Riporto di seguito alcuni articoli relativi ad una indagine, ora archiviata, che la Procura di Caltanissetta aprì nei riguardi di Berlusconi e Dell’Utri.
Liberi cittadini marchiati d’infamia
Antonio Tabucchi
Caro direttore de l’Unità,
davvero allarmante questa nostra Italia dalla quale non ti puoi allontanare due giorni (per comunicare semplicemente all’Europa che tutti i mezzi di comunicazione del tuo paese sono di proprietà del presidente del Consiglio del tuo paese), che ritorni e trovi un cadavere steso a terra. Come Tarantelli, come Bachelet, Tobagi, Casalegno, Moro, D’Antona e come tanti altri: la lista è lunga.
Ti assale la pietà per le vittime a cui questo paese ti ha chiamato molte volte. È il solito schifo. Ma con una sensazione di accelerazione maggiore rispetto al passato, quando altri (che forse sono gli stessi di sempre) sparavano alla nuca: questi, ora, sono più svelti a sparare di quanto te a parlare. Insomma, non fai in tempo a dire che tutta l’informazione italiana appartiene a Berlusconi, che hanno già assassinato qualcuno facendo sapere che il mandante di questo assassinio sei tu che hai osato dire all’estero che tutta la stampa e le televisioni italiane appartengono a Berlusconi, che è anche il primo ministro del governo del tuo paese. Le elezioni sono regolari, certo. I regolamenti di conti lo sono meno. È un metodo che appartiene al cartello di Medellin della Colombia, a paesi trafficanti di droga. Ma, ti chiedi, non è forse drogato questo simulacro di democrazia dove un magnate si è impossessato delle anime dei cittadini, per il solo fatto che, come sappiamo, le anime dipendono da ciò che si chiama informazione?
Inquinamento morale
L’inquinamento morale che il governo Berlusconi ha introdotto nella vita italiana attraverso il monopolio dell’informazione risiede anche nel quoziente di violenza di cui i suoi mezzi di informazione si sono fatti tramite e che è andato via via crescendo. A cominciare dall’apparizione di Berlusconi in televisione durante il G8 a Genova (dove purtroppo le sue parole sono state «legittimate» dalla presenza di Ciampi, come se un presidente della Repubblica, che rappresenta lo Stato, per lanciare un messaggio al paese avesse bisogno di apparire col capo di un governo), passando via via attraverso parole gravissime e pesanti come pallottole di suoi ministri o sottosegretari: l’avv. Taormina, Sgarbi, Umberto Bossi. Ad esempio: la sentenza del Tribunale di Milano, che ha condannato per la strage di Piazza Fontana esponenti fascisti collusi con i servizi segreti, è stata definita dal sottosegretario Taormina, rappresentante del governo e contemporaneamente difensore di mafiosi: «una sentenza scritta con l’inchiostro rosso». I cittadini italiani si sono chiesti: dobbiamo credere a un Tribunale della Repubblica o a un esponente del governo?
Un dilemma inquietante ed istituzionalmente eversivo che andava chiarito con urgenza e fermezza dal garante della Costituzione, cioè il presidente della Repubblica. Costui, non chiarendolo come era suo dovere, ha lasciato che tali parole, rimbombate con forza su tutto il sistema di informazione appartenente al presidente del Consiglio, inquinassero le coscienze degli italiani.
In Italia l’assassinio politico e il terrorismo sono una pratica consolidata da oltre trent’anni. Pratica che appartiene a un disegno di destabilizzazione della democrazia elaborato da un’oscura loggia massonica, la P2 di Licio Gelli di cui, come è noto, l’on. Berlusconi possedeva una tessera. Con ciò non si vuol dire che quando si iscrisse fosse al corrente dei disegni dell’azienda eversiva di cui veniva fatto socio. Ora certo non può non saperlo. Eventualmente può ragguagliarsi sugli atti della Commissione Stragi. Il Parlamento italiano è l’unico Parlamento in Europa che possegga una «Commissione Stragi». Non è inquietante?
Futuro anteriore
Ma la Commissione Stragi, anche se non riesce a venirne a capo, si occupa del nostro passato prossimo. Il fatto nuovo introdotto dall’efficienza del sistema di Berlusconi, basato sui mezzi di comunicazione, si produce sulla declinazione dei verbi della storia italiana. Le televisioni e i giornali del Presidente del Consiglio (i «Media» come dicono i Media) sono talmente efficienti che oggi declinano la storia italiana al futuro anteriore. L’efficienza dell’azienda del presidente del Consiglio è tale che perfino prima di avere il morto ha già trovato i mandanti. Le viscide parole con cui Berlusconi ha dichiarato che i responsabili di questo ennesimo oscuro omicidio sono (oltre ai sindacati) gli artisti, gli scrittori e gli intellettuali che non facendo parte della sua azienda informativa trovano improponibile in una democrazia che il capo di un governo possegga anche il monopolio dell’informazione, sono state più rapide dell’omicidio stesso. Perché l’omicidio era già stato annunciato da un suo settimanale, “Panorama”, con un anticipo che aveva interpretato come una Sibilla un documento dei Servizi fatto circolare alla Camera. La rapidità di far sapere ciò che succederà, tipica della società mediatica di cui Berlusconi è un campione, supera oggi di gran lunga i metodi ormai obsoleti a cui ci avevano abituati certi ministri che lavoravano con i servizi segreti nostrani o stranieri per destabilizzare la democrazia italiana. A quel tempo solo dopo qualche finta indagine che salvava almeno le forme, degli innocenti come Pinelli e Valpreda venivano indicati quali responsabili di stragi di cui, come abbiamo saputo con trent’anni di ritardo grazie a una sentenza di un Tribunale della Repubblica, i veri responsabili erano personaggi di cellule neofasciste venete in collaborazione con i servizi segreti dello Stato. Oggi i «mandanti» sono dunque, in seguito a ciò che il capo del governo e magnate dell’informazione ha insinuato, gli scrittori italiani, coloro che sono conosciuti nel mondo perché portano la cultura italiana nel mondo. Berlusconi ha lanciato la sua parola d’ordine, immediatamente raccolta dai dipendenti delle sue aziende giornalistiche, coloro che rispondono immediatamente alle sollecitazioni dello stipendio. Paolo Guzzanti scrive sul giornale che co-dirige parole infami su di me e altri intellettuali che saranno oggetto dell’esame di un magistrato italiano, almeno finché il nostro paese continuerà ad avere una magistratura non ammanettata da Berlusconi.
Ma intanto una cosa è certa: le parole degli scrittori, dei professori universitari e degli intellettuali che hanno parlato a Parigi sono state trasmesse in diretta dalla radio della Repubblica francese.
Quelle parole sono registrate e ascoltabili dalla magistratura.
Pochi giorni dopo l’allegra manifestazione del Palavobis di Milano, quando scoppiò una bomba di fronte al ministero degli Interni, il ministro Bossi dichiarò testualmente che ciò era «opera dei servizi deviati dalla sinistra».
Non è affatto una frase «colorita», come Berlusconi definisce di solito il linguaggio di Bossi. È una frase gravissima e inquietante, che merita un richiamo e una convocazione presso la presidenza della Repubblica. In qualsiasi altro paese europeo, un ministro che avesse detto una frase del genere sarebbe stato immediatamente convocato dal capo dello Stato per appurare che cosa sapeva esattamente costui.
Perché Ciampi non l’ha convocato? E se l’ha fatto, perché non ha rassicurato l’animo degli italiani rivolgendosi con un messaggio alla nazione per dire che si trattava davvero della frase di un citrullo che apre bocca per dire quello che gli pare?, un personaggio che insidia l’unità della nazione e che Ciampi ha purtroppo accettato come ministro, assumendosi una grave responsabilità verso tutti gli italiani. Altro che Inno di Mameli.
Il momento è grave e, come ti dicevo, in questo paese non c’è nessuna garanzia, perché non abbiamo nessun garante.
Ma c’è una differenza rispetto agli ani di piombo e rispetto agli anni della strategia della tensione. Oggi noi siamo in Europa. Per questo esigiamo dal Consiglio d’Europa che sorvegli la nostra democrazia, che la garantisca, che la vigili. E che garantisca anche la libertà di parola, in questo paese dove parlare è diventato una colpa e dove, esprimendo la propria opinione di liberi cittadini, si è marchiati d’infamia.
Sabato prossimo ci sarà a Roma una grande manifestazione convocata dal sindacato della Cgil. Ci saremo tutti, noi scrittori e intellettuali e professori universitari italiani, come siamo andati a Parigi. Saremo presenti perché i lavoratori italiani sono una grande garanzia democratica, una diga contro le acque limacciose del terrorismo, della mafia, della finanza sporca.
Antonio Tabucchi
21 marzo 2002
http://www.consapevolezza.it/notizie/gen-mar-2002/antonio_tabucchi.asp
Alfa e Beta
Cosa c’entrano Berlusconi e Dell’Utri
con la stagione delle bombe 1992-93?
un libro di Simone Falanca
Prefazione
di Nicola Tranfaglia
1. – L’Italia vive un periodo buio come pochi nella sua storia recente giacché sono al potere persone ed organizzazioni che hanno avuto – secondo quanto emerge con chiarezza da numerose sentenze, come quelle della Corte di Assise di Firenze sugli attentati ai Georgofili del 1993 e quella della Corte di Appello di Caltanissetta sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio del 1992, in parte pubblicate in questo saggio di Simone Falanca – rapporti continuativi e frequenti con capi e luogotenenti della maggiore organizzazione mafiosa del nostro paese, l’antica Cosa Nostra.
A questo si aggiunge il silenzio massiccio dei mezzi di comunicazione di massa che hanno mostrato un’attenzione distratta e intermittente a quei processi e hanno sistematicamente taciuto le responsabilità che emergono da quelle istruttorie sui rapporti tra mafia e politica.
Si è compiuto in dieci anni un processo unico in Europa e nel mondo come ha, di recente, notato il direttore de “l’Unità” Furio Colombo in un suo editoriale del 2 novembre 2003.
In tutto il mondo, infatti, dall’America Latina all’Europa (e particolarmente in Francia e Germania) capi di partito e probabili candidati presidenziali sono sotto accusa per vicende di tangenti e di compromissioni in affari poco puliti, ma la differenza tra quei paesi e l’Italia sta nell’atteggiamento delle classi dirigenti e dell’opinione pubblica che appaiono concordi nel deplorare quello che accade e chiedere con successo che le personalità compromesse si mettano da parte e non partecipino più alla lotta per il potere.
In Italia, invece, l’ascesa al potere e al controllo, pressoché completo, delle comunicazioni di massa, televisive e giornalistiche, del personaggio Silvio Berlusconi, già criticato per le modalità di accumulazione della sua fortuna imprenditoriale grazie ad amicizie politiche ed oscuri rapporti con persone e organizzazioni poco raccomandabili, ha determinato una situazione che si configura come una vera e propria dittatura mediatica, rispetto alla quale persino il Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, è stato indotto a segnalare in un messaggio alle Camere – che è rimasto non a caso l’unico finora del suo settennato – l’anormalità della situazione che regola i mezzi di comunicazione e la stessa informazione nel nostro paese rispetto all’articolo 21 della Costituzione repubblicana e a tutti i principi di pluralismo che caratterizzano la Carta del 1948.
L’unica risposta che è venuta, in oltre un anno, dalla maggioranza parlamentare e dal Governo che fanno capo all’attuale presidente del Consiglio Berlusconi, è stato il varo del disegno di legge Gasparri per il riassetto del sistema radiotelevisivo, che sta per essere approvato in maniera definitiva dal Parlamento e che condurrà, senza dubbio alcuno, al consolidarsi dell’attuale oligopolio televisivo con l’aggravante della depressione delle risorse pubblicitarie per la Rai e l’ulteriore espansione di Mediaset e, dunque, del potere mediatico detenuto, insieme con il controllo della pubblicità complessiva, dall’uomo di Arcore.
Non c’è dunque da sperare, almeno in tempi brevi e a meno di un improbabile crollo della maggioranza raccolta intorno alla Casa delle Libertà, che le cose possano cambiare e che gli italiani riacquistino il proprio elementare diritto all’informazione, pur facendo esso parte di quelli fondamentali stabiliti dal dettato costituzionale.
2. – Di qui l’importanza, e vorrei dire la necessità, di libri come quelli che pubblicano documenti giudiziari di straordinario rilievo per la nostra cultura politica, espropriata dai mezzi di comunicazione di massa, condizionati in un modo o nell’altro dal dominio mediatico di cui abbiamo parlato.
E vale la pena spiegare fin dalla prefazione di che cosa si tratta, in modo tale che i lettori del libro possano rendersi conto sia di quel che viene loro abitualmente sottratto, sia dei problemi che emergono da documenti pubblici scomparsi dalla circolazione in men che non si dica o addirittura completamente ignorati dai pochissimi che hanno accesso, per altra via, agli atti giudiziari.
Il primo punto da sottolineare riguarda il momento in cui Cosa Nostra decide l’assassinio del giudice Paolo Borsellino, due mesi dopo la strage di Capaci in cui è stato assassinato con la moglie e gli agenti di scorta il giudice Giovanni Falcone.
Il giudice per le indagini preliminari Giovanbattista De Tona, che stende a Caltanissetta la sentenza di archiviazione nel processo contro Berlusconi e Dell’Utri come mandanti della strage di Capaci, ricostruendo le precedenti indagini ritiene di aver accertato che Cosa Nostra, dopo aver deciso di eliminare i suoi nemici storici Falcone e Borsellino, cerca di avviare trattative con lo Stato.
Proprio da questa decisione scaturisce “l’accelerazione dell’attentato a Paolo Borsellino, il cui motivo rimane oscuro”.
De Tona giunge nel maggio 2002 a una decisione favorevole all’archiviazione basata soprattutto sulla valutazione secondo la quale le dichiarazioni dei due più importanti collaboratori di giustizia – Filippo Cancemi reggente di Porta Nuova e Giovanni Brusca reggente di San Giuseppe Jato – sarebbero “contrastanti”, ma una simile valutazione è, a sua volta, in netto disaccordo con la sentenza di appello della strage di Capaci nella quale il collegio giudicante scrisse che quelle dichiarazioni erano “convergenti” e con l’opinione del pubblico ministero Luca Tescaroli che aveva seguito sia le indagini per la strage di Capaci sia quelle per la strage di via D’Amelio ed era giunto alla conclusione che quelle dichiarazioni si integravano a vicenda.
Peraltro, proprio nella sentenza di archiviazione, il gip De Tona ha ordinato la trasmissione degli atti all’accusa per “una nuova indagine diversa da quella fino adesso perseguita” e aggiunge che “lasciando al pm le valutazioni di sua competenza in ordine all’utilità di tali dati per individuare eventuali ulteriori piste investigative, rivela che tali accertati rapporti di società facenti capo al gruppo Fininvest con personaggi in varia posizione collegati all’organizzazione Cosa Nostra, costituiscono dati oggettivi che rendono quantomeno non del tutto implausibili né peregrine le ricostruzioni offerte dai diversi collaboratori di giustizia, esaminate nel presente procedimento, in base alle dichiarazioni dei quali si è ricavato che gli odierni indagati erano considerati facilmente contattabili dal gruppo criminale”.
Se a questi elementi che suscitano, o dovrebbero suscitare (ma non c’è stata finora nessuna reazione) allarme nella politica italiana e imbarazzo in persone che oggi siedono in Parlamento e, nel caso di Berlusconi, presiedono addirittura il Governo della Repubblica, si aggiunge l’appello che uno dei più noti capimafia, cognato di Totò Riina, Leoluca Bagarella, rinchiuso nel carcere di Ascoli Piceno, si rivolge pubblicamente allo Stato chiedendo conto di promesse non mantenute con un appello “agli avvocati delle regioni meridionali che ora siedono negli scranni parlamentari a nome di tutti i detenuti stanchi di essere strumentalizzati, vessati, umiliati e usati come merce di scambio”, il lettore ha un quadro più chiaro della torbida situazione che caratterizza i rapporti tra Cosa Nostra e una parte almeno del mondo politico nel nostro paese.
3. – D’altra parte quello che induce a pensare che la verità sia ancora lontana da emergere dai processi e dalle indagini già conclusi e da quelli ancora in corso (come quelli che riguardano gli attentati del 1993 a Roma, Firenze e Milano e gli interrogatori di un collaboratore di giustizia come Nino Giuffrè, che sta procedendo su una strada assai simile a quella già percorsa da Cancemi e da Brusca), è il fatto che proprio i corleonesi erano decisi ad aprire una trattativa con settori del mondo politico disposti a giungere a un nuovo accordo con Cosa Nostra.
Tracce di una simile trattativa sono emerse in questi anni e sono all’origine di misteri ancora non risolti come quelli che riguardano la cattura di Totò Riina e la misteriosa pulizia della sua casa dopo l’arresto.
Non tutto, insomma, è stato chiarito né a livello storico né a quello giudiziario degli ultimi anni e in particolare di quello che è seguito alle stragi di Capaci e di via D’Amelio e agli attentati compiuti da Cosa Nostra fuori del suo territorio di abituale influenza in un momento assai critico della crisi politica italiana.
C’è ancora da attendere, con tutta evidenza, la conclusione di alcuni processi non soltanto a Palermo ma, a giudicare dalla situazione attuale e dalla presenza, a livello di affari e della vita economica, delle associazioni mafiose e in particolare di Cosa Nostra, si deve constatare che, mutata la strategia rispetto allo Stato e ai suoi rappresentanti, la mafia prosegue la sua attività.
Ha dunque trovato referenti diversi da quelli che, a suo avviso, l’avevano tradita (l’assassinio di Salvo Lima nella primavera del 1992 è il segno più chiaro di una simile scelta) e che avevano fatto promesse impegnative nella direzione di una lotta assai meno decisa contro la penetrazione mafiosa nella società siciliana e italiana.
È questo il problema che emerge con chiarezza da una ricerca chiara e rigorosa come quella che qui viene pubblicata.
C’è per fortuna ancora un’Italia civile e democratica che lavora alla ricerca della verità in maniera limpida e disinteressata, al di là del clamore di tanti giornali e tante televisioni, ma anche di molti intellettuali, che si comportano in maniera servile nei confronti di un Governo così fortemente inquinato da ombre pesanti, tutt’altro che dissolte.
Novembre 2003
Il decimo anniversario delle stragi di Capaci e via D’Amelio si conclude con l’ennesima sfida rivolta da Cosa Nostra allo Stato e a un certo potere politico. Al potere politico che più le è congeniale, a quello che la mafia avverte come più vicino, più consono ai suoi interessi, alle sue aspettative. Quello – lo avrete capito – rappresentato da Forza Italia.
E siccome, in vicende del genere, la personalizzazione non guasta mai, è proprio a Silvio Berlusconi che si rivolge in maniera alquanto ruvida, pur tuttavia esemplare per la chiarezza del suo messaggio, lo striscione sventolato domenica sugli spalti dello Stadio di Palermo.
Curva sud, il che – per chi sta indagando – ha la sua importanza. Diceva lo striscione, o dice la mafia, che fa lo stesso: ” Uniti contro il 41 bis. Berlusconi dimentica la Sicilia”. Non si hanno notizie di proteste da parte della società calcistica. Né di particolari reazioni del pubblico durante la partita.
Cominciamo col dire che i mafiosi non hanno mai fatto ricorso agli uffici stampa per rendere noti i propri punti di vista. Uno striscione, al pari di un volantino o di un comunicato, rende evidente e visibile il suo firmatario. Cosa Nostra non si è mai firmata. Ha sempre fatto di tutto per negare la sua esistenza. Giustiziarono il boss Giovanni Bontade e sua moglie perché, durante il “maxi” processo, si era permesso di leggere un comunicato di suo pugno per allontanare dall’organizzazione il sospetto infame che avesse ordinato l’uccisione, nella popolare borgata di San Lorenzo, del povero Claudio Domino, un ragazzino di undici anni.
Ottime le intenzioni, pessimo il risultato: quel proclama rappresentò l’ ammissione, sia pure contorta, che Cosa Nostra esisteva, aveva i suoi codici, aveva sue linee di condotta. I poveri penalisti erano furibondi: facevano tanto nelle loro arringhe per sostenere che i clienti non sapessero neanche come si chiamava questa benedetta mafia… Torniamo a oggi.
Lo striscione (tolto dai poliziotti qualche minuto dopo la sua esposizione; la Digos sta indagando, ma la curva sud, quella della vergogna, è quella dei “cani sciolti”, dunque facce poco conosciute alle forze dell’ordine) segna l’epoca in cui viviamo. Cosa Nostra non ha più bisogno di nascondersi dietro un dito. E’ diventata – per adoperare le parole del sostituto procuratore Gaetano Paci che si trovava domenica allo Stadio – “ideologia pura”. Spieghiamo meglio.
Boss e picciotti non capiscono più quello che accade. Ma come? Non commettono delitti. Non commettono stragi. Non uccidono rappresentanti delle istituzioni. Portano voti a Forza Italia non appena si presenta una scadenza elettorale. Avevano cercato di inventarsi il tavolino della trattativa, attraverso l’ipotesi della dissociazione, portavoce Pietro Aglieri. Avevano cercato di far conoscere la piattaforma programmatica di più ampio respiro attraverso il proclama delle carceri, portavoce Leoluca Bagarella. Chiedono solo di potere concludere affari in santa tranquillità. E invece?
E invece l’ “alleanza trasversale”, maggioranza opposizione, fa passare al Senato la legge che rende definitivo il 41 bis. E Berlusconi che ci sta a fare? Ma che fa? Dorme? I boss si sentono talmente al governo, talmente rappresentati, talmente in auge politicamente, da mettere nero su bianco che, se la musica non cambia (e in fretta), volteranno ancora una volta le spalle a chi avevano sostenuto elettoralmente. Quello striscione ci dice non solo che “il re è nudo”. Ma anche che il “re” – Berlusconi – si era fatto garante persino di questo “popolo”, il popolo di Cosa Nostra.
Calma. Ora poco importa che Berlusconi dica che nessuno lo aveva mai informato di essere sovrano di questo consesso. D’altra parte non si era mai visto uno striscione che diceva: “Prodi dimentica la Sicilia”. Non si era mai visto uno striscione che diceva: “D’Alema dimentica la Sicilia”… Un motivo dovrà pur esserci. Ecco perché sono destinate a scivolare sull’acqua le parole gonfie di stupore di Enrico La Loggia, il ministro per gli Affari Regionali, a commento dello striscione: “Provo sdegno e orrore dinanzi ad atteggiamenti di questo genere”. Non vanno infatti al cuore del problema. Quanto alla seconda parte della sua dichiarazione, ha tutta l’aria di innescare un involontario cortocircuito: “La Sicilia è al centro dell’attenzione del Presidente Berlusconi e di tutto il Governo, e le iniziative assunte cominciano a produrre effetti positivi in tema di lotta alla mafia, sviluppo e occupazione”. Che significano queste parole? La Loggia è siciliano. La Loggia sa che chi ha messo quello striscione non è un marziano o un “sicilianista” nostalgico che si aspetta da Berlusconi “pane e lavoro”. Cosa Nostra chiede altro. Ha fame di ben altri “provvedimenti”. Cosa Nostra vuole che siano rispettati i patti. Quei patti che il pentito Nino Giuffrè ha descritto magistralmente in quell’interrogatorio che ha per oggetto proprio la costituzione di Forza Italia e le aspettative e le attese e le simpatie manifestate nei suoi confronti da Cosa Nostra. Dal 1994 ad oggi.
Lo striscione è scomodo in sé, oltre che per il suo contenuto. E davvero lo striscione rappresenta “un episodio grave”, come osserva il presidente della Commissione parlamentare Antimafia Roberto Centaro, di Forza Italia. Ma il presidente della Commissione Antimafia, forse poco a suo agio in un ruolo istituzionale, sente il bisogno di assicurare che “la Casa delle Libertà proseguirà nell’approvazione dei provvedimenti legislativi che vanno nella direzione della lotta contro la criminalità organizzata”. Perchè sente il bisogno di parlare a nome della Casa delle Libertà piuttosto che dello Stato? Non ricordiamo, però, di avere sentito la sua voce allo scadere dei centottanta giorni della collaborazione di Giuffrè, mentre Pier Luigi Vigna, procuratore nazionale antimafia, e Piero Grasso, procuratore di Palermo, e tutti i suoi sostituti, lasciavano intendere che un’eventuale proroga dei termini di legge, avrebbe rappresentato ossigeno per le indagini antimafia.
Ma c’è un altro aspetto da non sottovalutare: i mafiosi sono stufi di pagare per tutti. Non accettano più i diversi pesi, le diverse misure. Leggiamo, a questo proposito, uno dei passaggi del discorso del presidente della Regione Siciliana Totò Cuffaro, all’Ars, durante la discussione del caso dell’assessore Bartolo Pellegrino, che si è autosospeso perché coinvolto in un’ inchiesta sulla cosca mafiosa di Monreale in cui sarebbe indagato per falsa testimonianza al pubblico ministero. Dice Cuffaro: ” Bartolo Pellegrino ‘per legge non doveva dimettersi o sospendere le sue funzioni dalla carica, ma lo ha fatto per atto di sensibilità politica”.
Loro, i politici, quando vogliono si sanno difendere benissimo – dicono boss e picciotti- per noi restano solo le briciole.
L’ennesimo segnale è stato lanciato. Ma per quanto tempo ancora Cosa Nostra si accontenterà di parole, proclami, civiltà dell’immagine? Sin dai prossimi giorni sarà bene non distrarsi, non abbassare la guardia.
Saverio Lodato settembre 2002
C’è un contatto diretto, nel 1994, tra Silvio Berlusconi e un uomo al lavoro per costruire il «partito di Cosa nostra». È emerso al processo palermitano per mafia contro Dell’Utri
C’è stato un contatto telefonico diretto, nel 1994, agli albori di Forza Italia, tra Silvio Berlusconi e un uomo allora impegnato a costruire «il partito di Cosa nostra». Lo ha raccontato un consulente della procura di Palermo, Gioacchino Genchi, in una delle udienze del processo in corso nella città siciliana con imputato Marcello Dell’Utri, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. A telefonare ad Arcore, al numero riservato di Berlusconi, alle ore 18.43 del 4 febbraio 1994, è il principe Domenico Napoleone Orsini.
Esponente dell’aristocrazia nera romana, massone, Orsini è in contatto con il capo della P2 Licio Gelli, che va anche a incontrare a villa Wanda, ad Arezzo. Dopo una gioventù nell’estrema destra neofascista, nei primi anni Novanta Orsini si scopre leghista. Nel novembre 1993 accoglie Umberto Bossi che scende nella Roma ladrona per incontrare i suoi sostenitori nella capitale: si riuniscono nella villa di Trastevere di Gaia Suspisio per una cena e brindisi con Veuve Cliquot, costo politico centomila lire, a cui partecipano, tra gli altri, il giornalista Fabrizio Del Noce, la vedova del fondatore del Tempo Maria Angiolillo e Maria Pia Dell’Utri, moglie di Marcello. Mentre viene servita la crostata di frutta, Bossi si avventura in un comizio di tre quarti d’ora, che si conclude solo quando la brigata si trasferisce al Piper, storica discoteca romana.Orsini si impegna nella Lega Italia federale, articolazione romana della Lega nord. Ma, forte dei contatti con Gelli, lavora per un progetto più ampio: riunire tutti i movimenti «separatisti», tutte le «leghe» nate in quei mesi nel Sud del Paese. Sono per lo più uomini della massoneria a fondare in molte regioni del Sud, dalla Calabria alla Lucania, dalla Puglia alla Sicilia, piccoli gruppi che si ispirano alla Lega di Bossi. I partiti storici, Dc in testa, sono allo sbando, anche per effetto delle inchieste di Mani pulite. Molti lavorano sotto traccia per riempire quel vuoto politico, mentre le stragi del ’92, in cui muoiono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e del’93, a Firenze, Roma e Milano, destabilizzano il Paese.
Il principe Orsini è tra i più attivi in quei mesi: contatta i notabili che hanno fondato le «leghe del Sud», li riunisce, si offre come loro candidato unico alle elezioni, proponendo la costituzione di un’unica, grande «Lega meridionale», in rapporti ambivalenti con la Lega di Bossi: contrapposizione polemica, dichiarata riscossa del Sud contro il Nord, ma sostanziale alleanza e convergenza d’intenti, nel comune progetto di spezzare e frantumare l’Italia. Nello stesso periodo, qualcun altro era molto attivo negli stessi ambienti. Lo racconta Tullio Cannella, uomo molto vicino al capo militare di Cosa nostra, Leoluca Bagarella, impegnato nelle stragi: «Sin dal 1990-91 c’era un interesse di Cosa nostra a creare movimenti separatisti; erano sorti in tutto il Sud movimenti con varie denominazioni, ma tutti con ispirazioni e finalità separatiste. Questi movimenti avevano una contrapposizione “di facciata” con la Lega nord, ma nella sostanza ne condividevano gli obiettivi. Successivamente, sorgono a Catania il movimento Sicilia libera e in altri luoghi del Sud movimenti analoghi. Tutte queste iniziative nascevano dalla volontà di Cosa nostra di “punire i politici una volta amici”, preparando il terreno a movimenti politici che prevedessero il coinvolgimento diretto di uomini della criminalità organizzata o, meglio, legati alla criminalità, ma “presentabili”». È la mafia che si fa partito: dopo aver constatato l’inutilizzabilità della Democrazia cristiana, che aveva lasciato diventare definitive le condanne al maxiprocesso di Palermo, Totò Riina e i suoi cercano figure «presentabili» per varare in proprio una nuova forza politica.
«Nell’ottobre 1993», continua Cannella, «su incarico di Bagarella costituii a Palermo il movimento Sicilia libera», che apre una sede in via Nicolò Gallo e ha tra i suoi animatori, oltre allo stesso Cannella, anche Vincenzo La Bua. A Catania era nata la Lega Sicilia libera, controllata da Nando Platania e Nino Strano. Programma: la separazione dall’Italia della Sicilia, che doveva diventare «la Singapore del Mediterraneo», con conseguente possibilità di varare leggi più favorevoli a Cosa nostra, bloccare i «pentiti», annullare l’articolo 41 bis dell’ordinamento carcerario che aveva introdotto il carcere duro per i mafiosi, formare in Sicilia una autonoma Corte di cassazione…
I fondatori di «cosa nuova»
Agli uomini di Cosa nostra non sfugge fin dall’inizio che questo progetto è ambizioso e di difficile realizzazione. Per questo si lasciano aperta un’altra possibilità: cercare rapporti e offrire sostegno a nuove forze politiche nazionali che stanno nascendo sulle rovine del vecchio sistema dei partiti. «Le due strategie già coesistevano», racconta Cannella, «e lo stesso Bagarella sapeva della prossima “discesa in campo” di Silvio Berlusconi».
È Forza Italia, dunque, la carta di riserva di Cosa nostra. I suoi uomini sono informati in anticipo, attraverso canali privilegiati, dei programmi di Forza Italia. Li conoscono addirittura prima che il nome Forza Italia sia lanciato da Berlusconi sul mercato della politica. Prosegue infatti Cannella: «Bagarella, tuttavia, non intendeva rinunciare al programma separatista, perché non voleva ripetere “l’errore” di suo cognato (Riina, ndr), cioè dare troppa fiducia ai politici, e voleva, quindi, conservarsi la carta di un movimento politico in cui Cosa nostra fosse presente in prima persona. Inoltre, va detto che vi era un’ampia convergenza tra i progetti, per come si andavano delineando, del nuovo movimento politico capeggiato da Berlusconi e quelli dei movimenti separatisti. Si pensi Si pensi al progetto di fare della Sicilia un porto franco, che era un impegno dei movimenti separatisti e un impegno dei siciliani aderenti a Forza Italia. Si pensi ancora che, all’inizio del 1994, da esponenti della Lega nord (Tempesta, Marchioni e il principe Orsini), con i quali avevo avuto diretti contatti, ero stato notiziato dell’esistenza di trattative fra Bossi e Berlusconi per un apparentamento elettorale e per un futuro accordo di governo che prevedeva, fra l’altro, il federalismo tra gli obiettivi primari da perseguire. Marchioni mi aveva riferito che un parlamentare della Lega nord, questore del Senato, aveva confermato che il futuro movimento, che avrebbe poi preso il nome di Forza Italia, aveva sposato in pieno la tesi federalista».
Giovanni Marchioni, un imprenditore vicino alla Lega Italia federale, l’articolazione romana della Lega nord, ha confermato che i promotori delle «leghe del Sud» si sono riuniti a Lamezia Terme. Erano presenti, tra gli altri, La Bua e Strano per Sicilia libera, oltre ai rappresentanti di Calabria libera, Lucania libera e Campania libera. In questa occasione il principe Orsini si propone come candidato unico del futuro raggruppamento di tutte quelle organizzazioni. Orsini conferma tutto ai magistrati palermitani e ammette «di avere chiaramente intuito il tipo di interessi che Sicilia libera intendeva tutelare», scrivono i magistrati di Palermo, «specialmente dopo che Cannella gli disse esplicitamente che “occorreva tenere un discorso all’Ucciardone per poi perorare la causa del noto 41 bis dell’ordinamento penitenziario”».
Già verso la fine del 1993, comunque, un boss di Cosa nostra impegnato in prima persona nella strategia delle stragi avverte Cannella che quella del movimento separatista non è l’unica via: «Nel corso di un incontro con Filippo Graviano, questi, facendo riferimento al movimento Sicilia libera di cui ero notoriamente promotore, mi disse testualmente: “Ti sei messo in politica, ma perché non lasci stare, visto che c’è chi si cura i politici… Ci sono io che ho rapporti ad alti livelli e ben presto verranno risolti i problemi che ci danno i pentiti». Graviano e, nell’ombra, Bernardo Provenzano, nei mesi seguenti constatano che la strada separatista non è percorribile. È in questo clima che si intrecciano rapporti frenetici tra esponenti delle «leghe» e uomini di Forza Italia.
Gioacchino Genchi è un poliziotto esperto in analisi dei traffici telefonici. Da tempo è in aspettativa dalla Polizia e dal suo ufficio di Palermo pieno di computer svolge il ruolo di consulente per diverse procure italiane. Per quella di Palermo ha analizzato, con i suoi programmi e i suoi data base, i flussi telefonici dei protagonisti della stagione di Sicilia libera. Scoprendo nei tabulati della Telecom e degli altri gestori telefonici una serie di contatti insospettabili.
Il giorno chiave è il 4 febbraio 1994. Il principe Orsini alle 10.50 telefona a Stefano Tempesta, esponente leghista vicino a Sicilia libera. Nel primo pomeriggio, alle 15.55, raggiunge al telefono Cannella, l’inviato di Bagarella nella politica. Subito dopo, alle 16.14, chiama la sede di Sicilia libera a Palermo. Alle 18.43 chiama Arcore: il numero è quello riservato a cui risponde Silvio Berlusconi. Immediatamente dopo chiama Marcello Dell’Utri. Alle 19.01 telefona di nuovo a Tempesta, che raggiunge ancora alle 19.20. Nei giorni successivi i contatti di Orsini continuano. Il 7 febbraio 1994, alle 17.34, chiama Sicilia libera. Il giorno dopo parla due volte con Dell’Utri. Il 10 febbraio alle 13.26 telefona a Cesare Previti. Il 14 febbraio contatta ancora Dell’Utri e, alle 16.04, Vittorio Sgarbi.
L’analisi al computer dei tabulati di migliaia di telefonate, naturalmente, non può far conoscere i contenuti dei contatti. Ma rivela i rapporti, le connessioni. Un deputato regionale siciliano dell’Udc, Salvatore Cintola, per esempio, nel periodo tra il 9 ottobre 1993 e il 10 febbraio 1994 chiama 96 volte il cellulare di Tullio Cannella, l’uomo di Sicilia libera. In quei mesi cruciali a cavallo tra il ’93 e il ’94 sono molti i contatti tra la sede di Sicilia libera e i numeri della Lega nord, a Roma, a Verona, a Belluno. Poi, quando l’opzione «leghista» tramonta, crescono i rapporti telefonici con uomini di Forza Italia. Gianfranco Micciché, Gaspare Giudice, Pippo Fallica, Salvatore La Porta. E Giovanni Lalia, che di Forza Italia siciliana è uno dei fondatori. È lui che dà vita al club forzista di Misilmeri, che anima il gruppo che si riunisce all’Hotel San Paolo di Palermo, formalmente posseduto dal costruttore Gianni Ienna, ma considerato dagli investigatori proprietà dei Graviano e per questo confiscato. È sempre lui, Lalia, che cede il suo cellulare a mafiosi di Misilmeri, il giro di Giovanni Tubato (poi ucciso) e Stefano Benigno (cugino di Lalia, in seguito condannato per le stragi del ’93).
Le analisi dei traffici telefonici mettono in risalto anche gli intensi rapporti tra Marcello Dell’Utri e un gruppo di imprenditori siciliani attivi a Milano nel settore delle pulizie, capitanati da Natale Sartori e Antonino Currò, arrestati poi nel 1998 a Milano. Il gruppo di Sartori e Currò era a sua volta in strettissimi rapporti con il mafioso Vittorio Mangano, un tempo «stalliere» nella villa di Berlusconi ad Arcore. Un capomafia del peso di Giovanni Brusca ha testimoniato a Palermo che il tramite tra Berlusconi e Cosa nostra, a Milano, sarebbe proprio «un imprenditore nel settore delle pulizie». Chissà, si sono chiesti gli investigatori del caso Sartori-Currò, se ha a che fare con i nostri eroi. Ma per ora quell’imprenditore – ammesso che esista – è rimasto senza volto e senza nome.
Restano soltanto i fili sottili dei rapporti intrecciati, nel momento forse più drammatico della storia italiana del dopoguerra, tra gli uomini di Cosa nostra, i promotori delle leghe, i fondatori di Forza Italia. Che questi contatti ci siano stati è ormai certo. Che cosa si siano detti, quali trattative, quali eventuali promesse si siano fatti non è invece ancora dato di sapere con certezza. Il momento fondativo della cosiddetta Seconda Repubblica resta avvolto nel mistero.
Gianni Barbacetto – Diario 21 marzo 2003
Intervista a Marco Travaglio
A cura di Fabrizio Li Vigni, Marco Miceli, Federica Lazzaro e Tommaso Mazzara
Palermo 2005.
All’interno dell’Italia berlusconiana, lei come si inserisce a livello politico? Si definisce un anti-berlusconiano o si schiera dalla parte della sinistra?
La prima che hai detto, senza mischiarmi. Io faccio un altro mestiere. Non posso essere pregiudizialmente con questi o con quegli altri. Mi sembra naturale che chi fa il giornalista non possa stare con chi da quattro anni cerca di, ed è riuscito a massacrare la libertà d’informazione. Di certo non posso stare con questi soggetti, ma non è una questione di stare quindi con gli altri, è una questione di stare proprio fuori da queste logiche. È una difesa non solo del mio proprio mestiere ma anche, in quanto cittadino, di tutto ciò che è in pericolo: la costituzione, la legalità, la morale, la dignità nostra. Sono tutti patrimoni non di destra e non di sinistra, sono patrimoni che dovrebbero essere cari a tutti quanti. Tutti quanti dovrebbero essere anti-berlusconiani, tutti… soprattutto quelli di destra!
Come ha ottenuto tutte le sue ricchezze Berlusconi?
Anche a me piacerebbe saperlo… Siamo molto curiosi che ce lo spieghi ma lui non ce lo spiega mai. Sappiamo che non si sa. Sappiamo che quando glielo chiedono, lui non ce lo dice. Nel suo libro, un fotoromanzo, “La storia Italiana”, che ha venduto milioni di copie nell’ultima campagna elettorale del 2001, lui dice che tutto nacque dalla liquidazione di suo padre, 70 milioni di lire. Però il vice-direttore della Banca d’Italia, incaricato dalla Procura, ha scoperto che oltre i 70 milioni, Berlusconi ha poi trovato sotto un tavolo 113 miliardi di lire tra il ‘78 e l’‘83. Fermo restando i 70 milioni, sarebbe interessante sapere da dove arrivano i 113 miliardi. Ma lui sui 113 miliardi non si pronuncia. Quando al tribunale gli hanno chiesto delle spiegazioni, lui si è avvalso della facoltà di non rispondere. Gliel’hanno chiesto tutti, gliel’ha chiesto anche l’Economist, ma lui non risponde. A lui basterebbe dire che li ha trovati nelle patatine, nel Dixan, sotto la porta una mattina oppure che gliel’ha portati la cicogna. Se non lo dice, vuol dire che non può dirlo…
Come si è concluso il processo-Andreotti?
Il processo-Andreotti si è concluso con la dichiarazione di colpevolezza dell’imputato fino alla primavera del 1980. È stato riconosciuto dalla corte d’appello di Palermo colpevole di associazione a delinquere con la mafia fino alla primavera del 1980, reato che si era prescritto un anno prima. Quindi, se il processo fosse durato un anno di meno, lui sarebbe stato condannato per associazione a delinquere con la mafia. Tra l’altro è un bel periodo per uno che ha cominciato nel ‘45: trentacinque anni non sono male dopo tutto.
A noi popolo semplice hanno fatto credere che era stato assolto anche in appello, ma lui se ne deve essere accorto che non era vero, visto che ha fatto ricorso in cassazione chiedendo l’annullamento della prescrizione, chiedendo l’assoluzione. Si vede che non l’aveva avuta l’assoluzione! Altrimenti non si è mai visto uno assolto che ricorre in cassazione contro la propria assoluzione… un suicida. Il suo problema è che anche la cassazione ha confermato la sentenza di appello e lo ha condannato a pagare le spese processuali.
Il limite della data del 1980 non è un’idea balzana dei giudici, ma è la data dell’ultimo incontro che Andreotti ha avuto con Bontade. Il primo l’ha avuto prima del delitto-Mattarella. In quell’incontro Bontade preannunciò ad Andreotti il progetto del delitto, ma dato che Andreotti non aveva avvertito Mattarella del pericolo incombente, questo fu ammazzato. In seguito Andreotti scese di nuovo in Sicilia a incontrare Bontade per chiedere informazioni sul delitto e Bontade gli rispose “l’avevamo avvertita”. Questo è l’ultimo incontro che i giudici ritengono accertato. Poi ci sono altri incontri successivi con mafiosi, ma non si ritiene che siano sufficienti a stabilire che Andreotti era ancora organicamente legato alla mafia dopo l’‘80, anche perché poi Bontade venne ucciso dai corleonesi e perché cambiarono tutti gli equilibri. Così ora tutti sappiamo – o meglio non sappiamo – che siamo stati governati da un mafioso fino all’‘80.
Ci dia due motivi per cui ritenere Berlusconi un criminale
Termine appropriato. Basta leggere le sentenze, ci sono delle sentenze che lo riconoscono responsabile di gravi reati. La prima è dell’‘89: lui era colpevole di falsa testimonianza sulla sua iscrizione alla P2, reato commesso ma coperto dall’amnistia che nel frattempo era stata fatta. E questa è una sentenza di Venezia, definitiva. Poi c’è la sentenza all’Iberian: condannato in primo grado, prescritto in appello, prescritto in cassazione: 21 miliardi di tangenti a Craxi. Esito del processo: colpevoli sia Berlusconi che Craxi in maniera definitiva. Il processo è finito in prescrizione, ma il reato è stato commesso. D’altronde quello che a noi interessa è se Berlusconi l’aveva o non l’aveva commesso, non se va in galera o non va in galera. Certo, se andasse in galera sarebbe anche meglio, ma non si può avere tutto dalla vita.
Anche questo è un reato accertato. Altri reati accertati sono una serie di falsi in bilancio e fondi neri dalla parte dei vari processi per il falso in bilancio, come quello dei 1500 miliardi delle sue società off-shore, che erano 64. Ci sono altri processi del genere, ma sono tutti finiti in prescrizione, visto che ha cambiato la legge sul falso in bilancio.
Quelli citati sono tutti reati commessi, accertati e documentati. Poi ci sono addirittura reati fiscali che lui ha accusato di aver commesso da politico, nel periodo che va dal ‘94 al ’99, ma quella è un’altra storia.
È vero che Berlusconi era in contatto con i mafiosi che hanno organizzato le stragi di Via D’Amelio e di Capaci?
Questo non lo sappiamo, però sappiamo che ha avuto rapporti con i mafiosi. Uno se l’è pure tenuto in casa per due anni, Vittorio Mangano. Era Dell’Utri che gli gestiva i rapporti con la mafia. Infatti, che Dell’Utri abbia conosciuto, incontrato e frequentato una dozzina di mafiosi è sicuro, proprio perché risulta da quello che dice lui stesso, poi accertato con documentazioni, testimonianze, intercettazioni, filmati, documenti scritti, agende, tabulati, eccetera. Che Berlusconi si sia messo d’accordo per le stragi, questa era l’ipotesi che avevano formulato separatamente la procura di Caltanissetta per le stragi di Falcone e Borsellino e la procura di Firenze per le stragi di Roma e Firenze. Ma poi le indagini sia a Berlusconi, sia a Dell’Utri sono state archiviate e noi dobbiamo rispettare l’archiviazione. L’archiviazione non significa però che i due indagati fossero innocenti, ma significa che non c’erano elementi sufficienti per poter sostenere un’accusa contro di loro in un eventuale processo, anche se dalle pur insufficienti indagini sono emersi degli elementi che fanno rilevare che l’ipotesi fosse tutt’altro che infondata.
Bisognerebbe continuare a lavorarci, sui mandanti esterni, ma da quando non c’è più Caselli alla Procura di Palermo, da quando non c’è più Scaroni alla Procura di Caltanissetta e da quando Grasso ha estromesso tutti quelli che si stavano occupando dei mandanti esterni, di fatto non si sa molto su chi essi siano.
Ha mai ricevuto delle minacce?
No, a meno che non siano da ritenersi minacce tutte le denunce che fanno o il fatto che non posso più mettere il naso in televisione. Ma delle minacce dirette no. Quelli non minacciano: quando colpiscono, lo fanno senza avvertire. Ma non credo che ritengano pericoloso uno come me. Certo, se non ci fossi sarebbe meglio. Però, sai, un conto è se io fossi in televisione a parlare di queste cose a milioni di persone, mentre invece ci sono loro, e un conto è che io scriva dei libri e parli con qualche decina di migliaia di persone. Sono piccoli numeri questi…
Nelle mani di quale uomo, non necessariamente politico, metterebbe l’Italia?
A me piacerebbe metterla nelle mani del professor (Giovanni) Sartori, oppure in quelle di Cordero… Ma ci sono anche nell’ambito politico persone che lottano seriamente per la legalità, anche lì in Sicilia. Da voi conosco il sindaco di Gela, Crocetta, un personaggio fantastico; conosco Claudio Fava, Nando dalla Chiesa. Ma non necessariamente gente di sinistra, appunto dicevo Sartori. Ci vorrebbero un po’ di persone serie e per bene che non abbiano rapporti con la stagione dei compromessi, che non siano ricattate né ricattabili, che non abbiano cambiali da incassare o da fare incassare, e che quindi possano ripartire da zero, come ha fatto Zapatero, che non deve rendere conto a nessuno e fa solo quello che ritiene giusto – anche se non è per forza tutto giusto quel che fa –, confrontandosi solo con i suoi elettori.
Come reagirebbe lei a una rielezione di Berlusconi?
Maluccio, direi. Reagirei male perché mi porrei delle domande. Mi porrei la domanda se non sia davvero il presidente ideale per l’Italia. Quando l’Economist si poneva questa domanda, io so cosa volevano dire: volevano dire che è incapace di governare l’Italia. E avevano ragione. Ma che non sia l’uomo adatto, questo non lo so. Se lo mandiamo a casa, probabilmente vorrà dire che gli italiani sono maturati. Come diceva Montanelli, dopo cinque anni che se lo bevono avranno maturato il vaccino. Se dovesse rivincere vorrebbe dire che proprio ce lo meritiamo, anche perché abbiamo un’opposizione che francamente ti fa cadere le palle. E questa sarebbe un’ulteriore dimostrazione che questa opposizione si merita Berlusconi. Però non voglio neanche pensarci, anche perché non credo che nessun Paese, nemmeno un Paese che ne ha viste tante come l’Italia, potrebbe sopravvivere davvero ad altri cinque anni di questa banda qua.
Quale potrebbe essere, secondo lei, un Paese modello per l’Italia?
Paesi modello non ce ne sono, nel senso che noi potremmo essere modelli a noi stessi in certe stagioni. Noi abbiamo vissuto tra il ‘92 e il ‘93, poi di nuovo tra il 2002 e il 2003, delle stagioni da un lato dolorose, perché da un lato c’erano le bombe e dall’altro lato c’era Berlusconi, però delle stagioni in cui la società civile ha partecipato e ha reso possibile delle grandi cose. Abbiamo visto processare i potenti, tra il ‘92 e il ‘93, abbiamo visto scendere in piazza la gente per difendere una categoria da sempre guardata con sospetto, come la magistratura. Ci si è affezionati alla legalità, alla polizia, alla lotta alla mafia. Si sono ottenuti grandi risultati su tutti i fronti. Quindi, possiamo benissimo imparare da noi stessi, possiamo imparare dalle stagioni migliori della nostra storia, senza inseguire modelli stranieri che sono impraticabili, perché noi siamo abbastanza unici. Bisognerebbe cercare di riprodurre le condizioni che hanno reso possibili quelle importantissime parentesi. Quando l’informazione fa il suo dovere senza condizionamenti, la magistratura idem, la società civile parteggia per le guardie anziché per i ladri, tutto questo rende possibili dei miracoli, anche in Italia. Bisogna cercare di ripetere quelle condizioni ancestrali, rendendole più stabili e normali.
Reputa credibile il programma della sinistra oppure votare la sinistra è diventato un modo per non votare Berlusconi?
Intanto il programma della sinistra ti dirò se sarà credibile quando lo faranno, perché per il momento non se ne vede traccia. Ci sono circa dodici programmi della sinistra, quanti sono i partiti. Anzi ci sono partiti che ne hanno anche due o tre, perciò si arriva a circa diciotto programmi della sinistra. Ne aspetterei uno, anche perché leggere il programma di Mastella mi sembra eccessivo… Vediamo che cosa fanno. Credo che Prodi abbia un progetto in testa e che stiano lavorando per impedirgli di realizzarlo, i suoi cosiddetti alleati. Però mi fido abbastanza di lui. Penso che un buon periodo sia stato il suo governo, infatti poi l’hanno segato. Per quanto riguarda il diritto di voto, io ho sempre votato contro qualcuno. Io quando c’era il Comunismo votavo Scalfaro o dei liberali di cui mi fidavo. Non ho mai votato con entusiasmo a favore di qualcuno. Quando è caduto il Comunismo, mi sono occupato dei nuovi pericoli. Berlusconi era sicuramente “il” pericolo. Quindi ho cominciato a votare contro di lui, anche se mi toccava votare per questo Centro Sinistra che, all’epoca, ancora non avevo visto all’opera. Poi quando l’ho visto all’opera, ho capito che aveva un unico merito, quello di non essere Berlusconi. Ma è un po’ poco. Ora come ora credo che il problema sia ancora quello. Che loro non sono Berlusconi e quindi che bisogna votarli. Ma non vedo altri motivi per votarli. Poi magari ci stupiscono tutti con effetti speciali e con un programma miracoloso e mirabolante, spero. Spero che lo realizzino soprattutto, perché il programma era bello anche quello del ‘96, poi hanno approvato quello di Previti, che le elezioni le aveva perse, e quello di Confalonieri, che le elezioni non le aveva nemmeno fatte. Quindi mi auguro non solo che il programma sia bello, ma che poi si ricordino di applicarlo. Per il momento, è già un miracolo se andiamo a votare. Quindi teniamoci stretto il voto, il voto può essere anche utile per votare contro. D’altronde è abbastanza divertente anche tifare contro il Milan. Non necessariamente fare una cosa “contro” è male. Io mi diverto molto anche quando il Milan perde col Liverpool 3 a 0. Votare contro in questo momento, penso possa essere abbastanza doloroso…
ATTI PROCESSUALI SULLA STRAGE DI VIA D’AMELIO
TRIBUNALE DI CALTANISETTA
I CONTATTI TRA SALVATORE RIINA E GLI ON.LI DELL’UTRI E BERLUSCONI
Il 21 giugno del 1999, ancor prima della deposizione di Salvatore Cancemi nell’ambito del procedimento c.d. Via D’Amelio ter, Brusca aveva riferito di essere a conoscenza del fatto che alcuni imprenditori milanesi pagavano, a titolo di estorsione o di contributo, una somma di denaro ad appartenenti all’organizzazione. In particolare, l’on. Berlusconi “mandava qualche cosa giù come regalo, come contributo, come estorsione” a suo cugino Ignazio Pullarà. Quest’ultimo inviava Peppuccio Contorno (omonimo del collaborante) e tale Zanga, a ritirare il denaro negli anni 1981, 1982, 1983. Ha aggiunto che anche i gestori dell’ippodromo di San Siro versavano del denaro per pagare il è “pizzo”.
Segnatamente ha riferito: “e l’ultima volta e precisamente giorno 21 di questo mese, prima ancora che parlasse Cancemi, perché io ancora Cancemi non l’avevo ascoltato, gli ho detto che sapevo alcune… alcuni… alcuni… alcuni imprenditori milanesi pagavano – come si suol dire – il pizzo o era contributo e c’era sia il Berlusconi che mandava qualche cosa giù come regalo, come contributo, come estorsione ma c’era pure anche l’ippodromo di San Siro, l’ippodromo di San Siro che pagava pure questo pizzo. Quello di San Siro so che pagavano 10 milioni al mese e che si dividevano i Fidanzati, gli Enea e… i Martello e qualche altro; il Berlusconi mandava questo contributo, addirittura a mio cugino Ignazio Pullarà mandava Peppuccio Contorno, omonimo di Salvatore Contorno, un certo Zanca a ritirare questi soldi, però quando ritiravano non glielo so dire. Questo però, questo periodo nell’81, 82, 83. Questo piccolo particolare, siccome pensavano che io non volessi dire niente, avevo l’ultimo – come si suol dire – l’ultimo sassolino nella scarpa e gliel’ho detto in maniera che mi pulivo di tutto quello che sapevo” (pagg. 185-186 udienza del 2 luglio 1999).
Ed ancora Brusca ha narrato che Vittorio Mangano era stato designato quale sostituto del capomandamento di Porta Nuova, dopo l’inizio della collaborazione di Salvatore Cancemi, su sua insistenza e di Leoluca Cagarella, anche perché poteva assicurare contatti politici. I tentativi in tal senso, effettuati per agganciare, suo tramite, questi nuovi interlocutori, alla fine si erano, tuttavia arenati (pagg. 201-202, udienza del 1 luglio 1999).
Brusca ha poi precisato di non aver sentito parlare di un coinvolgimento degli onorevoli Dell’Utri e Berlusconi nella strage di Capaci.
Al riguardo ha riferito che, tra la fine del 1993 e gli inizi del 1994, aveva chiesto a Leoluca Cagarella se vi erano stati contatti, ricevendone risposta negativa. Nel frattempo, aveva letto sull’Espresso un articolo che conteneva un attacco a Silvio Berlusconi, che aveva già iniziato l’attività politica. L’on. Berlusconi, in particolare, veniva indicato come amico di Vittorio Mangano, che gli aveva confermato la circostanza. Pertanto, d’intesa con Leoluca Cagarella, aveva inviato Mangano dall’on. Berlusconi, al fine di indurlo ad intervenire sul trattamento carcerario e per tutta una serie di benefici per gli affiliati a Cosa Nostra.
Mangano avrebbe dovuto riferire che, se le richieste non fossero state accolte, si sarebbe proseguito nelle stragi. Al riguardo, veniva utilizzata la “scusa” che le stragi del Nord erano opera dei Servizi Segreti con la quiescenza dei precedenti governi. In seno all’organizzazione, quest’ultimo convincimento derivava dalla telefonata all’ANSA effettuata da Santo Mazzei dopo aver collocato il proiettile di artiglieria nel giardino di Boboli a Firenze, con la quale si avvertiva che se non avessero tolto il 41 bis “o qualche altra cosa” si sarebbe proseguito nelle stragi (pagg. 179-186, udienza 2 luglio 1999).
Anche Cancemi, opportunamente consultato in sede di gravame sul tema dei c.d. mandanti occulti, sul quale lo stesso aveva già reso dichiarazioni, in fase di indagini preliminari, nell’interrogatorio reso in data 18 febbraio 1994 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caltanisetta, ha riferito dei contatti tra Salvatore Riina e gli onorevoli Dell’Utri e Berlusconi, nonché del ruolo di Vittorio Mangano, volto ad assicurare dei contatti politici per il perseguimento delle finalità che Cosa Nostra intendeva coltivare in quel dato momento storico.
Il dichiarante ha anche precisato che Salvatore Riina, nel corso della riunione di giugno tenutasi presso l’abitazione di Girolamo Guddo, aveva mostrato una “certa premura, una certa urgenza” per l’esecuzione della strage di Via Mariano D’Amelio e che era sicuro delle sue scelte perché aveva la copertura di “persone importanti… U zù Totuccio si incontrò con persone importanti… Poi io, più avanti… l’ho saputo da Totò Riina e parlava di Dell’Utri e Berlusconi”.
Tuttavia tali dichiarazioni non spiegano alcuna defluenza sul giudizio in corso, in quanto afferiscono a soggetti per i quali non è mai stata esercitata azione penale e che allo stato appaiono del tutto estranei alle tematiche del processo in corso. Valuterà la pubblica accusa se utilizzare o meno tali dichiarazioni dalle quali, prima facie, si evince come Cosa Nostra non fosse insensibile ai mutamenti del quadro politico-isitituzionale che in quel tempo si andavano maturando e cercasse di tessere dei rapporti privilegiati al fine di poterli sfruttare al meglio per ottenere quei benefici del c.d. papello presentato da Salvatore Riina ai suoi interlocutori durante il periodo in cui Cosa Nostra coltivò una strategia di attacco nei riguardi dello Stato: “fare la guerra per poi fare la pace”.
Va in ogni caso rilevato che le dichiarazioni rese da Salvatore Cancemi si sono saldate con quelle provenienti da Giovanni Brusca.
Tra le due ricostruzioni offerte dai collaboranti vi è una sostanziale convergenza. Difatti, entrambi hanno collocato la riunione tra le due stragi di Capaci e Via m. D’Amelio; hanno indicato in Riina, Ganci e Biondino i partecipanti; hanno narrato del brindisi per la riuscita della strage di Capaci, nonché delle azioni criminali ancora da attuare; hanno riferito del fallito attentato all’Addaura.
Tuttavia va rilevato che solo Cancemi ha narrato le ragioni per cui vi fu un’accelerazione per la strage di Via D’Amelio, ricollegandola alle intese con i citati personaggi importanti, ma la sua sola propalazione non riscontra sul punto da Brusca non può assumere allo stato alcuna rilevanza probatoria, ancorché sulle restanti parti le narrazioni dei collaboranti si sono integrate vicendevolmente.
http://www.almanaccodeimisteri.info/autobombe2001.htm
Le autobombe del 1993
le notizie del 2001
(dove non e’ citata un’ altra fonte, la notizia e’ tratta dall’ agenzia Ansa)
10 febbraio – Processo d’ appello per le stragi con autobombe del 1993: i fratelli Graviano smentiscono qualsiasi ipotesi di “dissociazione”. Interviene poi uno dei due difensori di Toto’ Riina, l’ avvocato Luca Cianferoni.
12 febbraio – Processo d’ appello per le autobombe del 1993: verso mezzogiorno i giudici della Corte d’ Assise d’ appello di Firenze si ritirano in camera di consiglio.
13 febbraio – La corte di assise di appello di Firenze, presieduta dal giudice Arturo Cindolo, conferma 15 dei 16 ergastoli inflitti in primo grado ai presunti organizzatori delle stragi con le autobombe della primavera-estate 1993. La sedicesima condanna all’ ergastolo (quella per Cristofaro Cannella) e’ stata ridotta alla pena di 30 anni di reclusione perche’ l’ imputato e’ stato prosciolto per l’ attentato di via dei Georgofili a Firenze. Fra i 15 imputati per cui e’ stato confermato l’ ergastolo figurano Toto’ Riina, Leoluca Bagarella, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano e i boss latitanti Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro che, insieme al pentito Giovanni Brusca (per cui e’ stata confermata la condanna a 20 anni di reclusione), sarebbero stati i mandanti della strategia di terrorismo mafioso del 1993. I giudici di appello hanno sostanzialmente confermato le sentenze dei processi di primo grado, che si erano conclusi il 6 giugno 1998, con 14 condanne all’ ergastolo, e il 21 gennaio 2000, con l’ ergastolo anche per Riina e Giuseppe Graviano. L’ unica modifica di qualche rilievo, oltre al prosciogilmento di Cannella per la strage di via dei Georgofili (27 maggio 1993), riguarda la posizione di Riina e Giuseppe Graviano in relazione al fallito attentato a un pullman dei carabinieri allo stadio Olimpico, a Roma, progettato per la fine del 1993. I giudici d’ appello hanno dichiarato la nullita’ della sentenza di primo grado relativamente a quella imputazione. La sentenza ha disposto il rinvio degli atti relativi a quell’ episodio alla corte d’ assise di primo grado e ha ridotto di quattro mesi per i due boss – da tre anni a due anni e otto mesi – la pena accessoria dell’ isolamento diurno. Anche il processo d’ appello, cominciato il 23 ottobre scorso, ha quindi accolto le tesi della procura. Il pg Gaetano Ruello, nella sua requisitoria, aveva sostenuto che la strategia di attacco terroristico al patrimonio culturale del paese sarebbe stata decisa dai vertici di Cosa Nostra gia’ alla fine del 1992, sulla base, in particolare, di una sollecitazione di Toto’ Riina. L’ obbietivo, secondo l’ accusa, era duplice: “rinsaldare all’ interno dell’ organizzazione i vincoli di appartenenza, che rischiavano di saltare dopo la crisi determinata dal pentitismo, e lanciare all’ esterno un duro messaggio alle istituzioni: o ammorbidite la vostra linea, in particolare sul 41 bis, o Cosa nostra alzera’ sempre piu’ il tiro con una escalation di violenza e brutalita’”.
19 febbraio – Il pm della Dna Gabriele Chelazzi, commentando i 15 ergastoli inflitti in secondo grado dai giudici di Firenze ai responsabili della stagione degli attentati del 1993, dice:”Ora che anche la sentenza di appello ha ribadito una condanna ignominiosa qualcuno potrebbe considerare l’ipotesi di collaborare con la giustizia”. “Non credo – ha aggiunto il Pm – che tutti i condannati si riconosceranno, pur avendovi partecipato, in questo ignominio”. Secondo Chelazzi la sentenza, che chiude la vicenda giudiziaria nel merito, ha sancito un dato processuale importante e, per certi versi, antico: “Cosa Nostra ha piazzato il tritolo perche’ convinta di trattare con lo Stato, convinta di avere aperto dopo la stagione delle stragi del ’92 un ‘tavolo separato e sotteraneo’, ha creduto che Paolo Bellini prima e il generale Mori dopo fossero emissari di un’ interlocuzione subita dallo Stato perche’ avviata a suon di bombe, confermando uno straordinario dinamismo, diciamo cosi’, intellettuale, volto alla ricerca della giusta distanza con la controparte statale. E quando ha creduto di avere raggiunto questa distanza, ha posto la pistola sul tavolo, per spingere lo Stato a farsi sotto”. Un comportamento proprio di un soggetto politico: “L’ attribuzione dell’ aggravante per finalita’ terroristica – spiega Chelazzi – conferma la capacita’ di Cosa Nostra di agire politicamente in senso lato”. Il magistrato ricostruisce gli eventi della seconda meta’ del ’92, dopo le stragi Falcone e Borsellino, periodo nel quale Cosa Nostra ‘dimostra una capacita’ di reazione elevatissima “Il proiettile piazzato il 17 ottobre nei giardini di Boboli, a Firenze – spiega Chelazzi – serviva a lanciare un messaggio: abbiamo capito che vi sta a cuore il patrimonio artistico e vi mettiamo alla prova. Il silenzio che segue quell’episodio convince i boss che lo Stato ha accettato un tavolo separato, che preferisce trattare di nascosto, che allo scoperto ha pochi margini di manovra”. E la condanna di Riina, nonostante fosse detenuto, per le stragi del ’93 e’ la conferma, per Chelazzi, che il piano parte nel ’92 e che gli eccidi del ’93 arrivano quando i mafiosi hanno ritenuto chiusi tutti gli spazi di dialogo. Le considerazioni del magistrato impongono due ulteriori domande: accanto a chi (o spinta da chi) Cosa Nostra ha agito ‘politicamente’, e se i suoi tentativi di dialogo hanno trovato un interlocutore nelle istituzioni: “Non credo nel modo piu’ assoluto che i contatti cercati dal generale Mori e dal misterioso Paolo Bellini siano da interpretare come hanno fatto i mafiosi þ sostiene il Pm þ diciamo che anche se compie interpretazioni forzate Cosa Nostra resta un soggetto vigile e attento al dialogo. Ci auguriamo che queste domande trovino una risposta definitiva al termine delle indagini, collegate con altre procure, e ancora aperte”.
12 marzo – La corte d’ Assise d’ Appello di Palermo, presieduta da Biagio Insacco, accoglie l’ istanza dei difensori di Toto’ Riina e revoca la misura dell’ isolamento diurno nei confronti del boss. Riina potra’ trascorrere le cosiddette “ore d’ aria” o di “socializzazione” con uno o piu’ detenuti che saranno scelti dall’ amministrazione del carcere in cui e’ recluso, quello di Ascoli Piceno. La misura non incidera’ sul regime del 41 bis cui e’ sottoposto il boss corleonese in cella dal 15 gennaio 1993. Non e’ la prima volta che all’ ex capo di Cosa nostra viene tolta la misura dell’ isolamento: in passato la Cassazione aveva annullato, su istanza dei difensori, un precedente provvedimento della corte d’ Assise palermitana. Su ricorso della procura generale, pero’, l’ isolamento diurno e’ stato ripristinato. Secondo il legale di Riina, Domenico La Blasca, la Corte di Assise d’ Appello uniformandosi ad un orientamento della Cassazione ha deciso che la pena accessoria – che per legge non puo’ superare i tre anni – dell’ isolamento va cumulata nel caso che le sentenze definitive riguardino reati commessi prima dell’ arresto. Riina, condannato all’ ergastolo 12 volte, attende ancora che passi in giudicato la sentenza all’ ergastolo per le cosiddette stragi a Roma, Milano e Firenze nel ’93. Qualora venisse condannato definitivamente potrebbe ancora una volta essere posto in isolamento diurno. Luca Tescaroli, sostituto procuratore di Roma e pm nel processo per la strage mafiosa di Capaci, commenta:”Purtroppo siamo un Paese che non ha memoria e saremo costretti a rivivere il nostro passato”. “Non a caso l’impegno di Cosa Nostra – ha proseguito il pm – e’ sempre stato diretto a neutralizzare il 41 bis, che prevede il regime di carcere duro. Consentendo un contatto con altri detenuti si agevolano i canali di comunicazione con l’esterno. Con questa decisione, al di la’ delle intenzioni, si agevola Cosa Nostra”.
23 maggio – Otto anni dopo la strage di via dei Georgofili, il Comune di Firenze e la Regione Toscana commemorano i cinque morti, tra cui due bambini, causati da un’ autobomba collocata da Cosa nostra a fianco degli Uffizi. Alle iniziative congiunte si affianca una rappresentazione teatrale promossa dalla citta’ di Sarzana (La Spezia). “Il processo che ha condannato gli esecutori della strage e’ uno dei processi piu’ significativi nel nostro Paese – ha detto stamani Daniela Lastri, assessore all’ istruzione del comune di Firenze -, che ha costretto al carcere gli esecutori delle stragi del ’93. Stragi – ha aggiunto Lastri – che sono state portate a termine per un disegno ben preciso, compiute esattamente un anno dopo l’ omicidio di Falcone e Borsellino”. Firenze dunque ricorda la strage che si compi’ nella notte tra il 26 e il 27 maggio ’93, ma anche le stragi di Milano e Roma. Gia’ il 21 e il 22 maggio l’ assessorato alla pubblica istruzione ha organizzato la proiezione dei film “I cento passi” di Marco Tullio Giordana e “Placido Rizzotto” di Pasquale Scimeca, i due film dedicati a uomini che hanno dedicato la vita alla lotta contro Cosa nostra. Per il 25 maggio, nell’ auditorium della Regione, e’ stata organizzata una tavola rotonda alla quale parteciperanno, tra gli altri, il procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna, i presidenti delle associazioni ‘Dare voce al silenzio degli innocenti’ Paola Bernardo e familiari delle vittime di via dei Georgofili Giovanna Chelli e Walter Ricoveri, Antonino Caponnetto, ex giudice istruttore di Palermo. Il 26 maggio in Palazzo Vecchio il sindaco di Firenze Leonardo Domenici e il Presidente della Regione Toscana Claudio Martini presiederanno un incontro con Luigi Ciotti, presidente di “Libera”, Rosalba Alu’ e Rosaria Bertolone, dirigenti delle scuole Cocchiara e Ugo di Palermo, i magistrati Gabriele Chelazzi, pm nel processo di primo grado contro cosa nostra e Enrico Ognibene, presidente del Tribunale della liberta’, e Vanna Van Straten, referente di “Libera” in Toscana. Alle 16,30, il presidente del consiglio comunale Alberto Brasca presentera’ il libro “1,04, la Strage – stralci della sentenza del processo per l’ attentato di via dei Georgofili” curato dal giornalista Francesco Nocentini e dall’ avvocato Danilo Ammannato, legale di parte civile nel processo per le stragi. “Il libro – ha detto Brasca – fa parte della collana ‘Memoria’ che il comune ha voluto per sottolineare la necessita’ della memoria e del ricordo. E per divulgare la verita’ contenuta nella sentenza di primo grado: dietro quella strage ci sono responsabilita’ diverse”. Prima dei rintocchi della Martinella, che da otto anni ricordano a Firenze l’ esplosione, l’ orchestra Vincenzo Galilei e la schola cantorum Landini della scuola di musica di Fiesole eseguiranno in piazza della Signoria il Requiem di Faure’ e la Messa dell’ Incoronazione di Mozart. Ma le manifestazioni si estendono anche fuori dalla Toscana: a Sarzana, citta’ di origine di Dario Capolicchio, lo studente universitario morto nell’ attentato sara’ messo in scena il 26 e 27 maggio al Teatro degli Impavidi il testo teatrale di Renzo Ricchi “Nel nome del figlio”, con la regia di Toni Garbini. Lo spettacolo sara’ poi replicato il 20 giugno al Teatro Civico della Spezia.
25 maggio – In una lettera, letta nel corso del convegno “Storia, giustizia, memoria: un difficile percorso”, organizzato da Regione Toscana e Comune di Firenze per commemorare l’attentato di via dei Georgofili, il procuratore generale antimafia, Pier Luigi Vigna scrive:”Per rompere i ‘segreti’ che avvolgono il potere criminale e ne costituiscono il nodo centrale, e’ probabilmente necessario il concorso di storici e politici che, sia pure in ambiti diversi da quello giudiziario, possono concorrere ad apportare positivi contributi alla ricerca della verita”.
26 maggio – L’ Ansa scrive:
“C’ e’ bisogno di una legislazione all’altezza dei problemi e la nostra per tanti aspetti non lo e”‘. Lo ha detto il sostituto procuratore nazionale antimafia Gabriele Chelazzi, raggiunto per telefono a Roma, in occasione delle celebrazioni dell’ ottavo anniversario della strage di via dei Georgofili. “Tante volte – ha detto Chelazzi che e’ stato pm nel processo di primo grado ai vertici di Cosa nostra per le stragi di Firenze, Milano e Roma – si e’ sentito dire che da noi le leggi erano troppe. Invece e’ piu’ corretto affermare che da noi ci sono molte leggi da rivedere anche in materia di processo e di antimafia”. “Il bisogno di leggi nuove non e’ mai appagato, se queste servono a togliere di mezzo norme inadeguate, e se possono restituire razionalita’ ed efficienza al sistema. La responsabilita’ della legge buona o meno buona – ha concluso Chelazzi – riguarda poco Cosa nostra e molto il potere legislativo passato e quello che verra’”.
26 maggio – “C’ e’ ampia prova” che ad eseguire le stragi del ’93 sia stata Cosa nostra ma gli obbiettivi sono stati dettati dall’ esterno”. E’ questo il passaggio centrale delle conclusioni delle motivazioni della sentenza della corte d’ assise d’ appello contro gli esecutori e i mandanti delle stragi del ’93 depositate il 21 maggio scorso. Le ha rese note l’ avvocato Danilo Ammannato, legale di parte civile nel processo delle stragi per il Comune di Firenze, nel corso della presentazione del libro “1,04 – La Strage” voluto dal Comune di Firenze per l’ ottavo anniversario della strage di via Georgofili. “Nelle motivazioni a sentenza – ha detto Ammannato – la corte definisce esecutori e mandanti delle stragi ‘personaggi rozzi e incolti, veri e propri tagliagola di medioevale memoria’, mentre Toto’ Riina e’ uomo ‘di basso quoziente di intelligenza’. E se c’ e’ ampia prova che gli attentati furono eseguiti da loro, e’ del tutto evidente che obbiettivi cosi’ raffinati come l’ accademia dei Georgofili e San Giovanni al Velabro possono soltanto esser stati suggeriti dall’ esterno”. Il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, durante le celebrazioni dell’ ottavo anniversario della strage, dice: “Sappiamo chi ha messo la bomba in via dei Georgofili ma ci sono mandanti dal volto nascosto che stanno sullo sfondo di questa come di altre stragi. C’ e’ qualcosa che deve essere illuminato”. Nel salone dei Cinquecento, don Luigi Ciotti, presidente di “Libera”, il regista siciliano Salvatore Scimeca, autore del film “Placido Rizzotto”, il presidente della Regione Toscana Claudio Martini, l’ assessore all’ istruzione Daniela Lastri, assieme al sindaco Domenici hanno ricordato la notte tra il 26 e il 27 maggio ’93 quando un “Fiorino” imbottito di tritolo scoppio’ in via dei Georgofili uccidendo Caterina, Nadia e Fabrizio Nencioni, Angela Fiume e Dario Capolicchio. “Firenze – ha detto Domenici – seppe rispondere: ricordare questa strage, ricordare il filo rosso degli attentati che ha segnato la storia recente vuol dire pensare a qualcosa di piu’ grande. Vuol dire sapere che nel nostro Paese, in alcuni momenti difficili della nostra storia politica e istituzionale, c’ e’ stato chi ha pensato di usare le bombe per condizionare la vita civile e democratica. E’ come se avessimo una di quelle malattie che stanno li’ e ogni tanto si risvegliano”. Domenici e’ tornato sulla questione dei “mandanti dal volto coperto”: “come ci ha ricordato il procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna, ci sono mandanti dal volto nascosto che stanno sullo sfondo di questa come di altre stragi. Personaggi che fino ad ora non sono venuti alla luce”. E proprio su questo e’ intervenuto Gabriele Chelazzi, sostituto procuratore della Dna, che avrebbe dovuto partecipare al convegno ma e’ stato trattenuto a Roma per “impegni istituzionali”. “Gli uffici giudiziari e gli organismi di polizia preposti alle indagini – ha detto Chelazzi, sentito per telefono – non hanno mai abbassato il livello dell’ impegno con la convinzione che questo dara’ prima o poi risultati per arrivare a verita’ ulteriori rispetto a quelle gia’ affermate dalle sentenze”. “Verita’ ulteriori” che, durante il convegno, ha individuato anche Salvatore Scimeca: “L’ eco delle bombe del ’93 – ha detto il regista siciliano – mostrano oggi il loro risultato. La mafia non tollera che la si combatta. E se ieri i magistrati venivano uccisi con il tritolo, oggi li mettono in condizioni di non poter piu’ lavorare”. Ma l’ intervento che piu’ ha commosso la platea del salone dei Cinquecento e’ stato quello del presidente di “Libera”, don Luigi Ciotti, che ha iniziato a parlare lanciando una provocazione: “Per favore, non parliamo piu’ di mafia” Cosi’ facciamo contente tante persone, senz’ altro quelle che oggi vogliono sciogliere la commissione antimafia. Bene, non parliamone piu’ ma poniamo una condizione: che ci sia un ritorno alla legalita’, che ci sia sviluppo e promozione sociale, che ci sia ricerca della verita’ perche’ non si costruisce giustizia senza la ricerca della verita”‘. L’ ultimo pensiero Don Ciotti l’ ha riservato a Nadia, Caterina, Fabrizio, Angela e Dario, le vittime di via dei Georgofili: “All’ 1,04 del 27 maggio facciamo silenzio – ha detto il sacerdote – per sentire dentro di noi l’ impegno di crescere. Oggi la mafia ha ripreso alla grande e la gente e’ tornata ad avere paura, fa fatica. Facciamo nostro il grido onesto dei magistrati: anche noi dobbiamo dire e capire”.
13 luglio – “L’ Espresso”
Bombe e servizi segreti
Tre stragi, tre coincidenze
Tra gli atti degli inquirenti che indagano sulle stragi del 1992-93 ce ne sono alcuni che riguardano Lorenzo Narracci, vicecapo del Sisde a Palermo fino a 9 anni fa. Gli investigatori hanno un biglietto, trovato sulla montagna da dove fu prenuto il telecomando per uccidere Giovanni Falcone, sul quale era annotato il suo numero di cellulare. Inoltre l’ auto usata da Narracci era posteggiata in via Fauro a Roma, la notte dell’ attentato a Maurizio Costanzo. Dai tabulati del cellulare di Bruno Contrada, l’ ex numero 3 del Sisde, risulta una chiamata a Narracci (che era a Palermo) partita 80 secondi dopo la bomba che uccise Paolo Borsellino.
27 luglio – Il vicesindaco di Milano, Riccardo De Corato, si e’ rivolto al ministro dell’Interno Claudio Scajola perche’ la legge ha dato finora «solo risarcimenti teorici» ai familiari delle vittime della strage di via Palestro, avvenuta il 27 luglio 1993, e perche’ «si possa giungere tempestivamente a una soluzione». De Corato ha parlato proprio durante la cerimonia per l’ ottavo anniversario della strage. La bomba uccise tre vigili del fuoco, un vigile urbano e un immigrato, cinque vittime, ha detto il vicesindaco, di «una furia omicida che si scateno’ per minare le basi della civile convivenza democratica». Poi, ha ricordato, «la verita’ giunse e conosciamo i colpevoli. Le indagini delle Procure di Milano, Roma e Firenze stabilirono che si tratto’ di stragi di mafia (anche quelle di Firenze in via Georgofili e nelle chiese della capitale), con l’obiettivo di seminare panico per frenare il rinnovamento e allentare la pressione dello Stato su Cosa Nostra». Quindi la questione del fondo «di rotazione per la solidarieta’ alle vittime di reati di stampo mafioso», fondo istituito nel dicembre ’99. «La legge, fino ad oggi – ha ribadito De Corato – ha garantito solo risarcimenti teorici. In piu’, per quanto riguarda i proventi dei beni confiscati ai mafiosi, non e’ stato mai, finora, specificato a quanto ammontino e quindi in che misura contribuiscano al fondo di solidarieta»’. Inoltre anche la procedura per accedere al fondo «e’ complicata. Allo stato di fatto il Tar del Lazio ha accolto la sospensiva che prevede di riesaminare l’accesso al fondo in favore dei familiari delle vittime di via Palestro». Da qui l’ appello al ministro («da cui dipende per competenza l’ erogazione del contributo») perche’ si arrivi in breve tempo a una soluzione «congruente sia al profilo procedurale sia all’ inconfutabile pertinenza della strage avvenuta in questo luogo con le motivazioni addotte per l’attribuzione del risarcimento».
24 settembre – Giovanni Brusca depone in videoconferenza nel processo contro Marcello Dell’ Utri, imputato di concorso in associazione mafiosa, che si svolge davanti ai giudici della seconda sezione del tribunale di Palermo. Il capomafia oggi pentito dice che “Di quanto accadeva nel ’92 con le stragi di Capaci e via D’ Amelio e nel ’93 con gli attentati a Roma, Firenze e Milano, la sinistra era a conoscenza” ma precisa:”Non voglio dire che la sinistra e’ mandante delle stragi. Voglio dire che in quel momento chi comandava sapeva quello che accadeva in Sicilia e nel Nord Italia”. Per Brusca le autobombe sarebbero stato un monito rivolto successivamente anche a Berlusconi che avrebbe manifestato “stupore”. Nel rispondere al pm Antonio Ingroia, Brusca ha affermato di avere cercato di contattare, insieme a Leoluca Bagarella, Silvio Berlusconi verso la fine del 1993. Ha aggiunto di averlo fatto tramite Vittorio Mangano (“era il factotum della famiglia Berlusconi e ha dovuto lasciare il posto di lavoro per motivi di opportunita’, ma con lui era rimasto in buoni rapporti”) al quale con Bagarella spiego’ “che nonostante le prime bombe del ’93 nessuno si era fatto sentire e ogni bomba era uno stimolo”. “In quel momento – ha anche dichiarato il pentito – al governo c’ era una parte della sinistra e Berlusconi doveva ancora scendere in campo. Assieme a Bagarella decidemmo di rivolgerci a Mangano affinche’ parlasse con Berlusconi”. Le richieste, sempre secondo Brusca, sarebbero proseguite anche dopo la vittoria elettorale del Polo e la nomina di Berlusconi a presidente del consiglio: “Volevamo fargli capire – ha proseguito il pentito – che, se non ci avesse aiutato, avremmo continuato con le bombe, mettendo cosi’ in difficolta’ il suo governo”. L’ ex boss ha sostenuto che il messaggio venne recapitato e che “dall’ altra parte ci fu stupore”. Secondo Brusca la “trattativa” sarebbe stata interrotta “perche’ Vittorio Mangano venne arrestato e per la caduta del governo Berlusconi”. Giovanni Brusca ha dichiarato inoltre che Vittorio Mangano non avrebbe mai parlato di Marcello Dell’Utri. In aula Brusca stamane ha aggiunto di avere appreso “dei buoni rapporti che c’ erano fra Silvio Berlusconi e Vittorio Mangano dopo aver letto tra la fine del ’93 ed il ’94 un articolo sul settimanale L’ Espresso”. “Chiamai allora Mangano – spiega il collaboratore di giustizia – il quale mi confermo’ quasi tutto il contenuto dell’ articolo, spiegandomi che era stato costretto a mollare, a licenziarsi per non creare problemi a Berlusconi e al suo staff. Mangano mi sottolineo’ che era rimasto in buoni rapporti”. “Con Bagarella – spiega Brusca – gli abbiamo chiesto di contattare Berlusconi e Mangano si mise a disposizione, era lui il nostro interlocutore con Berlusconi”. Per gli avvocati Enzo ed Enrico Trantino, la deposizione di Brusca “costituisce la definitiva capitolazione del teorema accusatorio. “Nel corso della lunga militanza in Cosa nostra – dice Trantino – anche con ruolo di vertice Brusca non ha mai conosciuto ne’ sentito parlare del senatore Marcello Dell’ Utri. La categorica ed ennesima smentita della principale fonte d’ accusa, Salvatore Cangemi e’ la riprova di una inquietante trama costruita ai danni del nostro assistito da parte di alcuni collaboranti, come abbiamo sempre sostenuto’. I legali sollecitano la Procura a prendere iniziative ‘nei confronti di chi ha calunniato il senatore Dell’ Utri al solo scopo di ottenere riconoscimenti giudiziari e benefici economici”. Per il pm del processo Antonio Ingroia invece “Non e’ vero quanto sostiene la difesa e cioe’ che l’ impostazione accusatoria del processo si fondava sulle dichiarazioni di Giovanni Brusca e lo dimostra il fatto che il gup ha rinviato a giudizio Dell’ Utri quando ancora le dichiarazioni del boss di San Giuseppe Jato dovevano essere fatte”. “Le dichiarazioni di Brusca – spiega Ingroia – sono arrivate dopo che per Dell’ Utri era gia’ stato fissato il processo in tribunale. Gli elementi contro di lui sono ben altri. Non posso che essere sorpreso che da parte della difesa vi siano commenti nel senso di valorizzare l’ attendibilita’ di Giovanni Brusca, il quale in primo luogo ha confermato l’ appartenza di Vittorio Mangano a Cosa nostra con ruolo di vertice nel periodo in cui manteneva rapporti con Dell’ Utri”. Ingroia sottolinea uno dei passaggi della deposizione del collaboratore di giustizia: “Ha dichiarato in aula di avere inviato nel ’94 tramite Vittorio Mangano un messaggio a Silvio Berlusconi, ricevendo la risposta che era stato recapitato”. Gli inquirenti, intanto, avrebbero indicato che l’ imprenditore ‘Roberto’, di cui ha parlato oggi in aula Giovanni Brusca, sarebbe Natale Sartori, gia’ condannato dal tribunale di Milano a 4 anni e 9 mesi di carcere per corruzione e favoreggiamento. L’ uomo, che ha interessi economici in alcune imprese di pulizie a Milano, sarebbe stato per gli investigatori il tramite fra Vittorio Mangano e Marcello Dell’ Utri.
27 settembre – “La Repubblica”
Una nuova sentenza inguaia Dell’Utri
La Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta: contatti con Riina
MARCO TRAVAGLIO FRANCESCO VIVIANO
PALERMO – Una nuova sentenza rischia di aggravare la posizione di Marcello Dell’Utri, imputato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. E crea nuovi imbarazzi a Silvio Berlusconi, sulle presunte liaisons dangereuses con esponenti mafiosi, all’indomani della deposizione di Giovanni Brusca. La sentenza – che i pm chiederanno di acquisire al processo – è quella della Corte d’assise d’appello di Caltanissetta sulla strage di Capaci. Che, alla voce “I moventi”, contiene un capitolo dal titolo inquietante: “I contatti tra Salvatore Riina e gli On.li Dell’Utri e Berlusconi”. Secondo i giudici e i giurati popolari, Cosa Nostra intrecciò con Berlusconi e Dell’Utri un “rapporto fruttuoso, quanto meno sotto il profilo economico”. Per anni il gruppo Fininvest versò alla mafia “regalie” sotto forma di “consistenti somme di denaro”. All’incasso provvedeva Vittorio Mangano, l’ex fattore della villa di Arcore, finchè dagli anni ’90 Totò Riina decise di gestire il rapporto in prima persona: “nell’ottica di Cosa Nostra, questo rapporto era certamente da coltivare, e ciò spiega il diretto interessamento di Riina e l’estromissione di Mangano dal ruolo assegnatogli”.
La Corte ricorda le parole dei pentiti Angelo Siino (“Provenzano stava adoperandosi per “agganciare Craxi tramite Berlusconi””) e Salvatore Cancemi (“Riina, prima di Capaci, si era incontrato con persone importanti: Dell’Utri e Berlusconi”). E concludono: “Il progetto politico di Cosa Nostra sul versante istituzionale mirava a realizzare nuovi equilibri e alleanze con nuovi referenti nella politica e nell’economia”: cioè a “indurre alla trattativa lo Stato ovvero a consentire un ricambio politico che, attraverso nuovi rapporti, assicurasse come nel passato le complicità di cui Cosa Nostra aveva beneficiato”. Riina diceva: “Fare la guerra per fare la pace”.
Quelle che finora erano bollate come dicerie di pentiti e teoremi di pm vengono consacrate “in nome del Popolo Italiano” dalla sentenza depositata il 23 giugno da due giudici che passano per ultramoderati (il presidente Giancarlo Trizzino e il relatore Vincenzo Pedone): la stessa che ha condannato 37 boss (di cui 29 all’ergastolo) per l’assassinio di Falcone, della moglie e della scorta. Anche di questo si parlerà quando il Cavaliere sarà chiamato a testimoniare al processo Dell’Utri, come indagato di reato connesso. La Procura chiede di sentirlo a proposito delle 22 holding Fininvest (il dirigente di Bankitalia, autore della famosa consulenza, deporrà in ottobre), ma anche dei rapporti con Mangano, il finanziere Rapisarda e altri amici degli amici. E i legali di parte civile per la Provincia di Palermo vogliono sentire Cancemi proprio sulle sue accuse a Berlusconi e Dell’Utri per le stragi.
Ma la sentenza potrebbe pesare anche sull’imminente decisione del Gip di Caltanissetta sulla richiesta di archiviazione avanzata dall’ex procuratore Giovanni Tinebra per Berlusconi e Dell’Utri, indagati per strage. Prima d’essere promosso al Dap dal governo Berlusconi, Tinebra aveva smentito i suoi tre pm, che indagavano sulle stragi in base alle dichiarazioni di Brusca e Cancemi, bocciandole come “divergenti”. La Corte invece le ritiene “convergenti” su molti punti. Ed elogia la collaborazione di Cancemi, “spontanea, lineare, importante e leale”.
Dov’è la prova che il “gruppo economico riconducibile all’on. Silvio Berlusconi” pagava Cosa Nostra? “Le indicazioni di Cancemi, con riferimento alle dazioni di denaro – scrivono i giudici – hanno trovato puntuali conferme nelle dichiarazioni dei collaboranti Anzelmo, Ganci, Neri, Galliano e Ferrante”, e nella “documentazione prodotta dall’accusa, tra cui le agende (sequestrate in un covo mafioso, ndr) con le diciture “Can 5 n.8”, “Regalo 990 5000 nr.8”. E Brusca ha riferito che l’on. Berlusconi “mandava qualche cosa giù come regalo, come contributo, come estorsione” al cugino Ignazio Pullarà.
Tutto ciò non basta a “individuare negli on. Dell’Utri e Berlusconi i mandanti occulti della strage”, né a spiegare, con le loro “promesse di interventi futuri, l’accelerazione impressa da Riina alla strage di via d’Amelio”. Ma bisognerà “indagare nelle opportune direzioni per individuare i convergenti interessi di chi era in rapporto di reciproco scambio coi vertici di Cosa nostra”; e per “meglio sviscerare i collegamenti e le reciproche influenze con gli eventi politicoistituzionali”. I “non improbabili mandanti occulti” delle stragi del 1992’93, infatti, “costituiscono il principale enigma di questo processo”.
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