GLI ANNI PRECEDENTI LA RIVOLUZIONE IN IRAN

All’inizio del Novecento, la Gran Bretagna ottiene dallo Sciah il diritto esclusivo di cercare petrolio in Iran, per 60 anni. Viene fondata a Londra la Anglo-Persian Company, che realizza, fino al 1950, profitti di 180-200 milioni di sterline con l’estrazione di 31.750.000 tonnellate di petrolio grezzo. Lo stato persiano riceve le briciole di questi enormi profitti: appena 16 milioni, ossia il 9% sul totale. In questo stesso periodo, le condizioni della popolazione sono peggiorate. L’80% della popolazione e’ denutrita; il consumo medio di pane e’ il piu’ basso del Medioriente; la mortalita’ infantile nel primo anno di vita arriva al 51%; la vita media dei contadini sfiora i 40 anni; l’attrezzatura ospedaliera e’ pressocche’ inesistente. Nel 1950 Mohammed Mossadeq, capo del Fronte Nazionale, tiene in Parlamento il suo primo discorso sulla necessita’ di nazionalizzare l’industria petrolifera: “E’ necessario porre fine a questa insostenibile situazione nel nostro paese. (…) Con l’eliminazione del potere della Compagnia inglese verrebbero al tempo stesso eliminati la corruzione e gli intrighi che finora hanno esercitato la loro nefasta influenza sulla politica interna del nostro paese. Cessata la tutela inglese, la Persia raggiungera’ la sua indipendenza politica ed economica. Lo stato iraniano dovrebbe prendere nelle sue mani la totalita’ della produzione di petrolio. La Compagnia non avra’ altro da fare che restituire al legittimo proprietario la sua proprieta’. (…) La Persia con la nazionalizzazione non subira’ perdite economiche, anche se invece dei 30 milioni di tonnellate di petrolio grezzo estratti nel 1950 si potranno produrre solo 10 milioni di tonnellate. (…) Infatti ricaveremmo un guadagno di 30 milioni di sterline l’anno e inoltre risparmieremmo 20 milioni di tonnellate di petrolio per il futuro“. (1)

La nazionalizzazione viene approvata e Mossadeq viene eletto nuovo capo del governo. Il governo inglese prepara un contrattacco armato che viene bloccato dal veto americano. Inizia pero’ uno spietato boicottaggio economico alla Persia, appoggiato da tutte le compagnie petrolifere. Non potendo piu’ vendere il suo petrolio, l’Iran si viene a trovare in un vicolo cieco. Lo sciah, appoggiato dai proprietari terrieri, la cui potenza e’ minacciata dalla riforma agraria progettata da Mossadeq, e dagli USA, che ambiscono a rimpiazzare l’Inghilterra nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi iraniani, prepara la caduta di Mossadeq. Il tentativo di deporre l’anziano primo ministro fallisce, e lo Sciah e’ costretto a fuggire in Europa. Il 19 agosto 1953, il generale Zahedi fa cannoneggiare la casa di Mossadeq e lo fa arrestare. Lo Sciah ritorna in Iran.

“La CIA ebbe una parte decisiva nel rovesciamento del primo ministro iraniano Mossadeq nell’agosto del 1953” (New York Times, 21/5/1961); “Un altro trionfo della CIA fu il fortunato colpo di Stato dell’estate 1953 nell’Iran, mediante il quale il vecchio presidente del Consiglio Mossadeq, con le sue pretese dittatoriali, fu rovesciato e fu riportato al potere lo Sciah Mohammed Reza Pahlavi, sincero amico del nostro paese” (Saturday Evening Post, 6/11/54).

Dal ’53 in poi le ditte straniere realizzano guadagni che si aggirano sui 300 milioni di dollari annui; questa cifra, nel ’65, e’ gia’ il triplo della somma totale concessa, nello stesso periodo, a titolo di “aiuto” per lo sviluppo. Sempre meno vengono utilizzate le raffinerie persiane a vantaggio delle raffinerie dei paesi importatori, per cui, mentre aumenta il prezzo del petrolio esportato, cala la manodopera locale, aumentano la disoccupazione e l’emorragia di denaro sotto forma di salari ad esclusivo vantaggio del Consorzio del Petrolio. La situazione nelle campagne continua ad essere esplosiva. Lo Sciah, per placare il pericolo di una insurrezione, promulga la cosiddetta “riforma agraria”, cardine della sua “rivoluzione bianca”. La riforma viene imposta allo Sciah dagli americani che giudicavano pericolosissima la situazione nelle campagne. La miseria era tale che temevano che da un momento all’altro scoppiasse la rivolta. E loro, invece, avevano bisogno di “ordine” per fare i pace i loro affari con il petrolio.

L’opposizione al regime dello Sciah ed alla sua feroce e repressiva polizia segreta, la Savak, cresce sempre piu’. L’Universita’ di Teheran, negli anni ’60, viene chiusa a piu’ riprese. I giovani contestano in modo particolare la decisione dello Sciah di spendere 250 milioni di dollari per le celebrazioni del 2500esimo anniversario dell’impero quando il paese e’ in forte crisi economica e sociale. Ma il governo ignora le proteste. Le autorita’ sostengono che i rivoluzionari sono non piu’ di 4-5000, e che verranno sicuramente liquidati entro l’anno. La Savak lavora a pieno ritmo. L’opposizione piu’ forte si riscontra tra i giovani rampolli delle classi medio-alte e soprattutto tra gli studenti iraniani all’estero. “Se calcolero’ i tempi con esattezza, potro’ dire di essere stato il primo sovrano ad aver cambiato il volto di una nazione senza spargimenti di sangue. Se commettero’ degli errori, il mio regno finira’ in tragedia”, dice, profeticamente, Reza Pahlavi.

Ed il suo grande errore e’ quello di tentare di stroncare le opposizioni non gia’ facendo concessioni democratiche, bensi’ rafforzando il potere centrale. L’opposizione ora arriva da destra e da sinistra e, soprattutto dal clero sciita, il cui massimo rappresentante, l’Ayatollah Ruhullah Khomeini, dal suo esilio iracheno, mantiene le fila della resistenza contro il potere dello Sciah.

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Rivelazioni sul colpo di stato contro mossadeq
Iran 1953, il complotto della Cia


Il 19 marzo scorso, la segretaria di stato americana Madeleine Albright riconosceva per la prima volta il «coinvolgimento» degli Stati uniti nel colpo di stato che, nel 1953, aveva fatto cadere il primo ministro iraniano Mohammed Mossadeq. Se le circostanze di quell’operazione non sono ancora del tutto chiare, un rapporto della Cia, divulgato nell’aprile scorso dal New York Times, rivela quale fu il ruolo dei servizi segreti di Londra e di Washington in questa vicenda, che capovolse i rapporti di forza in Medioriente.

di MARK GASIOROWSKI*
Qualche mese fa, il New York Times ha ricevuto il rapporto ufficiale del colpo di stato organizzato nel 1953 dalla Cia contro il primo ministro iraniano Mohammed Mossadeq e, il 16 giugno scorso, lo ha pubblicato sul suo sito web (1). Dal documento erano stati cancellati i nomi di varie personalità iraniane coinvolte, ma bastava collegarsi a un altro sito per poterli leggere per intero (2). Questo documento avvincente contiene importanti rivelazioni sul modo in cui fu condotta quell’operazione e chiunque si interessi alla politica interna iraniana o alla politica estera statunitense dovrebbe leggerlo. Il colpo di stato avvenne in un periodo di grande fermento per la storia iraniana, nel momento in cui la guerra fredda era al suo culmine.
Mossadeq era allora leader del Fronte nazionale, organizzazione politica fondata nel 1949 che mirava alla nazionalizzazione dell’industria petrolifera, all’epoca sotto controllo britannico, e alla democratizzazione del sistema politico. Due questioni che avevano grande presa sulla popolazione, tanto che il Fronte nazionale era diventato rapidamente l’attore principale sulla scena politica iraniana. Nel 1951, lo scià Mohammed Reza Pahlavi si vide costretto a nazionalizzare l’industria petrolifera e a nominare Mossadeq primo ministro, mettendosi in aperto conflitto con il governo britannico. La Gran Bretagna reagì organizzando un embargo totale contro il petrolio iraniano e avviando una serie di manovre a lungo termine con l’obiettivo di rovesciare Mossadeq.
Gli Stati uniti decisero inizialmente di restare neutrali e incoraggiarono i britannici ad accettare la nazionalizzazione, cercando, allo stesso tempo, di negoziare un compromesso, e arrivando fino al punto di far desistere Londra, nel settembre 1951, dall’idea di invadere l’Iran.
Sebbene numerosi dirigenti americani ritenessero che l’ostinazione di Mossadeq creasse un clima di instabilità politica che esponeva l’Iran al rischio di «passare dall’altra parte della cortina di ferro» (pagina III del rapporto), l’atteggiamento di neutralità fu mantenuto fino alla scadenza dell’amministrazione di Harry S. Truman nel gennaio 1953. Nel novembre 1952, poco dopo l’elezione alla presidenza degli Stati uniti del generale Dwight D. Eisenhower, alcuni alti responsabili britannici proposero ai loro omologhi americani di organizzare congiuntamente un colpo di stato contro Mossadeq. La risposta fu che l’amministrazione uscente non avrebbe mai intrapreso una tale operazione, ma quella di Eisenhower, che sarebbe entrata in carica a gennaio, avrebbe probabilmente accettato, vista la sua determinazione ad intensificare la guerra fredda.
Il rapporto della Cia racconta in modo chiaro il modo in cui fu preparata l’operazione. Ottenuta l’autorizzazione del presidente Eisenhower nel marzo 1953, gli ufficiali della Cia studiano il modo in cui organizzare il colpo di stato e iniziano a porsi il problema della sostituzione del primo ministro. La loro scelta cade subito su Fazlollah Zahedi, un generale in pensione che aveva già complottato con i britannici.
A maggio, un agente della Cia e un esperto dell’Iran che lavora per il Secret Intelligence Service (Sis) britannico trascorrono due settimane a Nicosia, sull’isola di Cipro, per mettere a punto una prima versione del piano. Questa bozza preparatoria sarà poi rivista da altri responsabili della Cia e del Sis, che ne elaboreranno una versione definitiva a Londra a metà giugno. Il piano finale prevede sei fasi principali. In primo luogo, la sezione iraniana della Cia e la principale rete di spionaggio britannica in Iran, diretta all’epoca dai fratelli Rashidan, dovevano destabilizzare il governo Mossadeq con azioni di propaganda e altre attività politiche clandestine. In seguito, Fazlollah Zahedi avrebbe costituito una rete di ufficiali in grado di compiere il colpo di stato. In terzo luogo, la squadra della Cia doveva «comprare» la collaborazione di un numero sufficiente di parlamentari iraniani per assicurarsi l’ostilità del potere legislativo a Mossadeq. Poi, bisognava ottenere l’appoggio dello scià sia al colpo di stato che a Zahedi, anche se si era deciso che l’operazione sarebbe stata comunque portata avanti, con o senza l’accordo del monarca.
A questo punto, la Cia doveva tentare di rovesciare Mossadeq in modo «quasi legale» (pagina A3), provocando cioè una crisi politica che avrebbe portato il Parlamento a destituirlo. Secondo il piano, la crisi doveva essere provocata facendo organizzare ai leader religiosi manifestazioni di protesta, che avrebbero persuaso lo scià ad abbandonare il paese e creato una situazione tale da spingere Mossadeq a dimettersi.
Infine, se il tentativo fosse fallito, la struttura militare messa in piedi da Fazlollah Zahedi si sarebbe impossessata del potere con l’aiuto della Cia. «Con qualunque mezzo» Le prime tre fasi erano in realtà già state avviate prima della messa a punto del «piano di Londra». Il 4 aprile, la sezione della Cia di Tehran riceve un milione di dollari destinati «a far cadere Mossadeq con qualunque mezzo» (pagina 3). A maggio, scatena, insieme ai fratelli Rashidian, una campagna di propaganda contro Mossadeq e, presumibilmente, organizza altre azioni clandestine contro di lui. Gli sforzi vengono accelerati nel corso delle settimane che precedono il colpo di stato (pagina 92).
La Cia prende contatto con Fazlollah Zahedi in aprile, versandogli 60.000 dollari (e forse anche di più) affinché «trovi nuovi alleati e influenzi personalità di primo piano» (pagina B15). Il resoconto ufficiale nega che siano stati comprati ufficiali iraniani (pagina E22); è tuttavia difficile immaginare in quale altro modo abbia potuto Zahedi spendere questi soldi. La Cia si accorge rapidamente che quest’ultimo «è sprovvisto della necessaria determinazione, dell’energia e di una concreta strategia» e non è quindi in grado di mettere in piedi una struttura militare capace di portare a compimento il colpo di stato. Il compito viene dunque affidato ad un colonnello iraniano che già lavorava per la Cia.
Alla fine di maggio del 1953, la sezione della Cia è autorizzata a investire circa 11.000 dollari a settimana per assicurarsi la cooperazione dei parlamentari. Aumenta sensibilmente l’opposizione a Mossadeq, il quale reagisce invitando i parlamentari che gli sono fedeli a dimettersi, così da far mancare il numero legale e portare allo scioglimento del Parlamento. Per contrastarlo, la Cia cerca allora di convincere alcuni parlamentari a ritirare le dimissioni. All’inizio di agosto, Mossadeq organizza un referendum truccato nel corso del quale gli iraniani si pronunciano in massa a favore dello scioglimento e per nuove elezioni. Questo impedisce ormai alla Cia di portare avanti le sue azioni «quasi legali», anche se continua a far uso della propaganda per accusare Mossadeq di aver falsificato il referendum.
Il 25 luglio, la Cia inizia un’opera di «pressione» e una lunga serie di «manovre» per persuadere lo scià ad appoggiare il colpo di stato ed accettare la nomina di Fazlollah Zahedi a primo ministro. Nelle tre settimane successive, quattro inviati incontrano lo scià quasi ogni giorno per convincerlo a collaborare. Il 12 o il 13 agosto, quest’ultimo, malgrado le reticenze, finisce per accettare e firma i decreti reali (firman) che portano alla destituzione di Mossadeq e alla nomina di Zahedi al suo posto. Ad agire in tal senso l’avrebbe persuaso la regina Soraya (pagina 38).
I punti oscuri del rapporto Il 13 agosto, la Cia incarica il colonnello Namatollah Nassiri di consegnare i firman a Zahedi e Mossadeq. Ma le lungaggini dei negoziati con lo scià hanno fatto trapelare il segreto, tanto più che uno degli ufficiali coinvolti svela l’esistenza di un complotto. Mossadeq fa arrestare Nassiri, nella notte tra il 15 e il 16 agosto proprio mentre questo si appresta a consegnare il primo decreto. Poco dopo, altri congiurati subiscono la stessa sorte. Preparata a una simile eventualità, la Cia aveva preparato alcune unità militari favorevoli a Zahedi ad impadronirsi di alcuni punti nevralgici di Tehran e compiere il colpo di stato. Ma gli ufficiali responsabili si eclissano al momento dell’arresto di Nassiri, provocando il fallimento di questo primo tentativo di golpe. Zahedi e altri responsabili del complotto si rifugiano allora in diversi nascondigli predisposti dalla Cia. Lo scià fugge in esilio, prima a Baghdad, poi a Roma, e Kermit Roosevelt, direttore della sezione locale della Cia, annuncia a Washington che il colpo di stato è fallito. Poco dopo, riceve l’ordine di interrompere l’operazione e rientrare negli Stati uniti.
Ma Kermit Roosevelt e la sua squadra decidono allora di improvvisare un secondo tentativo. Cominciano a distribuire ai media copie dei decreti dello scià, per mobilitare l’opinione pubblica contro Mossadeq.
I giorni successivi, i due principali agenti iraniani portano avanti, con lo stesso obiettivo, una serie di operazioni «occulte». Per aizzare gli iraniani credenti contro Mossadeq, proferiscono minacce telefoniche ai capi religiosi e «inscenano un attentato» contro la casa di un ecclesiastico (pagina 37), facendosi passare per membri del potente partito comunista Tudeh. Il 18 agosto, organizzano una serie di manifestazioni i cui partecipanti sostengono di essere membri del Tudeh. Su istigazione di questi due agenti, i manifestanti saccheggiano la sezione di un partito politico, abbattono statue dello scià e di suo padre e seminano il panico a Tehran. Rendendosi conto di ciò che sta accadendo, il Tudeh invita i suoi iscritti a non uscire di casa (pp. 59, 63 e 64), il che impedisce loro di opporsi ai manifestanti anti-Mossadeq che il giorno seguente invadono le strade.
La mattina del 19 agosto, questi ultimi cominciano a riunirsi nei pressi del bazar di Tehran. Il resoconto della Cia definisce queste manifestazioni «semi-spontanee», ma aggiunge che «le circostanze favorevoli create dall’azione politica [della Cia] contriburono a farle esplodere» (pagina XII). In effetti, la divulgazione dei decreti dello scià, le «false» manifestazioni del Tudeh e le altre operazioni «occulte» portate avanti nei giorni precedenti hanno spinto numerosi iraniani ad unirsi a tali manifestazioni. Diversi agenti iraniani della Cia conducono allora i manifestanti nel centro di Tehran e convincono le unità dell’esercito a seguirli, incitando la folla ad attaccare il quartier generale di un partito favorevole a Mossadeq e ad incendiare un cinema e diverse redazioni di giornali (pp. 65, 67 e 70). Le unità militari ostili a Mossadeq cominciano allora ad assumere il controllo di Tehran, impadronendosi delle stazioni radio e di altri punti chiave. Esplodono violenti gli scontri, ma le forze favorevoli al primo ministro sono sconfitte.
Mossadeq si nasconde, ma il giorno dopo si arrende.
Il resoconto della Cia lascia in sospeso due questioni fondamentali.
Innanzitutto, non chiarisce l’origine del tradimento che ha fatto fallire il primo tentativo di golpe, accontentandosi di ridurre il motivo di tale fallimento «alle rivelazioni di uno degli ufficiali dell’esercito iraniano coinvolti» (pagina 39). Inoltre, non spiega in che modo l’azione politica della Cia abbia favorito l’organizzazione delle manifestazioni del 19 agosto, né quanto abbia inciso sul loro inizio. Altri resoconti del colpo di stato basati su interviste a partecipanti di primo piano suggeriscono che la Cia avrebbe fornito indirettamente denaro ai capi religiosi, i quali probabilmente non erano al corrente dell’origine di tali fondi. Ma questa versione non è confermata dal rapporto della Cia. E, visto che la quasi totalità delle persone coinvolte è oggi deceduta e la Cia sostiene di aver distrutto la maggior parte degli archivi riguardanti l’operazione, tali dilemmi sono probabilmente destinati a rimanere insoluti. È anche difficile riuscire a capire chi vi sia all’origine della fuga di notizie che ha permesso la divulgazione di questo rapporto ufficiale e quale sia il vero scopo di questa fuga. Nell’articolo pubblicato il 16 aprile scorso, in cui rendeva nota una parte del rapporto, il New York Times spiegava soltanto che il documento era stato fornito da un «ex ufficiale che ne aveva ancora una copia».
Casualmente, un mese prima, la segretaria di stato Madeleine Albright aveva ammesso per la prima volta, durante un importante discorso destinato a promuovere il riavvicinamento tra Stati uniti e Iran, il coinvolgimento del governo americano nel colpo di stato e aveva chiesto scusa (3). Molti ritengono che la fuga di notizie sia stata deliberatamente organizzata dal governo o da una persona decisa a sostenere l’iniziativa della Albright. Ammesso che sia vero, è tuttavia difficile credere che il rapporto avrebbe potuto essere divulgato nella sua integralità, anche se una simile eventualità non si può del tutto escludere.

note:

*Professore di scienze politiche all’Università di stato della Luisiana, B‰ton-Rouge.

(1) www.nytimes.com/library/world/mideast/ iran-cia-intro.pdf. Il documento è datato 1954 e firmato Donald N. Wilber.

(2) http://cryptome.org/cia-iran.htm. La tecnica usata dal New York Times era inefficace: bastava utilizzare un computer lento per leggere i nomi prima che comparisse la mascherina oscurante.

(3) Le Monde, 20 marzo 2000. (Traduzione di S.L.) 


Se la CIA non fosse intervenuta

Ahmed Bouzid

I

Immaginate se il 19 agosto del 1953 fosse arrivato e passato, senza avvenimenti degni di nota. Immaginate se l’operazione Ajax, coordinata dal MI6 britannico e dalla CIA americana, che rovesciò la giovane democrazia iraniana di Mohammed Mossadeq, fosse rimasta per sempre solo un progetto sulla carta.

Immaginate se fosse stato permesso a Mossadeq, formato in occidente e leader carismatico appoggiato massicciamente dalla nascente borghesia iraniana, di condurre pacificamente il suo paese verso la prima vera democrazia mussulmana in Medio Oriente. Ed immaginate se al suo governo fosse stato concesso di assumere gli obblighi e le responsabilità stabilite dalla costituzione del 1906, e se allo scià fosse stato consentito di regnare ma non di governare, come di nuovo stabilito dalla costituzione iraniana, ed immaginate se Gran Bretagna e Stati Uniti non fossero state istigate da società petrolifere furibonde per la nazionalizzazione voluta da Mossadeq degli interessi petroliferi in Iran, ma invece fossero rimaste fuori dagli affari dell’Iran e non fossero intervenute.
Immaginate quello che probabilmente sarebbe accaduto.

Senza quel colpo di stato, l’Iran avrebbe probabilmente continuato a costruire una democrazia solida ed allargata, che avrebbe portato ad una stabilità di gran lunga più duratura di quella che lo scià – da sempre visto, agli occhi della sua gente, come un burattino dell’Occidente debole e facilmente manipolabile – non riuscì mai a creare.

Senza quel colpo di stato, l’Iran democratico avrebbe da tempo spazzato via il mito secondo cui Islam e democrazia non sono compatibili. Fatto più importante, l’Iran, nazionalista ed anti-colonialista com’era, sarebbe splendidamente servito da modello per le dozzine di stati arabi e mussulmani che avevano da poco guadagnato, o erano sul punto di guadagnare, l’indipendenza dall’occupazione coloniale, evitando in questo modo il loro allineamento al blocco sovietico così come l’ascesa di criminali interni e dittatori.

Senza quel colpo di stato, gli ayatollah, che avevano sostenuto il colpo di stato contro Mossadeq, non avrebbero mai raggiunto il loro prestigio politico. Di fatto lo scià vide negli ayatollah conservatori i perfetti partner contro il radicalismo della sinistra ed il liberalismo della borghesia.

Se quel colpo di stato non avesse avuto luogo e se agli ayatollah non fosse stato dato il prestigio politico di cui hanno goduto sotto lo scià, la rivolta del giugno 1963, alimentata dal malcontento dei religiosi per i tentativi di modernizzazione dello scià, altresì non sarebbe mai avvenuta.

E quindi, alla rivolta non sarebbe seguita nessuna dura repressione, né un religioso poco noto, un certo Ayatollah Ruhollah Khomeini, avrebbe guadagnato l’attenzione internazionale come leader spirituale di quel confronto contro lo scià.

Senza quel colpo di stato, Khomeini sarebbe rimasto un religioso poco noto. E invece, venne esiliato per 14 anni, un periodo durante il quale coltivò la sua immagine da quella di leader carismatico a quella di sacro messia tornato in terra. E durante quei 14 anni, mentre veniva sempre più oscurata la prospettiva di un Iran veramente democratico, il radicalismo islamico, associando tutto ciò che è Occidentale all’odiato scià ed ai suoi sostenitori – principalmente gli Stati Uniti – guadagnava una presa più profonda sulle passioni di una giovane generazione sempre più frustrata.

Senza quel colpo di stato, non ci sarebbe stata una “crisi degli ostaggi”, e gli Stati Uniti non avrebbero troncato le relazioni con l’Iran ed imposto le sanzioni economiche. Entrambe le azioni sono oggi, a più di vent’anni di distanza, ancora in vigore.

Senza quel colpo di stato, Saddam Hussein non avrebbe mai osato invadere l’Iran nel settembre del 1980. Gli Stati Uniti non avrebbero mai parteggiato per il dittatore iracheno e non si sarebbero impegnati in una politica volta ad assicurare la vittoria dell’Iraq. Non avrebbero fornito a Hussein un aiuto decisivo e non avrebbero chiuso un occhio davanti ai suoi enormi crimini contro la sua gente.

Senza quel colpo di stato, Hussein non si sarebbe ritrovato ad essere, alla fine della guerra con l’Iran, il comandante di uno dei più grandi eserciti nel Medio Oriente.

Cosa più importante, non avrebbe mai avuto la convinzione che, finché avesse circoscritto le sue aggressioni ai fratelli mussulmani e finché avesse lasciato fuori Israele, il mondo l’avrebbe solo denigrato e condannato, ma non avrebbe reagito.

Senza quel colpo di stato, è probabile che l’Iraq non avrebbe mai invaso il Kuwait, e gli Stati Uniti non avrebbero dovuto orchestrare una massiccia campagna militare contro il suo esercito, senza considerare le basi costruite sul suolo Saudita. Non si sarebbero sentiti discorsi su diritti umani e legge internazionale che suonano totalmente privi di senso ed ipocriti ad orecchi arabi e mussulmani.

Immaginate una nuova era della politica estera – un’era in cui la legge internazionale è presa sul serio, rispettata, in cui le democrazie sovrane sono incoraggiate, nutrite, applaudite, piuttosto che combattute, soffocate ed uccise. Immaginate se noi abbandonassimo, una volta e per sempre, le velenose dottrine del “Cancelliere di Ferro” Bismarck e di Henry Kissinger, e se invece sottoscrivessimo quelle di Amnesty International e del Human Rights Watch. Immaginate se noi prendessimo sul serio le Nazioni Unite e l’Aja, invece di trattarli come tribunali illegali in cui solo le cause sponsorizzate dai forti e dai potenti sono perseguite con vigore, mentre le altre ingiustizie sono trascurate e disprezzate.

Quanti milioni di vite avremmo salvato, e quanto oggi sarebbe più prospero e più sicuro il mondo?


http://www.corriere.it/speciali/iran.shtml

SCHEDA IRAN

TEHERAN – Le recenti elezioni parlamentari in Iran hanno prodotto una svolta politica nel Paese asiatico. I sostenitori del presidente Mohammad Khatami hanno infatti sbaragliato i loro avversari conservatori. Secondo i dati definitivi i riformisti su 290 seggi se ne sono aggiudicati 141, mentre 10 sono andati ai conservatori e 44 ai conservatori. Gli altri 85 seggi saranno assegnati nel ballottaggio del 18 aprile. Clamoroso il successo dei sostenitori di Khatami nella capitale Teheran dove hanno conquistato 27 seggi su 30.

Nome: Repubblica Islamica dell’Iran (Jomhuri-ye Eslami-ye Iran)

Collocazione geografica: Medio Oriente, bagnato dal Golfo di Oman a sud, dal Golfo Persico a sud-est, dal Mar Caspio a Nord

Confini: a est: Afghanistan (936 km); Pakistan (909 km); a ovest: Iraq (1458 km), Turchia (499 km); a nord: Armenia (35 km), Azerbaigian (432 km), enclave azera del Nachichevan (179 km), Turkmenistan (992 km). In totale 5440 km

Superficie: 1.648.000 kmq (quella dell’Italia è di 301.277 kmq)

Controversie territoriali: restano aperte le dispute con l’Iraq, sebbene, dopo la guerra avviata nel 1980, nel 1990 i due Paesi abbiano ripreso le relazioni diplomatiche. L’Iran occupa le isole Abu, Musa, Grande e Piccola Tunb, nel Golfo Persico, richieste dagli Emirati Arabi Uniti. I limiti territoriali del Mar Caspio con Azerbaigian, Kazakistan, Russia e Turkmenistan non sono ancora definiti

Coste: 2440 km

Clima: prevalentemente arido o semiarido, subtropicale lungo le coste del Mar Caspio

Territorio: piccole aree pianeggianti lungo le coste. L’interno è costituito prevalentemente da un altopiano (mille metri di quota) roccioso o desertico. A ovest e a nord ovest il territorio è caratterizzato dalle catene montuose degli Zagros e dell’Elbrus. La cima più alta del paese è il monte Qolloh-ye Damavand (5671 m) Risorse naturali: petrolio, gas naturale, carbone, cromo, ferro, piombo, manganese, zinco, zolfo

Utilizzo del territorio: arabile 10% (94.000 kmq irrigati), prati e pascoli permanenti 27%, boschi e foreste 7%, altro 55%

Popolazione: 65.179.752 (stima luglio ’99). Struttura dell’età: 0-14 anni 36%; 15-64 anni  60%; 65 anni e oltre 4%

Tasso di crescita della popolazione: 1,07% (stime ’99)

Mortalità infantile: 29,73 decessi ogni 1000 vivi (stime ’99)

Aspettativa media di vita: 69.76 anni (uomini 68,4 anni, donne 71,1)

Gruppi etnici: persiani 51%, azeri 24%, gilaki e mazandarani 8%, curdi 7%, arabi 3%, luri 2%, baluchi 2%, turkmeni 2%, altri 1%

Religione: musulmani sciiti 89%, sunniti 10%, piccole comunità cristiane, ebraiche, zoroastriane e baha’i 1%

Lingue: persiano (lingua ufficiale) e dialetti persiani 58%, turco e dialetti turchi 26%, curdo 9%, luri 2%, baluco e arabo 1%, altre 3%

Alfabetizzazione (individui sopra i 15 anni in grado di leggere e scrivere): 72,1 % (uomini 78,4%, donne 65,8%)

Capitale: Teheran (6.750.000 abitanti)

Altre città importanti: Mashhad (1.964.000 abitanti), Esfahan (1.220.000), Tabriz (1.116.000), Shiraz (1.042.000)

Regime istituzionale: Repubblica teocratica islamica

Pil pro-capite nel 1998: 1.470 dollari Usa

Tasso reale di variazione del Pil nel 1998: – 2,1%

Tasso di inflazione: 17,7%

Forza lavoro: 15,4 milioni

Tasso di disoccupazione: oltre il 30% (stime ’98)

Esportazioni: 20,7 miliardi di dollari (stime ’98)

Importazioni: 16 miliardi di dollari (stime ’98)

Principali partner commerciali: Giappone, Italia, Grecia, Francia, Spagna e Corea del Sud per le esportazioni; Germania, Italia, Giappone, Emirati Arabi Uniti, Gran Bretagna e Belgio per le importazioni

Moneta: rial iraniano (un rial vale 1,12 lire italiane)

Paese musulmano, ma non arabo, sciita e non sunnita, l’Iran di oggi è un paese fiero della sua storia millenaria, di una cultura sopravvissuta a molte invasioni. Anzi, arricchita dai popoli che sugli altopiani compresi tra il Golfo Persico e il Mar Caspio hanno soggiornato. Prima da dominatori, ma poi sempre più soggiogati da quella civiltà delle città che da sempre è stata la Persia.

Terra di passaggio, dunque. E quindi di scambio tra Est e Ovest. Ricca di cultura, capace di creare quei gioielli d’arte che sono Isfahan e Shiraz. Ma ricca anche di petrolio e di gas naturale, crocevia di interessi commerciali, quindi politici, che ne hanno influenzato notevolmente la storia recente. All’inizio del ventesimo secolo, l’Iran si presentava unito sotto la dinastia dei Qagiar (1796-1925), malgrado le pressioni inglese e russe. Si trattava di un potere duro e oscurantista, che in quegli anni determinava un profondo distacco tra la corona, l’aristocrazia e parte del clero da una parte, la popolazione dall’altro.

L’opposizione al potere dispotico dei qagiari si cementò attorno ai principi di eguaglianza e giustizia sociale propri dell’Islam. Il movimento, cui alla fine si unirono anche le alte cariche del clero (che ne nobilitarono l’azione), portò subito alla rivoluzione del 1905, grazie alla quale venne promulgata una costituzione. Quindi nel 1925, alla caduta della dinastia qagiara.

Già allora appare in tutta la sua importanza l’enorme influenza apportata sugli eventi dalle moschee, luogo di preghiera ma anche di socializzazione. La moschea, negli immensi spazi del territorio persiano, si rivelò un perfetto strumento di propaganda che mobilitò le folle nel segno dei principi islamici e di un nuovo nazionalismo, diretta conseguenza delle ingerenze straniere.

Nel 1925, con Reza Khan il Grande, salì al potere la dinastia dei Pahlavi. Il monarca modernizzò il paese migliorando il sistema giudiziario e le comunicazioni interne. L’Iran conobbe un periodo di crescita economica. Durante la seconda guerra mondiale il Paese fu occupato dalla Gran Bretagna, in funzione antitedesca (Hitler era interessato ai giacimenti petroliferi). Reza Khan, che aveva simpatizzato con i tedeschi, fu costretto ad abdicare cedendo il potere al figlio Mohammad Reza Shah.

Alla fine della guerra, dopo il ritiro delle truppe di occupazione, Mohammad avviò un programma forzato di modernizzazione filo occidentale del Paese, dove intanto crescevano le pressioni per la nazionalizzazione delle risorse petrolifere (in particolare, veniva osteggiata l’attività della compagnia anglo-iraniana di proprietà britannica, istituita in avvio di secolo). Il movimento capeggiato da Muhammad Mossadeq riuscì a far approvare nel 1951 la lege che nazionalizzava la compagnia anglo-iraniana, aprendo un contenzioso internazionale.

Mossadeq, costretto alle dimissioni, tornò al governo sull’onda delle proteste popolari, ampliando la frizione fra il capo del governo e lo scià (contrario alla sua ingerenza sugli affari petroliferi). I contrasti diedero luogo a un tentativo di colpo di Stato che si concluse con l’arresto di Mossadeq e dei suoi più immediati collaboratori, il ritorno in patria dello scià (dopo un breve esilio a Roma) e il “generoso” prestito statunitense di 45 milioni di dollari al nuovo governo.

In Iran fu avviata allora una pesante politica di occidentalizzazione del Paese. Una politica di secolarizzazione che fu la prima causa del fallimento del programma e della caduta della dinastia. La corona sottovalutò la profonda spiritualità del popolo persiano, il ruolo del clero nella società. Negli anni Settanta la rivoluzione dilagò nel Paese senza che la corte se ne rendesse inizialmente conto. Nel febbraio del 1979, con un aereo da Parigi, l’Imam Khomeyni atterrava all’aeroporto di Teheran. Aveva inizio il governo degli ayatollah.

Link utili

Informazioni generali sulla Lega Musulmana Mondiale
La comunità islamica in Italia – I rapporti con le istituzioni
Informazioni specifiche sul sufismo
Centro di cultura islamica di Bologna
L’associazione culturale “Il fondaco dei Mori”
Domande e risposte su temi inerenti l’islam, in inglese

A cura di Mauro Coppola


Per conoscenza: risposta di Tiziano Terzani a Oriana Fallaci



“Lettera da Firenze” di Tiziano Terzani (Corriere della Sera, 8 ottobre 2001)

Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle “Lettere da due mondi diversi”: io dalla Cina dell’immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo. Ti scrivo anche – e pubblicamente per questo – per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana – la ragione; il meglio del cuore – la compassione. Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. “Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia”, scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell’umanità , un’opera che sembra essere ancora di un’inquietante attualità. Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta. Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L’orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere. “Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me”, scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: “Finché l’uomo non si metterà di sua volontà all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza”. E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, “Libertà duratura”. O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmen questa. Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 ocrate a Mozart ). L’autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino – un marchio che è anche una protezione -, lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima città. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio. Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine. Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle “Tigri Tamil”, votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di “Hamas” che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell’innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli – fortunatamente – sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali. Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l’atto di “una guerra di religione” degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure “un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale”, come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. “Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana”, scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri – l’ultimo, Blowback , contraccolpo, uscito l’anno scorso (in Italia edito da Garzanti ndr ) ha del profetico – si tratterebbe appunto di un ennesimo “contraccolpo” al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo. Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Il “contraccolpo” dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana “a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico”. Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l’analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi “amici”, qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L’occasione per uscirne è ora. Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi “contraccolpi” che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche – tutti lo sanno – sono fra i petrolieri. A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli “orribili” talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. È per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera con quelli dell’industria bellica – combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington – finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l’America così particolare. Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo “codardi”, usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L’aver diviso il mondo in maniera – mi pare – “talebana”, fra “quelli che stanno con noi e quelli contro di noi”, crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro. Il tuo attacco, Oriana – anche a colpi di sputo – alle “cicale” ed agli intellettuali “del dubbio” va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo “ufficiale” della politica e dell’establishment mediatico, c’è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l’America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam? Per i politici – me ne rendo conto – è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici. Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto “a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia”, come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America. Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore , ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti che già studiano l’inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. Mi frulla in testa una frase di Toynbee: “Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme”. Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per “gli altri”, per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati (“vide il male ed il peccato”), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn – era il 1219 – perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati. Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia. Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: “La sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’uomo più umano?”. A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere “No”. Ma non possiamo rinunciare alla speranza. “Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla guerra?”, chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. “È possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?” Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare: l’influsso di due fattori – un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire. Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: “Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto”. Per difendersi, Oriana, non c’è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’è bisogno d’ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M’è sempre piaciuta nei Jataka , le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, “vede” che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri. Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden? “Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate”, scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose : una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì. L’immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del “nemico” da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; è l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il “terrorista” possa essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame? Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare. I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. “Dateci qualcosa di più carino del capitalismo”, diceva il cartello di un dimostrante in Germania. “Un mondo giusto non è mai NATO”, c’era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo “più giusto” è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po’ più di moralità. La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l’ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi. Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i “lavoretti sporchi” di liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera. Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze. A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell’Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s’è “globalizzata”, perché non ha resistito all’assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato. Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’io non mi ci ritrovo più. Per questo sto, anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte


Perché in tanti odiano gli Usa
Chalmers Johnson, un politologo americano, ha scritto un libro dal titolo profetico: “Ritorno di fiamma”, significando così i contraccolpi che gli Stati Uniti subiscono per i propri errori

di David Fiesoli

http://www.diario.it/cnt/afghanistan/25idee-Diario40/Fiesoli.htm

LIVORNO.

A guardare Manhattan ferita a morte, gli è tornato in mente il Cile. Chalmers Johnson, professore emerito all’Università della California, fondatore del Japan Policy Research Institute, ha in testa due scene che si sovrappongono. “Per gli americani che hanno il coraggio di pensarci”, dice, “le tragiche immagini da New York di donne che stringono le foto di mariti, figli e figlie mentre chiedono se qualcuno ha notizie di loro, ricordano quelle viste a Buenos Aires e Santiago, di donne che per paura di dichiarare quello che pensavano, cioè che i loro cari erano stati torturati e uccisi dalla giunta militare sostenuta dagli Stati Uniti, coniarono il termine desaparecidos. Il governo americano non è mai stato onesto sul suo ruolo nel rovesciamento del governo di Salvador Allende. Ma oggi che anche noi americani abbiamo migliaia di desaparecidos, saremmo folli se pensassimo di non essere minimamente responsabili per quello che è loro accaduto”.
Parole durissime, che alcuni hanno definito insostenibili, ma che vengono da un americano di Phoenix che dopo aver combattuto in marina durante la guerra di Corea, è diventato professore di scienze politiche e ha insegnato per 20 anni a Berkeley, poi a San Diego, fino a diventare uno fra i maggiori esperti di politica asiatica che l’Occidente possa vantare. Chalmers Johnson aveva previsto quello che poi è accaduto in un libro scritto, lo dice lui stesso, per mettere in guardia il popolo americano sulle terribili conseguenze che avrebbero dovuto aspettarsi se il loro governo non avesse drasticamente cambiato politica estera. Nell’edizione italiana, il libro si intitola eloquentemente Gli ultimi giorni dell’impero americano (Garzanti), ma il titolo dell’edizione americana, uscita nel 2000, è Blowback, the cost and consequences of American empire, dove blowback significa contraccolpo, ritorno di fiamma, ed è un termine usato dalla Cia per la prima volta nel 1953 nel rapporto sull’operazione che rovesciò il governo di Mohammed Mossadeq in Iran e portò alla ventennale tirannia dello scià che provocò a sua volta la rivoluzione dell’ayatollah Khomeini.
Quel termine è diventato metafora per le involontarie conseguenze che la politica estera americana ha scatenato nel mondo. Stanco della retorica con cui gli americani vengono tenuti all’oscuro degli effetti di una politica estera iperespansionista in senso militare ed economico tanto da produrre pericolose crisi di rigetto, Chalmers Johnson afferma: “Quello che è accaduto l’11 settembre è proprio il tipo di contraccolpo che temevo, e può minare le fondamenta dell’impero americano. In più, con una rappresaglia militare selvaggia contro gli afghani che abbiamo già contribuito a impoverire, alimenteremo altri contraccolpi. È esattamente la reazione che gli assassini dell’11 settembre vogliono”.

Nemo propheta in patria. Johnson evita di usare la parola “terrorismo”: “Rischia di essere fuorviante”, dice, “e quando Bush afferma che l’America è stata attaccata perché è il faro della libertà, tenta di far passare l’idea che si tratti di una guerra di valori e di civiltà, mentre gli assassini non hanno voluto attaccare l’America, ma la politica estera americana. E la loro strategia è quella pericolosa dei deboli: rendere inutile il potere militare americano negandogli il più possibile un obiettivo preciso. Per questo Osama bin Laden, ex protégé degli Stati Uniti all’epoca in cui l’America organizzava i ribelli afghani contro l’Urss negli anni Ottanta, nega il suo coinvolgimento”.
Il libro di Johnson è stato ignorato negli Stati Uniti. Non stupisce: dall’Afghanistan al Cile, il politologo analizza i motivi del crescente risentimento antiamericano nel mondo ripercorrendo gravi episodi e discutibili interventi made in Usa, dall’appoggio a regimi dittatoriali alle vendite indiscriminate di armi, agli accordi politico-economici fatti sulla pelle dei cittadini di altri Paesi. Fino a ieri, neanche i Paesi amici erano immuni a reazioni d’insofferenza: Johnson cita proprio l’Italia in relazione all’aereo militare americano che tranciò nel 1998 il cavo della funivia del Cermis uccidendo 21 persone. E il Giappone, dove a Okinawa una bambina dodicenne fu stuprata dai marines nel 1995. Ieri l’Iraq, oggi l’Afghanistan, Paesi governati da dittatori che gli Stati Uniti contribuirono a portare al potere, scatenano atti di guerra che secondo Johnson più che santa è politica, contro le strategie americane perseguite nel Golfo e nei confronti di Israele.
Il pericolo è che domani il ritorno di fiamma coinvolga anche altri Paesi. Johnson cita il Guatemala, dove secondo la commissione di indagine storica dell’Onu, nei primi anni Ottanta il governo militare finanziato e sostenuto dagli Usa ordinò la distruzione di circa 400 villaggi maya in una campagna genocida in cui vennero trucidati 200 mila contadini. O la Turchia, dove il governo americano sostiene la guerra di repressione contro la minoranza curda. O l’Indonesia, che ha la più grande comunità islamica del globo e che ha subìto per 30 anni la dittatura sanguinosa di Suharto, uno dei dittatori asiatici preferiti dagli Stati Uniti. O la Cambogia, che ha pagato un prezzo elevatissimo per la guerra americana in Vietnam quando Nixon e Kissinger ordinarono di sganciare nelle sue aree rurali più bombe di quante ne furono sganciate sul Giappone durante la Seconda guerra mondiale, uccidendo 750 mila contadini cambogiani e contribuendo a dare legittimità ai sanguinari khmer rossi di Pol Pot che hanno sterminato un milione e mezzo di loro concittadini. La Corea del Sud fu il primo Stato del mondo in cui gli americani istituirono un governo dittatoriale. Seguirono poi Taiwan, le Filippine, la Thailandia.
Ovunque potrebbe ripercuotersi l’esplosione della polveriera afghana. Ritorsioni militari massicce, con gli inevitabili costi in vite umane, non convengono all’America. “Che invece”, conclude Johnson, “dovrebbe dismettere gli stanziamenti fuori dai confini di Israele il prima possibile, ritirare le truppe stanziate in Arabia Saudita, smantellare le 38 basi militari a Okinawa, e reintrodurre quella politica fatta di ideali che proprio l’America ha inventato con il piano Marshall. Nello stesso tempo, deve eliminare la vulnerabilità interna trasformando, per esempio, la sicurezza aerea in una funzione federale invece di lasciarla in mano ai privati. Nella Cia dovrebbero trovare posto analisti che sappiano leggere il linguaggio dei Paesi ai quali sono assegnati. Solo così la crisi recederà. Altrimenti faremo il gioco degli assassini, e saranno ancora gli americani a subirne le conseguenze”.



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