LA SPARTIZIONE DELL’IMPERO OTTOMANO

Per i maggiori protagonisti della I G.M. (Inghilterra, Francia, Germania, Russia e Austria-Ungheria) la posta in gioco era l’egemonia politica in Europa e il dominio economico sui mercati mondiali. Uno di questi mercati era quello del Mondo Arabo del Medioriente. Ad es. la Germania voleva togliere l’Egitto all’Inghilterra, l’Inghilterra voleva occupare l’Irak e la Palestina, la Francia voleva staccare la Siria dalla Turchia, e così via.

Agli Imperi Centrali (Germania e Austria-Ungheria) si era alleato l’Impero Turco, che sperava di riprendersi i territori che gli aveva strappato la Russia o almeno di conservare quelli che gli erano rimasti. L’Impero Turco, infatti, era ormai ridotto a: Turchia, Palestina, Libano, Siria, Irak e parte dell’Arabia Saudita.

Nell’Europa orientale i Turchi avevano perduto: Grecia, Bulgaria, Romania e Serbia. In Africa avevano ceduto alla Francia: Algeria, Mauritania, Tunisia, Marocco; all’Italia la Libia; all’Inghilterra l’Egitto. Lungo le coste dell’Oceano Indiano e del Golfo Persico avevano ceduto all’Inghilterra, in via diplomatica o militare: Sudan, Yemen del Sud, Oman, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Qatar, Kuwait.

I Turchi conservavano la regione attorno a La Mecca e Medina (Higiaz), controllando i vantaggi economici del pellegrinaggio e presentandosi come custodi dell’ISLAM.

Per riuscire a strappare ai Turchi l’Higiaz, l’Inghilterra si alleò con gli Arabi facendo leva sui sentimenti nazionalisti anti-turchi. In cambio dell’aiuto fornito dagli Arabi, l’Inghilterra aveva promesso di favorire, finita la I G.M., la formazione di uno Stato arabo indipendente (vedi ad es. l’opera di Lawrence d’Arabia).

Senonché la I G.M. non fece che legalizzare tutte le situazioni di dominio coloniale nel mondo arabo-islamico, che era iniziato nel 1830 con la conquista francese dell’Algeria. Le colonie e i protettorati (colonie formalmente indipendenti) dell’Inghilterra, che controllava anche India, parte dell’Iran e Afghanistan, si estesero a Irak e Palestina, mentre la Francia controllerà Siria e Libano.

L’Inghilterra infatti aveva bisogno di collegamenti sicuri con il suo impero in India. Questa era la motivazione principale con cui essa aveva cercato di difendere la causa araba contro i turchi. Per la stessa ragione nel 1798 aveva difeso la causa turca contro i francesi che avevano occupato l’Egitto.

Cosa aveva spinto gli arabi ad associarsi con Francia e soprattutto con Inghilterra contro i Turchi, se proprio da Francia e Inghilterra avevano ottenuto solo soggezione e divisione? Li aveva spinti l’ideale di poter mantenere una propria identità culturale-religiosa-linguistica, sulla base della quale poter costruire un’identità politico-nazionale. Tutte queste speranze furono tradite non solo perché le potenze occidentali vollero in ultima istanza salvaguardare i propri interessi commerciali, ma anche perché a partire dal 1908 avvenne in Iran la scoperta del petrolio (cosa che renderà il Medioriente ancora più appetibile per l’Occidente).

Alla fine del 1917 l’Inghilterra era già dell’avviso che per evitare la ribellione araba contro l’Occidente, bisognava costituire in Palestina uno Stato ebraico militarmente forte, accogliendo la richiesta del Movimento Sionista Internazionale. USA, Francia e Italia (che avevano vinto con l’Inghilterra la I G.M.) accettarono la dichiarazione del ministro degli esteri inglese Balfour. La caduta dello zar nel 1917 fece venire alla luce gli accordi segreti stipulati nel 1916 tra Francia e Inghilterra sulla spartizione dell’ex-impero turco dopo la guerra (Accordo Sykes-Picot): gli inglesi, però, dopo la pubblicazione del testo, riuscirono a convincere gli arabi che si trattava di una manovra della propaganda comunista e che la guerra andava continuata. I Turchi, quando si accorsero dell’inganno, cercarono subito d’intavolare delle trattative segrete col Mondo Arabo, ma ormai era troppo tardi: la loro sconfitta era inevitabile.

Alla Conferenza per la pace di Parigi nel 1919, gli Arabi (nella cui delegazione vi era anche il colonnello Lawrence) chiesero: l’indipendenza di tutta la penisola arabica, eccettuati l’Aden (capitale Sud Yemen) e altri possessi britannici; l’indipendenza della Siria; la libertà di scelta per lo Yemen; il protettorato inglese per Palestina e Irak (qui per lo sfruttamento congiunto arabo-inglese del petrolio).

L’Occidente rispose con il Trattato di Sèvres (vicino Parigi) del 1920, che prevedeva: indipendenza all’Higiaz; protettorato francese sulla Siria e inglese sull’Irak; costituzione in Palestina di uno Stato ebraico, che convivesse pacificamente con le comunità arabe. Tutto il resto doveva restare strettamente controllato dalle potenze occidentali vincitrici della I G.M.

Gli Arabi dell’Higiaz insorsero nel 1924, ma ne uscirono sconfitti. Insorsero anche gli Arabi dell’Egitto: qui l’Inghilterra fu costretta a riconoscere una formale indipendenza.

CARATTERISTICHE DEL DOMINIO ANGLO-FRANCESE IN MEDIORIENTE

Il Trattato di Sèvres non fissava la data dell’indipendenza dei vari paesi arabi, ma la considerava inevitabile. Di qui la necessità di fare in modo che i futuri governi continuassero ad aver bisogno degli Europei.

  1. Sostenere le minoranze (ad es. curdi, armeni…) per frenare le rivendicazioni arabe. Se infatti il potere fosse andato alla maggioranza, le minoranze avrebbero avuto bisogno dell’Occidente.
  2. Creare barriere artificiali (ad es. la Transgiordania, che secondo gli Inglesi doveva servire per impedire al futuro Stato ebraico di espandersi verso Est; oppure la separazione francese del Libano dalla Siria, per indebolire quest’ultima).
  3. Impedire una politica estera indipendente ai governanti locali.
  4. Trovare sempre nuovi pretesti per interferire nella politica interna.
  5. Offrire ai mercanti inglesi e francesi numerosi diritti e privilegi.

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La diffusione dell’Impero Ottomano e la formazione dei Confini militari (Vojna Krajina)

La diffusione dell’Impero Ottomano sui Balcani nel ‘400 diede un grave colpo all’entita’ nazionale croata e a quella culturale. Dopo lo sterminio dei nobili croati nella battaglia sul campo Krbava (Krbavsko Polje) nel 1493, solo 25 anni piu’ tardi, lo Stato croato (che durante l’epoca dei governatori croati si estendeva su 120.000 km q.) si ridusse ai soli 16.000 km q., ai “resti dei resti” – una stretta fascia – dalla Drava nel nord fino al mare nel sud.

L’irruzione turca trasformo’ la Croazia in un sanguinoso campo di battaglia, l’ultima linea di difesa del mondo occidentale di quell’epoca.

Furono due le conseguenze importanti della diffusione dell’Impero Turco che si ebbero nel ‘500. La prima, che dopo la grave sconfitta provocata dai turchi nel 1526 sul campo di Mohac (Mohacko Polje), e dopo l’uccisione del re ungarico – croato Lodovico II, il Parlamento croato (nel 1527) elesse il re Ferdinando d’Asburgo. La Croazia innanzittutto cercava l’appoggio e il sostegno nella lotta contro i turchi. La seconda, fu che con l’aiuto dell’Austria, lungo la frontiera croata (confinante con quella dell’Impero Ottomano) iniziarono le origini dei Confini militari (Vojna Krajina).

Vale a dire, che l’indebolita aristocrazia croata con i poderi devastati, non ebbe abbastanza forza e potenza militare di organizzare la difesa del territorio croato. Con l’accordo di Bruck, nel 1578, le regioni austriache assunsero l’incarico di finanziare i Confini Militari (Vojna Krajina). Da allora i Confini Militari, da una provincia esclusivamente nazionale, divennero una provincia europea di guerra.

La piu’ grave conseguenza della devastazione turca nelle zone confinanti, fu il trasferimento del popolo croato a sud, ovest e a nord. I fatti confermano che tutte le diaspore nel XV e nel XVI secolo furono veramente di massa e che lasciarono profondi segni nell’esistenza del popolo croato. Morlacchi e serbi, venuti da una e dall’altra parte del confine austriaco – turco al servizio della sovranita’ austriaca e turca rispettivamente, popolarono le devastate parti croate.

La colonizzazione delle Aree croate devastate e saccheggiate, con lo scopo di organizzare il campo di battaglia europeo per la difesa, richiedeva una massa demografica maggiore. Nel 1630 i confinari della Vojna Krajina (Confini Militari) stipularono nel generalato di Varazdin un accordo con gli Asburgo, conosciuto sotto il nome della STATUTA WALACHORUM, con il quale ottennero vari vantaggi per una successiva colonizzazione. Ma il processo di adattamento dei nuovi colonizzatori e del popolo croato ormai diradato fu molto lento, con conflitti e disaccordi che sarebbero stati decisivi nelle relazioni tra croati e serbi nel ‘900.

I Confini Militari, formatisi durante il XVI e XVII secolo dal conflitto dell’Impero Ottomano e gli stati indipendenti occidentali sul territorio croato, non si esaurirono con la liberazione di una parte della Croazia dai turchi nel 1699. Anzi, dall’istituzione tradizionale, essi divennero una moderna istituzione militare.

Le ragioni di questo fatto bisognerebbe cercare nelle nuove ambizioni degli Asburgo di dominare l’Europa centrale e sud orientale. Le riforme che vi seguirono ebbero lo scopo di militarizzare la Vojna Krajina croata e trasformare i confinari in soldati ordinari sotto la gestione di Vienna. Cosi’ fu fino all’abolizione dei Confini Militari e della sua unione con la cosiddetta Croazia civile nel 1881. Ne e’ prova storica anche oggi la continua resistenza dei serbi confinari alla sovranita’ croata simboleggiata dal Governo croato.

Per conoscere meglio le relazioni croato-serbe, furono di grande importanza gli eventi accaduti nel ‘800. Vale a dire, verso la fine del ‘700 e l’inizio del ‘800, la divisione della Croazia fu riconosciuta nel ‘400 quando Venezia acquisto’ la Dalmazia croata.

Dal primo ‘800, la Croazia fu divisa in regioni di cui la Croazia del nord e la Slavonia si unirono in paesi della corona di San Stefano (Ungheria) sotto l’Impero austriaco, mentre le regioni del sud di Croazia – la Dalmazia, l’Istria e i Confini Militari, furono soggetti alla diretta amministrazione di Vienna. In quel periodo in Europa si stabilivano nazioni moderne, mentre in Croazia nasceva e si formava la giovane borghesia che inauguro’ il Programma nazionale croato il quale innanzitutto rispecchiava l’aspirazione dell’unione del popolo croato e poi anche l’unificazione di tutti i popoli slavi meridionali in una comunita’ di popoli equiparati.

L’idea dell’unione slava – meridionale tra i ceti politici e culturali dell ‘800, fu basata sulla convinzione che con essa i popoli si sarebbero potuti liberare piu’ facilmente dall’egemonia delle potenze. Con questa visione, in Croazia nascevano l’idea dell’unione jugoslava (l’Accademia jugoslava di scienze ed arti a Zagabria), varie istituzioni ecc. Alcuni partiti politici caldeggiavano e sostenevano la proposta dell’unione slavo – meridionale, mentre altri raccomandavano l’indipendenza politica della Croazia all’interno dello Stato austro-ungarico.


http://www.tmcrew.org/int/palestina/storiacolonizzazione.htm

LA COLONIZZAZIONE DELLA PALESTINA
FINO ALLA FONDAZIONE DI ISRAELE

A metà del XIX secolo l’interesse europeo per la regione del Vicino Oriente acquista, in maniera esplicita, la sua dimensione coloniale e le premesse ideologiche per questa operazione sono costituite dal revival del mito delle crociate e l’interesse romantico per l’Oriente.
La Palestina viene considerata una sorta di “terra ignota” paragonabile al continente africano di cui, appunto nel XIX secolo, si inizia l’esplorazione ma l’interesse per quanto concretamente si trova in quella terra, popolazione inclusa, è molto relativo. Nel 1860 la flotta franco-inglese sbarca in Siria e nel 1865 diventa attivo il Palestine Exploration Fund, fondato a Londra che, insieme ad altre grandi organizzazioni mettono a disposizione di ricercatori ed esploratori ragguardevoli finanziamenti.
In questo contesto vanno collocati i primi episodi di stanziamento ebraico, di ebrei non palestinesi, di molto anteriori alla nascita ufficiale del sionismo.
Per l’Inghilterra la Palestina rappresentava un punto strategico per la difesa della rotta per l’India, dominio coloniale fondamentale per lo sviluppo industriale inglese in piena crescita. Tale importanza aument? ancora dopo l’apertura del canale di Suez nel 1869, tenendo conto che la Gran Bretagna aveva acquistato la maggioranza di azioni della società di gestione del canale. Inoltre la Gran Bretagna controllava il petrolio persiano ed iracheno.
La Francia era invece preoccupata di contrastare la supremazia inglese in tutto il Vicino e Medio oriente e anche la penetrazione tedesca nell’impero ottomano metteva in pericolo non solo le posizioni economiche dell’Impero Britannico, ma anche quelle strategiche. La Palestina poi rientrava nelle varie ipotesi di smembramento dell’impero ottomano a cui le potenze europee erano estremamente interessate. L’Europa in questo periodo è percorsa dai movimenti nazionalistici e là dove ancora non esiste si intende creare, sul modello francese, lo Stato-nazione. Il concetto stesso di nazione e nazionalismo, estraneo nel mondo musulmano, non ha, in particolare, cittadinanza in seno alla parte orientale dell’impero ottomano, per definizione sovranazionale.
In Palestina non accade che una comunità si proclami rappresentante dello Stato-nazione mentre è dall’esterno che una minoranza ebraica, partecipe, in quanto europea del nuovo clima nazionalistico comincia ad autodefinirsi tale. Nel 1881furono scatenati nella Russia zarista pogrom antiebraici che provocarono la morte di centinaia di ebrei e la distruzione delle sinagoghe e di altri beni. Circa 1 milione di ebrei abbandonarono l’impero zarista e la maggior parte si rifugi? nei paesi occidentali mentre una esigua minoranza scelse come meta la Palestina. Qui riuscirono a sopravvivere solo grazie alle generose sovvenzioni del barone Edmond de Rotschild, che finanzi?, secondo un indirizzo filantropico, il primo tentativo di colonizzazione ebraica della Palestina.
L’immigrazione ebraica in Palestina va avanti suscitando le preoccupazioni del governo ottomano e le prime reazioni della popolazione indigena e tra il 1886 e il 1914 ci furono attacchi arabi contro vari insediamenti agricoli ebraici.
Disordini gravi vi furono nel 1901 a causa dell’acquisto di terre presso Tiberiade da parte degli ebrei e nel 1903 a seguito dell’apertura a Jaffa dell’ Anglo-Palestine Bank. Per secoli arabi ed ebrei erano vissuto pacificamente fianco a fianco in Palestina ma ora i nuovi venuti rappresentavano una presenza che mirava ad imporsi come dominatrice nel paese.
L’acquisto di nuove terre da parte degli ebrei era una causa fondamentale di conflitto con i contadini poveri, che erano la maggioranza della popolazione palestinese, dato che i coloni ebrei, soprattutto a partire dalla seconda ondata immigratoria (1903), non impiegavano mano d’opera araba sulle loro terre e ogni creazione di nuove colonie ebraiche si traduceva in un’espulsione dei braccianti palestinesi dalla terra.
A tutto cio’ si aggiunga il rifiuto dei coloni ebrei di mantenere in comune con gli arabi i pascoli secondo le consuetudini. Nel 1911 un banchiere di Beirut e grande latifondista vendette agli ebrei un importante lotto di terre: come conseguenza di questa vendita, 1746 famiglie arabe vennero espulse dai loro villaggi nel modo più legale del mondo. La forte emozione provocata da questo avvenimento acceler? la nascita del primo partito politico palestinese, il Partito Patriottico ottomano.
Allo scoppio della prima guerra mondiale l’Impero ottomano entra nel conflitto a fianco dei tedeschi.
Allora controllava tutta la costa orientale del Mar rosso e, con un’offensiva attraverso il deserto del Sinai, difficilmente difendibile, poteva portare una minaccia mortale al Canale di Suez, che i tedeschi avevano definito “la vena giugulare dell’Impero britannico”.
La particolare posizione strategica della Palestina ne faceva un paese di prima linea ed ebbe grandissima importanza per il suo futuro. Nel frattempo, in piena ostilità bellica nel 1917, viene annunciata la “Dichiarazione di Balfour” con cui l’Inghilterra auspicava la creazione di una patria ebraica in Palestina.
Nel 1918, la sconfitta turca a Megiddo diede il colpo di grazia a quello che era stato il grande impero ottomano che venne spartito definitivamente nel 1920 tra Francia (mandato sul Libano e la Siria) e Gran Bretagna (mandato sulla Palestina e l’Iraq.
La Gran Bretagna ottiene al tavolo delle trattative di pace, cui gli arabi non sono ammessi, l’affidamento del mandato sulla Palestina.
Questa formula indica nei fatti un dominio coloniale, mentre formalmente sancisce solo la temporanea immaturità politica del paese e del popolo su cui il mandato si esplica.
La prima mossa precisa della Gran Bretagna per favorire il progetto sionista in Palestina, fu quella di permettere alla comunità ebraica che andava aumentando, e non ai palestinesi, di organizzarsi con una specie di parlamento e di esecutivo.
Un ennesimo rifiuto della potenza mandataria a costituire un Consiglio legislativo Palestinese, dove gli arabi avessero una maggioranza, porta alla proclamazione di uno sciopero generale dei lavoratori arabi nel 1936 che si concluderà dopo 174 giorni con la capitolazione degli scioperanti. Bisogna notare poi che l’appoggio inglese non fu solo politico.
Le modificazioni economiche derivanti dalla presenza coloniale resero in qualche modo irreversibile il processo. L’acquisto ad esempio di terre arabe fu favorito, anche in vista di uno sfruttamento moderno e tecnologicamente avanzato delle potenzialità del paese, nei confronti del quale, peraltro, diversamente da quanto avvenne in India o in certe zone dell’Africa, la Gran Bretagna non vant? mai un suo piano economico specifico. Nel 1939 gli ebrei in Palestina rappresentavano solo il 28% della popolazione ma si era ormai cominciato a parlare di uno Stato in Palestina, non più arabo, ma arabo-ebraico.
Nello stesso tempo si stava formando l’embrione della struttura di uno Stato ebraico, compreso un corpo militare, l’Haganà, formalmente clandestino ed illegale, in realtà tollerato dalle autorità britanniche. I primi anni ’40 sono segnati da un’esplosione di attività terroristica ebraica contro la Gran Bretagna, colpevole di aver posto limiti all’immigrazione.
La pressione politica nel paese e fuori, insieme all’azione terroristica, spinsero la Gran Bretagna a rimettere il mandato sulla Palestina, investendo l’Organizzazione della Nazioni Unite della responsabilità del futuro paese. Il 29 novembre 1947 l’ONU voto’ un piano di spartizione tra uno Stato ebraico ed uno arabo proponendo uno statuto speciale per Gerusalemme. Il 14 maggio 1948 la Gran Bretagna lascia la Palestina e Ben Gurion proclama immediatamente la nascita dello Stato di Israele.
Le truppe arabe dei paesi confinanti organizzano un’avanzata militare in territorio palestinese, ottenendo anche parziali successi. Israele comincia sistematicamente una campagne di terrore contro la popolazione locale costretta a fuggire dai villaggi attaccati e, durante l’armistizio accettato dai paesi arabi, riesce ad occupare alcuni luoghi importanti ed ad integrarli nel suo territorio. I nuovi confini vengono accettati come fatto compiuto e la parte di territorio palestinese rimasta in mano araba viene annessa al Regno di Giordania, mentre la striscia di Gaza viene affidata all’Egitto.
L’esodo palestinese è cominciato e la parola Palestina esce dal vocabolario politico e storico della regione.


http://www.liceolabriola.it/Palestina/sviluppo.doc

Lo sviluppo storico della questione Palestinese 
Parte prima: 1918-1939
  
di Antonio Ambrosio

Il medioriente e’ ormai da anni uno dei punti piu’ caldi dello scacchiere diplomatico mondiale. In particolare, oggi e’ tornata drammaticamente di attualita’ la questione palestinese, una delle grandi questioni irrisolte dell’ultimo secolo, probabilmente una delle piu’ complesse. Cercheremo per alcuni mesi, a partire da oggi, di studiarla con attenzione, mettendone in evidenza gli aspetti piu’ importanti, sia economici che politici. Siamo pero’ convinti che per poterla interpretare nel modo migliore possibile, sia fondamentale conoscere le vicende storiche che l’hanno determinata.

In questo primo articolo, cominceremo dunque, a ripercorrere le tappe del suo sviluppo storico fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, lo faremo cercando di essere piu’ brevi e nello stesso tempo chiari e precisi possibile.

Il punto di partenza non puo’ che essere la Prima guerra mondiale.

Il 28 luglio 1914 l’Austria dichiara guerra alla Serbia, atto di per se non irreparabile, soprattutto se si considerano le condizioni dell’esercito austriaco, non ancora totalmente mobilitato. Lo stato di panico pero’, in cui erano gia’ da tempo precipitate le diplomazie europee, specie quella tedesca, impedi’ di evitare l’allargamento del conflitto, si scateno’ cosi’ una reazione a catena che coinvolse in breve tutte le potenze europee. Germania, Russia, Francia, GBR, una dopo l’altra si ritrovarono coinvolte in un conflitto che nessuna di loro aveva davvero voluto. Sin dall’inizio si delineo’ una situazione di preoccupante equilibrio: ad occidente dal mare del nord attraverso il Belgio, la Francia settentrionale, lungo tutta la frontiera franco tedesca fino alla Svizzera, si costitui’ un unico fronte di ben 400 miglia. Contemporaneamente ad oriente si sviluppo’ una situazione simile, dalla Romania al Baltico, anche qui un unico immenso fronte. Questa situazione di stasi aumento’ a dismisura l’importanza dei Paesi rimasti neutrali, le potenze belligeranti scatenarono infatti, nei loro confronti, una vera e propria offensiva diplomatica nell’ovvio tentativo di coinvolgerli nel conflitto dalla propria parte. E’ proprio in questo contesto che vanno rintracciate le radici dell’attuale questione mediorientale.

I primi sviluppi diplomatici si ebbero infatti nell’Impero Ottomano, Stato nel quale era molto forte l’influenza tedesca. Gia’ dal 2 di agosto la Germania aveva ottenuto un’alleanza formale con la Turchia, l’opinione pubblica turca era pero’ divisa: in molti non desideravano affatto entrare in guerra; la Germania opero’ comunque una forte pressione, non va dimenticato in questa ottica che Liman Von Sanders, ufficiale tedesco, controllava direttamente una parte importante dell’esercito turco; cosi’ quando gli incrociatori Goeben e Breslau che erano stati ufficialmente venduti alla Turchia, ma che continuavano ad operare con equipaggi e comandanti tedeschi, entrarono nel mar nero e bombardarono Odessa, le Potenze dell’Intesa dichiararono guerra alla Turchia.

Come sostiene il Carrie’, vista retrospettivamente, la scelta turca di schierarsi con le Potenze centrali puo’ essere considerata la condanna a morte dell’Impero Ottomano, le Potenze dell’Intesa decisero infatti, proprio in quella occasione ,di risolvere definitivamente il problema del grande malato de Europa, concordandone la completa spartizione. Fin dall’inizio, fu soprattutto la GBR ad assumere l’iniziativa in questo settore, sia dal punto di vista militare che da quello diplomatico. Da Londra, attraverso il Cairo, vennero condotti intensi negoziati che portarono gia’ nel 1915 ad un primo accordo con lo sceriffo Hussein della Mecca. In base a questi accordi, gli Inglesi accettavano di sostenere il movimento di indipendenza arabo, che aveva come obiettivo principale la creazione di un unico grande Stato Arabo nella parte meridionale del Impero Ottomano. Gli Inglesi non potevano non considerare pero’ i forti interessi della Francia in questa zona, nasce cosi’ l’accordo segreto Sykes-Picot, nel marzo 1916, secondo il quale la GBR riconosceva la posizione francese in Siria, mentre la Mesopotamia sarebbe rimasta sotto l’influenza britannica, la Palestina avrebbe goduto di un regime internazionale ed solo ad est di Suez si sarebbe creato un unico Stato Arabo. Poco dopo, a maggio, l’accordo fu allargato alla Russia di cui si riconoscevano le pretese sugli stretti ed in Asia minore. Questi accordi furono presi senza la partecipazione dell’Italia, le cui rivendicazioni nella zona furono considerate solo dopo la sua dichiarazione di guerra alla Germania nel 17. Inoltre, va ricordato che in questa fase, gli alleati cercarono di ottenere anche il consenso del movimento sionista, si comprende cosi’ la famosa dichiarazione Balfour, nel novembre del 17, con la quale auspicava la creazione di un sede nazionale per gli Ebrei in Palestina. Molto difficilmente si puo’ sostenere la coerenza di questi accordi, soprattutto per quello che riguarda proprio la Palestina, dove interessi arabi e ebraici erano decisamente contrapposti. A riguardo infatti, lo stesso Balfour affermo’, come ricorda sempre il Carrie’, che:” a volte la necessita’ della guerra inducono ad assumere impegni che altrimenti non si sarebbero mai presi.”

Inoltre, va sottolineato come la promessa britannica di appoggiare il movimento di indipendenza arabo, stridesse palesemente con gli accordi segreti Sykes-Picot, tra l’altro rivisti nel 18 a favore della GBR che avrebbe esteso la sua zona di influenza al distretto di Moussul e alla Palestina.

Finita la guerra la situazione era dunque, decisamente confusa, tralasciando la Turchia concentreremo da ora in poi l’attenzione sulla parte araba dell’ex Impero Ottomano.

Qui, nel 1916 contando sull’appoggio britannico, scoppio’ l’insurrezione araba, capeggiata dal capo della famiglia ascemita, l’emiro Hussein dell’ Heggiaz. Nel ottobre del 1918, suo figlio Faisal entro’ trionfalmente a Damasco, a questo punto pero’, il progetto ascemita finalizzato alla creazione di un grande Stato Arabo urtava decisamente, come gia’ detto, contro gli interessi francesi e britannici (Sykes-Picot) .Nasce in questo contesto, nel tentativo di risolvere le situazione, il sistema dei mandati, secondo cui Francia e Gran Bretagna ricevevano dalla Societa’ delle Nazioni il mandato di amministrare i territori della Mezzaluna fertile per guidarli alla completa indipendenza. Faisal cerco di opporsi a tale sistema ma la commissione King-Crane voluta da Wilson ed inviata sul posto(giugno 1919), si dichiaro’ favorevole ai mandati. Le ulteriori resistenze di Faisal che, dopo un tentativo di accordo fallito con la Francia, giunse a farsi proclamare Re della Siria e di suo fratello Abdullah proclamatosi Re dell’Iraq furono piegate con la forza.La conferenza di San Remo, aprile 1920, attribui’ definitivamente il mandato sulla Siria(compreso il Libano) alla Francia, Palestina ed Iraq erano invece affidati alla GBR. Gouraud, l’amministratore francese, dopo aver dato un assetto federale al territorio, nel dicembre del 1920 creo’ lo Stato del Libano con una forte presenza mussulmana al suo interno, da allora il Libano sarebbe rimasto separato definitivamente dalla Siria, la quale a sua volta, sarebbe diventata stato unitario nel dicembre 1924. Nel nord di questo nuovo stato fu riconosciuto uno statuto autonomo per i Mussulmani eretici, e lo stesso si fece per il sangiaccato di Alessandretta.

La GBR, nei suoi territori, creo’ ad est del Giordano con dei territori staccati alla Palestina la Transgiordania di cui fu nominato emiro Abdullah, mentre Faisal fu insediato in Iraq a cui fu assegnato il distretto petrolifero di Mossul. La situazione e’ comunque molto tesa i rapporti tra Arabi e Gbr non sono buoni e soprattutto non sono buoni i rapporti tra gli stessi Arabi: si assiste infatti in questi anni allo scontro tra Ascemiti guidati da Hussein e Wahabiti capeggiati da Ibn Saud. Lo scontro trasformatosi presto in vera e propria guerra finira’ solo nel 1925 con la netta vittoria di Ibn Saud il quale unifichera’ l’Arabia sotto il suo scettro.

Questo lo scenario nel quale si inserisce la questione Palestinese sulla quale concentreremo d’ora innanzi l’attenzione.

In Palestina, immediatamente dopo la fine della guerra, cominciarono ad arrivare i primi Ebrei per costituire il focolare nazionale ebraico, menzionato dalla dichiarazione Balfour del 1917, gia’ nel 20 il loro numero era arrivato a 60000. Contro la politica filosionista dell’Inghilterra sorse il comitato esecutivo arabo del quale facevano parte sia Arabi Cristiani che Mussulmani. Nel maggio del 1921 ci fu’ il primo attacco contro gli Ebrei di Giaffa, la Gbr si preoccupo’ allora di rassicurare gli arabi precisando che la Palestina non sarebbe diventata affatto tutta ebraica. Nel 1925 il numero degli Ebrei era intanto piu’ che raddoppiato arrivando a 121725.Comunque in questo periodo la situazione si mantenne tranquilla, sia sotto l’amministrazione di Sir Herbert Samuel ritiratosi nel 25, che del suo successore Lord Plumer (1925-28)non si verificarono incidenti, tanto che sembro’ possibile riuscire a trovare un accordo. Questo convinse Lord Plumer ha ridurre di molto le forze di occupazione britanniche sul territorio, la decisione si rivelo’ poco felice: pochi giorni dopo la partenza di Plumer nell’agosto del 29, si scateno’ la rivolta araba in diverse citta’ della Palestina, gli incidenti furono gravissimi e 133 Ebrei rimasero uccisi, le truppe britanniche dovettero precipitosamente ritornare sul territorio. Il nuovo alto commissario britannico Sir John Chancellor si trovò di fronte ad una situazione estremamente critica: la rivalita’ tra Ebrei ed Arabi non era piu’ solo religiosa ma anche e soprattutto politica. Fu nominata allora dalla Camera dei Comuni una commissione d’inchiesta presieduta da Sir Walter Shaw la quale nel suo rapporto se da una parte si preoccupo’ di ribadire che l’organizzazione sionista non aveva assolutamente nessun diritto nell’amministrazione della Palestina, dall’altra accuso’ il Gran Mufti’ di Gerusalemme di non aver fatto nulla per fermare i disordini e rilevo’ comunque che il contingente britannico nel Paese era insufficiente. Il rapporto fu trasmesso anche alla commissione mandati della SDN. Intanto, sempre alla fine del 28, venne fondata dal dottor Weizmann “l’Agenzia Ebraica” con il compito di rappresentare tutti gli Ebrei, nel 29 questa fu riconosciuta dal Governo Britannico, che manteneva ancora un atteggiamento filo sionista. Alla fine del 1931 giunse in Palestina un nuovo commissario britannico Sir Arthur Wauchope La diffidenza e l’ostilita’ tra Arabi ed Ebrei era ormai radicata, e si accentuava per il continuo arrivo di altri Ebrei, il cui numero sarebbe salito ancora con l’ascesa al poter di Hitler in Germania. Nel solo 1935 arrivarono 61854 immigrati Ebrei senza contare i clandestini, la popolazione ebraica superava ormai le 250000 unita’. Nel 33 si era avuta una sommossa araba contro la Gbr accusata di favorire l’immigrazione ebraica, gli Ebrei da parte loro eliminarono molti leader moderati accusati di favorire il dialogo con gli Arabi. Il bienni1935-36 fu decisivo: nel novembre del 35 Sir Arthur Wauchope, accettando in parte alcune richieste arabe, decise di vietare la vendita dei terreni agli Ebrei da parte degli stessi Arabi se non ne fosse rimasta una parte sufficiente per il proprietario arabo e la sua famiglia, inoltre propose la creazione di un consiglio legislativo composto da 5 ufficiali 11 membri da lui designati e 12 eletti in totale esclusi gli ufficiali: 11 Mussulmani, 7 Ebrei, 3 Cristiani, 2 rappresentanti dei commercianti. I capi arabi accettarono questo progetto, gli Ebrei no, nel febbraio del 36 il Parlamento Britannico lo respinse, per gli Ebrei fu un trionfo. La risposta araba non si fece attendere e fu violentissima, nel mese di aprile del 36 dallo sciopero generale si passo’ alla insurrezione armata. Fu nominata allora una Commissione Reale presieduta da Lord Peel, con l’incarico di svolgere un’inchiesta approfondita sulla situazione in Palestina, il rapporto fu presentato nell’estate del 37.Secondo la commissione Peel i rapporti tra Arabi ed Ebrei erano assolutamente irrecuperabili, l’unica soluzione praticabile era quella di dividere la Palestina in due parti: Il nord fino a Megidda, con la piana marittima, tranne un corridoio per collegare i luoghi santi con il porto di Giaffa, sarebbe andato agli Ebrei. I luoghi sacri sarebbero rimasti sotto mandato internazionale, il resto della Palestina sarebbe stato unito alla Transgiordania. In generale tutto il mondo arabo si mostro’ contrario a questo progetto. Iniziarono cosi’ nuovi negoziati, mentre i disordini per altro mai sopiti completamente ripresero con nuovo vigore. La Gbr reagi’ con vigore molti capi arabi furono arrestati ed altri costretti alla fuga ma di certo questo non risolveva il problema.

8 settembre 1937,si celebro’ il congresso di Bludan si riunirono ben 400 delegati, rappresentanti di tutto il mondo arabo, tranne lo Yemen. All’unanimita’ fu adottata una risoluzione in cui si dichiarava che la Palestina faceva parte integrante del mondo arabo e si rifiutava qualsiasi ipotesi di spartizione, in piu’ si chiese l’annullamento della dichiarazione Balfour, l’annullamento del mandato e la firma di un trattato tra Inghilterra e Palestina con il quale si riconoscesse l’indipendenza della Palestina come stato autonomo. Gli Arabi dunque, a differenza degli Ebrei, escludevano categoricamente l’ipotesi della spartizione. Alla fine del 37 Wauchope fu sostituito da Sir Harold Mac Michel .Fu inviata sul posto anche una commissione per studiare tecnicamente l’eventuale spartizione. Il parere della commissione fu negativo, dal punto di vista logistico ed anche da quello economico la spartizione del Paese non era possibile, ma se comunque si fosse attuata, sicuramente la parte assegnata agli Ebrei doveva essere sensibilmente ridotta. La Gbr abbandono il progetto ed il Governo Inglese ricomincio’ a cercare un accordo tra Arabi ed Ebrei. Constatata l’impossibilita’ di ottenere un riavvicinamento delle parti il Governo Britannico pubblico’ un “libro bianco” con il quale annuncio’ la decisione di creare uno stato indipendente di Palestina entro 10 anni. Nei primi 5 anni si sarebbe creata una speciale assemblea costituente della quale avrebbero fatto parte anche gli Inglesi, si sarebbe poi diviso il Paese in tre zone, in una delle quali la vendita delle terre agli Ebrei sarebbe stato vietato, in un’altra limitata e nell’ultima sarebbe invece stato libero. Questa volta furono gli Ebrei ad opporsi. La commissione dei mandati non lo accetto’ . Nella primavera del 39 un’organizzazione sionista invito’ tutti gli Ebrei a combattere contro ogni limitazione alla creazione del “focolare nazionale ebraico” Allo scoppio della seconda guerra mondiale il problema palestinese era dunque lontano dall’essere risolto.  


Lo sviluppo storico della questione Palestinese. 
Parte seconda: 1939-1951
  
di Antonio Ambrosio

Continuiamo in questo secondo articolo ad analizzare lo sviluppo storico della questione palestinese, cercando di conciliare, per quanto possibile, brevita’ e precisione, impresa evidentemente ardua, soprattutto se si considera la complessita’ dell’argomento trattato, che va comunque affrontata se si vuole avere la possibilita’ reale di comprendere almeno in parte gli sviluppi odierni.  
Come detto alla fine del precedente articolo, consultabile in archivio, nel maggio del 1939 il Governo Britannico constatata la impossibilita’ di spartire il territorio palestinese in due parti, sia per motivi logistici che economici e trovatosi di fronte all’impossibilita’ di ottenere un qualsiasi tipo di avvicinamento tra Arabi ed Israeliani, decise di pubblicare un “Libro Bianco” nel quale annunciava la creazione, entro 10 anni, di uno Stato Sovrano ed Indipendente di Palestina.  
All’interno di questo Stato ci si sarebbe sforzati di far collaborare Arabi ed Ebrei.  
Intanto in questi dieci anni si sarebbe dovuto preparare il campo. 
In primo luogo sarebbe stata limitata l’immigrazione ebraica, soprattutto nei primi cinque anni, sarebbe poi stata creata, un’Assemblea Costituente, di cui avrebbero fatto parte anche rappresentanti britannici, oltre che chiaramente Arabi ed Ebrei, e soprattutto si sarebbe diviso il futuro Stato di Palestina in tre zone: una in cui l’acquisto della terra per gli Ebrei sarebbe stato completamente vietato, un’altra nella quale sarebbe stato limitato ed infine una terza nella quale sarebbe stato completamente libero. 
Gli Ebrei si opposero tenacemente a questo progetto, perche’ metteva, evidentemente, in discussione la nascita di quel ” focolare nazionale ebraico” promesso loro, diversi anni prima, dalla famosa dichiarazione Balfour. A tal proposito la Histadruth l’organizzazione sionista dei lavoratori pubblico’ il 17 aprile1939, un manifesto nel quale invitava tutti gli Ebrei alla resistenza contro qualsiasi tentativo di limitare la creazione di un futuro Stato ebraico. 
Va considerato che tutto questo avveniva in un periodo molto particolare, siamo infatti, nel pieno delle persecuzioni razziali messe in atto dal terzo Reich, questo non solo aumentava di molto il numero di Ebrei, che in fuga dall’Europa nazista giungevano nel territorio palestinese, ma dava alla vicenda una risonanza di carattere morale enorme rendendola molto più difficile da gestire.  
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale la Palestina conosce un periodo di relativa calma, il territorio e’ ancora sotto mandato britannico, gli Ebrei decidono pero’ in questa fase di sospendere le proteste contro la GBR per concentrare tutti gli sforzi contro il terrore nazista.  
I due principali gruppi armati, lo Haganah creato prima ancora del 1919, con lo scopo di difendere i possedimenti ebraici contro gli Arabi e lo Irgun Zwai leumi decisamente piu’ violento, creato nel 39 da Daniel Rezie’li con 600 dissidenti dello Haganah, decisero di deporre le armi, soltanto il Gruppo Stern guidato da Abramo Stern (ucciso nel 41) continuo’ la lotta contro la GBR rivendicando diversi attentati terroristici in un dei quali fu assassinato, nel 1944 al Cairo, il ministro di Stato britannico Lord Moyne.  
Comunque sia, al di la’ di episodi isolati riconducibili tutti al gruppo Stern, in questi anni la situazione nei territori palestinesi rimane sostanzialmente tranquilla.  
Alla fine del secondo conflitto mondiale pero’, in Palestina, dove “convivevano” 1.240.850 Arabi e 553.600 Ebrei, la situazione torno’ subito estremamente tesa. 
La GBR che gia’ da tempo aveva mutato il suo atteggiamento filo-sionista a favore del mondo arabo, rafforzo’ il suo convincimento soprattutto in seguito all’assassinio di Lord Moyne , nello stesso tempo di fronte ad una situazione sempre piu’ inestricabile il GovernoBritannico decise di dividere le sue responsabilita’ sul territorio con gli USA .  
Nel novembre del 45 fu cosi’ creata una commissione di inchiesta anglo-americana, che dopo un lavoro di alcuni mesi nell’aprile del 46 consegno’ un rapporto nel quale si raccomandava l’introduzione in Palestina di 100.000 Ebrei, si sconsigliava la divisione del territorio in due parti una araba l’altra ebraica e si proponeva il mantenimento a tempo indeterminato del mandato britannico, inoltre si consigliava per l’avvenire di lasciare libera l’immigrazione ebraica. In sostanza si chiedeva la abolizione del Libro bianco. Evidentemente, le proposte di questa commissione erano decisamente gradite agli Ebrei, molto meno agli Arabi. Non furono comunque accolte, anche perche’ la GBR non aveva nessuna intenzione di prolungare a tempo indeterminato il proprio mandato.  
Il 31 luglio del 46 Herbert Morrison su suggerimento di un gruppo di esperti presento’ alla Camera dei Comuni un suo piano, secondo il quale la Palestina doveva essere divisa in 4 zone : una provincia araba, una provincia ebraica, il distretto di Gerusalemme, che sarebbe rimasto sotto l’amministrazione internazionale e il distretto del Negev, queste quattro zone, pur godendo ognuna di una larga autonomia, avrebbero costituito un unico Stato. Il Negev in particolare sarebbe stato amministrato da un proprio governo autonomo, sotto la diretta influenza inglese. 
Il piano Morrison era evidentemente funzionale agli interessi britannici. La GBR infatti nel 46 aveva firmato un trattato di alleanza con la Transgiordania, a sua volta ex mandato britannico, ora con l’eventuale controllo diretto del Negev situato anche esso come la Transgiordania a sud della Palestina, la GBR avrebbe avuto la possibilita’ di controllare direttamente il canale di Suez. Il piano Morrison trovo’ la ferma resistenza ebraica l’Irgun e il gruppo Stern moltiplicarono gli attentati riuscendo anche a colpire la sede del GovernoPalestinese all’Hotel King David.  
Il Governo Inglese decise allora di convocare, nel settembre del 46, a Londra i rappresentanti degli Stati Arabi e dell’Agenzia ebraica riunendoli in una conferenza alla quale pero’, questi rifiutarono di partecipare ufficialmente.  
Di fronte alla assoluta impossibilita’ di trovare una soluzione la GBR decise di sottoporre la questione palestinese all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che nell’aprile del 47 costitui’ una commissione di inchiesta denominata U.N.S.C.O.P . La commissione era composta da i rappresentanti di undici Nazioni (Australia, Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, Jugoslavia ,India, Iran, Uruguay, Peru’, Paesi Bassi, Svezia).Il rapporto della commissione, firmato solo da sette membri su undici, proponeva di costituire due Stati separati uno Ebraico, l’altro Arabo e di internazionalizzare Gerusalemme. I due Stati sarebbero divenuti indipendenti dopo gli ultimi due anni di mandato britannico. Questo progetto rispetto al piano Morrison favoriva decisamente gli Ebrei, infatti attribuiva al futuro Stato Ebraico gran parte del Negev, la cui superficie era quasi un terzo di quella dell’intera Palestina, il che avrebbe permesso il libero sviluppo dell’immigrazione ebraica.  
Il progetto fu discusso dal 16 settembre al 29 novembre 1947, durante la seconda sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, tenutasi a New York , e alla fine fu accettato con 33 voti a favore contro 13 contrari e 10 astensioni.  
Va sottolineato che votarono contro tutti e sette gli Stati Arabi piu’ la Turchia, l’Afganistan, il Pakistan, l’India, Cuba e Grecia, a favore invece sia l’U.R.S.S. che gli USA, la Gran Bretagna si astenne. Subito dopo l’approvazione fu creata una commissione di cinque membri con l’incarico di assicurare l’attuazione del piano.  
Da parte sua la GBR annuncio’ che avrebbe messo fine al suo mandato il 15 maggio 1948, a nove anni dalla pubblicazione del Libro bianco. 
Gli Arabi erano assolutamente contrari al piano approvato alle Nazioni Unite e di fronte al fatto compiuto decisero l’intervento militare.  
La forza effettiva degli Arabi era pero’ limitata, l’unico Paese che poteva contare su un’organizzazione militare moderna era la Transgiordania il cui esercito era guidato da un’inglese Glubb Pascia’, inoltre esistevano divergenze profonde all’interno del fronte arabo: le forze di liberazione della Palestina erano truppe reclutate sul posto, guidate da Fauzi Kaukgi e dipendenti dal Gran Mufti’ di Gerusalemme, il quale chiedeva e lottava per l’indipendenza della Palestina, la Transgiordania invece mirava ad annettere la Palestina araba, mentre l’Egitto da parte sua ambiva a conquistare una parte del Negev e Giaffa. Un fronte composito dunque poco coeso e male organizzato.  
Gli Ebrei al contrario potevano contare su un’ottima organizzazione: la Haganah era perfettamente equipaggiata con armi americane e cecoslovacche e contava su 70.000 uomini ben addestrati, ai quali si aggiungevano i circa 6.000 dell’Irgun.  
Il 15 maggio del 1948 appena partiti gli Inglesi lo Stato di Israele si proclamo’ indipendente, subito riconosciuto da U.R.S.S. e U.S.A, contemporaneamente le truppe arabe penetrarono in Palestina. Inizio’ cosi’ il primo conflitto militare tra Arabi e Israeliani.. Le operazioni militari intervallate da alcune tregue durarono dal 16 maggio 1948 al 25 gennaio 1949 e terminarono con la firma di diversi armistizi, tutti conclusi a Rodi: il primo con l’Egitto nel febbraio del 49, poi con il Libano a marzo, con la Transgiordania ad aprile e la Siria a luglio, sempre dello stesso anno. La vittoria Israeliana era evidente, tra i Paesi Arabi l’unico a guadagnare qualcosa fu la Transgiordania che, a seguito molto probabilmente di un accordo segreto con Israele, occupo’ la maggior parte della Palestina araba e la parte vecchia di Gerusalemme, mentre la parte nuova fu occupata dagli Ebrei.Durante le operazioni militari le Nazioni Unite portarono avanti un’intensa opera diplomatica nel tentativo di farle cessare al piu’ presto. Il 21 maggio del 1948 fu nominato un primo mediatore il conte Bernadotte, assassinato poco dopo .  
Il suo successore l’americano Ralph Bunche, nel settembre del ’48, sottopose all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite un nuovo piano sensibilmente diverso da quello approvato nel ’47. Bunche infatti, proponeva che il Negev fosse destinato alla zona araba, il piano per essere approvato doveva necessariamente essere appoggiato dagli USA . 
Il Dipartimento di Stato in un primo momento sembro’ essere favorevole, gli Stati Uniti erano pero’ in piena campagna elettorale, nessuno dei candidati, Truman compreso, voleva rischiare di inimicarsi la potente e numerosa comunita’ ebraica, cosi’ nonostante le pressioni effettuate dalle compagnie petrolifere che avevano tutto l’interesse a proteggere gli Arabi, il progetto non ebbe l’appoggio del Governo Americano e fini’ per arenarsi. 
Si decise allora di confermare il piano del ’47, introducendo alcune modifiche di frontiere favorevoli agli Ebrei. Israele ottenne cosi’ un successo pieno che fu rafforzato piu’ tardi dall’ammissione alle Nazioni Unite (11 maggio ’49) . 
E’ fondamentale ricordare che il 9 dicembre sempre del ’48, a guerra ancora in corso, fu votata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite una risoluzione che prevedeva l’internazionalizzazione di Gerusalemme divisa allora tra Ebrei e Transgiordani, per tutta risposta il 14 di dicembre ’48 il Governo Israeliano non tenendo in nessun conto la decisione dell’ONU dichiaro’ che il suo parlamento sarebbe stato installato a Gerusalemme dichiarandola capitale dello stato di Israele.  
Due giorni dopo il 16 Re Abdullah contro il volere della Lega Araba annette’ la Palestina araba alla Transgiordania dando allo Stato cosi’ costituito il nome di Giordania hascemita, l’annessione fu poi ratificata nel ’50 dal Parlamento Giordano, composto da membri in numero uguale della Transgiordania e della Palestina araba le due parti del nuovo Stato. 
La Lega Araba accetto’ lo stato di fatto, solo il gran Mufti’ di Gerusalemme protesto’ dichiarando che si trattava dello sterminio del Popolo Palestinese in Terra Santa, GBR riconobbe il nuovo Stato di Giordania creato attraverso la fusione di Transgiordania e Palestina araba.  
Piu’ tardi nel 1951 a Parigi si tenne una conferenza di riconciliazione, con nessun risultato tangibile, le delegazioni arabe ed israeliane vi presero parte separatamente. Gli Israeliani puntavano a concludere patti di non aggressione con i Paesi Arabi vicini in modo da garantire lo status quo e quindi le conquiste territoriali effettuate, mentre gli Arabi insistevano sulla questione dei profughi rifiutandosi di firmare qualsiasi accordo. 
Riguardo ai profughi Israele accettava il rimpatrio solo di un numero limitato di essi tale da non sovvertire l’ordine interno. In effetti uno dei problemi principali che avrebbe da ora in avanti fino ai nostri giorni caratterizzato la questione palestinese e’ proprio il problema dei profughi palestinesi.  
Allontanati dalle proprie case in seguito alla avanzata territoriale di Israele durante la guerra, non avevano assolutamente la possibilita’ di provvedere alla propria sussistenza. Israele come detto non era disposto a farne rientrare piu’ di 100.000 sul proprio territorio a fronte di un numero complessivo che variava tra i 700.000 e il milione. L’unica soluzione praticabile sembrava essere il loro assorbimento negli altri Paesi Arabi, la qual cosa implicava pero’ uno sviluppo economico di tali Paesi tale da poter sopportare il loro assorbimento, prospettiva, in quel periodo, di difficile attuazione . Per far fronte ad una situazione oggettivamente drammatica nacque l’United Nations Relief and Work Agency for Palestine Refugees che non ebbe pero’ altro compito oltre a quello di distribuire razioni alimentari, evidentemente poca cosa.  
Israele divenne,ovviamente, in questi anni il centro dell’immigrazione ebraica, tra il 48 e il 50 giunsero ben 510.000 immigranti provenienti soprattutto dall’Europa e dal mondo arabo, addirittura la comunita’ ebraica dello Yemen 44.600 persone si trasferi’ completamente .Il GovernoIsraeliano incentivava l’arrivo di immigranti ebraici e per i tre anni seguenti al 1950 contava di farne arrivare almeno altri 600.000. 


Lo sviluppo storico della questione Palestinese. 
Parte terza: 1951-1970
  
di Antonio Ambrosio

Ripercorrendo gli sviluppi storici della questione palestinese siamo giunti con questo terzo articolo agli inizi degli anni ’50. A questo punto, volendo continuare il nostro excursus storico, non possiamo fare a meno di allargare l’obiettivo d’osservazione e considerare l’intero scenario medio orientale.

In quest’ottica bisogna tenere presente che, soprattutto dopo il 1953, il Medio Oriente è senza dubbio una delle zone più importanti dello scacchiere diplomatico mondiale. Siamo, infatti, in piena guerra fredda, ma, mentre in Europa la linea di divisione tra i due blocchi è ormai definita, i Paesi Arabi sono invece “terra di conquista” per le due grandi super potenze, in questa zona, infatti, non sono state ancora definite le zone di appartenenza ed evidentemente la concorrenza tra i due colossi mondiali USA e URSS è notevole, sia per le enormi riserve petrolifere, sia per la grande importanza strategica dell’intera area.

Questo dunque il contesto nel quale si sviluppa in questo periodo la questione palestinese, legata oramai a filo doppio sia alle vicende dei vicini Paesi Arabi, sia agli interessi di USA e URSS che, di fatto, le determinano. In generale, si può dire che gli USA agiranno sul territorio portando avanti una politica di imponenti aiuti economici ed aiuti militari indiretti, l’URSS invece appoggiando apertamente la lotta del mondo arabo contro Israele.

In questi anni un evento di fondamentale importanza per gli equilibri dell’intero settore, fu l’ascesa al potere del colonnello Nasser, in Egitto. Agli inizi degli anni 50 in questo Paese la situazione era ancora molto fluida, non si sapeva cioè se l’Egitto si sarebbe schierato a favore dell’occidente, oppure se avrebbe scelto la via nazionalista.

Il 23 luglio 1952 si ebbe un clamoroso colpo di scena: il generale Neghib, Capo di Stato Maggiore dell’esercito, costrinse, il Re Faruk ad accettare un governo nazionalista, pochi giorni dopo lo stesso Re, completamente screditato, fu costretto a lasciare il Paese.

La politica di Neghib non sembrava però completamente antioccidentale, infatti, dopo aver proclamato la Repubblica egiziana, nel giugno del 1953, pochi mesi dopo, nel settembre dello stesso anno, concluse un accordo di massima con l’Inghilterra, per l’evacuazione definitiva del canale di Suez. Sempre nello stesso anno, nel mese di febbraio, era stato concluso un altro importante accordo con l’Inghilterra, con il quale si stabiliva che l’eventuale annessione del Sudan da parte dell’Egitto sarebbe stata decisa da un’assemblea costituente sudanese, Neghib accettava così la posizione inglese, che si era sempre opposta ad un’annessione unilaterale da parte egiziana.

Neanche i rapporti con gli USA sembravano critici, anzi, tutto faceva supporre alla possibilità di un appoggio diretto degli Stati Uniti alla dittatura militare egiziana, sulla falsa riga di quello che stava già accadendo in Iran.

Nel febbraio del 1954 però il generale Neghib fu a sua volta spodestato da un altro colpo di Stato e sostituito da un altro militare: il colonnello Nasser, la cui politica si rivelò ben presto non solo decisamente antioccidentale ma anche completamente destabilizzante per gli equilibri dell’intera area medio orientale.

Il progetto dichiarato di Nasser era, infatti, quello di unire tutto il mondo arabo sotto la sua guida. In quest’ottica uno degli obiettivi dichiarati e continuamente ribaditi da Nasser era, ovviamente, la distruzione completa dello Stato d’Israele.

Per questo furono costituite anche delle truppe speciali di commandos egiziani: i Fedayn che partendo da Gaza attuavano, a scopo più che altro propagandistico, continue incursioni sul territorio Israeliano.

Israele non era certo l’unico argomento agitato dalla propaganda di Nasser.

Il canale di Suez era un’altra freccia al suo arco. Proprio riguardo al canale, infatti, ottenne un’importante affermazione arrivando a sottoscrivere un vantaggioso accordo con la Gran Bretagna (19 ottobre del 1954) secondo il quale si assicurava non solo l’evacuazione definitiva delle truppe inglesi, ma otteneva anche il riconoscimento della completa sovranità egiziana sul canale.

Un altro argomento di Nasser era poi il terzaforzismo, inteso in chiave chiaramente anti-occidentale, tant’è che nel settembre del 1955 annunciò di aver accettato un’importante fornitura d’armi dalla URSS, cosa che naturalmente preoccupò non poco Stati Uniti e GBR. Nasser, si affiancava quindi a Tito e Nehru, contribuendo a formare così, nello scenario diplomatico mondiale, un blocco di potenze formalmente non allineate ma decisamente vicine all’influenza sovietica.

Nazionalismo, isolazionismo anti-occidentale, panarabismo politico e religioso, ostilità dichiarata verso Israele, vicinanza sempre più stretta al blocco Sovietico, facevano della politica di Nasser una miscela esplosiva.

Nel frattempo, quello che gli Stati Uniti avevano sperato di ottenere in Egitto con Neghib, vale a dire una dittatura filo occidentale, era stato invece ottenuto in Iran.

Anche qui come in Egitto, si ebbe un colpo di Stato, il 19 agosto 1953, in questo caso contro il Primo ministro, il filo comunista Mossadegh, nazionalista mistico, che continuava a rifiutare di trattare con l’anglo-Iranian Company, ribadendo con fermezza la completa nazionalizzazione delle risorse petrolifere.

Il risultato del golpe militare fu il ritorno sul trono dello Scià, legato chiaramente agli Stati Uniti, i quali molto probabilmente ebbero anche un ruolo decisivo nella preparazione del golpe. Una conseguenza importante di questo cambio in senso filo occidentale dell’Iran, fu la sua adesione al famoso, quanto importante, patto di Bagdad. Quale era il senso politico di questo Patto?

L’iniziativa di questo patto fu presa dall’Iraq, in particolare dal ministro degli esteri, il quale convinse il suo sovrano Faisal che la sicurezza del proprio Paese, contro le minacce sovietiche, era legata indissolubilmente ai rapporti con Iran e Turchia, con i quali Iraq non poteva non collaborare specie in materia di difesa militare. L’Iraq, decidendo quindi ad avvicinarsi a questi due Paesi, decisamente schierati al fianco di GBR e USA, abbandonava chiaramente la linea neutralista, propagandata in quel periodo dall’Egitto di Nasser.

In un primo momento, il 24 febbraio 1955 a Bagdad fu firmato un trattato tra l’Iraq e la Turchia, con il quale i due Paesi si impegnavano reciprocamente a collaborare per la propria sicurezza, a questo patto aderì anche la GBR il 5 aprile del ’55, cosa che collegò direttamente il patto di Bagdad al patto Atlantico, nel settembre del ’55 aderì anche il Pakistan e il 3 novembre, come detto, lo fece anche l’Iran.

Si era così creata quella che il Duruselle definisce l’ala destra della NATO.

La creazione di tale patto fu chiaramente un duro colpo per l’Egitto, in effetti, uno degli scopi di tale operazione era proprio quella di isolare Nasser, il quale da parte sua aveva firmato nell’ottobre del ’55 due patti difensivi con Siria ed Arabia Saudita ai quali si aggiunse nell’aprile del 1956 quello con lo Yemen.

Si andavano così formando anche in Medio Oriente due blocchi contrapposti:

uno che faceva capo all’Egitto terzoforzista, vicino all’influenza sovietica, l’altro, materializzatosi nel patto di Bagdad, dichiaratamente filo occidentale.

In questo contesto molto delicato, divenne estremamente difficile la situazione della Giordania.Questo Paese, aveva mantenuto per diversi anni un atteggiamento favorevole all’occidente, in virtù anche del fatto che il suo Sovrano apparteneva alla famiglia Hascemita, la stessa del Sovrano irakeno che, come detto, era legato al patto di Bagdad, al quale, anche la Giordania decise di aderire, nel dicembre del ’55.In Giordania era però molto forte anche l’influenza egiziana, soprattutto sui molti profughi palestinesi che vivevano nel Paese, per questo la decisione di aderire al patto scatenò la rivolta della popolazione palestinese, e le dimissioni di ben quattro ministri. Dopo una serie di scioperi e manifestazioni, il nuovo primo ministro, un palestinese, eletto nell’ottobre del ’56 ritirò definitivamente l’adesione al patto di Bagdad. Per di più, nello stesso mese, capovolgendo le linee di politica estera fino ad ora adottate, la Giordania firmò un accordo con Siria ed Egitto con il quale si prevedeva la creazione di un comando militare comune.La Giordania entrava così nell’area Nasseriana su posizioni chiaramente anti occidentali.Poco dopo però ci fu un altro clamoroso colpo di scena, infatti, nel marzo aprile del ’57 il giovane Re Hussein riuscì ad eliminare i partigiani di Nasser e a riportare il Paese nell’orbita occidentale, anche se, ufficialmente la Giordania non aderì al patto di Bagdad.

In questo scenario particolarmente articolato, caratterizzato da un’enorme instabilità politica, si abbatte la decisione statunitense di bloccare i finanziamenti all’Egitto per la costruzione della grande diga di Assuan.Il segretario di Stato americano ufficializzò la decisione nel luglio del ’56, questo avveniva in virtù del fatto che gli Usa consideravano ormai l’Egitto di Nasser un Paese ostile.

La risposta di Nasser non si fece attendere tant’è che il 26 luglio proclamò la nazionalizzazione della compagnia del canale di Suez.Questa decisione colpiva, non tanto gli Stati Uniti, ma soprattutto la Francia che deteneva numerose azioni della compagnia e la GBR che era la maggior utente del canale stesso. L’ipotesi che, da ora in avanti, il passaggio attraverso il canale fosse dipeso esclusivamente dalla volontà egiziana, non poteva essere accettato dalle due potenze europee, le quali cercarono subito di far fallire la nazionalizzazione.

Gli USA, da parte loro, si mantennero indifferenti alla questione, anche perché non erano toccati direttamente nei loro interessi dalla decisione di Nasser e poi perché volevano in ogni modo evitare di intervenire direttamente in Medio Oriente per non avere nessun tipo di problema con i Paesi produttori di petrolio.

L’URSS invece appoggiò a fondo la politica di nazionalizzazione, questo non perché avesse interessi propri legati al canale da tutelare, ma perché sperava comunque di sfruttare la situazione per creare problemi al campo occidentale. GBR e Francia sembrarono sin dall’inizio decise ad intervenire militarmente, ma furono fermate perentoriamente dagli Stati Uniti. Nel agosto del ’56 per risolvere la questione fu indetta una conferenza internazionale, alla quale però l’Egitto rifiutò di partecipare, si decise allora al termine di tale conferenza di creare un comitato di cinque membri con il compito di negoziare con Nasser, per cercare di farlo tornare sulla sua decisione. I negoziati fallirono completamente, gli Stati Uniti proposero allora una soluzione per certi versi spettacolare: Foster Dulles propose infatti la creazione di una “Associazione degli utenti” che avrebbe utilizzato propri piloti e percepito i diritti di transito. In effetti, tale proposta non fu appoggiata con molta decisione in primo luogo dagli stessi Stati Uniti tanto che di fronte all’intransigenza di Nasser il progetto perse ogni significato. Francia e GBR decisero allora di rivolgersi alle Nazioni Unite, chiedendo ufficialmente il rispetto della convenzione del 1888 che regolava il traffico del canale e che era stata violata unilateralmente da Nasser.

Il Consiglio delle Nazioni Unite decise nell’ottobre del ’56 di adottare sei principi che avrebbero dovuto regolare la questione, tra questi vi erano il riconoscimento della sovranità egiziana e la fissazione dei diritti di pedaggio, Nasser sembrava molto propenso ad accettarli.

La situazione era però sul punto di precipitare, infatti, a quella data: ottobre del ’56 in Giordania come abbiamo visto le elezioni erano state vinte dai palestinesi, il Paese era entrato così nell’orbita di Nasser, sposando decisamente la causa antiisraeliana, contemporaneamente continuavano le incursioni in Israele da parte dei fedayn che spesso partivano proprio da territori giordani, in più l’arrivo di armi sovietiche in Egitto rendeva Israele ancora più preoccupato, senza contare che Nasser manteneva chiuso il canale alle navi israeliane. Israele si sentiva dunque minacciato e così sicuro della sua superiorità militare decise di attaccare l’Egitto invadendo il Sinai.

L’attacco si compì nella notte tra il 29 e il 30 d’ottobre del 1956. Iniziava così il secondo conflitto Arabo Israeliano. Sullo sfondo di questo conflitto, in particolare dell’iniziativa israeliana, restano la Francia e l’Inghilterra che il 30 di ottobre inviarono un ultimatum alle due nazioni belligeranti: queste dovevano immediatamente cessare le ostilità e ritirare le loro truppe a 16 km dal canale. Era evidentemente un pretesto per intromettersi nella questione e poterla volgere a proprio vantaggio,difatti gli anglo francesi per assicurare la libertà di navigazione del canale, che era poi il loro obiettivo principale, occuparono subito con propri reparti Suez, Ismaila, e Porto Said. Chiaramente Israele accettò l’ultimatum, al contrario dell’Egitto sul cui territorio si trovavano al momento truppe Israeliane Francesi e Britanniche. Francia e Inghilterra avevano probabilmente preventivato il rifiuto di Nasser all’ultimatum e pensavano di poter sfruttare tale rifiuto come pretesto per un ulteriore intervento militare contro l’Egitto, contando tra l’altro sull’astensione d’URSS e USA, si sbagliavano.

Per gli Stati Uniti, in particolare per il Presidente Eisenhower l’intervento franco-britannico era un fatto gravissimo, rappresentava non solo la rottura del fronte atlantico, era anche un colpo mortale inferto alle Nazioni Unite e Washington non era assolutamente disposta a tollerarlo. Anche per tutti gli altri Paesi dell’Europa occidentale tale iniziativa era a dir poco inopportuna, soprattutto perché era attuata nel pieno della crisi d’Ungheria, provocando chiaramente un indebolimento delle posizioni occidentali nei confronti dell’Unione Sovietica. Per non parlare poi dell’enorme impopolarità che tale gesto riscuoteva nei Paesi del terzo mondo, che vi vedevano una brutale manifestazione del peggiore colonialismo.

Insomma in termini poco diplomatici si può oggi dire a distanza d’anni che Francia e Inghilterra in quell’occasione l’avevano fatta grossa.

Pagarono il loro sbaglio trovandosi di fronte non solo al gelo Statunitense ma anche rimanendo completamente isolate alle Nazioni Unite, dove il 2 novembre 1956 fu approvata, con ben 64 voti contro 5, una risoluzione statunitense che prevedeva il cessate il fuoco immediato. In questa occasione Stati Uniti e Unione Sovietica si erano trovate d’accordo, il che spiega la particolare efficienza mostrata in questa occasione dalle Nazioni Unite.

Ma la risoluzione dell’ONU per quanto perentoria fosse stata, molto probabilmente non avrebbe comunque fermato Francesi, Inglesi ed Israeliani, a fermarli fu invece un intervento inatteso, soprattutto nei modi e nei tempi.

Il 5 novembre, infatti, alle ore 23.30 L’URSS inviò un ultimatum a Francia Gran Bretagna ed Israele, in questa occasione il maresciallo Bulganin fece chiaramente riferimento alla possibilità di utilizzare armi moderne ed aggressive e denunciando l’aggressione di Israele ne metteva in discussione l’esistenza stessa.

Tale azione creò un profondo smarrimento soprattutto negli Stati Uniti, i quali decisero di intervenire immediatamente costringendo la GBR a ritirarsi, cosa che a sua volta costrinse la Francia a fare lo stesso. Il 7 novembre l’Assemblea delle Nazioni Unite votò una risoluzione con cui si decideva la sostituzione delle truppe Franco Britanniche con un contingente internazionale, che avrebbe avuto il compito di controllare le frontiere, che tornavano ad essere quelle stabilite alla fine del primo conflitto arabo-israeliano.

L’intervento delle due potenze europee si concludeva con una completa disfatta, da questo momento in poi fu, infatti, evidente che oramai niente si sarebbe potuto fare contro o senza la volontà delle due super potenze mondiali. Le potenze europee erano quindi definitivamente ridotte a potenze di seconda fascia. Inoltre, l’intervento che era stato pensato per ottenere l’internazionalizzazione del canale di Suez e quindi la sua certa viabilità, si concludeva invece con il risultato opposto la sua completa occlusione.

Nasser, infatti, durante il breve conflitto aveva fatto affondare diverse navi nel canale stesso, che ora era completamente ostruito, il che dava ora al capo egiziano un’arma in più, poteva, infatti, ritardare le operazioni di sgombro a suo piacimento, cosciente degli enormi problemi che causava così ai Paesi dell’Europa occidentale.

Nasser ricavò da tutto questo un prestigio enorme: si legittimava agli occhi del mondo arabo come il grande condottiero capace di opporsi ai nemici occidentali e soprattutto ad Israele, di cui metteva decisamente in discussione la stessa esistenza. Seppe sfruttare al massimo questa situazione, ottenendo una serie di importanti successi diplomatici, in primo luogo l’evacuazione degli anglo francesi dall’Egitto, poi un importante riavvicinamento con la Giordania, che in questo periodo denunciò la sua alleanza con Londra e rinunciò agli aiuti economici inglesi, ma soprattutto ottenne l’evacuazione del Sinai da parte degli Israeliani, che dovettero poi abbandonare anche la striscia di Gaza, in più mantenne la completa nazionalizzazione del canale.

Rimaneva irrisolto il grave problema dei profughi arabi che vivevano distribuiti tra Egitto e Giordania, in condizioni miserevoli in campi d’accoglienza assolutamente insufficienti alle loro necessità. I trionfi di Nasser ne avevano chiaramente risvegliato il desiderio di tornare in Palestina, da dove erano stati scacciati durante il primo conflitto contro Israele e questo contribuiva ad eccitare pericolosamente gli animi già particolarmente infiammati dai successi del capo egiziano, tra gli arabi, specie tra le frange estremiste, si respirava un’aria di attesa si era sicuri di essere vicini alla resa dei conti. Non era evidentemente una situazione stabile e continuò a non esserlo per diversi anni.

Le frontiere erano insicure, spesso vi si verificavano violenti scontri armati, la vita della popolazione civile era soggetta al rischio continuo di attentati terroristici e il canale continuava ad essere chiuso alle navi Israeliane.

Israele poteva però comunicare con il mar Rosso attraverso il porto di Elliat, situato infondo al golfo di Akaba, questo grazie all’intervento dei caschi blu dell’ONU che assicuravano il passaggio delle navi israeliane nel golfo stesso, pur essendo questo controllato dall’Egitto. Nel maggio del 1967 Nasser chiese al segretario generale delle Nazioni Unite il ritiro dei caschi blu dal golfo, questa richiesta era evidentemente una pericolosa minaccia per l’economia di Israele. Il segretario delle Nazioni Unite era allora U Thant, il quale chiaramente accettò la richiesta dell’Egitto.(non è difficile ipotizzare visti i protagonisti dell’iniziativa che dietro questa manovra ci fosse una regia o almeno una consulenza sovietica.) Il 22 di Maggio 1967, Nasser annunciò che, da allora in poi, sarebbe stato vietato il passaggio attraverso il golfo di Akaba, non solo alle navi israeliane, ma anche a tutte quelle di altra nazionalità che trasportavano ad Israele prodotti strategici, petrolio compreso.

La situazione precipito in breve tempo, nacque un comando arabo militare unificato a cui decise di partecipare anche la Giordania, Israele da parte sua, come era già accaduto in passato si sentiva minacciato e come in passato( nel 1956) rispose attaccando sicuro della sua superiorità militare. Non si sbagliava.

Il 5 giugno ’67 l’esercitò israeliano attaccò le truppe arabe e in pochi giorni le sbaragliò completamente, già il 6 i comandi israeliani poterono annunciare la conquista di Gaza il 7 si impadronirono di Sciarm el Sceikh controllando così l’intero golfo di Akaba, riuscirono poi ad impadronirsi di tutta la penisola del Sinai conquistando così l’intera striscia orientale del canale di Suez.

L’esercito Israeliano occupò anche la parte vecchia di Gerusalemme che dal 48′ apparteneva alla Giordania e tutta la riva occidentale del Giordano in sei giorni la vittoria fu totale. Questa guerra non portò ad un risultato stabile, era evidente che le conquiste territoriali di Israele non potevano essere tutte mantenute, d’altra parte l’obbiettivo principale di Israele non era tanto quello di estendersi territorialmente ma quello di essere definitivamente riconosciuto come Stato e di non essere quindi, più minacciato di sparizione. Nello stesso tempo però una volta conquistata, Israele non aveva nessuna intenzione di rinunciare alla parte vecchia di Gerusalemme. Gli Arabi da parte loro ritenevano ingiustificata l’aggressione di Israele e anche se alcuni di loro erano d’accordo a riconoscerlo definitivamente come Stato, chiedevano però il ritorno alle frontiere del ’48 e soprattutto l’evacuazione di Gerusalemme.

I Palestinesi, da parte loro cominciarono a reclutare truppe partigiane e lanciare una serie di violenti attentati terroristici, i gruppi principali della resistenza palestinese erano il Fronte popolare per la liberazione della Palestina ed El Fatah quest’ultimo guidato da Yasser Arafat il quale comincia in questo periodo a sostituire Nasser come leader del mondo arabo. Per Nasser, in effetti, la guerra dei sei giorni fu un colpo durissimo e sebbene riuscì a mantenere il potere la sua posizione era ora molto più debole. Comunque sia della questione furono investite le Nazioni Unite, infatti, l’URSS chiese il 12 giugno di convocare un’Assemblea generale straordinaria, reclamando l’evacuazione di tutti i territori occupati dagli Israeliani, in questa circostanza si verificò la rottura tra Israele e la Francia. De Gaulle, infatti, accettò la convocazione e accusò Israele di aver commesso un’aggressione, il generale sconfessava così la tradizione filoisraeliana della Francia arrivando a definire Israele come un popolo “orgoglioso e conquistatore”. Durante l’Assemblea si delinearono subito due posizioni contrapposte: quella sovietica che chiedeva il ritiro completo di Israele e il ristabilimento delle frontiere del ’49 e quella statunitense che invece riconosceva alcune annessioni intorno a questi due poli si cristallizzò la situazione essendo impossibile raggiungere una maggioranza di due terzi. Una sola risoluzione fu approvata riguardante Gerusalemme, nella quale si chiedeva ad Israele di revocare tutte le misure già adottate per modificare lo Statuto della città. Israele non ne tenne assolutamente conto. Dopo il conflitto dunque la situazione era notevolmente peggiorata : era aumentato il numero dei profughi, il problema di Gerusalemme si era complicato diventando praticamente insolubile e ancora oggi è uno dei nodi più complessi della questione palestinese, il canale di Suez rimaneva bloccato, gli Israeliani sulla riva orientale gli Egiziani su quella occidentale, con continui scontri a fuoco, da una parte sempre più commandos dall’altra sempre più fortificazioni. La proposta della Francia, di una mediazione internazionale a 4 (Francia USA URSS GBR) fallì davanti al netto rifiuto delle due parti, che non accettarono l’intromissione delle Grandi Potenze nei loro affari. La solidarietà araba si sviluppava in maniera sempre più aggressiva ed avvolgente tanto da coinvolgere anche il Libano che fu sostanzialmente costretto ad accettare sul suo territorio commandos palestinesi entrando così anche esso nel conflitto arabo-israeliano, che agli inizi degli anni ’70 vive una fase di crescente tensione. 


http://www.cronologia.it/storia/tabello/tabe1581.htm

ANNO 1998

di FERRUCCIO GATTUSO

Saddam Hussein, figlio del Medio Oriente. L’inizio dell’anno in corso è stato caratterizzato dal rischio di un nuovo conflitto nella regione mediorientale del Golfo Persico. Il regime di Saddam – questa l’accusa di Washington – stava preparando un arsenale di armamenti batteriologici proibiti dalle convenzioni internazionali. 

Nel 1991 furono gli Stati Uniti del repubblicano George Bush ad organizzare quella coalizione occidentale – supportata anche dalla poco entusiasta (e ormai agonizzante) Unione Sovietica di Gorbaciov, – che poi si scagliò contro Saddam Hussein, l’”uomo forte” che aveva voluto l’invasione del Kuwait, considerato “Provincia irachena”. 

Pochi mesi fa, invece, sarebbe toccato al presidente democratico Bill Clinton, dare il via libera ad un’operazione unilaterale statunitense, come al solito rivolta ad arginare la minaccia del “sopravvissuto” Saddam Hussein. Negli ultimi giorni della guerra del golfo fu proprio la decisione di fermare l’imponente macchina bellica americana alle porte di Baghdad, senza puntare alla cattura del dittatore iracheno, a minare sin dalle origini quel “Nuovo ordine Mondiale” che George Bush – ricorrendo ad un’espressione di tipica ispirazione reaganiana – prometteva di voler costruire.
(Se alle prossime elezioni presidenziali, vince il figlio (che è in gara), le ambizioni del padre saranno ereditate dal figlio).

In questi sette anni, Saddam Hussein – pur accettando le dure condizioni di pace incondizionata, tra cui la perdita di una considerevole parte di territorio iracheno, oltre ovviamente alla restituzione del Kuwait liberato – non è sicuramente scomparso dalle scene. L’ombra dell’”uomo forte” di Baghdad si è sempre distesa sugli interessi e i destini del Medio Oriente, condizionando strategie e processi politici nei paesi della zona. Israele soprattutto, ma anche Siria, Iran, Turchia, Giordania, Egitto e Kuwait hanno osservato le contorsioni e gli equilibrismi del dittatore iracheno, abile a riconquistare un ruolo determinante (e in certi casi “utile” anche agli ex-nemici arabi e occidentali) nell’area mediorientale. 

Saddam Hussein è ancora, quindi, perfettamente in sella ad un paese che ha portato allo stremo nel 1991 (imponendogli una guerra persa in partenza) e che vive in condizioni di povertà anche a causa dell’embargo occidentale. Un embargo che trova, attualmente, le sue ragioni in una mai definitivamente provata politica di riarmo iracheno. Politica che appartiene, da sempre, alla tradizione dell’Iraq. Ben prima dell’avvento di Saddam. Il primato in Islam. Paese di storia millenaria, agitato per tradizione da orgogliose spinte imperialiste, l’Iraq ha sempre condiviso con le altre grandi nazioni mediorientali il primato della guida islamica. Sarebbe improprio anche parlare di nazioni, in un’area dove le ripartizioni statali sono state create più arbitrariamente che altrove.

La storia del Medio Oriente
 è stata sempre caratterizzata, infatti, da lotte tra sette religiose e popolazioni di ceppo differente, che ora vivono divise sotto diverse bandiere.
L’Iraq, che ricopre buona parte del territorio che fu la Mesopotamia, può essere considerato la culla della civiltà antica. Sede degli Imperi babilonese e assiro fino al VI-IV sec. a.C., quando divenne una provincia persiana, la Mesopotamia fu il crocevia di popoli e, di conseguenza, infiniti influssi culturali. Greci, Parti, Sassanidi, Romani si alternarono il dominio della zona, che fu pervasa anche da diverse correnti cristiane. Nel VII sec. d.C. giunsero infine gli Arabi. Popolazioni nomadi si stanziarono nella fertilissima terra compresa tra il Tigri e l’Eufrate e diedero ad essa il nome di Iraq.

Baghdad divenne il cuore di un universo culturale e commerciale importantissimo tra i secoli IX e X, che durò fino alle cruenti invasioni successive dei Curdi e dei Tartari e, soprattutto, dei potentissimi Turchi. Sotto il governo ottomano – il più evoluto del Medio Oriente – l’Iraq visse un periodo di decadenza. Questa condizione durò fino alla metà dell’800, quando cominciarono parziali riforme del monolitico stato ottomano. La Germania bismarckiana, attraverso i buoni offici del governo ottomano, costruì in Iraq ferrovie ed industrie.

Durante la Prima Guerra Mondiale gli Inglesi in lotta con l’Impero tedesco invasero una parte del territorio iracheno e nel 1917 entrarono in Baghdad. Con la fine della guerra l’Iraq era completamente in mano della corona britannica. 

Dal 1920 la Società delle Nazioni affida all’Inghilterra il “mandato” sull’Iraq e l’anno seguente sale al trono di Baghdad Re Faisal, una figura che si rivelerà determinante nella storia dell’Iraq. Faisal, abile equilibrista politico, riuscì a bilanciare i rapporti con Londra e allo stesso tempo controllare il nazionalismo xenofobo del proprio popolo.

Sotto Faisal l’Iraq
 compì notevoli progressi, divenendo forse il più progredito paese arabo. Nel 1932 l’Iraq ottiene l’indipendenza politica, anche se pesantemente condizionata dai rapporti con l’Inghilterra. Due anni dopo Faisal muore e con lui la speranza di mantenere buoni i rapporti tra gli inglesi e i nazionalisti. 

Nel 1936 un golpe porta al potere Hikmat Suliman, filo-turco. Durante la Seconda Guerra Mondiale i nazionalisti si impadroniscono del potere con Rashid Alì Kailani, che viene subito rovesciato dagli inglesi. 
Nel 1945 l’Iraq aderisce alla Lega Araba. 
Nel 1949 l’Iraq intervenne contro la nascita di Israele e, in seguito al conflitto, fu colpito da diverse crisi interne. Negli anni cinquanta l’Iraq venne considerato dagli occidentali, e da Washington soprattutto, una preziosa pedina in chiave anti-sovietica. Col tempo però, come vedremo, l’Iraq saprà giocare un ruolo a metà strada tra Russi e Americani, puntando ovviamente ad ottenere i massimi vantaggi per divenire il fulcro dei Paesi mediorientali.

 La Siria fu invece la culla della prima popolazione semitica nel Mediterraneo, anche se fu ben presto invasa e attraversata da innumerevoli popolazioni (II millennio a.C.): Ittiti, Cananei, Ebrei, Filistei, Ammoniti, Fenici. Anche a causa di questi sconvolgimenti storici e razziali, la Siria non fu mai una vera e propria nazione, bensì una provincia sotto i persiani e i seleucidi.

Nel XVI sec. a.C. il territorio
 siriano venne dominato dagli egiziani fino al tempo di Ramsete V. Successivamente, Assiri e ed Ebrei (Davide e Salomone) estesero su di esso il proprio dominio. Dopo diversi domini, nel 333 a.C. la Siria fu conquistata da Alessandro Magno e fino alla sua morte (323 a.C.) rimase unita. Sotto i Seleucidi (che prendevano il nome da uno dei luogotenenti di Alessandro, Seleuco) la Siria fu prospera, almeno fino a quando Romani, Maccabei e la sollevazione della giudea no la inginocchiarono. Nel 64 a.C. la Siria fu conquistata da Pompeo e divenne provincia romana in modo definitivo. Con il II secolo d.C. cominciò l’infiltrazione araba. Nel 635 cadde Damasco e nel 638 fu la volta di Gerusalemme.

Dopo novecento anni di lotte dinastiche arabe e invasioni europee (Crociate), nel 1517 cominciò il dominio ottomano, che durò per quattro secoli. Nel 1832 Mehmet Alì, pascià d’Egitto, fece invadere la Siria, ma ne perdette il dominio nemmeno dieci anni dopo. Il XIX secolo fu caratterizzato da continue interferenze occidentali e lotte per il dominio dell’area. Agli inizi del Novecento la Francia si aggiudicò l’influenza sulla Siria a discapito degli inglesi. 
Nel 1920 i francesi dividono la Siria in 4 stati: Gran Libano, Damasco, Aleppo e Stato degli Alaniti. Continue manifestazioni e lotte intestine antifrancesi – che culminarono nella rivolta del 1925 guidata da Sultan al-Atrash, solo due anni dopo – portarono all’elezione di un’assemblea costituente. I nazionalisti ottengono una promessa di indipendenza a partire dal 1940. Il mancato mantenimento di essa da parte dei francesi causò lotte che portarono finalmente nel 1945 e nel 1946 all’indipendenza siriana. Anche la Siria entrò a far parte della Lega Araba, e sin da subito i progetti di una Grande Siria e di opposizione allo Stato di Israele, ne caratterizzarono l’atteggiamento bellicoso.

La Turchia è sicuramente
 il paese arabo che, paradossalmente, costituì la minaccia più seria per l’Occidente, ai tempi dell’Impero Ottomano alle porte di quello asburgico, per divenire poi – in epoca contemporanea – un sicuro alleato dell’Occidente e degli Stati Uniti in chiave antisovietica e, inoltre, araba moderata. Dopo la conquista turca di Costantinopoli (1453), la Turchia simboleggiò la minaccia ottomana. Minaccia alla cristianità, soprattutto. Con l’Impero ottomano, i turchi assumono agli occhi del mondo musulmano le vesti di erede dell’Impero Romano d’Oriente. Quest’aurea di grandezza porta al mito del Califfato, cioè della guida politica e spirituale degli arabi. Fino al 1258 il califfato ebbe sede in Baghdad sotto gli Abbasidi, passato in Egitto sotto i Mammeluchi non aveva più il prestigio di un tempo. 

Nel 1517 gli Ottomani, conquistando l’Egitto, il sovrano ottomano assorbiva il prestigio califfale. L’Impero ottomano può essere diviso in tre periodi principali: espansionistico (fino alla morte di Solimano il Magnifico, 1566), di equilibrio (fino al secondo fallimento di conquista di Vienna, 1683), di decadenza (fino alla nascita della Repubblica Turca nel 1923). L’avanzata turca in Europa costituì senza dubbio una minaccia mortale per la civiltà cristiana. Nel XVI secolo tale avanzata sembrò inarrestabile: nel 1521 cadeva Belgrado, nel 1522 Rodi, nel 1529 Buda.

In oriente l’Impero Ottomano
 comprendeva Baghdad e Tunisi nel 1534, lo Yemen nel 1547, Tripoli nel 1551. Nel XVII secolo, invece, l’Occidente impone la progressiva ritirata. Nel 1686 l’Ungheria veniva liberata da Austriaci, Polacchi e Veneziani alleati; nel 1699 l’Austria si impadroniva della Transilvania, Venezia della Dalmazia, la Polonia della Podolia e la Russia il mar d’Azov. Nel secolo successivo la Russia diventa l’erede del ruolo di difensore delle barriere cristiane dalla minaccia islamica.
Nel secolo XIX  le continue guerre tra Russia e Turchia vengono sfruttate in Occidente in chiave anti-russa. Addirittura nel 1853, nella guerra di Crimea, le potenze occidentali si schiereranno con la Turchia. Da questo momento la Turchia si avvicina all’occidente ed entra nel consesso europeo. Agli inizi del XX secolo la Turchia è in piena decadenza, dopo aver perso la Libia nel 1911 e il Dodecanneso l’anno dopo; con le guerre balcaniche la Turchia perde la Macedonia e l’Albania. Alleata degli Imperi centrali nella Prima Guerra Mondiale, viene sconfitta.

Nel 1923, come detto, nasce la Repubblica Turca e nel 1924 veniva abolito il califfato. Contemporaneamente, una nuova Costituzione apportava la laicizzazione dello stato e l’Islam non veniva nemmeno riconosciuta religione di stato. Durante la Seconda Guerra Mondiale una formale neutralità divenne, con l’avvicinarsi della vittoria alleata, una alleanza nella coalizione antitedesca. Nel 1952 la Turchia entrava nell’Alleanza Atlantica. La Russia perdeva così ogni possibilità di assicurarsi, prima o poi, il dominio degli Stretti dei Dardanelli, unica via al Mediterraneo. Un obbiettivo, questo, storicamente appetito dalla Russia. Attraversi gli accenni storici a questi tre stati si può comprendere come l’area mediorientale sia sempre stata focolaio di scontri militari, politici e religiosi.

Con la nascita dello Stato
 di Israele la propensione di questa parte del mondo ad essere una polveriera ed un crocevia di odi e guerre raggiunge la sua apoteosi. Qualche anno fa, con la stretta di mano tra Rabin e Arafat, i primi spiragli di luce in una dominata dalla tragedia. Il successivo assassinio di Rabin e le recenti incomprensioni tra il governo Nethaniau e quello palestinese sembrano minacciare un ritorno al circolo vizioso della violenza e alle politiche di reciproca incomprensione. Quelle politiche che costituirono la base della corsa nucleare nella regione, vent’anni fa. Fu attorno a questo sogno di grandezza che si spesero molte delle speranze dei paesi del Medio Oriente. Realizzare un deterrente nucleare, per i maggiori stati islamici della regione, significava non solo compiere un passo fondamentale nell’eterna lotta contro “la minaccia sionista” costituita da Israele, ma anche raggiungere il primato all’interno dell’universo islamico. Se un tempo la posizione di prestigio veniva ottenuta con la presenza nei propri confini del Califfato – autorità politico-religiosa indiscussa e guida spirituale per tutti gli islamici – nell’era moderna era la potenza militare ed economica ad assicurare il primato islamico.

Cinque nazioni del Medio Oriente
, o ad esso confinanti, cercarono di crearsi una potenza nucleare: India, Israele, Iraq, Pakistan e Libia. Solo due di esse sono democrazie (India e Israele) e non è un caso che non siano paesi islamici. La corsa sotterranea al nucleare si sviluppò dalla fine della guerra fino agli anni settanta, ma solo con l’esplosione in territorio indiano del maggio 1974 il mondo prese realmente coscienza della realtà: anche il Terzo Mondo poteva dotarsi della bomba. L’oligopolio nucleare condiviso tra le cinque nazione membri del Consiglio di Sicurezza ONU – Stati Uniti, Unione Sovietica, Cina, Francia, Gran Bretagna – veniva a cadere.

 Il maggiore problema nel tentativo di arginare la proliferazione degli armamenti nucleari consistette, naturalmente negli impressionanti interessi economici collegati al mercato tecnologico. Fino a che punto l’oligarchia nucleare poteva commerciare in materiale e tecnologie nucleari per scopi pacifici, e allo stesso punto essere sicura che essi non servissero alla realizzazione della bomba? E in fondo – si chiedevano alcuni influenti politici e scienziati governativi – doveva questo costituire un problema reale?

Il consesso internazionale pensò di risolvere la questione con l’AIEA. Proposta dal presidente americano Ike Eisenhower, l’AIEA vide la luce nel 1957, sotto l’egida delle Nazioni Unite. Suo compito era quello di fornire assistenza tecnica per lo sviluppo dell’energia nucleare, controllando allo stesso tempo che tale sviluppo non portasse alla realizzazione di un arsenale nucleare.
Obiettivo principale, quello di rilevare qualsiasi trasferimento di quantitativi considerevoli di sostanze utili a produrre una bomba nucleare. Negli anni ottanta l’AIEA sorvegliava oltre 700 reattori e impianti nucleari in più di 50 paesi. Un’arma di pressione diplomatica in mano all’AIEA è la firma del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari (NPT) che le nazioni devono firmare quando cercano di acquistare sostanze come uranio e plutonio. Ovviamente, l’attività di questa associazione internazionale è difficilissima. L’intromissione nelle politiche economiche dei paesi e quindi nel concetto di sovranità nazionale rese tutt’altro che facile le ispezioni, soprattutto nei paesi non democratici. Il pieno rispetto del NPT, poi, diventa quasi simbolico. In effetti si tratta di un semplice compromesso: in cambio di una promessa di non realizzare armi nucleari, i paesi interessati possono accedere a qualsiasi tipo di tecnologia nucleare per uso civile. Se si pensa che tra i firmatari ci sono paesi come Iraq e Libia, si può ben comprendere come il NPT abbia un valore meramente simbolico.

“Sappiamo che Israele
 e il Sudafrica hanno una completa capacità nucleare; la civiltà cristiana, ebraica e indù hanno tale capacità. Anche le potenze comuniste l’hanno. Solo alla civiltà islamica mancava.” Con queste parole il socialista Zulfikar Ali Bhutto, leader storico del Pakistan, annunciava che il proprio paese stava muovendosi in direzione del conseguimento di un arsenale nucleare. Ali Bhutto venne ad incarnare nella mente dei pakistani un simbolo di rinascita dopo il disastro del 1971, la guerra dall’esito disastroso contro l’India. Tutto cominciò nel marzo di quell’anno, quando l’esercito pachistano soffocò la rivolta dei separatisti bengalesi (Pakistan orientale, al confine con l’India) in un mare di sangue. I pachistani si accanirono sulla provincia bengalese con una crudeltà inaudita: incendiarono villaggi, violentarono donne, uccisero e mutilarono, eseguirono una selezione etnica e procedettero a fucilazioni di massa. Il motivo di queste criminali misure fu la vittoria alle elezioni (per la prima volta libere) del leader della Lega Awami Mujib-ur-Rahman.
Lo sceicco Rham, con il suo programma di decentramento politico-amministrativo del bengala costituiva un pericolo per il governo centrale. Otto milioni di bengalesi fuggirono in India. Seguì il purtroppo tradizionale triste copione di carestie e inondazioni. La vicina India fu costretta all’intervento alla fine del 1971. A metà dicembre l’esercito indiano aveva messo in ginocchio quello pachistano. Il Pakistan perse buona parte orientale del paese e più della metà della popolazione. Nacque il Bangladesh indipendente, paese alleato dell’India. Parte del Pakistan occidentale restava occupato dai soldati indiani e quasi centomila pachistani restavano prigionieri in India. Il Pakistan in ginocchio si affidava così all’”uomo forte” Ali Bhutto. Il quale si lanciò all’inseguimento della prima bomba islamica, da qui sarebbe venuta la rinascita del paese. Già nel gennaio del 1972 il premier pachistano organizzava una riunione segreta con i massimi cervelli della scienza pachistana.

Tra essi il futuro Nobel
 per la fisica Abdus Salam. Bhutto nell’occasione comunicò che voleva arrivare a possedere la bomba. Per arrivare ad ottenerla, Bhutto sfruttò anche il ruolo del proprio paese. Il Pakistan fu, sin dal 1947, un sicuro alleato dell’Occidente in chiave anticomunista. Quando il periodo più critico della guerra fredda terminò, a metà degli anni sessanta, grazie al Pakistan – che aveva ottimi rapporti con la Cina – gli alleati Stati Uniti poterono avvicinarsi (era l’era Nixon) a Pechino. Bhutto aveva bisogno di supporti e , soprattutto, soldi. E così attraversò il Medio Oriente alla ricerca di “amici”. Ne trovò uno fedelissimo in Africa, ed era il colonnello Muammar Gheddafi salito al potere con un colpo di stato in Libia nel 1969. Nel periodo 1972-74 l’incontro tra Bhutto e Gheddafi portò ad una salda alleanza islamica. Gheddafi, soprattutto, vedeva nella realizzazione di un deterrente nucleare islamico la grande carta per poter finalmente regolare i conti con il “sionismo”.
Denaro libico, conoscenza scientifica pachistana: da questa unione doveva nascere la bomba islamica, che sarebbe poi stata condivisa dai due paesi.

Sovvenzioni al Pakistan
 giunsero però anche dall’Arabia Saudita di Re Faisal, e dalla Persia dello Scià (500 milioni di dollari solo nel 1973). Anche l’Occidente non restò a guardare: il mercato nucleare era una ghiotta occasione economica. Il paese che con più disinvoltura intrattenne rapporti con il mondo islamico – soprattutto Pakistan e Iraq – fu la Francia. Dal Canada il Pakistan aveva già ottenuto un reattore CANDU all’uranio naturale. Grazie alla Francia e alla società privata SGN (legata comunque alla Commissione francese per l’energia atomica) Bhutto realizzò l’impianto di Chasma, ufficialmente per un processo di riutilizzazione a fini industriali.. Nel 1976 il Pakistan aderiva alle regole dell’AIEA e sottoponeva Chasma ai controlli internazionali. Il dado era comunque tratto.

Il primato islamico nella costruzione della bomba fu conteso al Pakistan dalll’Iraq. Il nuovo Iraq di Saddam Hussein era sicuramente lo stato più “laico” della regione. L’incontro tra Bhutto e Saddam non aveva portato nulla di buono: i due paesi avrebbero seguito vie diverse e, soprattutto, concorrenti. Il Pakistan puntava ad un alleanza islamica (e quindi a base religiosa), l’Iraq invece cercava – ovviamente sotto le proprie bandiere – l’unità degli arabi. Baghdad, secondo Saddam, sarebbe stato il centro dell’universo mediorientale.

Saddam Hussein , nonostante i proclami religiosi in occasione della Guerra del Golfo del 1991, ha improntato il proprio paese al culto della propria persona più che al fondamentalismo islamico. Il partito socialista da lui tenuto in pugno, il Ba’ath, è di chiara impronta laica. Oltre a ciò, il clan di Saddam Hussein appartiene alla setta islamica sunnita, che nel mondo islamico è la maggioranza, ma in Iraq sono in netta minoranza rispetto agli sciiti. Da questa concorrenza religiosa potranno venire, se verranno, minacce alla stabilità del potere di Saddam.
Dal 1968 vicino alle stanze del potere e dal luglio 1979 ufficialmente presidente della Repubblica, Saddam è definito dai suo sostenitori “il profumo dell’Iraq”, dai suoi avversari un Hitler arabo in sedicesimo.

Quel che è certo è che
, ottenuto da poco il potere assoluto, lanciò il proprio paese nella decennale e infruttuosa, nonché micidiale, guerra con l’Iran dell’Ayatollah Kohmeini. In occasione di questo conflitto l’Iraq dimostrò di poter ricorrere con facilità ad armi chimiche e batteriologiche. Le foto dei villaggi iraniani “gasati” hanno fatto il giro del mondo. Oltre alla guerra con l’Iran Saddam ha sperimentato il proprio arsenale più o meno convenzionale contro le minoranze curde. E lo ha sventolato come minaccia in faccia al nemico Israele. Il potenziale nucleare non poteva che essere, agli occhi del dittatore, una priorità assoluta. “La gloria degli arabi scaturisce dalla gloria dell’Iraq”, ammoniva Saddam, appena “eletto” alla presidenza.
Già dal 1968 l’Iraq intrattenne fruttosi rapporti nucleari con l’Unione Sovietica, che però seguiva un’attentissima politica di controllo e di non-proliferazione nei confronti dei propri “clienti”. Una politica più attenta rispetto alle più disinvolte potenze occidentali. L’Iraq ottenne quello che voleva soprattutto dalla Francia.

Nel 1974 il premier Jacques Chirac
 si recava a Baghdad e consolidava con Saddam Hussein un rapporto e un’”amicizia particolare”, come la definì l’attuale presidente della Repubblica francese. Oggi può sembrare scomodo affermarlo, ma Jacques Chirac fu senza dubbio il più zelante sostenitore delle ragioni irachene in campo nucleare (“Faremo di voi la nazione più progredita del Medio Oriente”). Nel novembre del 1975 veniva firmato a Baghdad un accordo di collaborazione nucleare franco-iracheno e il 12 agosto 1976 l’Iraq firmava un contratto di un miliardo di franchi con un consorzio di società nucleari francesi: Technicatome, Constructions Navales et Industrielles de la Méditerranée, Comsip, Société Bouygues, Saint Gobain Techniques Nouvelles (la già citata SGN). Ne nacquero i reattori Tammuz I e Tammuz II. Chirac per molti anni considerò il contratto con l’Iraq come una delle migliori mosse economiche del proprio governo. Non bisogna dimenticare che gli anni 1973-76 sono gli anni della crisi energetica in Europa e che lo scambio petrolio-tecnologia costituì uno sbocco naturale.

L’Iraq si avvicinò anche all’Italia. Nel 1975 il governo iracheno ebbe rapporti con il CNEN (Comitato nazionale per l’energia nucleare). Quest’ultimo contattò la SNIA che si occupava di impianti. Gli iracheni richiedevano fornitura e installazione di attrezzatura per quello che definirono un “laboratorio di radiochimica” (più di due milioni di dollari), in pratica l’installazione di celle radioattive. Nel 1976 fu firmato l’accordo. Nell’ambito dell’accordo l’Ansaldo avrebbe fornito macchinari, e attrezzature. Ne nacquero quattro laboratori “a freddo”.

“Il Budda sorride”. Fu questo il segnale telegrafico in codice emesso dopo il primo esperimento nucleare indiano, il 18 maggio 1974 alle ore 8,05 del mattino. L’esplosione avvenne nel deserto di Rajastahan, sotto gli occhi del premier Indira Gandhi. La scena era paradossale: la nazione che aveva ottenuto l’indipendenza dagli inglesi sotto la spinta dell’esempio pacifista e non-violento del Mahatma Gandhi (con il quale Indira condivideva addirittura il cognome) otteneva un indubbio successo militare. L’India aveva la sua bomba e la sfoggiava ad un mondo che osservava, dietro ad essa, la povertà della maggioranza della popolazione indiana.

La corsa al nucleare
 da parte dell’India aveva avuto inizio sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando nacque l’Istituto privato per la ricerca fondamentale, guidato dal dottor Homi Bhabha, che si era formato in Inghilterra, a Cambridge. L’India possedeva riserve di uranio e torio, l’assistenza la ottenne da tre grandi parteners: Stati Uniti, Canada e Francia. Dal Canada (che si disinteressò anche a possibili ispezioni internazionali) arrivò il reattore CIRUS da 40 megawatt termici e che funzionò a Trombay nel luglio 1960, e l’aiuto per la costruzione di due centrali elettronucleari tipo CANDU nel Rajasthan. 

Dagli Stati Uniti, l’India ottenne 21 tonnellate di acqua pesante, sempre senza la garanzia di controlli internazionali. Oltre a ciò moltissimi scienziati indiani poterono seguire corsi di perfezionamento presso impianti nucleari americani. La Francia, nel 1951, firmò un accordo franco-indiano di collaborazione nucleare. Come nel caso americano, contribuì con corsi di perfezionamento presso le proprie centrali nucleari. Il premier indiano Nehru, già nel 1946-48, svelò le intenzioni del proprio paese. Le intenzioni divennero un palese programma di corsa all’armamento nucleare nel 1964, subito dopo il primo esperimento nucleare cinese.

Al potere in India
 c’era la figlia di Nehru, Indira Ghandi. Come l’esplosione del 1974, il Terzo Mondo si presentava alla comunità internazionale, per la prima volta, come una possibile minaccia militare. Dopo la metà degli anni Settanta, il vento cambiò. Sulla spinta di uno studio fondamentale redatto dal politologo dell’Università di Chicago, prof. Albert Wohlstetter (e anche delle reazioni preoccupate alla bomba indiana), il governo americano cominciò a prospettare una mutazione politica di rotta. Già con la presidenza Ford cominciò a svilupparsi un orientamento contro la proliferazione nucleare. Lo studio scientifico metteva in risalto una verità: che la realizzazione di una bomba era un’operazione facile, una volta che si fossero ottenute le materie prime.
Gli sforzi internazionali dovevano mirare a regolare e rendere difficoltosa la divulgazione di sostanze esplosive. soprattutto il plutonio. Il successore di Ford, il democratico Jimmy Carter (ex ingegnere nucleare!) adottò una decisa linea politica in questo senso. All’Assemblea Generale dell’ONU del settembre 1974 il segretario di Stato Henry Kissinger ufficializzò la nuova posizione americana: stop alla proliferazione. Ovviamente il mondo dell’industria nucleare non reagì entusiasticamente. Una delle nazioni che si avvantaggiò della posizione americana – che costò agli Stati Uniti la perdita di un mercato stratosfericamente miliardario – fu il Brasile, che già dagli anni cinquanta aveva arruolato alcuni grandi scienziati del Terzo Reich, cui aveva offerto asilo. Gli Stati Uniti, intanto, puntavano alla creazione di una sorta di OPEC nucleare: un’intesa fra concorrenti che esordì a Londra nella primavera del 1975.

Ogni fornitore doveva
 procedere alla vendita delle proprie tecnologie e risorse con la massima cautela. La politica promossa da Washington incrinò ovviamente i rapporti con il fedele alleato pachistano, che vedeva compromesso il proprio impianto di Chasma. Contemporaneamente anche in Francia, caduto il governo Chirac, si raffreddavano i rapporti tra Parigi e Baghdad. Questo fece traballare un contratto franco-iracheno che avrebbe portato alla corte di Saddam 72 chili di uranio molto arricchito, una base utile a creare fino a 9 armi nucleari. Nonostante le pressioni americane una prima parte dell’ordinazione (tale da poter ottenere una bomba) fu portata a termine nel 1980.

La Nuova America di Ronald Reagan e la priorità dello scontro con il colosso sovietico. Il 20 gennaio 1981 il repubblicano Ronald Reagan conquistava la Casa Bianca e diventava il quarantesimo presidente degli Stati Uniti. Con l’avvento della sua amministrazione, una nuova priorità ossessionò il governo americano: la sfida con l’Unione Sovietica per il predominio mondiale era arrivata all’atto decisivo e finale, occorreva la “spallata” che avrebbe messo in ginocchio il sistema sovietico. Il primo mandato di Reagan fu improntato quindi ad una corsa nucleare e ad una nuova politica di contenimento del comunismo nel mondo. I summit con Gorbaciov per il disarmo, che caratterizzarono il secondo mandato del presidente americano, erano ancora lontani.

L’amministrazione Reagan
 alle soglie degli anni Ottanta vedeva una sola necessità: arginare l’influenza sovietica. La non-proliferazione nucleare non costituiva quindi una priorità, tutt’altro. Gli Stati Uniti ripreso velocemente una politica nucleare. Il Pakistan – con grande soddisfazione del governo interessato – tornava ad essere il baluardo contro il comunismo, utile ad arginare il “Vietnam sovietico” che infuriava dal 1979 in Afghanistan. Quasi tre miliardi di dollari in cinque anni finirono nelle casse pakistane. Anche l’Iraq si avvantaggerà di questa nuova situazione. 

Non bisogna dimenticare che, al tempo, il regime di Saddam serviva da contraltare all’Iran komehinista che giudicava gli Stati Uniti “il grande Satana”. A dimostrare quanto la politica reganiana puntasse essenzialmente al vantaggio per gli Stati Uniti e l’Occidente, basti pensare che l’alleanza più salda che gli Stati Uniti ebbero fu quella con Israele, nemico dell’Iraq.

Una delle teorie che vedevano con sufficienza il pericolo di una proliferazione nucleare in Medio Oriente era quella che si rifaceva al principio dell’MDA (Mutua Distruzione Assicurata). L’equilibrio del terrore avrebbe congelato le spinte centrifughe e qualsiasi opzione di guerra totale nella regione.
Paradossalmente nello stesso anno in cui saliva al potere Ronald Reagan, in Francia conquistava l’Eliseo il socialista François Mitterand, che optò per un’alleanza con Israele e una rottura dei rapporti favorevoli con l’Iraq. Le posizione franco-americane si erano quindi capovolte rispetto ai tempi di Carter-Chirac. da questi continui mutamenti di politica occidentale si avvanteggeranno i paesi islamici come l’Iraq, che si limiteranno semplicemente a cambiare cliente. A questo cercherà di ovviare Israele.

Il decennio degli anni Settanta in cui l’Islam aveva dimostrato di poter ottenere la bomba si chiudono formalmente nel giugno 1981, con il bombardamento del centro nucleare iracheno Tammuz ad opera degli F-16 israeliani. Israele non avrebbe mai accettato arsenali in grado di colpire a distanza il proprio territorio. “Israele non tollererà che dei nemici – non nessun paese arabo, nessun nemico – realizzi armi per distruzioni in massa contro il popolo di Israele. Se gli iracheni volessero ricostruire il reattore, per mezzo del quale potessero produrre armi nucleari, Israele userà i mezzi a sua disposizione per distruggere quel reattore.”
Dietro le parole pronunciate da Begin, si concretizzava una politica che Israele non avrebbe mai più abbandonato, per la propria sopravvivenza.


La Palestina sotto la dominazione ottomana

Nel 1516, con la vittoria del sultano Selim I sui Mamelucchi, iniziarono i quattro secoli di dominazione ottomana sulla Palestina.

Solimano il Magnifico (1520-1566) circondò Gerusalemme con possenti bastioni (le attuali mura della Città Vecchia); sotto il suo governo la regione conobbe una forte ripresa commerciale.

La decadenza che interessò l’Impero Ottomano a partire dal XVIII secolo non risparmiò la Palestina, dove il crollo economico e la forte pressione fiscale causarono l’abbandono di larga parte delle terre coltivabili.

Nel 1831 la Palestina fu conquistata dal pascià d’Egitto Mehmet Alì, ma nel 1840, con l’aiuto britannico, venne ripristinato il governo ottomano.

La seconda metà del XIX secolo fu caratterizzata da un intenso sforzo di modernizzazione, come nel resto dell’Impero Ottomano. Per finanziare le riforme, le autorità di Costantinopoli affidarono il compito di esattori fiscali alle famiglie più importanti della regione. Nello stesso tempo, venne per la prima volta consentita la proprietà privata della terra.

La principale conseguenza di questa serie di riforme fu la creazione di una classe urbana di proprietari terrieri, che godevano di una posizione di privilegio in quanto titolari delle attività di raccolta delle tasse.

Negli stessi decenni si verificò la riscoperta della Palestina da parte dell’Europa, sia in termini di investimenti di capitali (con la crescita delle città della costa, come Jaffa, Haifa e Acri), sia in termini religiosi e culturali, con nuovo impulso ai pellegrinaggi cristiani in Terra Santa, sia in termini diplomatici, dal momento che Francia, Gran Bretagna e Russia tentarono in vari modi di ottenere dal sultano il diritto di protezione dei Luoghi Santi e delle comunità cristiane.

La fine del XIX secolo coincise anche con la nascita del sionismo che, con l’obiettivo di creare uno stato ebraico in Palestina, favorì la crescita della comunità ebraica.  


La Palestina sotto controllo britannico

Durante la prima guerra mondiale le truppe inglesi, comandate dal generale Allenby, conquistarono la Palestina e la città di Gerusalemme.

Durante gli anni della guerra il governo di Londra aveva assunto impegni con diversi interlocutori, impegni che si rivelarono fra loro contrastanti:

– fra il 1915 e il 1916 l’Alto Commissario inglese al Cairo scrisse numerose lettere allo Sceriffo della Mecca, Hussein, nelle quali si prometteva l’indipendenza per gli arabi, in cambio della loro rivolta contro l’Impero Ottomano, avversario della Gran Bretagna.

– alla fine del 1916 Francia e Gran Bretagna conclusero gli accordi Sykes-Picot, con i quali si stabiliva l’assegnazione delle città di Haifa e Acri, nonché della Transgiordania e dell’Iraq, al controllo britannico, mentre Siria e Libano sarebbero passati sotto l’influenza francese e la Palestina sarebbe stata internazionalizzata.  

– nel novembre del 1917 Lord Balfour, ministro degli esteri britannico, scrisse in una lettera indirizzata a Walter Rotschild, rappresentante degli ebrei inglesi, che il suo governo guardava con favore alla creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina.

Nel 1922 la Società delle Nazioni affidò al governo britannico il mandato sulla Palestina, con l’incarico di preparare quella regione all’indipendenza. Il testo del mandato riproduceva anche quanto contenuto nella Dichiarazione Balfour.

La società palestinese negli anni del mandato fu caratterizzata da un forte processo di urbanizzazione e da una crescente frammentazione, che si polarizzò intorno alle due principali famiglie – Husseini e Nashashibi – e ai loro sostenitori. Ai primi anni Trenta gli inglesi si schierarono definitivamente a sostegno dei Nashashibi e in opposizione agli Husseini, più attivi politicamente e guidati dal Muftì di Gerusalemme, Haji Amin.

Il danno alla causa palestinese provocato da questa frammentazione non deve essere sottovalutato: la rivalità fra clan impedì la creazione di un fronte unitario per opporsi efficacemente dalla presenza britannica e all’immigrazione ebraica. La scelta di non collaborare in alcun modo con le autorità inglesi nella gestione amministrativa del territorio (come invece fecero i sionisti) escluse i palestinesi dalla possibilità di far sentire le loro rivendicazioni.

La popolazione rurale ­ che rappresentava la maggioranza dei palestinesi ­ continuò a soffrire la miseria e le pessime condizioni di vita dei decenni precedenti. Molti lasciarono la campagna alla ricerca di migliori occasioni, consentendo al movimento sionista di acquistare ampi appezzamenti di terreno dai grandi proprietari terrieri (spesso residenti nelle città), per destinarli ai nuovi immigrati ebraici. La preoccupazione per la crescente immigrazione dall’Europa portò nel 1936 allo sciopero e alla rivolta della popolazione palestinese contro la Gran Bretagna e i sionisti. Solo l’intervento di mediazione dei paesi arabi vicini consentì il ritorno all’ordine: nel 1939 il governo inglese, preoccupato per l’approssimarsi della guerra in Europa, introdusse severe limitazioni all’arrivo di nuovi immigrati ebrei e alla loro possibilità di acquistare terre, nella speranza di garantirsi la neutralità degli arabi in caso di conflitto mondiale.

Il primo censimento ufficiale in Palestina venne realizzato dagli inglesi nel 1922: dei 752.000 abitanti censiti, 589.000 (78 %) erano arabi musulmani, 71.000 cristiani (la maggior parte arabi, oltre ad alcuni europei e armeni), 83.000 ebrei, 7.600 drusi o di altre confessioni religiose.

Nel 1931 la popolazione ebraica era salita al 18 % (175.000 su un totale di circa un milione di residenti in Palestina). Nel 1939 gli ebrei erano il 27 % (429.000 su 1.600.000 abitanti).

Fonte:

The Times Guide to the Middle East, Londra 1996



Categorie:Storia

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