ARMI INTELLIGENTI

Roberto Renzetti

Armi intelligenti? Più si è poco intelligenti e più si ha il mito delle armi intelligenti. Non esiste un’arma e tantomeno una bomba intelligente. E non per questioni moralistiche o dispregiative. Vi possono essere delle armi spettacolari, tecnologicamente avanzatissime me intelligenti è assolutamente impossibile. 

Le armi, le bombe, per loro definizione, sono eccezionalmente distruttive. Un’arma si avvicinerebbe all’intelligenza (nel senso USA) solo se il “nemico” (leggi il Paese da bombardare ed invadere) fosse fermo, immobile, pronto al sacrificio.

Poiché nessuno ama farsi invadere o bombardare da qualsiasi prepotente criminale, allora scattano le difese che sono altrettanto “intelligenti” dell’offesa con quelle presunte caratteristiche. Si pensi solo ad un missile guidato da un raggio laser. Se bruciamo dei pneumatici lungo la traiettoria del raggio laser, il missile diventa cieco e va dove vuole, cioè a fare danni che i buontemponi chiamano collaterali.

E’ il solito modo di tranquillizzare l’opinione pubblica. Vado, invado, bombardo e torno. Qualche morto solo tra i militari (avversari) e basta. E’ la guerra chirurgica dei criminali alla Mengele.

Anche dalle parti nostre, dato il livello di preparazione culturale della nostra classe dirigente (anche della pretesa sinistra), si hanno questi pretesi miti che dovrebbero attenuare in qualche modo l’orrore dell’orrida guerra.


Possono colpire a mille chilometri di distanza
Cruise, missili “intelligenti”


Cosa sono e come agiscono i Tomahawk usati in Afghanistan

http://www.grandinotizie.it/dossier/019/curiosita_numeri/013.htm

Al costo di mezzo milione di dollari ciascuno, i missili da crociera Tomahawk – noti anche come missili Cruise – sono in grado di colpire un obiettivo terrestre distante oltre 1.000 chilometri dal punto di lancio. I Tomahawk viaggiano a velocità subsonica, circa 880 km/h, e sono difficilmente individuabili: la loro ridotta sezione, circa 50 centimetri, la modesta emissione di calore del sistema di propulsione, e la capacità di volare a bassissima quota, rende difficile la loro localizzazione e ancor più il loro abbattimento da parte della contraerea. Per queste ragioni sono definite armi ad alta sopravvivenza. Ovviamente riferita al missile, perché il suo effetto distruttivo è devastante. I Tomahawk sono dotati di una testata da 450 chilogrammi di esplosivo ma possono essere anche armati con testata nucleare da 200 chilotoni.

Secondo la casa costruttrice, la Raytheon, azienda specializzata nella produzione di sistemi d’arma, con un fatturato di 17 miliardi di dollari e 87.500 persone impiegate, la stessa che inventò il forno a microonde, i Tomahawk sono l’arma decisiva. Ed effettivamente si tratta di missili in grado di essere lanciati da postazioni terrestri, da navi e da sottomarini, viaggiare riconoscendo il terreno sotto di loro e controllare la propria posizione, correggere la rotta e individuare il bersaglio confrontandone l’immagine con la foto memorizzata nei suoi computer di bordo. Una volta lanciato non richiede comandi né controlli e può volare a poche decine di metri dal solo, regolando la propria altezza in funzione delle asperità del terreno.

Le principali risorse del missile si chiamano Tercom e Dsmac. Tercom (TERrain COntour Matching – controllo del profilo del suolo) è una guida radar che confronta continuamente il terreno sottostante con una mappa di riferimento di cui è dotata la sua memoria per verificare la rotta, correggerla e stabilire la quota di navigazione. In queste operazioni il Tomahawk è aiutato dal Gps (Global Positioning System) che riceve dai satelliti la posizione e la quota dove si trova. Quando giunge in prossimità dell’obiettivo, fatto che viene individuato dal tempo percorso, dalla posizione e dal riconoscimento della zona, il sistema di controllo della navigazione passa al Dsmac (Digital Scene Matching Area Correlation – confronto e correlazione della scena) che, comparando l’immagine inquadrata dalle telecamere di bordo con quella dell’obiettivo memorizzato, guida il missile sul bersaglio. Per questo motivo i missili da crociera rientrano tra le cosiddette armi “intelligenti”, quelle cioè in grado di riconoscere il bersaglio e non commettere errori.

Le cronache delle guerre in cui i Tomahawk sono stati impiegati, dalla Guerra del Golfo del 1991, Iraq nel 1993, Bosnia nel 1995 e ancora Iraq nel 1996, sono però testimoni di numerosi sbagli. Ad esempio, durante la Guerra del Golfo, su 290 missili lanciati, 50 non raggiunsero il loro obiettivo, soprattutto perché l’omogeneità del deserto su cui volavano, non permetteva di avere perfetti punti di riferimento per la guida. Rispetto ai Tomahawk di dieci anni or sono, gli attuali sono molto più “intelligenti”, come molto più precise sono i rilievi effettuati dagli aerei spia e dai satelliti per fornire immagini molto dettagliate degli obiettivi da colpire. I Cruise hanno infatti bisogno di conoscere perfettamente la strada da seguire, la natura del terreno da sorvolare e l’immagine dell’obiettivo da colpire.

Per fornire queste informazioni, a fianco del missile vero e proprio, operano strumenti e persone che impostano dati e controllano il corretto svolgimento della missione, come il Tmpc (Theater Mission Planning Center – Centro di pianificazione della missione) o il Twcs (Tomahack Weapon Control System – Sistema di controllo del Tomahawk), dove computer ed esperti riforniscono di dati il missile prima e durante la missione.

Lanciare un Cruise è un’operazione che coinvolge un gran numero di risorse e richiede una altissima efficienza tecnica e militare. Innanzitutto opera il Fire Control System (sistema di controllo del lancio) che oltre a verificare il perfetto funzionamento del missile, si occupa delle comunicazioni tra i computer del controllo e quelli del Tomahawk, dove sono memorizzate tutte le informazioni che sono state predisposte dalla Pianificazione della Missione. Questa a sua volta ha ricevuto le mappe e le foto del bersaglio dalla Nima (National Imagenery and Mapping Agency – Ente per le immagini e le mappe) ottenute da satelliti ed aerei da ricognizione, e le ha convertite nel formato necessario per i computer del missile. I comandi militari responsabili della operazione hanno nel frattempo redatto i piani della missione, individuando tempi e momento del lancio, tenendo conto delle condizioni atmosferiche che potrebbero ritardare la velocità di navigazione. Quando tutto è controllato e verificato, il missile può partire. Da questo momento i controlli sono in mano ai sistemi automatici di bordo Tercom e Gps prima e Dsmac quando l’obiettivo è prossimo. Durante il volo il Tomahawk invia al centro di controllo informazioni sulla rotta e il proprio stato, utilizzando satelliti di comunicazione militare. In caso di necessità il centro di controllo può inviare dati suppletivi o correttivi ai computer di bordo e ovviamente interrompere la missione. A quanto risulta, gli USA dispongono di circa 3000 missili Tomahawk e un centinaio sono in dotazione alla Gran Bretagna.

Altre schede tecniche:
Ac 130H
Portaerei Enterprise, Vinson, Roosvelt e Kitty Hawk
Satelliti spia
Airbus A-300
Boeing 757
Boeing 767
Echelon
Codice 7 5 0 0
“Portaerei” Garibaldi
I “Parà” del Tuscania


Andrea Scarienzi/Grandinotizie.it/7 ottobre 2001


Tecnologia e guerra “pulita”

http://www.kontrokultura.org/archivio2001/140/guerra_pulita.html

Bombe intelligenti, armi “non letali” e cyberguerra promettono meno sangue nei conflitti del futuro. Le lusinghe e le insidie per strateghi, politici e semplici cittadini.

di Massimo Pietroni

La bomba intelligente

«Gli americani, come razza, sono i migliori meccanici del mondo. L’America, come nazione, ha la più grande abilità per la produzione in massa di macchine. Perciò abbiamo il dovere di mettere a sfruttino questa nostra  terreno, e nell’aria, al massimo delle nostre capacità … » (George S. Patton, “La guerra, come io l’ho  conosciuta”, 1947).Se fosse ancora vivo, il generale Patton non potrebbe certo rimproverare alle generazioni di militari che si sono succedute negli ultimi cinquant’anni di avere trascurato la sua raccomandazione. La fede nella superiorità tecnologica come arma decisiva per vincere le guerre anima i pianificatori militari di oggi come quelli del passato, sostiene le più avanzate dottrine strategiche, permea le valutazioni e i discorsi dei politici. Oggi, come in passato, l’assunto è sempre lo stesso: il vantaggio tecnologico porta a vittorie più rapide e sicure, ottenute con minor spargimento di sangue. Cambiano però, e drammaticamente, i mezzi a disposizione, e con essi, inevitabilmente, la cultura stessa della guerra.In che modo le nuove tecnologie elettroniche, informatiche e delle comunicazioni, cambiano le carte sul tavolo dei nuovi strateghi? Cosa chiederanno i politici e le opinioni pubbliche ai militari del futuro? E cosa i militari ai tecnici e agli scienziati?

La bomba intelligente, entrata a far parte dell’immaginario collettivo grazie ai video mostrati durante la Guerra del Golfo, è senz’altro l’emblema più significativo del modo nuovo di fare la guerra. Nel libro “The future of war”, George e Meredith Friedman ne identificano con lucidità l’impatto simbolico: «L’immagine di un missile Tomahawk che colpisce con precisione il proprio bersaglio, confrontata con i bombardamenti strategici della seconda guerra mondiale, contiene in realtà un messaggio profondo. La guerra può anche essere una componente ineliminabile della condizione umana, ma la permanenza della guerra non significa necessariamente che le carneficine del ventesimo secolo siano anch’esse permanenti». La cancellazione degli orrori della guerra, ma non della guerra in sé. Questa è la promessa per il prossimo secolo. Schiere di analisti militari ragionano ormai sulle cosiddette armi “non letali”, in grado di portare il nemico alla capitolazione senza sparare un solo colpo.

Errori e entusiasmi

Lo scenario più accarezzato da questa scuola di pensiero è quello della “cyberguerra”, in cui una squadra di tecnici infetta di virus i sistemi informatici del nemico, portandone al collasso l’intera struttura militare e industriale. I dati dei conflitti recenti mostrano però che la guerra pulita, in cui grazie alle armi intelligenti si distruggono solo i bersagli-chiave e si risparmiano le vite umane, è ancora ben lontana. “One shot, one kill” era lo slogan con cui i portavoce del Pentagono propagandavano l’efficacia delle bombe a guida laser durante la guerra del 1991. Un’inchiesta del General Accounting Office (Gao) per il Congresso americano ha invece mostrato che – in media – erano state necessarie quattro bombe per colpire un bersaglio e nel quindici per cento dei casi ce ne erano volute almeno otto. Il sistema di guida automatica del Tomahawk, poi, fu in realtà un autentico fiasco. La probabilità di colpire il bersaglio era uguale a quella di perdere il missile dopo il lancio, e mandarlo a vagare senza controllo nel deserto o – peggio – su Baghdad o Bassora. In realtà, più del 90 per cento delle bombe impiegate durante la Guerra del Golfo erano di tipo tradizionale, e furono in gran parte lanciate dai vecchi bombardieri B-52 invece che dagli “invisibili” F-117 (Stealth). A differenza di quanto propagandato, quindi, il grosso della campagna aerea dell’operazione Desert Storm fu realizzata con mezzi a basso contenuto tecnologico. Ciononostante, l’efficacia dell’operazione risultò essere del tutto paragonabile a quella che si sarebbe ottenuta ricorrendo ai più avanzati sistemi intelligenti disponibili all’epoca. Sempre secondo il Gao, infatti, « non c’è alcun nesso evidente tra il costo degli aerei e delle munizioni impiegate e le loro prestazioni durante Desert Storm ».

In questi ultimi anni le ricerche sono proseguite, il livello di “intelligenza” degli arsenali è notevolmente cresciuto e sono state introdotte nuove tecnologie, come i sistemi di puntamento satellitari (Gps) che ormai guidano gran parte dei missili. Ma soprattutto, non è diminuito l’entusiasmo di molti analisti militari (e dei costruttori: Lockheed Martin, General Dynamics, McDonnell Douglas) per la “rivoluzione negli affari militari” che sarebbe ormai pienamente in atto. Anche questa volta, però, i risultati sul campo parlano diversamente. Secondo Anthony H. Cordesman, del Center for Strategic and International Studies (Csis) di Washington, i dati sull’efficacia delle prime settimane della campagna aerea sulla Jugoslavia non hanno alcunché di rivoluzionario. Soprattutto se si considera che ormai praticamente tutto ciò che viene sparato è “intelligente” (il 90 per cento, oggi, rispetto al 9 della Guerra del Golfo). Le cifre fornite dalla Nato mostrano infatti che, al ventesimo giorno di bombardamenti e dopo poco meno di seimila missioni aeree, erano stati colpiti 102 bersagli in tutto, dei quali solo 44 distrutti o seriamente danneggiati, cioè uno ogni 135 missioni. Dopo altri venti giorni e 17 mila missioni, il numero di bersagli colpiti era salito a 682, mentre non venivano più forniti dati su quelli effettivamente distrutti. L’efficacia riguarda soprattutto le installazioni fisse, come ponti, edifici, fabbriche e raffinerie, che possono essere agevolmente puntate coi sistemi tipo Gps. Invece i danni alle truppe sul terreno, ai mezzi corazzati, alle batterie missilistiche terra-aria, e in definitiva a tutto ciò che può essere spostato e camuffato -sempre secondo Cordesman- sono molto meno consistenti e verosimilmente si sono mantenuti tali anche in seguito.

Un mito pericoloso

Un mito zoppicante, come “la guerra pulita” sta dando prova di essere, non è però necessariamente un mito ininfluente, soprattutto se porta un fascino tale da farne sottostimare le imperfezioni. Al contrario, dare per già acquisite capacità tecnologiche di là da venire può portare a conseguenze gravi per le decisioni che politici, militari e le opinioni pubbliche dovranno prendere nel prossimo futuro. In questo senso, la guerra tecnologica è già oggi una realtà – seppure virtuale – con cui è necessario fare i conti. Uno studio del gennaio 1999 dello Strategic Studies Institute (Ssi) dell’esercito americano, ” Technology and the 21st Century Battlefield; Recomplicating Moral Life for the Statesman and the Soldier” (La tecnologia e il campo di battaglia del XXI secolo; ricomplicando la vita morale allo statista e al soldato), dimostra come ai livelli più alti dell’intelligenza militare americana ci si cominci a porre il problema. Secondo l’autore dello studio, il colonnello Charles J. Dunlap, l’equivoco generato dalle bombe intelligenti di oggi e dalle armi non letali – forse – di domani, può avere conseguenze disastrose. Convinti di poter vincere una guerra senza subire perdite e perdipiù evitando di infliggerne oltre lo stretto necessario, i politici e le opinioni pubbliche diventeranno sempre meno restii all’uso della forza. L’opzione militare da extrema ratio diventerà uno strumento sempre più accettabile e finirà per essere impiegato anche in situazioni che un tempo venivano affrontate per via diplomatica. La tendenza – che è innegabilmente già visibile nel mondo del dopo-Golfo – si basa sull’assunzione del tutto errata che la selettività delle nuove armi si traduca in una loro minore pericolosità, soprattutto per i civili. Al contrario, le armi intelligenti sono concepite come strumenti per applicare la forza nel modo più efficace possibile, portando il massimo di distruzione con il minore dispendio di energie da parte dell’attaccante. Rispetto ai bombardamenti del passato, questo provoca un numero inferiore di vittime dirette ma – colpendo con più efficacia i sistemi vitali del paese attaccato – un maggior numero di vittime indirette, anche a distanza di anni. L’equivoco da spezzare – secondo Dunlap – è quello che “meno sanguinario” sia sinonimo di “meno letale”.

In una società tecnologicamente avanzata, la distinzione fra obiettivi civili e militari diventa sempre più sfumata. Nel campo delle telecomunicazioni questo è evidente. Negli Stati Uniti più del 90 per cento del traffico militare viaggia attraverso reti commerciali, e cifre analoghe valgono per gli altri paesi occidentali. In caso di guerra tutti questi sistemi diventerebbero immediatamente obiettivi militari, nonostante siano di interesse vitale per il mondo civile. Del resto, già oggi la Nato bombarda i ripetitori della televisione serba perché questi sono utilizzati pesantemente dal sistema di telecomunicazioni dell’esercito jugoslavo. Anche se – nelle dichiarazioni ufficiali – dice di voler “staccare la spina” alla propaganda di Milosevic. Il problema della distinzione tra civile e militare è ancora più delicato quando dalle cose si passa alle persone. Un esercito che vive di tecnologie avanzate ha bisogno di una continua osmosi col mondo scientifico e tecnologico. Nel 1997 il 70 per cento dei programmi informatici del Dipartimento della difesa americano fu affidato a ditte private. In futuro diventerà sempre più importante la figura del civile che collabora part-time con le organizzazioni militari, perennemente a caccia di creativi, intellettuali, e tecnici ad alta specializazione. Questi “guerrieri surrogati”, saranno più o meno inconsapevolmente partecipi allo sforzo bellico e quindi – in caso di guerra – obiettivi leciti.

Ma la prova più dura per la sopravvivenza del mito della guerra tecnologica verrà probabilmente da quei conflitti in cui il livello tecnologico tra i contendenti è enormemente sproporzionato in favore di uno dei due. Come reagirà l’altro? Non si sentirà legittimato a usare ogni mezzo, per quanto brutale, per recuperare lo svantaggio? L’esperienza recente dimostra che queste preoccupazioni sono fondate. Come ricordava recentemente George Steiner in un’intervista a “La Stampa”, in Vietnam e in Somalia essere disposti a morire ha contato più delle tecnologie. In Iraq l’esercito di Baghdad bruciò i pozzi di petrolio, in parte per puro terrorismo ambientale, ma anche per rendere meno efficaci i sistemi di guida delle armi intelligenti, riparandosi sotto alla spessa coltre di fumo nero. In Kosovo è stato raggiunto un risultato simile – con maggior efficacia – facendosi schermo di centinaia di migliaia di persone. Nonostante qualcuno già suoni le fanfare, non si vedono motivi per brindare alla fine delle “guerre sporche” del Ventesimo secolo.

Tratto da jekyll


Bombe intelligenti o solo spettacolari?

Secondo la Nato, grazie alle nuove tecnologie gli aerei delle Forze alleate sono riuscite a centrare palazzi e installazioni militari con un “trascurabile margine di errore”. Ma si può davvero parlare di armi intelligenti?

http://www.sissa.it/ilas/jekyll/n03/dossier_scienza_guerra/scienza_2.htm

di Elena Capparelli

Il 2 maggio, alle 9.45, due F-117 Stealth americani, i cosiddetti aerei invisibili, in grado di sfuggire al controllo radar, colpiscono cinque centrali elettriche serbe provocando un black-out nel 70 per cento del territorio che durerà per più di sei ore.

Lancio di un missile Maverick Agm-65

Il giorno dopo il portavoce della Nato, Jamie Shea, dirà che si è trattato di un inconveniente di cui lo stato maggiore è dispiaciuto.

Non è la prima volta che la Nato deve scusarsi per aver causato danni alla popolazione civile. Solo nelle prime due settimane di aprile, l’Alleanza ammette che i suoi aerei hanno sbagliato obiettivo in maniera devastante per almeno tre volte: nel caso della cittadina serba di Alecsinac messa a ferro e fuoco dalle bombe che lasciano intatta l’unica struttura militare, nel caso di un treno che viene centrato in pieno da un missile teleguidato il 12 aprile, nel caso di un convoglio di profughi kosovari colpito da due missili, in circostanze ancora poco chiare, il 13 aprile.

In ognuna di queste occasioni, portavoce e capi di stato maggiore spiegheranno la natura dell’errore. Per l’incidente di Alecsinac, il sistema di guida delle bombe lanciate non ha funzionato correttamente. Il treno, invece, si è interposto all’improvviso tra il missile già lanciato e l’obiettivo. Infine, il convoglio di profughi poteva essere composto di truppe serbe: il pilota ha sparato da più di 4000 metri e da quell’altezza non è possibile distinguere esattamente l’obiettivo.

Sin dai primi giorni dell’attacco aereo la Nato ha presentato la sua azione come un'”operazione chirurgica”: grazie alle nuove tecnologie di puntamento e ai sensori montati sui missili, gli aerei riescono a centrare palazzi e installazioni militari con un “trascurabile margine di errore”. Una volta lanciati, i missili si dirigono sugli obiettivi grazie a un sistema di guida automatico che continua a inquadrare nel mirino le strutture da colpire. Le scuse della Nato, tuttavia, lasciano aperti molti dubbi: fino a che punto sono affidabili queste tecnologie e che tipo di errori sono possibili?

Molte delle armi impiegate nella guerra aerea sono dotate di un sistema di guida automatico: la maggior parte dei missili utilizzati continua a mantenere nel mirino il bersaglio e, grazie a una telecamera che inquadra l’obiettivo, trasmette le immagini al pilota che può correggere la traiettoria. Il pilota, per prima cosa inquadra l’obiettivo sul monitor e lo seleziona attraverso un mirino elettronico, agganciando, così, la traiettoria del missile alla struttura prescelta. Se l’aggancio è avvenuto correttamente il pilota può lanciare il missile che continuerà a inseguire, per conto suo, l’obiettivo grazie al sistema di rilevazione.

Questi sistemi montati sulla punta dei misssili, in dotazione alla Air Force americana, sono di diversi tipi. Ci sono quelli a infrarossi caratteristici dei missili Maverick Agm 65 G e D che riescono a colpire l’obiettivo anche di notte. Il sistema di guida di questi missili è, a volte, potenziato da un sensore in grado di individuare le fonti di calore e può quindi mantenere la traccia anche di obiettivi in movimento che sviluppano energia.

Un secondo tipo di rilevazione, è quello delle Lgb, Laser Guided Bomb, che illuminano l’obiettivo con un raggio laser che guida la loro traiettoria. L’ultima e più celebrata innovazione è quella adottata per una serie di armi di nuova generazione, come i missili Agm 130 A e le bombe Jdam. Si tratta di un rilevatore che sfrutta i dati che provengono dal sistema satellitare Gps, una costellazione di 27 satelliti che ruotano intorno alla Terra e che sono in grado di segnalare le variazioni e gli spostamenti di un obiettivo a un computer situato all’interno del missile, che può così correggere in tempo reale la sua traiettoria.

Missile Agm 86 C

Sfruttano questo sistema i micidiali missili Tomahawk posizionati sulle navi da guerra americana e la loro versione aria-terra, gli Agm-86 C, che sono in dotazione ai bombardieri B-52 H.

In che senso questi rilevatori sono in grado davvero di “riconoscere” l’obiettivo? Nel caso delle Lgb il laser fornisce soltanto un puntatore, che può essere messo fuori uso se le condizioni del tempo sono negative o se intervengono dei riflessi luminosi che creano interferenza con il sistema di rilevazione. In questi casi, il missile rischia di fallire completamente l’obiettivo e questo ha costretto gli aerei Nato, nelle giornate di maltempo, a non portare a termine più del 50 per cento delle missioni previste. La rilevazione Gps, montata in realtà su un numero limitato di missili, è in grado di sfruttare l’immagine del satellite come se fosse una mappa da comparare con le immagini che il missile stesso può catturare. Eppure, in questo caso la percentuale di errore deriva dalle inevitabili differenze che ci sono tra l’immagine aerea fornita dal satellite in orbita e ciò che il missile riesce a vedere da molto più vicino. Le due immagini non sono identiche e il computer può soltanto compararle punto per punto, dato che non è in grado, da solo, di riconoscere l’obiettivo. L’intelligenza delle bombe è, dunque, chiaramente un’ intelligenza limitata.

Alcune delle armi utilizzate, poi, si affidano semplicemente al sistema di rilevazione ottico con la telecamera: è il caso dei modelli A e B dei Maverick, la prima e più nota versione dei missili teleguidati. Anche le bombe Mk 82, come quella che ha colpito il convoglio kosovaro, sono definite dall’autorevole rivista inglese di armamenti “Jane’s”, come “non precision guided bombs”, bombe guidate non di precisione.

Unità di controllo per bombe a guida satellitare Jdam

Se, nella prima fase della guerra, l’uso di queste armi era quasi inesistente, a partire dal 10 aprile il comando Nato ha deciso di metterle in campo per superare il blocco delle missioni dovuto al maltempo. È così aumentato, naturalmente, anche il rischio di errore delle singole missioni. D’altra parte, le Jdam e altre bombe dotate del sistema Gps, il cui costo è elevatissimo, rischiano di esaurirsi: anche per questo la Nato parla già di velocizzare la produzione di nuovi missili come il Paveway III, Lgb che dovrebbero essere dotati, insieme, del sistema laser e di quello satellitare.

Di fronte a dichiarazioni di questo tipo, appare chiaro che la Nato sta utilizzando la missione “Allied Force” anche per sperimentare nuovi tipi di ordigni. Per il black out del 3 maggio, a esempio, è stato utilizzato un nuovo tipo di bomba, la Blu-114/B. Si tratta di un ordigno che diffonde nell’ambiente polvere di grafite, provocando corto circuiti che fanno scattare immediamente il blocco delle strutture di smistamento che diffondono l’energia attraverso i cavi elettrici.

Missili Agm 130 A

In effetti, la Blu-114/B è stata di nuovo usata, con successo, qualche giorno dopo il primo attacco, il 7 maggio: questa volta il portavoce della Nato ha ammesso che l’azione era intenzionale anche se non ci sono stati commenti sulle sue conseguenze sulla popolazione, l’unica a essere davvero colpita dal black out, dato che l’esercito si autoalimenta dal punto di vista dell’energia elettrica.

Anche i commentatori americani sono rimasti perplessi: William Arkin, ad esempio, esperto di geopolitica del “Washington Post”, si è chiesto se, a volte, dietro agli errori della Nato non si nasconda l’ esigenza strategica di aumentare la pressione su Milosevic e sulla stessa popolazione. In effetti, l’obiettivo strategico principale delle bombe intelligenti sono le installazioni militari, la contrarea e il potenziale bellico dell’esercito serbo, che però è stato, a quanto pare in parte considerevole, nascosto e sottratto agli attacchi arei.

Dunque, la celebrazione della guerra tecnologica e della sua capacità chirurgica di selezione sembra in realtà scontrarsi con una resistenza, da parte di Milosevic, più ostinata di quello che si poteva prevedere e, man mano che la guerra continua la reiterata minaccia Nato di rendere più duri gli attacchi, rischia di coincidere con il ricorso a mezzi via via più tradizionali e cruenti. Gli ordigni tecnologici, per quanto spettacolari e innovativi, sembrano per adesso aver impressionato soprattutto la stampa occidentale e l’opinione pubblica, prima che i capi di stato maggiore serbi.


L’imbroglio dell’intervento chirurgico

Vito Francesco Polcaro

http://www.google.it/search?q=cache:rGIGFPJfv3cC:www.iac.rm.cnr.it/

~spweb/attivita/convegno1/libro1/gz/04-polca.ps.gz+%22armi+intelligenti%22&hl=it&lr=lang_it&ie=UTF-8

Responsabile del Coordinamento Nazionale Ricerca del Partito dei Comunisti Italiani e Ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche

In un suo recente studio, riportato poco tempo fa dal Manifesto, il Generale Jean, già consigliere militare di Cossiga (che di queste cose se ne intende), ricordava che la guerra moderna consta di due parti: le operazioni militari propriamente dette e la “guerra delle informazioni”.

L’opinione pubblica ormai tende a considerare la guerra come un evento estremamente negativo. I governi possono pertanto renderla accettabile solo tramite una pressione costante ed intensa dei mezzi di informazione di massa che la faccia ritenere giusta, inevitabile e prossima ad una sicura vittoria. Per questo motivo è indispensabile, da un lato, far apparire il nemico come una banda di criminali guidati da un dittatore che opprime il suo stesso popolo, e d’altra parte far credere che dalla guerra i soldati del proprio esercito non corrano rischi di sorta e che anche la gente comune della nazione attaccata riporterà pochi danni in cambio dell’enorme dono della libertà.

E’ chiaro però che, perché questa tesi sia credibile, bisogna che l’opinione pubblica sia convinta che le armi usate siano in grado di colpire “i cattivi” senza produrre danni ai civili (a meno che, naturalmente, questi non siano usati proditoriamente come “scudi umani”).

Nascono così il concetto di “arma intelligente” e di “intervento chirurgico”. Il primo concetto si riferisce ad un tipo di arma capace di dirigersi da sola sul bersaglio con la massima precisione, distinguendolo da ciò che lo circonda e distruggendolo senza fare altri danni. L’ “intervento chirurgico”, invece, è un intervento armato rapido, che distrugge solo pochi obiettivi nevralgici, e paralizza ogni capacità di nuocere del nemico.

Bisogna però vedere se questi concetti, nati per motivi di propaganda, possano poi concretizzarsi in oggetti reali ed in comportamenti praticabili.

Cominciando dalle “armi intelligenti”: è sicuramente vero che la precisione delle armi va continuamente aumentando. Ad esempio, i missili Cruise sono piccoli aerei senza pilota, che portano un carico di 2 tonnellate di esplosivo ad alto potenziale, o addirittura un ordigno nucleare. Sono guidati da un calcolatore che, ad intervalli della lunghezza di qualche secondo, riceve da un sistema di satelliti un segnale che permette di ottenere la posizione geografica del velivolo con la precisione di 20 cm. Il computer confronta continuamente la posizione con una mappa geografica che ha in memoria e con una traiettoria programmata prima del lancio. Esso può quindi manovrare in modo che il Cruise vada a schiantarsi sull’obiettivo: la precisione è segreta, ma dopo un volo anche di più di 1000 km è sicuramente inferiore a qualche metro. I Cruise hanno però un grave difetto: sono lenti (circa 900 km/h) e molto vulnerabili, come le V1 tedesche della Seconda Guerra Mondiale dalle quali derivano. A questo difetto rimediano rendendosi invisibili ai radar grazie ai materiali con i quali sono fatti. E soprattutto, per rendersi invisibili essi devono volare bassissimi. Questa tecnica funziona molto bene se il paese attaccato è pianeggiante, come l’Iraq, ma in un paese montuoso come la Jugoslavia il Cruise è esposto al fuoco della contraerea tutte le volte che deve alzarsi per superare una collina. Ciò è accaduto del resto anche agli “aerei invisibili” F-117, i quali successivamente non sono stati più adoperati. Nei primi giorni di guerra anche i mass-media occidentali riportavano i quotidiani annunci delle agenzie jugoslave a proposito di Cruise abbattuti. Poi hanno ritenuto che fosse meglio non parlarne più. Che l’attacco missilistico non abbia dato i risultati sperati lo dimostra il fatto che i Cruise armati di testate convenzionali siano finiti, e che per proseguire l’attacco si sia reso necessario riconvertire quelli che erano dotati di testate nucleari (con costi e problemi enormi).

Un’altra “arma intelligente” della quale si parla molto è la bomba laser. Questa in realtà non è una bomba, ma un missile capace di dirigersi seguendo un raggio laser. Il raggio guida viene puntato su di una superficie lucida del bersaglio, in grado di rifletterlo: ad esempio una finestra o una parte metallica pulita. Il raggio laser di guida può essere generato dallo stesso aereo che lancia il missile, ma ciò ha due gravi inconvenienti: l’aereo deve avere almeno due persone a bordo, perché non si può pilotare ed inquadrare il bersaglio nello stesso tempo, e non può allontanarsi troppo dal bersaglio durante il volo del missile (esponendosi così alla contraerea). E ogni aereo abbattuto è un danno per l’immagine, oltre che un grosso danno materiale. Per questo motivo, più spesso è un commando a terra, nascosto a qualche chilometro dall’obiettivo, che genera il raggio laser di guida, magari dopo aver preventivamente fissato un piccolo specchio sul bersaglio. Al raggio laser viene poi “agganciato” il missile, lanciato da un aereo a debita distanza. Se il commando viene intercettato e costretto a darsela a gambe, o fatto prigioniero (come i tre marines che sono comparsi in tutti i telegiornali), il missile perde ogni controllo e va a finire dove capita, magari in Bulgaria, come la bomba laser ritratta nella foto pubblicata su Ultime notizie. Ma può succedere di peggio: vista la difficoltà dell’operazione, e i rischi che corre il commando che guida il missile, se si sta attaccando un ponte e si vede arrivare un treno passeggeri carico di pendolari si può preferire di continuare l’attacco e uccidere decine di innocenti, piuttosto che spegnere il laser e perdere il missile. Va detto che questo non è un “errore” ma un crimine di guerra, anche se commesso con “armi intelligenti”. Appare chiaro quindi che le bombe laser sono armi precisissime, ma che oltre ad essere paurosamente costose sono difficilmente utilizzabili in modo estensivo.

All’inizio dell’attacco, il generale Clark si era vantato del fatto che sugli aerei della NATO sono stati montati potentissimi sistemi di rilevamento, “capaci di permettere ai piloti persino di leggere la targa dei camion”, sicché ogni errore sarebbe stato impossibile. Sappiamo tutti però che un pilota non si `e accorto che stava sparando la sua bomba laser ad alta precisione su un convoglio di profughi, invece che su mezzi militari. Come è potuto succedere ? La verità è che la dichiarazione di Clark era di nuovo solo propaganda: vorrei vedere lui a leggere la targa di un camion mentre pilota un jet a 1500 km/h !

E’ possibile che questi sistemi di telerilevamento siano stati montati su alcuni aerei della NATO, ma non certo sui monoposto, che sono la grande maggioranza. Inoltre è anche molto improbabile che l’ordigno che ha provocato la strage fosse davvero una bomba laser: 400 kg di T4 sono decisamente esagerati per distruggere un veicolo, sia pure il più potente dei carri armati, e il sistema di guida laser è troppo complesso per essere usato contro mezzi in movimento. La cosa più probabile è che in Kosovo gli aerei della NATO abbiano sparato comuni ed economici missili a guida radar, non eccessivamente precisi, e “bombe a grappolo”, su qualsiasi cosa che si muovesse ed avesse più o meno l’aspetto di un convoglio militare (da 5000 m di altezza, al sicuro da quella contraerea che, per motivi che vedremo dopo, non si è riusciti ad eliminare). Se poi invece era un trattore o un autobus, chiunque ci fosse dentro, pazienza !

Quindi, le tanto decantate “armi intelligenti” non sono state capaci di risolvere la guerra, oltre a non risparmiare i civili.

Ma c’è di più: lo stesso concetto di operazione militare “chirurgica” era privo di senso in Jugoslavia: l’esercito jugoslavo è stato concepito, sin da quando è stato organizzato dal Maresciallo Tito, come un “esercito territoriale” distribuito sull’intero territorio nazionale, senza grosse strutture centralizzate o installazioni fisse. Le stesse postazioni antiaeree sono in buona parte piccole ed estremamente mobili, capaci di spostarsi rapidamente tra i mille boschi e montagne del paese, sicché riesce assai difficile identificarle. I carri armati non viaggiano in colonne, che potrebbero essere distrutte in un sol colpo dalle terribili bombe FAE (simili ad enormi bottiglie Molotov con 2 tonnellate di benzina, già usate in Iraq: vere armi di distruzione di massa anche se “convenzionali”); i mezzi jugoslavi si muovono invece rapidamente in piccoli gruppi da un nascondiglio all’altro. Per eliminarli si è dovuto colpirli uno per uno con i missili, o a colpi di cannone di precisione, con proiettili all’uranio lanciati dagli aerei A-10 (ma non dagli elicotteri Apache, che, essendo rimasta attiva la contraerea, hanno fatto molto meglio a non mettere il naso in Jugoslavia). Si capisce dunque perché non è stato possibile risolvere la guerra “chirurgicamente”.

Distrutto quel poco di struttura militare raggiungibile, abbattuti i ponti, colpite le fabbriche per distruggere l’economia jugoslava, inquinato di conseguenza il Danubio fino alla foce e l’atmosfera fino a chissà dove e per chissà quanto, distrutti obiettivi simbolici, come la sede del Partito Socialista Serbo e la TV jugoslava con dentro i suoi giornalisti e tecnici tanto per “far scena”, si poteva solo scegliere se passare al massacro indiscriminato, tramite l’intervento di terra di una armata di invasione di almeno 200.000 uomini, ed i bombardamenti “a tappeto” sulle città ad esso collegati, oppure interrompere la continuazione della guerra e dei bombardamenti “chirurgici”: tanto, alla propria opinione pubblica non si riusciva più a garantire che la guerra sarebbe stata breve. Per questo motivo, oltre che per evitare la definitiva destabilizzazione dell’area balcanica con i conseguenti terribili rischi di espansione del conflitto fino a dimensioni almeno europee, se non peggio, tutte le forze politiche e sociali realmente interessate alla pace hanno operato per impedire l’intervento di terra.


ARMI NON LETALI ED ARMI DI DISTRUZIONE DI MASSA “CONVENZIONALI”:
la guerra nell’era della “globalizzazione”
http://www.ecn.org/filiarmonici/armi.html 
V.F. Polcaro
Senior Scientist
CNR-IAS
Area di Ricerca Roma-Tor Vergata
e-mail: polcaro@saturn.ias.rm.cnr.it

Premessa

    Questo lavoro è stato scritto un anno fa, in occasione del Convegno “Cultura, Scienza e Informazione di fronte alle nuove guerre” del Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra, tenutosi al Politecnico di Torino nel giugno 2000, i cui atti sono reperibili nel libro: M. Zucchetti (a cura di), “Contro le nuove guerre”, Odradek, 2000.
    Dopo quella data, sono stati resi disponibili nuovi dati in aggiunta a quelli sui quali era basato l’articolo.
    Per quanto riguarda le armi non letali, il bilancio degli Stati Uniti stanzia cifre considerevoli per il loro sviluppo, mentre alcuni modelli derivati dai prototipi descritti in questo lavoro sono ormai considerati operativi (in particolare per quanto riguarda i sistemi di barriere antiuomo a radiazione elettromagnetica ed ultrasonica).
    Per quanto riguarda quelle che ho chiamato “armi di distruzione di massa convenzionali”, purtroppo tutte quelle descritte nel testo sono state impiegate nella recente guerra afgana dalle truppe USA e, per quel che riguarda le “bombe a grappolo” anche inglesi.
    Se ne conoscono quindi ora maggiori dettagli ed in particolare: La “Cannoniera volante” descritta nel testo si e’ evoluta nell’ AC 130 U “Spooky”. Il nuovo modello, impiegato nella seconda fase del conflitto, si differenzia dal precedente nell’armamento, che ora e’ costituito da un cannone da 25 mm a canne rotanti, da un cannone da 40 mm anticarro e da un obice da 105 mm, tutti montati sul lato sinistro, in modo da poter tenere sotto il proprio fuoco un punto fisso sul terreno, mentre l’aereo gli gira intorno. E’ stata inoltre potenziata l’avionica e le contromisure per poter sostenere anche una certa, limitata, azione antiaerea ostile.
    Nel conflitto afgano sono anche state usate almeno due bombe FAE, ora designate dalla sigla BLU-82 e dal nome in codice “Dasy cutter” (“Tagliamargherite”). Dell’ordigno sono state rilasciate alcune fotografie ed anche un breve filmato, che la vede sganciata da un C 130 (non dai B 52), e fatta discendere con un paracadute, in modo da non coinvolgere nell’esplosione (che avviene a circa 1 m da terra) l’aereo che la sgancia e di dare il tempo all’esplosivo liquido di mescolarsi con l’aria. I dati sulla sua potenza sono ancora abbastanza contradditori e sulla natura dell’esplosivo e’ stata riferita una composizione piuttosto incredibile (nitrato di ammonio, alluminio, idrogeno e ossigeno).
    Fino a prova contraria, riteniamo quindi ancora validi i dati riportati in questo lavoro.



Riassunto

    A partire dall’inizio degli anni ’90, lo scenario politico mondiale si e’ notevolmente modificato. In particolare, l’unica superpotenza sopravvissuta alla “guerra fredda” si e’ trovata nella necessità di disporre, oltre al suo arsenale militare prevalentemente concepito per combattere una guerra nucleare totale o guerre locali tradizionali, di armi che rendano possibile il controllo di territori spesso molto vasti ed abitati da una popolazione fortemente ostile e anche molto numerosa, ma male armata.
    La risposta a questa esigenza e’ stato lo sviluppo di due categorie di armi che sono sempre esistite ma che hanno trovato nelle moderne tecnologie e nell’attuale situazione politica mezzi e ragioni di uno sviluppo impensabile sino a pochi anni fa: le “armi non letali” e le “armi di distruzione di massa convenzionali”.
    Vengono descritte, con il particolare riferimento alle guerre in Iraq, Somalia e Jugoslavia, le principali tipologie, le modalità e gli scopi, tattici e strategici, dell’impiego di queste armi.

Le armi non letali nel nuovo quadro politico

    Da sempre, non tutte le armi, definite come oggetti atti a produrre un danno fisico ad un avversario, sono state progettate per uccidere. Infatti, la morte del nemico non è mai stata considerata in tutte le occasioni l’unica o la migliore conclusione di uno scontro.
    Il laccio, le “bolas”, la rete, la frusta e lo stesso bastone sono armi non letali (o almeno non necessariamente letali) di origine antichissima e di uso assai frequente in tutte le culture, nelle condizioni più svariate nelle quali si è preferito fermare o disabilitare, piuttosto che uccidere, il nemico.
    La necessità di armi non letali, delle quali dotare i corpi incaricati dell’ordine pubblico, si è fatta sentire maggiormente con lo svilupparsi della lotta di classe e quindi con il verificarsi di condizioni economiche e storiche nelle quali era da un lato necessario, per il potere costituito, fronteggiare masse umane ostili e notevolmente organizzate ma disarmate od armate di strumenti rudimentali mentre dall’altro era politicamente poco conveniente ed economicamente controproducente trasformare inevitabilmente gli scontri di piazza in massacri.
    Nascono così tra la fine del XIX e quella del XX secolo lo sfollagente, l’idrante antisommossa, i gas lacrimogeni, le pallottole di gomma, il pungolo elettrico, il Myotron (dispositivo elettrico a contatto in grado di paralizzare la muscolatura striata, in dotazione alla Polizia di Stato dell’Arizona) come armi non letali d’attacco e tutta la panoplia di armi di difesa delle quali è ormai dotato qualsiasi corpo di polizia del mondo, indipendentemente dal maggiore o minore grado di democraticità del potere statale che difende.
    Tuttavia, la guerra, intesa come scontro armato tra nazioni diverse, è rimasta sempre legata al principio che vince la nazione che è in grado di uccidere il maggior numero possibile di nemici, sicché l’armamento militare, dalle armi individuali a quelle di distruzione di massa, è stato, fino a pochissimo tempo fa, finalizzato sostanzialmente solo al massimo possibile di letalità.
    L’attuale quadro politico ed economico si presenta però sotto molti aspetti inedito: per la prima volta nella storia moderna, il mondo è sostanzialmente dominato da un’unica nazione alla quale non se ne contrappone alcuna capace di presentarsi come un avversario in grado di “vincere”, almeno sotto il profilo strettamente militare e nel senso prima enunciato. Inoltre, l’economia mondiale è così strettamente collegata che appare difficile identificare regioni del pianeta nelle quali sia possibile produrre danni materiali che non si ripercuotano, più o meno direttamente, anche sull’economia della nazione dominante o su quella di nazioni ad essa strettamente collegate.
    D’altro canto, questa situazione non si traduce certamente in migliori condizioni di vita per tutta la popolazione mondiale, ma anzi popolazioni sempre più numerose sono espropriate delle proprie risorse e del proprio lavoro in favore della potenza dominante e di coloro che ad essa si sono aggregati. Inevitabilmente quindi alcune nazioni tentano ed ancor più tenteranno in futuro di opporsi a questo “nuovo ordine mondiale”, anche con l’uso della forza. Tuttavia la repressione di questa opposizione, proprio per la sproporzione della potenza militare delle parti che si affrontano, non può configurarsi come una “guerra”, ma viene oggettivamente a configurarsi come una “operazione di polizia internazionale”, non dissimile concettualmente dall’intervento delle forze dell’ordine di una nazione contro una manifestazione di piazza che non si riesce a controllare pacificamente. E, come in questo caso, sarebbe ovviamente conveniente se si riuscisse a neutralizzare l’avversario senza ridurre lo scontro ad un massacro.
    In queste condizioni, è naturale che negli USA si siano sviluppate e si stiano ulteriormente sviluppando, i più disparati tipi di armi da guerra non letali.

2. Le armi da guerra non letali operative.

    Attualmente, solo due categorie di armi da guerra non letali sono in una fase operativa: le armi a colla e le armi laser. Ad esse devono naturalmente essere aggiunti svariati tipi di gas ed aerosol disabilitanti, che agiscono in base a diversi tipi di principi chimici e biologici e che sono ormai noti da decenni. Tuttavia, l’uso operativo di quest’ultima classe di aggressivi è drasticamente limitato dai trattati internazionali, che difficilmente possono essere indeboliti dato che ciò darebbe legittimità all’impiego di armi chimiche, cosa che certo non andrebbe a vantaggio di chi vuole controllare il mondo. Si descriveranno quindi nel seguito solo le armi delle prime due categorie.
2.1 Le armi a colla
    Il “fucile lancia-colla” è in dotazione ad alcuni corpi di polizia metropolitana negli USA ed è stato usato dalle truppe americane durante l’operazione “Restore Hope” in Somalia nel 1995. Si tratta in pratica di un dispositivo ad aria compressa che spruzza fino ad una distanza di qualche decina di metri una colla rapida che, nel giro di alcuni secondi, solidifica bloccando completamente i movimenti di chi ne venga ricoperto. La vittima viene successivamente liberata cospargendola di un opportuno solvente. La colla è permeabile ai gas, anche dopo essere solidificata, sicché chi ne venga colpito può agevolmente continuare a respirare e le autorità militari garantiscono che sia la colla che il suo solvente sono completamente atossici. L’arma è però ingombrante, pesante, difficile da maneggiare e con un numero estremamente limitato di “colpi”. Inoltre, la sua gittata è corta e molto inferiore alla più scadente arma da fuoco della quale possa essere armato l’avversario. In pratica, essa non si è dimostrata di alcuna utilità.
    Le “barriere adesive” sono invece costituite da bande di tessuto di fibra di vetro ricoperte di un potente adesivo che polimerizza quasi istantaneamente sotto un carico di qualche decina di kg. Fissate al suolo, bloccano, incollandoli al terreno, sia chi le calpesti a piedi che le ruote di un automezzo che tenti di attraversarle. Esse sono state concepite come alternativa “non letale” ai campi minati ed alle barriere di filo spinato per la difesa di aree delimitate di territorio e sono state usate dalle truppe USA in Somalia. Tuttavia, anch’esse si sono mostrate completamente inefficaci in quanto sono state neutralizzate dalle milizie somale spargendovi sopra sabbia o semplici fogli di giornale.
2.2 Le armi laser
    Sono già stati sviluppati laser che possono accecare temporaneamente o permanentemente un uomo. In realtà, qualsiasi laser commerciale di potenza non trascurabile, puntato agli occhi di una persona, produce questo effetto. Un’arma laser è quindi solo un normalissimo laser dotato di una impugnatura capace di permetterne il puntamento verso il nemico. Naturalmente, accecare in modo permanente una persona si deve considerare più inumano che ucciderla e per questo motivo un trattato, firmato anche dagli USA alla fine del 1995, vieta lo sviluppo di armi laser che possano accecare permanentemente una persona. La convenzione non vieta però lo sviluppo di laser che producano un abbagliamento od una cecità temporanea. Il problema consiste nel regolare opportunamente la potenza e la frequenza del fascio, dato che la soglia che separa l’effetto temporaneo da quello permanente non è ben definita e probabilmente varia da persona a persona.
    Negli USA è stato sviluppato un laser applicabile sotto la canna della carabina M16, che può emettere un brevissimo impulso di potenza adeguata a provocare l’abbagliamento dell’avversario. Anche questo tipo di arma è stato dato in dotazione al alcuni corpi statunitensi durante le operazioni in Somalia nel 1995, precedentemente alla firma della convenzione contro i laser accecanti. Tuttavia, il comandante dei Marines, per evitare il rischio di essere poi accusato di condotta di guerra inumana, fece regolare la potenza dei laser al minimo, in modo da usarli solo come dispositivo di puntamento per i più convenzionali (e decisamente letali) fucili di precisione.(Pasternak, 1997). Le truppe Russe sono state accusate di aver usato laser accecanti durante le operazioni in Cecenia, ma non è chiaro se invece non si sia trattato di incidenti, più o meno volontari, nell’uso di mirini laser regolati a potenza troppo alta.

3. Le armi non letali sperimentali

3.1 Armi acustiche
    Un fascio di vibrazioni ultrasoniche può trasportare una quantità considerevole di energia che può interagire con vari equilibri biologici del corpo umano. Fasci ultrasonici di opportuna frequenza possono mettere in risonanza gli organi dell’equilibrio, provocando vertigini o nausea, o l’intestino, provocando una incontenibile diarrea.
    Un fascio ultrasonico può essere usato anche con il solo scopo di trasportare energia contro un bersaglio: è noto che gli scienziati nazisti avevano costruito un “cannone ultrasonico” in grado di abbattere un aereo. Il dispositivo fu replicato nel 1949 da un tecnico americano, Guy Obolensky, ma il Pentagono, che aveva già sperimentato dispositivi analoghi durante la Guerra, non fu interessato all’arma, in quanto non competitiva rispetto ad un tradizionale cannone antiaereo, più potente e molto meno ingombrante.
    La società privata SARA, di Huntington Beach (California) ha invece sviluppato e sperimentato per il DoD statunitense un dispositivo chiamato “barriera ultrasonica” che emette intorno ad un’area localizzata fasci di ultrasuoni che provocano effetti sempre più gravi via via che ci avvicina alle sorgenti d’onda (Pasternak, 1997). La stessa ditta ha dichiarato di stare sviluppando diversi altri tipi di armi acustiche che saranno operativi entro dieci anni.
    Ovviamente, la potenza di un’arma ad ultrasuoni, a differenza di quella di un proiettile, decresce con il quadrato della distanza dall’obiettivo ed è quindi inutilizzabile contro un nemico sufficientemente lontano.
3.2 Armi a radiofrequenza
    Nel 1987 il Pentagono dichiarò che i sovietici avevano sperimentato un’arma capace di uccidere una capra ad un km di distanza con un fascio di radiazione elettromagnetica a radiofrequenza. Mancano riscontri oggettivi di questa affermazione, ma sicuramente il DoD statunitense stanzia fondi per ricerche in questa direzione dall’inizio degli anni ’60. Una sperimentazione (fallita) per un’arma di questo tipo fu anche svolta in Italia da Marconi per conto del governo fascista.
    Recentemente Clay Easterly, un ricercatore della Divisione di Scienze Mediche degli Oak Ridge National Labs, una delle istituzioni di ricerca pubblica statunitense più attiva nella ricerca militare, ha presentato al Corpo dei Marines il progetto di massima un “fucile a radiofrequenza” capace di indurre attacchi di epilessia e di un “fucile termico” capace di indurre, per riscaldamento elettromagnetico, un innalzamento della temperatura corporea del bersaglio di due gradi, producendo effetti analoghi a quelli di una fortissima febbre (Pasternak, 1997).
    Lo sviluppo di questo tipo di armi appare però problematico, data la grande potenza dell’emissione elettromagnetica richiesta. Inoltre, la focalizzazione di radiazioni a radiofrequenza richiede intrinsecamente l’uso di antenne di grandi dimensioni e quindi di difficile maneggio e facilmente vulnerabili da parte di colpi di arma da fuoco sparati da distanze molto maggiori di quelle alle quali si può ragionevolmente sperare di ottenere un flusso di energia dall’arma con qualche effetto biologico.
    Ad ogni modo, gli studi su questo tipo di armi continuano negli USA, tanto che l’USAF ha stanziato a questo fine 110 milioni di dollari per ricerche su queste armi nel 1996 (Pasternak, 1997).
3.3 Armi a bassa frequenza
    Una radiazione elettromagnetica a bassa frequenza può stimolare l’emissione di istamina da parte delle cellule cerebrali e quindi indurre sonnolenza od anche un sonno profondo. E’ noto che studi di un’arma basata su questo effetto furono condotti dal Corpo dei Marines agli inizi degli anni ’80, ma non ne sono noti gli sviluppi.

4. I problemi delle armi da guerra non letali

    Come abbiamo visto nell’introduzione, lo sviluppo di armi da guerra non letali sarebbe estremamente conveniente per la nazione che controlla l’attuale situazione mondiale, sicché non vengono risparmiate risorse economiche ed umane per questi progetti. Abbiamo però anche visto come questo obiettivo sia difficile da realizzare.
    Le armi sviluppate sino ad ora sono ingombranti, scarsamente maneggevoli, efficaci solo a breve distanza. Inoltre, tutti i progetti che sono attualmente noti hanno prodotto prototipi di armi che non mettono in grado chi le usi di difendersi da un avversario armato di armi da fuoco tradizionali più potenti di una pistola.
    Infine, le “armi non letali” possono essere più inumane delle armi convenzionali, esponendo chi le impieghi alla reazione della stessa opinione pubblica del proprio paese. Quindi, come è stato recentemente mostrato da Hertog (1998), che pure è favorevole allo sviluppo di questi strumenti bellici, le armi non letali pongono problemi politici, legali ed etici che debbono essere risolti prima che esse possano essere considerate operative, indipendentemente dalla soluzione dei problemi tecnici tuttora irrisolti.
    Esse potranno quindi forse evolversi fino a fornire nuovi dispositivi antitumulto ma, a differenza del caso delle operazioni di ordine pubblico su scala locale, le cosiddette “operazioni di polizia internazionale” debbono affrontare eserciti dotati di armamenti spesso di tutto rispetto (anche se certamente non paragonabili come potenza a quelli che possono mettere in campo gli USA o la NATO), di addestramento a livello altamente professionale, oltre che di una motivazione ovviamente superiore a quello degli aggressori.

5. Le armi di distruzione di massa “convenzionali”

    Per quanto abbiamo esposto in precedenza, per ora, e probabilmente per un lunghissimo periodo, le operazioni di polizia internazionale saranno condotte con il tradizionale fine di ogni guerra  : uccidere il maggior numero possibile di “nemici”. Tuttavia, una operazione di “peace keeping”, per poter continuare ad apparire giustificata agli occhi della propria opinione pubblica e rimanere compatibile con i vincoli di bilancio che l’economia moderna impone ad ogni amministrazione pubblica, deve potersi concludere rapidamente con una indiscutibile vittoria, con scarse perdite nelle proprie truppe, e non trasformarsi in una interminabile guerra “a bassa intensità”, come la guerra nel Vietnam. Il problema non è quindi solo quello di uccidere moltissimi (o anche tutti i) soldati dell’esercito nemico: questo era possibile già dagli inizi dell’epoca storica, con una adeguata potenza militare disponibile. Il problema è ora di riuscire a farlo abbastanza in fretta ed economicamente.
    E’ quindi necessario colpire lo “stato terrorista” con la massima violenza possibile, con l’obiettivo teorico di infliggere un singolo “primo colpo disarmante”.
    A parte la mistificazione delle “armi intelligenti” (Polcaro, 1999), è chiaro che lo strumento tecnicamente più adatto a questo scopo rimane l’uso di un arma nucleare tattica, più o meno della potenza della bomba di Hiroshima (20 kton). Tuttavia, la situazione politica internazionale non permette ancora questa soluzione ottimale del problema del “peace keeping” (Polcaro, 2000).
    Tuttavia, alcuni sistemi d’arma “convenzionali”, cioè non compresi nelle categorie delle armi atomiche, biologiche e chimiche, impiegati negli ultimi conflitti (Guerra del Golfo, Somalia, Balcani) hanno capacità letali che dovrebbero, a parere di chi scrive, farli considerare tra le “armi di distruzione di massa”.
    Se ne descriveranno nel seguito alcuni tipi già operativi.

Bombe FAE (Fuel – Air Explosive”)
    Questo tipo di armamento aereo di caduta si basa sul principio delle “bomba Molotov”: una miscela stechiometrica di combustibile liquido ed aria, innescata in un contenitore ermetico con spessore adeguato, detona con una potenza esplosiva molte volte superiore a quella del tritolo. Questo tipo di esplosivo fu inventato nella Repubblica Federale Tedesca, verso l’inizio degli anni ’70, ed arma bombe da 2 t in dotazione all’USAF. Anche se mancano dati ufficiali precisi, la potenza di questi ordigni si stima in 2 kton, corrispondenti ad una bomba nucleare “da teatro”. Sono state impiegate contro le colonne di blindati irakeni in ritirata dal Kuwait. L’ingombro ne limita l’uso, che è possibile solo con il bombardiere strategico B 52. Data la vulnerabilità del vettore, sono impiegabili solo contro avversari con scarse capacità antiaeree.
Cannoniera volante
    Si tratta di un velivolo da trasporto C 130 “Hercules”, modificato aprendo 4 portelli su ciascun lato della fusoliera. Da ognuno di essi, opera un cannoncino “Vulcan” da 30 mm a canne rotanti, con rapidità di tiro di 2000 colpi al minuto. Si stima che, intervenendo da una quota di 500 m su di un assembramento, sia in grado di uccidere 10000 persone in 5 minuti. E’ stato impiegato dall’USAF durante la campagna “Restore Hope” in Somalia nel 1995. Data la bassa velocità, la vulnerabilità e la bassa quota operativa, è impiegabile solo contro avversari completamente privi di copertura antiaerea.
Bombe a grappolo
    Si tratta di contenitori da caduta, lanciabili da praticamente tutti i tipi di bombardieri, caccia-bombardieri e velivoli d’assalto. Dopo una breve discesa libera, la caduta del contenitore viene rallentata da un paracadute. A questo punto, il contenitore, al comando di un dispositivo barometrico, si apre, liberando un numero variabile da qualche decina a diverse centinaia di mine di varia potenza e tecnologia, che discendono a loro volta frenate da piccoli paracadute, disseminandosi su di una vasta area. In dotazione alla maggior parte delle aviazioni militari del mondo, ne è documentato l’uso da parte della RAF durante la Guerra delle Malvine del 1982 e di diverse aviazioni di paesi NATO durante la Guerra dei Balcani del 1999. Non vi sono problemi tecnici di tipo particolare al loro impiego. La capacità di distruzione di massa dell’ordigno non deriva dal singolo intervento, ma dal suo uso estensivo che produce ad ogni effetto un risultato analogo a quello delle mine anti-uomo, ormai vietate da una convenzione internazionale, disseminando il territorio nemico di milioni di mine che permangono letali, prevalentemente per la popolazione civile, anche molti anni dopo la fine del conflitto.

Conclusioni

    La fine della “Guerra Fredda” e la dissoluzione del Blocco Orientale, al contrario di quanto avevano sperato molti pacifisti, non ha affatto posto termine alla violenza ed alla guerra. Anzi, i milioni di “morti virtuali” dell’epoca dell’equilibrio del terrore tra le due superpotenze sono stati sostituiti dalle centinaia di migliaia di morti reali nelle guerre che si sono verificate nell’ultimo decennio, perché la possibilità concreta di una parte di imporre il proprio dominio economico e politico sull’intero pianeta, anche ricorrendo all’uso della forza, resa prima impossibile dal rischio di una guerra nucleare non poteva e non potrà portare ad un mondo pacifico.
    E’ dovere della comunità scientifica e delle persone di cultura contribuire a far divenire coscienza comune l’idea che la pace nasce solo dalla prevenzione dei conflitti, tramite accordi che risultino accettabili ad entrambe le parti, non dalla vittoria di una parte o dal possesso di armi che possano imporre la pace: il sogno di Nobel ed Einstein dell’ “arma che ponga fine alle guerre” si è dimostrato irrealizzabile.

Bibliografia

Hertog M. K., “Nonlethal Weapons and Their Role in Military Police Missions”, http:/www.au.af.mil/au/database/research/ay1996/awc/hertgog_mk.htm, Mar 10, 1998
Pasternak, D., “Wonder Weapons”, U.S. News, July 07, 1997
Polcaro V. F., “L’imbroglio dell’intervento chirurgico”, in F. Marenco (ed.) “Imbrogli di guerra”, Odradek, Pisa, 1999
Polcaro, V. F., “I rischi per la pace derivanti dallo sviluppo di sistemi di difesa antimissile”, memoria presentata al Convegno ” Cultura, Scienza e Informazione di fronte alle nuove guerre”, Politecnico, Torino, 22-23 giugno 2000


Fonte: Atti del Convegno “Scudo spaziale, Industria Bellica, Tecnologie Militari: quale utilità, quali interessi in campo?”
Tenutosi il 24 Settembre 2001 al Politecnico di Torino.
A cura di Massimo Zucchetti (Politecnico di Torino, Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra)



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