saranno lavati in famiglia.
I democratici parlano ora di “impeachment”, prospettiva che per il momento appare inverosimile, soprattutto se sarà condotta da un’opposizione ancora in cerca d’autore com’è quella d’oltreoceano. Un esempio: il senatore Edward Kennedy che si rammarica di quanto la vicenda abbia «minato il prestigio e la credibilità degli Stati Uniti nel mondo». Verrebbe quasi da ridere di fronte al candore di questa affermazione. Però è innegabile che il contesto politico attorno al governo stia cambiando, l’egemonia dei falchi sulla società americana in netto declino. Le truppe al fronte muoiono con il contagocce ma anche con meccanica regolarità: i marines non torneranno a casa prima di molti mesi, anzi, altri ed altri soldati partiranno alla volta dell’Iraq per gestire l’impossibile dopoguerra iracheno. Anche l’economia va male. Il direttore della Federal Reserve ha tagliato i tassi d’interesse, ammettendo che il rischio di recessione è dietro la porta. E la causa addotta dalla “Fed” è da ricercare proprio nell’avventura militare nel Golfo: le spese di guerra decuplicate all’indomani dell’11 settembre hanno provocato un buco da 455 miliardi di dollari e le previsioni sul deficit sono aumentate.
La rielezione di Bush, data per certa da tutta la stampa statunitense fino a qualche settimana fa, oggi non appare più come una sentenza scolpita nel marmo.
L’Aiea a Tony Blair: vogliamo le prove
L’Agenzia internazionale per l’energia atomica chiede al governo di Londra di consentire ai suoi ispettori di verificare le prove del presunto tentativo del regime di Saddam Hussein di acquistare uranio dal Niger. Sia il premier Tony Blair che il ministro degli esteri Jack Straw, hanno insistito nel sostenere che l’informazione in loro possesso – passata a Washington e inserita dal presidente Bush nel suo Discorso sullo Stato dell’Unione del gennaio scorso – era a loro avviso «accurata». Già in marzo il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Mohammed El Baradei, aveva affermato in sede di Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che i documenti utilizzati dai servizi britannici erano grossolanamente falsificati. Londra allora fece intendere d’avere altri documenti, non ancora resi pubblici. Su questo, ora, l’Aiea chiede di poter fare una verifica. «Se c’è una qualsiasi altra prova, sarebbe opportuno farla arrivare all’Aiea per poterne verificare la veridicità», ha detto la portavoce dell’Agenzia Melissa Fleming. «L’Aiea ha tuttora il mandato Onu di garantire che l’Iraq non abbia un programma di produzione di armi nucleari e i paesi hanno l’obbligo di cooperare con noi fornendoci ogni informazione che possa essere rilevante per la verifica del nostro mandato».
El Baradei
«In Iraq ritrovate tutte le armi scomparse»
Tutto il materiale utilizzabile per la produzione di armi atomiche dichiarato scomparso durante i saccheggi di Bagdad è stato ritrovato. Mancano solo dieci chilogrammi di uranio a bassa intensità inutilizzabile a scopi bellici. La notizia la dà Mohammed El Baradei, direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica ricavando le informazioni da i controlli compiuti nel famoso magazzino “C” che si trova all’esterno del complesso di Tuwaithe, nei pressi di Baghdad, dato per saccheggiato insieme ad almeno altri sei siti nucleari iracheni. Tuttavia, El Baradei segnala che chiederà alle autorità occupanti statunitensi di fare ogni sforzo per recuperare anche i 10 chilogrammi mancanti dell’uranio naturale e «di rimetterlo sotto il controllo» dell’Agenzia per prevenire che le radiazioni possano procurare eventuali danni ambientali, sanitari e umanitari. Finora, le autorità militari Usa in Iraq hanno impedito all’Aiea di verificare le condizioni sanitarie della popolazione che vive nelle vicinanze dei siti nucleari, cioè di misurare il livello delle radiazioni.
Da Report, Rai 3:
L’ALTRO TERRORISMO
di Paolo Barnard, Giorgio Fornoni
Puntata del 23 settembre 2003 Ore 20:50 – Rai 3
AUTORE
D – Mr Mac Michael, i governi americani sono mai stati terroristi? Hanno mai sostenuto il terrorismo?
DAVID MAC MICHAEL – ex agente della CIA, zona operativa Centro America.
Si, lo sono stati e lo hanno fatto.
D – La sua risposta è sì?
DAVID MAC MICHAEL – ex agente della CIA, zona operativa Centro America.
Sì, lo hanno fatto.
D – Possiamo dunque dedurne che questa nazione possa essere chiamata uno stato canaglia?
DAVID MAC MICHAEL – ex agente della CIA, zona operativa Centro America.
Secondo la definizione che ne dà la presente amministrazione americana, penso che sì, gli Stati Uniti possano essere definiti uno Stato Canaglia.
IN STUDIO MILENA GABANELLI
Un’affermazione grave, a carico del Paese che, insieme a Gran Bretagna e Russia oggi guida la guerra al terrorismo, una guerra giusta. Per vincerla occorrerebbe l’autorevolezza morale di riconoscere e perseguire tutti i terrorismi. Ora, questi Paesi lo fanno? Un argomento difficile che affronteremo solo sulla base di documenti ufficiali che abbiamo cercato e trovato negli archivi di Stato. Prima però entriamo nell’incidente di Bhopal, in India, cosa è successo dentro la fabbrica di pesticidi la notte del 2 dicembre del 1984? La parola a Marco Paolini.
Monologo con Marco Paolini dal titolo: “Bhopal 2 dic. ‘84”
IN STUDIO MILENA GABANELLI
Grazie a Marco Paolini per il drammatico e preciso resoconto di un incidente e di un’ingiustizia. Ma gli orrori che avvengono o si compiono lontano da noi non esistono. Gli Stati Uniti. Non esiste un paese al mondo nel quale la libertà sia applicata in modo così esteso e la parola “legge” abbia un valore così profondo.
Un paese credibile, così è e così appare e poi…c’è anche quello che non appare.
Paolo Barnard e Giorgio Fornoni
Immagini di repertorio: discorso del presidente Bush allo State of the Union del 2002:
“Finché le nazioni ospiteranno i terroristi, la libertà sarà in pericolo.”
AUTORE
Bush dice: Finché le nazioni ospiteranno i terroristi, la libertà sarà in pericolo. Gli Stati Uniti ospitano e proteggono terroristi. Questa è Miami, questa è New York.
(L’autore si avvicina a una casa di Miami in piena notte)
Forse questa è la casa di Orlando Bosch.
A Miami mi ero messo alla caccia di Orlando Bosch, uno spietato terrorista, almeno secondo l’FBI. Le sue vittime furono cittadini americani o cubani accusati di sostenere l’odiato Fidel Castro. Il Dipartimento di Giustizia americano sostiene che Bosch fu implicato in attentati dinamitardi contro uffici e ambasciate, sequestri di persona, tentativi di omicidio, nell’affondamento di navi e nell’abbattimento di aerei. E’ il principale indiziato per l’abbattimento nel 1976 di un aereo civile cubano con la morte di tutti i passeggeri a bordo e fu persino indagato per l’assassinio del presidente Kennedy. Dai documenti del Dipartimento di Giustizia e dell’FBI:
Documento:
“Per trent’anni Bosch ha propugnato la violenza terrorista in modo risoluto e senza cedimenti. Ha minacciato e portato a termine attacchi terroristici contro numerosi bersagli…Le sua azioni sono state quelle di un terrorista indifferente alle leggi e alla decenza umana, che ha inflitto violenza senza considerazione alcuna per l’identità delle sue vittime.”
AUTORE
Trovarlo è stata un’impresa non facile, in una ridda di contatti e indirizzi andati a vuoto, ma poi alla fine…
(Autore suona alla porta di casa di Bosh)
Autore: Hallo.. (Salve)
(Senza aprire la porta) moglie di Bosh: Who is it..? (Chi è?)
Autore: My name is Paolo Barnard, I’m looking for Mr Orlando Bosch.. (Mi chiamo Paolo Barnard, sto cercando Orlando Bosch)
AUTORE
E’ la moglie che risponde ma non apre la porta. Dice che Bosch non c’è, poi dice che è all’ospedale, poi che non sa se torna…. Bosch mi sfugge, non aprirà più la porta di casa nonostante i miei ripetuti appostamenti, poi una mattina sparisce, i vicini di casa lo hanno visto partire all’alba.
Vicini di casa: Lei è un investigatore privato?
Autore: No, no, sono un giornalista.
AUTORE
Max Lesnik vive, o meglio è ancora vivo per miracolo, a Miami. Bosch e compagni hanno tentato di ammazzarlo 12 volte, con 12 bombe. Perché?
MAX LESNIK – Giornalista Miami
Perché sono stato direttore della rivista Replica che invocava la riconciliazione fra Cuba e Washington. I terroristi del clan di Bosch nel periodo compreso fra il 1984 e il 1987 piazzarono 12 bombe nei miei uffici, nel tentativo di uccidere me e la mia pubblicazione.
AUTORE
Torniamo ai documenti. Nel 1989 il Dipartimento di Giustizia aveva deciso con chiarezza: Orlando Bosch andava espulso dall’America. Ma allora perché un terrorista così pericoloso è ancora libero e tranquillo nella sua casa di Miami?
MAX LESNIK – Giornalista Miami
E’ risaputo che questi terroristi avevano mire collimanti con quelle di diversi governi americani, e infatti furono usati nelle operazioni sporche che Washington portava avanti in Nicaragua, Salvador o Cuba. Si può dire che costoro erano l’espressione del terrorismo coperto delle amministrazioni americane.
AUTORE
Orlando Bosch e il suo terrore vengono ufficialmente perdonati dal Presidente Bush senior nel 1991, e lo scandalo non sfugge alla stampa americana.
Immagini articolo sul New York times titolato “Il caso Bosch violenta la giustizia”
AUTORE
New York. Sono sulle tracce di Emmanuel Constant, ex leader delle squadre della morte di Haiti, chiamate FRAPH, responsabili di crimini che collimano con la definizione di terrorismo dell’FBI. Constant, fuggito da Haiti, vive oggi libero a New York, nel quartiere di Queens, ma si muove perennemente da casa a casa per timore dei giornalisti e di chi lo vorrebbe processato. Gli indirizzi che ottengo sono tutti obsoleti, e alla fine trovo solo il suo numero di cellulare, sempre inattivo.
Amnesty International lo ha incluso nel suo rapporto intitolato “Stati Uniti d’America, il rifugio dei torturatori”, e questo dissero di lui le massime autorità di Washington.
Documento del Dipartimento Immigrazione USA:
“Il Segretario di Stato americano ha decretato che la presenza del signor Constant negli Stati Uniti è gravemente contraria ad essenziali obiettivi di politica estera. Il governo americano ha concluso che il FRAPH è una organizzazione illegittima i cui membri furono responsabili di molte violazioni dei diritti umani ad Haiti. Come loro leader, il signor Constant è stato accusato di condotta abominevole e notoria. Egli dovrebbe rispondere di queste accuse di fronte al governo democratico di Haiti.”
AUTORE
Un tribunale haitiano lo aveva infatti condannato all’ergastolo in contumacia, ma nonostante questo e l’ordine di espulsione che abbiamo visto, Emmanuel Constant rimane libero a New York. Amensty International avanza una ipotesi sui motivi: che Constant mentre ammazzava e mutilava persone ad Haiti fosse sul libro paga della CIA. Ma la cosa che più colpisce è questa: (immagini attentato Torri Gemmelle di New York). E’ la fine di settembre del 2001, l’America aggredita dal terrorista Bin Laden ne chiede l’estradizione dall’Afghanistan. L’Afghanistan tergiversa, Washington lo bombarda a tappeto. Ma negli stessi giorni sul New York Times appariva questa notizia:
DA UN ARTICOLO DEL NEW YORK TIMES:
“Il presidente di Haiti, Jean Bertrand Aristide, chiede con urgenza agli Stati Uniti l’estradizione di Emmanuel Constant, che vive a New York.”
AUTORE
Gli Stati Uniti ignorarono la richiesta e il terrorista di Haiti rimane impunito e protetto.
NOAM CHOMSKY – Prof. MIT – Boston
Se vogliamo essere minimamente onesti, se vogliamo avere almeno uno straccio di moralità, dobbiamo applicare a noi stessi la legge che pretendiamo venga applicata agli altri. Se non siamo disposti a fare questo tanto vale che abbandoniamo ogni pretesa di distinguere il bene dal male.
IN STUDIO MILENA GABANELLI
Non è mai esistito un Paese, nemmeno il più liberale e democratico che non abbia intrattenuto, per convenienza o necessità, rapporti, diciamo, “amichevoli” con terroristi o Paesi governati da feroci dittature. Qui però, dobbiamo ribadire, stiamo parlando del Paese che ha dichiarato guerra al terrorismo su cui grava l’accusa di essere lui stesso un paese terrorista. E’ un’accusa fondata?
Agli Stati Uniti è stato accordato davanti al mondo un ruolo sovrano fra Stati sovrani. Sono di fatto i garanti e tutori dell’ordine mondiale . Un credito di cui tutto il mondo sente il bisogno. E’ dal dopoguerra che gli Stati Uniti sono i più accesi difensori dei principi di democrazia e dei diritti fondamentali dell’uomo, ed è anche il motivo per il quale oggi guidano la guerra al terrorismo, e in questa chiave va letto tutto quello che questa sera vi proponiamo.
AUTORE
Anno 1986, Corte Internazionale di Giustizia all’Aia. Dopo due anni di dibattimenti, i giudici del cosiddetto tribunale mondiale emettono una sentenza storica: gli Stati Uniti d’America sono colpevoli di terrorismo ai danni del piccolo stato del Nicaragua. Nella sentenza si accusa Washington di “uso – illegale – della forza”, e non solo, che nella terminologia giuridico internazionale significa terrorismo. Fra l’altro anche l’ FBI americana impiega le stesse parole nella sua definizione ufficiale di terrorismo : “uso – illegale – della forza”.
Ma cosa era accaduto in Nicaragua?
NOAM CHOMSKY – Prof. MIT – Boston
Nel 1981 gli Stati Uniti lanciarono contro i civili del Nicaragua degli attacchi terroristici sia diretti che indiretti, spedendo laggiù le squadre della morte chiamate Contras. Il Nicaragua non reagì come fa oggi l’America, non bombardò Washington. Al contrario, denunciò gli Stati Uniti presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.
AUTORE
Gli attacchi terroristici contro il Nicaragua, ordinati dall’amministrazione dell’allora presidente Reagan, miravano a rovesciare il governo nicaraguense accusato di essere un pericoloso bastione del comunismo. Messa di fronte al giudizio della più alta corte mondiale, Washington si rifiutò di presentare la propria difesa.
NOAM CHOMSKY – Prof. MIT – Boston
Gli Stati Uniti reagirono alla sentenza ignorandola, e non solo, il Congresso aumentò i finanziamenti alle squadre della morte dei Contras e il generale Galwin gli diede l’ordine di attaccare i target cosiddetti “soffici” del Nicaragua, e cioè uccidere giudici e amministratori.
AUTORE
Ecco le prove. Questo è il manuale operativo americano per i Contras, le squadre della morte finanziate da Washington e spedite in Nicaragua. Vi si insegnano tecniche di terrore implicito ed esplicito, e nel paragrafo sull’uso selettivo della violenza si contempla l’assassinio di giudici, piccoli allevatori, poliziotti e amministratori statali.
DAVID MAC MICHAEL – ex agente della CIA, zona operativa Centro America.
Gli atti più noti di terrorismo americano in Nicaragua, furono il bombardamento del deposito petrolifero di Corinto nel 1983, poi minammo diversi porti civili nel tentativo di mettere in ginocchio il paese economicamente, e infine ci infiltrammo lungo la frontiera con l’Honduras e assassinammo diversi funzionari civili del governo nicaraguense, fra cui medici, insegnanti, sindacalisti. Per queste ultime azioni ci servimmo di agenti addestrati e pagati da noi che erano noti col nome di Contras.
IN STUDIO MILENA GABANELLI
E’ un pugno nello stomaco, perché conosciamo bene il terrorismo dei nostri nemici, lo condanniamo e lo combattiamo, mentre il nostro non lo conosciamo. Ma cosa intendiamo noi per terrorismo? La definizione che ne dà l’FBI è la seguente: “il terrorismo è l’uso illegale della forza e della violenza contro persone o proprietà a fini intimidatori o coercitivi nei confronti di un governo, della popolazione civile o di ogni loro parte per l’ottenimento di obiettivi politici o sociali.”
E allora proviamo a ripassare un po’ di storia, quella che non è ancora arrivata sui libri di scuola.
AUTORE
E’ l’autunno del 1965, in Indonesia un colpo di stato militare porta al potere il genenerale Suharto. A quel tempo la forza politica maggiore nel paese era il PKI, Partito Comunista d’Indonesa, con un sostegno di massa fra i contadini di quell’immenso arcipelago. Stati Uniti e Gran Bretagna temevano che il PKI si potesse imporre trasformando l’Indonesia e le sue ricche risorse in un bastione anti occidentale. Suharto si fece subito carico dell’abolizione del partito comunista, un’abolizione non politica, fisica.
Nello spazio di pochi mesi l’esercito di Suharto, affiancato da bande di estremisti musulmani, massacrò da un milione a due milioni di esseri umani, nessuno sa con precisione, un olocausto della cui brutalità sia gli americani che gli inglesi furono prontamente informati. Nei documenti segreti delle ambasciate di Londra e Washington a Jakarta si legge:
Documento di Stato:
“Gli uomini e le donne del PKI vengono giustiziati in grandi numeri. Sembra che dapprima gli offrano un coltello per uccidersi, al rifiuto vengono ammazzati con un colpo alla schiena. La gente che viene così trattata sono persone comuni, spesso nulla più che contadini spaventati che non sanno come rispondere alle bande di assassini assetati di violenza.”
AUTORE
L’ambasciata americana scrive:
Documento di Stato:
“Si stimano a Bali già 80.000 morti…. le stragi continuano e non se ne vede la fine.”
NOAM CHOMSKY – Prof. MIT – Boston
Gli americani sapevano e applaudirono! La stampa si profuse in lodi sperticate. Il New York Times scrisse di Suharto ” è un raggio di luce in Asia”, News Week dichiarò “è la speranza là dove non ve n’era”, l’Economist lo descrisse come “un moderato dal cuore benevolo”. E’ ovvio, per noi stava facendo cose meravigliose, stava massacrando un oceano di persone e distruggendo l’unico partito con sostegno di massa nel paese per aprire i mercati indonesiani agli investimenti occidentali.
AUTORE
Il governo di Londra non fu da meno, come testimonia lo storico londinese Mark Curtis, autore di un noto e controverso volume sul terrorismo di stato britannico.
MARK CURTIS – Storico Royal Institute of International Affairs – Londra
La verità su quella pagina orrenda di storia è tenuta ben nascosta: l’Inghilterra appoggiò con entusiasmo il massacro di più di un milione di persone in Indonesia. In particolare Londra e Washington si fecero in quattro per condurre operazioni coperte di sostegno militare e per rassicurare l’esercito di Jakarta che non sarebbero intervenuti in alcun modo.
AUTORE
Nei documenti riservati americani e inglesi dell’epoca si legge:
Documento di Stato:
“Il Comandante in Capo britannico pensa che l’idea sia meritevole e che potrà assicurare che l’esercito indonesiano non venga distratto da quello che noi consideriamo un compito necessario.”
Documento di Stato:
“E’ stato detto chiaramente che sia l’ambasciata americana che il governo degli Stati Uniti condividono e ammirano, quello che l’esercito sta facendo.”
Documento di Stato:
“Ci sembra da qui che la campagna militare indonesiana per distruggere il PKI proceda veloce e liscia come l’olio!…. Potrebbe essere che le cose si sviluppino con tale rapidità che fra poche settimane ci potremmo ritrovare con la situazione che abbiamo sperato.”
AUTORE
L’ambasciatore inglese Sir Andrew Gilchrist commentò:
Documento di Stato:
“Non vi ho mai nascosto la mia convinzione che “qualche fucilata” in Indonesia fosse la condizione essenziale per un cambiamento effettivo.”
AUTORE
Washington andò oltre: organizzò operazioni segrete per armare Suharto.
Documento di Stato:
“Nel frattempo potremmo considerare la disponibilità di armi leggere, meglio se non americane, che loro possono ottenere senza l’aperto coinvolgimento del governo americano. Potremo fornire assistenza segreta all’esercito per l’acquisto di armi.”
AUTORE
E tutto questo perché?
MARK PHYTHIAN – Relazioni Internazionali Univ. Wolverhampton, GB
La Gran Bretagna aveva gli occhi puntati sui commerci con l’Indonesia e sugli investimenti, al punto che l’allora ministro degli Esteri Sir Michael Stewart scrisse parole chiare sul grande potenziale da sfruttare per gli esportatori inglesi una volta che la situazione politica si fosse stabilizzata.
Documento di Stato:
“Se un giorno ci sarà un accordo con l’Indonesia, cosa che spero, credo che noi dovremo prendere parte attiva e assicurarci una fetta della torta da spartire.”
IN STUDIO MILENA GABANELLI
Ma gli interessi inglesi e americani dove cominciano e dove finiscono? Andiamo dall’altra parte del mondo, in centro America, dove le dittature militari sono state protagoniste per 30 anni di una complicata storia del terrore su larga scala, appoggiata e finanziata dagli Stati Uniti.
Anche qui la ragione che ufficialmente legittimava Washington era il pericolo per l’avanzata comunista. L’alto funzionario David McMichael era responsabile delle stime politiche della CIA per l’emisfero occidentale.
DAVID MAC MICHAEL – ex agente della CIA, zona operativa Centro America.
Alla CIA non abbiamo mai creduto che l’America latina potesse divenire un blocco comunista in stile est europeo. Quello che si temeva era che le nazioni latino americane potessero usare l’appoggio dell’URSS per portare avanti programmi politici e sociali che erano contrari agli interessi di Washington.
AUTORE
Peter Kornbluh è uno dei più stimati politologi d’America, e lavora presso la George Washington University. E’ esperto dell’America latina e nel suo ultimo libro, Il dossier Pinochet, approfondisce, fra l’altro, proprio il tema della presunta minaccia comunista in quell’area.
PETER KORNBLUH – Politologo george Washington Univ. Washington
Lasci che le racconti la storia di come Nixon convinse la CIA a fomentare i disordini in Cile dopo la vittoria del socialista Allende. Pubblicamente dichiarò di voler fermare l’infezione comunista, ma i documenti di stato riportano che in privato Nixon dichiarò al Consiglio di Sicurezza Nazionale che Allende avrebbe portato nel mondo un modello politico di successo, un modello antagonista agli interessi americani e dunque da distruggere.
AUTORE
Dal 1962, Cuba e la sua popolazione civile entrano nel mirino di Washington. Negli archivi segreti americani si legge:
Documento di Stato:
“Top secret. I Capi di Stato Maggiore dell’esercito:
Potremmo fare esplodere una nave americana a Guantanamo e incolpare Cuba. Si potrebbe organizzare una falsa campagna terroristica comunista a Miami o persino a Washington, che deve colpire i rifugiati cubani . Potremmo affondare una barca piena di rifugiati cubani, oppure incoraggiare i tentativi di omicidio contro i rifugiati cubani negli Stati Uniti.”
Documento di Stato:
“Operazione Mongoose… abbiamo discusso se minare le acque cubane…. E’ stato detto che sono disponibili mine americane non riconoscibili…. potremmo farle piazzare da Cubani.
Documento di Stato:
“Operazione Break up: causare incidenti a navi, aerei o veicoli cubani usando sostanze corrosive.”
AUTORE
La contro-insurrezione divenne la parola d’ordine sia per l’America che per le dittature da lei appoggiate, o meglio, divenne un passpartout che giustificava qualsiasi efferatezza. Dal Guatemala, all’Honduras, dal Cile al Paraguay il terrorismo di stato non ebbe limiti. E dal Guatemala arriva un documento di straordinario valore storico: è il disperato appello che il diplomatico americano Viron Vaky spedisce ai suoi superiori nel marzo del 1968, un atto di accusa contro la complicità del suo paese col terrorismo di quegli anni.
Documento di Stato:
“La gente viene uccisa o scompare sulle basi di semplici accuse…. gli interrogatori sono brutali, usano la tortura e mutilano i corpi…. Noi abbiamo tollerato la contro insurrezione, l’abbiamo incoraggiata e benedetta…. Siamo talmente ossessionati dalla paura delle insurrezioni che ci siamo sbarazzati di ogni remora…. E così l’omicidio, la tortura e le mutilazioni sono giusti se sono i nostri alleati a farlo e se le vittime sono comunisti….Ma è possibile che una nazione così fedele alla legalità possa così facilmente acconsentire a queste tattiche terroriste?”
AUTORE
Nel nome della contro-insurrezione Washington impiegò i seguenti strumenti: passarono alla giunta militare del Guatemala una lista di persone da assassinare , dove si legge:
Documento di Stato:
“Selezione di individui per l’eliminazione da parte della Giunta militare”
“Categoria 1 – Persone da eliminare attraverso azione esecutiva.”
AUTORE
Queste pagine, oggi cancellate dai servizi americani, contenevano i nomi dei condannati.
Pubblicarono un manuale per assassini, che dichiara:
Documento di Stato:
“E’ raro che si possa mantenere una coscienza pulita nell’assassinare qualcuno. Chi è deboluccio di coscienza è meglio che neppure ci provi.”
“Fra le tecniche: un incendio può causare la morte del soggetto, se lo si droga e lo si lascia a bruciare nella casa. Ma non è un metodo affidabile, a meno che la casa non sia isolata e altamente infiammabile.”
AUTORE
E il manuale per interrogatori Kubark, che sarà usato per decenni, e dove gli Stati Uniti insegnano apertamente la tortura:
Documento di Stato:
“Per gli interrogatori coercitivi, va richiesta approvazione da parte del Quartiere Generale nelle seguenti circostanze: 1) Se si deve infliggere dolore fisico; 2) se strumenti medici, chimici o elettrici devono essere usati per indurre obbedienza.”
“Le principali tecniche coercitive sono: l’arresto, la detenzione, la deprivazione sensoriale, le minacce, la paura, la debilitazione, il dolore, la suggestione, l’ipnosi e le droghe.”
AUTORE
Il Salvador ha vissuto episodi di terrorismo di stato di una crudeltà particolare, e anche qui si parlò molto dell’America.
SUOR TERESA ALEXANDER – Ordine Sorelle Maryknoll, San Salvador
Qui è dove trovammo i corpi delle quattro sorelle, presente era anche l’ambasciatore americano White. Allora c’erano solo dei cespugli e del filo spinato aggrovigliati, e loro erano state scaricate lì.
AUTORE
Due Dicembre 1980, quattro suore americane missionarie in Salvador vengono rapite dall’esercito della giunta militare e trucidate. Suor Teresa Alexander era con loro quel giorno, si salvò solo perché arrivò in ritardo all’appuntamento con le altre. Il ritrovamento dei corpi malcelati fece scalpore e ci si chiese il perché di tale atrocità. Suor Teresa mi porta oggi sul luogo del delitto e risponde a quella domanda.
SUOR TERESA ALEXANDER – Ordine Sorelle Maryknoll, San Salvador
Noi portavamo un messaggio di libertà, ma soprattutto eravamo le uniche a portare negli Stati Uniti le notizie di quello che veramente stava accadendo in Salvador. La verità non veniva raccontata agli americani, noi denunciavamo in particolare le sparizioni, i massacri di preti, di uomini e di donne.
AUTORE
All’arrivo della notizia, l’amministrazione Reagan finge di indignarsi, e sospende gli aiuti al Salvador. Ma questo documento del Congresso dimostra al contrario che gli aiuti economici ai terroristi di stato salvadoregni, agli assassini delle quattro suore, verranno ristabiliti dopo 12 giorni, quelli militari dopo appena un mese.
SUOR TERESA ALEXANDER – Ordine Sorelle Maryknoll, San Salvador
Una delle sorelle massacrate mi disse che suo padre negli Stati Uniti fabbricava gli elicotteri militari che poi lei stessa vedeva volare qui. Andò persino dall’Ambasciatore Wright a denunciare questa cosa, ma lui stentava a crederle.
AUTORE
Undici dicembre 1981, villaggio di El Mozote, provincia di Morazàn, El Salvador. Un corpo d’elite dell’esercito salvadoregno, il battaglione Atlacatl, circonda le abitazioni. Gli abitanti sono separati in gruppi, uomini, donne e bambini. Lo sterminio inizia dagli uomini, poi le donne e poi i bambini, questi ultimi uccisi dentro la chiesa a fucilate e coltellate come agnelli in gabbia. Alla fine la strage conterà quasi 1.200 morti, tutti civili inermi. Il battaglione Atlacatl lascerà la sua firma.
CARTELLO LASCIATO SU UN MURO DAL BATTAGLIONE ATLACATL:
“Qui è stato il battaglione Atlacatl, il padre dei sovversivi, seconda compagnia. Avete fatto una cagata, figli di puttana. Se avete bisogno di palle chiedetele per corrispondenza al battaglione Atlacatl.”
AUTORE
Santiago Consalvi, giornalista dell’allora clandestina radio Venceremos, ha memoria di come la scena si presentò ai primi testimoni alcune settimane dopo.
SANTIAGO CONSALVI – Giornalista San Salvador
Fui uno di primi ad arrivare a El Mozote pochi giorni dopo l’eccidio, quando se ne rumoreggiava ma si stentava a crederci. Quello che vidi fu una scena dantesca. Contammo i corpi di 400 bambini massacrati, cadaveri ovunque, braccia mozzate, un odore rivoltante. Alcuni resti umani erano anche bruciati, perché l’esercito diede fuoco alle case prima di lasciare il posto.
AUTORE
La gente che vive qui oggi a El Mozote ovviamente non ha ricordi del massacro, perché ha ripopolato il villaggio solo molti anni dopo, nel 1993, eccetto una persona, che ricorda tutto perché vide tutto.
Si chiama Rufina Amaya, è l’unico essere umano sopravvissuto all’eccidio, e oggi vive a pochi chilometri da El Mozote. Rufina perse tre figli nel massacro, di cui il più piccolo ancora lattante. Ci riporta a El Mozote, ma non senza difficoltà, perché di mezzo ci si mette una frana e pure un acquazzone tropicale. Ma alla fine ci arriviamo.
RUFINA AMAYA – Sopravvissuta a El Mozote
I militari arrivarono alle 6 del pomeriggio. Le donne furono subito portate in due case diverse, quella di Alfredo Marques e quella di Benita Dias, mentre gli uomini furono portati in chiesa. Poi la mattina seguente arrivò un elicottero e iniziarono a torturare gli uomini. A mezzogiorno cominciarono con le donne e lì iniziò la strage.
Le donne venivano uccise a gruppi. Io avevo i miei tre figli intorno, tra cui una bimba che ancora allattavo, mi strapparono i figli, e così alle altre. Nella confusione mi nascosi fra i cespugli, ma sentivo i bambini urlare e anche i miei bambini mi chiamavano…. i bambini chiamavano le madri…i miei figli mi urlavano “mammina difendici…ci uccidono con dei coltelli e con le pallottole”, ma non potevo fare nulla. Mi inginocchiai e chiesi aiuto a Dio, che mi perdonasse o mi salvasse.
Non resistetti alle urla dei bambini e all’una di notte uscii, mentre nel frattempo i soldati avevano dato fuoco alle case. Mi trovai fra il bestiame e i cani che si erano rifugiati di fianco a un fuoco, e mi nascosi fra di loro a gattoni, mentre continuavo a sentire gli urli dei bambini.
Io pregavo continuamente proprio per non piangere perché mi avrebbero sentita e allora feci un buco nella terra…. ci ficcai la testa e scoppiai a piangere.
AUTORE
I terroristi del battaglione Atlacatl, gli uomini capaci di fare questo a 400 bambini e a 800 civili inermi, ebbero un sostegno diretto, ripetuto e consapevole proprio dalla nazione che oggi si è posta alla guida della guerra al terrorismo. Le prove nei documenti di stato americani. L’eccidio, lo ricordiamo, avveniva nel dicembre del 1981.
Documento di Stato:
“Dal Sotto Segretario alla Difesa, all’Onorevole John Joseph Moakley”
“Il battaglione Atlacatl fu in effetti addestrato dai militari degli Stati Uniti nel 1981. Furono addestrati un totale di 1383 soldati. L’addestramento fu condotto nel Salvador.”
AUTORE
La strage di El Mozote divenne di dominio pubblico nel giro di pochi mesi, ma nonostante ciò l’appoggio americano ai terroristi dell’Atlacatl non cesserà e durerà per altri 8 anni, fino al 1989 quando l’Atlacatl firmerà un’altra strage, quella dei 6 gesuiti e delle due perpetue.
Documento di Stato:
“All’interno della valutazione del distaccamento, abbiamo addestrato 150 soldati del battaglione Atlacatl. L’addestramento fu interrotto il 13 novembre del 1989.”
AUTORE
E mentre le autorità salvadoregne mentivano su El Mozote, i diplomatici statunitensi le rassicuravano e garantivano aiuti militari ribadendo comunità di interessi con la giunta. In questo documento riservato del febbraio 1982 un diplomatico americano in Salvador scrive:
Documento di Stato:
“Oggi di fronte al Congresso Tom Enders ha difeso lo stanziamento di altri 55 milioni di dollari in armamenti al Salvador.”
AUTORE
E poi.
Documento di Stato:
“Il generale Garcia, ministro della Difesa salvadoregno, mi ha detto che la storia di Morazàn e di El Mozote è una favoletta, è pura propaganda marxista senza fondamento. Gli ho risposto che è chiaramente propaganda, sapientemente costruita. E come zuccherino finale, gli ho ricordato che il Washington Post sostiene le nostre politiche comuni.”
Immagini di repertorio: discorso del presidente Bush allo State of the Union del 2002:
“Lo riaffermiamo oggi. Noi scegliamo la libertà e la dignità di ogni vita.”
IN STUDIO MILENA GABANELLI
In più occasioni George Bush ha detto che la sua lettura preferita sono i Vangeli. Nei vangeli c’è una famosa definizione dell’ipocrita: ipocrita è chi rifiuta di applicare a se stesso il metro di giudizio che applica agli altri. Ma torniamo in Salvador.
AUTORE
Terroristi furono gli assassini del cosiddetto santo protettore dei poveri salvadoregni, il Monsignor Oscar Romero, ucciso in questa chiesa nel marzo del 1980, ma anche questi godettero della protezione americana, a partire dal maggiore Roberto D’Aubuisson, il mandante dell’omicidio.
Documento di Stato:
“L’ex Ambasciatore americano in Salvador Robert White ha dichiarato che l’amministrazione statunitense sapeva da tre anni che Roberto D’Aubuisson aveva pianificato e ordinato l’assassinio di Monsignor Romero, e che per tre anni l’amministrazione Reagan aveva soppresso quei fatti.”
AUTORE
D’Aubuisson era un terrorista, e a Washington non potevano dire di non saperlo. Infatti lo scrisse lo stesso Elliot Abrahams al segretario di Stato americano, nero su bianco.
Documento di Stato:
“Nel tabulato 2 si trova un memorandum del novembre 1984 che riassume informazioni segrete sui collegamenti di D’Aubuisson col terrorismo.”
AUTORE
Gli occhi di un altro testimone. Capo di Stato Maggiore della Difesa del Salvador negli anni del terrore, il generale Blandon ci rivela cose gravi: secondo lui i soldati americani parteciparono ad azioni con le truppe salvadoregne e agirono nella totale illegalità.
GEN. ONECIFERO BLANDON – Ex Capo di Stato Maggiore esercito del Salvador
Erano consiglieri militari americani inviati qui e che con il consenso dei nostri vertici, parteciparono a diverse operazioni sul campo. Questo è certo, lo confermo personalmente. E’ stata una vera fortuna che nessuno di questi militari americani fosse mai ucciso né ferito in combattimento.
DAVID MAC MICHAEL – ex agente della CIA, zona operativa Centro America.
Il numero di consiglieri militari americani in Salvador, se ricordo bene, non avrebbe dovuto superare i 60, secondo quanto stabilito dal Congresso, ma segretamente mi risulta che fossimo più di 500 laggiù.
GEN. ONECIFERO BLANDON – Ex Capo di Stato Maggiore esercito del Salvador
Io non so se si rendevano conto di violare i diritti umani, ma sono certo che loro agivano senza il consenso dell’ambasciata americana. Erano iniziative personali di soldati statunitensi, puro volontariato militare.
Erano affezionati alla guerra e non perdevano l’opportunità di combattere; per loro combattere era una specie di sport.
AUTORE
Difficile credere che 500 soldati dell’esercito americano combattessero senza direttive dall’alto. In ogni caso perché non furono mai indagati?
D – Ma voi vedevate la presenza degli americani qui?
RUFINA AMAYA – Sopravvissuta a El Mozote
Sì, io li vedevo, e soprattutto durante la mia fuga, dopo la strage, mentre vivevo nella boscaglia, vidi due cadaveri; erano soldati americani, erano grandi e alti, diversi dai salvadoregni, ed è per questo che li riconobbi.
AUTORE
Oggi il Salvador appare come un Paese pacificato, ma il lascito degli anni del terrorismo di Stato è come un velo che opacizza la vita di tutti qui. Il paesaggio poi inquieta. Queste città sono la brutta copia dell’America di provincia, costellate di fast food e ipermercati in puro stile USA sullo sfondo della solita povertà estrema e tutto qui sembra essere stato prodotto negli Stati Uniti e importato da là. E allora viene spontanea una domanda: il nostro terrorismo, quello voluto o appoggiato dai paesi democratici, è servito davvero a garantire i nostri investimenti nel sud del mondo? E’ una domanda che rivolgo a chi ha i titoli per rispondere, poiché è professore emerito di finanza alla prestigiosa Warton School della Pennsylvania University, ed è inoltre l’autore di questo libro, “Il vero network del terrore”.
EDWARD HERMAN – Pennsylvania University
Tutte le ragioni politiche che si sono date per l’egemonia occidentale nel mondo sono il corollario di quelle economiche. L’occidente è business e il business deve espandersi. Per espandersi in condizioni favorevoli richiede accettazione del libero mercato, soppressione dei sindacati e liberi investimenti, e li pretende dalla classe politica. Fu così dal Cile di Pinochet all’Indonesia di Suharto o nelle Filippine del dittatore Marcos, che appena giunto al potere disse pubblicamente agli americani: “Ditemi che leggi volete e io ve le farò”. Ecco la ragione dell’appoggio al terrore militare, perché solo col terrorismo su scala globale si potevano tacitare milioni di persone contrarie a queste politiche.
D – Ma se lei dicesse all’americano medio che il suo paese ha praticato e sostenuto il terrorismo, lei pensa che verrebbe creduta?
SUOR TERESA ALEXANDER – Ordine Sorelle Maryknoll, San Salvador
No, non mi crederebbero, loro non riescono a credere alle cose che abbiamo fatto ad altri paesi.
AUTORE
Il presidente George W. Bush e il premier Britannico Blair hanno più volte tuonato contro i Paesi che forniscono sostegno ai terroristi. Ma America e Inghilterra sono accusati di aver armato e sostenuto il terrore che ha devastato e ancora devasta il sud est turco.
AUTORE
Negli anni novanta il governo turco scatenò una campagna di terrore contro la minoranza curda nel sud est del paese. Il pretesto era sempre lo stesso, la contro-insurrezione per eliminare il PKK, un gruppo di guerriglieri e talvolta terroristi curdi noti per i loro violenti metodi. Ma cosa c’entravano i civili, le donne e i bambini? Due milioni di civili curdi furono cacciati dalle loro case, furono torturati, ammazzati, incarcerati. L’efferatezza di Ankara giunse al punto che nel 1994 lo stesso ministro turco Azimet Koyluoglu dichiarò che quei metodi equivalevano a terrorismo di stato. Human Rights Watch di Londra, fra le più rispettate organizzazioni per i diritti umani del mondo, denuncia.
JONATHAN SUGDEN – Human Rights Watch – Londra
Le forze speciali dell’esercito bruciarono e distrussero 3.600 villaggi, con un esodo di rifugiati drammatico, dopo avergli sterminato il bestiame su cui dipendevano per sopravvivere. Quello che accadde nel Curdistan turco negli anni novanta fu senza dubbio voluto da Ankara. Va aggiunto che quella repressione si assommava alla ordinaria brutalità inflitta ai civili curdi dal governo, fra cui le torture dei carcerati. Fra il 1990 e il 1995 la tortura fu usata sistematicamente, e sappiamo di almeno 90 persone torturate a morte laggiù.
AUTORE
Due milioni di rifugiati, villaggi distrutti, manifestanti selvaggiamente picchiati e arrestati, torture, sparizioni.
NOAM CHOMSKY – MIT Boston
Nel solo anno 1997, sotto l’amministrazione del presidente Clinton, Washington vendette più armi alla Turchia di quanto abbia mai fatto nell’intero periodo della guerra fredda. E questo non è chiudere un occhio di fronte alle atrocità, questa è partecipazione entusiasta in alcuni dei peggiori atti di terrorismo contro civili di tutti gli anni novanta.
AUTORE
Nel 1995 Human Rights Watch pubblicava e inviava ai nostri governi il seguente rapporto, dove si legge:
Documento di Stato:
“Gli Stati Uniti hanno riversato armi potenti nell’arsenale turco per anni, divenendo complici in una campagna di terra bruciata che viola le norme più fondamentali della legge internazionale.”
“Human Rights Watch è arrivato alla conclusione che gli Stati Uniti d’America sono profondamente implicati nelle azioni di contro insurrezione del governo turco attraverso la fornitura di armi e il sostegno politico, pur essendo consapevoli degli abusi che vengono commessi.”
AUTORE
Oltre agli americani, il sostegno principale viene dalla Germania e dall’Inghilterra: ecco la lista di armi vendute ad Ankara dal governo laburista di Tony Blair.
E questo è il rapporto del Dipartimento di Stato Americano sulla Turchia, che contiene chiare ammissioni.
Documento di Stato:
“Armi americane sono state usate nelle operazioni contro il PKK, durante le quali sono stati commessi abusi dei diritti umani. E’ molto probabile che quelle armi furono usate durante l’evacuazione e distruzione dei villaggi.”
AUTORE
Ma alla fine del rapporto, ecco perché quel terrorismo non viene chiamato terrorismo, perché quelle torture non sono torture, perché quei morti contano di meno.
Documento di Stato:
“La Turchia continua a essere di grande importanza strategica per gli Stati Uniti. Il suo orientamento pro occidentale è essenziale per le nostre mire politiche in Medio Oriente e in Asia Centrale.”
D – Ma questa non è connivenza col terrorismo?
JONATHAN SUGDEN – Human Rights Watch – Londra
Penso che fornire armi che saranno usate per crimini contro l’umanità a tutti gli effetti è connivenza in quei crimini.
Immagini di repertorio tratte da servizi giornalisti su Timore Est di vari telegiornali
AUTORE
Alcuni ricorderanno che alla fine dell’estate del 1999 i nostri telegiornali parlarono della piccola isola indonesiana di Timor Est, che proprio in quei giorni votava in un referendum per staccarsi dall’Indonesia, che l’aveva invasa e occupata nel 1975. Poche notizie, un nome ignoto ai più, Timor Est.
AUTORE
Le squadre della morte anti indipendentiste, con l’appoggio dell’esercito di Jakarta, scatenarono un regno di terrore prima e dopo il referendum, dove il 78% dei timoresi dell’est diranno sì all’indipendenza dall’Indonesia. Furono sterminati 4.000 civili e mezzo milione di timoresi fuggì sulle montagne. E mentre laggiù scorreva sangue, Londra faceva affari.
Immagini documenti su vendita armi inglesi agli indonesiani:
esportazioni inglesi di armi all’indonesia, 1997-2002, totale 390 milioni di sterline. ditte coinvolte: heckler, alvis, land rover, gkn, coultards.
AUTORE
Come si è detto, era dal 1975 che Timor est era stata illegalmente occupata dall’Indonesia del generale Suharto, quello che aveva sterminato più di un milione di civili dieci anni prima. Nel 1975 a Timor est Suharto si accontentò e ne ammazzò 200.000.
MARK CURTIS – Storico Royal Institute of International Affairs – Londra
Negli anni successivi all’invasione di Timor Est, mentre le stragi stavano causando le migliaia di morti che oggi sappiamo, Londra aumentò vertiginosamente il suo sostegno militare al regime, arrivando cinque anni dopo a essere il secondo fornitore mondiale di armi a Jakarta.
AUTORE
L’America, come nel 1965, partecipò a quella sanguinosa pagina di storia. Ma soprattutto, prima di invadere illegalmente Timor Est, Suharto chiese il permesso al presidente americano Ford e al suo segretario di Stato Kissinger, che acconsentirono apertamente.
Documento di Stato:
“Consiglio Per La Sicurezza Nazionale, Washington, Armi americane usate durante l’invasione: due fregate coinvolte nei bombardamenti su Timor Est, cinque mezzi da sbarco US511, cinque aerei da trasporto truppe C47, 8 Hercules C130. Sia la diciassettesima che la diciottesima brigata aerotrasportata indonesiane sono totalmente sostenute e addestrate dai nostri militari.”
Documento di Stato:
Suharto: “Noi desideriamo la vostra comprensione se dovessimo decidere di agire rapidamente e drasticamente.”
Ford: “Noi comprenderemo e non le faremo pressioni su questo. Capiamo il suo problema e le sue intenzioni.”
AUTORE
Kissinger aggiunse:
Documento di Stato:
Kissinger: “E’ importante che qualsiasi cosa lei faccia abbia un rapido successo. Potremo influenzare le reazioni in America se qualsiasi cosa succeda accada dopo il nostro ritorno. Il presidente arriverà lunedì alle
due del pomeriggio ora di Jakarta.”
AUTORE
Al decollo dell’aereo presidenziale americano scattò l’invasione e il seguente massacro di 200.000 esseri umani. Questo fu Suharto, ma ancora nel 1995 il governo del presidente Clinton lodava questo terrorista definendolo “un tipo che fa per noi”, lo scrisse il New York Times.
IN STUDIO MILENA GABANELLI
Ritorniamo ai nostri giorni, con la Scuola della Americhe, che vedremo più avanti e con il conflitto in Cecenia, un conflitto fra Stato Russo e terroristi ceceni che dura da 8 anni. Non entriamo nel merito di chi ha torto o ragione, il punto sono i crimini contro la popolazione civile ad opera dei militari russi, crimini condannati dall’occidente per loro brutalità fino al 2001, anno in cui la Russia si è alleata con Stati Uniti e Gran Bretagna nella lotta mondiale al terrorismo. Da Ottobre del 2001 quei crimini non esistono più.
DONNA CECENA
Avevo una nipote che era incinta, aveva altri 5 figli con sé e partì da Grozny il giorno prima di me. Era su un pulmino con tanti altri, i soldati russi hanno circondato e fermato il mezzo e tirato fuori tutti i passeggeri, compresa mia nipote. Tutti i soldati l’hanno violentata uno per uno, poi hanno fatto risalire tutti a bordo e poi gli hanno dato fuoco.
AUTORE
Questa storia è solo un accenno di quanto è accaduto e accade nella Repubblica Autonoma Cecena che da dieci anni cerca l’indipendenza da Mosca. Dopo i fallimentari interventi armati di Eltsin, dal 1999 Putin decide di reprimere le mire indipendentiste della Cecenia usando i mezzi del terrore su larga scala e facendo terra bruciata. Da qui nascono i gruppi terroristici kamikaze che la Russia cerca disperatamente di eliminare. Le vittime come vedremo sono i civili.
DONNA CECENA
I russi ci chiamano terroristi, assassini, per loro tutti i Ce-ceni sono kamikaze sanguinari. Eccoli qui, li vedete, questi sono i terroristi che i russi vogliono sterminare. Siamo noi, donne e bambini, le vittime di questa sporca guerra.
VIACHESLAV IZMAILOV – Ufficiale Armata Russa
Circa ogni 3 mesi giungevano dalla Russia nuovi poliziotti e nuovi ufficiali che facevano quello che volevano, torturavano, uccidevano e poi facevano sparire le prove dei loro delitti in fosse comuni.”
AUTORE
Il terrorismo delle forze russe contro i civili ceceni è documentato per la prima volta in questo rapporto del governo ceceno filorusso e ottenuto dal quotidiano francese Le Monde. Riporta 1314 civili assassinati, si parla
di esecuzioni sommarie con i segni della tortura, 49 fosse comuni per un totale di 2.879, decessi avvenuti al di fuori di ogni scontro armato o bombardamento nel solo anno 2002.
DONNA CECENA
Ditelo nei vostri paesi, raccontate come vivono i nostri bambi-ni, come si vive qui. Prima le bombe, ora soldati dappertutto, sempre pronti a sparare e a uccidere. Non finirà mai, non finirà più.
UOMO CECENO
Erano vera-mente momenti tragici. Case squarciate, macchine in fiamme, cada-veri bruciati. Tutto era sottosopra, un mare di sangue. Erano co-sì quei momenti, i cani mangiavano i cadaveri. Ho visto tutto questo. Ma la cosa più difficile da sopportare era la crudeltà dei soldati russi.
AUTORE
Quest’uomo ha trovato un rifugio precario oltre il confine con la Georgia. Con lui sono rimasti soltanto una sorella e un nipo-tino orfano dei genitori.
UOMO CECENO
Ho accettato questa intervista perché conoscevo Antonio Russo. In questo villaggio lo conoscevamo molto bene. Soggiornava spesso qui con noi e una volta si è fermato addirittura due mesi. Gli volevamo bene perché davvero quest’uomo aveva preso a cuore le nostre sciagure. Non aveva paura dei russi, anche se poi proprio loro lo hanno ammazzato.
AUTORE
Antonio Russo, 40 an-ni, giornalista di Radio Radicale, venne barbaramente ucciso in Georgia, con il torace sfondato. Per rapina si disse subito. Ma in realtà la tecnica usata è quella tipica dei killer del KGB. E molti sono oggi convinti che Russo avesse le prove dell’uso di armi non convenzionali contro i civili ceceni da par-te dei russi. Sarebbe stata questa la ragione della sua condanna a morte.
MILITARE RUSSO IMPEGNATO IN CECECNIA
La guerra si potrebbe concludere in pochi mesi. E’ chi sta in alto che non ha interesse a finirla. Per continuare a fare soldi, a riciclare denaro sporco su armi, droghe e altre schifezze.
AUTORE
Non ci sono cifre né forse mai ci saranno sulle vittime civili dei mesi di assedio, né su quelle delle rappresaglie tuttora in corso che ha coinvolto l’intera popolazione maschile e i giovani sospettati di collaborare con il partito armato. Prima della guerra, Grozny contava mezzo milione di abitanti. Dopo il 1996, tra nuove speranze di rinascita, ne rimanevano 100mila. Sotto le bombe del 1999 e del 2000 sono sopravvissuti in poche migliaia e ancora oggi la città è chiusa alle agenzie umanitarie e agli osservatori in-ternazionali.
ANNA POLITKOVSKAJA – Novaja gazeta – Russia
Anch’io ho visto al bordo dei villaggi pezzi di corpo di persone che erano state fatte saltare in aria. Poi i militari raccontavano che quelli erano guerriglieri che avevano tentato la fuga e che si erano fatti saltare in aria. Questo è falso, perché erano persone imbottite di esplosivo dai militari e che loro facevano esplodere.
AUTORE
E questo con il plauso di gran parte dell’occidente democratico.
VALENTINA MELNIKOVA – Associazione madri militari russi – Cordinator Council
La guerra in Cecenia non è un servizio reso alla patria. I sol-dati e gli ufficiali che uccidono i ceceni non sono eroi ma cri-minali. Non dobbiamo permettere che i nostri figli diventino anch’essi responsabili di veri e propri crimini di guerra.
MARK CURTIS – Storico Royal Institute of International Affairs – Londra
Il primo ministro inglese è arrivato al punto di vantarsi in pubblico di guidare il Governo che maggiormente sostiene le politiche di Putin in Cecenia. Eppure se volesse Blair potrebbe esercitare pressioni su Mosca essendo noi inglesi fra i 5 più ricchi investitori in Russia.
AUTORE
La base americana di Fort Benning è stata la sede della Scuola delle Americhe, che avrebbe dovuto essere un normale centro di addestramento dedicato alle leve militari dell’America latina. In realtà dentro la base accadde ben altro. Ne parlo con padre Roy Bourgeois, un veterano del Vietnam che ha conosciuto gli orrori della guerra. Convertitosi al sacerdozio, padre Roy denuncia da anni la Scuola delle Americhe.
PADRE ROY BOURGEOIS – Dir. School of the Americas Watch – Fort Benning USA
Dentro quella base, a due miglia da qui c’è una fabbrica di morte. Si tratta di una scuola di combattimento che ogni anno addestra circa 1000 soldati provenienti da 18 paesi sudamericani in tecniche di commando e contro insurrezione. Questa è una scuola di assassini e di terroristi, da cui sono passati più di 60.000 ufficiali responsabili delle peggiori atrocità commesse in America latina, e il tutto a spese del contribuente americano.
AUTORE
E dalla Scuola delle Americhe passarono anche gli ufficiali del battaglione Atlacatl, quello di El Mozote, come si legge in questo documento. Ma c’è di più. Questa base insegnava il terrorismo e la repressione alla luce del sole, su manuali regolarmente stampati.
PADRE ROY BOURGEOIS – Dir. School of the Americas Watch – Fort Benning USA
Avevamo spesso sentito parlare di questi manuali segreti che venivano usati dalla Scuola delle Americhe. Oggi, grazie all’intervento del deputato Joe Kennedy e del Congresso degli Stati Uniti abbiamo saputo che quei manuali esistono veramente e sono stati usati per almeno 11 anni.
AUTORE
Eccoli. Vi si insegna come neutralizzare e cioè ammazzare i bersagli della contro-insurrezione, e nella lista nera vengono inclusi i leader politici anche solo sospettati di essere ostili alle forze armate. E poi, vi si afferma:
Documento di Stato:
“In tutti i casi la missione delle forze militari ha priorità sulla sicurezza dei civili della zona.”
AUTORE
Un dettame questo che viola in pieno la Convenzione di Ginevra e che, ricordiamolo, fu scritto e insegnato degli Stati Uniti d’America. E poi, le solite tecniche di tortura.
D – Si può argomentare che questi manuali furono il prodotto di agenti deviati all’interno dei servizi americani, che hanno creato imbarazzo nei governi, o c’era una direttiva dall’alto?
DAVID MAC MICHAEL – ex agente della CIA, zona operativa Centro America.
No, questi manuali erano ordinaria amministrazione. E’ una vergogna che il Congresso degli Stati Uniti e la commissione di controllo fossero al corrente e abbiano ignorato la cosa fino all’ultimo.
Immagini di repertorio: discorso del presidente Bush allo State of the Union del 2002:
“Prima cosa, noi distruggeremo i campi di addestramento dei terroristi, gli rovineremo i piani e li porteremo davanti alla giustizia.”
Immagini di repertorio: discorso del primo ministro inglese Tony Blair
“Siamo tanto più potenti dei terroristi, ma nonostante il nostro potere, ci viene insegnata l’umiltà. Non sarà solo il nostro potere a sconfiggere quel male, la nostra arma finale non saranno I nostri fucili, ma i nostri valori.”
IN STUDIO MILENA GABANELLI
Per sconfiggere quel male, la nostra arma finale non saranno i nostri fucili, ma i nostri valori dice giustamente Tony Blair. Chi subisce la legge del più forte aspetta che quei valori vengano applicati. Per vincere una guerra nella quale siamo tutti potenziali vittime occorre il ripristino di un decalogo morale, senza il quale, non potremo più dire di essere dalla parte dei giusti.
Escuela de las Américas(S.O.A.): Il lupo perde il pelo ma…
La famigerata S.O.A. ha recentemente effettuato una operazione di immagine cambiando nome e inserendo alcune modifiche ai programmi. Nei due articoli che seguono la storia della Escuela de las Americas e gli attuali dubbi degli oppositori sul processo di rinnovamento.
LA “ESCUELAS DE LAS AMERICAS” INSEGNO’ AI MILITARI LATINO AMERICANI A TORTURARE ED ASSASSINARE
Antonio Caño – El Pais
Decine di anni dopo che i movimenti di sinistra di tutto il mondo lo denunciassero, gli Stati Uniti hanno ora riconosciuto che la loro celebre “Escuela de las Americas” servì ad addestrare migliaia di militari latino americani alla tortura, al ricatto e all’assassinio. Fra di loro, secondo documenti segreti dati a conoscere dal Pentagono, c’erano 19 dei soldati salvadoregni che presero parte alla morte nel 1989 di Padre Ignacio Ellacuria e altri cinque sacerdoti gesuiti dell’Università Centroamericana. I più sinistri sistemi di allenamento insegnati dalla Escuela de las Americas, in accordo con i documenti ufficiali, sono raccolti in un piano degli anni sessanta denominato Programma di Assistenza e Spionaggio per Eserciti Stranieri, però più conosciuto come Progetto X. In esso, secondo l’estratto che consta di un testo del Dipartimento di Difesa, si insegnava ad usare “la paura, il pagamento di ricompense per la morte dei nemici, la tortura, le false detenzioni, le esecuzioni e l’uso del siero della verità”. Fra gli ex alunni della scuola figurano il maggiore Roberto D’Aubuisson, responsabile della creazione degli squadroni della morte in Salvador, il generale Manuel Antonio Noriega, attualmente detenuto per narcotraffico negli Stati Uniti e il colonnello Julio Roberto Alpírez, accusato di innumerevoli assassinii di guerriglieri e presunti collaboratori della guerriglia in Guatemala, incluso un nord americano. Durante i suoi 50 anni di esistenza, attraverso questa istituzione sono passati migliaia di militari di 11 paesi del Centro America e Sud America. La Escuela de las Americas rimase nelle basi nord americane di Panama fino al suo trasferimento, nel 1984, a Fort Benning, in Georgia. Giovedì notte, poco dopo che il Pentagono rendeva pubblici i documenti citati, il membro del Congresso Joseph Kennedy, un duro critico delle attività della Escuela, chiese la sua chiusura immediata. “I dati rivelati”, afferma una nota resa pubblica dal membro del Congresso, “provano quello che per tanto tempo si è sospettato: che il denaro dei contribuenti è stato utilizzato per addestrare all’abuso fisico”. I documenti conosciuti ieri sono il risultato di ciò che è filtrato da una indagine interna che il Pentagono ha fatto nel 1992. Venerdì notte il Pentagono rese pubblici i risultati di questa indagine, nella quale si afferma che la Escuela utilizzò sistemi “che non avevano avuto la necessaria approvazione dottrinale”, così come alcuni dei manuali usati nell’addestramento dei militari latino – americani. Uno di questi manuali, intitolato “El manejo de las fuentes” ( l’uso delle fonti), afferma che “gli agenti di controspionaggio possono procedere alla detenzione dei padri degli impiegati (termine con cui si definiscono gli informatori), la detenzione dell’impiegato o la sua “bastonatura” per ottenere informazioni. Un altro manuale, che si riferisce a Terrorismo e guerriglia urbana, insegna: “Una delle funzioni degli agenti è quella affidare obiettivi di controspionaggio per la loro neutralizzazione. Alcuni esempi di questi obiettivi sono funzionari del Governo e leaders politici”. Un funzionario del Pentagono consultato dal quotidiano The Washington Post chiarì che la parola “neutralizzare” equivale in questi manuali all’assassinio di una persona. Il Dipartimento di Difesa ha assicurato che, come risultato dell’indagine del 1992, tutti questi manuali sono stati ritirati dalla Escuela che oggi opera, secondo il Pentagono, conforme a strette norme di rispetto dei diritti umani. Nonostante che l’indagine del 1992 scoprì l’uso di metodi tanto brutali, la relazione ufficiale assicura che non si sono trovate prove del fatto che questo facesse parte di una “intenzione deliberata di violare le norme di condotta” delle Forze Armate degli Stati Uniti. Il manuale El manejo de las fuentes, raccomanda che alcune delle attività di controspionaggio siano realizzate in forma “clandestina”, che pare essere la base sulla quale agiscono le Forze Armate dell’Argentina, del Cile e di altri paesi del continente nella creazione di squadroni della morte e nella pratica di far scomparire i detenuti politici. Migliaia di persone sono scomparse in America Latina nei decenni dei regimi militari dopo essere stati sequestrati dal personale dell’Esercito.
(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)
LA SCUOLA DEGLI ASSASSINI SI RIFÀ IL TRUCCO. MA NON INCANTA NESSUNO.
FONTE: ADISTA
Un’operazione di pura cosmesi, una presa in giro, un semplice cambiamento di nome. Così gli oppositori alla “Escuela de las Americas” (Soa) – l’accademia militare di Fort Benning in Georgia, nel sud degli Stati Uniti, nota anche come scuola degli assassini per l’alto numero di dittatori, torturatori e criminali che vi sono stati addestrati – hanno interpretato l’annuncio della chiusura della scuola militare, avvenuta il 15 dicembre, e la sua riapertura il 17 gennaio sotto altro nome, quello di “Istituto dell’Emisfero Occidentale per la Cooperazione alla Sicurezza”, e con altri programmi. La ex Scuola delle Americhe, creata ufficialmente a Panama nel 1946 e trasferitasi nel 1984 negli Stati Uniti, “chiude” lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue. Vi si sono diplomati più di 60mila militari, da cui sono usciti 11 presidenti, 40 ministri della Difesa e 75 comandanti in capo delle Forze Armate. Sono passati per la scuola, tra gli altri, più della metà dei responsabili delle atrocità avvenute in Colombia, più di due terzi dei militari citati nel rapporto della Commissione per la Verità sui crimini commessi in El Salvador, tra cui il maggiore Roberto D’Aubuisson (indicato come mandante dell’omicidio dell’arcivescovo Oscar Romero) e 19 dei 26 militari implicati nel massacro della Uca. Tra gli “eroi” della scuola – quelli che più hanno preso sul serio la scritta posta all’ingresso: “Sono lo spirito della Scuola delle Americhe. Sto tra quegli uomini che anelano ad arrestare il comunismo nelle Americhe” – risaltano i nomi degli ex dittatori argentini Roberto Viola e Leopoldo Galtieri, dell’ex dittatore e oggi presidente della Bolivia Hugo Banzer, dell’ex dittatore guatemalteco Efraín Ríos Montt, dell’ex dittatore panamense Manuel Antonio Noriega, nonché, ultimo tra gli alunni più brillanti, Vladimiro Montesinos, l’ex consigliere – destituito per corruzione – dell’ex presidente peruviano Fujimori. Ma sono solo “alcune mele marce”, secondo il segretario dell’esercito Louis Caldera. Mentre a giudizio del comandante della Soa, il colonnello Glenn Weidner, se “non si può negare che alcuni abbiano commesso abusi”, sostenere “che è stata la loro permanenza nella scuola a renderli capaci di ciò è falso”. Lo sostiene invece, e con convinzione, il direttore per l’America Latina dell’organizzazione non governativa Human Rights Watch José Manuel Vivanco: “La scuola – afferma – ha insegnato e perfezionato in alto grado la dottrina della sicurezza nazionale in tutta l’America Latina. Questa dottrina è servita per giustificare una lotta senza quartiere, senza alcun limite, contro ciò che all’epoca si intendeva per comunismo”. Con la caduta del Muro di Berlino e la fine della guerra fredda la scuola ha poi riformulato i suoi obiettivi, individuando nel narcotraffico il nuovo nemico da combattere, ma continuando a definire “una minaccia persistente” il rischio di insurrezioni. Quanto al “nuovo” istituto, esso non dipenderà più dall’esercito statunitense, ma dal Ministero della Difesa. Avrà tra i suoi corsi quelli sullo sminamento, le operazioni antidroga, la reazione ai disastri naturali, le operazioni di pace, i diritti umani, il diritto internazionale. E avrà come obiettivo quello di offrire una formazione professionale “nel contesto dei principi democratici stabiliti nella Carta dell’Organizzazione degli Stati Americani” e diretta a promuovere “la fiducia e la cooperazione mutua tra le nazioni”, nonché “i valori democratici, il rispetto per i diritti umani, la conoscenza e la comprensione dei costumi e delle tradizioni degli Stati Uniti”. A non credere affatto ad una trasformazione reale della scuola è il sacerdote della congregazione di Maryknoll Roy Bourgeois, fondatore dell’organizzazione School of Americas Watch, in prima fila nella lotta per la chiusura dell’istituto militare: “Per noi – ha affermato in un’intervista concessa a “Pagina 12″ del 17 dicembre – continua ad essere una scuola di assassini perché i corsi di combattimento non sono terminati” e alla riapertura dell’istituto “non vi sarà nulla di nuovo: ci sono gli stessi soldati, gli stessi istruttori, gli stessi corsi in operazioni di comando, di intelligence militare. (…) Chiaro, hanno inserito alcune ore di diritti umani, ma i soldati che arrivano qui non vengono a studiare diritti umani, bensì ad imparare come difendere un sistema in cui le risorse e il potere sono nelle mani dei ricchi”. La scuola, secondo Bourgeois, serve precisamente a questo: ad assicurare che i militari latinoamericani continuino a proteggere gli interessi economici statunitensi. Se anche la chiusura fosse stata definitiva, poi, sarebbe comunque avvenuta, ha sottolineato Bourgeois, “senza nessun riconoscimento, nessuna richiesta di scuse, senza nemmeno un’assunzione di responsabilità per quello che i suoi alunni hanno fatto in El Salvador, Perù, Guatemala e Cile”. Ci avevano provato alcuni congressisti democratici, in realtà, a chiedere un’indagine parlamentare sull’impatto della Soa rispetto alle violazioni dei diritti umani in America Latina. Ma l’emendamento al progetto di legge che ha portato al cambiamento del nome della scuola (tra l’altro con un stretto margine: 214 voti a favore e 204 contro) è stato respinto dalla maggioranza del Congresso.[…] Erano più di 11mila persone, lo scorso 19 novembre, a manifestare di fronte alla scuola e in più di 3.600 hanno oltrepassato il limite consentito entrando nella base: un’azione di massa di disobbedienza civile che ha portato all’arresto di circa 2000 manifestanti.
Israele, gli USA e l’Iraq
Edward Said Traduzione di Juliet Capuleti
Quello che abbiamo bisogno di ripristinare è un modello universalistico per comprendere e affrontare Saddam Hussein e Sharon, e di tutto uno stuolo di paesi le cui devastazioni vengono tollerate senza opporre sufficiente resistenza. Il 4 giugno del 1982 numerose aree del Libano subirono pesanti bombardamenti da parte di arerei miliari israeliani. Due giorni dopo l’esercito di Israele penetrò in Libano dal confine meridionale. Menachem Begin era il primo ministro, Ariel Sharon il suo ministro della difesa. La ragione immediata dell’invasione fu l’attentato all’ambasciatore israeliano a Londra, ma allora, come adesso, Begin e Sharon ne attribuirono la responsabilità all'”organizzazione terrorista” dell’OLP, le cui forze nel Libano meridionale in realtà osservavano un cessate il fuoco da circa un anno. Qualche giorno più tardi, il 13 giugno, Beirut era sotto l’assedio militare israeliano, nonostante a inizio campagna il portavoce del governo israeliano avesse sostenuto di non voler spingersi oltre il fiume Awali, a 35 chilometri a nord del confine. In seguito sarebbe emerso in modo inequivocabile che Sharon stava tentando di uccidere Yasser Arafat, bombardando tutto ciò che stava attorno all’impudente leader palestinese. Oltre all’assedio c’era il blocco degli aiuti umanitari; le forniture di acqua e di elettricità erano state sospese e una campagna serrata di bombardamenti aerei aveva distrutto centinaia di edifici a Beirut. A metà agosto, quando si concluse l’assedio, si contarono 18.000 morti palestinesi e libanesi, la maggior parte dei quali civili. Sin dalla primavera del 1975, il Libano era lacerato da una terribile guerra civile tra, da una parte, le milizie Cristiane di destra, e, dall’altra, i musulmani di sinistra e i gruppi nazionalisti arabi. Anche se Israele aveva inviato il suo esercito in Libano soltanto una volta prima del 1982, era stato subito reclutato come alleato dalle milizie cristiane di destra. Con una roccaforte a Beirut Est, le milizie cristiane cooperarono con le forze di Sharon per tutta la durata dell’assedio, che si concluse il 12 agosto, dopo un’agghiacciante giornata di bombardamenti indiscriminati, e, naturalmente, i massacri di Sabra e Shatila. Il principale alleato di Sharon era Bashir Gemayel, capo del partito della Falange, che il 23 agosto il parlamento aveva eletto presidente del Libano. Gemayel odiava i palestinesi per essere sconsideratamente entrati nella guerra civile a fianco del Movimento Nazionale, un’estesa coalizione di partiti di sinistra e di partiti nazionalisti arabi che comprendeva Amal, un precursore dell’odierno movimento dell’Hizbullah Scita, il quale avrebbe svolto un ruolo fondamentale nella cacciata degli israeliani nel maggio del 2000. Alla prospettiva di un diretto vassallaggio nei confronti di Israele, dopo che era stato l’esercito di Sharon ad averlo effettivamente fatto eleggere, Gemayel a quanto pare fece marcia indietro. Fu assassinato il 14 settembre. Due giorni dopo iniziarono i massacri dentro un cordone di sicurezza fornito dall’esercito israeliano, per consentire ai vendicativi estremisti cristiani di Gemayel di svolgere indisturbati il loro terribile lavoro nei campi di Sabra e Shatila. Con la supervisione dell’ONU e naturalmente degli USA, le truppe francesi erano entrate a Beirut in agosto. Poco più tardi sarebbero state raggiunte dalle forze statunitensi e di altri paesi europei, benché già dal 21 agosto i combattenti dell’OLP avevano cominciato ad evacuare il Libano. L’evacuazione si concluse il primo settembre e Arafat con un piccolo gruppo di consiglieri e di soldati furono alloggiati a Tunisi. Nel frattempo la guerra civile libanese continuò fino circa al 1990, quando, a Taif, fu stilato un concordato comune che più o meno restaurava il vecchio sistema confessionale a tutt’oggi in vigore. Verso la metà del 1994, Arafat, ancora a capo dell’OLP, e alcuni di quegli stessi consiglieri e soldati riuscirono a entrare a Gaza grazie ai cosiddetti accordi di Oslo. All’inizio di quest’anno Sharon avrebbe detto di sentirsi rammaricato per non essere riuscito ad uccidere Arafat a Beirut. Certamente non per non averci provato; decine di nascondigli e di quartier generali sono stati ridotti in macerie con grosse perdite umane nel tentativo di stanarlo. I fatti del 1982 hanno consolidato negli arabi la convinzione non solo che Israele avrebbe usato una tecnologia avanzata (aerei, missili, carri armati ed elicotteri) per attaccare i civili in maniera indiscriminata, ma anche che né gli USA né i governi arabi avrebbero fatto nulla per fermare gli attacchi, anche se questi avrebbero significato prendere di mira i leader e le capitali. (Per maggiori dettagli su questo episodio vedi Rashid Khalidi, Under Siege, New York 1986; Robert Fisk, Pity the Nation, London 1990; più specificamente sulla guerra civile in Libano, Jonathan Randall, Going All the Way, New York, 1983). Così si concluse il primo vero e proprio tentativo militare dei nostri tempi di cambiamento di regime da parte di un paese sovrano contro un altro in Medio Oriente. Lo cito come sfondo caotico a quello che sta succedendo in questo momento. Oggi Sharon è il primo ministro di Israele, i suoi eserciti e la sua macchina propagandistica ancora una volta accerchiano Arafat e i palestinesi ne offrono l’immagine disumanizzata di “terroristi”. Vale la pena ricordare che la parola “terrorista” cominciò ad essere impiegata sistematicamente da Israele a metà degli anni ’70 per descrivere qualsiasi azione di resistenza da parte dei palestinesi. Da allora questa è stata la regola, specialmente durante la prima Intifada del 1987-93, con il risultato di eliminare la distinzione tra resistenza e puro terrore e, di fatto, depoliticizzare le ragioni della lotta armata. Durante gli anni ’50 e ’60 Ariel Sharon si fece un nome, per così dire, guidando l’infame Unità 101, che fece vittime tra i civili arabi e rase al suolo le loro case con l’approvazione di Ben-Gurion. Questi era incaricato della pacificazione di Gaza tra il 1970 e il 1971. Nessuna di queste azioni, compresa la campagna del 1982, è mai riuscita a scacciare il popolo palestinese, o a cambiare con mezzi militari i confini territoriali o a rovesciare il regime al punto da assicurare a Israele una completa vittoria. La differenza principale tra il 1982 e il 2002 è che oggi i palestinesi sono assediati proprio in quei territori palestinesi che nel 1967 erano occupati da Israele e nei quali sono rimasti nonostante le devastazioni causate dall’occupazione, il tracollo dell’economia, e di tutta l’infrastruttura civile della vita collettiva. L’analogia principale sta negli spropositati mezzi impiegati, per esempio le centinaia di carri armati e di bulldozer usati per entrare nelle città e in villaggi come Jenin o in campi profughi come quelli di Jenin e Deheisheh, per uccidere, per annientare, per impedire alle ambulanze e agli operatori del pronto soccorso di recare aiuti, per tagliare l’acqua e l’elettricità e così via. Il tutto con il sostegno degli USA, il cui presidente è arrivato a chiamare Sharon “uomo di pace”, proprio durante i terribili scontri del marzo e dell’aprile del 2002. L’intenzione di Sharon sia andata ben oltre quella di “estirpare il terrore”: i suoi soldati hanno distrutto tutti i computer e portato via i file e gli hard drive dall’ufficio centrale di statistiche, dal ministero dell’istruzione, della finanza, della sanità, dai centri culturali, arrecando danni a funzionari e biblioteche, il tutto con lo scopo di riportare la vita collettiva dei palestinesi a un livello di pre-modernità. Non voglio ripetere le mie critiche alle tattiche di Arafat, o ai fallimenti del suo deplorabile regime durante e dopo i negoziati di Oslo. L’ho già fatto diffusamente qui e altrove. Inoltre, mentre scrivo, l’uomo si sta letteralmente aggrappando alla vita con i denti; i suoi quartieri ridotti in macerie a Ramallah sono ancora assediati mentre Sharon sta facendo il possibile per ferirlo, senza tuttavia farlo uccidere. Quello di cui mi interessa discutere è il concetto di un cambiamento di regime come prospettiva allettante da parte di individui, ideologie e istituzioni che sono enormemente più potenti dei loro avversari. In base a quale ragionamento è possibile concepire l’idea che una grande potenza militare possa autorizzare un cambiamento politico e sociale di proporzioni in passato inimmaginabili, e di farlo senza troppo preoccuparsi dei danni su vasta scala che tali cambiamenti di necessità comportano? E come possono le prospettive di un limitato rischio di vittime di guerra (dalla propria parte) nutrire sempre nuove fantasie di attacchi chirurgici, di guerra pulita, di campi di battaglia ad alta tecnologia, di creazione di nuovi profili territoriali, di istituzione della democrazia e cose del genere, mentre si alimentano idee di onnipotenza, di colpi di spugna al passato, di controllo su ciò che conta per la “nostra” parte? Durante l’attuale campagna americana per il cambiamento di regime in Iraq, è il popolo iracheno, la maggior parte del quale ha pagato un prezzo terribile in povertà, malnutrizione e malattie a conseguenza dei dieci anni di sanzioni, che è scomparso. Tutto ciò è perfettamente coerente con la politica americana in Medio Oriente, che è costruita su due pilastri: la sicurezza di Israele e le enormi forniture di petrolio a buon mercato. Il complesso mosaico di tradizioni, religioni, culture, etnie e storie che costituiscono il mondo arabo, soprattutto in Iraq, nonostante l’esistenza di stati-nazione con arcigni e dispotici governanti, non hanno alcun valore per gli strateghi statunitensi e israeliani. Con la sua storia di 5000 anni, l’Iraq oggi è considerato una “minaccia” per i suoi vicini, cosa che, nella attuale condizione di debolezza e nello stato di assedio in cui versa il paese, è pura idiozia, o, idiozia ancora più grossa, una “minaccia” alla libertà e alla sicurezza degli Stati Uniti. Non ho intenzione qui di aggiungere la mia condanna di Saddam Hussein in quanto essere terribile: darò per scontato che egli certamente meriti di essere rimosso e punito, soprattutto perché rappresenta una minaccia per la sua stessa gente. Eppure, dal periodo precedente la prima guerra del golfo, l’immagine dell’Iraq come un paese arabo grande, prospero e vario, è scomparsa; l’immagine che circola sia nei media che nei dibattiti politici è quella di una landa desolata abitata da bande di bruti capeggiate da Saddam. Del fatto che lo svilimento dell’Iraq, per esempio, abbia quasi rovinato l’industria editoriale araba (l’Iraq forniva il più alto numero di lettori nel mondo arabo); che l’Iraq era uno dei pochi paesi arabi con un’ampia classe media di professionisti istruiti e competenti; che questo paese abbia petrolio, acqua e terra fertile; che sia sempre stato il centro culturale del mondo arabo (l’impero Abbasid con la sua grande letteratura, filosofia, architettura, scienza e medicina ha fornito il grande contributo iracheno alla base della cultura araba); del fatto che la ferita aperta della sofferenza degli iracheni, così come il calvario palestinese, è stata una fonte di continuo dolore per gli arabi e i musulmani – nessuno mai ne parla. Si parla, però, delle vaste riserve petrolifere irachene, e della possibilità che, se “noi” le strappassimo a Saddam e ne assumessimo il controllo, non dipenderemmo così tanto dal petrolio Saudita. Anche di questo fatto si parla poco nei vari dibattiti che spaccano il Congresso americano e i media. Ma vale la pena ricordare che, dopo l’Arabia Saudita, l’Iraq ha le più vaste riserve petrolifere sul pianeta e che una quantità di petrolio per un valore i circa 1.1 trilioni di dollari -gran parte del quale già destinato da Saddam alla Russia, alla Francia e a pochi altri paesi-sono un obiettivo primario della strategia statunitense, cosa che il Congresso Nazionale Iracheno ha usato come asso nella manica con i consumatori di petrolio non statunitensi. (Per maggiori dettagli su questo punto, vedi Michael Klare, “Oiling the Wheels of War,” The Nation, 7 ottobre). Gran parte delle contrattazioni tra Putin e Bush verte su quanta percentuale di quel petrolio le compagnie statunitensi sono disposte a promettere alla Russia. Tutto ciò ci riporta curiosamente indietro ai quattro bilioni di dollari offerti da Bush Senior alla Russia. Entrambi i Bush sono dopotutto uomini di affari che operano nel campo del petrolio, e sono più sensibili a questo tipo di calcoli che ai cavilli della politica mediorentale, come la nuova devastazione delle infrastrutture dei civili in Iraq. Così il primo passo nella disumanizzazione dell’odiato Altro consiste nel ridurre la sua esistenza a poche frasi, immagini, concetti insistentemente ripetuti. Questo rende più semplice bombardare senza scrupoli il nemico. Dopo l’undici settembre, è stato abbastanza semplice farlo per Israele e gli Stati Uniti, rispettivamente con i popoli palestinese e iracheno. La cosa importante da notare è gli americani e israeliani fanno la stessa politica e propongono gli stessi severi piani d’azione in uno, due o tre fasi. Negli Stati Uniti, come Jason Vest ha scritto nel The Nation (settembre 2/9), il Pentagono e le commissioni di Dipartimento di Stato, inclusa quella gestita da Richard Perle (nominato da Wolfowitz e Rumsfeld) sono piene di uomini dell’Istituto Ebraico per la Sicurezza Nazionale (JINSA) e del Centro della Politica di Sicurezza (CSP), entrambi di estrema destra. La sicurezza israeliana e quella americana sono identificate, e il JINSA spende il “grosso del suo bilancio mandando in Israele frotte di generali e ammiragli statunitensi in pensione”. Quando ritornano, questi scrivono editoriali e vanno in televisione a propagandare la linea Likud. Nel numero del 23 agosto, intitolato “Dentro il Consiglio di guerra segreto”, il settimanale Time ha pubblicato un pezzo sul Comitato di Politica di Difesa del Pentagono, molti dei cui membri provengono dal JINSA e dal CSP. Da parte sua, Sharon ripete stancamente che la sua campagna contro il terrorismo palestinese è identica alla guerra americana al terrorismo in generale, a Osama Bin Laden e ad Al Qaeda in particolare. E questi, sostiene, fanno a loro volta parte della stessa Internazionale Terrorista che comprende molti musulmani in tutta l’Asia, l’Africa, l’Europa, e il Nord America, anche se l’asse del male di Bush sembra per il momento essersi concentrato in Iraq, Iran e Nord Corea. Sono 132 oggi i paesi con una presenza militare americana, tutti legati alla guerra al terrore, che rimane indefinita e nebulosa tale da scatenare ulteriormente l’esaltazione patriottica, la paura e l’appoggio all’azione militare sul fronte domestico, dove le cose vanno di male in peggio. Tutte le più importanti aree della striscia di Gaza sono occupate da truppe israeliane che sistematicamente uccidono e/o fermano i palestinesi perché “sospetti” terroristi o militanti; allo stesso modo, case e negozi sono spesso abbattuti col pretesto che ospitano fabbriche di ordigni, celle terroristiche e ritrovi di militanti. Non vengono fornite prove, né ne vengono richieste dai giornalisti che accettano senza commenti la versione unilaterale degli israeliani. Un’immensa coltre di mistificazioni e astrazioni è dunque calata su tutto il mondo arabo a seguito di questo sistematico tentativo di disumanizzazione. Le parole che si usano per parlare del mondo arabo sono terrore, fanatismo, violenza, odio della libertà, insicurezza e, naturalmente, le armi di distruzione di massa, che vengono cercate non dove noi tutti sappiamo e dove non sono mai state cercate (in Israele, Pakistan, India e ovviamente gli Stati Uniti tra gli altri), ma negli ipotetici spazi delle file terroriste, nelle mani di Saddam, nelle bande di fanatici, ecc. Una costante è che gli arabi odiano Israele e gli ebrei per il solo motivo che essi odiano anche l’America. Potenzialmente l’Iraq è il nemico più temibile di Israele per le sue risorse economiche e umane; i palestinesi intralciano la completa egemonia e l’occupazione territoriale degli israeliano degli israeliani. Israeliani di destra come Sharon che rappresentano la Grande ideologia di Israele che rivendica tutta la Palestina storica come patria degli ebrei sono riusciti a imporre la loro visione della regione ai sostenitori di Israele negli Stati Uniti. Quest’estate, in una trasmissione televisiva americana, Uzi Landau, ministro della sicurezza interna di Israele (e membro del Partito Likkud che sostiene ‘il “trasferimento” di tutti i palestinesi fuori da Israele e dai Territori Occupati) ha affermato che tutto questo parlare di “occupazione” era un’assurdità. Siamo un popolo che torna a casa, ha detto. Quest’idea incredibile non è stata nemmeno oggetto di domande da parte di Mort Zuckerman, padrone di casa del programma, e proprietario delle US News e del World Report nonché presidente del Consiglio dei Presidenti delle Maggiori Organizzazioni Ebree. Ancora, il giornalista israeliano Alex Fishman, nel Yediot Aharanot del 6 settembre, definisce le “idee rivoluzionarie” di Condoleeza Rice, Rumsfeld (anch’egli parla dei “cosiddetti territori occupati”), Cheney, Paul Wolfowitz, Douglas Feith e Richard Perle (che ha commissionato il notorio studio Rand che designa l’Arabia Saudita come nemico e l’Egitto come il premio per l’America nel mondo arabo) idee da veri falchi della politica perché appoggiano il cambiamento di regime in tutti i paesi arabi. Fishman cita Sharon quando quest’ultimo sostiene che questi personaggi, molti dei quali membri del JINSA e del CCP, e connessi all’Istituto di Washington degli Affari del Vicino Oriente, affiliato dell’AIPAC, dominano il pensiero (se questo è il termine adatto) di Bush; Sharon dice che “in confronto ai nostri amici americani, Effi Eitam [uno dei più irriducibili e spietati nel governo di Israele] è una colomba.” Persino più spaventosa è l’idea incontrastata che se “noi” non preveniamo il terrorismo (o qualsiasi altro potenziale nemico), verremo distrutti. Questa è adesso l’essenza della strategia di sicurezza americana, regolarmente pubblicizzata in interviste e talk show da Rice, Rumsfeld, e dallo stesso Bush. L’esplicitazione formale di questo pensiero apparve non molto tempo fa sul National Security Strategy of the United States, un giornale ufficiale redatto come manifesto integrale della nuova politica estera dell’amministrazione all’indomani della guerra fredda. L’assunto di fondo è che viviamo in un mondo eccezionalmente pericoloso con una rete di nemici che possiede fabbriche, uffici, un infinito numero di adepti, e la cui intera esistenza è votata a distruggerci, se “noi” non li prendiamo prima. Questo assunto è quello che fonda e legittima la guerra al terrorismo e all’Iraq, ed è proprio questo che il Congresso e l’ONU sono adesso chiamati a sottoscrivere. Il fanatismo, di gruppi o di singoli individui, certamente esiste, e generalmente appoggia azioni ai danni di Israele o gli Stati Uniti. D’altro canto, nel mondo arabo e islamico è diffusa la convinzione che Israele e gli Stati Uniti abbiano prima creato i cosiddetti estremisti della jihadi di cui Bin Laden è il più famoso, e poi abbiano allegramente ignorato il diritto internazionale e le risoluzioni dell’ONU per perseguire in quei paesi le loro politiche ostili e distruttive. Nelle colonne del Guardian del Cairo, David Hirst scrive che persino gli arabi che si oppongono ai loro regimi dispotici “vedranno [l’attacco degli Stati Uniti all’Iraq] come un atto di aggressione diretto non solo all’Iraq, ma a tutto il mondo arabo; e ciò che lo renderà soprattutto intollerabile è che verrà fatto a nome di Israele, il cui possesso di un vasto arsenale di armi di distruzione di massa sembra accettabile, almeno quanto il proprio sembra abominevole.” (6 settembre) Voglio dire che esiste anche una posizione palestinese distinta e, almeno dalla metà degli anni ’80, una volontà formale di pace con Israele che è opposta alla più recente minaccia terroristica rappresentata da Al Qaeda o dalla spuria minaccia apparentemente incarnata da Saddam Hussein, uomo senza dubbio terribile, ma difficilmente in grado di lanciarsi in una guerra intercontinentale; solo di rado l’amministrazione ammette che egli possa rappresentare una minaccia per Israele, ma questo pare essere uno dei suoi gravi peccati. Nessuno dei paesi vicini lo percepisce come una minaccia. I palestinesi e l’Iraq vengono confusi sì da costituire una minaccia collettiva che i media non fanno che consolidare. Buona parte delle storie di palestinesi che appaiono nei raffinati e influenti giornali come The New Yorker e The New York Times li rappresentano esclusivamente come fabbricanti di bombe, collaborazionisti, kamikaze. Nessuno di questi giornali ha mai pubblicato niente dalla prospettiva araba dall’undici settembre. Niente. Così, quando addetti stampa dell’amministrazione come Dennis Ross (responsabile dello staff di Clinton ai negoziati di Oslo, ma, sia prima che dopo, membro di una lobby israeliana) continuano a dire che i palestinesi rifiutarono una generosa offerta israeliana a Camp David, questi non fanno che distorcere clamorosamente i fatti. Come svariate fonti autorevoli hanno dimostrato, infatti, in quell’offerta Israele concedeva aree palestinesi non contigue, sorvegliate da presidi di sicurezza e insediamenti israeliani tutt’intorno, e senza nessun confine comune tra Palestina e altri stati arabi (p.e. l’Egitto a sud, la Giordania a est). Perché parole come “offerta” e “generosa” dovrebbero applicarsi a un territorio tenuto illegalmente da una forza di occupazione in contravvenzione alla legge internazionale e alle risoluzioni dell’ONU, nessuno si è mai curato di chiederselo. Ma il potere dei media di ripetere, reiterare e sottolineare semplici frasi, oltre agli indefessi sforzi della lobby israeliana di ribadire lo stesso concetto (lo stesso Dennis Ross si è dimostrato particolarmente ostinato nel reiterare questa falsità) significa che ormai si è diffusa l’idea che i palestinesi hanno scelto “il terrore invece della pace”. Hamas e la Jihad islamica non vengono visti come una parte (probabilmente allo sbando) della lotta palestinese di liberazione dall’occupazione militare israeliana, ma come parte del desiderio palestinese di seminare terrore, di minacciare e di rappresentare una minaccia. Come l’Iraq. In ogni caso, con la più recente e alquanto improbabile convinzione dell’amministrazione statunitense che l’Iraq laico abbia fornito asilo e addestramento ai folli teocrati di Al Qaeda, il caso contro Saddam sembra essere chiuso. L’opinione più diffusa (ma tutt’altro che incontrastata) all’interno del governo è che, dato che gli ispettori ONU non possono accertare quali armi di distruzioni di massa possegga Saddam, che cosa nasconda e che cosa possa ancora fare, il leader iracheno dovrebbe essere attaccato e rimosso. Dal punto di vista degli Stati Uniti il vero motivo della richiesta di un’autorizzazione all’ONU è quello di ottenere una risoluzione così rigida e punitiva che non importa che Saddam Hussein vi si adegui oppure no: egli sarà incriminato per avere violato la “legge internazionale” e la sua stessa esistenza giustificherà un cambiamento di regime. D’altro canto, a fine settembre una risoluzione del Consiglio di Sicurezza passato all’unanimità (con l’astensione degli Stati Uniti), ingiunse a Israele di mettere fine all’assedio del recinto di Arafat a Ramallah e di ritirarsi dal territorio palestinese illegalmente occupato da marzo (il pretesto di Israele è quello dell'”autodifesa”). Israele si è rifiutato di ottemperare, e la giustificazione addotta dagli Stati Uniti per non aver cercato di far rispettare le proprie posizioni dichiarate è che “noi” capiamo che Israele debba difendere i suoi cittadini. Il perché l’ONU debba essere cercato in un caso e ignorato in un altro, è una delle contraddizioni che gli Stati Uniti si accordano. Un certo numero di espressioni inventate, come “prevenzione anticipatoria” o “autodifesa preventiva”, vengono fatte circolare da Donald Rumsfeld e dai suoi colleghi per persuadere la gente che i preparativi per la guerra contro l’Iraq o qualsiasi altro stato che necessiti di un “cambiamento di regime” (o, con un altro, più prezioso eufemismo, di “distruzione costruttiva”) si reggono sul concetto di autodifesa. Si tiene l’opinione pubblica sulle spine con allarmi rossi o arancioni, si incoraggia la gente a informare le autorità preposte all’applicazione delle leggi di comportamenti “sospetti”, e migliaia di musulmani, arabi e sudasiatici sono stati fermati, e in alcuni casi arrestati per sospetto. Tutto questo viene eseguito per ordine del presidente come parte del patriottismo e dell’amore per l’America. Personalmente non ho ancora capito cosa significhi amare un paese (nei discorsi dei politici statunitensi, “amore per Israele” è un’altra espressione corrente), ma pare che significhi lealtà cieca e incondizionata ai poteri, la cui segretezza, evasività e caparbio rifiuto di dialogare con un’opinione pubblica attenta (ma al momento l’opinione pubblica non sembra avere maturato una risposa coerente o sistematica) ha nascosto la mostruosità e la distruttività di tutta la politica in Iraq e nel Medio Oriente dell’amministrazione Bush. Gli Stati Uniti sono così potenti in confronto alla maggior parte degli altri grandi paesi messi insieme che non possono essere costretti a conformarsi a un sistema internazionale di condotta, nemmeno quella che il segretario di stato potrebbe desiderare. La discussione sull’ipotesi di una “nostra” entrata in guerra contro un paese, l’Iraq, lontano 7000 miglia, rimane astratta, così come astratta diventa l’identità di quei popoli. Visti dai dispositivi di puntamento di un bel missile o in televisione, l’Iraq e l’Afganistan appaiono come una scacchiera che “noi” decidiamo di invadere, distruggere, ricostruire oppure no, a nostro piacere. La parola “terrorismo”, così come la guerra contro di esso, ben si presta ad alimentare questo sentimento, perché a differenza di molti europei, la maggior parte degli americani non hanno mai avuto contatti o esperienze di vita con i paesi e i popoli musulmani e quindi non hanno idea della struttura di vita che una campagna sostenuta di bombardamenti (come in Afganistan) manderebbe in pezzi. E il fatto che il terrorismo venga spiegato semplicemente come il risultato di odio e di invidia, incoraggia i polemisti a ingaggiare stravaganti dibattiti dai quali la storia e la politica sembrano essere scomparsi. La storia e la politica sono scomparse perché la memoria, la verità, e la vera esistenza umana sono state declassate. Non si può parlare della sofferenza palestinese o della frustrazione araba perché la presenza di Israele negli Stati Uniti ce lo impedisce. In un’accesa manifestazione pro-israeliana lo scorso maggio, Paul Wolfowitz ha parlato en passant della sofferenza dei palestinesi, ma dopo essere stato fischiato ha lasciato cadere ogni altro riferimento. Una politica coerente dei diritti umani o del libero commercio che rispetta le virtù infinitamente sottolineate dei diritti umani, della democrazia, e le economie libere che noi negli Stati Uniti, secondo costituzione, rappresentiamo, è suscettibile di essere insidiata all’interno da speciali gruppi di interesse (come testimoniano l’influenza delle lobby etniche, le industrie dell’acciaio e della difesa, il cartello petrolifero, l’industria agricola, i pensionati, la lobby delle pistole, per citarne solo alcune). Ogni singolo distretto dei 435 rappresentati a Washington, per esempio, ha al suo interno un’industria di difesa o legata alla difesa; così che come il Segretario di Stato James Baker disse poco prima della prima Guerra del Golfo, il vero problema in quella guerra contro l’Iraq erano “i posti di lavoro”. In materia di politica estera, vale la pena ricordare che soltanto qualcosa come il 25-30 per cento (in confronto al 15 per cento degli americani che hanno viaggiato all’estero) dei membri del Congresso hanno il passaporto, e quello che dicono o pensano ha meno rilevanza con la storia, la filosofia, o gli ideali, che con gli interessi con coloro che influenzano le campagne elettorali, mandano denaro, e via dicendo. Due deputati in carica, Earl Hilliard dell’Alabama e Cynthia McKinney della Georgia, sostenitori del diritto di autodeterminazione dei palestinesi e critici di Israele, sono stati recentemente battuti da candidati relativamente sconosciuti ma generosamente finanziati con quello che è stato apertamente chiamato “denaro di New York” (cioè ebreo) proveniente da fuori degli Stati Uniti. I due sconfitti sono stati aspramente criticati dalla stampa e definiti estremisti e non patriottici. Per quanto riguarda la politica degli Stati Uniti in Medio Oriente, la lobby israeliana non ha pari e ha trasformato il ramo legislativo del governo statunitense in quello che l’ex Senatore Jim Abourezk una volta chiamò “territorio occupato da Israele”. Una lobby araba paragonabile a questa non esiste nemmeno, almeno non così efficiente. Per esempio, periodicamente il Senato invia al presidente delle risoluzioni non richieste che enfatizzano, sottolineano e reiterano il sostegno americano per Israele. Una risoluzione di questo tipo fu emanata in maggio, proprio nel momento in cui le forze israeliane stavano occupando e di fatto distruggendo tutte le più grandi città della striscia di Gaza. Alla lunga questo appoggio incondizionato alle politiche estremiste di Israele non gioverà al suo futuro in quanto paese mediorientale. Come Tony Judt ha sostenuto di recente, la prospettiva di Israele di rimanere in Palestina è insostenibile e non fa che rimandarne l’inevitabile ritiro. Il tema della guerra al terrorismo ha consentito a Israele e ai suoi alleati di perpetrare crimini di guerra contro gli abitanti palestinesi della striscia di Gaza, 3.4 milioni dei quali sono diventati (come si dice adesso in gergo) “danni collaterali non-combattenti”. Terje-Roed Larsen, Amministratore Speciale dell’ONU nei territori occupati, ha appena pubblicato una relazione che accusa Israele di catastrofe umanitaria: la disoccupazione ha raggiunto il 65 per cento, il 50 per cento della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno, e l’economia, per non parlare della vita della gente, è andata in frantumi. In confronto, la sofferenza e l’insicurezza degli Israeliani è notevolmente inferiore: non vi sono carri armati palestinesi a occupare zone di Israele, e nemmeno a sfidare gli accampamenti israeliani. Nelle scorse due settimane gli israeliani hanno ucciso 75 palestinesi, molti dei quali bambini, hanno demolito case, deportato persone, raso al suolo terreni coltivabili, tenuto tutti in casa con coprifuochi di 80 ore alla volta, impedito la mobilità di civili attraverso posti di blocco e il passaggio di ambulanze e di aiuti medici, e come al solito, tagliato le forniture d’acqua e l’elettricità. Le scuole e le università semplicemente non funzionano. Sebbene questi fatti si ripetano quotidianamente da almeno 35 anni, al pari dell’occupazione stessa e delle decine di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, i media statunitensi ne parlano solo di rado, in calce a lunghi articoli sui dibattiti del governo israeliano, o come disastrosi attacchi suicidi. La concisa espressione “sospettato di terrorismo” è al tempo stesso la giustificazione e l’epitaffio per chiunque Sharon scelga di fare uccidere. Gli Stati Uniti non sollevano obiezioni se non in termini molti blandi, per esempio per dire che le azioni di Israele “non sono utili”, il che non basta di certo a fermare la prossima ondata di uccisioni. Ci avviciniamo adesso al centro della questione. A causa degli interessi israeliani nel paese, la politica mediorientale statunitense è di conseguenza centrata su Israele. Dopo l’undici settembre si è verificata una congiuntura agghiacciante in cui la destra cristiana, la lobby israeliana e la semi-religiosa belligeranza dell’amministrazione Bush sono giustificate da falchi neo-conservatori impegnati nella distruzione dei nemici di Israele, o, come si dice talvolta usando un eufemismo, a ridisegnare la geografia portando un cambiamento di regime e “democrazia” ai paesi arabi che più minacciano Israele. (Vedi “The Dynamics of World Disorder: Which God is on Whose Side?” di Ibrahim Warde, Le Monde Diplomatique, settembre 2002 e “Born-Again Zionists” di Ken Silverstein e Michael Scherer, Mother Jones, ottobre 2002). La campagna di Sharon per la riforma palestinese è semplicemente l’altra faccia del suo tentativo di distruggere politicamente la Palestina, sua ambizione di una vita. L’Egitto, l’Arabia Saudita, la Siria, persino la Giordania sono stati in un modo o nell’altro minacciati, nonostante il fatto che, per quanto terribili i loro regimi, essi sono stati protetti e sostenuti dagli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale, così come l’Iraq. In realtà pare ovvio a chiunque conosca il mondo arabo che è assai probabile che il suo stato precario peggiori sensibilmente dopo che gli Stati Uniti avranno cominciato ad attaccare l’Iraq. I sostenitori della politica dell’amministrazione ogni tanto discutono astrattamente di quanto sarebbe bello portare la democrazia in Iraq e negli altri stati arabi, senza troppo curarsi di che cosa, in termini di esperienza di vita, questo significherà per la gente che ci vive, soprattutto dopo che gli attacchi dei B-52 avranno inesorabilmente distrutto la loro terra e le loro case. Non riesco ad immaginare un solo arabo o un iracheno che non voglia vedere rimosso Saddam Hussein. Tutti i segnali provano che l’azione militare statunitense/israeliana hanno peggiorato notevolmente le cose per la quotidianità della gente comune, ma questo è nulla a confronto con l’ansia terribile, le distorsioni psicologiche e le malformazioni politiche imposte su quelle società. Oggi né l’opposizione irachena espatriata, corteggiata intermittentemente da almeno due amministrazioni statunitensi, né i vari generali statunitensi come Tommy Franks, hanno molta credibilità come capi di governo in Iraq dopo la guerra. Né sembra si sia riflettuto abbastanza su ciò di cui l’Iraq avrà bisogno dopo il cambiamento di regime, di attori interni, dopo che persino il Baath sarà epurato. Può darsi il caso che neppure l’esercito iracheno muoverà un dito per Saddam. Tuttavia è interessante che in un recente dibattimento congressuale tre ex generali del Commando Centrale statunitense abbiano espresso serie e, oserei dire, drastiche riserve circa i rischi di quest’avventura così come è stata predisposta nei piani militari. Ma questi dubbi non riguardano al brulicante settarismo interno al paese o la dinamica etno-religiosa, soprattutto dopo 30 debilitanti anni sotto il partito Baath, le sanzioni ONU, e due importanti guerre (tre, se e quando gli Stati Uniti attaccheranno). Nessuno, nessuno negli Stati Uniti ha un’idea reale di cosa potrebbe succedere in Iraq, o in Arabia Saudita, o in Egitto nel caso di un grande intervento militare. Basta sapere, e poi tremare al pensiero, che Fouad Ajami e Bernard Lewis sono i maggiori consiglieri dell’amministrazione. Entrambi, violentemente e ideologicamente anti-arabi, sono discriminati dalla maggior parte dei loro colleghi. Lewis non ha mai vissuto nel mondo arabo, e quello che ha da dire in proposito è spazzatura reazionaria; Ajami, proveniente dal Libano meridionale, un tempo era un sostenitore progressista della lotta palestinese e adesso si è convertito all’estrema destra ed ha sposato il Sionismo e l’imperialismo americano senza riserve. L’undici settembre ha forse fornito un periodo di riflessione nazionale sulla politica estera statunitense dopo lo shock di quella atrocità spropositata. Un terrorismo del genere deve certamente essere affrontato con forza, ma a mio avviso sono sempre le conseguenze di una reazione forte che devono in primo luogo essere tenute in considerazione, non soltanto le reazioni immediate, di riflesso, violente. Nessuno sosterrebbe oggi che, anche dopo la disfatta dei Talebani, l’Afganistan sia diventato un luogo migliore e più sicuro dal punto di vista dei cittadini che ancora soffrono. La costituzione di uno stato in questi paesi non è chiaramente la priorità degli Stati Uniti, poiché altre guerre in altri luoghi distolgono l’attenzione da quel campo di battaglia. Inoltre, che cosa significa per gli americani costruire una nazione con una cultura e una storia così diverse dalla propria come l’Iraq? Sia il mondo arabo che gli Stati Uniti sono luoghi di gran lunga più complessi e dinamici di quanto facciano pensare i luoghi comuni sulla guerra e le frasi altisonanti sulla ricostruzione. Questo è diventato evidente nel periodo successivo agli attacchi statunitensi all’Afganistan. A complicare le cose, vi sono oggi voci di dissenso di notevole peso nella cultura araba di oggi, e ci sono movimenti di riforma su un ampio fronte. Lo stesso dicasi degli Stati Uniti, dove, a giudicare dalle mie recenti esperienze nella mie conferenza in vari campus universitari, la maggior parte dei cittadini è ansiosa di sapere della guerra, di saperne di più, soprattutto ansiosa di non andare in guerra avendo in testa tale messianica bellicosità e tali vaghi obiettivi. Nel frattempo, come The Nation si è espresso nel suo ultimo editoriale, il paese marcia verso la guerra come in trance, mentre con un crescente numero di eccezioni, il Congresso ha semplicemente abdicato al suo ruolo di rappresentare gli interessi della gente. Da persona che ha vissuto tutta la vita tra le due culture, trovo spaventoso che lo scontro tra civiltà, questo concetto riduttivo e volgare così in voga oggi, abbia preso il sopravvento sul pensiero e sull’azione. Ciò che abbiamo bisogno di ripristinare è un modello universalistico per comprendere e affrontare Saddam Hussein e Sharon, i capi di governo di Myanmar, della Siria, della Turchia, e tutto uno stuolo di paesi le cui devastazioni vengono tollerate senza sufficiente resistenza. La demolizione di case, la tortura, la negazione dei diritti all’istruzione devono essere combattute dovunque si presentano. Non conosco altro modo di ricreare o restaurare questo modello se non attraverso l’istruzione, la promozione di discussioni aperte, di scambi e un’onestà intellettuale che non abbia niente a che fare con speciali appelli segreti o con il gergo della guerra, con l’estremismo religioso e la difesa “preventiva”. Ma ciò, ahimé, richiede molto tempo, e a giudicare dai governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, il suo piccolo alleato, non porta voti. Dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per aprire una discussione e porre domande imbarazzanti, per rallentare e, infine, fermare il ricorso alla guerra che oggi è diventato una teoria e non solo una pratica.
http://www.nexusitalia.com/laverarma.htm
La vera arma segreta: il terrorismo!
di Jean Valien
GEORGE MONBIOT (professore ordinario al Dipartimento di Scienze Politiche a Keele e professore associato di Scienze dell’Ambiente all’Università di Londra) in un articolo apparso sul MANIFESTO del 7 novembre 2001, denuncia che a Fort Benning, in Georgia, è aperta dal 1946 la “Scuola delle Americhe“. Lì gli Stati Uniti hanno “laureato” terroristi, torturatori e dittatori latinoamericani: Salvador, Guatemala, Cile, Argentina, Perù e Colombia sono lì a testimoniare i risultati della formazione ricevuta dal paese che vanta più di ogni altro tradizioni di “libertà e democrazia”. Oggi la “scuola” cambia nome, azzerando così i delitti pregressi per darsi una facciata nuova e più consona al nuovo scenario internazionale. La “Scuola delle Americhe” è stata ribattezzata col nome Western Hemisphere Institute for Security Cooperation (Whisc). Si trova a Fort Benning, Georgia (sempre lì), ed è finanziata dal governo Bush.
In un solenne discorso rivolto alla nazione e al mondo, il presidente G.W. Bush, dopo i fatti dell’911 – il giorno in cui ha cominciato a bombardare l’Afghanistan – ha affermato: ” Qualunque governo, se sponsorizza fuorilegge e assassini di innocenti diventa esso stesso fuorilegge e assassino. E prende questa strada solitaria a suo rischio e pericolo“.
Sembra dimenticare, il presidente Bush che i dittatori argentini Roberto Viola e Leopoldo Galtieri, i panamensi Manuel Noriega e Omar Torrijos, il peruviano Juan Velasco Alvarado e l’equadoregno Guillermo Rodriguez, si sono tutti avvalsi dell’addestramento ricevuto in questa scuola. Altrettanto hanno fatto il capo dello squadrone della morte “Grupo Colina” nel Perù di Fujimori, quattro dei cinque ufficiali che comandavano l’infame Battaglione 3-16 in Honduras (che negli anni ’80 controllava gli squadroni della morte in questo paese), e il comandante responsabile del massacro di Ocosigo avvenuto in Messico nel 1994.
Tutto questo, assicurano i difensori della scuola, è storia vecchia!!! Ma gli uomini addestrati alla Scuola delle Americhe sono coinvolti anche nella sporca guerra che si combatte attualmente in Colombia con il sostegno Usa. Come se non bastasse, nel 1999 il rapporto del Dipartimento di stato americano sui diritti umani cita due uomini, addestrati in questa scuola, come gli assassini del commissario di pace Alex Lopera.
L’anno scorso Human Rights Watch ha rivelato che sette uomini provenienti dalla stessa scuola comandano gruppi paramilitari in quel paese e hanno commissionato rapimenti, sparizioni, omicidi, massacri. Nel febbraio di quest’anno un altro uomo addestrato alla Scuola delle Americhe è stato condannato per complicità nella tortura e nell’uccisione di trenta contadini da parte dei paramilitari in Colombia. Nella scuola attualmente arrivano più studenti dalla Colombia che da qualunque altro paese.
L’articolo continua inesorabile nella sua elencazione di Awards collezionati da questa “benemerita scuola” ma ci fermiamo qui per passare ad un’altra autorevole denuncia. Quella del semiologo e scrittore ebreo-americano Noam Chomsky. Egli denuncia in svariati suoi scritti il disegno di politica espansionistica e imperialista degli USA, ricordando che gli Stati Uniti d’America sono, di fatto, l’unico paese al mondo ad essere stato condannato per terrorismo (precisamente, per “uso illegittimo della forza”) dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aia. E che, insieme con Israele, si sono opposti ad una risoluzione dell’Onu del dicembre 1987 di condanna del terrorismo. Il passaggio che ha provocato il voto contrario di americani e israeliani è quello in cui si afferma che la lotta al terrorismo non può comunque “in alcun modo pregiudicare il diritto all’autodeterminazione, alla libertà e all’indipendenza, così come indicato nella Carta delle Nazioni Unite, dei popoli privati con la forza di tale diritto… in particolare i popoli soggetti a regimi coloniali e razzisti e all’occupazione straniera o ad altre forme di dominazione coloniale, né… il diritto di tali popoli a lottare per questo fine e a cercare e ricevere aiuto (in conformità alla Carta e agli altri principi del diritto internazionale)” (cfr. Noam Chomsky, 11 settembre. Le ragioni di chi? e Sulla nostra pelle, entrambi editi da Tropea). Su tutto questo campeggia l’assoluta indifferenza della comunità internazionale nel porre qualunque governo, imparzialmente, di fronte alle proprie responsabilità per pagarne il prezzo alla giustizia internazionale di cui i governi occidentali, si sono eretti a rango di paladini.
Sono milioni i morti degli attacchi terroristici USA praticati nella più assoluta impunità in tutto il mondo. Questi sono perseguiti con metodica abnegazione ovunque gli interessi economici della superpotenza debbano essere privilegiati. Voci libere, di denuncia, si levano inascoltate da ogni parte del mondo contro questa oscena indifferenza quasi ad ammettere la impossibilità da parte dei governi (soprattutto quelli occidentali) di ostacolare il cammino degli USA che, manifestando una innegabile superiorità militare, brandendo armi supertecnologiche (comprese quelle di distruzione di massa, di cui sono gli unici ad avere il diritto di detenerne insieme allo stato d’Israele), lasciano agli altri paesi, Russia e Cina comprese, la possibilità dell’alleanza o dell’omertà a quella della sottomissione (che poi avviene di fatto). Oggi si sbandiera il terrorismo quale minaccia globale senza considerare che il maggiore terrorista è colui che sparge terrore insinuando la paura nei cittadini per giustificare tutte le restrizioni che si stanno verificando in termini di libertà individuali e collettive, al fine di garantirne la sicurezza (Orwell, 1984). Andiamo alla guerra contro una Nazione ed un popolo stremati da 12 anni di embargo e bombardamenti all’uranio impoverito, fingendo di non sapere che quel che interessa a USA e GB è il petrolio di Saddam. Andiamo alla guerra impugnando le risoluzioni ONU che l’Iraq ha disatteso e che Israele, invece, è libero di ignorare da 55 anni mentre massacra bellamente un popolo, ricevendo per contro, 12 miliardi di dollari, finanziati dagli USA, per continuare il massacro. La patria della libertà e della democrazia impone le linee politiche internazionali, impone importazioni di tutto il suo prodotto di largo consumo (OGM compresi) attraverso accordi capestro che qualunque cittadino minimamente dotato di senso logico rifiuterebbe sdegnosamente e che compiacenti governi ratificano omertosamente. Organizzazioni internazionali (WTO, FMI, OMS, etc.), dagli USA stessi pesantemente controllati, dettano le regole in campo sanitario, industriale e commerciale. Le multinazionali a stelle e strisce spadroneggiano in tutto il mondo attraverso cavilli legali di leggi internazionali che, di fatto limitano l’autodeterminazione degli stessi governi che le ratificano.
Ci avviamo ad essere una popolazione mondiale di felici consumatori e non di liberi cittadini, e chi si ribella… è un terrorista!!
Nel segno del terrorismo elettorale
Un’occasione perduta per il Nicaragua
In un Nicaragua in cui le conquiste della rivoluzione sandinista sono ormai state per lo più cancellate, il governo di Arnoldo Alemán aveva raggiunto un livello di degrado e di corruzione senza precedenti. Con un programma riformista moderato, e nonostante gli eccessi di alcuni dirigenti, il Fronte sandinista di liberazione nazionale aveva tutte le carte in regola per vincere le elezioni presidenziali del 4 novembre. I risultati però gli hanno dato torto: se i nicaraguensi hanno il diritto di votare è solo a condizione che eleggano il candidato di Washington…
di François Houtart*
«Senza Somoza il Nicaragua sarà libero!» Il 17 luglio 1979, dopo più di dieci anni di lotta contro la dittatura dei Somoza (sostenuta dal 1936 dagli Stati uniti), il Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln) arriva al potere. La giovane rivoluzione lancia una riforma agraria, una campagna per alfabetizzare 400mila persone e un programma sanitario che copre tutto il paese. Nazionalizza poi le proprietà del clan Somoza. Rivoluzione originale, scevra dal dogmatismo delle precedenti esperienze, si attira molte simpatie e innesca una dinamica regionale: «se il Nicaragua ha vinto, il Salvador vincerà!», cantano gli insorti del paese vicino. E in America centrale nasce così una grande speranza.
Washington è preoccupata per l’appoggio dell’Avana – e, in misura minore, dell’Unione sovietica – a un paese che è stato per molto tempo sotto il suo controllo. È per questo motivo che, dal 1980, nella sua lotta contro l’«impero del male» il presidente Ronald Reagan ordina un embargo, organizza, equipaggia e addestra attraverso la Cia un’opposizione armata costituita da ex soldati somozisti rifugiati in Honduras, i contras. Nonostante la vittoria alle elezioni presidenziali del 4 novembre 1984 di Daniel Ortega (con il 63% dei voti) – con più di 500 osservatori stranieri ad attestare la regolarità dello scrutinio – l’aggressione continua, condannata il 27 luglio 1986 dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aia, di cui Washington si affretta a mettere in discussione la competenza. Costellata da scandali, in particolare da quello dell’Irangate, vendita illegale di armi americane all’Iran per finanziare i contras, questa aggressione provocherà 29mila morti e destabilizzerà il paese.
Alla fine degli anni ’80 il progetto rivoluzionario crolla. L’embargo americano soffoca l’economia, il paese ha dovuto militarizzarsi, la pressione dell’economia mondiale ha imposto misure di austerità.
Anche se ha favorito i contadini senza terra, la riforma agraria ha dimenticato una parte dei piccoli proprietari, che rappresenteranno la base sociale dei contras. Nonostante la presenza di tre sacerdoti nel governo, la chiesa, rappresentata dall’arcivescovo di Managua monsignor Obando y Bravo e sostenuta dal papa Giovanni Paolo II, demonizza il regime ed emargina i cristiani impegnati.
Con sua grande sorpresa, il Fronte sandinista esce sconfitto dalle elezioni del febbraio 1990. Nonostante le considerevoli conquiste sociali (istruzione, proprietà terriera, alimentazione, sanità, sicurezza sociale, ambiente), i cittadini non sopportano più la guerra, la coscrizione obbligatoria di parte dei giovani, le misure di austerità e l’aumento del costo della vita. L’opposizione ha promesso la pace, la fine dell’embargo americano e la prosperità. Gli elettori scelgono Violeta Chamorro (con il 54,2% dei voti). L’Fsln e il suo candidato Daniel Ortega riconoscono la sconfitta e accettano democraticamente di cedere il potere (1).
Gli anni della restaurazione Nonostante le difficoltà del dopoguerra, un accordo implicito tra Violeta Chamorro e i dirigenti sandinisti permette una transizione relativamente pacifica. Ma questo periodo, oltre che dall’applicazione da parte del nuovo governo di una politica socialmente devastante, è segnato dalla piñata – gioco popolare in cui si rompono dei vasi e uno dei giocatori raccoglie la posta. Per evitare che i beni dello stato cadano nelle mani della classe dominante tornata al potere, alcuni dirigenti del Fronte se ne appropriano come compenso per i sacrifici fatti nel corso della lotta rivoluzionaria, ma in alcuni casi anche per semplice profitto (2). A queste mancanze etiche si aggiunge una crisi interna tra i «rinnovatori» e gli «ortodossi», accusati di metodi autoritari. L’ex vicepresidente Sergio Ramirez, numerosi esponenti e intellettuali tra cui i fratelli Fernando ed Ernesto Cardenal, preti ed ex membri del governo lasciano il partito, gestito con pugno di ferro da Ortega. Anche se le basi popolari del sandinismo rimangono fedeli all’Fsln, le incertezze di quel periodo permettono all’ultraconservatore Arnoldo Alemán, del Partito liberale costituzionale (Plc), di vincere le elezioni presidenziali del 20 ottobre 1996.
Dieci anni di politica neoliberale, di programmi di aggiustamento, di apertura del mercato hanno completamente dissanguato le classi popolari. Come spiega il sociologo Oscar René Vargas: «La privatizzazione delle imprese, la liberalizzazione del commercio e la distruzione delle piccole e medie imprese locali, la soppressione della produzione agricola di prodotti per il mercato interno, la tendenza alla cancellazione della riforma agraria con il blocco del credito alle cooperative agricole e la perdita progressiva o l’indebolimento del pensiero progressista tra i principali dirigenti del sandinismo hanno creato un Nicaragua completamente diverso da quello che era nato con la rivoluzione sandinista e hanno permesso che i governi, durante gli anni ’90, consolidassero una restaurazione conservatrice» (3).
Sul piano politico, nel corso di questi ultimi dieci anni l’Fsln ha agito come un partito di opposizione. Dopo le elezioni del 1996 ha cercato di gestire il difficile rapporto tra l’appoggio alle rivendicazione popolari, il rispetto delle norme di una democrazia parlamentare e il mantenimento degli interessi di quella parte dei suoi membri che si sono integrati nella «nuova classe» borghese.
Nel corso dell’ultima legislatura è stato concluso un «patto» politico tra i liberali al potere e i dirigenti sandinisti. L’accordo ha riguardato le alleanze elettorali, le quote di voti necessarie per i piccoli partiti (erano 23 alle elezioni del 1996), la soppressione delle candidature fuori dai partiti e il ristabilimento di una «migliore rappresentazione sandinista» negli organi dello stato. È stato anche deciso di ridurre dal 45 al 40% la maggioranza minima necessaria per vincere al primo turno le elezioni, una soglia che si riduce addirittura al 35% se il distacco con il secondo è di almeno il 5%.
Diventando automaticamente membri del parlamento nazionale, gli ex presidenti godono dell’impunità (4).
Molti ritengono che il patto indebolisca la democrazia, concentrando troppo potere nei due principali partiti e assicurando loro un’impunità reciproca. Alcuni sandinisti la considerano un tradimento degli ideali rivoluzionari e un compromesso con un partito che rappresenta la corruzione.
Alle elezioni del 4 novembre scorso, la campagna elettorale ha contrapposto il Plc al potere, il Partito conservatore (Pc) e il Fronte sandinista (Fsln). Rappresentante del capitalismo agrario, il candidato del Plc Enrique Bolaños, messo in difficoltà dai livelli di corruzione raggiunti dal governo di Alemán (5) (di cui era stato vicepresidente per quattro anni) aveva al suo fianco il principale partito cristiano protestante e parte dei contras.
Diretto ancora una volta da Ortega – la cui designazione come candidato alle elezioni presidenziali ha provocato una forte opposizione nel suo stesso partito – il Fronte sandinista si era alleato con la Democrazia cristiana, scegliendo come vicepresidente Augustín Jarquín, ex presidente della Corte dei conti fatto imprigionare dal presidente Alemán perché lo accusava di corruzione (ma aveva trascorso sei mesi in carcere anche sotto i sandinisti per l’organizzazione di una manifestazione non autorizzata).
I Bush contro gli Ortega La coalizione comprendeva inoltre diversi piccoli partiti, un gruppo minoritario dei contras e Steadman Fagoth, sinistro personaggio che negli anni ’80 trascinò gli indios Miskitos della costa atlantica in una guerra contro i sandinisti (6). All’ultimo minuto anche i sandinisti dissidenti del Movimento di rinnovamento sandinista (Mrs) si erano uniti alla coalizione (la Convergenza nazionale), così come l’alleanza conservatrice popolare di Myriam Argüello. Erano stati presi contatti addirittura con i membri della famiglia Somoza! Chiedendo «perdono per gli errori del passato», il Fronte è apparso ad alcuni una formazione riformista senza più alcun rapporto con il progetto iniziale di trasformazione sociale. A queste critiche i suoi dirigenti hanno risposto che le misure prese in considerazione erano le uniche possibili per migliorare le condizioni delle classi popolari senza abbandonare gli obiettivi a più lungo termine. Sul piano economico l’Fsln ha affermato che avrebbe rispettato l’economia di mercato, stimolato gli investimenti nazionali ed esteri, difeso la proprietà privata, creato una «banca della terra» per i contadini, ristabilito il credito per i piccoli agricoltori e imprenditori e, infine, lottato contro la corruzione.
Favorevoli ai sandinisti, i sondaggi preelettorali hanno suscitato non poca preoccupazione. In una lettera alla Santa Sede, il cardinale Obando y Bravo si lamentava del comportamento di alcuni sacerdoti, che «alimentano la confusione tra i fedeli, mentre si profila all’orizzonte il pericolo di un ritorno della sinistra al potere», e chiedeva un intervento del Vaticano. Intanto Enrique Bolaños veniva elogiato nel corso di omelie teletrasmesse.
Negli Stati uniti il ritorno al potere degli ex rivoluzionari e la possibile creazione di un triangolo composto da Fidel Castro (Cuba), Hugo Chávez (Venezuela) e Daniel Ortega (Nicaragua) ha risvegliato i fantasmi di un tempo. Gli attentati dell’11 settembre a New York e a Washington hanno fornito il pretesto tanto atteso. «L’esperienza sandinista, fatta di violazioni dei principi democratici e dei diritti umani, di espropriazione senza indennizzo della proprietà privata e di legami con il terrorismo ci impensierisce molto», dichiarava il sottosegretario Marc Grossman in un discorso reso poco dopo l’11 settembre.
L’ambasciatore degli Stati uniti in Nicaragua Oliver Garza ha moltiplicato le dichiarazioni in tal senso e pochi giorni prima delle elezioni Jeb Bush, governatore della Florida e fratello del presidente statunitense, ha inviato a Bolaños una lettera di appoggio largamente pubblicizzata: «Daniel Ortega è un nemico di tutto quello che gli Stati uniti rappresentano.
È anche un amico dei nostri nemici» (7).
I responsabili della campagna elettorale del Plc si sono affrettati a riprendere e a esibire le vecchie foto di Ortega insieme a Mohammar Gheddafi e Saddam Hussein. In un momento in cui «chi non è con noi, è contro di noi», il messaggio era chiaro. Così il 4 novembre gli indecisi, sotto l’influenza dei recenti avvenimenti, hanno preso posizione e hanno permesso l’elezione di Enrique Bolaños. Il che probabilmente significherà ancora cinque anni di difficoltà per le classi più deboli.
note:
* Direttore del Centro tricontinentale, Louvain-la-Neuve (Belgio).
(1) In totale spregio della verità storica, questo periodo è talvolta sintetizzato in modo curioso, come dimostra il titolo diffamatorio visto sulla stampa francese alla vigilia delle recenti elezioni: «L’ex dittatore sandinista Daniel Ortega tenta di tornare al potere», Le Monde, 4 novembre 2001.
(2) Si legga Maurice Lemoine, «Le Nicaragua tenté par un retour au passé», Le Monde diplomatique, ottobre 1996.
(3) Oscar René Vargas, Once años despues del ajuste, Managua, 2001.
(4) L’impunità accordata al presidente Alemán si aggiunge a quella di cui già godeva in qualità di membro di diritto del Parlamento centroamericano.
(5) Secondo Sergio García, deputato dissidente del Plc e a lungo vicino ad Alemán, quest’ultimo avrebbe accumulato una fortuna di 250 milioni di dollari (nel 1996 il suo reddito dichiarato era di un milione di dollari).
(6) Si legga Maurice Lemoine, «L’autonomia perduta dei miskitos in Nicaragua», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 1997.
(7) El Nuevo Herald, Miami, 2 novembre 2001.
(Traduzione di A. D. R.)
Da il manifesto del 21 novembre 2003
Terrore in serie
MARCO BASCETTA
Dov’è la guerra? Ovunque. Quando finirà? Mai. Non è uno scambio di battute preso dal teatro dell’assurdo, ma forse e purtroppo una constatazione banale. Divenuta globale forzando i confini dello spazio, la guerra del terzo millennio travolge ormai anche quelli del tempo. Le bombe, le rappresaglie, le azioni di guerra non conoscono soluzione di continuità. E’ la guerra permanente che non risparmia civili, missionari di pace e missioni di guerra, talvolta distinti tra loro da un troppo labile confine. Siamo ormai tristemente abituati a percepirla come una spirale, come un micidiale rincorrersi di sanguinosi atti di terrorismo e di interventi militari, di crimini e di rappresaglie. Ma c’è qualcosa di più e di più inquietante. La
guerra permanente non è più uno strumento di risoluzione delle crisi, un sanguinoso intervallo tra condizioni di relativo equilibrio, ma un elemento stabile dell’ordinamento politico stesso, uno strumento di governo, un principio costituente. Non più sostituzione o continuazione della politica con altri mezzi, ma politica tout court, costituzione materiale dell’assetto globale. Tutto questo non era forse già implicito nel definire operazioni di polizia l’intervento degli eserciti, fuori dai propri confini, sulla scena globale? Non è forse la polizia una funzione permanente degli ordinamenti sociali, un elemento familiare, ordinario e dai più considerato indispensabile? Ma se la guerra ordinata da più o meno legittimi sovrani ha perduto ogni carattere di eccezionalità, altrettanto accade al terrorismo, che ne sia causa, bersaglio, conseguenza o parte, o tutte queste cose insieme. La strage terroristica che nel passato aveva rappresentato un culmine, un fatto straordinario e straordinariamente percepito, un segno
destinato a durare nel tempo, è diventata evento quotidiano, ripetitivo, seriale, beffardamente indifferente all’unicità delle singole vite che cancella. Il terrorismo è divenuto, in altre parole, non più boato che sovrasta e ammutolisce la voce della politica, «lo schianto redentore della dinamite», ma questa voce stessa nella sua espressione più contingente: il terrore esercita controllo sociale, crea gerarchie, ordinamenti, morale e immaginario, condiziona i comportamenti, i sentimenti e le idee. E’ la sicura promessa di oppressione contenuta in quella orrenda etica del sacrificio, della propria e dell’altrui vita, che sta nel cuore del suo linguaggio. E’ propaganda politica che produce morte e morte che produce
propaganda politica in una infernale coincidenza di comunicazione e azione, assai più vicina al mondo della rete e dei suoi nodi che alle antiche ordalie. E’ il rovesciamento mostruoso di un possibile principio di democrazia. Non riconoscere questo spessore e questa articolazione, evocando la disperazione o il crimine, significa assistere impotenti al gioco di massacro o parteciparvi. Due estremi tra i quali costantemente oscillano gli strateghi della guerra globale.
La guerra permanente è una forma della politica che va rimodellando le nostre vite quotidiane secondo lo schema della minaccia e della protezione, tanto più indistinta la prima quanto più indiscriminata la seconda. La retorica patriottica di questi giorni, a un pelo dal riesumare, la temibile esaltazione del pro patria mori, è interamente prigioniera di questo universo simbolico. Si dice, anche a sinistra, che abbandonare il campo in Iraq sarebbe una sorta di diserzione. Ma a volte è proprio alla figura ambivalente del disertore, invisa a ogni potere, che siamo debitori della salvezza e della libertà. E’ infatti proprio questa figura, persino nelle sue espressioni più egoistiche, a segnalare il confine tra ciò che si può chiedere e ciò che chiedere non si può, a porre un limite indiscutibilmente umano all’ideologia, alla lealtà e perfino alla fede.
L’emergenza democratica è cominciata
di Giulietto Chiesa
Non c’è tempo da perdere. Ormai soltanto un cecità completa può impedire di vedere che la democrazia italiana (e quella dell’intero Occidente) è sottoposta a minacce sempre più gravi. Per spingere Al Gore a dire che l’attuale Amministrazione americana sta distruggendo duecento anni di democrazia americana, o per indurre il finanziere George Soros a stanziare un milione di dollari per combattere George Bush, individuato come un tremendo nemico della civilizzazione occidentale, qualcosa di grave deve star accadendo. E noi, nel nostro piccolo angolo di provincia dell’Impero, stiamo assistendo ad un assalto – senza precedenti nei sessant’anni che ci separano dalla nascita dell’Italia repubblicana – contro gl’istituti democratici, la divisione dei poteri, le fondamenta dello stato di diritto, la libertà e il pluralismo dell’informazione e della comunicazione.
E’ di quest’ultima che ora è indispensabile parlare, poiché con ogni evidenza il controllo mass-mediatico è divenuto ormai l’arma attraverso cui procede impetuosamente e su larga scala l’offensiva reazionaria delle destre. Se i morti di Nassiriya sono stati usati come arma contro l’opinione pubblica che si era pronunciata per mesi contro la guerra, è essenzialmente perché la gran parte dei media ha sfruttato politicamente, ideologicamente l’onda emotiva, canalizzandola in direzione diametralmente opposta alla comprensione della realtà. L’analogia inesistente – subito messa in circolo – con l’11 settembre di New York, è servita come catalizzatore per innescare la reazione delle centinaia di commentatori, analisti, untori, nani e ballerine, per non parlare dei politici di destra e “riformisti” (chè, chiamare questi ultimi “di sinistra” è ormai solo fonte di equivoco): all’unisono impegnati a raccogliere tutto ciò che sta accadendo in Irak sotto l’etichetta di “terrorismo islamico”, di “fondamentalismo islamico assassino”, di “regia di Osama bin Laden”. Di nuovo ha funzionato il trucco della “spiegazione più evidente”, quella che si afferma da sola, che cioè si può formulare in un minuto. Proprio come quella che ci fu proposta per l’11 settembre. Tutte le altre spiegazioni richiedono tempo, molte righe di giornale, molti minuti di televisione, qualche dispiegamento di cellule cerebrali. Troppo.
Per cui sono naturalmente queste che vengono elimitate per prime, nascoste, scacciate. E, subito dopo essere state irrise, senza mai essere confutate, ecco sbucare l’accusa canagliesca: “se non sei per la spiegazione semplice, allora sei complice di Saddam, lo vuoi vincente, sei un alleato del terrorismo, sei un terrorista”. Scrive Scalfari su Repubblica (16 novembre) che “si è aperta la porta dell’inferno”. E ha ragione, in questo. Il ballo di San Vito della democrazia liberale è già cominciato. E l’opinione pubblica democratica non ha strumenti (quelli che ha sono di alcuni ordini di grandezza inferiori a quelli dell’avversario) per difendersi. Ancora pochi mesi fa in Italia il movimento contro la guerra americana in Irak era imponente. Era tanto evidentemente maggioritario che nemmeno i professionisti dei sondaggi governativi osarono contrastare quella constatazione. Il contingente italiano fu mandato laggiù, a morire, sotto etichette ambigue, o false, “in missione di pace”, utilizzando la bugia di una guerra che era stata proclamata vinta e terminata. Lo stesso giochetto canagliesco che aveva funzionato così bene (anche sul versante dei “riformisti”) al “termine” della guerra afgana. Molti avevano capito, ed esecrato.
Eppure la tragedia di Nassiriya ha permesso alle canaglie che hanno portato quei giovani a morire, agli zeloti che avevano inneggiato alla guerra, di rovesciare i torti e le responsabilità e di presentarsi come i difensori dell’onore patrio, della difesa contro il terrorismo, della solidarietà con gli Stati Uniti, e così via con la sequela di menzogne che ormai punteggiano la nostra vita e che ci assediano minuto dopo minuto. Se in pochi giorni, poche ore, il rapporto di forze tra il popolo pacifista e il popolo manipolato si è andato parificando attorno al 50% – come tutti i sondaggi hanno indicato – la spiegazione è evidente. “Loro” hanno saputo sfruttare l’ondata. Hanno saputo perché potevano farlo. “Noi”, semplicemente , non potevamo farlo, perché eravamo e siamo disarmati. E c’è un’altra constatazione da fare. La potenza emotiva, opportunamente incanalata, ha potuto smantellare in molti convinzioni ancora non rinsaldate. Il movimento contro la guerra è grande, ma ancora fluido, embrionale. Manca di una leadership, di una guida forte, capace di trascinarlo, galvanizzarlo, unificarlo. Che oscilli sotto l’urto di forze organizzate e mediaticamente soverchianti è del tutto logico. Che abbia resistito, rimanendo maggioritario seppure di poco, è segno di un enorme forza. Ma non sufficiente per reggere. In ogni caso è essenziale sapere dove ci troviamo, cosa è possibile fare e cosa è irrealistico attendersi. E bisogna prepararsi ai prossimi appuntamenti, che saranno durissimi.
Tante volte ho sentito obiezioni, alla “guerra infinita”, di questo tenore: troppo pessimismo, sopravvalutazione della forza imperiale degli Stati Uniti, sottovalutazione della forza dei popoli, dei movimenti di contestazione alla globalizzazione dei ricchi. Lo scenario che abbiamo di fronte è invece esattamente quello di una guerra che si dilata a dismisura, di un terrore che si estende, che dilaga, che si avvicina ai nostri confini, alle nostre case. E non basta fermarsi alla constatazione – logica, razionale – che ciò conferma le nostre previsioni, che la guerra contro stati non avrebbe risolto nulla e, anzi, avrebbe aggravato la situazione in tutte le direzioni. Il fatto è che la guerra si estende e si trasforma: da guerra classica in un misto di guerra, guerriglia, terrorismo diffuso, coinvolgendo sempre di più le popolazioni civili, gl’innocenti vicini e lontani dai fronti che è ormai impossibile discernere.
Il dato sempre più visibile è che questa guerra inedita che si dilata, sta modificando ormi il tessuto democratico e civile delle società che la conducono. E’ una guerra trasformatrice, che intacca i capisaldi che fecero orgoglioso l’Occidente. Ci fa peggiori, ci spoglia dei nostri diritti. La perderemo comunque. E, quanto alle chances di vittoria dell’Impero, è vero che esse rimangono scarse, ma non ha nessuna importanza che siano tali. Il dato che sta emergendo, lancinante, terribile, è che questo Impero può anche essere incapace di vincere, ma è sufficientemente forte da trascinare tutti noi nel baratro che sta scavando. Noi sappiamo già che l’Irak (e il mondo intero) non possono essere soggiogati dalla lotta contro il terrorismo condotta con guerre contro stati poveri. Semplicemente perché in Irak è in corso una guerra di guerriglia contro le truppe di occupazione (in cui confluiscono anche componenti terroristiche) e nel mondo l’opposizione all’Impero cresce e si organizza (e non è solo rappresentata dal terrorismo islamico fondamentalista, che ne è anzi parte ridotta e secondaria).
Ciò significa che i morti in Irak cresceranno nei prossimi mesi; che la “vittoria” americana è in grave pericolo; che l’esito più probabile è un ritiro inglorioso degli occupanti (cosa che costringerà i finti patrioti di oggi a trovare spiegazioni migliori per i prossimi morti italiani). Ma la fuga di Bush, che si annuncia al di là dei proclami tracotanti, non può tranquillizzarci. Il disastro compiuto è immane. Ne seguirà una destabilizzazione ulteriore di tutta l’area, altri focolai, altre montagne di cadaveri. Le minacce per la pace si moltiplicheranno e si dilateranno ben oltre i confini iracheni, che stanno diventando inesorabilmente sempre più precari. E, con il crescere della paura, s’affaccerà come naturale l’erosione delle nostre libertà, della nostra democrazia. Ecco perché il momento è grave anche se , per avventura, l’Impero fosse sconfitto. I suoi vassalli hanno imparato la lezione e stanno approfittando dei varchi che si trovano di fronte per muovere all’offensiva. In queste condizioni mediatiche pensare a consultazioni elettorali “normali”, “legittime”, è cosa senza senso.
E bisognerà spiegare agli ottimisti inguaribili che, prima di contare i giorni che ci separano dall’uscita dal potere di queste destre “che non fanno prigionieri” bisognerà chiedere loro se sono disposte ad andarsene pacificamente in caso di sconfitta.
Tutto ci dice che non sarà così.
Giulietto Chiesa
L’Imperatore e le sue guerre
di Giulietto Chiesa
Mentre scrivo queste note il luogo comune più in vista è costituito dall’equiparazione, ormai divenuta quasi automatica, tra una qualsiasi espressione di critica verso lo Stato d’Israele e la sua politica, da un lato, e l’antisemitismo dall’altro.
Dunque è quasi obbligatorio ragionarci sopra, anche se è un tema straordinariamente difficile e – lo confesso – lo affronto con un certo disagio, ben sapendo che ogni virgola fuori posto sarà usata immediatamente per affibbiare anche a me l’epiteto di “antisemita”. Ma ci provo, facendomi scudo del Papa. Giovanni Paolo Secondo ha detto a Sharon che “non servono muri, servono ponti”. Sharon sta costruendo un muro che, letteralmente, ruba territori ai palestinesi e, come ha detto anche il cardinale Sodano, trasforma lo stato palestinese in una gruviera.
Antisemita anche lui? Anche quando dice che bisogna collocare una forza d’interposizione tra israeliani e palestinesi, che tenga a freno gli uni e gli altri? Ma il presidente Bush e Ariel Sharon non ne vogliono sapere. Eppure prova a dire o a scrivere una cosa del genere e immediatamente sarai tacciato di voler attentare alla sicurezza degli ebrei. E perfino le parole del Papa, che ha già chiesto perdono per il passato, che è andato laggiù a pregare sul muro del pianto, sono messe in un angolo, quando non ignorate dai giornali e dai telegiornali. L’altro giorno quattro ex capi del servizio segreto israeliano, lo Shinbeth, hanno pubblicato un documento congiunto in cui criticano severamente Ariel Sharon per aver puntato esclusivamente sulla guerra, sulla violenza contro i palestinesi, per il suo rifiuto ostinato di abbandonare gl’insediamenti dei coloni nei territori che il processo di pace aveva già assegnato ai palestinesi. Il New York Times mette la notizia in prima pagina, ma i giornali italiani o ne tacciono, o la relegano in luoghi invisibili. I telegiornali italiani, tutti, senza eccezione alcuna, la ignorano.
Qualche giorno prima l’Unione Europea aveva pubblicato un sondaggio (su 7500 cittadini europei, distribuiti uniformemente) in base al quale – scrissero tutti i giornali tra grida di scandalo e accuse di antisemitismo – la politica dello stato d’Israele rappresenta, per il 59% degli europei, la maggiore minaccia alla pace mondiale. Quasi tutti i capi partito italiani si mostrarono indignati. Il presidente della Camera, Casini, definì il sondaggio “inopportuno” (non gli era piaciuto il risultato o il sondaggio?). Quasi tutti ignorarono che il sondaggio era composto di dieci domande, solo l’ultima delle quali riguardava Israele (lo stato, non gli ebrei). Le altre nove erano tutte sulla guerra americana in Irak e tendevano a scoprire quale fosse l’orientamento dei cittadini d’Europa. Ebbene, dal sondaggio emergeva che la stragrande maggioranza degli europei riteneva la guerra sbagliata, ingiusta, e si attendeva dall’Europa una politica di forte distinzione rispetto a quella degli Stati Uniti. Si trattava di un’informazione preziosa, per chi avesse voluto mettere mano a una politica estera dell’Europa più rispettosa della volontà dei suoi cittadini.
Invece il coro scandalizzato dei commentatori fu rumoroso e scomposto: l’Europa – si chiesero – sta diventando antisemita? Ma che c’entra? Dovremmo giungere alla conclusione che il 59% degli europei è diventato antisemita? E in Italia anche? C’è qualcuno disposto ad affermare pubblicamente che la maggior parte degl’italiani, che si è pronunciata contro la guerra, è diventata antisemita? Begli amici di Israele per davvero quelli che sostengono questa tesi! Dice il proverbio: dai nemici mi guardi Iddio che dagli amici mi guardo io. E’ chiaro che non è vero, ma la pressione mediatica guerriera e bugiarda è riuscita a far diventare senso comune un’equazione falsa. Difendono gli ebrei? Niente affatto. Sono preoccupati di difendere l’imperatore e le sue guerre.
E poiché Sharon le sostiene e ne fa parte integrante, ecco invocare a sua difesa il ricordo dell’olocausto, che non c’entra assolutamente niente. Eppure non si può più discutere di queste cose in termini civili. I dibattiti (si fa per dire) televisivi si trasformano in risse non appena si tocca l’argomento Israele. E’ diventato un tabù. E, ogni volta che qualcuno osa alzare il dito per proporre un distinguo, ecco l’altra accusa, che diventa anch’essa un luogo comune invalicabile: se non sei con Israele non solo sei antisemita, ma sei anche a favore del terrorismo, dei terroristi, di Osama bin Laden e di Saddam Hussein. Tutto in un fascio, per creare la massima confusione nelle menti. Anche in Irak, dove sono morti diciannove italiani, vogliono che si veda soltanto il terrorismo islamico.
E invece c’è una guerra che non è affatto finita e non è affatto vinta. Dove c’è sicuramente il terrorismo (prima non c’era e ce lo ha portato la guerra americana), ma c’è anche una enorme resistenza popolare all’occupazione.
Così i luoghi comuni uccidono, perché, sbagliando e ingannando la gente, si manderanno altri soldati italiani a morire inutilmente e per una causa sbagliata.
tratto da Missionari Consolata
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