Davvero bisogna dire si all’energia nucleare?

di Angelo Baracca

[L’articolo di Giovanni Ciccotti e Claude Guet, E’ giusto dire no all’energia nucleare ?, ha mosso Angelo Baracca ad una risposta. Come Giovanni Ciccotti,  anche Angelo Baracca è un caro amico che stimo per la serietà e l’onestà del suo lavoro e del suo impegno. Il dibattito è civile come deve essere tra persone evolute e lo propongo ai lettori con la speranza di avere il seguito di quanto qui scritto ed eventuali altri interventi.

Roberto Renzetti]

Molti di noi sono profondamente debitori nella nostra formazione a Giovanni Ciccotti, dai tempi lontani de L’Ape e l’Architetto. E anche in questa sua analisi con Guet conferma la razionalità stringente ed essenziale del suo approccio. È quindi con molto rispetto che annoto una serie di osservazioni critiche sul loro lavoro (anche se alcuni aspetti sinceramente mi sorprendono). La razionalità è una grande dote, ma a volte ritengo necessario superare l’ambito in cui essa si esercita – in particolare, mi sia consentito, l’ambito scientifico, apparentemente così stringente – ed attingere altri ambiti, altrimenti si rischia che il ragionamento scientifico ci conduca alla fine in un vicolo ceco. Credo che questo sia necessario soprattutto oggi, di fronte alle sfide epocali a cui l’umanità si trova di fronte, e per le quali lo sviluppo tecnico scientifico non è esente da responsabilità (questa critica alla scienza non è necessariamente negativa, perché il valore di una conoscenza sta più nel conoscere i suoi limiti, che la sua potenza). Il grande genetista Ernst Mayr ha azzardato l’ipotesi che «L’intelligenza superiore è un errore dell’evoluzione, incapace di sopravvivere per più di un breve attimo nella storia evolutiva». Qualcuno mi ha replicato che forse la causa è la stupidità e non l’intelligenza: ma se non vogliamo pensare che tutta la storia del genere umano sia stata un’eccezione, dobbiamo concludere che la stupidità è l’altra faccia della medaglia dell’intelligenza, o meglio un modo in cui l’intelligenza umana si esplica. Volo troppo alto, o fuori tema, con questa considerazione? Credo di no, perché sono sempre più convinto che la scienza moderna, quantitativa e occidentale, abbia introiettato la logica stessa del capitalismo di sfruttamento della natura, abbia sviluppato una vera guerra alla natura, realizzando strumenti che contrastano con i meccanismi, i ritmi, i cicli propri della natura (qualcuno mi obietterà che non sono gli strumenti in se, bensì il modo in cui sono usati: non mi sembra la sede per affrontare una tale discussione, ma potrebbe per lo meno valere lo stesso discorso fatto per la stupidità/intelligenza).

Questa considerazione generale si applica a mio avviso in primo luogo al primo argomento portato dagli autori. «La questione energetica sarà sempre più presente e, probabilmente, determinante nelle strategie politiche, economiche, geostrategiche». Non fa una grinza. Ma posto così il problema non ha soluzione! Allunghiamo pure di qualche secolo le risorse energetiche (sperando tra l’altro che possano coprire anche i fabbisogni crescenti del resto dell’umanità, e della sua crescita), ma se ci rifacciamo a Mayr sembra che homo sapiens difficilmente possa sopravvivere in questo Pianeta per tempi paragonabili a quelli in cui sono vissute le altre specie.

Vorrei aggiungere un’osservazione al ragionamento degli autori: con la fonte nucleare si produce solo energia elettrica: supponiamo pure che un giorno ne possa produrre il 50 %, ma l’energia elettrica è oggi meno di un quinto dei consumi energetici finali; supponiamo anche che aumenti la percentuale di consumi elettrici sul totale (cosa che peraltro riterrei molto dannosa e pericolosa! Il mio modesto parere è che i consumi elettrici dovrebbero diminuire, per lo meno per ridurre gli “usi impropri” la cui efficienza termodinamica è ridicola), ma se un giorno si esauriranno le altre risorse energetiche (e non) non rinnovabili, rimarranno solo quelle rinnovabili (eviterei il termine “alternative”, perché oggi si stanno sviluppando purtroppo in modo tutt’altro che “alternativo”, e questo è un gravissimo problema), e gli autori ritengono che esse possano servire solo «a complemento di una sorgente stabile».

Gli autori a questo punto possono obiettarmi: bravo, e tu allora cosa proponi? Non ho certo nessuna ricetta in tasca (le sicurezze le ostentano i sostenitori del nucleare), ma sono convinto che – se c’è una via d’uscita alla sfida energetico ambientale, e al “verdetto” di Mayr – essa debba passare inevitabilmente attraverso una radicale trasformazione delle nostre società, del concetto dominante di “sviluppo”, dei nostri modi di vivere, produrre, consumare, comunicare, spostarci; e per l’inevitabile superamento/abbandono delle attuali logiche di profitto. Mi permetto quindi di chiosare la loro affermazione, «Le più volontariste fra le politiche economiche di riduzione dei consumi energetici e di innovazioni tecnologiche . . . non saranno sufficienti a compensare un raddoppio del consumo d’energia da qui a quarant’anni», aggiungendo a mia volta “se non interverranno cambiamenti radicali che evitino quel raddoppio!” E senza i quali quel raddoppio diventerà nei successivi decenni una moltiplicazione che il Pianeta per primo non sarà in grado di sostenere! Ed è proprio qui che sono pessimista sulle potenzialità dell’intelligenza/stupidità umana! Perché (ma questo necessiterebbe di una discussione specifica) tali cambiamenti non sarebbero destinati a “riportarci alla candela”, ma ad un recupero di un rapporto equilibrato e diretto con la natura, dalla quale il “progresso” della (di una certa) tecnologia ci ha separato, creando anzi un vero diaframma, e per molti versi dichiarando una vera “guerra alla natura”: per non dilungarmi rimanderei a Vandana Shiva, che non so però se i miei interlocutori apprezzano.

Ma è venuto il momento di parlare di nucleare, cercando di seguire l’ordine del loro ragionamento. Purtroppo non riuscirò ad essere breve, ma problemi complessi non possono avere risposte sintetiche.

Una prima affermazione mi sembra molto sbrigativa e parziale: «ricordiamo quali sono stati gli elementi che hanno spinto un certo numero di paesi, fra cui l’Italia, ad abbandonare la via nucleare, mentre altri, come la Francia, proseguivano per questa via». In primo luogo, anche negli USA gli imprenditori elettrici (che sono, ricordiamolo, privati) non hanno più ordinato una centrale nucleare: forse non sanno fare i loro conti? La Francia poi – dove invece la produzione di energia elettrica è nazionalizzata – ha proceduto massicciamente su questa strada, che si è affiancata (accodata?) alla Force de Frappe: se si dimentica questo, si rischia di distorcere completamente il problema (vi ritornerò): quanti costi effettivi del programma civile potrebbero essere celati dietro quello militare? Chi ci garantisce che l’utente francese non paghi costi elettrici aggiuntivi celati tra le imposte, per le spese militari? Già, dimenticavo, anche con questa scelta estrema, i consumi totali di energia in Francia sono coperti per il 70 % dai combustibili fossili!

Primo punto specifico, la sicurezza del nucleare. «L’energia nucleare e’ sicura e partecipe di uno sviluppo durevole?». Per me la risposta è per lo meno dubbia. E il dubbio in questo caso è cruciale, perché in questi ragionamenti a mio avviso vengono confrontate fra loro cose che confrontabili non sono. Un incidente nucleare è talmente più grave di qualunque incidente possa accadere a una centrale convenzionale, anche a un rigassificatore, che la sia pur minima probabilità mi porta a dire «NO!». Ci scordiamo i tempi in cui ci garantivano in modo assoluto che un incidente grave a una centrale nucleare aveva una probabilità ridicolmente bassa? Il 2008 ha registrato un numero di incidenti nucleari incredibile! Sinceramente mi sembra molto semplicistico ridurre l’insicurezza alla negligenza russa: mostrarono meno incuria le autorità francesi che nascosero all’opinione pubblica la nube di Chernobyl? Incidenti non gravi, si dice? E chi ce lo garantisce, quando vediamo costantemente che le autorità competenti fanno a gara nel migliore dei casi per sdrammatizzare, nel peggiore per nascondere letteralmente gli incidenti (si veda il caso della Spagna, con ben sei mesi di silenzio; del Giappone). Dovremmo fidarci di queste autorità? Ciccotti e Guet potrebbero garantire che nel futuro il loro atteggiamento cambierà?

Non devo certo spiegare a Ciccotti l’imprevedibilità di un sistema complesso anche per piccoli cambiamenti. Scrivevo nel mio libro: «ad Harrisburg, dopo che le pompe di alimentazione del generatore di vapore andarono in avaria, la valvola di sicurezza che si era aperta non si richiuse, ma il segnale di verifica era stato eliminato durante la costruzione della centrale, per risparmiare tempo e denaro. Per il successivo malfunzionamento una valvola non venne aperta subito. Parti del nocciolo e dell’acqua nel pressurizzatore cominciarono a surriscaldarsi, ma l’operatore interpretò i dati come se il pressurizzatore fosse pieno, per cui arrestò l’immissione dell’acqua. La situazione si aggravò e le pompe vennero fermate, pensando che fosse sufficiente la convezione naturale per refrigerare le barre di combustibile. Per farla breve, proseguì una successione di operazioni che, aprendo e chiudendo valvole e pompe, rispondevano all’imprevedibile risposta dell’impianto: il quale continuava però a rispondere in modo ogni volta imprevisto, fino ad arrivare alla catastrofe. Si noti che la fusione del nocciolo si era determinata a causa del calore generato dalle fissioni residue e dal decadimento dei nuclei cenere [prodotti delle fissioni] successivi allo spegnimento del reattore. Le barre di controllo erano state infatti inserite immediatamente … Tuttavia, fino al 7 % della potenza di regime del reattore continua ad essere erogata dopo il suo arresto e, se manca la refrigerazione … è sufficiente a determinare la fusione del nocciolo. Il reattore, quindi, non rispondeva affatto nel modo previsto. Intendiamoci, non sto dicendo (anche perché non ne ho la competenza) che ci fosse un diverso modo di agire (e probabilmente c’era): il sistema è più complesso di come possiamo pensarlo in termini logici, lineari, sempre prevedibili».

Secondo punto, le scorie: «Ci sono risposte tecnologiche affidabili, a costo accettabile, alla sorte delle scorie». Certo, sulla carta. Gradirei che venisse citato un paese al mondo abbia realizzato soluzioni definitive. Yucca Mountain è fermo – dopo quanto? 20 anni? Dopo quante decine di miliardi spesi? Finora per nulla – perché sorgono continuamente nuovi problemi. La Finlandia ha iniziato i lavori per un deposito geologico: incontreranno difficoltà? Non mi risulta che ci sia un’esperienza compiuta. Ma se anche si trovasse il deposito sicuro, chi potrebbe fornire la minima garanzia che nel mondo tremendamente instabile che abbiamo creato se ne manterrà ricordo tra 100, 1.000 anni? E che ne facciamo delle centinaia di tonnellate di plutonio e di HEU nel mondo? Continuamente a rischio di furti, sottrazioni. È proprio il caso di produrne ancora?

E poi: abbiamo tanta paura di attacchi terroristici, ma non ci curiamo della vulnerabilità delle centrali e dei depositi nucleari? Per comodità cito dal mio libro: «I criteri e le misure adottati per prevenire un attacco esterno sembrano del tutto inadeguati, anche dopo le ulteriori restrizioni imposte dopo l’11 settembre. Nella sostanza, la nrc sottovaluta per i piani di emergenza la possibilità di attacchi terroristici rispetto agli incidenti. La nrc richiede ai proprietari degli impianti di essere in grado di difendersi dall’attacco di un gruppo terroristico, nello schema di un “design basis threat” (dbt). La nrc sperimenta periodicamente falsi attacchi al livello dbt per stabilire se i proprietari degli impianti sono in grado di difendersi in modo efficiente: “tre falsi attaccanti riuscirono a entrare rapidamente e a simulare la distruzione di abbastanza apparecchiature da provocare un meltdown, sebbene gli operatori ricevano il preavviso tipicamente di sei mesi del giorno in cui il test avverrà. … Non vi è nessun regolamento che assicuri che le guardie di un impianto nucleare abbiano le capacità necessarie”. In definitiva, “… il desiderio della nrc di evitare di imporre all’industria nucleare alti costi per la sicurezza incide sui requisiti di sicurezza” [L. Gronlund, D. Lochbaum e E. Lyman, Nuclear Power in a Warming World: Assessing the Risks, Addressing the Challenges, Union of Concerned Scientists, Dicembre 2007, p. 5]. Un problema particolare è rappresentato poi dalle piscine per la custodia del combustibile esaurito nei siti delle centrali, che non sono protette da edifici di contenimento, e sono quindi vulnerabili ad attacchi terroristici, che provocherebbero il rilascio nell’ambiente di grandi quantità di materiali radioattivi: la nrc prende in considerazione solo alcuni tipi di danneggiamenti gravi, ma non ne considera altri, semmai parziali ma dalle conseguenze non meno gravi, come incrinature delle piscine con fuoriuscita dell’acqua».

Terzo: approvvigionamento di uranio, che «non rischia di generare conflitti di natura geopolitica». Veramente in Nigeria si è sviluppata una vera e propria guerriglia. Il governo nigeriano ha imposto un aumento dei prezzi del 50 %, e nel futuro si prospettano aumenti maggiori. Areva poi è accusata di avere creato una grave contaminazione ambientale da uranio in Nigeria e Gabon. In generale poi il mercato dell’uranio è accentrato nelle mani di “sette cugine”, che ricordano un po’ le “sette sorelle” di infausta memoria del petrolio.

Il torio: certo, è più abbondante dell’uranio, ma se nessuno ha sviluppate questa filiera, qualche ragione dovrà pure esserci. Non conosco bene il problema, ma mi sembra di capire che le esperienze passate avessero mostrato che il torio comporti installazioni molto complesse e costi elevati per vari problemi pratici (non ultimo il notevole arricchimento dell’U-235 e Pu-239 da associare al Th per l’innesco della reazione fertilizzante), per cui più di 20 anni fa fu abbandonato. Ad eccezione dell’India, che è povera di giacimenti di uranio ma ricca di torio, la quale però incontra difficoltà a procedere da sola: nasce anche da qui l’accordo strategico con gli USA, figlio degenere dei programmi nucleari e vero e proprio attentato al regime di non proliferazione.

Quarto, i costi. Non è la prima volta che leggo l’affermazione che «la maggior parte degli esperti sono d’accordo nello stimare il costo del Megawattora elettrico a circa 40 €, includendoci i costi legati allo smantellamento e alla gestione completa delle scorie». A me sembra un’affermazione gratuita e infondata: il problema delle scorie non è ancora stato risolto da nessuno; a Yucca Mountain sono state spese ingenti somme, altre ne saranno spese, e non è chiaro se e come funzionerà: sembra per lo meno strano che costi ignoti siano conteggiati nel Megawattora elettrico!

Quanto al decommissioning – cito da un contributo scritto con Giorgio Ferrari per un volume curato da V. Bettini, Il Nucleare Impossibile, in corso di stampa per la UTET – «non esistono esempi significativi di smantellamento di impianti, al contrario di studi e progetti sull’argomento, che invece abbondano. Un quadro delle valutazioni di costo del decommissioning è fornito dal rapporto Decommissioning Nuclear Power Plants. Policies, Strategies and Costs [NEA/OECD, 2003], che indica in 500$/KWe la soglia al di sotto della quale si colloca il valor medio per i reattori ad acqua leggera, mentre per i reattori a gas il costo medio si collocherebbe intorno ai 2500$/kWe anche se, precisano gli autori, il dato è poco significativo in quanto riferito ai vecchi GCR e non ai più recenti HTGR (High Temperature Gas Reactor). Anche nell’esposizione dei criteri seguiti nei singoli studi il rapporto della NEA mette le mani avanti specificando che i costi finali non hanno una composizione omogenea in quanto alcuni intendono il decommissioning come attività finalizzate al risanamento totale del sito, cioè al suo ripristino a vergine, mentre altri lo intendono come gestione controllata del sito a lungo termine. Altre differenze risiedono nel fatto che solo alcuni studi includono nei costi il confinamento totale dei rifiuti (sistemazione definitiva in depositi geologici o di superficie) inclusi quelli di III categoria. Dunque l’indagine della NEA conferma che poche esperienze reali di decommissioning di centrali nucleari esistono al mondo, e gli studi per di più forniscono una grande variabilità di cifre da cui è perlomeno azzardato ricavare un valore medio di costo per la voce decommissioning

Questo vale a maggior ragione per le centrali nucleari che verranno costruite in futuro, la cui vita operativa è programmata per 60 anni: chi può essere in grado di proporre una valutazione seria di quali potranno essere i costi (di tutti i componenti, dal lavoro vivo alle tecnologie), e i problemi in un arco di tempo di un secolo, nelle condizioni di crescente instabilità dell’economia e degli equilibri mondiali e di aggravamento delle condizioni ambientali?

Del resto, se quei costi fossero stati davvero compresi, noi in Italia saremmo i soliti stupidi, visto che, sebbene continuiamo a pagare un balzello sulla bolletta, sia il deposito delle scorie sia il decommissioning delle quattro centrali sono di là da venire, e chissà quali costi comporteranno!

Quinto, la CO2. Confesso che mi delude vedere ripetere il refrain dei sostenitori del nucleare: «Altro vantaggio, il nucleare non emette gas a effetto serra». Non vi è dubbio che la reazione a catena nel nocciolo non produce CO2, ma tutti i processi a monte e a valle ne producono, eccome: estrazione, trasporto e lavorazione del combustibile, raccolta, arricchimento dell’uranio, costruzione della centrale, trattamento e sistemazione dei rifiuti, decommissioning. Ad esmpio, nessuno di solito cita il problema del decommissioning delle miniere di uranio: negli anni ’80 il governo USA ha finanziato un programma di risanamento delle miniere americane esaurite (UMTRA= Uranium Mills Tailing Remediation Action) i cui risultati parziali sono stati pubblicati dal DOE nel 2001 quando, esauriti i fondi a disposizione, restavano ancora da bonificare 9 siti minerari per un budget di spesa all’incirca uguale a quello inizialmente stanziato.

L’impianto di arricchimento di Paducah, nel Kentucky, utilizza due centrali a carbone da 1.000 MW [Helen Caldicott,  “Nuclear power is the problem, not a solution”, http://www.icucec.org/art-caldicott.html]; ma il problema non è solo la CO2, questo impianto ed un altro a Portsmouth, Ohio, rilasciano il 93 % del gas CFC emesso annualmente negli USA.

Ma per la valutazione, complessiva, delle emissioni di CO2 risulta cruciale la considerazione della concentrazione di uranio nel minerale dei giacimenti che vengono sfruttati: è evidente infatti che se per ottenere 1 Kg di uranio da un giacimento con concentrazione dello 0,1% occorre estrarre e lavorare una tonnellata di materiale, ne occorreranno 10 volte di più per ottenere lo stesso quantitativo di uranio se la concentrazione del giacimento è pari allo 0,01%; altrettanto evidente è che le caratteristiche del giacimento di uranio influenzano la convenienza ad estrarlo in termini economici, ma soprattutto fisici. Secondo uno studio quantitativo [Jan Willem Storm Van Leeuwen e Philip Smith, “Facts and data: Is nuclear power sustainable; would its use reduce CO2 emissions?”, 2003, 2005, http://www.elstatconsultant.nl/; aggiornamento del febbraio 2008, http://www.stormsmith.nl, con il riferimento ai rapporti precedenti] il limite fisico oltre il quale l’energia necessaria ai processi di estrazione e lavorazione dell’uranio supera quella ottenibile dal suo impiego nei reattori si raggiunge per giacimenti con un grado di concentrazione compreso tra 0,03 – 0,04% di uranio. L’andamento delle emissioni di una centrale nucleare come frazione di quelle di una centrale in ciclo combinato a gas è riportato dagli autori nella figura seguente, in cui si vede che anche attualmente raggiunge il 35 % (che non è zero!), ma per concentrazioni inferiori allo 0,1% la curva diverge e l’emissioni emesse raggiungono e superano quelle dell’impianto a gas. Naturalmente si può non essere d’accordo con questo studio, ma vista la sua impostazione rigorosa bisogna per lo meno contestarlo nel merito.

Ora la proposta di fondo: arrivare ad una «produzione mondiale di elettricità coperta al 50% dal nucleare, ciò che suppone di decuplicare essenzialmente la potenza nucleare mondiale attuale per portarla a circa 4000 GWa». A parte l’opportunità, su cui ritornerò, è realistico? Il rapporto della UE [The Sustainable Nuclear Energy Technology Platform, A vision report, 2007, http://ec.europa.eu/research/energy] prospetta per lo scenario intermedio di giungere a circa 1.300 GWe nel 2050 (immagino che sia lo stesso dato degli autori, se quel “GWa” è un semplice errore, e sta per “GW”, essendo la potenza elettrica circa un terzo di quella termica). Poiché si parla di centrali la cui costruzione deve ancora essere iniziata, e tenendo conto dei tempi medi di costruzione di una centrale nucleare, questo vorrebbe dire che (se si iniziasse subito) tra il 2020 e il 2050 – in 30 anni – dovrebbero essere inaugurate nuove centrali per una potenza di più di 900.000 MWe complessivi (sottraendo la potenza attualmente installata, parte cospicua della quale dovrà però venire sostituita), cioè ogni anno circa 30.000 MWe di nuova potenza: se si trattasse di reattori di potenza di 1.000 MWe, questo vorrebbe dire dal 2020 inaugurare nel mondo più di 30 nuove centrali nucleari ogni anno, ad un ritmo medio costante di 2-3 al mese! (Il costo annuale supererebbe i 150 miliardi di dollari, ma su questo ritornerò). Io, personalmente, non ci credo! (In questi conteggi cerchiamo di non citare i reattori di tipo sovietico solo quando torna comodo mettere sotto accusa quella tecnologia: oggi, considerando anche quelli russi, forniscono poco meno di un terzo della potenza elettrica europea: se sono davvero da sostituire il ritmo dei reattori nuovi deve ulteriormente crescere).

Senza contare l’aspetto che ho già citato: l’energia elettrica è meno di un quinto dei consumi finali. Che facciamo per gli altri quattro quinti?

Riserve e disponibilità di uranio. La valutazione delle risorse uranifere accertate è, non diversamente dal petrolio, come la trippa: si può essere ottimisti o pessimisti: gli autori sono ottimisti, e se fosse un azzardo? Le analisi a mia conoscenza direbbero che ai ritmi attuali di consumo di uranio nel mondo, le riserve accertate bastino ad alimentare le centrali oggi in funzione per un periodo di tempo non superiore ai 60 anni, mentre il consumo di uranio crescerà proporzionalmente all’incremento di potenza dei nuovi impianti: se così fosse, che senso avrebbe costruire dei reattori che entreranno in funzione dopo il 2020, progettate per una vita operativa di 60 anni?. Non voglio dilungarmi qui sulla questione della valutazione delle “inferred resources”, l’equivalente delle “riserve stimate” per i combustibili fossili che, come si è appurato negli ultimi anni, ci hanno fatto credere che il petrolio fosse molto più abbondante di quello che si dimostra. Voglio solo accennare all’aspetto citato sopra del ruolo cruciale della concentrazione di uranio nei depositi minerari e dei limiti fisici che essa pone per il loro sfruttamento.

Voglio invece accennare ad un punto non meno cruciale. Gli autori auspicano dunque la produzione del 50 % dell’energia elettrica da fonte nucleare: forse sulla scia della Francia. Ma è davvero auspicabile? Ormai è evidente che il sistema elettrico “tutto nucleare” della Francia genera non pochi problemi, ed inefficienze, per la sua rigidità. Poiché le centrali nucleari non sono modulabili per seguire le variazioni giornaliere, o eccezionali, della curva di carico, devono coprire i picchi normali: ne segue che, durante i minimi la Francia deve vendere energia elettrica (che non può essere immagazzinata) a prezzi stracciati; ma quando si verificano condizioni eccezionali (ondate di freddo o di calore) deve comprare dall’estero energia di picco, quindi molto cara. Per far fronte all’onda di freddo di questo inverno la Francia ha dovuto importare energia elettrica, soprattutto dalla Germania (da 5 anni la Germania è diventata esportatrice netta di energia verso la Francia, e non il contrario). Si potrebbe aggiungere, a titolo di esempio, che mentre in Francia EDF ha promosso a dismisura, et pour cause, il riscaldamento domestico elettrico, a Darmstadt vengono realizzate “case passive”, energeticamente autonome d’inverno come d’estate, che costano solo il 6-7 % in più di quelle ordinarie [Elisabeth Rosenthal, «The Energy Challenge. No Furnaces but Heat Aplenty in ‘Passive Houses’», The New York Times, 26/12/2008, http://www.nytimes.com/ 2008/12/27/world/europe/27house.html?em].

Questa rigidità e vulnerabilità sarebbero ingigantite se consideriamo paesi che abbiano potenze installate di dimensioni ridotte e che hanno espresso recentemente l’intenzione di costruire un impianto nucleare: la costruzione di una centrale da 1.600 MW in paesi come la Giordania, che ha poco più di 2000 MW installati, o gli Emirati Arabi Uniti, che ne hanno 14.000, renderebbe il loro sistema energetico estremamente vulnerabile, perché non ha la capacità di sopperire ad un guasto, anche temporaneo.

C’è ancora un aspetto che considero cruciale riguardante i costi, non tanto del kWh nucleare, ma di questi progetti. Si pensa davvero che i costi necessari saranno compatibili con la crisi mondiale in corso, con gli scenari geopolitici futuri così incerti ed allarmanti, con i conflitti che si delineano?

Già oggi le banche statunitensi e Wall Street sono tutt’altro che inclini a prestare i fondi necessari, a meno che i prestiti non siano garantiti dal Governo Federale, «secondo l’industria nucleare il Governo dovrebbe pertanto proteggere gli investitori nel caso i progetti iniziali andassero male», riportava il Washington Post del 5 settembre 2007 con il significativo sottotitolo: «Il finanziamento, più che la sicurezza, sembra il fattore chiave che determinerà se i progetti procederanno» [Dan Morse, 05/09/07, p. B05]. Recentemente Amory Lovins, direttore scientifico delRocky Mountain Institute, ha commentato così i piani di rilancio del nucleare negli USA: «Sostanzialmente, possiamo avere tante centrali nucleari quante il Congresso sarà capace di far pagare ai contribuenti. Ma non ne avremo nessuna in un’economia di mercato».

Il Wall Street Journal del 12 maggio 2008 denunciava che l’aumento dei costi previsti per le centrali nucleari progettate «sta causando qualche shock imbarazzante:  da 5 miliardi di dollari a 12 miliardi per un impianto, fra il doppio e il quadruplo delle prime stime»! [Keith Johnson, “It’s economics, stupid: nuclear power’s bogeyman”, 12/05/2008; corsivo mio]. Di fatto è quello che si sta verificando nella costruzione del reattore EPR di III generazione a Olkiluoto, in Finlandia, che ha accumulato un ritardo di più di due anni nella costruzione, con un aumento dei costi di più di 2 miliardi. È significativo che i motivi principali sono di ordine tecnico (e si sono verificati anche nella costruzione del reattore a Flamanville, che per questo era stata interrotta), e cioè la difficoltà per le aziende costruttrici di soddisfare le caratteristiche tecniche eccezionali richieste da una centrale nucleare: qualità delle saldature, del cemento, dell’acciaio, ecc.

E in Italia? Che cosa succederebbe? Basta ricordare che Italcementi ha fornito cemento fasullo per le Grandi Opere (del resto i costi chilometrici dell’Alta Velocità ferroviaria in Italia risultano in media cinque volte superiori a quelli delle analoghe tratte in altri paesi).

Il governo aveva promesso di indicare le localizzazioni per la fine del 2008, ma è probabile che stia incontrando qualche difficoltà. Poiché uno dei cavalli di battaglia è la sicurezza, vale la pena di ricordare che i criteri di localizzazione a suo tempo fissati dalla Legge 393 del 1975 non avevano tenuto conto dei risultati pubblicati nel documento americano Reactor safety Study [WASH-1400, poi NUREG-75/014, noto come “Rapporto Rasmussen” dal nome del presidente della Commissione che lo aveva elaborato], che identificava la necessità di una zona si sicurezza intorno alle centrali per un raggio di 16 chilometri, criterio poi confermato dalla Nuclear Regulatory Commission nelle norme per la localizzazione delle centrali nucleari note come NUREG-0396 del 1978.

La Regione Emilia Romagna si è dichiarata contraria alla riattivazione del sito della Centrale di Caorso.

Non posso concludere questa pur troppo lunga disamina senza almeno accennare a quello che in fondo io ritengo l’argomento dirimente: l’intrinseco, ineliminabile dual-use della tecnologia nucleare, che sembra preoccupare solo quando si tratta della Corea del Nord o dell’Iran (perché il Brasile ha realizzato la tecnologia dell’arricchimento senza che nessuno fiatasse; e il padre della bomba pachistana, Kahn, ha avuto aiuti da cani e porci, come è emerso anche dallo scandalo delle spie svizzere Urs e Marco Tinners, al soldo della CIA). Ricordavamo anche il famigerato Accordo USA-India per la fornitura di tecnologia nucleare “civile” (ma tutti i paesi che hanno realizzato la bomba sono passati attraverso la costruzione di reattori nucleari), che ha legittimato lo status nucleare di un paese al di fuori del TNP: Nuova Delhi sottoporrà alla IAEA i suoi impianti civili, mentre continuerà a fare quello che le pare in quelli militari, anche con materiali e risorse liberati dagli impegni civili!

Sarà davvero il caso di diffondere in questo pazzo mondo la tecnologia nucleare? La Corea del Nord, che non è un gigante tecnologico, è uscita dal TNP (legittimamente, con tre mesi di preavviso), ha riattivato un piccolo reattore, ha ritrattato il combustibile, e ha fatto la bomba. Non è il caso di aggiungere altro.

Last but not least, non poteva mancare il discorso sui reattori di IV generazione, a neutroni veloci. A parte un’imprecisione, su cui non è il caso di insistere, per cui nei reattori termici il 238U «resta spettatore, ma non totalmente, anche se non fissiona»: in realtà il 238U fornisce una notevole percentuale dell’energia, perché viene  convertito in Pu e fissionato in situ, o subisce direttamente fissioni “veloci”. Ma il punto è un altro. Devo confessare che a questo punto mi sorprende non poco (ma lo dico con molto rispetto) quello che a me pare un “determinismo tecnologico” in uno spirito critico come quello di Ciccotti. L’obiettivo di realizzare i reattori veloci di IV generazione, esattamente con le caratteristiche e le prestazioni previste, viene dichiarato «assolutamente realista, appoggiandosi in particolare sull’esperienza acquisita nel corso di decenni con i diversi prototipi costruiti in Gran Bretagna, in Francia, in Giappone, in Russia o in India,…». In primo luogo corre l’obbligo di ricordare che, a parte prototipi, l’unico progetto serio di realizzare reattori veloci commerciali si è concluso, dopo decenni, in un fallimento clamoroso! Da poco è stato chiuso definitivamente Superphenix, e con lui l’intero progetto (che, non dimentichiamolo, aveva motivazioni legate alla tecnologia del plutonio per la Force de Frappe). Certo, anche un’esperienza fallita insegnerà qualcosa. Ma dimostra anche la complessità e le difficoltà di questa tecnologia. Molto esplicitamente, io credo che sia un vero e proprio bluff dei sostenitori del nucleare “promettere”, direi “garantire”, che una tecnologia così complessa, in via di sperimentazione, darà tra 20 – 30 anni proprio i risultati previsti, o che si vorrebbero!



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