A GUARDIA DEL MONDO

di Noam Chomsky

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La fine della guerra fredda ha avuto molte conseguenze importanti sugli affari internazionali. In primo luogo, essa ha richiesto che la superpotenza regnante e i suoi apparati dottrinali (media, intellettuali, ecc.) adottassero nuovi pretesti per giustificare politiche che rimanevano sostanzialmente invariate. Questo è stato immediatamente evidente in documenti ufficiali, dibattiti pubblici, ecc. Di fatto, il processo era in corso dall’inizio degli anni ’80, in previsione del fatto che la formula “arrivano i russi” non avrebbe funzionato ancora per molto (terroristi arabi pazzi, narcotrafficanti ispanici, ecc.). Ma un brusco cambiamento si è verificato immediatamente dopo la caduta del muro di Berlino. Ho documentato sulla stampa molti dei dettagli, via via che i mutamenti seguivano il loro corso naturale.

In secondo luogo, il non-allineamento è stato eliminato con successo. Quando il mondo è governato da due gangster, uno più potente e uno meno, vi è un certo spazio per il non-allineamento. Quando ne resta uno solo, quello più potente, tale spazio viene meno. Ecco perché perfino ferventi anticomunisti del Terzo mondo, come il primo ministro della Malesia Mahathir, descrivono la fine della guerra fredda come una specie di tragedia per il Sud. La noncuranza e il disprezzo per le preoccupazioni del Terzo mondo sono state subito evidenti, e sono ormai estreme. Anche di questo atteggiamento ho già discusso in dettaglio – e più volte – sulla stampa.

Un’altra conseguenza è che, venuto meno il deterrente, l’intervento violento è molto più facile per i principali stati guerrieri (gli Stati Uniti e il loro mastino, la Gran Bretagna). Anche questo è stato subito evidente, sebbene essi siano costretti in misura non piccola all’aggressione e al terrore dall’opposizione presente nei loro stessi paesi, ed è rivelato molto chiaramente nei documenti di programmazione ad alto livello trapelati.

Tutto questo era stato chiaramente compreso in anticipo. In alcuni saggi del 1989, ripubblicati nella mia raccolta del 1991 Deterring Democrocacy citavo le osservazioni di uno stimato analista, Dimitri Simes, Senior Associate del Carnegie Endowment for peace, nell’edizione di fine anno 1989 del New York Times. Egli riconosceva che l’era sovietica stava volgendo al termine, e salutava il nuovo scenario, in gran parte, per le ragioni che ho appena menzionato. Il crollo del deterrente avrebbe consentito agli Stati Uniti di ricorrere alla violenza per promuovere i propri interessi (di fatto gli interessi del settore finanziario, sebbene egli non si sia espresso così) e non sarebbe più stato necessario andare incontro alle preoccupazioni del Terzo mondo. Un’analisi fondamentalmente accurata, assai rispondente a ciò a cui assistiamo da dieci anni, sebbene per rendersene conto sia necessario sfuggire ai confini dell’apparato dottrinale e scoprire le verità nascoste sulla situazione in Turchia, Timor Est, Colombia, Haiti, ecc. – per attenersi solo all’era del dopo guerra fredda.

Il crollo del brutale e corrotto impero sovietico ha condotto ovviamente a molte lotte interne. Ma questo è la norma. I crolli degli imperi britannico, francese e portoghese portarono a conflitti ancora più violenti e distruttivi, molti dei quali ancora divampano. Poiché quelli erano imperi occidentali, la questione non è vista in questa luce, e l’orribile situazione che ha fatto seguito al crollo dell’impero sovietico viene percepita come qualcosa di unico, un altro delitto del nemico ufficiale, che ha già crimini di cui rispondere in misura più che sufficiente. Uscendo dai confini dottrinali, possiamo vedere che la storia è piuttosto diversa.

Le norme dell’ordine internazionale sono quelle di sempre. Regna la legge del più forte, così come è sempre successo. Gli stati non sono agenti morali, sebbene il compito degli intellettuali sia dipingerli come nobili e giusti (i loro stati e i loro clienti, cioè; non i nemici, che possono essere rappresentati realisticamente). Le persone comunque sono agenti morali, e possono agire – e agiscono – per limitare la violenza del potere, a volte per rovesciarlo

I problemi dell’autodeterminazione assumono sempre nuove forme, così come le situazioni contingenti, che si modificano. Soltanto per menzionare uno dei più drammatici cambiamenti recenti – il cui impatto globale è superiore a quello della fine della guerra fredda, ritengo -, la decisione da parte degli Stati Uniti e, in seguito, dei suoi alleati di liberalizzare il capitale finanziario all’inizio degli anni ’70, smantellando il sistema di Bretton Woods, ha avuto proprio quelle conseguenze che gli ideatori di Bretton Woods avevano in mente quando costruirono un sistema di liberalismo contenuto”, con limitazioni sui flussi di capitale e tassi di cambio relativamente fissi. Essi capivano molto bene che la liberalizzazione dei mercati finanziari sarebbe stata un’arma potente contro l’autodeterminazione – contro la democrazia e il welfare state. Le ragioni sono semplici: investitori, speculatori e potenti istituzioni finanziarie possono diventare ciò che alcuni economisti internazionali hanno chiamato un “senato virtuale”, incapace di imporre le sue politiche anche agli stati più potenti. punendo scelte “irrazionali” che avvantaggerebbero solo le persone, non i profitti, mediante la minaccia (o la realtà, se necessario) della fuga dei capitali, costringendo i tassi di interesse a crescere, e spedendo l’economia in recessione se non peggio. A parte questo, le politiche di molti paesi del mondo sono determinate direttamente dalle istituzioni finanziarie internazionali che riflettono largamente le decisioni degli Stati Uniti. Ovviamente questo limita deliberatamente l’autodeterminazione e trasferisce potere nelle mani delle grandi tirannnie degli stati potenti su cui esse fanno affidamento e che dominano-“come strumenti e tiranni” secondo l’acuta definizione data da James Madison 200 anni fa.

Questo è solo un fattore nella limitazione dell’autodeterminazione. Altri sono più semplici ad esempio il brutale della violenza e del terrore. I dissidenti intellettuali dell’America Latina -quelli che sono sopravvissuti -hanno descritto in modo eloquente gli effetti residui dellla cultura del terrore, che permangono dopo che il terrore vero e proprio è tramontato, avendo raggiunto i suoi obbiettivi. Questa “cultura del terrore” ha l’effetto di “addomesticare le aspirazioni della maggioranza”, in modo che essa non sogni nemmeno scelte di opposizione rispetto a quelle dei potenti. Sto facendo riferimento al rapporto di un meeting organizzato dagli intellettuali gesuiti (sopravvissuti) a El Salvador alcuni anni fa, ma questa consapevolezza è diffusa tra le vittime tradizionali, e naturalmente taciuta. I potenti e i privilegiati preferiscono una differente immagine di se stessi. Inutile dirlo, il terrore e la repressione che essi descrivono sono riconducibili direttamente al quartier generale della superpotenza regnante.

La pulizia etnica può essere un crimine terribile, e la storia ne è piena. Prendiamo ad esempio semplicemente la superpotenza regnante. Essa ha ottenuto il suo territorio nazionale mediante massicce operazioni di pulizia etnica “sterminando” la popolazione nativa, secondo le parole dei Padri Fondatori. Poi si è rivolta all’esterno, compiendo un enorme massacro nelle Filippine, uccidendo centinaia di migliaia di persone e sottoponendo i nativi che si opponevano a pulizia etnica.

Comportamenti analoghi sono seguiti poi in altre zone del suo dominio in espansione. In anni più recenti, l’attacco di John F. Kennedy al Vietnam del Sud nel 1961-62 (chiamato “la difesa del Vietnam del Sud” nella cultura dei commissari del popolo) ha incluso non solo il bombardamento su vasta scala di obiettivi civili da parte dell’aviazione americana, ma anche la distruzione dei raccolti e un’ampia operazione di pulizia etnica per portare centinaia di migliaia – infine milioni di persone in campi di concentramento chiamati “villaggi strategici” e in slum urbani. Le stesse politiche sono state poi estese a Laos, Cambogia, e Vietnam del Nord – soprattutto a sud del ventesimo parallelo, in modo che la cosa non risultasse troppo visibile agli osservatori occidentali.
Gli Usa hanno poi sostenuto la pulizia etnica indonesiana a Timor Est, distruggendo consapevolmente forse un quarto della popolazione o più, e compiendo molte atrocità in altri posti, incluse le loro vaste operazioni di terrore nell’America centrale, che hanno prodotto milioni di profughi uccidendo al contempo molte altre centinaia di migliaia di persone.

La situazione continua così per tutti gli anni ’90. Una delle peggiori pulizie etniche della metà degli anni ’90 avviene all’interno della Nato, nel suo angolo sud-orientale – forse 2-3 milioni di rifugiati, 3.500 villaggi distrutti, decine di migliaia di persone uccise, ogni atrocità immaginabile, in gran parte grazie a Bili Clinton che, mentre le atrocità giungevano al culmine, aumentava il flusso di armi (hanno contribuito altre potenze Nato, ma gli Stati Uniti erano in posizione preminente).

È solo un piccolo esempio. La pulizia etnica è una storia vecchia, e terribile. Devo aggiungere, per precisione, che gli Stati Uniti non sono impegnati in una pulizia “etnica”. Piuttosto, sono ecumenici. Se si trova sulla loro strada e disobbedisce, una vittima vale l’altra. Per le altre potenze è lo stesso, anche se a volte capita che le vittime costituiscano un gruppo etnico. Ad esempio, i 750.000 palestinesi che sono fuggiti o sono stati cacciati dalle loro case nel 1948 con ampio ricorso alla violenza e al terrore. In linea di principio, fu loro garantito il diritto a ritornare o a ricevere un indennizzo per decisione quasi unanime della comunità internazionale.

Ma in un’altra dimostrazione del suo impegno nel campo dei diritti umani, Clinton ha unilateralmente posto il veto a quella decisione (l’opposizione degli Usa corrisponde a un veto, dati i poteri reali).

Nella dottrina occidentale, il termine “pulizia etnica” è usato molto poco: per riferirsi alla pulizia etnica attuata dai nemici ufficiali. Ancora una volta, è una pratica corrente, nella storia – e nella storia intellettuale. Gli esempi verso cui l’attenzione viene attentamente indirizzata sono sufficientemente orribili, ma paragonarli all’Olocausto è una forma estrema di revisionismo sull’Olocausto stesso, e un vergognoso insulto alle sue vittime. Questo dovrebbe essere evidente senza ulteriori commenti.

Da “Il Manifesto” di sabato 4 Dicembre 1999 nella sezione Culture alle voci: “Fine della guerra fredda, autodeterminazione, pulizia etnica, il ruolo degli Stati Uniti nel governo dell’ordine mondiale” e “Dopo la mobilitazione di Seattle contro l’organizzazione del commercio, la critica radicale di Noam Chomsky all’incontrastata potenza dell’Impero americano”.

trad. Marina Impallomeni) – il manifesto


LE GUERRE PARALLELE DELLA NATO

Di Diana Johnstone

http://members.xoom.virgilio.it/zadruga/le_guerre_parallele_della.n.htm

La NATO sta facendo due guerre parallele in Yugoslavia. Una è la guerra contro il Kosovo, e il caos che ha finora creato serve da giustificazione per l’altra guerra parallela, la guerra contro la Serbia. Il conflitto fra Serbi e Albanesi in Kosovo non è di quelli semplici da capire. Non si tratta del fatto che “i Serbi maltrattano gli Albanesi”. Nel 1980, come riporta il New York Times, la maggioranza albanese in Kosovo rendeva difficile la vita ai Serbi per costringerli ad andare via e creare così un Kosovo “etnicamente puro” che alla fine si sarebbe potuto unire con la vicina Albania. ( Cfr. ” In Yugoslavia, Rising Ethnic Strife Brings Fears of Worse Civil Conflict”, di David Binder, The New York Times , 1 nov.1987). Questa è stata una delle ragioni per cui il Parlamento Serbo ha ridotto ( ma non “abolito”) la grande autonomia che era stata garantita alla provincia nel 1974 ; la politica di Tito, a quell’epoca, era diretta a garantire più potere ai leaders dei partiti etnici di Yugoslavia per poter distogliere l’attenzione dalle richieste di democratizzazione. Da allora i secessionisti albanesi in Kosovo hanno amplificato il boicottaggio delle istituzioni serbe (le consultazioni elettorali, i curriculum scolastici, le tasse, ecc.) già attivo da anni. Questo boicottaggio, che è stato esteso anche all’eccellente servizio sanitario pubblico serbo in Kosovo con detrimento della salute dei bambini, è stato presentato al mondo intero come un “apartheid” imposto dai Serbi; quest’immagine è stato creata dalla fortissima lobby d’etnia albanese in Germania e negli Stati Uniti, dove, già nel 1980, poteva contare sull’ influente patrocinatore senatore Robert Dole. Gli obiettivi: dividere la storica provincia serba dalla Yugoslavia e farla diventare una terra totalmente albanese. Il boicottaggio delle istituzioni fu anche presentato al mondo come un’azione non violenta di tipo gandhiano. Ma come ha puntualizzato Dardan Gashi in un recente libro ( Albanien: Archaisch, orientaliesch, europaeisch, Promedia, Vienna, 1997, p.69) questo tipo di disobbedienza civile era in linea con lo storico rifiuto, da parte dei clans dell’Albania settentrionale e del Kosovo, di rispettare qualsiasi altra legge che non fosse quella del loro tradizionale “Kanun”, le regole patriarcali di condotta non scritte che spaziano dai rigidi obblighi di ospitalità fino alle implacabili e sanguinose faide. L’assenza totale di regole che regna in Albania attualmente ne è una testimonianza. Il conflitto fra Serbi e Albanesi, che è più culturale che storico ( e la religione c’entra ben poco), avrebbe richiesto una mediazione molto paziente e saggia da parte di forze esterne che non hanno interessi diretti nella regione. Al contrario è stato mediato da istituzioni che si potenziano attraverso il conflitto: i media e la NATO. Entrambe hanno trasformato un problema difficile in una catastrofe. Prima dei bombardamenti NATO non esisteva alcuna “pulizia etnica” verso gli Albanesi del Kosovo. Vi erano semmai delle operazioni della polizia serba contro l’ “Esercito di Liberazione del Kosovo” (KLA) , che per oltre un anno aveva ucciso sia poliziotti che privati cittadini, inclusi degli albanesi che non collaboravano. Gli attacchi del KLA erano una classica provocazione per scatenare le azioni poliziesche per poi denunciarle sistematicamente come attacchi contro la popolazione albanese. Le vittime da entrambe le parti sono state nell’ordine di centinaia ( la cifra di 2000 denunciata dal KLA è sicuramente un’esagerazione, ma anche fosse, non è certamente l’inizio di un “olocausto”). Molte case sono state distrutte dal momento che le case rurali albanesi sono costruite per un doppio uso: come dimora e come difesa, e ciò è conforme alla tradizione delle faide tribali (op. cit. p.68). E’ possibile spesso vedere le case albanesi recintate da mura con feritoie ai piani superiori. Rolly Keith , ex-osservatore dell’OCSE in Kosovo, ha dichiarato in un meeting a Vancouver il 10 aprile che fino a che la missione non è stata espulsa dal Kosovo 4 giorni prima che cominciassero i bombardamenti non ha visto alcun segno di genocidio o di pulizia etnica. Altri osservatori OCSE hanno confermato la stessa cosa, ma sono stati marginalizzati dal capo della missione William Walker , ex-ambasciatore a El Salvador e specialista nell’organizzare le cosiddette “repubbliche delle banane” in America Centrale. Da quando gli osservatori OCSE sono stati espulsi e la NATO ha iniziato a fare a pezzi il Kosovo con le sue armi ad alta tecnologia è impossibile sapere esattamente che cosa stia succedendo. I rifugiati stanno fuggendo dall’inferno della guerra. Fra tutte le cose terribili che stanno avvenendo è probabile, com’era d’altronde prevedibile, che le forze serbe stiano espellendo tutti gli Albanesi da molte aree del Kosovo, considerandoli la “quinta colonna” della NATO (proprio come dopo Pearl Harbor , quando gli Stati Uniti hanno fatto la “pulizia etnica” dei giapponesi americanizzati nella West Coast, sebbene il Giappone non sostenesse che la sua guerra era fatta per favorire un’etnia giapponese mirante a staccare la California dagli USA). Le sofferenze dei profughi civili, assolutamente prevedibili dopo i bombardamenti NATO, sono state accolte prima di tutto con le telecamere piuttosto che con interventi di soccorso. Di conseguenza i media hanno potuto far risuonare le corde del sentimento della gente per bene del Minnesota e creare l’impressione che la NATO stesse facendo la guerra per fermare la pulizia etnica, che peraltro stava proprio iniziando. Attraverso le immagini televisive sono stati scambiate le cause e con gli effetti. Ora, quale che sia il tipo di pulizia etnica che i Serbi stanno veramente facendo, è comunque amplificata fino a diventare “genocidio”. Il concetto viene sfruttato propagandisticamente dalla NATO per entrare in Albania ed occuparla, all’apparenza per scopi “umanitari”, ma pronta per un’invasione “umanitaria” di una Yugoslavia totalmente devastata. Lo spettacolo dei rifugiati biondi e dagli occhi azzurri ha toccato i cuori degli Europei e degli Americani come mai prima era successo. Questo genere di spettacolo serve come schermo dietro a cui la NATO nasconde l’altra guerra parallela: la totale distruzione della Serbia. I bombardamenti sono presentati all’Occidente come una necessità perché “Milosevic si ritiri”. In realtà le azioni dicono assai più che le parole, specialmente in tempo di guerra. Il bombardamento dei ponti che collegano la Serbia centrale al nord con la provincia della Voivodina ( il ricco granaio della Yugoslavia), al sud con la Macedonia e all’ovest con la Bosnia , fa chiarezza sull’obiettivo strategico della NATO: isolare la Serbia centrale dalle province periferiche e dagli stati confinanti. Il bombardamento di fabbriche ed infrastrutture dice altrettanto chiaramente che lo scopo è di impoverire quel che rimane della Serbia in tal modo isolata e distruggere il futuro della sua gioventù. La VERA guerra è quella per distruggere la Serbia. La guerra parallela in Kosovo ne è solo il pretesto e il cuneo con cui sfondare. La gente di Belgrado, con cui sono stata in contatto ogni giorno al telefono o via e-mail, lo capisce fino in fondo. Non capisce quello che succede dalla televisione, lo capisce dalle bombe che le cascano sulla testa. Un’altra terza guerra parallela è di tipo propagandistico. La NATO è andata tanto oltre da mirare alla televisione serba. “La televisione serba ha riempito per anni l’etere con odio e bugie… è pertanto un obiettivo legittimo di questa campagna”, ha dichiarato il comandante dell’aviazione NATO David Wilby. Gli americani e gli europei non hanno nessun modo per sapere se questo è vero o no. Non guardano la televisione serba. I Serbi invece guardano le televisioni occidentali, specialmente la CNN in questi giorni, per sapere in anticipo che cosa sarà bombardato. Essi possono comparare quello che dicono entrambe le fonti televisive. Un amico ritornato da un viaggio a Belgrado mi ha detto:” I Serbi sono molto ben informati. La gente discute in continuazione, i telefoni sono sempre occupati dalla gente che si chiama in continuazione e si informa. Quello che sta succedendo non è una sorpresa per i Serbi. Sapevano che sarebbe successo perché hanno osservato il comportamento degli Stati Uniti in tutto il mondo. Gli Stati Uniti bombardano. La gente parla di questo in continuazione, ma anche così, è sempre uno shock quando accade davvero.” A Belgrado il mio amico ha potuto vedere sette canali televisivi yugoslavi, tre del governo (RTS1, 2 e 3) e gli altri privati: Studio B, Politika, Palma e BK del gruppo bancario dei fratelli Karic. Se Milosevic è il “nuovo Hitler” allora è un dittatore molto riservato. Mentre il vero Hitler tuonava e inveiva alla radio, Milosevic è praticamente invisibile. Anche i suoi peggiori nemici si sono dimenticati di lui. Sembra irrilevante. Nessuno parla neanche del Kosovo o degli Albanesi, eccetto i rifugiati serbi, zingari ed albanesi che sono scappati a Belgrado per gli incessanti bombardamenti nel Kosovo. Milosevic sembra anche irrilevante per la guerra che la NATO conduce contro la Serbia. Attualmente, nello stato di guerra, sono sporadicamente rinforzate diverse inutili restrizioni della stampa adottate di recente. Radio B92 è stata chiusa senza alcuna ragione apparente. Altre sono in corso. I giornalisti stranieri sono stati autorizzati a ritornare in Serbia dopo la loro iniziale espulsione. Le condizioni di guerra producono restrizioni e censure. E questo è stato vero anche per gli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale. Ma oggi con le antenne satellitari, con le e-mail e il web, ascoltare quello che viene detto da entrambe le parti non è un problema per la gente che vuole essere informata, ed essere un bersaglio della NATO è una buona motivazione per esserlo. “La NATO ha sganciato volantini sulla Serbia per spiegare le buone intenzioni della guerra; – ha detto il mio amico- questo non ha fatto altro che ricordare alla gente i volantini che venivano lanciati dai nazisti durante il bombardamento di Belgrado nel 1941. Ridicolo.” I Serbi, specialmente a Belgrado, di solito erano sempre molto divisi nelle continue discussioni politiche. ” Ora – ha detto il mio amico- non c’è una sola persona che non pensi che i Serbi siano nel giusto. Forse, se ci fosse stato solo qualche avvertimento, una piccola dimostrazione di forza, le cose sarebbero andate diversamente. Ma distruggere in modo totale tutto il potenziale per la vita futura della nazione va ben oltre quello che ognuno può intendere.” I Serbi sanno che non possono sconfiggere la NATO. Pensano che non ci sia niente da fare contro una tale potenza distruttiva. La NATO ha i suoi scopi e i suoi progetti e giura di perseguirli fino alla fine. I Serbi non pensano che sbarazzarsi di Milosevic o accettare questo o quell’accordo faccia qualche differenza. La NATO ha deciso di distruggerli per trasformare i Balcani in un patchwork di stati etnici clientelari o in insieme di protettorati da usare come basi NATO. Lo sanno, non perché gliel’abbia detto Milosevic, ma perché essendo ben informati dai media internazionali, lo hanno capito da soli. All’Ovest il confronto che viene continuamente fatto è con l’Olocausto. Nell’Est dove il popolo serbo, provocatoriamente, passa nottate su nottate a difesa dei suoi ponti, il parallelo è diverso: è Masada.

Diana Johnstone, 13 aprile 1999

Sessant’anni di “pulizie etniche”

http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/

LeMonde-archivio/Maggio-1999/9905lm10.02.html 


Durante la seconda guerra mondiale gli Occupanti intrapresero lo sterminio di centinaia di migliaia di ebrei e rom, ma anche di serbi, croati e sloveni. Mezzo secolo dopo, lo smantellamento della Jugoslavia provocava nuovi massacri, nel corso dei quali ciascuna comunità era di volta in volta carnefice e vittima.

di TOMMASO DI FRANCESCO e GIACOMO SCOTTI*

“Dall’aprile del 1941 fino all’autunno le campagne del Kosovano furono messe a fuoco e a sacco… Così, mentre io ero ancora lì continuarono fin oltre la metà di ottobre gli incendi e i saccheggi; ed io non dimenticherò mai lo spettacolo miserando che si offerse ai miei occhi il giorno 18 ottobre, quando scendendo dalle montagne dell’alta valle nell’Ibar vidi lo stradone fra Dobrusha e Peda percorso da una interminabile e lagrimevole fila di profughi serbi-montenegrini, che si rifugiava nella città, trascinando con sé le poche masserizie salvate, caricate su carri o carretti o gettate come pesanti fagotti sulle spalle…”. Potrebbe essere una relazione dei verificatori dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione (Osce) e invece è la parte finale del Rapporto sulle campagne jugoslave redatto negli anni Quaranta dall’agronomo italiano Giovanni Lorenzoni (1). Questa lunga citazione per ricordare che le “pulizie etniche” sul territorio della ex Jugoslavia hanno antiche radici, e che un triste primato appartiene alla regione del Kosovo. Se il regime di Milosevic impone oggi in modo ignobile agli albanesi di questa regione (l’80% della popolazione secondo il censimento del 1991), una tragica migrazione-epurazione, si tratta in questo caso, agli occhi di numerosi serbi, di una ritorsione: contro il bombardamento della Serbia da parte della Nato, senza dubbio, ma anche contro le “pulizie” di cui essi stessi furono vittime altre volte.
Nel corso della seconda guerra mondiale le potenze nazifasciste smembrarono la giovane Jugoslavia (che era nata nel 1913 e così era stata chiamata nel 1929) creando stati-fantoccio alla cui testa posero dittatori fascisti (Pavelic in Croazia, Nedic in Serbia), mentre si annettevano le altre parti (2). Il Montenegro divenne un protettorato dell’Italia, che unì al proprio territorio nazionale una fetta della Slovenia (provincia di Lubiana), molte delle isole dalmate, parte della terraferma croata e le Bocche di Cattaro per un totale di 4.550 kmq di territorio con 336 mila abitanti. Da parte sua il Terzo Reich si aggiudicava gran parte della Slovenia (Gorendska e Stiria), vale a dire 10.261 kmq e 798 mila abitanti. L’Ungheria si impadronì di un’altra fetta della Slovenia, il Prekomurde e di gran parte della Vojvodina; alla Bulgaria andò gran parte della Macedonia; alla cosiddetta Grande Albania, in realtà all’Italia, furono annessi il Kosovo e la Macedonia occidentale. In tutte le zone annesse si fece ricorso alla pulizia etnica al fine di germanizzare, italizzare, magiarizzare, bulgarizzare quei territori; e allo scopo si ricorse a metodi terroristici. La Germania deportò alcune centinaia di migliaia di Sloveni in Serbia o nei campi di concentramento. Decine di migliaia di sloveni e di croati, per lo più intellettuali, furono incarcerati in Italia: almeno diecimila morirono di fame, di torture, di patimenti. Altre migliaia di persone furono fucilate nelle stesse zone annesse. Il generale Mario Robotti, in una circolare dell’8 agosto 1942 affermava: “Non si uccide abbastanza!” Lo stesso generale, in conformità a una direttiva di Mussolini del giugno 1942, scrisse in un suo ordine: “Che non ci si limiti al solo internamento. Io non mi opporrò a che tutti gli sloveni siano internati e sostituiti da italiani. In altri termini, fare in modo che le frontiere politiche ed etniche coincidano”.
Nella Croazia ustascia, trasformata in colonia tedesca, la pulizia etnica fu sistematica, compiuta con massacri nelle regioni abitate in prevalenza da serbi e con lo sterminio pianificato dei superstiti finiti nei campi di concentramento di Slano (Pago), Jadovno, Stara Gradiska, Jasenovac ed altri dove furono sterminati non meno di seicentomila serbi, ebrei, romi (insieme a croati antifacisti) (3).
Anche in Serbia, gli occupanti tedeschi e i Quisling locali crearono campi di sterminio. I più malfamati furono quelli di Bandica e Sadmiste, presso Belgrado, e il lager di Nis; un campo per bambini fu aperto a Smederevska Palanka nel 1942. Tra la fine del 1941 e la primavera del 1942 i nazisti sterminarono a Sadmiste circa 7500 ebrei e 600 romi, più tardi anche persone di altre nazionalità, complessivamente 47.000, tra uomini e donne.
A Bandica le vittime furono 80.000. Altre decine di migliaia di internati finirono ad Auschwitz, Buchenwald, Dachau, dove trovarono quasi tutti la morte.
Secondo dati definitivi, pubblicati nel 1964, la “pulizia etnica” compiuta dai nazifascisti dell’Asse e dai collaborazionisti durante l’occupazione della Jugoslavia, fece più di un milione di vittime.
in Kosovo Tra queste figura la maggior parte degli abitanti di origine serba e montenegrina del Kosovo. Quasi tutti furono sterminati dai “balisti”. Questi miliziani fascisti albanesi kosovari e nazionalisti del “Bali Kombhtar” avevano dapprima collaborato con le camicie nere italiane nella “Grande Albania” (estesa fino alla Macedonia occidentale) occupata dalle truppe di Mussolini.
Poi, a partire dal settembre del 1943, si erano messi al servizio delle SS tedesche. Con gli uni e con gli altri, compirono terribili massacri contro i serbi. Con la vittoria dei partigiani di Tito, la Repubblica Popolare di Serbia ripristinò la sua sovranità sul Kosovo. Iniziò allora una mobilitazione forzata dei giovani kosovari per il fronte dello Srem dove i tedeschi si attestarono tra il settembre 1944 e l’aprile 1945. Per quella mobilitazione si ricorse ad ogni mezzo, comprese le fucilazioni (denunciate nel 1945 al primo congresso del Partito comunista serbo), seguite nel primo dogoguerra da repressioni sanguinose volute dal ministro dell’interno jugoslavo Aleksandar Rankovic, che Tito caccerà dal Politburo. Più tardi, grazie alla piena autonomia concessa da Tito al Kosovo con la Costituzione del 1974, gli albanesi poterono esercitare una vera e propria egemonia politica, culturale e sociale sulla regione nella quale, a cominciare dal 1980, i serbi insorsero contro la loro posizione di “subordinazione”. Incoraggiati dai dirigenti di Belgrado, in primo luogo Slobodan Milosevic, moltiplicarono gli scontri con gli albanesi, e reciprocamente. E’ questa spirale di violenza tra opposti nazionalismi che tra rivolte locali, campagne di “stupri etnici” subiti dalle donne serbe, nuove repressioni e attentati terroristici condusse, dopo l’imposizione dello stato d’emergenza, all’abolizione dell’autonomia nel 1989. Le basi dell’odierna tragedia erano poste.
Negli ultimi dieci anni circa 400mila abitanti del Kosovo hanno lasciato la regione. In gran parte per fuggire la povertà, ma anche a causa delle vendette incrociate dei due campi e la cappa di piombo del controllo militare imposto da Milosevic. Tra questi emigrati, si contano albanesi, turchi, ma anche serbi.
Questi ultimi rappresentano appena il 10% della popolazione totale. Si stima che tra il 1989 e la fine del 1998, sotta la pressione permanente degli albanesi, almeno diecimila contadini serbo-kosovari sono stati costretti a vendere le loro terre e a lasciare la regione. (4) Istria e Vojvodina Altre due regioni plurietniche che hanno conosciuto la pulizia etnica nell’immediato dopoguerra sono l’Istria e la Vojvodina.
Anche in questo caso, all’origine della cacciata delle popolazioni “sgradite”, cioè non slave, ci fu la linea politica del potentissimo ministro dell’interno jugoslavo Rankovic che era solito accusare le popolazioni prese di mira di collaborazione col nemico. I tedeschi della Vojvodina, prevalentemente insediati nella Backa e proprietari di veri e propri latifondi, avevano effettivamente militato in massa nelle milizie naziste durante l’occupazione della Jugoslavia: 100mila di loro pressoché tutti furono perciò espropriati e cacciati via e le loro terre assegnate ad ex combattenti poveri, provenienti dalle regioni più depresse e meno fertili del paese: Montenegro, Dalmazia interna e Lika.
La pulizia etnica in Istria e nel Quarnero fu meno drastica ma non meno drammatica, perché numerosi abitanti della regione (Fiume compresa) decisero di non vivere sotto il nuovo regime nell’immediato dopo guerra avevano già subito le violenze inflitte da elementi venuti da altre parti della Jugoslavia, che spesso niente avevano a che fare con la Resistenza. Dal giugno 1945 alla fine del 1947 passarono il confine oltre 180.000 italiani, ai quali se ne aggiunsero altri centomila circa, compresi ex partigiani e antifascisti, dopo la rottura di Tito con Stalin (1948-1949) e per la successiva “crisi di Trieste”.(5) Oggi i tedeschi nell’ex Jugoslavia sono meno di un migliaio, gli italiani circa 40mila. Prima di arrivare alla nuova “purificazione etnica”, assai più conosciuta, che ha insanguinato la Croazia e la Bosnia Erzegovina dal 1991 al 1995, è importante ricordare che essa è stata preceduta da un decennio di incitazioni all’odio venute dai leader nazionalisti saliti al potere dopo la morte di Tito a Zagabria, Belgrado e Sarajevo. La maggior parte dei media non ha mai cessato di sostenere la separazione delle etnie attuata con la forza.
Dalla Lika alla “Tempesta” In Croazia, anche per la ricomparsa degli ustascia, fu data la caccia ai serbi un po’ ovunque. Questi non tardarono a reagire, insorgendo nei territori in cui erano maggioranza: Slavonia, Kordun, Banovina, Lika (le cosiddette “Krajine”) dove vivevano da alcuni secoli, e cacciarono via circa 80.000 croati. La risposta arrivò nel maggio e nell’agosto 1995: con il beneplacito degli Usa e l’appoggio della Nato, furono sferrate dall’esercito di Tudjman le operazioni “Lampo” nella Slavonia occidentale (6) e “Tempesta” nella Krajina di Knin, che portarono alla riconquista di quelle regioni e alla cacciata di 360mila serbi (7). Altre decine di migliaia di serbi furono costretti a fuggire da altre regioni e città della Croazia.
Tudjman ha potuto vantarsi recentemente di aver ridotto i serbi di Croazia al 2-3% della popolazione, mentre ancora nel 1991 erano il 12% dei circa 5 milioni di abitanti dello stato (8).
In una sola regione i serbi erano rimasti in maggioranza numerica: la Slavonia orientale, posta sotto amministrazione Onu fino al luglio del 1997, quando fu restituita alla sovranità di Zagabria. Da quell’epoca è in atto anche lì una “pulizia etnica” latente, silenziosa, che ha già dimezzato la presenza dei serbi, costretti a sloggiare dalle loro terre e case da pressioni politiche combinate con attentati criminali di origine “ignota”…
In Bosnia Nella Bosnia-Erzegovina la pulizia etnica è stata messa in atto dappertutto ed è stata pressoché radicale. Dei circa 4 milioni di abitanti attuali della Bosnia (sui 5 che la popolavano prima della guerra), meno di un milione abita nei paesi e città in cui nacque. I croati hanno ripulito la “loro” Erzegovina cacciandone serbi e musulmani. La medesima operazione è stata compiuta in alcune regioni della Bosnia centrale e nella Posavina bosniaca.
I musulmani hanno cacciato serbi e croati da Sarajevo (tra 80mila e 100mila fuggiti dalla città nel marzo 1996 dopo i raid della Nato contro le truppe serbo-bosniache che la assediavano) e dalle altre regioni conquistate con le armi sul territorio della Federazione. Quanto ai serbi, si sono sbarazzati di musulmani e croati nella loro Republika Srpska con capitale Banja Luka. Nel clima di feroci pulizie etniche contrapposte, un ruolo primario fu svolto sul piano del terrore fisico e psicologico dai barbari trattamenti nei campi di prigionia istituiti sia dai Croati in Erzegovina, sia dai serbi.
(Famigerato quello di Omarska anche per le denunce della pratica dello stupro contro le donne) e in misura minore ma non minore ferocia, anche dai musulmani, soprattutto a Tarcin e Celebici. I musulmani, poi, hanno fatto pulizia dentro la loro stessa etnia cacciando i correligionari “ribelli” dal territorio di quella che fu la “repubblica” dell’affarista Fikret Abdic, che aveva per capisaldi Bihac, Cazin e Velika Kladusa. Sta di fatto che almeno due milioni di bosniaci serbi, croati e musulmani vivono tuttora da profughi: parte all’estero, parte nella stessa Bosnia-Erzegovina, parte nelle altre repubbliche dell’ex Jugoslavia (la sola Serbia ne accoglie più di settecentomila).
Difficilmente essi torneranno ai luoghi in cui nacquero, condannati i più ad essere esuli per tutta la vita.
Dalle guerre dei Balcani escono dei vincitori, ma anche odi folli e irreprimibili desideri di vendetta. La storia allora si ripete, e gli scontri ricominciano, perché i conflitti del passato sono sempre stati “risolti” con la violenza. Da qui la catena di “pulizie etniche” che soltanto una soluzione politica potrebbe spezzare.


note:

* Rispettivamente responsabile della sezioni esteri del manifesto e giornalista, storico dei Balcani
(1) Kosovo, Marco Dogo, Marco ed., Lungro di Cosenza, 1992.

(2) L’occupazione nazifascista in Europa, a cura di Enzo Collotti, Editori Riuniti, Roma 1964.

(3) Rapporto del sottosegretario di Stato statunitense, Stuart Eizenstat: “Us and Allied Wartime and Postwar Relations and Negotiations with Argentina, Portugal, Spain, Sweden, and Turkey on Looted Gold and Germany External Assets and U. S. Concerns about the Fate of the Wartime Ustasha Treasury”, a cura di William Slany, Washington D.C., giugno 1998.

(4) Secondo il censimento federale del 1991 alcune migliaia di contadini serbi erano stati costretti ad abbandonare la provincia e a vendere le loro proprietà. Il fenomeno, non quantificabile, continuò con ancora maggiore intensità negli anni successivi, secondo fonti giornalistiche occidentali e della stampa indipendente di Belgrado. Nel gennaio del 1999 l’Unhcr, l’organismo Onu per i rifugiati, rendeva noto in un comunicato che in 99 villaggi dell’interno del Kosovo non esisteva più un solo serbo.

(5) Nel 1953-1954 si ammassarono molte divisioni militari italiane ai confini con la Jugoslavia. Il contendere era la questione dell’appartenenza della città di Trieste che gli alleati avevano ceduto unilateralmente all’Italia, abolendo il Governo militare alleato (Gma) che dalla liberazione aveva governato il Territorio libero di Trieste (Tlt) fino al 1953. In quei giorni gravidi di paura molta gente fuggì.

(6) I bombardamenti non risparmiarono neppure l’ex campo di sterminio di Jasenovac.

(7) L’operazione Tempesta, Giacomo Scotti, Gamberetti Editore, Roma, 1996.

(8) Discorso alla nazione nel Parlamento croato del presidente Franjo Tudjman, gennaio 1999.



Le Ong in cerca di un capro espiatorio

di Fernando Mezzetti

http://www.ilnuovo.it/nuovo/foglia/0,1007,72154,00.html

  • Tremila Ong approvano un documento contro Israele
  • Le Organizzazioni non governative come angeli vendicatori
  • Lo Stato ebraico definito razzista e colpevole di genocidio
  • Sbagliata anche la posizione sullo schiavismo

Faticosamente espunta dalle diplomazie nei documenti ufficiali l’equazione sionismo-razzismo, lo stato di Israele è comunque messo duramente sotto accusa alla conferenza Onu di Durban come razzista e allegramente dedito a genocidio e pulizia etnica.  Dall’assunto teorico politicamente motivato, cancellato nel ’91 e che stava per essere reintrodotto nei documenti Onu, si scende dunque alla concretezza del dramma politico, sociale e umano di quanto accade in Cisgiordania e nelle città e insediamenti israeliani, per risalire alla formulazione generale: ciò che sta accadendo non è lotta di due parti ognuna con le sue ragioni in un groviglio difficile da sciogliere, ma solo ed esclusivamente azione di genocidio da parte di uno stato razzista quale Israele. La sua non è una politica, per quanto discutibile, in una situazione difficile, né una strategia, parimenti discutibile, davanti alla guerriglia e alla guerra santa dei ciechi attacchi suicidi. No. E’ semplicemente il solo modo di essere e di agire di uno stato di per sé razzista e di un intero popolo genocida, spietatamente dedito alla pulizia etnica.

Lo proclamano oltre tremila Organizzazioni non governative a Durban nella loro conferenza parallela a quella dell’Onu, già di per sé agitata dall’improvvido discorso del segretario generale Kofi Annan col richiamo all’Olocausto come motivo non valido per l’esistenza di Israele, come se Israele si basi su questo e non piuttosto sulla risoluzione Onu del ’48 la quale prevedeva anche lo stato di Palestina che i palestinesi non vollero proclamare preferendo cercare di buttare a mare gli israeliani coltivando a lungo questo scopo in guerre non ancora finite; e poi infiammata, la conferenza Onu, da quel campione dei diritti umani che è Fidel Castro.

Dedite al bene più della San Vincenzo, col dito sempre puntato verso il mondo sviluppato pur prosperando nel suo seno, aspiranti al ruolo di sua coscienza critica, perennemente in cerca di vittime, le ONG, a parole lontane da violenza, partigianeria e politica, hanno impugnato a Durban l’armamento di angeli vendicatori. Non dovendo rispondere a nessuno se non a se stesse con dirigenti non si sa in che modo giunti a tali posizioni, le ONG hanno approvato un documento accusando lo stato ebraico di “perpetrazione sistematica di crimini razzisti, inclusi crimini di guerra, atti di genocidio e di pulizia etnica”, e lo definisce “ stato razzista e di apartheid, in cui il marchio specifico dell’apartheid di Israele quale crimine contro l’umanità è caratterizzato da separazione, segregazione, e atti inumani”.

I documenti delle ONG non sono vincolanti per l’Onu, ma certo esercitano un’influenza. E mentre Israele sta per abbandonare la conferenza, tutto lascia ritenere che questa, sulla questione, adotterà una risoluzione su queste linee, dalle quali però le ONG più prestigiose e con lunghi anni di meritorie azioni alle spalle hanno subito preso le distanze. Amnesty International esprime le sue riserve dichiarando: “Non siamo pronti a sottoscrivere l’asserzione che Israele è impegnata in genocidio” , mentre Human Right Watch afferma: “Israele ha compiuto seri crimini contro i palestinesi, ma non è esatto usare il termine genocidio e equiparare il sionismo col razzismo”.

La questione israeliana è solo una di quelle in discussione a Durban. L’altra scottante è quella dello schiavismo per il quale i paesi africani chiedono scuse e compensazioni. Non se ne può più di queste storie di scuse per eventi di secoli passati, e nella fattispecie di considerare lo schiavismo come perversa invenzione dei bianchi, soprattutto degli americani. Ma davvero prima della scoperta dell’America e della nascita degli Stati Uniti gli africani vivevano in perfetta armonia e a amore nella loro giungle, saltando lietamente per gioco da una liana all’altra, senza neanche una piccola lite fra tribù alcune delle quali finivano assoggettate, cioè schiavizzate? Davvero dovremmo ancora credere al mito del buon selvaggio incontaminato, a cui neanche Rosseau crederebbe oggi?  Ma via, basta aver conosciuto il nostro mondo contadino, con le sue asprezze e brutalità.

Intanto le ONG si coccolino i palestinesi. Il loro occuparsi di vittime o presunte tali non è una vocazione, ma dura necessità. Senza vittime in giro, finirebbe la ragion d’essere di tante Organizzazioni non Governative.


(2 SETTEMBRE 2001, ORE 21:00) 

GIORNALISTI DI PARTE E INTELLETTUALI DISATTENTI

UNA GUERRA E DUE MISURE

http://www.softmakers.com/fry/docs/said.htm

– EDWARD SAID –

Nessuno può dubitare che gli eventi verificatisi in Kosovo in seguito alle azioni brutali di Slobodan Molosevic e alla risposta della Nato hanno creato una situazione assai peggiore di quella precedente all’inizio dei bombardamenti. Il costo in termini di sofferenze umane, per tutte le parti in causa, è stato spaventoso e per quanto riguarda la tragedia dei profughi e la distruzione della Jugoslavia non ci potrà essere un aggiustamento o un rimedio per almeno una generazione, forse anche di più. Come può testimoniare qualsiasi persona cacciata dal suo paese e privata di tutto, non vi è alcuna possibilità di un semplice e non problematico ritorno alla propria casa; né può esserci un risarcimento (al di là della semplice pura vendetta che alle volte dà una sorta di, e del tutto illusoria, soddisfazione) commisurato alla perdita non solo e non tanto della casa, quanto della società e di un generale ambiente di vita. Attraverso la combinazione di vari elementi, la cui importanza di ciascuno relativamente agli altri non potremo mai sapere con esattezza, e nonostante la propaganda della Nato così come quella serba, il Kosovo è stato “pulito” per sempre della speranza di una futura coesistenza tra differenti comunità.

Un certo numero di giornalisti onesti qui e là ormai ammettono che in realtà non sappiamo affatto quel che è avvenuto per quanto riguarda il problema della pulizia etnica degli albanesi da parte dei serbi dal momento che i bombardamenti della Nato sul Kosovo, le azioni dell’Uck e la brutalità degli atti individuali o collettivi serbi hanno avuto tutti luogo, improvvisamente, nello stesso tempo: cercare di attribuire colpe o responsabilità in un caos di quel tipo, oltre a guadagnare qualche punto per giustificare se stessi a livello di discussione pubblica, è estremamente difficile se non impossibile.Di sicuro non si può negare che gli illegali bombardamenti dell’alleanza atlantica hanno ingigantito e accelerato la fuga della popolazione dal Kosovo. Il fatto che l’alto comando Nato, con in testa Bill Clinton e Tony Blair, abbia potuto pensare che il numero dei profughi potesse diminuire in seguito ai bombardamenti sfida qualsiasi immaginazione. Del resto, nessuno dei due leader ha mai provato, e questo è un punto importante, su di sé gli orrori della guerra; nessuno dei due ha mai combattuto, nessuno dei due ha la più vaga idea di che cosa significhi cercare disperatamente di sopravvivere, di proteggere e sfamare la propria famiglia.

Già solo per questi motivi Clinton e Blair meritano la più dura condanna a livello morale; e visto lo spaventoso curriculum di Clinton in Sudan, Afghanistan e in Iraq – tralasciando le sue gesta per i corridoi della Casa bianca – dovrebbe essere anche lui incriminato come criminale di guerra al pari di Milosevic. In ogni caso, in base delle leggi Usa Clinton ha comunque violato la costituzione, facendo una guerra senza l’approvazione del Congresso. Il fatto che abbia anche violato la carta dell’Onu è una ulteriore, pesante aggravante.

Un minimo senso morale impone che se si decide di intervenire per alleviare le sofferenze o correggere una ingiustizia (come recita la famosa idea della ingerenza umanitaria che tanti liberal occidentali hanno tirato di qua è di la per giustificare la guerra) almeno si dovrebbe essere sicuri di non peggiorare la situazione. Una considerazione che è stata ignorata dai leader della Nato, i quali si sono tuffati in una guerra mal preparata, superficiale, cinica, segnando, a sangue freddo, la sorte di centinaia di migliaia di kosovari. Kosovari che si sono visti costretti a lasciare la provincia colpiti dalla vendetta serba o dal volume e dall’intensità dei bombardamenti (al di là della ridicola favola sulle bombe intelligenti) diventando così due volte vittime.

Ora ci troviamo difronte al colossale lavoro di risistemare un milione di persone nelle proprie case senza alcuna idea chiara di quale sarà il loro futuro. Autodeterminazione? Autonomia sotto la Serbia? Occupazione militare della Nato? Divisione del paese? Sovranità congiunta? Con quali tempi? Chi pagherà? Sono solo alcuni degli interrogativi – dando per scontato che l’accordo raggiunto con l’intervento della Russia funzioni – ai quali nessuno ha dato ancora risposta. Cosa si intende, ad esempio, che alcune centinaia di poliziotti o soldati serbi potranno tornare, come recita l’accordo tra i belligeranti per la sospensione delle ostilità militari? Chi li proteggerà dalla violenza albanese e chi controllerà le loro azioni? Chi proteggerà i serbi del Kosovo?

Aggiungiamo poi a tutto ciò il costo esorbitante della ricostruzione del Kosovo e della Serbia e abbiamo una massa di problemi che supera i limitati poteri di ragionamento e di sofisticazione politica di ciascuno e di tutti gli attuali leader della Nato.

Quel che mi preoccupa di più, tuttavia, in quanto cittadino americano, sono le conseguenze della vicenda del Kosovo sull’ordine internazionale. Un aspetto particolarmente preoccupante sul quale riflettere è costituito dalle guerre “pulite”, “senza conseguenze”, nelle quali il personale militare americano e i loro mezzi sono praticamente invulnerabili alle risposte o agli attacchi del nemico. In realtà esse hanno una struttura, come ha sostenuto l’autorevole giurista internazionale Richard Falk, simile alla tortura nella quale l’investigatore carnefice ha il potere assoluto di decidere e utilizzare qualsiasi metodo voglia; la vittima, senza alcun potere, viene lasciata alla volontà del suo persecutore. Lo status dell’America nel mondo è oggi al punto più basso della sua storia: quello di uno stupido bullo in grado di infliggere agli altri danni come nessun altro bullo che lo ha preceduto.Il budget militare degli Usa è del 30% più alto del budget totale degli altri stati della Nato presi insieme. Più di metà degli stati del mondo hanno subito la minaccia o la realtà di sanzioni economiche o commerciali degli Usa. Stati paria come l’Iraq, la Korea del Nord, il Sudan, Cuba e la Libia – paria perchè così li hanno definiti gli Usa – portano sulle spalle il peso della “rabbia” americana; uno di questi, l’Iraq, è sottoposto ad un vero e proprio genocidio che lo sta dissolvendo, grazie alle sanzioni Usa che continuano al di là di qualsiasi ragionevole obiettivo, se non quello di soddisfare il senso della vendetta di chi si ritiene dalla parte del giusto. Qual è l’obiettivo di tutto ciò e quale messaggio viene così lanciato al mondo? Si tratta di un messaggio di terrore che non ha nulla a che vedere con la sicurezza, gli interessi nazionali, o ben definiti obiettivi strategici. Si tratta del potere per il potere. E quando Clinton attraverso la radio si rivolge ai serbi o agli iracheni per dire loro che non avranno alcun aiuto finché non cambieranno i loro governi, si tratta di una manifestazione di una arroganza senza alcun limite.

Il tribunale internazionale che ha definito Milosevic come un criminale di guerra non ha alcuna credibilità nelle attuali circostanze se non applica gli stessi criteri a Clinton, Blair, Albright, Sandy Bergere, al generale Clark e tutti gli altri le cui intenzioni criminali calpestano qualsiasi decenza e legge di guerra. Se consideriamo quanto Clinton ha fatto solamente all’Iraq, Milosevic, con tutta la sua brutalità, nella scala della malvagità è un semplice dilettante rispetto al presidente americano. Quel che rende i crimini di Clinton ancora peggiori è il suo tentativo di ammantarsi di una ipocrita e fraudolenta aria di preoccupazione alla quale, cosa ancor più preoccupante, sembrano credere i neo-liberal che ora governano il nuovo mondo Natopolitano. Meglio un onesto conservatore che un liberal imbroglione.Questa situazione, già malsana, è ulteriormente aggravata dai media che non hanno certo giocato il ruolo proprio dei reporter imparziali, ma quello di testimoni di parte e parziali di fronte alla crudeltà e alla follia della guerra. Nel corso dei 79 giorni di bombardamenti devo aver osservato almeno una trentina di briefing della Nato e non ricordo che 4 o forse 5 domande che, magari alla lontana, mettessero in discussione le sciocchezze di Jamie Shea, George Robertson e, il peggiore, Javier Solana, l’ascaro della Nato che ha semplicemente venduto la sua anima socialista alla egemonia globale Usa. Non vi era il minimo scetticismo da parte dei media, nessun tentativo di andare oltre il “chiarire” le posizioni della Nato usando generalmente ex militari (mai donne) per spiegare le virtù dei bombardamenti terroristici della Nato. Allo stesso modo commentatori e intellettuali liberal – in un certo senso questa è stata la loro guerra – hanno ignorato la distruzione delle infrastrtture della Serbia (stimate in 136 miliardi di dollari) nel loro entusiasmo per l’idea che “noi” stavamo facendo qualcosa per fermare la pulizia etnica. Inoltre i media non hanno riportato, o l’hanno fatto in modo molto limitato, l’impopolarità di questa guerra negli Stati uniti, in Italia, in Grecia e in Germania. Nessun cenno è stato fatto a quanto è avvenuto solamente quattro anni fa in Rwanda, in Bosnia, o alla cacciata di 350.000 serbi dalle Krajne ad opera di Tudjman o le persecuzioni ai danni dei kurdi in Turchia, all’uccisione di centinaia di migliaia di civili iracheni o – per tornare a quando tali fenomeni cominciarono a manifestarsi in epoca moderna – alla pulizia etnica ai danni dei palestinesi di Palestina nel 1948, che continua ancor oggi con il sostegno dei liberal. In cosa di sostanziale, con il loro modo di guardare e di agire nei confronti delle “razze inferiori” Barak, Sharon, Netanyahu e Eitan sarebbero diversi da Milosevic e Tudjman? Nel mondo del dopo-guerra fredda la questione di fondo è quindi se gli Usa con la loro politica militar-economica, che conosce solo il profitto e l’opportunismo, domineranno il mondo o se sarà possibile sviluppare una sufficientemente valida resistenza a livello intellettuale e morale. Per noi che viviamo in questa sfera o che siamo cittadini di questo paese, il primo dovere è quello di demistificare lo svalutato discorso e le immagini usate per giustificare le pratiche e l’ipocrisia americana, collegare tra loro le politiche americane messe in pratica in posti come Burma, l’Indonesia, Iran, Israele con quelle realizzate ora nei Balcani e in Europa – rendere ogni ambiente sicuro per gli investimenti e gli affari americani – e mostrare come esse siano sostanzialmente le stesse, anche se si cerca di farle sembrare differenti. Non ci può essere infatti alcuna resistenza senza memoria né universalismo.

Se la pulizia etnica è un male in Jugoslavia – e non c’è dubbio che lo sia – lo deve essere anche in Palestina, Turchia, Africa e ovunque essa si manifesti. Le crisi non finiscono una volta che la Cnn spegne i riflettori. Non ci possono essere due pesi e due misure. Se la guerra è crudele e profodamente rovinosa, lo è anche se i piloti americani bombardano da 30.000 piedi di altezza e non vengono colpiti. E se la diplomazia va sempre preferita al ricorso alle armi allora dobbiamo usare le diplomazia ad ogni costo.

In ultimo, se la vita degli esseri umani è sacra, allora non può essere cinicamente sacrificata se le vittime non sono bianchi o europei.

Ciascuno di noi deve cominciare la sua azione di resistenza nel proprio paese nei confronti di quel potere che, come cittadini, possiamo influenzare, ma purtroppo un dilagante nazionalismo che si maschera sotto i panni del patriottismo e di preoccupazioni morali ha preso il posto della coscienza critica e pone quindi la lealtà alla propria “nazione” davanti ad ogni cosa. A quel punto non c’è altro che il tradimento degli intellettuali, e una totale bancarotta morale.

Da Al-Ahram Weekly

Archivio Web Noam Chomsky


http://www.tmcrew.org/archiviochomsky/yugo_03.html

L’Accordo di pace in Kosovo

Z, Luglio ’99

Il 24 marzo le forze aeree Nato guidate dagli Stati Uniti hanno iniziato a bombardare la Repubblica Federale di Jugoslavia, incluso il Kosovo, che la Nato considera una provincia della Serbia. Il 3 giugno, la Nato e la Serbia hanno raggiunto un accordo di pace. Gli Usa hanno dichiarato vittoria, avendo concluso con successo la loro “battaglia di 10 settimane per costringere il signor Milosevic ad arrendersi”, come ha scritto Blaine Harden sul New York Times. Non sarebbe perciò necessario usare forze di terra per “ripulire la Serbia” come Harden aveva raccomandato nell’articolo “Come ripulire la Serbia”. Una raccomandazione naturale alla luce della storia americana, dominata dalle sue origini e fino ad oggi dal tema della pulizia etnica. Ma con una avvertenza: il termine “pulizia etnica” non è del tutto appropriato. Le operazioni di pulizia condotte dagli Usa sono ecumeniche: l’Indocina e l’America centrale ne sono due esempi recenti.

Pur avendo dichiarato vittoria, Washington non ha ancora dichiarato la pace: i bombardamenti continueranno finché i vincitori riterranno di aver imposto la loro interpretazione dell’accordo sul Kosovo. Fin dall’inizio, i bombardamenti erano stati lanciati come una questione di significato cosmico, il test di un Nuovo Umanesimo, in cui gli “stati illuminati” (Foreign Affairs) aprono una nuova era della storia umana guidata da “un nuovo internazionalismo in cui la brutale repressione di interi gruppi etnici non sarà più tollerata” (Tony Blair). Gli stati illuminati sono gli Stati uniti e il suo alleato britannico, e forse anche altri iscritti alle loro crociate per la giustizia.

A quanto pare, lo status di “stati illuminati” viene conferito per definizione. Non si tenta di fornirne prove o argomentazioni, certamente non derivanti dalla loro storia. Poiché in qualunque caso la storia non è giudicata pertinente dalla familiare dottrina del “mutamento di corso”, invocata regolarmente per spedire il passato nei recessi più profondi della memoria, scongiurando così il pericolo che qualcuno faccia domande ovvie: se le strutture istituzionali e la distribuzione del potere sono sostanzialmente immodificati, perché aspettarsi un cambiamento radicale in politica, o qualunque cambiamento, fatti salvi gli aggiustamenti tattici?

Ma simili domande non sono in agenda. “Fin dall’inizio la questione del Kosovo ha riguardato la nostra reazione a fatti negativi che accadono in luoghi non importanti”, ha spiegato l’analista Thomas Friedman sul New York Times non appena è stato annunciato l’accordo. Egli poi loda gli stati illuminati per aver perseguito il principio morale secondo cui “una volta iniziate le deportazioni dei profughi, ignorare il Kosovo sarebbe stato sbagliato… e dunque ricorrere a una grande guerra aerea per un obiettivo limitato era la sola cosa che avesse senso”.

Una difficoltà di minore portata è che la preoccupazione sulle “deportazioni dei rifugiati” non avrebbero potuto essere la motivazione per la “grande guerra aerea”. Il Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha dato notizia dei primi profughi registrati fuori del Kosovo il 27 marzo (4mila profughi), tre giorni dopo che erano iniziati i bombardamenti. Il bilancio è aumentato fino al 4 giugno, con un totale di 670mila profughi nei paesi confinanti (Albania, Macedonia), altri 70mila profughi in Montenegro (all’interno della Repubblica Federale di Jugoslavia), e 75mila partiti per altri paesi. Le cifre, sfortunatamente fin troppo familiari, non includono i numeri, sconosciuti, di coloro che si sono dispersi all’interno del Kosovo, circa 2-300 mila persone nell’anno precedente l’inizio dei bombardamenti secondo la Nato, moltissimi altri dopo.

Indiscutibilmente, la “grande guerra aerea” ha fatto precipitare l’escalation della pulizia etnica e di altre atrocità. Lo hanno riferito ripetutamente corrispondenti locali e analisi retrospettive. Lo stesso quadro viene presentato nei due principali documenti che cercano di descrivere i bombardamenti come una reazione alla crisi umanitaria nel Kosovo. Quello più esteso, fornito dal Dipartimento di stato a maggio, è appropriatamente intitolato “Cancellare la storia: la pulizia etnica in Kosovo”; il secondo è l’incriminazione di Milosevic e dei suoi soci da parte del Tribunale Internazionale sui crimini di guerra in Jugoslavia dopo che Usa e Gran Bretagna “hanno spianato la strada a ciò che sembrava un’incriminazione alquanto veloce fornendo (alla procuratrice Louise) Arbour l’accesso all’intelligence e ad altre informazioni che a lungo le erano state negate dai governi occidentali”, come ha riferito il New York Times in due intere pagine dedicate all’incriminazione. Entrambi i documenti sostengono che le atrocità sono iniziate “il o intorno al 1 gennaio”; in entrambi, comunque, la cronologia dettagliata rivela che le atrocità sono continuate come prima finché i bombardamenti hanno condotto a una rapida escalation. E non si è trattato certo di una sorpresa. Il generale Wesley Clark ha descritto queste conseguenze come “del tutto prevedibili” – naturalmente un’esagerazione; niente negli affari degli uomini è così prevedibile, sebbene sia ora evidente che le conseguenze erano state previste.

Un piccolo elenco degli effetti della “grande guerra aerea” è offerto da Robert Hayden, direttore del Center for Russian and East European Studies dell’Università di Pittsburgh: “Gli incidenti tra civili serbi nelle prime tre settimane di guerra sono stati di più di tutti gli incidenti da entrambe le parti avvenuti in Kosovo nei tre mesi che hanno condotto a questa guerra, e tuttavia quei tre mesi erano considerati una catastrofe umanitaria”. Certo, queste particolari conseguenze non contano nel contesto dell’isteria sciovinista che è stata montata per demonizzare i serbi, raggiungendo altezze stratosferiche mentre i bombardamenti prendevano apertamente di mira la società civile e perciò richiedevano una difesa più fervente.

Per caso, almeno lo spunto di una risposta più credibile alla domanda retorica di Friedman è stata data sul Times lo stesso giorno da Stephen Kinzer, in un servizio da Ankara. Egli scrive che “il più noto difensore dei diritti umani in Turchia è entrato in prigione” per scontare la condanna per aver “invitato lo stato a raggiungere un accordo pacifico con i ribelli kurdi”. Pochi giorni prima, Kinzer aveva indicato obbliquamente che la storia è assai più complessa: “Alcuni (kurdi) dicono di essere stati oppressi sotto il regime turco, ma il governo insiste che a loro vengono garantiti gli stessi diritti degli altri cittadini”. Ci si potrebbe chiedere se questo faccia veramente giustizia di alcune delle più radicali operazioni di pulizia etnica della metà degli anni ’90, con decine di migliaia di morti, 3500 villaggi distrutti, da 2.5 a 3 milioni di rifugiati, e odiose atrocità riferite dettagliatamente dalle maggiori organizzazioni per i diritti umani, ma ignorate. Questi risultati sono stati ottenuti grazie a un massiccio sostegno militare da parte degli Usa, in aumento durante la presidenza Clinton, mentre le atrocità raggiungevano un picco massimo, inclusi jet, elicotteri da attacco, equipaggiamento per l’antiguerriglia, e altri mezzi di terrore e distruzione, insieme all’addestramento e alle informazioni di intelligence per alcuni dei peggiori assassini. Questi crimini, senza dubbio, sono solo un esempio della risposta fornita dagli stati illuminati alla profonda domanda “come dovremmo reagire quando fatti negativi accadono in posti senza importanza?”.

Le consegne da Washington, comunque, sono le solite: sottolinea i crimini del nemico ufficiale di oggi, e non permettere che ti distraggano altri crimini simili o peggiori che potrebbero facilmente terminare grazie al ruolo cruciale dei paesi illuminati nel perpetuarli. Obbediamo agli ordini, allora, e atteniamoci al Kosovo.

Un’analisi minimamente seria dell’accordo sul Kosovo deve prendere in considerazione le opzioni diplomatiche del 23 marzo, il giorno prima che fosse lanciata la “grande guerra aerea”, e confrontarle con l’intesa raggiunta dalla Nato e dalla Serbia il 3 giugno. Qui dobbiamo distinguere due versioni: (1) i fatti e (2) il colpo a effetto – cioè, la versione Usa/Nato che racchiude resoconti e commenti negli stati illuminati. Anche l’occhiata più superficiale rivela che i fatti e l’effetto differiscono grandemente. Così il New York Times ha presentato il testo dell’accordo con un inserto intitolato: “Due piani di pace: come differiscono”. I due piani di pace sono l’intesa di Rambouillet presentato alla Serbia il 23 marzo come ultimatum prendere-o-essere-bombardati, e l’accordo di pace sul Kosovo del 3 giugno. Ma nel mondo reale ci sono tre “piani di pace”, due dei quali erano sul tavolo il 23 marzo: l’intesa di Ranbouillet e le risoluzioni dell’Assemblea Nazionale Serba che ad esso rispondevano.

Cominciamo con i due piani di pace del 23 marzo, chiedendoci come essi differivano e quanto abbiano in comune con l’accordo di pace sul Kosovo del 3 giugno, tornando poi rapidamente a ciò che che potremmo ragionevolmente attenderci se infrangiamo le regole e prestiamo attenzione agli (ampi) precedenti.

L’accordo di Rambouillet prevedeva l’occupazione militare completa ed il controllo politico del Kosovo da parte della Nato, ed una efficace occupazione militare Nato del resto della Jugoslavia. La Nato avrebbe dovuto “costituire e guidare una forza militare” (Kfor) in Kosovo e intorno ad esso, “che opererà sotto l’autorità e soggetta alla direzione e al controllo politico del North Atlantic Council (Nac) attraverso la catena di comando della Nato”; “il comandante del Kfor è l’autorità ultima sul campo”. Entro breve tempo, tutte le forze armate jugoslave e la polizia alle dipendenze del ministero degli interni dovranno rischierarsi in “siti di acquartieramento approvati”, poi ritirarsi in Serbia, salvo piccole unità assegnate a incarichi di sorveglianza delle frontiere con armi limitate (e specificate in dettaglio) che avrebbero il solo compito di difendere i confini da attacchi, e “controllare attraversamenti illeciti dei confini”, senza permesso di muoversi in Kosovo al di fuori di queste funzioni. “Tre anni dopo l’entrata in vigore di questo accordo, si dovrà tenere un meeting internazionale per un accordo definitivo per il Kosovo”. Questo periodo è stato costruito in modo da preparare un non menzionato referendum sull’indipendenza.

Per quanto riguarda il resto della Jugoslavia, i termini per l’occupazione sono espressi nell’appendice B: Status della forza di implementazione militare multi-nazionale. Il periodo cruciale recita: “8. Il personale Nato avrà l’accesso pieno e senza restrizioni, insieme ai propri veicoli, navi, aerei ed equipaggiamento, attraverso la Repubblica Federale di Jugoslavia compreso lo spazio aereo, e le acque territoriali. Compresi i diritti di bivacco, di manovra, di alloggio, e di utilizzo di qualunque area o infrastrutture necessarie per il sostegno, l’addestramento, e le operazioni”. Il testo detta le condizioni che permettono alle forze Nato di agire come credono attraverso il territorio della Repubblica Federale di Jugoslavia, senza obbligo o preoccupazione per le leggi del paese o la giurisdizione delle sue autorità, che dovranno, comunque, seguire gli ordini della Nato “su una base di priorità e con tutti i mezzi appropriati”. Un articolo prevede inoltre che “tutto il personale della Nato rispetterà le leggi applicabili nella Repubblica federale di Jugoslavia…”, ma con una definizione tale da renderlo vuoto: “Senza pregiudizio per i loro privilegi e immunità come previsto in questa Appendice…”

Si è speculato che la scelta delle parole fosse stata fatta in modo da garantire un rifiuto. Forse è così. E’ difficile immaginare che qualunque paese accetterebbe tali termini, se non in caso di resa incondizionata.

Il secondo piano di pace è stato presentato in risoluzioni dell’Assemblea nazionale Serba il 23 marzo. L’Assemblea ha rigettato la richiesta di un’occupazione militare Nato, e ha chiesto all’Osce e alll’Onu di facilitare un accordo diplomatico pacifico. Ha condannato il ritiro della Missione di verifica in Kosovo dell’Osce ordinato dagli Usa il 19 marzo in preparazione del bombardamento del 24 marzo. Le risoluzioni richiedevano negoziazioni che portassero al “raggiungimento di un accordo politico su un’ampia autonomia di Kosovo e Metohija, con la garanzia di una piena parità di tutti i cittadini e delle comunità etniche e nel rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale della Repubblica di Serbia e della Repubblica Federale di Jugoslavia.” Sebbene “il parlamento serbo non accetta la presenza di truppe militari straniere in Kosovo e Metohija”, è pronto a discutere qualità e quantità della presenza internazionale in Kosmet (Kosovo/Metohija) nel momento stesso della firma dell’accordo politico sull’auto-governo concordato e accettato dai rappresentanti di tutte le comunità nazionali che lì vivono.

I punti essenziali di queste decisioni sono riportati dai principali servizi di comunicazione e perciò certamente conosciuti in tutte le sale stampa. Numerose ricerche su database hanno rilevato che raramente vengono menzionati. I due piani di pace del 23 marzo rimangono così sconosciuti per l’opinione pubblica. Per quanto riguarda il significato delle Risoluzioni dell’Assemblea Nazionale Serba, le risposte sono note ai fanatici fiduciosi. Gli altri avrebbero pure un modo di trovare le risposte: esplorare le possibilità. Ma gli stati illuminati hanno preferito bombardare.

Torniamo all’accordo del Kosovo del 3 giugno. Come ci si sarebbe potuti attendere, è un compromesso tra i due piani di pace del 23 marzo. Sulla carta, almeno, gli Usa/Nato hanno abbandonato le loro richieste principali, che avevano condotto al rifiuto dell’ultimatum da parte della Serbia. La Serbia a sua volta ha acconsentito ad una “presenza di sicurezza internazionale con una partecipazione consistente della Nato schierata sotto il comando e il controllo unificati… sotto l’egida delle Nazioni Unite”. Un’aggiunta al testo affermava che “la posizione della Russia (secondo cui) il contingente russo non dovrà essere sottoposto al comando Nato e la sua relazione con la presenza internazionale sarà governata da rilevanti intese addizionali”. Non è consentito alla Nato o alle forze di “sicurezza internazionale” l’accesso al resto della Jugoslavia. Il controllo politico del Kosovo non è affidato alla Nato ma al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che istituirà “un’amministrazione provvisoria del Kosovo”. Il ritiro delle forze jugoslave non è specificato in dettaglio come a Rambouillet, ma è simile, anche se accelerato. Il resto rientra nell’ambito dei piani del 23 marzo.

L’esito suggerisce che il 23 marzo si sarebbe potuto continuare nelle iniziative diplomatiche. Certo la situazione attuale non è quella del 23 marzo. Un titolo del Times il giorno dell’accordo del Kosovo lo dimostra: “I problemi del Kosovo stanno appena cominciando”. Tra i “problemi sconcertanti”, osservava Serge Schmemann, c’è il rimpatrio dei rifugiati, “nella terra di cenere e di tombe che era la loro casa”, e la “costosa sfida di ricostruire le economie del Kosovo, della Serbia e dei loro vicini”.Questi “problemi sconcertanti” sono nuovi. Sono “gli effetti dei bombardamenti” e la crudele reazione serba ad essi, sebbene i problemi che precedevano il ricorso alla violenza da parte degli stati illuminati fossero sufficientemente scoraggianti. Spostandoci dai fatti all’effetto, i titoli hanno salutato la grandiosa vittoria degli stati illuminati e dei loro leader, che hanno costretto Milosevic a “capitolare”, ad “arrendersi”, ad accettare una “forza guidata dalla Nato”, e ad arrendersi “in modo tanto prossimo a una resa incondizionata quanto chiunque avrebbe potuto immaginare”, sottomettendolo a “un accordo peggiore di quello di Rambouillet, che aveva rifiutato”. La storia non è andata proprio così. Passando ad un significato più ampio, l'”eminente storico militare” britannico John Keegan “vede la guerra come una vittoria non solo per le forze aeree ma per il ‘Nuovo ordine mondiale’ che il presidente Bush dichiarò dopo la guerra del Golfo”, riferisce l’esperto militare Fred Kaplan. Keegan ha scritto che “se Milosevic è davvero un uomo sconfitto, tutti gli aspiranti-Milosevic in giro per il mondo dovranno riconsiderare i loro piani”.

La valutazione è realistica, sebbene non nei termini che Keegan può aver avuto in mente: piuttosto, alla luce degli obiettivi e del significato del Nuovo ordine mondiale, così come è rivelato da un importante documento degli anni ’90 su cui non è mai stato riferito, ed una pletora di prove fattuali che ci aiuta a capire il vero significato dell’espressione “Milosevic in giro per il mondo”. Per attenersi soltanto alla regione balcanica, le critiche non tengono conto delle ampie operazioni di pulizia etnica e delle terribili atrocità all’interno della Nato, sotto la giurisdizione europea e con il decisivo e crescente sostegno degli Usa, che non sono state condotte in risposta ad un attaco da parte della forza militare più temibile del mondo e alla minaccia di una imminente invasione. Questi crimini sono legittimi secondo le regole del Nuovo ordine mondiale, forse anche meritorie, come lo sono le atrocità commesse altrove che si conformano agli interessi osservabili dei leader degli stati illuminati e sono regolarmente attuati da loro quando necessario. Questi fatti, non particolarmente oscuri, rivelano che nel “nuovo internazionalismo… la brutale repressione di interi gruppi etnici” non sarà semplicemente “tollerata”, ma attivamente favorita – esattamente come nel “vecchio internazionalismo” del Concerto dell’Europa, gli Usa stessi, e molti altri autorevoli predecessori.

Mentre i fatti e l’effetto differiscono profondamente, si potrebbe obiettare che i media a i commentatori sono realistici quando presentano la versione Usa/Nato come se questi fossero i fatti. Essa diventerà i fatti, come semplice conseguenza della distribuzione del potere e della volontà di di articolare le opinioni in funzione dei suoi bisogni. E’ un fenomeno preciso. Esempi recenti includono il Trattato di pace di Parigi del gennaio 1973 e gli accordi di Esquipulas dell’agosto 1987.

Nel primo caso, gli Usa furono costretti a firmare dopo il fallimento dei bombardamenti di Natale per indurre Hanoi ad abbandonare l’accordo Usa-Vietnam dell’ottobre precedente. Kissinger e la Casa Bianca improvvisamente annunciarono lucidamente che avrebbero violato ogni elemento significativo del Trattato che stavano firmando, presentandone una versione differente che fu adottata in resoconti e commenti, cosicché quando il Vietnam del Nord rispose alle gravi violazioni Usa, diventò l’aggressore incorreggibile che andava punito.

La stessa tragedia/farsa avvenne quando i presidenti dell’America Centrale giunsero all’accordo di Esquipulas (spesso chiamato “Piano Arias”) superando la forte opposizione degli Stati Uniti. Washington improvvisamente avviò un’escalation bellica in violazione dell’unico “elemento indispensabile” dell’accordo, quindi procedette a smantellare gli altri articoli con la forza, riuscendovi in pochi mesi, e continuando a minare ogni ulteriore sforzo diplomatico fino alla vittoria finale. La versione di Washington dell’accordo, che differiva profondamente dal testo in alcuni aspetti cruciali, divenne la versione accettata. L’esito poté perciò essere annunciato nei titoli come una “Vittoria per il fair play degli Stati Uniti”, con gli americani “Uniti nella gioia” oltre le devastazioni e lo spargimento di sangue, sopraffatti dall’estasi “in un’epoca romantica” (titoli sul NYT).

E’ superfluo analizzare le ricadute in questi e in numerosi casi simili. C’è poca ragione di attendersi che questa volta si dipani una storia diversa – alla solita, e cruciale, condizione: se noi lo permettiamo.

trad. Marina Impallomeni) – il manifesto



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