Mistificazioni evoluzionistiche e matematica

di Luciano Benassi (Alleanza Cattolica)(*)(**)


(*) In luogo di Alleanza Cattolica, avevo scritto PRETE. Ed a proposito di tale qualifica  il dottor Benassi mi ha scritto la seguente lettera:

Nella sezione Fede e Ragione del sito compaiono due miei articoli, nel primo dei quali – quello sull’Evoluzionismo – un Vostro redattore mi qualifica come ‘Prete’, dopo che l’indice della stessa sezione ne qualifica gli interventi pubblicati come frutto di ‘belle anime cattoliche’.
Preciso che sono cattolico ma non ‘prete’. Quanto all’essere una bella anima è ciò che spero e ciò per cui mi sforzo.
Meno livore e più attenzione, anche nei ‘minima’, non potranno che giovare al Vostro sito che, per il momento, sembra dedicarsi solo alla ‘varia umanità’.

Luciano Benassi

L’aver confuso il Benassi con un Prete discendeva da varie pagine di Google (ad esempio: http://web.tiscali.it/Studiothinking/scoltenna/2001.htm ) che parlavano di un Luciano Benassi Parroco di Fiumalbo. Si tratta evidentemente di una omonimia e mi scuso per avere recato offesa al dottor Benassi.


(**) Alleanza Cattolica è un organismo civico-culturale di laici cattolici – indipendente da ogni partito politico -, che si propone la propagazione positiva e apologetica, quindi anche polemica, e la realizzazione della dottrina sociale della Chiesa, applicazione della perenne morale naturale e cristiana alle mutevoli circostanze storiche. La sua azione si situa nel campo dell’instaurazione cristiana dell’ordine temporale; è mossa dalla carità politica, cioè dall’amore per il bene comune; mira alla promozione e alla costruzione di una società a misura di uomo e secondo il piano di Dio – nella prospettiva della sua maggiore gloria, anche sociale -, cioè di una civiltà che possa dirsi a buon diritto cristiana, in quanto rispettosa dei diritti divini e consapevolmente vivente all’interno delle frontiere poste dalla dottrina e dalla morale della Chiesa.

La speranza della storica instaurazione di una tale civiltà è sostenuta dalla promessa della Madonna a Fatima: “Infine, il mio Cuore Immacolato trionferà”.

Alleanza Cattolica svolge un’opera di formazione culturale e civile. Essa prepara operai della restaurazione sociale, veri amici del popolo, attraverso lo studio della relativa dottrina cattolica, così come è veicolata dal Magistero tradizionale o costante della Chiesa e così come si può ricavare dalle sue incarnazioni storiche, cioè dalle tradizioni delle singole nazioni cattoliche e della loro famiglia o Cristianità. Particolare attenzione è riservata alle forze che mirano all’instaurazione dell’antidecalogo e della menzogna dottrinale e morale, con specifico riferimento al processo storico che va dalla crisi rinascimentale e protestantica al socialcomunismo e oltre, cioè alla Rivoluzione che si vuole intronizzare al posto di Dio e della sua legge. Nell’opera di formazione sono basilari i mezzi spirituali, fra i quali vengono privilegiati il rosario, l’adorazione eucaristica, il pellegrinaggio e gli esercizi spirituali secondo il metodo ignaziano.

Alleanza Cattolica organizza convegni, seminari, conferenze, riunioni e corsi di formazione per singoli e per gruppi, ovunque vi siano persone disposte ad ascoltare, sia su temi di carattere generale – cioè, soprattutto, su tesi della cultura politica naturale e cristiana – che su fatti storici o di cronaca, letti e giudicati alla luce della perenne morale sociale. Attività associativa è pure la redazione e la diffusione militante della rivista Cristianità, su cui viene, fra l’altro, seguito lo svolgersi del processo rivoluzionario, denunciando i guasti che produce, e i cedimenti e le complicità che lo favoriscono. Inoltre, Alleanza Cattolica promuove la diffusione di opuscoli e di libri, alcuni dei quali pubblicati dalla cooperativa editrice Cristianità. Militanti di Alleanza Cattolica sono all’origine – con altri – del CESNUR, il Centro Studi sulle Nuove Religioni, dell’IDIS, l’Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, e dell’ISIN, l’Istituto per la Storia delle Insorgenze.

Il motto dell’associazione è “Ad maiorem Dei gloriam et socialem”, “Per la maggior gloria di Dio anche sociale”.

Lo stemma di Alleanza Cattolica è costituito da un’aquila nera con un cuore rosso sormontato dalla croce. L’aquila è l’animale simbolico dell’apostolo san Giovanni e testimonia la volontà di essere figli di Maria, come l’Apostolo prediletto che ha riposato sul Cuore di Gesù. Circa il cuore, dice Pio XII che “è […] nostro vivissimo desiderio che quanti si gloriano del nome di cristiani e intrepidamente combattono per stabilire il regno di Cristo nel mondo, stimino l’omaggio di devozione al Cuore di Gesù come vessillo di unità, di salvezza e di pace”. Circa la croce sul cuore, cfr. il Cantico dei Cantici (8, 6): “ponimi come sigillo sul tuo cuore”.

Anno di costituzione: informale, nel 1960; con maggiore formalità, dal 1968; regolata da un Direttorio, dal 1977; regolata da uno Statuto: dal 1998.

Esponenti:
Giovanni Cantoni, fondatore e reggente nazionale
Mauro Ronco, Marco Invernizzi, Paride Casini, Leonardo Gallotta, Marco Tangheroni, Attilio Tamburrini, Giovanni Formicola, Alfredo Mantovano, Elia Sgromo e Benito Macchiarola, reggenti regionali
Domenico Airoma, Francesco Barbesino, Lorenzo Cantoni, don Pietro Cantoni, Giovanni Destri, Massimo Introvigne, Ferdinando Leotta, Alberto Maira, Francesco Pappalardo, Ermanno Pavesi, Oscar Sanguinetti, Giulio Soldani e Guido Verna consultori del Capitolo Nazionale.


E veniamo all’articolo del non-prete Benassi.

Il 19 aprile 1882, compiuti da poco i settantatré anni, Charles Robert Darwin moriva nella sua casa di Down, nel Kent. Gli sopravvivevano la moglie Emma, sette dei suoi dieci figli, una mole notevole tra libri, articoli e memorie scientifiche; ma il suo nome sarebbe rimasto indissolubilmente legato a una delle maggiori mistificazioni della storia della scienza e della cultura occidentale: la teoria della evoluzione (1).

I. La rivoluzione evoluzionistica

A cento anni dalla scomparsa, il mondo scientifico ufficiale, con grande dispiego di mezzi, ha celebrato nel 1982 l'”anno darwiniano”. Quotidiani, settimanali, riviste di divulgazione hanno offerto generosamente le proprie pagine alla memoria del “fondatore” e alla diffusione del suo “messaggio”: una claque  invadente e ossessiva ha applaudito senza interruzione alle vecchie tesi evoluzionistiche riproposte, come sempre, secondo enunciati ambigui e sfuggenti e con il consueto corredo di “prove” (2). Lo spazio per il dissenso è stato pressoché nullo e su ogni voce discorde è stata fatta gravare un’atmosfera ora di ironia, ora di disinteresse. Non è consentito avere dubbi “sulla validità della teoria […]. L’impostazione corretta di questo dubbio non è […]  “se l’evoluzione è vera”, ma se sappiamo tutto dell’evoluzione”   (3).

Della evoluzione, in pratica, si conosce ben poco. Giuseppe Montalenti, presidente dei Lincei, fautore e divulgatore in Italia della teoria evoluzionistica, ammette, per esempio, che “non è a credere che tutto sia chiaro, che tutti i problemi siano risolti. Al contrario, molti rimangono aperti e intorno a essi si discute e si ricerca molto. […] Molti e gravi sono i problemi anche in quello che abbiamo chiamato l’aspetto storico dell’evoluzione. Il quadro del processo evolutivo appare disegnato nelle sue grandi linee in modo abbastanza attendibile, ma quando si cerca di fissare il particolare si incontrano spesso grandi difficoltà” (4).

Se le difficoltà permangono, come sempre, e se nessun fatto nuovo, nessuna verifica sostanziale sono intervenuti in questi cento anni a fare sì che l’evoluzionismo sia qualcosa di più di un disegno “attendibile  ” soltanto nelle sue “grandi linee  “, le celebrazioni riservate a Darwin e alla sua teoria, fatto anomalo nella storia della scienza, inducono a un atteggiamento di sospetto. Il sospetto cade e diviene certezza se si considera che Darwin e l’evoluzionismo sono troppo importanti per essere lasciati al vaglio della usuale metodologia scientifica: non tanto per il rischio di vedere cadere ciò che affermano, quanto per il timore di dovere affermare ciò che negano. Ne ha chiara coscienza Francois Jacob, evoluzionista, premio Nobel per la medicina nel 1965: “Quello che Darwin ha mostrato è che per rendere conto dello stato attuale del mondo vivente non c’era affatto bisogno di ricorrere ad un Ingegnere Supremo. […] Tuttavia se l’idea di un progetto, di un piano generale del mondo vivente, stabilito da un creatore è scomparsa con il darwinismo, questo ha conservato un alone di armonia universale”   (5). Quindi, per evitare che l'”Ingegnere Supremo  “, cacciato dalla porta principale più di cento anni fa, rientri per quella di servizio attraverso la oggettiva constatazione della “armonia  ” della sua opera, ovvero della perfezione e della finalità delle sue parti, si rende necessario un costante rilancio della teoria evoluzionistica, nel quale non siano discussi e criticati i dubbi e le prove, ma sia posto l’accento sull’impatto rivoluzionario che essa ha avuto e continua ad avere su ogni concezione del mondo che faccia ricorso a un creatore.

Un creatore presuppone una volontà, e una volontà esprime una intenzione, un progetto: ebbene, continua Jacob, “la teoria della selezione naturale consiste precisamente nel capovolgere questa affermazione. […] In questo rovesciamento, in questa specie di rivoluzione copernicana sta l’importanza di Darwin per la nostra rappresentazione dell’universo e della sua storia  ” (6). Se poi si considera che la concezione tradizionale del mondo “ha nella dottrina cristiana il suo più saldo fondamento  ” (7), non è difficile collocare il movimento evoluzionistico nel quadro più ampio del movimento che il pensiero contro-rivoluzionario denomina “Rivoluzione” e che si realizza nella lotta e nella demolizione tematica di ogni espressione conforme a quella dottrina: sul piano religioso, su quello politico-sociale-istituzionale, su quello economico, fino a colpire, da ultimo, i legami microsociali e l’individuo stesso.

Seguendo lo schema di Plinio Corrêa de Oliveira (8), lo svolgimento storico mette in evidenza, dalla fine dei Medioevo cristiano, una I Rivoluzione, protestantica, che distrugge i legami religiosi; una II Rivoluzione, liberale-illuministica, che distrugge i vincoli e i legami dell’antico ordine sociale; una III Rivoluzione, comunistica, che abolisce il residuo ordine economico. Ma, ulteriore al comunismo, Corrêa de Oliveira intravede una “IV Rivoluzione nascente  ” (9), il cui tratto saliente sta nel carattere ristretto del suo campo d’azione: i legami microsociali, cioè la trama di relazioni che ogni uomo tesse in quanto membro di una comunità, di una famiglia, in quanto genitore. E dopo i legami microsociali, spesso in diretta relazione con essi, si pone l’ordine interiore della persona, che trova nella gerarchia intelletto-volontà-sensibilità il riferimento di ogni azione e di ogni manifestazione.

V’è ora da chiedersi: se l’evoluzionismo, come non esitano ad affermare i suoi esponenti più rappresentativi, è una rivoluzione, nel senso di “sovvertimento” e non in quello, purtroppo diffuso, di semplice “cambiamento” rispetto a un ordine precedente, come collocarlo all’interno dello schema ora tracciato?

Per il suo carattere intellettuale e accademico, l’evoluzionismo si pone innanzitutto su di un piano non immediatamente legato ai fatti e ai comportamenti delle persone: l’evoluzionismo è una rivoluzione nelle idee. Cionondimeno, analogamente ai grandi sistemi ideologici del passato, esso aspira a fornire una giustificazione al comportamento individuale e sociale. Ciò è tanto più vero in un’epoca come la nostra che “si è lasciata gradatamente persuadere che l’essere umano, analizzato, scomposto, scandagliato dalle varie direttive di ricerca  non è altro che una macchina, di volta in volta meccanica, chimica, elettrica o cibernetica  ” (10). Ora, è al contenuto delle idee evoluzionistiche e alla loro capacità di penetrazione che si deve guardare per rispondere alla importante domanda che ho posto prima.

Già ho osservato che il loro carattere sovversivo generale risiede nell’affermazione di una visione del mondo che fa a meno di un creatore. Tuttavia non è difficile constatare che esse si spingono ben oltre, negando anche l’ordine morale che deriva dalla esistenza di un creatore e che, per questo, è vincolante. L’evoluzionismo, infatti, traendo l’uomo dal caso e facendone un “prolungamento delle cose […] sullo stesso piano degli animali  ” (11), lo sottrae a ogni responsabilità: la storia diventa storia della biologia, dove “tutto è permesso  ” (12) e dove “non vi sono più leggi divine che assegnino limiti all’esperimento  ” (13).

Una volta esclusi Dio e la sua volontà, cioè una volta rotto il legame Creatore-creatura, rimane la constatazione del puro divenire. Da esso gli esseri emergono non in vista di un fine secondo un progetto, ancorché immanenti al movimento stesso, bensì in virtù del puro gioco delle fluttuazioni statistiche. “L’evoluzione  – scrive Jacob – mette in gioco intere serie di contingenze storiche  ” (14), così che “il mondo vivente avrebbe potuto essere diverso da quello che è, o addirittura non esistere affatto  ” (15). Questa affermazione è molto importante per il tipo di analisi che sto conducendo. Essa dimostra, infatti, che l’evoluzionismo contiene in sé anche gli elementi della II e della III Rivoluzione: la rottura dei legami politici, cioè delle antiche solidarietà sociali fondate sulla gerarchia e sull’ordine, e di quelli economici. Se ne rende ben conto lo stesso Jacob: “Finché l’Universo era opera di un Divino Creatore, tutti gli elementi erano stati da lui creati per accordarsi in un insieme armonioso, accuratamente preparato al servizio del componente più nobile: l’uomo. […] Era un modo di concepire il mondo che aveva importanti conseguenze politiche e sociali, in quanto legittimava l’ordine e la gerarchia della società  ” (16). Ora, invece, perde di senso qualunque tentativo di fondare un ordine e una gerarchia: “il migliore di tutti i mondi possibili è diventato semplicemente il mondo che si trova a esistere  ” (17).

In questo emergere prepotente del “caso” come fonte ed essenza della realtà, in questa dissolvenza dell’essere umano, della sua libertà e della sua volontà nel movimento evolutivo, risiede il carattere originale della rivoluzione darwiniana: una originalità che la distingue dallo stesso marxismo e da ogni altra ideologia di matrice hegeliana. Nella dialettica hegeliana e in quella marxistica, il movimento universale, dell’Idea o della Materia, conservava pur sempre una sua finalità, una “direzione privilegiata”, “ascendente”, e offriva agli individui più consapevoli la possibilità di tuffarsi nella corrente e di accelerare in qualche modo il corso della storia. Ma ora che il mondo esistente non può essere che il frutto del caso, costruito come una quaterna del lotto, ogni pretesa di perfettibilità diventa inutile e assurda: anche il mondo di domani, come quello di oggi, uscirà “alla cieca” dall’urna dei “mondi possibili”.

Distinta dal comunismo, dunque, ma anche “oltre” il comunismo (18): la rivoluzione darwiniana procede inesorabile secondo una logica folle di trasgressioni successive. Abbattute le barriere tra le specie, in una visione del mondo vivente nel quale gli organismi perdono la loro tipicità e la loro fissità strutturale, dove “oggetto effettivo di conoscenza è la popolazione nel suo insieme  ” (19), l’avanguardia evoluzionistica propone, da ultimo, il programma di ricostruzione della società e degli individui sulle basi delle indicazioni della sociobiologia e della ingegneria genetica. L’inserimento dell’aborto nelle legislazioni di molti paesi, accompagnato da campagne propagandistiche sul suo uso come strumento di selezione  in base alle caratteristiche genetiche dei feti (20); la diffusione della fecondazione artificiale, che esclude ogni rapporto di paternità e di maternità, lasciano intravedere l’inquietante scenario di una umanità pianificata e manipolata artificialmente, che attraverso la tecnica della clonazione  (21), realizza il sogno utopico della uguaglianza assoluta: quella relativa al patrimonio ereditario degli individui.

Il movente occulto della Rivoluzione è l’odio a Dio. Non potendo questo odio scagliarsi contro Dio stesso, si proietta contro le sue opere e, nella sua forma più consapevole e compiuta, contro il capolavoro del creato: l’uomo. Nell’uomo Dio ha infuso la scintilla dell’intelletto, che lo distingue dagli animali, ma a ogni uomo ha anche assegnato una vita interiore  , un modo di affacciarsi al reale e di riflettere su di esso del tutto diverso da quello di ogni altro uomo: è il dono della personalità  . È evidente che l’aggressione organizzata e tematica della Rivoluzione al creato deve prevedere il momento di lotta specifica all’essere umano: questo attacco, come si è detto, si compie con la IV Rivoluzione. Nel quadro di questa battaglia, forse quella finale che la Rivoluzione si accinge a combattere (22), la rivoluzione evoluzionistica svolge il ruolo di aggressivo genetico  , fornendo le idee per una alterazione delle differenze psico-somatiche tra gli individui.

La prospettiva è al limite  ; tuttavia non è eliminabile  : la direzione in cui l’evoluzionismo lavora nei laboratori di genetica è quella di un mondo popolato da miliardi di esseri uguali, repliche esatte di uno stesso “progetto umano”. Scrive ancora Jacob: “Forse si riuscirà anche a produrre, a volontà e nel numero di esemplari desiderato, la copia esatta di un individuo: un uomo politico, un artista, una reginetta di bellezza, un atleta. Nulla vieta di applicare fin d’oggi agli esseri umani i procedimenti selettivi utilizzati per i cavalli da corsa, i topi da laboratorio o le vacche lattiere […]. Ma tutto questo non ha più a che fare soltanto con la biologia  ” (23).

È vero, tutto ciò è già oltre la biologia, è la prospettiva sinarchica della Repubblica Universale, di un mondo, come insegna Corrêa de Oliveira “senza disuguaglianze né sociali né economiche, diretto mediante la scienza e la tecnica, la propaganda e la psicologia  ” (24); di un mondo nel quale, paradossalmente, quella umanità che l’evoluzionismo vuole scaturita dai branchi scimmieschi delle savane, ritorna a essere mandria indistinta e brutale come i suoi mitici progenitori.

II. L’evoluzionismo scientifico

La filosofia insegna che l’unità è un carattere della verità. La verità è compatta: negandone un aspetto, prima o poi si dovrà negarla tutta. L’errore, al contrario, è molteplice  , nel senso che il contrario di una  affermazione vera non è una  affermazione falsa, ma possono essere infinite  affermazioni false. Ciò rende, evidentemente, più ardua la difesa della verità, tuttavia ogni errore presenta sempre uno o più punti particolarmente deboli, sui quali intraprendere l’opera di demolizione completa.

Nel caso dell’errore evoluzionistico la situazione descritta è assai favorevole in quanto tutta la visione del mondo che scaturisce da esso trae la propria forza da un preteso riscontro scientifico, cioè da un contesto in cui la verifica della bontà di una affermazione è immediata e, entro certi limiti, inoppugnabile. In altri termini, la rivoluzione evoluzionistica pretende di essere fondata scientificamente, per cui è sul terreno scientifico che può cominciare una seria opera di confutazione nei suoi confronti.

La sproporzione tra la produzione scientifica evoluzionistica e quella antievoluzionistica, decisamente a favore della prima, non deve indurre a credere in una altrettanto sproporzionata differenza di qualità, anzi. Semplicemente il mondo accademico ufficiale, di concerto con i più importanti organi di divulgazione, impedisce che ottimi lavori di valenti uomini di scienza, di impostazione antievoluzionistica, possano raggiungere il vasto pubblico dei lettori. Basti, per tutte, la dichiarazione di Pietro Omodeo, evoluzionista presentato come “il più noto studioso italiano di evoluzionismo  ” (25), rilasciata nel corso di una intervista sul movimento neo-creazionistico americano. Ascoltando le affermazioni dei suoi avversari, a Omodeo “viene voglia di rispondere con un pernacchio  ” (26).

Più dei suoni non propriamente civili evocati da Omodeo, ciò che condiziona lo scienzato anticonformista è, naturalmente, il clima di ostracismo e di intimidazione che si crea contro chi avanza ipotesi contrarie alle vedute ufficiali sull’argomento (27). Tuttavia non sono mancati nel passato, e non mancano ancora oggi, autorevoli ricercatori che, con i loro lavori, hanno messo in evidenza le lacune dell’evoluzionismo scientifico e proposto soluzioni radicalmente alternative al problema relativo all’origine e allo sviluppo della vita sulla Terra (28).

Fra questi, merita particolare attenzione, per il prestigio dell’autore e per la completezza e il rigore della trattazione, lo studio dello scienziato francese Georges Salet (29). Docente universitario, profondo conoscitore delle maggiori questioni scientifiche del nostro tempo, Salet, cattolico, non ha esitato a scendere in campo ogni qualvolta l'”intellighentsia” scientista, mistificando i fatti, ha attaccato la Chiesa, le verità di fede, la filosofia naturale e cristiana (30).

Il pregio del volume di Salet consiste nell’andare direttamente al cuore della questione evoluzionistica, confutando i due cardini della teoria: il ruolo della selezione naturale  e quello del caso  come fonti del mondo vivente, della sua varietà, e della sua pretesa evoluzione. Nella impossibilità di trascrivere in extenso  tutte le osservazioni di Salet, svolte in diverse centinaia di pagine, mi limito a esporre i passaggi fondamentali della sua confutazione dell’evoluzionismo, che non è ancora stata smentita.

1. I princìpi della teoria evoluzionistica

Con il termine “evoluzionismo” si intende l’ipotesi scientifica che spiega l’origine della vita a partire dalla materia inerte (evoluzione molecolare), e la successiva diversificazione del mondo vivente a partire dagli esseri più semplici e primitivi, fino a rendere conto dello stato attuale del mondo vivente, con i milioni di specie esistenti nei regni vegetale e animale (evoluzione biologica).

Circa i meccanismi  di questo processo non esistono spiegazioni univoche, e questo fatto, già di per sé, non depone a favore della bontà della teoria. Grosso modo  , le teorie esplicative della evoluzione possono riassumersi in tre gruppi:

a. spiegazioni spiritualistiche: sono quelle che fanno appello a non meglio identificati princìpi immateriali  , che orienterebbero la materia verso stati sempre più complessi e perfezionati;

b. spiegazioni verbali: si tratta di definizioni tautologiche della evoluzione, dissimulate sotto la maschera di discorsi dotti e di terminologie scientifiche. Questo tipo di spiegazioni sono dovute, per esempio, ai biologi marxisti, come il sovietico Oparin e l’inglese Haldane, e a uno spiritualista come Teilhard de Chardin, con la sua legge di “complessità-coscienza” (31);

c. spiegazioni scientifiche: sono i tentativi di spiegare il processo evolutivo attraverso i fatti di osservazione.

Sui primi due gruppi la scienza non può formulare giudizio alcuno, in quanto essi stessi si pongono al di fuori del suo campo di azione. Per quanto riguarda le spiegazioni scientifiche si può dire che, attualmente, pur nella grande varietà delle posizioni dei singoli ricercatori, la maggior parte degli evoluzionisti concorda su spiegazioni dell’evoluzione che combinano le acquisizioni della genetica sulla eredità  e sulle mutazioni  , con l’idea originale di Darwin intorno alla selezione naturale: le teorie attuali sui meccanismi della evoluzione non sono altro che messe a punto di questa “teoria-base” detta “mutazioni-selezione”. Vediamo che cosa afferma.

La genetica  , branca della biologia che si occupa della eredità, mostra che il patrimonio ereditario di ciascun individuo è strutturato secondo unità microscopiche perfettamente individuate, dette geni  . I geni sono localizzati nei cromosomi  , situati nel nucleo di ogni cellula, secondo un ordine ben determinato: ciascun gene, o una data sequenza di essi, corrisponde a una serie complessa di funzioni, che la cellula è o sarà chiamata a svolgere. Il corredo di geni di ogni individuo contiene, in altri termini, la descrizione dell’individuo stesso, il suo progetto o piano di montaggio: è questo corredo di geni che, per esempio, è all’origine dello sviluppo dell’uomo così come di ogni animale pluricellulare. Esso stabilisce i tempi e le modalità della crescita del feto: quando e come si deve formare il tessuto nervoso, quando e come quello osseo, quando e come gli occhi, i capelli, e così via.

Accade, tuttavia, che nel corso dello sviluppo di un individuo, o durante la sua vita, il suo patrimonio genetico subisca mutazioni, cioè alterazioni di struttura. Ricorrendo di nuovo alla immagine del piano di montaggio, è come se le linee di esso fossero state in qualche modo alterate. Ciò che la genetica ha accertato intorno al fenomeno delle mutazioni si può riassumere nelle seguenti proposizioni:

> le mutazioni si trasmettono ereditariamente secondo le leggi di Mendel;

> il loro tasso è estremamente basso: presso gli animali superiori è appena di 1 ogni 10.000 / 100.000 individui;

> fanno generalmente apparire delle anomalie, delle tare, a volte delle vere e proprie mostruosità, che limitano notevolmente gli individui colpiti;

> se l’organo colpito è un organo fondamentale, l’individuo muore prematuramente, spesso allo stadio di embrione;

> il carattere delle mutazioni è profondamente casuale  , cioè non si conosce alcun agente mutageno con azione specifica;

> il numero delle mutazioni letali è da 10 a 15 volte superiore a quello delle mutazioni “vitabili”, cioè delle mutazioni che mantengono comunque  in vita l’individuo colpito.

Per la teoria evoluzionistica “mutazioni-selezione”, le mutazioni costituiscono la fonte della variabilità del mondo vivente, alla quale attinge la selezione naturale  per trattenere gli individui nei quali le mutazioni hanno incrementato il tasso di natalità o diminuito quello di mortalità, cioè gli individui favoriti  dalle mutazioni.

Anche la selezione naturale è un fatto di osservazione, definitivamente acquisito alla scienza. Le sue modalità di azione, quando possono esplicarsi, sono estremamente incisive. Per esempio, se in una coltura di un milione di batteri compare un individuo mutato, o mutante, il cui ritmo di duplicazione è superiore dell’1 % rispetto agli altri, dopo 4000 generazioni, cioè qualche giorno su scala batterica, il rapporto di popolazione sarà invertito: un individuo originale per milione di mutanti.

La selezione naturale, utilizzando i prodotti delle mutazioni e con l’effetto dell’isolamento geografico delle popolazioni, rende perfettamente conto di quelle modificazioni limitate in seno alle specie  , note da sempre ai naturalisti, che talvolta prendono il nome di microevoluzione  . Una delle sue manifestazioni più conosciute è la formazione di razze  all’interno di una specie.

La microevoluzione, però, non ha nulla a che vedere con l’evoluzionismo: tra essi esiste una differenza di natura  . Quasi sempre gli evoluzionisti trascurano tale differenza con disinvoltura colpevole, così che fenomeni microevolutivi vengono interpretati come esempi di evoluzione (32). La microevoluzione implica modificazioni organiche limitate ed esclude completamente la comparsa di nuovi organi o di nuove funzioni; l’evoluzionismo, invece, per rendere conto delle differenze organiche e funzionali tra i gruppi di viventi passati e attuali, deve postularle: la microevoluzione è indifferente  o regressiva  , l’evoluzionismo è progressivo  .

La teoria evoluzionistica dunque, parte da basi concrete – le mutuazioni, la selezione -, in grado di rendere conto delle modificazioni limitate dei viventi, realmente riscontrabili in natura, per spiegare la comparsa di nuovi gruppi della classificazione sistematica attraverso modifiche profonde e apparizioni di funzioni e di organi nuovi negli esseri viventi. Per rendere plausibili questi fantomatici passaggi, gli evoluzionisti ricorrono a sofismi e a mistificazioni, con i quali il ruolo delle mutazioni e della selezione viene completamente alterato.

2. Il primo inganno evoluzionistico: il ruolo della selezione naturale

Spiega Salet che la reale variabilità del mondo vivente può riassumersi nella seguente proposizione: “Gli organismi si modificano a caso. Ogni modificazione (mutazione) che corrisponde al MIGLIORAMENTO di un organo è automaticamente selezionata  ” (33). Ed ecco, invece, ciò che gli evoluzionisti, al seguito di Darwin, continuano a insinuare: “Gli organismi si modificano a caso. Le modificazioni (mutazioni) che corrispondono all’APPARIZIONE di una nuova funzione (e quindi, in senso lato, di un nuovo organo) SONO automaticamente selezionate  ” (34).

Le due proposizioni, come si vede, differiscono per le parole scritte in maiuscolo:

> “mutazione”, che era singolare, è diventata plurale;

> “miglioramento” è diventato “apparizione”.

Questi cambiamenti, apparentemente banali, sono tali da trasformare una proposizione esatta in un sofisma. Infatti è chiaro che la selezione naturale può intervenire sul mutante soltanto dopo  che si sono verificate tutte  le mutazioni necessarie alla comparsa del nuovo organo o della nuova funzione, cioè soltanto dopo  che il nuovo organo è completamente costituito ed è in grado di esplicare perfettamente la nuova funzione: la selezione non può in alcun modo trattenere mutazioni intermedie perché non corrispondono ad alcunché di compiuto nell’organismo; anzi, un individuo in un simile stato sarebbe svantaggiato rispetto agli individui originali e la selezione naturale provvederebbe a cancellarlo in breve tempo dalla faccia della Terra. Per esempio, un essere vivente dotato di un organo a mezza strada tra una pinna e un arto non è né un pesce capace di nuotare nell’acqua, né un animale da terraferma. Un organo come un arto implica ossa  , che ne assicurino la rigidità; articolazioni  , che ne assicurino la mobilità  , e muscoli, tendini e nervi  , che ne assicurino la forza  . Parlare di formazione progressiva e lenta degli arti è un puro esercizio verbale, privo di ogni riscontro scientifico. La selezione naturale non avrebbe nulla su cui agire.

Dietro una simile concezione circa il ruolo della selezione, oltre al misconoscimento dei fatti, vi è una cattiva comprensione dei concetti di “organo” e di “funzione”. Nei trattati, nei libri di scuola e in ogni articolo sull’evoluzionismo, spesso si dice che un organo nuovo compare in forma molto semplice  e che, in seguito, esso si perfeziona sotto il controllo della selezione  come se, afferma Salet, bastasse “un poco di organo  ” per avere assicurata anche “un poco di funzione  ” (35). Gli evoluzionisti dimenticano che il “diagramma” della funzione svolta da un organo è del tipo “tutto o niente”, proprio come accade per le macchine: nessun  funzionamento fino a quando non sono a posto tutti  i dispositivi componenti della macchina. Lo sanno bene gli automobilisti, dice Salet, che “senza carburatore o senza dispositivo di accensione un’auto non viaggia “meno bene”: non viaggia affatto  ” (36).

Di fatto, una via di uscita esiste, ed è quella di ritenere che le mutazioni relative alla comparsa di un organo nuovo e di una nuova funzione avvengano tutte simultaneamente  , così che la selezione può intervenire subito per conservare il risultato finale. Come si comprende, il problema si sposta verso il calcolo delle probabilità, poiché occorre stabilire che valore di probabilità hanno mutazioni casuali di verificarsi simultaneamente e di costruire qualcosa di nuovo.

Quella che sembra una via di uscita pone, in realtà, quesiti ancora più gravi dei precedenti e, ancora una volta, gli evoluzionisti propongono soluzioni illusorie.

3. Il secondo inganno evoluzionistico: il tempo necessario alla evoluzione

Fino dai tempi di Darwin, ancora prima di individuare nelle mutazioni la fonte della variabilità del mondo vivente, i biologi avevano intuito le connessioni tra matematica ed evoluzione, ma nessuno tentò mai di impostare rigorosamente il problema (37). Ancora oggi l’atteggiamento evoluzionistico è quello di una certa “sufficienza”: avendo avuto a disposizione un periodo dell’ordine di due miliardi di anni, si ritiene sostanzialmente inutile chiedersi cosa sia possibile o impossibile per la evoluzione in un tempo tanto lungo. Basta attendere: il tempo compirà da solo il miracolo della creazione della vita e della sua trasformazione. Ma non sarà un’attesa inutile?

A fronte di affermazioni gratuite e non provate, Salet dimostra che la formazione casuale di un organo nuovo, anche modesto, richiederebbe periodi di tempo di durata inimmaginabile, che, espressi in anni, sarebbero dell’ordine di 10 seguito da parecchie centinaia o migliaia di zeri. Nella impossibilità di ripercorrere punto per punto i suoi calcoli, riporto qui di seguito i passaggi principali della dimostrazione.

Occorre osservare, innanzitutto, che la casualità delle mutazioni non implica affatto che esse possano produrre un qualsiasi risultato. Anche le fantasie del caso, dice Salet, hanno limiti. Nella teoria delle probabilità, questi limiti si chiamano soglie di impossibilità  e rappresentano quei valori di probabilità al di sotto dei quali vi è la certezza  che un evento casuale, di una certa natura, non si è mai verificato né mai si verificherà.

Sulla scorta delle speculazioni di Émile Borel, uno dei massimi matematici del nostro secolo, Salet determina le soglie di impossibilità assoluta per eventi di natura chimica e biochimica sulla Terra e nell’Universo. Considerando la velocità dell’elettrone nell’atomo e la sua massa si può stabilire in 10 38 il massimo numero di eventi chimici che si possono svolgere ogni secondo in 1 grammo di materia. Stimando ancora, con larghissimo margine, che il Sole abbia riserve di idrogeno per 100 miliardi di anni, si può ritenere che il nostro pianeta, esistente già da qualche miliardo di anni, possa avere una vita di 10 18 secondi. Infine, ritenendo che gli esseri viventi possano muovere una quantità di materia pari, al più, a quella contenuta in uno strato terrestre dello spessore di 1 chilometro, cioè 10 24 grammi, si giunge alla cifra di 10 80 come limite superiore sicuro del numero di tutto ciò che è possibile immaginare sulla Terra relativamente a eventi di natura chimica e biochimica. Questo numero è molto importante perché il suo inverso, cioè 10 -80 (=1/10 80), costituisce proprio la soglia di impossibilità assoluta per eventi chimici e biochimici (38). Salet riassume in un teorema queste considerazioni: “la realizzazione sulla Terra di un evento supposto o di un insieme di eventi supposti di natura chimica è impossibile se la probabilità di realizzazione di tale evento o insieme di eventi, in una sola prova, è inferiore a 10 -100  ” (39).

Un altro dato utile ai fini della dimostrazione della impossibilità evolutiva è il numero massimo di esseri viventi che sono potuti esistere da quando la Terra può ospitare la vita, cioè da due miliardi di anni. I calcoli forniscono 10 45 come valore. Nel caso particolare dei vertebrati tetrapodi, cioè anfibi, rettili, uccelli e mammiferi, ovvero i grandi gruppi della sistematica animale, si ottiene come valore massimo la cifra di 10 25.

Sulla scorta di questi limiti superiori e dei relativi valori inversi di probabilità, Salet calcola i valori di probabilità delle serie di mutazioni casuali, che possono portare alla comparsa di novità vantaggiose  nel patrimonio ereditario di un individuo. I risultati non lasciano adito a dubbio alcuno: tali valori di probabilità sono talmente inferiori ai limiti superiori da fare ritenere impossibile non solo la evoluzione nel suo complesso, ma anche la singola mutazione, o gruppo di mutazioni, capace di fare apparire un organo nuovo, per quanto semplice possa essere  .

Per dare una idea, consideriamo il caso particolarmente interessante dei vertebrati tetrapodi, di cui si è detto sopra. L’interesse nasce da due considerazioni: la prima è che gli evoluzionisti hanno elaborato numerose e contraddittorie teorie sulla filiazione di un gruppo di vertebrati da un altro (40); la seconda è che ai mammiferi appartiene anche l’uomo che, per questo, verrebbe ricollegato ad antenati animaleschi.

Consideriamo, dunque, una specie S  di vertebrati tetrapodi costituita da M  individui. Se P  è la probabilità che n  geni del patrimonio ereditario di un individuo abbiano acquisito un nuovo carattere, in seguito a mutazioni casuali, si può scrivere che

P = p1 x p2 x … x pn,


dove p1, p2,…, pn sono le probabilità di mutazione vantaggiosa dei singoli geni (41). Chiamando p  il valore più grande tra essi si può scrivere che la probabilità di mutazione degli n  geni è inferiore  a pn , cioè

P < pn.


Ora, il numero probabile  di individui della specie che hanno subito la mutazione sarà

N = P x M,


cioè la probabilità per un individuo moltiplicata per il numero totale degli individui (42). In virtù della diseguaglianza scritta sopra vale allora che

N < pn x M.


Assegniamo adesso valori ai simboli della disequazione, cercando di essere benevoli con la evoluzione. Supponiamo che alla mutazione siano interessati soltanto 5 geni (n = 5); che la probabilità della singola mutazione sia di un milionesimo (p = 10 -6) e che la popolazione della specie sia addirittura uguale al numero massimo di vertebrati tetrapodi (M = 10 25): con questa ipotesi il numero di individui mutati risulta inferiore a 10 -30 x 10 -25 = 10 -5, cioè a 1 su 100.000.

Nel contesto della nostra dimostrazione questo numero significa che, in un periodo di un miliardo di anni la probabilità che sia apparso un solo vertebrato munito di 5 nuovi geni funzionali, è di 1 su 100.000, ovvero che occorrono 100.000 miliardi di anni per avere la quasi certezza di vederne uno.

Queste cifre danno solo una pallida idea del tipo di problema che sorge quando si vuole assegnare al caso la genesi e la complessità del mondo vivente. Basta supporre, per esempio, che i geni interessati alla novità siano 6 anzichè 5, perché la certezza della comparsa di un mutante risulti di 1 su 100 miliardi di miliardi di anni!  Dato che la cosmologia più recente assegna all’Universo una età di circa 20 miliardi di anni (43), si può ritenere assurda ogni ipotesi che faccia ricorso al caso come a fonte di variabilità vantaggiosa, sia in ambiente pre-vivente che in ambiente vivente.

Salet riassume quanto succintamente ho esposto nel seguente principio generale: “Se una costruzione nuova necessita di n nuovi geni, il tempo necessario perché mutazioni geniche conferiscono loro il carattere voluto è una funzione esponenziale di n rapidamente crescente. Tempi largamente superiori a quelli delle ere geologiche sono raggiunti per valori di n molto modesti  ” (44).

Conclusione

Questo principio, e i calcoli da cui deriva, non hanno trovato smentita di nessun genere. Ed è anche molto inverosimile che possano trovarne. L’atteggiamento evoluzionistico è, di solito, quello di ignorare le difficoltà e le obiezioni e di passare oltre, giocando sulla ignoranza dei molti e su fattori emotivi. Tra questi ultimi trova posto, senza dubbio, la convinzione diffusa che una risposta non scientifica a un problema posto dalla scienza, quale è quello relativo alla origine e alla varietà dei viventi, sia una sorta di capitolazione dell’intelletto, l’ammissione di un limite.

In realtà, ciò che cade e si frantuma, di fronte alle grandi questioni, non è l’intelletto, ma l’orgoglio “originale” che rispunta, oggi, nelle vesti di una scienza egemone del reale, attraverso la tecnica, e intollerante verso ogni fatto che sfugga ai suoi metodi di indagine.

Nel costringere i limiti della conoscenza entro i rigori del principio fisico di indeterminazione, Max Born, premio Nobel per la fisica nel 1954, scriveva con disprezzo “Quello che sta al di là, gli aridi tratti della metafisica, lo lasciamo volentieri alla filosofia speculativa  ” (45).

Dal canto suo, la filosofia naturale e cristiana si fa carico di quegli “aridi tratti”, sorretta dall’antica e ispirata sapienza: “Vani [per natura] sono tutti gli uomini, cui manca la conoscenza di Dio,/ e che dai beni visibili non seppero conoscere Colui che è,/ né dalla considerazione delle opere riconobbero l’artefice./ Ma o il fuoco o il vento o l’aria mobile/ o il cielo delle stelle o la gran massa delle acque/ o il sole e la luna credettero dei, governatori del mondo./ Se dilettati dalla bellezza di tali cose le supposero dei,/ sappiano quanto più bello di esse è il loro Signore,/ giacché l’autore della bellezza creò tutte quelle cose./ Se furono colpiti invece dalla loro potenza ed energia,/ intendano da esse, che più potente di loro è colui che le produsse./ Dalla grandezza invero e dalla bellezza delle creature/ si può conoscere, per analogia, il loro creatore” (46).

LUCIANO BENASSI, Cristianità n. 95 (1983)

***

(1) In Giuseppe Sermonti e Roberto Fondi, Dopo Darwin. Critica all’evoluzionismo, Rusconi, Milano 1980, p. 16, chiedendosi se sia “possibile un evoluzionismo senza Darwin”, Sermonti risponde che “se si intende il vero spirito e la vera intenzione dell’evoluzionismo la risposta è no”.

(2) La corsa alle “prove” costituisce, nella storia dell’evoluzionismo, un capitolo a sé. Dalla ricerca dei cosiddetti “anelli mancanti” tra due gruppi di viventi al clamoroso falso paleontologico di Piltdown nel quale ebbe un ruolo attivo padre Teilhard de Chardin gli evoluzionisti non hanno mai tralasciato nulla che potesse confortare la validità della loro teoria. Così non è infrequente imbattersi in notizie come Un bimbo con coda conferma la teoria dell’evoluzione (il Giornale nuovo, 21-5-1982).

(3) Così Claudio Barigozzi, in il Giornale nuovo, 17-6-1982. Questo tour d’esprit è talmente frequente presso gli autori evoluzionisti che, si può dire, caratterizzi la logica dell’evoluzionismo stesso: non è più la teoria a sottostare ai dati della realtà, ma è la realtà a essere forzata entro le maglie rigide della teoria.

(4) Giuseppe Montalenti, Charles Darwin, Editori Riuniti, Roma 1982, pp. 117-118.

(5) Francois Jacob, Evoluzione e bricolage, gli “espedienti” della selezione naturale, Einaudi, Torino 1978, p. VIII.

(6) Ibid., p. 36. Sul carattere rivoluzionario del darwinismo cfr. anche Iring Bernard Cohen, La rivoluzione darwiniana, in Le Scienze, n. 172, dicembre 1982. L’autore – che in realtà è Victor S. Thomas, professore di storia della scienza ad Harvard – ritiene estremamente significativa l’affermazione fatta da Darwin a conclusione dell’Origine delle specie, l’opera con cui presentò al mondo scientifico la sua teoria. Scriveva Darwin: “Quando le opinioni sostenute in questo libro, od altre opinioni analoghe, verranno ammesse dalla generalità degli studiosi, si può prevedere oscuramente che vi sarà una grande rivoluzione nella storia della scienza” (Charles Darwin, L’origine delle specie, ed. originale del 1859 e app. con le varianti dell’ed. del 1872, trad. it., Newton Compton, Roma 1981, p. 557). Cohen commenta così: “Questo evento, una dichiarazione di rivoluzione in una pubblicazione scientifica formale, è apparentemente senza precedenti nella storia della scienza”. Interessante è ancora l’osservazione di Cohen sul fatto che “c’è un solo altro autore scientifico dell’epoca moderna che può essere paragonato a Darwin, […] ed è Sigmund Freud, un dato che mostra l’incredibile intuito che Freud ebbe quando, paragonò l’effetto prevedibile delle sue idee [sull’inconscio e sulla psicanalisi, ndr] a l’effetto di quelle di Darwin”.

(7) G. Montalenti, op. cit., p. 42.

(8) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977.

(9) Ibid., p. 189.

(10) Emanuele Samek Lodovici, Ma l’uomo non è solo una macchina, in Il Settimanale, anno 1980, n. 34-35.

(11) F. Jacob, La logica del vivente, tr. it., Einaudi, Torino 1971, p. 215.

(12) Ibidem.

(13) Ibidem.

(14) Idem, Evoluzione e bricolage, Gli “espedienti” della selezione naturale, cit., p. VIII.

(15) Ibidem.

(16) Ibidem.

(17) Ibid., p. IX.

(18) Cfr. Lucio Colletti, Marx era il suo miglior nemico, in Darwin. Come si diventa uomo, supplemento a L’Espresso, anno XXVII, n. 13, 4-4-1982.

(19) F. Jacob, La logica del vivente, cit., p. 207. Darwin, in pratica, ha negato la specie e il “tipo” o “modello” a cui ogni specie rinvia. Il mondo vivente è, per l’evoluzionismo, un grande sistema i cui elementi, tutti diversi, sono in continua trasformazione.

(20) Il problema è discusso in Harry Harris, Diagnosi prenatale e aborto selettivo, tr. it., Einaudi, Torino 1978.

(21) Clonazione è la tecnica con cui l’intero patrimonio cromosomico di un individuo viene introdotto in una cellula per ottenere un duplicato biologico dell’individuo stesso. Fino dal 1979 i ricercatori Karl Illmensee, svizzero, e Peter Hoppe, statunitense, hanno ottenuto topi clonati, primi tra i mammiferi a essere generati con questo trattamento. Il Corriere Medico del 13/14-1-1981, nel pubblicare un estratto del testo ufficiale con cui i due ricercatori presentavano l’esperimento, titola “profeticamente”: Oggi i topi, domani l’uomo.

(22) Cfr. Massimo Introvigne, Le origini della Rivoluzione sessuale, in Cristianità, anno VII, n. 54, ottobre 1979. L’autore osserva che il mutamento di interesse della Rivoluzione, dai fenomeni macrosociali a quelli microsociali, non è il segno di una “crisi” della Rivoluzione stessa. Al contrario, “il fine della Rivoluzione è la IV Rivoluzione”, ovvero si sono demolite le istituzioni cristiane per quindi demolire l’uomo naturale e cristiano.

(23) F . Jacob, La logica del vivente, cit., p. 375.

(24) P. Corrêa de Oliveira, op. cit., p. 117.

(25) Cfr. il servizio Il nonno perde il pelo, in Panorama, anno XIX, n. 772, 2-2-1981.

(26) Ibidem.

(27) Lo stesso fenomeno si verifica anche in altri settori della ricerca, che hanno immediate implicazioni di carattere filosofico o religioso. Chi scrive è a conoscenza, per diretta notizia da parte dell’interessato, di condizioni poste alla pubblicazione dei risultati di una analisi elettronica, estremamente raffinata, sulla Santa Sindone, da parte della redazione della rivista a cui il lavoro era diretto. La redazione era disposta a pubblicarlo purché l’autore rinunciasse al confronto con i Vangeli che si rivelavano, naturalmente, in pieno accordo con i risultati.

(28) Tra questi autorevoli ricercatori, merita di essere espressamente ricordato A. Ernst Wilder Smith. Sulla sua opera, cfr. Ermanno Pavesi, “Le scienze naturali non conoscono l’evoluzione”, in Cristianità, anno VII, n. 56, dicembre 1979.

(29) Cfr. George Salet, Hasard et certitude. Le Transformisme devant la biologie actuelle, Èditions scientifiques St-Edme, 2a ed., Parigi 1972. Allo stesso livello, anche se con carattere diverso, è da collocare il già citato testo di G. Sermonti e R. Fondi.

(30) Di Salet è uscito un utilissimo studio sul “caso Galileo”, in Courrier de Rome et d’ailleurs, anno XII, n. 11-12, Parigi maggio-giugno-luglio 1980.

(31) Per una confutazione delle teorie abiogeniche di Haldane e Oparin, cfr. G. Sermonti e R. Fondi, op. cit., pp. 162 ss. Sul pensiero e sulla teoria evoluzionistica di Teilhard de Chardin, cfr. Pier Carlo Landucci, Miti e realtà, La Roccia, Roma 1968.

(32) Cfr. G. Montalenti, L’avesse saputo Darwin, in Scienza e Vita nuova, anno IV, 4-5-1982. Montalenti riporta come “un classico” della evoluzione l’esempio della Biston betularia, la falena di cui sono sopravvissuti soltanto individui scuri. Quelli chiari, al tempo della rivoluzione industriale, risaltavano particolarmente sui tronchi di betulla ricoperti di fuliggine, diventando facile preda degli uccelli. Un tipico esempio di azione della selezione naturale è diventato un caso di evoluzione in atto!

(33) G. Salet, Hasard et certitude. Le Transformisme devant la biologie actuelle, cit., p. 212.

(34) Ibidem.

(35) Ibid., p. 214.

(36) Ibidem.

(37) Ammette F. Jacob, La logica del vivente, cit., p. 200, che “Darwin – per analizzare la variazione delle popolazioni – non ricorre a trattamenti matematici complessi, ma fa appello all’intuizione e al buon senso”.

(38) Il criterio per passare da 10 80 (= numero massimo di eventi possibili) a 10 -80 (= probabilità di un evento), è lo stesso che si applica nel noto caso del dado. Nel lancio del dado il numero massimo di eventi possibili è 6 (le sei facce dei dado), mentre 1/6 è la probabilità di uscita di una faccia.

(39) G. Salet, op. cit., p. 107. Il valore 10 -80 è stato arrotondato, per comodità di calcolo, a 10 -100 e ciò non cambia la validità della dimostrazione. Il teorema è, in realtà, il corollario di una proposizione più generale, enunciata per la prima volta da É. Borel e nota come “legge unica del caso”. Per brevità non ho ritenuto di citarla in questa sede, anche se l’autore ne fa oggetto di una lunga analisi concettuale e matematica.

(40) Cfr., su questo argomento, l’ottima esposizione di R. Fondi, in G. Sermonti e R. Fondi, op. cit., pp. 233-274.

(41) La formula scritta della probabilità totale di eventi indipendenti come prodotto delle probabilità dei singoli eventi può risultare più chiara ricorrendo a un esempio immediato. Nel lancio di un dado, come si è detto, la probabilità di ottenere un numero, per esempio 4, è 1/6. Nel lancio di una moneta, invece, la probabilità di ottenere, per esempio, “testa” è 1/2. Nel lancio di dado e moneta la probabilità di ottenere 4 e “testa” è proprio 1/6 x 1/2 = 1/12.

(42) Procedendo con l’esempio del dado, si può ritenere, con buona approssimazione, che, su 6000 lanci, il numero di volte in cui uscirà 4 sarà circa 1/6 x 6000 = 1000.

(43) Cfr. Venzo de Sabbata, Universo senza fine. Attualità in astrofisica, Corso, Ferrara 1978, p. 162.

(44) G. Salet, op. cit., p. 156.

(45) Max Born, Fisica atomica, tr. it., Boringhieri, Torino 1968, p. 384.

(46) Sap. 13, 1-5.

FEDE, SCIENZA E FALSI MITI NELLA COSMOLOGIA CONTEMPORANEA

da un saggio di Luciano Benassi

Gli studi sulla “nuova religiosità” hanno contribuito in modo rilevante a svelare il carattere profondamente ambiguo della modernità. In particolare, hanno mostrato come modernità scientifico-positivista e credenze mitiche non siano affatto, come comunemente si crede, due mondi fra loro irriducibili, ma piuttosto due facce della stessa medaglia, fra le quali si dipana una fitta rete di rapporti psicologici, storici e sociologici. È interessante osservare come questi studi, nati dall’esigenza di comprendere le tendenze religiose della nostra epoca, trovino un’ulteriore conferma in quelli più seriamente attenti a cogliere, per parte loro, le tendenze del pensiero scientifico contemporaneo. È quanto appare, felicemente, nell’opera di uno dei maggiori storici della scienza viventi (caspita! n.d.r.), il monaco benedettino Stanley L. Jaki, e, in particolare, nello studio “Dio e i cosmologi”, in cui l’analisi delle scoperte più recenti nel campo della cosmologia è occasione per una riflessione sul rapporto fra il significato dell’impresa scientifica e la nozione di Dio nel contesto culturale in cui essa si svolge.

L’autore

Stanley L. Jaki nasce a Györ, nell’Ungheria nord-occidentale, il 17 agosto 1924. Terminate le scuole superiori, a diciotto anni entra nell’ordine benedettino e il 13 maggio 1944 fa la professione religiosa. Dopo aver completato gli studi universitari in filosofia, teologia e matematica, nel 1947 è a Roma per conseguire la tesi di laurea in teologia presso il Pontificio Istituto Sant’Anselmo; e qui, nel 1950, riceve il dottorato. Intanto il 29 giugno 1948 era stato ordinato sacerdote. Nel 1951 è negli Stati Uniti d’America — di cui prenderà la nazionalità — per insegnare teologia sistematica e contemporaneamente seguire corsi di storia americana, letteratura, matematica e scienze allo scopo di ottenere il riconoscimento degli studi universitari compiuti in Ungheria. Negli Stati Uniti d’America consegue prima la laurea in Scienze e poi, nel 1957, il dottorato in Fisica, con una tesi condotta sotto la direzione di Victor F. Hess, lo scopritore dei raggi cosmici, premio Nobel per la fisica nel 1936.

Da quel momento i suoi interessi si spostano decisamente verso la storia e la filosofia della scienza, che diventeranno il campo principale della sua multiforme attività intellettuale e della sua abbondante produzione scientifica. Gli anni dal 1958 al 1960 lo vedono ricercatore di storia e filosofia della fisica presso le università di Stanford e di Berkeley, mentre nel biennio successivo è Visiting Fellow all’università di Princeton per un programma di ricerca nella stessa disciplina. Nel 1965 diviene docente alla Seton Hall University, nel New Jersey, di cui è attualmente professore emerito. Negli anni 1975 e 1976 è chiamato come professore all’università di Edimburgo nell’ambito delle prestigiose Gifford Lectures, un ciclo di conferenze che dal 1887, per volontà di Lord Adam Gifford, si svolge nelle quattro università scozzesi con lo scopo di promuovere lo studio della teologia naturale. Nel 1977 svolge lo stesso incarico presso il Balliol College di Oxford, nell’ambito delle Fremantle Lectures.

Associato a numerosi sodalizi scientifici e culturali è, fra l’altro, membro onorario della Pontificia Accademia delle Scienze e, dal 1986, membro corrispondente dell’Académie Nationale des Sciences, Belles-Lettres et Arts di Bordeaux. Nel 1987 è stato insignito del premio Templeton.

Da oltre trent’anni l’opera dello storico della scienza dom Stanley L. Jaki O.S.B. si caratterizza per due elementi originali e decisivi: da un lato il senso profondo dell’unità della conoscenza e, dall’altro, un altrettanto profondo sentimento dell’oggettività del reale. Si tratta di due atteggiamenti che hanno portato lo studioso benedettino a pensare il cammino della scienza e quello verso Dio come un unico percorso intellettuale. In aperta polemica con la cultura dominante, che considera scienza e fede come due termini irriducibili e contrapposti, tutta la sua opera è volta ad affermare la connessione esistente fra conoscenza scientifica e conoscenza di Dio, una connessione a tal punto intima e stretta da giustificare la conclusione secondo cui la scienza è nata e si è sviluppata, dopo secoli di tentativi regolarmente abortiti — si pensi alle antiche civiltà cinese, indiana e greca —, solo all’interno di una cultura permeata dalla convinzione che la mente umana sia capace di cogliere, nelle cose e nelle persone, un segno del loro creatore. Si tratta di un approccio teologico alla storia della scienza che rovescia molti luoghi comuni e molte leggende, come quella che considera il Medioevo cristiano un’epoca di oscurantismo e di superstizione. Nell’opera di dom Stanley L. Jaki, infatti, i secoli della Cristianità medioevale sono quelli in cui l’inculturazione della fede in un Dio personale, trascendente, razionale e creatore di tutte le cose, ha posto le condizioni per lo sviluppo dell’indagine scientifica della natura.

Questo approccio teologico alla storia della scienza è usato da dom Stanley L. Jaki per esaminare lo stato della scienza anche in tempi più vicini a noi; e particolarmente alla fisica del nostro secolo egli rivolge le critiche più stringenti, denunciandone i presupposti idealistici e la sostanziale rinuncia a un genuino sforzo conoscitivo. In questo ambito la sua attività di polemista e di conferenziere costituisce una puntuale e documentata opera di risposta a quell’abbondante pubblicistica scientifico-divulgativa che, dai mass media, si riversa sul grande pubblico accreditando l’idea di una “scienza totale”, in grado di spiegare non solo il come dei fenomeni, ma anche il perché dell’esistenza di tutto, della materia e dello spirito.

Fra le opere più significative di dom Stanley L. Jaki, autore di oltre trenta volumi e di più di settanta articoli, si possono ricordare The Relevance of Physics, “La portata della fisica”, Brain, Mind and Computers, “Cervello, mente e calcolatori”, che gli è valso il premio Le Comte du Noüy nel 1970, Science and Creation: from Eternal Cycles to an Oscillating Universe, “Scienza e creazione: dai cicli eterni a un universo oscillante”, The Road of Science and the Ways to God, “La strada della scienza e le vie verso Dio”, che raccoglie il ciclo delle Gifford Lectures tenute dall’autore, Cosmos and Creator, “Cosmo e creatore”, Angels, Apes and Men, “Angeli, scimmie e uomini”, Uneasy Genius: the Life and Work of Pierre Duhem, “Un genio scomodo: la vita e l’opera di Pierre Duhem”, Chesterton: a Seer of Science, “Chesterton: un profeta della scienza”, Chance or Reality and Other Essays, “Caso o realtà e altri saggi”, e The Savior of Science, “Il Salvatore della scienza”.

“Dio e i cosmologi”

Dio e i cosmologi è una delle poche opere di dom Stanley L. Jaki pubblicata in lingua italiana e raccoglie, in forma ampliata, il ciclo di otto conferenze da lui svolte al Corpus Christi College di Oxford sul finire degli anni Ottanta. Il volume costituisce un felice tentativo di restituire dignità al dibattito cosmologico, offrendo al lettore la possibilità di accostare in modo serio una tematica la cui oggettiva difficoltà, sia scientifica che filosofica, è resa più acuta dall’apparire di volgarizzazioni e di banalizzazioni, soprattutto della cosmologia scientifica. Infatti, come lo stesso autore sostiene nell’Introduzione, il grado di certezza oggi raggiunto da questa disciplina può essere di grande aiuto per impostare correttamente la riflessione sullo statuto metafisico dell’universo e con ciò contribuire alla riconquista della nozione di Dio creatore, che è alla base di ogni approccio religioso al reale.

Veri e presunti nemici della scienza

Nel primo capitolo, L’universo riconquistato, dom Stanley L. Jaki descrive il travaglio culturale che portò, nel volgere dei trecento anni dalla fine del Cinquecento all’inizio del secolo XX, all’identificazione dell’universo come oggetto d’indagine scientifica. Che si sia trattato di un travaglio e non di una nascita improvvisa è prova il fatto che solo dal 1917, con la pubblicazione da parte di Albert Einstein di un saggio sulle conseguenze cosmologiche della sua teoria della relatività generale, si può parlare dell’universo come di un oggetto indagabile scientificamente. Al contrario, nei tre secoli che vanno dalle prime osservazioni celesti con il telescopio fino ai primi anni del Novecento, la nozione scientifica di universo ha più volte rischiato di abortire e certo non per colpa dell’oscurantismo clericale. Secondo lo studioso benedettino, a costituire una minaccia per la nascita scientifica dell’universo furono l’idea della sua infinità e, conseguentemente, della sua eternità, ciò che lo avrebbe sottratto a ogni possibile “misura” scientifica in quanto privo di limite e di durata, le due qualità indispensabili perché la scienza possa operare secondo il proprio statuto gnoseologico.

Il “partito” dell’infinità cosmica, poco numeroso nel corso del secolo XVIII, era tuttavia fortemente caratterizzato: “Ben pochi intorno al 1700, o anche più tardi, proposero un universo infinito, e solo uno scienziato o cosmologo tra di loro: Edmund Halley, noto per il suo ateismo e per la sua involuta difesa di un universo infinito e omogeneo. Coloro che appoggiarono l’idea di un universo infinito, filosofi per la maggior parte, quasi invariabilmente vi videro una comoda scusa per fare a meno di un Dio veramente trascendente”. E si tratta di Giordano Bruno e Jacob Boehme con il loro panteismo cosmico, di Baruch Spinoza, degli illuministi tedeschi, di Immanuel Kant e degli idealisti. In particolare fu il filosofo di Koenigsberg a intuire meglio di altri “[…] il ruolo fondamentale svolto dall’ammissione dell’universo nella valutazione della fede nel Creatore” e a suggerire “[…] la genesi di un universo infinito come unico universo che sarebbe potuto scaturire dalle mani di un Creatore con poteri infiniti”. Naturalmente questa ansia di infinito, che in Immanuel Kant si spinse fino a ipotizzare un numero infinito di universi, non era dettata da zelo religioso, ma dal postulato idealistico della inconoscibilità del reale. Secondo dom Stanley L. Jaki, in questo consiste propriamente la minaccia portata dall’infinità cosmica: la sostituzione del mondo reale con gli enti prodotti dalla ragione, una ragione libera da ogni sottomissione a un Creatore che, al contrario, può essere conosciuto solo se vi è un universo reale. Naturalmente ciò non impedì che l’universo tornasse “[…] ad essere un concetto valido”, ma il disagio idealistico nei confronti di un cosmo reale fece sì che gli uomini di scienza e di filosofia dei primi decenni del secolo XX non apprezzassero adeguatamente il ritrovamento. Del resto ancora oggi — secondo dom Stanley L. Jaki — scienziati e filosofi, ma il discorso riguarda anche “[…] preti, ecclesiastici e cristiani in generale, devono […] rendersi conto che il maggior sviluppo nella cosmologia scientifica sta nella testimonianza che l’universo è stato riconquistato”.

La contingenza dell’universo

Nel secondo capitolo, Nebulosità dissipata, l’autore affronta la questione della specificità dell’universo, così come essa è venuta rivelandosi grazie all’apporto della cosmologia scientifica. Il fatto che l’universo fisico sia caratterizzato da grandezze in qualche modo misurabili, quali la massa totale e il raggio massimo, pone immediatamente la domanda sul perché questi valori e non altri, equivalente alla domanda sul perché questo universo e non un altro. La specificità del nostro universo rimanda, in altri termini, alla sua contingenza perché, essendo sempre possibile immaginarne uno diverso da quello che conosciamo, non vi sono ragioni apparenti perché esista, appunto, questo e non un altro.

Ma la cosmologia scientifica, secondo lo studioso benedettino, non ha solo rivelato il carattere specifico dell’attuale scenario cosmico: le ricerche compiute nel secolo XX hanno esteso tale specificità fino ai suoi primissimi istanti di vita, delineando un quadro coerente dal profondo significato metafisico. Infatti, “le numerose prove interdipendenti raccolte fino ad ora smentiscono ampiamente gli schemi pseudofilosofici che fanno apparire l’origine del cosmo come si trattasse di una semplice cosa”, tale da costituire “[…] una scusa valida per ignorare altri interrogativi su di essa”. Immaginare che l’universo, nelle sue prime fasi, fosse semplice è certamente legittimo; l’errore consiste, piuttosto, secondo dom Stanley L. Jaki, nel suggerire, attraverso tale semplicità, la “visione indolente” secondo cui “[…] ciò che “sembra” totalmente semplice può esistere senza essere anzitutto creato”. Quello della semplicità è anche uno dei grandi obiettivi della fisica moderna, protesa a generalizzazioni sempre più ampie e a unificazioni sempre più stringenti. A questo proposito lo studioso benedettino avverte che “[…] il mondo fisico può alla fine essere ridotto, per quanto riguarda il computo delle sue proprietà da parte dei fisici, ad una singola forma con un paio di costanti. Ma persino a quella semplicità non mancherebbero forti specificità che produrrebbero quindi, salvo che in menti deliberatamente inerti, il problema del perché queste specificità siano di questa e non di qualche altra grandezza”. In definitiva, per quanto semplice possa essere descritto, “un universo, dimostrato dalla scienza come reale e specificamente tale, indicherà senza fallo un’origine al di là delle sue fasi specifiche, un fattore metafisicamente oltre l’universo”. D’altra parte, conclude l’autore, “[…] lo scopo primario della specificità delle cose non è quello di rendere possibili meri giochi quantitativi, ma di aiutare a riconoscere la vera realtà delle cose e la Realtà che le rende reali”.

Il mito dell’eternità dell’universo

Il misconoscimento dei dati oggettivi forniti dalla cosmologia scientifica e il rifiuto di considerarli in una corretta prospettiva metafisica non producono soltanto gli errori relativi all’infinità dell’universo e alla “nebulosità” delle sue origini: nel terzo capitolo, Lo spettro del tempo, l’autore descrive anche l’errore eternalista, ovvero la tesi secondo cui l’universo può essere infinito come durata. La transitorietà del cosmo si affacciò sulla scena scientifica verso la fine degli anni 1920, quando, dalle equazioni di campo gravitazionale, si cominciarono a ricavare soluzioni non statiche, ovvero dipendenti dal tempo, e le osservazioni astronomiche rivelarono “[…] che l’universo era di fatto soggetto ad uno specifico moto globale, e ad un’espansione, che è sempre un segno di transitorietà”: basti pensare alla crescita del corpo umano, specialmente nel caso in cui tale crescita sia esagerata. “Da allora — osserva dom Stanley L. Jaki — l’universo è stato ossessionato dallo spettro dello scorrere del tempo verificabile scientificamente, e gli sforzi che ebbero la pubblicità più ampia nella cosmologia scientifica moderna furono quelli che miravano a dissolvere quello spettro”. Questo fatto fu particolarmente evidente nei paesi a regime comunista, e specialmente in Unione Sovietica, dove “i cosmologi scientifici […] non potevano far altro che adottare la linea del partito. Secondo quell’ideologia l’eternità della materia era un dogma “scientifico” [fin] dalla pubblicazione della prima autorevole interpretazione comunista della scienza, l’Anti-Düring di Engels”, e come tale condizionò la ricerca cosmologica — e i ricercatori — fino alla fine degli anni 1970. In Occidente, al contrario, la sollecitudine con cui molti cosmologi appoggiarono la causa dell’eternità della materia non poteva essere il riflesso di una paura di ritorsioni politiche. Secondo dom Stanley L. Jaki, questa disponibilità “[…] riflette la logica secondo la quale un occidente che progressivamente si allontana dal cristianesimo opta naturalmente per il materialismo”, la cui adozione implica altrettanto “[…] naturalmente il desiderio di avere notizie “scientifiche” che annuncino che l’universo […] non avrà mai un giorno del giudizio”. La teoria dello stato stazionario, proposta nel 1947 da Thomas Gold e da Hermann Bondi e successivamente propagandata dalla radio britannica nel corso di quattro celebri trasmissioni, tendenziosamente orientate in suo favore, rispondeva a questo desiderio. Il cuore della teoria è la creazione continua di materia: atomi di idrogeno comparirebbero continuamente dal nulla in quantità tale da bilanciare la diminuzione di densità dovuta all’espansione dell’universo. In questo modo il paesaggio cosmico, pur allargando il proprio orizzonte a causa dell’espansione, rimane identico a sé stesso e, quindi, immune al trascorrere del tempo. La teoria ebbe una notevole diffusione negli anni 1950, soprattutto grazie a una massiccia propaganda attraverso opere divulgative, per poi tramontare all’inizio degli anni 1960, di fronte all’incalzare dell’evidenza sperimentale — nessuno osservò mai un protone apparire dal nulla —, ma non, come ci si sarebbe atteso, sotto il peso della sua povertà metafisica. Tanto è vero che l’eternalismo, lungi dall’essere abbandonato, continua ancor oggi a rappresentare la speranza soggiacente di molte ricerche e il tema dominante delle teorie cosmologiche che comportano un universo chiuso.

La chiusura dell’universo implica che alla fase espansiva, originata da un’immane esplosione — il Big Bang, che molto verosimilmente ha dato origine all’universo —, debba seguire una fase di contrazione o collasso gravitazionale — il Big Crunch —, che si concluderebbe con la sua annichilazione. Alcune teorie si spingono a ipotizzare che tali cicli di espansione-contrazione si susseguano indefinitamente e che noi stiamo vivendo nella fase espansiva di una di queste infinite oscillazioni. Secondo dom Stanley L. Jaki è facile scorgere nella teoria dell’universo oscillante una forma di eternalismo, dove l’eternità è assicurata dal numero infinito di cicli anziché riguardare la durata di un unico ciclo: una sorta di riedizione, in chiave scientifica, del mito dell’eterno ritorno. Ma proprio dal punto di vista strettamente scientifico egli rileva che non vi sono mai stati elementi sperimentali tali da suggerire l’idea del collasso gravitazionale o tali da far propendere per essa.

Il mito della teoria definitiva

Nel quarto capitolo, L’ombra di Gödel, l’autore approfondisce il tema della contingenza dell’universo, riapparso di prepotenza nel dibattito cosmologico attraverso le cosiddette “teorie del tutto” o “teorie definitive”: queste, nella loro versione estrema, tentano di ridurre a un’unica formula l’intera fenomenologia fisica, essendo fondate sul duplice postulato che l’universo non può non esistere e non può non essere quello che è. In altri termini, secondo tali teorie, l’universo avrebbe in sé le ragioni della propria esistenza e questa autoconsistenza dovrebbe emergere dallo stesso apparato fisico-matematico con cui viene descritto il mondo fisico. Ma — sostiene dom Stanley L. Jaki — anche “[…] quando un fisico considera scontata l’esistenza di un universo molto reale, il quale esiste anche quando egli non ci pensa, lascia aperte questioni sulla sua contingenza, ossia sulla sua dipendenza ontologica da una Realtà che è al di là o dietro ad es-sa”.

La ricerca di una teoria definitiva è il tema conduttore di un’opera, Dal Big Bang ai buchi neri (36), divenuta ben presto un successo mondiale sia per la fama del suo autore, il fisico-matematico inglese Stephen W. Hawking, titolare della cattedra lucasiana di matematica a Cambridge, sia per l’imponente battage pubblicitario che ne ha accompagnato l’uscita, accreditandola come l’ultima parola in materia di questioni fondamentali come lo spazio, il tempo, la creazione e Dio. La critica che lo studioso benedettino muove a quest’opera, esemplare di una pubblicistica scientifico-divulgativa molto diffusa, è costruita intorno alla confusione che il suo autore compie fra il piano della fisica e quello della filosofia nel corso dell’indagine cosmologica: si tratta di una confusione che rovescia l’ordine della conoscenza e lo stesso statuto ontologico degli enti e dei sistemi oggetto dell’indagine. Ignorando che “[…] l’universo esiste anche quando i cosmologi non scrivono equazioni esoteriche su di esso”, avviene che le equazioni, anziché presupporre l’esistenza dell’universo, finiscono per diventarne garanti. Di qui, afferma dom Stanley L. Jaki, le domande, invariabilmente lasciate senza risposta, di cui è disseminato il libro di Stephen Hawking: perché l’universo esiste? La teoria definitiva può non esistere? Oppure ha bisogno di un Creatore? E chi ha creato il Creatore? Domande che testimoniano come anche la mente più brillante possa smarrirsi se rifiuta di compiere quel passo fondamentale verso la metafisica cui dovrebbe spingerla la ricerca della comprensione completa dell’universo. Tale ricerca costituisce infatti una “[…] domanda metafisica sull’esistenza di un Creatore che, scegliendo un mondo specifico, decide perché il mondo diventi quello che è, quale sia il motivo per cui esiste”

Una teoria, come quella “definitiva”, che avanzi la pretesa di essere completa, cioè di spiegare tutto, e, quindi, anche sé stessa, non può, secondo dom Stanley L. Jaki, non confrontarsi con i teoremi di Gödel, evocati nel titolo del capitolo. Kurt Gödel, studioso austriaco di logica naturalizzato statunitense, pubblicò nel 1931 un articolo sulla completezza dei sistemi non banali di proposizioni aritmetiche: secondo quello studio, divenuto celebre, nessun sistema di tale natura può contenere la prova della sua coerenza. Solo successivamente, però, si cominciò ad apprezzare l’enorme portata della “prova di Gödel” e a capire che il suo campo di applicazione andava ben oltre l’aritmetica, potendosi estendere a ogni insieme non banale di proposizioni, quindi anche alle “teorie del Tutto”, relative alla comprensione dell’universo. Ma tale estensione condanna irrevocabilmente ogni teoria definitiva: infatti, come può una teoria che si definisce necessariamente vera non contenere in sé la prova della propria coerenza, come appunto vietato dai teoremi di Gödel? Si tratta, afferma lo studioso benedettino, di una “contraddizione in termini” da cui deriva “[…] la principale conseguenza dei teoremi di Gödel sulla cosmologia, ossia che la contingenza del cosmo non può essere contraddetta”. Tuttavia egli mette in guardia anche da una eccessiva confidenza nel loro utilizzo, che porterebbe ad attribuire a essi quel carattere ontologico, che essi giustamente sottraggono ai sistemi di proposizioni. Infatti, la coerenza di un sistema di proposizioni nulla aggiunge o toglie all’esistenza dell’oggetto cui si riferisce, in quanto, “[…] a meno che non si consideri la propria certezza della realtà immediatamente percepita come il primo fondamento affidabile, non c’è una base per ritenere con sicurezza una qualsiasi realtà, tanto meno la realtà dell’universo”.

Gli idoli della “nuova fisica”: il nulla, il caso, il “caos”

Nei due capitoli successivi lo studioso benedettino introduce il lettore alle questioni implicate dalla meccanica quantistica, la branca della fisica che ha come oggetto la dinamica dei sistemi atomici e subatomici e che, per questo, comporta una riflessione sulla struttura intima del mondo materiale, sulla nozione di causalità e, in ultima istanza, sulla relazione fra l’apparente determinismo che governa l’universo e la libertà della mente umana. La critica che l’autore svolge nel quinto capitolo, Tartarughe e tunnels, riguarda, in particolare, l’interpretazione antirealista del principio di indeterminazione, il caposaldo concettuale di tutta la meccanica quantistica. Formulato nel 1927 dal fisico tedesco Werner Heisenberg, il principio di indeterminazione stabilisce l’impossibilità, a livello quantistico, di misurare con qualsivoglia precisione coppie di grandezze fisiche complementari come la posizione e la velocità oppure l’energia e il tempo. È da notare che non si tratta dell’imprecisione o indeterminazione, inevitabile, dovuta allo strumento di misura: il principio intende sancire un’indeterminazione intrinseca al mondo subatomico, una specie di “soglia”, che divide il mondo osservabile da un mondo dove sono possibili anche comportamenti non fisici.

La critica che dom Stanley L. Jaki muove alla meccanica quantistica non mette in discussione gli innegabili successi operativi della teoria, quanto piuttosto le interpretazioni che uomini di scienza e di filosofia hanno dato del quadro concettuale da essa implicato. L’interpretazione ancor oggi dominante risale alle riflessioni prodotte, sul finire degli anni 1920, dalla Scuola di Copenaghen, il circolo scientifico raccoltosi intorno al fisico danese Niels Bohr, che per primo formulò un modello dell’atomo — per molti versi definitivo — fondato proprio sui princìpi quantistici. Secondo la Scuola di Copenaghen il fattore quantico rende priva di senso ogni domanda sulla realtà del mondo atomico e subatomico, mentre il principio di indeterminazione sancirebbe, almeno a quel livello, l’inapplicabilità di ogni rapporto causale. Il misconoscimento del “[…] fatto importantissimo che la teoria fisica non riguarda l’”essere” di per sé, ovvero l’ontologia, ma solo gli aspetti quantitativi delle cose che esistono già” è — secondo dom Stanley L. Jaki — all’origine della radicalità antimetafisica dell’interpretazione della Scuola di Copenaghen e delle sue aberranti conseguenze, anche in campo cosmologico. Infatti, una volta ammesso che “[…] la causalità di un processo fisico dipende dalla sua esatta misurabilità”, ovvero che “[…] l’incapacità dei fisici di misurare la natura con esattezza […] [dimostra] che la natura […] [è] incapace di agire con esattezza”, è stato possibile nascondere dentro il cappello a cilindro dell’indeterminazione tutto quanto la fisica non è in grado di spiegare. A questo proposito dom Stanley L. Jaki attira l’attenzione sull’importanza che la nozione di nulla ha assunto nella teoria quantistica: dal nulla quantistico possono infatti apparire materia, energia e perfino lo stesso universo, anzi infiniti universi. L’esito di un simile modo di pensare è, naturalmente, la fantascienza, come suggerisce lo studioso benedettino commentando una sentenza divenuta celebre negli ambienti della cosmologia scientifica, e cioè che “l’universo in definitiva potrebbe essere un pasto gratis”: quasi a dire che l’apparizione dell’universo non è poi un fatto così singolare come si potrebbe credere. L’affermazione è del noto cosmologo statunitense Alan H. Guth, autore della teoria inflazionaria dell’universo, il quale, molto coerentemente, sostiene pure che, per quel che ne sappiamo, “il nostro universo potrebbe essere stato creato nello scantinato di uno scienziato di un altro universo”. Queste farneticazioni, soprattutto quando provengono da scienziati di grido, sono avvertite non come tali, ma come un’espressione dell’”umiltà” con cui la scienza, nel corso degli ultimi secoli, avrebbe rivelato agli uomini la marginalità della terra nell’universo. Secondo questa prospettiva, che trasforma inopinatamente la reale marginalità cosmica della terra in una marginalità assoluta, neppure l’universo può godere di uno statuto particolare e pertanto deve essere considerato un incidente del “caso”. Si tratta, con ogni evidenza — osserva dom Stanley L. Jaki —, di una “[…] farsesca dimostrazione di umiltà”, che nasconde il “[…] disprezzo per la capacità dell’uomo di dedurre dalla natura il Dio della natura”.

Nel sesto capitolo, Dadi truccati, l’autore sembra invitare il lettore a una sana cautela anche verso il dibattito aperto dall’irruzione dei concetti di caso e di caos nella fisica contemporanea. Si tratta di un dibattito che i mass media orientano costantemente in senso antirealista, attribuendo al caso e al caos possibilità ordinatrici e sorvolando sul fatto che “un caos non può mai essere un tutto, ovvero una coordinazione delle parti, senza con questo cessare di essere un caos degno di questo nome”. L’opera Order out of Chaos. Man’s New Dialogue with Nature, “Ordine dal caos. Nuovo dialogo dell’uomo con la natura”, di Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, è — secondo dom Stanley L. Jaki — un esempio rivelatore delle contraddizioni e delle difficoltà in cui si dibattono i sostenitori del caso: infatti, “l’indeterminazione radicale [che] avvolge tutto in quel libro” non solo non offre una risposta su cosa sia il caso, anche solo come formalismo matematico, ma finisce per coinvolgere anche la nozione stessa di Dio. Quindi non stupisce la conclusione del monaco benedettino, secondo cui “[…] non è il Creatore della Bibbia ma quello del Talmud che Prigogine e Stengers trovano congeniale al loro pensiero. Quel “creatore” non dice che tutto è andato molto bene, ma semplicemente: “Speriamo che funzioni”. E ciò che è peggio, lo dice solo dopo che ha fatto due dozzine di tentativi e di sbagli per creare un universo”.

Dalla terra al cosmo

Con il settimo capitolo, La fortuna della terra , si apre idealmente la seconda parte di Dio e i cosmologi. Dopo la critica circostanziata svolta nei capitoli precedenti, dom Stanley L. Jaki guida il lettore alla ricerca degli elementi sui quali è possibile fondare una cosmologia scientifica, che sia autentica scienza del cosmo e non occasione di esercitazioni filosofiche di basso profilo. Per questa impresa egli parte dalla terra e dalle sue immediate vicinanze cosmiche: solamente da qui, infatti, gli uomini possono occuparsi di cosmologia e, a partire da qui, cioè dalla terra, dalla luna e dal sistema solare, possono riscoprire quelle caratteristiche di specificità il cui riconoscimento è la condizione necessaria per lo sviluppo della scienza. La “fortuna”, che costituisce il motivo conduttore del capitolo, è appunto la serie dei segni, naturali e storici, imprevedibili e inaspettati, attraverso i quali la scienza è giunta a vedere la luce nel Medioevo cristiano, dopo innumerevoli brancolamenti nel buio.

 Secondo lo studioso benedettino, il primo caso di fortuna è quello di Eratostene di Cirene, che misurò con notevole precisione la circonferenza della terra grazie a una serie impressionante di circostanze geografico-astronomiche estremamente particolari: infatti, “[…] non fu possibile dare inizio proficuamente alla comprensione scientifica dell’universo finché la terra non fu letteralmente misurata più di duemila anni fa”. Tuttavia, prosegue dom Stanley L. Jaki, le felici circostanze che permisero a Eratostene di elaborare il suo metodo, non sarebbero state sufficienti a far sì che la cosmologia si avviasse a diventare una scienza della natura “[…] se la terra non fosse stata accompagnata dalla luna, che merita di essere definita come la più grande fortuna della terra”.

Fortunata è anzitutto l’identità fra le dimensioni apparenti del sole e della luna, che consentì ad Aristarco di Samo, nel 150 a.C., di ricavare le dimensioni della luna, del sole e le distanze terra-luna e terra-sole in unità del raggio terrestre. Ma il punto in cui il sistema terra-luna rivela tutta la sua misteriosa specificità, con conseguenze inaspettate anche per la comprensione del sistema solare, riguarda l’origine stessa del nostro satellite. Fino alla metà degli anni 1970 le teorie più accreditate sulla formazione della luna erano varianti di quella proposta da Pierre Simon de Laplace, verso la fine del Settecento, a proposito della formazione del sistema solare, nota come ipotesi della nebulosa e i cui “[…] aspetti più discutibili […] sono rimasti parte integrante della prospettiva scientifica”. Debole dal punto di vista scientifico, essa resistette al tempo solo a causa del suo retroterra ideologico, di cui è testimonianza la celebre risposta che lo scienziato francese dette a Napoleone Bonaparte, incuriosito dal fatto che Dio non era nominato in una teoria sull’origine del mondo: “Sire, non ho bisogno di questa ipotesi”. Ma, “di fatto se c’è un aspetto del sistema solare che non si spiega tramite la teoria di Laplace, o tramite i suoi rimaneggiamenti successivi, è il sistema terra-luna”, che presenta vistose anomalie rispetto agli altri sistemi satellitari, soprattutto in termini di dimensioni e di rapporti di massa. Ora, secondo lo studioso benedettino, proprio questa diversità infligge un colpo mortale non solo alle teorie derivate dall’ipotesi laplaciana della nebulosa, ma anche al suo principale retaggio, ovvero “[…] alla spiegazione del nostro sistema solare come un fatto tipico che si presenterebbe in ogni cantuccio dell’universo. Naturalmente — osserva l’autore — potrebbe essere proprio così, ma tutte le prove offerte dalla teoria e dall’osservazione negli ultimi cent’anni indicano il contrario”. Tuttavia, se anche “[…] in questa situazione sconcertante fu chiaramente delimitata la direzione da seguire, ciò è collegato con l’origine della luna”, spiegata però mediante una teoria non riconducibile a nessuna ascendenza laplaciana, la teoria del megaimpatto, secondo cui la luna sarebbe stata originata da una gigantesca collisione fra la terra e un corpo celeste con una massa di circa un decimo di quella terrestre. Ciò su cui l’autore richiama l’attenzione sono le numerose condizioni che devono essere soddisfatte simultaneamente affinché l’intero processo abbia luogo: se, da un lato, la teoria della collisione gigantesca “funziona” come spiegazione della formazione lunare, dall’altro essa suggerisce pure che un simile fenomeno è estremamente improbabile e che, a maggior ragione, è estremamente improbabile anche la formazione di un intero sistema planetario. Se ne deduce— afferma lo studioso benedettino — che è “essenzialmente aprioristica” la “[…] convinzione […] che i sistemi planetari debbano essere un aspetto onnipresente in tutto l’universo”.

Molte altre sono le coincidenze fortunate, elencate dall’autore, che fanno della terra un punto di osservazione privilegiato: tutto ciò — secondo dom Stanley L. Jaki — non è più soltanto una conferma dell’unicità del “fenomeno terra” dal punto di vista astronomico, ma lo è anche da quello biologico: e, a fare le spese di questa unicità, è il mito dell’evoluzione darwiniana, ovvero l’idea di un processo generalizzato e costante che pervaderebbe tutto l’universo e “[…] che ha necessariamente come risultato degli esseri intelligenti”. A questo proposito, egli osserva che la prospettiva scientifica moderna è a tal punto asservita al dogma culturale dell’evoluzione da assecondarne anche gli sviluppi più fantasiosi. Solo così, infatti, si possono spiegare i novanta milioni di dollari destinati dal Congresso degli Stati Uniti d’America, sul finire degli anni 1980, per finanziare un ambizioso progetto di “ascolto” di emissioni radio intelligenti provenienti dallo spazio. Le critiche, peraltro assai tiepide, che vengono mosse contro tali progetti e, in generale, contro l’idea del contatto con intelligenze extra-terrestri, secondo l’autore raramente colgono il cuore della questione, che è costituito, invece, dal significato stesso del comunicare. Infatti, “all’interno di una prospettiva genuinamente darwinista non ci sono i fondamenti per presumere che degli extra-terrestri […] possano comunicare, se non con i loro consanguinei. Di fatto, all’interno di questa prospettiva non ci sono i fondamenti per presupporre che svilupperebbero strumenti scientifici che, per come li conosciamo noi, sono intrinsecamente collegati con il nostro modo di concettualizzare e verbalizzare le nostre percezioni del mondo esterno”. D’altra parte — conclude l’autore — non vi sono neppure i presupposti per immaginare che lo stesso sviluppo scientifico sia un esito inevitabile dell’evoluzione tanto della specie umana quanto delle presunte civiltà extra-terrestri, come invece postula un altro mito di matrice darwiniana. Al contrario, l’unico sviluppo scientifico osservabile, cioè quello avvenuto presso la specie umana, è a tal punto costellato di coincidenze, di casualità e di “fortuna”, che parlare di una sua inevitabilità sarebbe quanto mai temerario.

Ma ciò che rende assolutamente inaccettabile questa tesi evoluzionista è, secondo l’autore, la constatazione che la scienza, anche prescindendo dalle “fortune” di cui si è detto, non sarebbe stata possibile senza la conversione di un’intera cultura alla religione cristiana, cioè alla fede in un Dio personale, creatore di tutte le cose “dal nulla […] [e] nel corso del tempo”, come avvenuto nei secoli della Cristianità medioevale. Infatti, il cristianesimo, introducendo la distinzione fra “il soprannaturale ed il naturale” in luogo della distinzione fra “le regioni celesti e quelle terrestri”, propria di tutti i paganesimi, “[…] permise […] di considerare le regioni celesti allo stesso livello del resto, e quindi governate dalle stesse leggi”. È questa fede “la più grande fortuna della scienza”, ed essendo fondata in “[…] Cristo, come unico Figlio generato in cui il Padre creò tutto”, cioè “[…] su un evento che certamente si qualifica come l’esatto contrario dell’inevitabilità”, essa non solo si oppone a ogni ipotesi evoluzionista, ma rende anche conto dello “[…] sviluppo del tutto inaspettato, per cui un sottoprodotto che si potrebbe presumere accidentale di cieche forze materiali ha una mente che gli permette di avere la padronanza intellettuale del cosmo”.

Dal cosmo a Dio

Nell’ultimo capitolo del volume, Cosmo e culto, dom Stanley L. Jaki porta a conclusione la riflessione sull’intimo legame esistente fra la cosmologia scientifica e la fede nel Creatore, messo in evidenza nel capitolo precedente. “Che il riconoscimento di una totalità rigorosa e coerente di tutte le cose, ovvero dell’universo, spinga logicamente verso un culto” nei confronti del Creatore è “una storia con molte pagine rivelatrici”. Infatti, se “[…] uno dei due culti che l’universo può ispirare” è il panteismo, in cui è l’universo stesso ad assumere connotazioni divine; l’altro, “[…] che adora il Creatore dell’universo, forma la base di tutte le religioni monoteistiche, ma con differenze considerevoli: tutte professano di essere le destinatarie di una rivelazione particolare riguardo al coinvolgimento diretto di Dio nella storia dell’uomo; tutte hanno la loro storia particolare della salvezza, da cui derivano la loro forza principale e la loro occasionale e, in alcuni casi, sistematica illusione; sono invece notevolmente differenti nella specificazione della misura in cui una visione dell’universo puramente razionale può essere una fonte per il riconoscimento dell’esistenza del Creatore e quindi una parte integrante di un culto monoteistico”. L’osservazione appare assai evidente se si considera l’accoglienza che l’argomento cosmologico ha ricevuto nelle diverse culture religiose monoteistiche. Secondo l’autore, “il solo luogo all’interno della cristianità in cui il culto del Creatore basato sull’argomento cosmologico è stato sistematicamente evidenziato è la Chiesa Cattolica Romana”. Naturalmente “questo non vuol suggerire che molti teologi e filosofi della Chiesa Cattolica Romana non siano stati influenzati dalle onde sempre ricorrenti di “intuizionismo” o di qualcosa di anche peggiore”, ma si può affermare che la solenne dichiarazione del Concilio Vaticano I “[…] sulla certezza grazie alla quale la ragione può riconoscere l’esistenza del Creatore dall’evidenza del cosmo” continua a essere un insegnamento ufficiale del Magistero. 

Tuttavia l’argomento cosmologico, secondo lo studioso benedettino, non costituisce solo la via più affidabile per la riconquista della nozione di Dio creatore, ma rappresenta anche un sano “allenamento mentale”, un’occasione per ricostituire la fiducia nell’intelletto e il bisogno di certezza, che la moderna cultura dell’assurdo si compiace di distruggere: infatti, il bagno di realismo e di concretezza cui obbliga la semplice constatazione della specificità delle cose consente all’uomo di sperimentare “[…] qualcosa di molto diverso da quel salto nel buio che tentano dolorosamente coloro che non hanno mai veramente sentito l’universo, e a volte nemmeno le semplici cose comuni, sotto i loro piedi. Il movimento verso Dio, per essere sicuro, non deve essere una separazione dall’universo. Il movimento consiste piuttosto nell’avvertire la pulsazione della contingenza cosmica, il fatto che l’universo indica implacabilmente qualcosa al di là di se stesso”. Tale, del resto — ricorda dom Stanley L. Jaki —, è l’esperienza di conversione che sant’Agostino riporta nel decimo libro delle Confessioni: “[…] ho chiesto del mio Dio a tutta la massa dell’universo, e mi ha risposto: “Io non sono Dio. Dio è colui che mi ha fatto”.

La leggenda nera e l’Inquisizione

di Vittorio Viccardi

Non v’è dubbio che l’Inquisizione sia ancora oggi uno degli istituti più demonizzati della storia, di quella della Chiesa in particolare. I libri scolastici la descrivono come strumento efficace, spietato ed infallibile, utilizzato dal Papato per affermare la propria egemonia e per condannare al rogo eretici e miscredenti. E molti tra gli studenti, ovviamente, rimandano a memoria questo insegnamento. Che i tribunali dell’Inquisizione fossero luogo di inenarrabili torture e di sadiche condanne (ci furono, in realtà, ben tre Inquisizioni: la medievale, la spagnola e la romana, ciascuna con una storia propria, ma per i più, purtroppo, questi sono dettagli irrilevanti) è opinione assai diffusa. Questa immagine nasce nel Cinquecento protestante, cresce nel Settecento degli Illuministi e si nutre con la letteratura popolare ottocentesca, ispirata dalla Massoneria. Come si vede, tutte fonti interessate, certamente non amiche della Chiesa. Sarà da vedere quanto siano storicamente attendibili. Gli effetti di tanto accanimento si vedono, eccome, anche in casa cattolica. Al solo pronunciare la parola “Inquisizione” i nostri ammutoliscono, si vergognano, si rifugiano in un imbarazzante “non so che cosa dire”. Non sempre è così, meno male. I più recenti studi storici stanno gradualmente modificando questa “leggenda nera” dell’Inquisizione, grazie ad una considerevole quantità di dati di cui si viene a conoscenza, che smascherano le falsificazioni e rendono possibile conoscere la verità. Ne emerge una Inquisizione diversa da quella comunemente denigrata, una Inquisizione non scevra da errori ed eccessi, certo, ma pur sempre limitati, circoscritti, subito corretti non appena denunciati. Insomma, sta emergendo con sorpresa una Inquisizione sostanzialmente mite e tutt’altro che sanguinaria. Lasciamo parlare i fatti. Nell’immaginario popolare, il termine Inquisizione è sinonimo, in primo luogo, di “tortura”. Chi non ricorda il film “Il nome della Rosa”, del regista francese Annaud, sceneggiato dalle pagine dell’omonimo libro di Umberto Eco? Quante altre immagini truculente nei film e nei libri: inquisitori sadici, celle buie e profonde, tenaglie e cavalletti, corpi straziati. Ora, qui – va detto chiaramente – ci troviamo di fronte, quasi sempre, ad immagini che rappresentano un autentico falso storico. In primo luogo: 1’inquisito non era affatto alla mercè del sadismo incontrollato di qualche boia occasionale. La tortura applicata dagli inquisitori – si applicava, allora, ovunque era regolata da norme e disposizioni ecclesiastiche molto precise, severe, che ne stabilivano liceità e procedure, rendendola, concretamente, molto meno dura di quanto si possa immaginare. E’ vero: la procedura inquisitoriale ha fatto ricorso alla tortura, che fu ordinata con la bolla Ad extirpanda di Papa Innocenzo IV nel 1252: “ll podestà o il rettore della città saranno tenuti a costringere gli eretici catturati a confessare e a denunciare i loro complici”. Ma nella bolla, tuttavia, si precisa – e questo si dovrà pur ricordare, qualche volta che la tortura degli imputati non doveva “far loro perdere alcun membro o mettere la loro vita a repentaglio”. Dunque, una tortura, si, ma senza spargimento di sangue e senza mutilazione alcuna. Niente a che fare con quel che sulla tortura ci hanno insegnato giudici e aguzzini dei moderni nostri tempi. Non solo: stando alle disposizioni ecclesiali, la tortura non poteva essere decisa arbitrariamente dal giudice inquisitore, ma necessitava del parere favorevole del Vescovo. Il fatto non è di poco conto: fu voluto proprio per scoraggiare qualche inquisitore troppo ansioso di ottenere confessioni, visto che, frequentemente, Vescovo e inquisitore non andavano d’accordo. E ancora: la tortura doveva essere applicata sotto stretto controllo medico, mai a vecchi e minori, e non poteva durare più di 15 minuti. Immaginiamo la quantità industriale di risate che queste norme avrebbero suscitato se proposte agli aguzzini di un lager nazista o comunista. Inoltre, la tortura – era stabilito – si poteva utilizzare una sola volta, non doveva essere ripetuta e la confessione eventualmente ottenuta non aveva alcun valore ai fini del processo, se non era confermata dall’imputato dopo due giorni ed in condizioni normali. Ora, a ben guardare, queste norme ci svelano che con il termine “tortura” si indicava qualcosa di sostanzialmente diverso da quanto ci hanno fatto vedere tribunali più recenti, questi si veramente crudeli. Nazionalsocialismo e Comunismo, in materia di tortura, non avevano certo nulla da imparare. Val la pena di aggiungere che nei processi inquisitoriali la tortura fu applicata con estrema cautela e solo in casi veramente eccezionali. I dati finora in nostro possesso parlano chiaro. Nelle 636 sentenze iscritte nel registro di Tolosa dal 1309 al 1323, la tortura fu applicata una sola volta. A Valencia, dal 1478 al 1530 si celebrarono 2354 processi e la tortura si applico solo 12 volte. Se i fatti hanno un senso, il giudizio storico sull’Inquisizione dovrà essere rivisto. Ne era consapevole anche lo storico Luigi Firpo, laicista doc, non credente, attento al vero storico più che alla propaganda: “(…) gli Ucciardone e le Rebibbia di oggi sono le vere bolge infernali rispetto alle troppo diffamante celle dell’Inquisizione, dove la vita era ritmata da regolamenti severi ma non disumani. Era, per esempio, prescritto che le lenzuola e federe si cambiassero due volte la settimana: roba da grande albergo […]. Una volta al mese i cardinali responsabili dovevano ricevere uno a uno i prigionieri per sapere di casa avessero bisogno”. E veniamo all’infamia più grave: la morte per rogo. L’Inquisizione non comminava la morte, per il semplice motivo che non era contemplata nel Codice di diritto canonico. Era una pena stabilita dal diritto penale e veniva eseguita dal braccio secolare, che applicava le pene previste dalle leggi civili. Fu Federico II di Svevia, tutt’altro che amico della Chiesa, a dichiarare per tutto l’Impero (1231-2) l’eresia come crimine di lesa maestà e a stabilire la pena di morte per gli eretici. Ogni sospetto doveva essere tradotto davanti ad un tribunale ecclesiastico e arso vivo se riconosciuto colpevole. E’ vero quindi che quando il Tribunale dell’Inquisizione abbandonava un eretico al braccio secolare, questi veniva condannato a morte dalla giustizia secolare, se non si pentiva; ma non era la Chiesa a condannare, ne ad eseguire la condanna. Grazie ai dati documentati storicamente, ci accorgiamo di quanto i tribunali dell’Inquisizione siano stati estremamente benevoli e prudenti nel consegnare al braccio secolare gli eretici non pentiti. Lo storico danese Gustav Henningsen ha analizzato statisticamente 44.000 casi di inquisiti tra il 1540 ed il 1700 ed ha rilevato che vi furono meno di cinquecento esecuzioni; solo 1’1%, quindi, venne giustiziato. Bernardo Guy, severo inquisitore, ha pronunciato dal 1308 al 1323 ben 930 sentenze e abbandonò al braccio secolare solo 42 condannati, a fronte di 139 assolti. Altri dati: 1’Inquisizione di Palmiers dal 1318 al 1324 giudicò 98 imputati e solo cinque di essi furono abbandonati al braccio secolare, mentre 25 furono assolti. Se nella storia ciò che conta sono i fatti, i fatti dicono che 1’Inquisizione fu più mite che crudele. E se stiamo a questi fatti, noi cattolici abbiamo poco da vergognarci. Il resto è propaganda.

Bibliografia:

Jean-Baptiste Guiraud, Elogia del1’Inquisizione, Leonardo Mondadori, Milano 1994. Jean-Pierre Dedieu, L’Inquisizione, Paoline, Cinisello B.mo (MI) 1990. Luigi Negri, False accuse alla Chiesa, Piemme, Casale Mon.to (AL) 1997. Franco Cardini [a cura di], Processi alla Chiesa, Piemme, Casale Mon.to (AL) 1994.

Pio XII: un grazie dagli Ebrei

di Vittorio Viccardi

“Dov’era e che cosa faceva la Chiesa Cattolica quando milioni di Ebrei venivano perseguitati dal totalitarismo nazista? Perché Papa Pio XII non condannò apertamente questo sterminio?”. Tra le accuse rivolte alla Chiesa Cattolica, questa è certamente una delle più infamanti  perchè chiama in causa l’operato di uno dei più grandi Papi del nostro secolo, se non di tutta la storia della Chiesa, Pio XII. Secondo l’accusa il Papa, tacendo per viltà e paura, sarebbe da considerarsi connivente con i colpevoli dell’Olocausto. In verità, se ci si attiene a quanto è veramente accaduto, non si può fare a meno di rilevare come la figura di Pio XII sia stata circondata da falsità ed inesattezze. Lo testimonia il fatto che anche tra gli stessi Ebrei non esiste unanimità di opinioni e non tutti condividono le critiche infamanti mosse al Pontefice. Molti esponenti, e tra i più autorevoli, del mondo ebraico hanno riconosciuto a Papa Pio XII innumerevoli meriti in difesa degli ebrei nella dolorosa vicenda dell’Olocausto. Il loro grazie sincero non si comprenderebbe se Papa Pio XII avesse avallato 1’Olocausto. A cominciare dall’allora Ministro degli Esteri di Israele Golda Meir, che in occasione della morte di Pio XII, avvenuta nel 1958, inviò alla Santa Sede un messaggio di cordoglio nel quale si poteva leggere: “Durante il decennio del terrore nazista, il nostro popolo ha subito un martirio terribile. La voce del Papa si è alzata per condannare i persecutori e per invocare pietà per le vittime”. Va da sè che nessuno è in grado di spiegare come avrebbe potuto una così alta autorità del Governo israeliano pronunciare questi elogi se il Pontefice fosse stato considerato complice delle atrocità naziste. Non fu il solo riconoscimento. Nell’immediato dopoguerra, Nahum Goldmann, presidente del Congresso Mondiale Ebraico, autorità riconosciuta nel mondo di Israele, ha scritto: “Con particolare gratitudine ricordiamo tutto ciò che egli [Pio XII] ha fatto per gli ebrei perseguitati durante uno dei periodi più bui della loro storia”. E a dimostrazione che non si trattava soltanto di parole di circostanza, il medesimo Congresso donò alla Santa Sede 20.000 dollari per le opere di carità. Cinquant’anni fa, era una bella somma.
Anche Albert Einstein, scienziato ebreo di fama mondiale, commentando la non irresistibile ascesa del nazismo in Germania, scrisse: “Solo la Chiesa rimase in piedi a sbarrare la strada alla campagna di Hitler per sopprimere la verità”. Dire “Chiesa”, allora, significava dire Papa Pio XII.
Si tratta di gratitudine che ha un fondamento storico. Stando alle cifre fornite dall’ebreo Emilio Pinchas Lapide, storico, diplomatico, già Console generale di Israele a Milano, la Santa Sede, i nunzi e la Chiesa cattolica hanno salvato da morte certa tra i 700.000 e gli 850.000 ebrei. Non esiste al mondo – ricordiamolo bene noi cattolici – una istituzione o un governo che possa vantare un simile operato. Luciano Tas, gia direttore di Shalom e noto rappresentante della comunità ebraica romana, ha scritto. “Se la percentuale di ebrei deportati non è in Italia cosi alta come in altri Paesi, ciò è senza dubbio dovuto all’aiuto attivo portato loro dalla popolazione italiana e dalle singole istituzioni cattoliche… Centinaia di conventi, dopo 1’ordine in tal senso impartito dal Vaticano [dunque da Pio XII] accolsero gli ebrei, migliaia di preti li aiutarono, altri prelati organizzarono una rete clandestina per la distribuzione di documenti falsi”. E riconoscimenti significativi giunsero a Papa Pio XII da Leo Kubowitzki, Segretario generale del Congresso Mondiale ebraico, recatosi in udienza il 21 settembre 1945, a guerra appena finita, per presentare “al Santo Padre, a nome dell’Unione delle Comunità Israelitiche, i più sentititi ringraziamenti per l’opera svo1ta dal1a Chiesa Cattolica a favore della popolazione ebraica in tutta l’Europa durante la guerra”. Riconoscimento preziosissimo, perchè formulato quando era ben viva la memoria e vivi i testimoni.
Riguardo, poi, al presunto “silenzio” di Pio XII, non si puo far finta di dimenticare che il Papa alzo la sua voce più di una volta. Ne dà prova il famoso Radiomessaggio natalizio del 1942, con il quale Pio XII denuncio il genocidio in atto nei confronti di milioni di vittime, che senza colpa, ma solo “per ragioni di nazionalità e di stirpe [chiarissimo il riferimento agli Ebrei] sono destinate alla morte o ad un progressivo deterioramento”. Nè si puo dimenticare che fu proprio il Cardinale Pacelli, futuro Pio XII, a ispirare, se non a scrivere, già nel 1937, la famosa enciclica di Pio XI “Mit brennender Sorge” (Con ardente preoccupazione) nella quale si condannava esplicitamente il razzismo nazista. Passi di quella Enciclica furono letti in tutte le Chiese Cattoliche del Terzo Reich e il Fuhrer, che si sentì colpito, ne proibì la diffusione in Germania. Ci troviamo di fronte, come si è potuto constatare, ad accuse del tutto infondate. Accuse che provengono, sia detto per inciso, proprio da quel mondo comunista e liberale che si vanta d’essere stato un baluardo alla furia nazionalsocialista. Eppure, proprio i Comunisti sovietici, che nella storiografia attuale vengono eretti a campioni della lotta antinazista, furono tra gli artefici della seconda Guerra Mondiale. Grazie all’alleanza con Stalin, infatti, Hitler poté scatenare 1’invasione della Polonia, foraggiato per ben 22 mesi dalle materie prime sovietiche, che sostennero lo sforzo bellico germanico, prima del tradimento (tradimento perchè il Furher fece invadere l’amica URSS nel 1941). Si aggiunga, solo per inciso, che il democraticissimo Congresso americano, nel 1940, prima che gli USA fossero coinvolti nel conflitto, aveva respinto la richiesta di aprire i confini dell’Alaska ai profughi ebrei provenienti dalla Germania. Un anno dopo, lo stessa Congresso respinse la mediazione svedese per accogliere 20.000 bambini ebrei d’Europa, per giungere addirittura a respingere una nave, il Saint Louis, con 930 profughi. Ricordiamo anche i 30.000 profughi ebrei tedeschi immigrati in Gran Bretagna che nel 1939 furono internati come stranieri nemici e il fatto che la Camera respinse la proposta dell’Arcivescovo di Canterbury di aprire le porte del Paese agli ebrei, al di là delle rigide quote prestabilite. Sembra proprio di poter dire che 1’opinione comune su Pio XII e gli Ebrei deve essere, alla luce anche dei tanti riconoscimenti di fonte ebraica, completamente ribaltata. La Chiesa, ed il suo Pontefice in prima fila, furono tra i pochi che non si fecero ingannare dal nazismo, condannandolo apertamente, cosa che non avvenne per altri Stati e uomini politici. Del tutto inaccettabile, infine, quell’accusa del rabbino capo di Israele Meir Lau, citata all’inizio dell’articolo. Stando ad essa, ai tempi della “Notte dei cristalli”, promossa da Goebbels al fine di perseguire gli Ebrei e privarli dei loro beni nel novembre 1938, Pio XII non avrebbe reagito. E` vero, ma per la semplice ragione che, a quel tempo, non era ancora Papa. Verrà eletto il 2 marzo del 1939. Un po’ di precisione non sarebbe guastata.



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