CHIESA E DONNE
Il sesso è sempre stata la vera croce della Chiesa. Ha mitizzato qualcosa per renderla poi peccaminosa ed ossessiva per ogni fanciullo (ed io lo fui) che aveva il terrore del peccato. Naturalmente è la donna che rappresenta il sesso e non altro. Naturalmente non è sempre stato così. E’ stato un gentile romano, tanto benestante quanto misogino, brutto, più basso di Berlusconi, semipelato (capelli radi a ciuffi), con testa grande e corpo piccolo, con gambe magre e storte sotto un corpo tozzo. Fin qui, dalle varie descrizioni, è l’immagine che viene fuori di Paolo di Tarso. Colui che ha cambiato a suo piacimento gli insegnamenti di Gesù trasformandoli da cristiani in paolini. Per ciò che mi riguarda io sono ateo e mi occupo del credo di molti miei connazionali solo perché questo credo ha interferito ed interferisce dalla mia nascita ad oggi con la mia vita. Dal punto di vista della fede, del credere, le stesse cose con maggiore o minore forza potrei dirle per l’ebraismo e per l’islam o per chi volete. Mi soffermo sulla religione cristiana per ciò che ho detto: lasciate perdere gli affari terreni ed io sarò felice di lasciar perdere la metafisica (è pure noiosa) per tornare agli affari terreni, alla mia fisica. Purtroppo non c’è verso di schiodare dal potere dei satrapi intelligentissimi che da oltre 1600 anni vivono bene facendo lavorare qualche adepto, alle spalle delle comunità di semplici cittadini, a volte anche miserrime. Per capire ciò che dico dovreste venire a Roma e girare tutta la città. Vedreste palazzi, castelli e tenute faraoniche abitate da preti e suore. Vedreste auto di lusso entrare ed uscire. Feste e ricevimenti in cui trovereste tutte le tette e culi della TV (famosa la foto di Pamela Prati mentre inchinata bacia la mano a Sodano per una qualche sua nomina e nel gesto mostrare appunto il culo all’indiscreto fotografo). Di situazioni come queste, lecite a chi piacciono ma non a chi giorno dopo giorno ci spiega il diritto di famiglia, l’educazione dei figli eccetera, se ne ripetono a iosa. Non serve ricordare i Ragionamenti di Pietro Aretino o i licenziosi curati di centinaia di novelle, basta leggere i Discepoli di Verità che dovrebbero essere le stesse persone dei Millenari, eminenze operanti oggi in Vaticano, per comprendere i livelli di abbrutimento, simonia e corruzione che regnano tra i pastori di tanto gregge. Ripeto: facciano ciò che credono ma non intervengano nella vita civile del Paese. Allo stesso modo in cui loro debordano come il Vajont, io mi permetto piccoli Polesine. E tra questi vi è la dura critica delle condizioni di vita nella Città del Vaticano per i lavoratori che NON hanno diritti sindacali, che sono sfruttati e trattati come schiavi. Allo stesso modo i dipendenti a più alto livello, come ad esempio i medici al Gemelli. Se un qualcuno di essi divorzia è licenziato in tronco. Come ogni assunto dai vescovi per essere poi pagato come insegnante di Religione dallo Stato italiano: credo manchi solo lo jus primae noctis, per tale assunzione. E non importa se si è maschi o femmine. In Vaticano accettano tutto. Pepe Rodriguez, un ottimo giornalista e scrittore che si è occupato a lungo di queste cose pubblicando molti libri in proposito, ne ha scritto uno (naturalmente non pubblicato in Italia) che ha per titolo Las costumbres sexuales del clero (Ediciones B, Barcelona 1998). Questo libro è una inchiesta estesa a tutto il clero spagnolo. Da essa risulta che oltre il 35 % di tale clero è omosessuale dichiarato, che il 25% non risponde in proposito. Ho più volte detto che essere omosessuali è come essere eterosessuali, non vi sono differenze di sorta se non legate ai pregiudizi, in gran parte indotti dalle religioni e da certi regimi politici. Cito però il fatto perché una persona può sopportare molte cose meno il fatto che il bue dica cornuto all’asino, meno il fatto cioè che le più becere campagne contro gli omosessuali vengano dalla Chiesa cattolica (per riferirmi all’Italia). Già che ho citato Pepe Rodriguez è utile che racconti un’altra piccola cosa: in Italia è stato pubblicato solo un suo libro che in originale aveva per titolo Las Mentiras fundamentales de la Iglesia Catolica (Le menzogne fondamentali della Chiesa Cattolica). In Italia i diritti sono stati comprati dagli Editori Riuniti che hanno pubblicato il libro con questo titolo: Verità e menzogne della chiesa cattolica. Cioè, gli Editori Riuniti, pur casa editrice avanzata ed una volta del PCI, riesce a falsificare un titolo, addirittura aggiungendo una cosa che nega il libro stesso, quella parola verità che non c’è né nel titolo spagnolo, né nel suo argomentare. Di Rodriguez aspetterei in Italia oltre a quel libro sul sesso del clero, anche l’altro Dios nació mujer, Dio è nato donna.
Altro grande studioso, un vero teologo, che ha scritto moltissimo sulla Chiesa è Karlheinz Deschner. La sua Storia Criminale del Cristianesimo (Il Viandante, a partire dal 2000) è famosa nel mondo ed in Italia è arrivata al 6° volume su 10. Qui mi riferisco a Il Gallo cantò ancora. Storia critica della Chiesa (Massari 1998) ed a La croce della Chiesa. Storia del sesso nel Cristianesimo (Massari 2000), libri dai quali riporto dei brani relativi a come è considerata la donna nella Chiesa. Inizio dal confronto tra Gesù e Paolo e da qualche altro brano ma, prossimamente, pubblicherò qualche altra pagina (avverto comunque che l’editore Massari è persona coraggiosa che pubblica testi che altri, pur grandi, non hanno il coraggio di mettere sul mercato. I suoi libri meritano di essere comprati per la qualità delle cose pubblicate e per continuare a mantenerci chi fa un tale meritorio lavoro).
Roberto Renzetti
Da: La croce della Chiesa. Storia del sesso nel Cristianesimo (Massari 2000), pagg. 37-42.
PS: Ho eliminato le note (molto colte) per la scorrevolezza del testo. Restano i riferimenti bibliografici (i nomi tra parentesi seguiti da un numero che è il numero del testo in bibliografia) che significano poco perché non riporto la bibliografia.
“6. GESÙ
«Gioite, è venuto al mondo l’Uomo». (Jh. 16,21)
«Le sono perdonati molti peccati, perché molto ha amato». (Le. 7,47)
«Gesù si prende a cuore il matrimonio fervi-damente, quasi appassionatamente».
(Il teologo Martin Rade)
«La vita sessuale come tale non è per lui un peccato». (Il teologo Herbert Preisker)
L’ascesi cristiana non trova alcun riscontro in Gesù: infatti egli non propugna il celibato, la discriminazione della donna e della vita coniugale, i digiuni o le altre pratiche di mortificazione della carne, così come non sostiene il militarismo o lo sfruttamento . Mai Gesù si è espresso contro la libido come tale, mai ha considerato tutto ciò che concerne il sesso contrario alla volontà di Dio in sé e per sé. Né l’astinenza sessuale svolge un ruolo qualsiasi in tutti i Vangeli della comune tradizione antica; non è certo difficile immaginarsi la radicalità della condanna della vita istintuale da parte di Gesù, se il problema gli fosse stato a cuore; d’altra parte frequentò egli stesso peccatori e prostitute5. E nemmeno le leggende intorno alla sua nascita virginale, inventate solo dai Vangeli più tardi secondo il modello dei figli divini nati in questo modo (Deschner, 361, 78, 272, 284), presentano un qualsivoglia postulato di natura ascetica.
Nessun accenno al celibato
Un misterioso versetto biblico invero suona: «Ci sono eunuchi già tali dal grembo materno; e ci sono eunuchi resi tali dalla mano dell’uomo; e ci sono eunuchi che volontariamente si son resi tali in nome del Regno dei cieli. Chi può intendere, intenda» (Mr.19,12). Ma questo passo, che indusse spesso i Cristiani all’autocastrazione, si trova solo in Matteo, e manca in tutti gli altri Vangeli, perché, come si afferma, «avrebbe colpito troppo crudamente le orecchie dei Pagani» (Legrand 37, 59 sg.); in realtà però perché Gesù non ha mai pronunciato tali parole ed è stato Matteo a inserirle nel testo evangelico.
Infatti ai tempi di Paolo nessuno le conosceva: come avrebbe potuto ignorarle altrimenti il diffamatore delle donne e del matrimonio? Come avrebbe potuto non inserirle nel cap. 7 della Prima Epistola ai Corinzi? Non ammette poi egli stesso in modo esplicito di non avere a disposizione alcuna citazione precisa di Cristo in riferimento alla verginità? E’ anche notevole il fatto che Gesù non parli di scapoli, di non sposati (agamoi), bensì di castrati, vale a dire di persone impossibilitate alle nozze (eunouchoi). Il passo, d’altra parte, è difficile e assai variamente interpretabile; ma resta tuttavia un fatto, che l’ambito degli eunuchi non viene qui determinato con sufficiente precisione, per cui queste parole non possono fondare nessuna raccomandazione generale al celibato . Del resto questi versetti furono assai raramente spiegati anche da papi e sinodi (Boelens 74).
Nessuna parola contro la donna e il matrimonio
Gesù frequentò le donne con piena libertà . Non le ritenne inferiori né le pose mai in secondo piano; anche la loro assenza dal novero dei dodici apostoli non contraddice tale fatto, essendo tutto ciò una costruzione postuma puramente simbolica, ricalcata e suggerita dal numero corrispondente delle dodici tribù d’Israele. Le donne facevano parte della cerchia dei discepoli di Gesù, e fra i seguaci successivi erano forse più numerose dei maschi. Secondo un’antica lezione di Luca, Gesù veniva accusato dai Giudei anche per questo, cioè per il fatto che inducesse all’apostasia le donne (e i fanciulli).
Gesù parlava alle donne, il che per un uomo, specie per un Rabbi, era inopportuno, «meravigliando» perciò i discepoli (Jh.4,21). Per una donna violò il Sabato, guarì molte donne che lo ringraziarono per questo, lo aiutarono e resistettero testardamente anche sotto la croce, quando i suoi discepoli, fatta eccezione per Giuseppe di Arimatea, se l’erano tutti squagliata da un pezzo. Non solo Gesù prese parte ad una festa nuziale, ma non condannò nemmeno un’adultera: «Le sono perdonati molti peccati» – disse – «perché molto ha amato» (Lc.7,47; Jh. 8,3 sgg.), cosa che turbava già i più antichi Cristiani. Non c’è altro passo neotestamentario sottoposto a tanti tentativi di correzione, anzi si tentò continuamente di espungerlo del tutto . Luterò trasse dall’episodio la conclusione che Gesù avesse probabilmente rotto egli stesso la fedeltà matrimoniale con Maria Maddalena (ritenuta dai Catari sua moglie o la sua concubina) e con altre, per partecipare integralmente della natura umana. In ogni caso, come la donna non era per lui una «cosa», così neppure l’adulterio era considerato un delitto contro la proprietà (Brock 241). Resta indimostrabile se egli stesso fosse sposato, cosa che talvolta è stata ritenuta e si ritiene pressoché evidente , per quanto molti elementi depongano a favore di questa ipotesi. E’ vero che Gesù concepisce il matrimonio in modo tanto serio quanto mai nessuno aveva fatto prima di lui, ma non dice nulla circa i suoi scopi; e nessuna parola viene da lui pronunciata contro di esso; in caso diverso quanto avidamente se ne sarebbe servito il nemico del matrimonio, Paolo, nella Prima Epistola ai Corinzi, dove, invece, deve ammettere di non avere in proposito nessun comandamento del Signore (I Kor. 7,25).
Evidentemente allora Gesù condivideva l’atteggiamento degli Ebrei: ogni freno della passione amorosa all’interno del matrimonio – poi propugnato continuamente dalla Chiesa – doveva apparirgli assurdo, come lasciano intendere le sue parole «una carne sola» riferite ai coniugi, affermazione assolutamente incontestabile di un amore concreto. Anche i fratelli di Gesù , entrati poi nella sua comunità, erano sposati, e così pure i suoi più antichi discepoli, alcuni dei quali (ad esempio il principe degli apostoli, Pietro, il quale, per usare le parole del dottore della chiesa Gerolamo, «ha lavato col martirio il sudiciume del matrimonio») portarono con sé le proprie mogli nei viaggi di missione.
Il «ghiottone e l’ubriacone»: forse un asceta?
E infine Gesù stesso non fu un asceta. Il suo digiuno di quaranta giorni si trova soltanto nella leggenda della tentazione, che travalica chiaramente nel mito, tanto più che trova numerosi paralleli precristiani in Eracle, Zarathustra e Budda. E poi questo dubbio digiuno appare davvero singolare . Gesù non dimora nel deserto, come Giovanni il Battista, anzi si separa da lui proprio perché condanna le sue macerazioni penitenziali , e combatte inoltre l’ascesi dei Farisei. Egli non evita il mondo, le feste, le gioie; al contrario, digiuna tanto poco che i suoi nemici lo biasimano aspramente definendolo «ghiottone e ubriacone» . Colpisce poi il fatto che molto spesso è ospite o ospitato , e anche i suoi discepoli, come racconta la Bibbia, «non digiunavano»; banchettavano «con giubilo», il che venne poi meno quando invece del Signore giunse il digiuno. Ma ancora all’inizio del II secolo si sapeva che Gesù non aveva insegnato la mortificazione, non aveva fatta propria l’esortazione (il solo immaginarlo appare sciocco!) «Stabilite dei giorni per il digiuno!», «Frustatevi a sangue!»; al contrario, l’Epistola di Barnaba , contenente una serie di raccomandazioni proprie della cerchia dei Padri apostolici, ordina: «Che m’importa dei vostri digiuni!… E se piegate la vostra schiena fino a farne un cerchio e vi immergete nella penitenza e approntate il vostro letto nella cenere, non dovete ritenere perciò tutto questo un digiuno gradito… ma ciascuno si sciolga dalle catene dell’ingiustizia ed elimini il cappio di contratti strappati con la violenza e liberi gli oppressi e spezzi ogni turpe commercio. Dividi il tuo pane con gli affamati, e se vedi un uomo spoglio, rivestilo, e accogli in casa coloro che non hanno un tetto». Intanto però la reazione decisiva era cominciata già con Paolo.
7. PAOLO
«… per Paolo nel suo catalogo dei vizi il peccato di lussuria precede quasi sempre tutti gli altri». (Il teologo Bousset)
«Come Paolo… può parlare solo un asceta, per il quale il matrimonio in quanto ordinamento creativo abbia perduto ogni valore positivo». (Il teologo Campenhausen)
«Perché la sapienza della carne significa morte…». (Rom. 8,6)
«In lui la donna, quale essere sessuato, viene colpita da un forte disprezzo». (Il teologo Preisker)
«Come teste della corona a favore del celibato servì in ogni tempo l’apostolo Paolo, che raccomandò a tutti i cristiani la sua condotta di vita senza matrimonio (IKor. 7,6), ma subito soggiungeva di non possedere per tale questione nessun comandamento del Signore, ma di poter dare soltanto un consiglio del tutto personale (IKor. 7,25)». (Il teologo Denzler)
Sterco e profumo
Paolo, che oltre Cristo e la sua dottrina, ritiene «tutto colpa», «tutto sterco», e se stesso e quelli come lui, al contrario, «profumo di Cristo» (Phil. 3,7 sg.; 2Kor. 2,15), introdusse non solo una serie di dogmi duramente antigesuani, veri e propri assi portanti del Cristianesimo, ma inaugurò anche la diffamazione della sessualità, il deprezzamento della donna, la svalutazione del matrimonio e l’ascesi. (Parla da sé il fatto che il libro di un cattolico, pullulante di rimandi alle fonti, tendente a dimostrare la tesi avventurosa per cui non fu Paolo ad introdurre l’ascesi nel Cristianesimo, ma che, al contrario, «l’ascesi non era affatto estranea al Cristianesimo di Cristo» e l’ideale paolino era «anche l’ideale di Cristo», non si fondi su nessun passo del Vangelo) (Lindner 22).
Nascita della morale cristiana
Il termine askeìn ricorre solo una volta in tutto il N.T. e per giunta posto in bocca a Paolo, a quanto pare un omino minuscolo, calvo, con le gambe arcuate, che soffriva di attacchi allucinateli forse di origine epilettica. In stridente contrasto col Vangelo, le sue lettere rigurgitano di macerazione della carne, di mortificazione delle passioni e di odio verso tutto ciò che è corporeo. Il sarx, la carne, appare addirittura come ricettacolo di peccato; nel corpo non c’è assolutamente «nulla di buono», è un «corpo di morte»; tutto ciò che esso vuole «significa morte» e «ostilità contro Dio». Il cristiano deve «martirizzare il corpo e soggiogarlo», «appenderlo alla croce», «ucciderlo» e così via dicendo.
Paolo – forse impotente fin dalla fanciullezza, e perlomeno colmo di complessi contro il sesso (F. Hartmann 180) – combatte incessantemente la «lussuria» (porneìà), il «vizio», «le opere della tenebra», le «gozzoviglie e i banchetti», «lussuria ed eccessi», il «rapporto con persone sfrenate», gli «impudichi», gli «adulteri», i «libertini e i violentatori di bambini» – il N.T. definisce «cani» gli omosessuali (Apk. 22,15) – «immoralità, impudicizia e condotta dissoluta» (2Kor. 12,21). Tutto ciò si trova in primo luogo; solo dopo seguono idolatria, inimicizia, ostilità, discordia, disunione e altro ancora (Gai. 5,19 sgg.). Si leggono di continuo parole come queste:
«Mortificate dunque le vostre membra, che attengono alla terra, nelle quali dimorano impudicizia, immoralità, passione, brame malvagie… Fuggite l’impudicizia! Ogni altro peccato che l’uomo commette resta fuori dal suo corpo, ma l’impudico pecca contro il suo proprio corpo» (Kol. 3,5; IKor. 6,18).
Con simili attacchi contro il piacere – è il momento della nascita della morale cristiana – Paolo compie un balzo indietro anche rispetto al Giudaismo del proprio tempo: gli interpreti della Thorah, pur con il loro disprezzo della donna, erano ancora in grado di tener salda un’alta valutazione del sesso; ma Paolo, che nella sua glorificazione dell’amore dice di tollerare, sopportare e sperare tutto, a Corinto manda al diavolo e dichiara maturo per l’inferno un uomo che amava (probabilmente la figlia o la figliastra) (Hartmann 180).
Mordacchia e velo per la donna
Come missionario, in verità, l’apostolo aveva bisogno delle donne, che esalta salutandole negli elenchi dei destinatari delle sue epistole come «collaboratrici» e «compagne di lotta»; per lui esse sono equiparabili all’uomo davanti a Dio (come gli schiavi davanti ai padroni!) (Gai. 3,28; IKor. 11,11 sg.) parità che per altro esisteva già nel culto di Iside nonché nei Misteri di Eleusi e di Andania , ma nella prassi in linea di principio Paolo proibisce alla donna di parlare:
«Nelle riunioni della comunità le donne dovranno tacere, perché non è loro consentito di parlare, ma devono restare sottomesse…» (IKor. 14,34;11,3 sgg.).
Si tratta del famigerato mulier taceat in ecclesia, che ha inciso pesantemente non solo nella storia della Chiesa. (Non parrà perciò strano ch’egli passi completamente sotto silenzio anche la madre di Gesù, Maria). Quale scarsa concezione egli nutra per la donna è anche dimostrato dalla graduatoria presente nella Prima Epistola ai Corinzi: Dio – Cristo -Uomo – Donna; e inoltre «per ben 16 lunghi versetti» (Karl Barth) le impone il velo durante la preghiera e il servizio divino, un segno della sua inferiorità, perché indossare il velo significa «vergognarsi del peccato dalla donna indotto nel mondo» . L’uomo, invece – continua Paolo nella sua diffamazione delle donne – è «immagine e gloria di Dio», la donna solo «gloria dell’uomo. Infatti l’uomo non deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo è creato per la donna, ma la donna per l’uomo» (IKor. 11,7 sgg.).
Anche la saga della caduta degli angeli nel V.T. viene subito utilizzata da Paolo in senso misogino: «Per questo la donna deve recare un segno di dominio sul capo, a causa degli angeli» . Bisogna esser proprio degli ecclesiastici davvero dotati per poter scrivere che qui «né l’uomo viene posto al di sopra della donna, né la donna al di sotto dell’uomo»; anzi, «a ben guardare» Paolo avrebbe ridotto persino la posizione dell’uomo e introdotto «indirettamente» l’emancipazione della donna!
«…è bene non toccar donna»
Anche la svalutazione paolina del matrimonio getta gli esegeti in difficoltà insanabili: l’Apostolo non conosce una comunanza spirituale, emotiva o sociale fra uomo e donna, ma solo e puramente una promiscuità sessuale. Paolo apre la discussione con la frase fatale che sarebbe «un bene per l’uomo non toccar donna»; non proibisce il matrimonio, lo ritiene persino un rimedio alla bramosia degli istinti, si augura tuttavia «che tutti gli uomini siano come io sono», cioè scapolo. Ciò viene da lui espressamente definito «commendevole»: uomini, donne, vedove, fanciulle, tutti egli preferirebbe vedere «risparmiati» dal matrimonio, «più felici» senza nozze – una mera concessione alla carne peccaminosa, un male necessario, consentito soltanto «per evitare la lussuria», un remedium concupiscentiae; ma restare non sposati è «meglio» (IKor. 7,2; 7,36 sgg.). L’insegnamento dell’Apostolo è chiaro come il sole : ma secondo l’esegesi cattolica Paolo apre qui «alle donne una nuova era», traccia un «ideale femminile» assolutamente nuovo e intona «il “Cantico dei Cantici” del matrimonio».“
Da: La croce della Chiesa. Storia del sesso nel Cristianesimo (Massari 2000), pagg. 147-158.
LA DIFFAMAZIONE DELLA DONNA
a. L’oltraggio dei teologi
Prima stimata come sacerdotessa…
Le culture matriarcali ignoravano il disprezzo della donna, anzi, essa era stimata quale portatrice di forza vitale e di fecondità; e la sua maggiore sensibilità e suggestionabilità la rendeva più dell’uomo adatta al servizio del culto. E così divenne «donna della medicina» e maga, fu collegata soprattutto alla musica e all’oracolistica e negli antichi culti talvolta salì alle cariche più elevate.
Nell’antica Cina le sciamane svolgevano un ruolo importante. Lo Scintoismo giapponese conosceva un ampio sacerdozio femminile, e occasionalmente anche la religione vedica. Gli Egizi chiamavano le sacerdotesse addette ai sacrifici «cantatrici di dio», i Sumeri «signore di dio» o «consorti di dio». Presso i Celti erano particolarmente venerate le Druidesse, presso i Germani le profetesse, le Veleda dei Bructeri, le Gamma dei Sennoni, la cui fama giunse fino ai Romani. In Grecia c’era un gran numero di sacerdotesse, e nella mantica le donne avevano un ruolo di guide: la Pizia, Cassandra, la Sibilla.
L’odio verso le donne può essere nato soltanto con l’abbattimento delle società matriarcali, forse per cattiva coscienza, per un complesso di inferiorità, per la sua paura di una vendetta della donna, per una forma di terrore davanti alle sue misteriose funzioni generative. E’ degno di nota il fatto che in tutte le lingue indogermaniche le parole Mann e Mensch [«uomo»] derivano dalla medesima radice, ma non la parola Frau [«donna»].
…poi condannata dai sacerdoti
Ben presto le donne si attirarono soprattutto l’ostilità dei sacerdoti, cosa che dipenderà da quelle forze più parapsicologiche, magico-numinose, da quelle capacità magiche che i Melanesiani chiamano maria, gli Irochesi e gli indiani Huroni orenda, i Sioux wakanda, gli Algonchini manitu, i Melagassi hasina’, la stessa cosa si chiamava in antico nordico hamingja (fortuna), megin (forza), mattr (potenza) e che evidentemente si adattava più alla donna che all’uomo, facendola spesso diventare soccorritrice, guaritrice, sapiente e saggia, portatrice del «sacro», del «divino», precorritrice del medico stregone, dello sciamano, del sacerdote, che per questo la diffamò come maga, la demonizzò come strega o ne perseguì persino l’estinzione.
Fu proprio nelle cosiddette religioni superiori che le funzioni sessuali delle donne spesso furono rese sospette, privandole della loro capacità di presiedere alla cerimonie del culto: nel Mazdaismo persiano, nel Bramanesimo, nella religione israelitica, nell’Islam e, non da ultimo, nel Cristianesimo, che portò alla perfezione più perfida il suo antifemminismo, quasi fino a un limite intollerabile, assai più di qualsiasi altra religione pur ostile alle donne, come ammettono spesso i teologi protestanti, mentre i cattolici lo hanno negato e continuano tuttora a negarlo.
Tutte e tre le divinità del Cristianesimo sono considerate maschi, e il loro simbolismo teologico è dominato dall’idea del maschio; solo talune sette gli attribuiscono una natura femminile (Schar 229). Per la Chiesa la donna è creatura particolarmente legata alla terra, l’essere tellurico per eccellenza, ciò che ingoia, ciò che ha natura vampiresca, in cui si incarnano in modo specificamente malefico le seduzioni terrene e le tentazioni al peccato. Anche l’inferno venne concepito come profondamente localizzato nelle viscere della terra, caldissimo, limaccioso e orroroso; al contrario, esattamente contrapposto, ben al di sopra delle nuvole, igienicamente asettico, assolutamente asessuato, il cielo eternamente e incantevolmente casto, riecheggiante di alleluja, quel giardino paradisiaco, ombreggiato dalle cespugliose sopracciglia padreternali, dal quale gli uomini furono strappati dalla malvagia Eva (come non si stancarono mai di ricordare tutti i padri della chiesa). Perciò il caro padre celeste subito ebbe a minacciarla: «Molta miseria io voglio recarti…» (IMos. 3, 16), una delle poche profezie bibliche che si siano mai adempiute.
Indubbiamente l’antifemminismo di innumerevoli teologi è il risultato di una forma mascherata di angoscia di fronte alla donna, di complessi derivanti da tabù di ogni sorta, di una difesa da un pericolo presunto; qui traspare quel che una volta Friedrich Heer definì «ideologia d’adolescenti» o, nell’aula conciliare del Vaticano II, il patriarca Maximos «psicosi di celibatari» .
La primissima svalutazione della donna nel Cristianesimo deriva da Paolo, il quale in questo tema non può in alcun modo proporre un qualsivoglia riferimento a Gesù (Miiller, K. 6 sgg.). E fu poi a lui che ci si richiamò per proseguirne l’atteggiamento ostile verso le donne anche per mezzo di veri e propri falsi (v. Walter 34 sg.), sicché , di conseguenza, anche i discepoli di Gesù vennero trasformati in propagandisti della verginità e dell’odio della donna (Bauer, W. in Hennecke 119). A proposito di Pietro, primo «papa» e padre di famiglia, fu affermato in seguito che fuggisse qualsiasi luogo in cui si celasse una donna, facendogli dire addirittura: «Le donne non sono degne di vivere» .
Disprezzo della donna presso i monaci e gli antichi padri della chiesa
La donna veniva particolarmente evitata, oltraggiata e temuta dai monaci: costoro, infatti, secondo un paragone assai antico, per la vicinanza di una donna si disciolgono come il sale nell’acqua (Joh. Mosch. Prat. spirit. 217). («Basta che i monaci vedano una donna» -così suona un errore di stampa davvero diabolico in un comunicato dell’Assemblea dei cattolici tedeschi del 1968 – «che subito grugniscono come veri e propri maiali».
Molti eremiti non videro una donna anche per quarant’anni e più (Nigg, Von Geheimnis 55). Altri respinsero – evidentemente sotto l’influsso di desideri incestuosi rimossi – persi-nò i parenti più stretti, a volte con la consolazione che presto ci si sarebbe rivisti in paradiso . Quando un monaco egizio dovette traghettare la vecchia madre al di là di un fiume, prima si avvolse le mani con degli stracci: quia corpus mulieris ignis est (Schjelderup 105). Simeone, il santo stilila, per motivazioni ascetiche non guardò la madre vita naturai durante. Teodoro, già discepolo prediletto e successore di Pacomio, dichiarò che se glielo ordinasse Dio, arriverebbe a uccidere la propria madre (Griitzmacher 105). Chi è in grado di disprezzare il dolore di una madre, si narra nella Vita di s. Fulgenzio, sopporta agevolmente qualsiasi cosa gli venga imposta (Schjelderup 48). Ma ancora nel XX secolo un priore insegna a un monaco, il quale aspetta la visita della madre (consentita una volta all’anno), di contenersi anche di fronte a lei, perché: «Tutte le donne sono pericolose!» (Leist 172).
Specialmente nella Chiesa cattolica la donna appare fin dal principio solo come ostacolo alla perfezione, come soggetto carnale, inferiore, tentatore dell’uomo, come Èva, e peccatri-ce tout court. I teologi si richiamano continuamente alla Bibbia, all’antica storiella della creazione e del peccato originale, alla creazione della donna dall’uomo e alla sua tentazione da parte della femmina, trasformandola in ancella dell’uomo, in generatrice di peccato e di morte.
Il padre della chiesa Tertulliano, celebrato dai cattolici come «araldo» di un «nuovo ideale femminile, di un aspetto più elevato della comunanza coniugale» (Fangauer 36 sgg, Fink 75), degrada la donna a «breccia del demonio» e le attribuisce la colpa della morte di Gesù: «Sei tu» – così accusa la donna in generale – «che hai concesso l’ingresso al diavolo, tu hai spezzato il sigillo di quell’albero, tu hai per prima violato l’osservanza della legge divina, sei sempre tu colei che ha confuso colui al quale il demonio non osava accostarsi. Così facilmente hai gettato a terra l’uomo, l’immagine di Dio; a causa della tua colpa, cioè in nome della morte, dovette morire anche il figlio di Dio, eppure ti viene in capo di apporre sopra la tua veste anche orpelli ornamentali!?». Tertulliano concede alla donna soltanto l’abito del lutto e comanda a ogni fanciulla appena uscita dall’infanzia di ricoprire «il suo viso tanto pericoloso», pena la perdita della beatitudine eterna.
Il dottore della chiesa Agostino, lumen ecclesiae, definisce la donna un essere inferiore, creato da Dio non a sua immagine e somiglianzà (rnulier non estfacta ad imaginem dei). Una diffamazione gravida di conseguenze, che ritornerà fino all’Alto Medioevo, ai Codici di Ivo di Chartres e di Graziano e presso i teologi più influenti. La somiglianzà dell’uomo con Dio viene riconosciuta soltanto al maschio; attribuirla anche alla donna era considerato «assurdo». Secondo Agostino corrisponde a «giustizia» e «all’ordine naturale della società… che le donne siano serve degli uomini» . «Il giusto ordine si trova solo là dove l’uomo comanda e la donna obbedisce» (August. in Joan. ev. 2, 14).
Il dottore della chiesa Giovanni Crisostomo vede le donne destinate «principalmente» a soddisfare la lussuria degli uomini. E il dottore della chiesa Girolamo, che a quanto si dice «ha fatto tanto per le donne» (Fink. 79 sg.), decreta: «Se la donna non si sottomette all’uomo, che è il suo capo, essa è colpevole del medesimo delitto di un uomo che non si sottoponga al suo capo (Cristo)» (Hieron. in ep. ad Titum 2, 5), ciò che venne inserito da Graziano persino nel diritto ecclesiastico.
E’ diventato famigerato un episodio accaduto durante il Sinodo di Mafon (585), dove si discusse la questione se le donne meritevoli in occasione della resurrezione della carne non dovessero essere trasformate in uomini prima di poter entrare in paradiso, e un vescovo si distinse brillantemente affermando che le donne non possono essere definite creature umane (mulierem hominem vocitari non posse) .
«Tota mulier sexus»
Nel Medioevo, quando uomini e donne la sera recitavano la preghiera «nella colpa sono stato generato, e nel peccato mia madre mi ha concepito» la donna veniva diffamata dalla Chiesa come malvagia e diabolica, origine d’ogni male. L’uomo pio doveva fuggirle, doveva evitare le case delle donne, e non doveva né parlare né mangiare con loro. Erano considerate «serpi e scorpioni», «ricettacoli del peccato», il «sesso maledetto», il cui «compito scellerato» era quello di corrompere l’umanità. «A partire dal Medioevo avere un corpo significò per le donne una sorta di turpitudine» – scrive Simone de Beauvoir (Beauvoir 111, 101, 179). E a sua volta Eduard von Hartmann così riassume: «Per tutto il Medioevo cristiano la donna assunse il valore di quintessenza di ogni vizio, malvagità e peccato, maledizione e corruzione dell’uomo, laccio diabolico sul sentiero della virtù e della santità».
L’antifemminismo teologico s’impadronì di interi strati sociali. In conformità alla tipologia già propria di Ambrogio per cui Adamo è uguale all’anima, Eva al corpo (Mulier, Grundlagen 57), e in conformità all’antica vulgata occidentale «tota mulier sexus», la donna fu ritenuta sessualmente insaziabile (Frischauer, Maral 38) e venne ulteriormente propugnata con estrema decisione la dottrina giudaico-cristiana dell’inferiorità della donna, anzi, dalla Scolastica ebbe addirittura un’elaborazione teoretica.
Secondo Onorio Augustodunense nessuna donna piace a Dio (Honor. August. in eccles. 7). Per Francesco d’Assisi chiunque abbia un rapporto con le donne è «esposto alla contaminazione dello spirito allo stesso modo di uno che, camminando sul fuoco, è necessariamente soggetto a scottarsi le piante dei piedi» (cit. da v. Walter 45 sg.) Il dottore della chiesa Alberto Magno è convinto che dovrebbero essere generate solo persone perfette, cioè uomini. Tuttavia «affinchè l’opera della natura non vada completamente distrutta, essa plasma un essere femminile», il che può persino dipendere dall’uomo e precisamente come conseguenza di una «corruptio instrumenti», vale a dire in una errata operazione del suo pene .
Tommaso d’Aquino: «…un maschio mancato»
E come la pensa in proposito l’autorità cattolica più eminente? Tommaso d’Aquino (m. 1274), principe della Scolastica, doctor communis, doctor angelicus, da Leone XIII elevato al rango di primo dottore della Chiesa cattolica, innalzato a patrono di tutte le scuole, scorge il valore essenziale della donna nella sua capacità di partorire e nella sua utilità di ammi-nistratrice domestica . Ancora una volta la troviamo per così dire elencata in quella serie descritta da Mas. 20,17: donna, schiavo, bue, asino!
Secondo Tommaso la sposa deve essere soggetta al marito, perché egli è il suo capo (vir est caput mulieris) ed è più completo nel corpo e nell’anima, e lo era già ancor prima del peccato originale23. La subordinazione della donna scaturisce dal diritto divino e da quello naturale, cioè dalla natura stessa della donna, per la qual cosa Tommaso esige la sua obbe-dienza nella vita domestica e pubblica. «La donna è in rapporto con l’uomo come l’imperfetto e il difettivo (imperfectum, deficiens) col perfetto (perfectum)». La donna è fisica-mente e spiritualmente inferiore, e la sua inferiorità risulta dall’elemento fisico, più precisamente dalla sua «sovrabbondanza di umidità» e dalla sua «temperatura più bassa» (ibid. 520 sg.). Essa è addirittura un errore di natura, una sorta di «maschio mutilato, sbagliato, mal riuscito» (Femina est mas occasionatus) , un oltraggio risalente ad Aristotele, ribadito spesso da Tommaso e quindi fatto proprio dai suoi discepoli28.
Anche secondo Tommaso, come secondo il suo maestro Alberto, un uomo dovrebbe generare solo maschi, anche perché «la piena realizzazione del genere maschile è maschile» (Mitterer, Mann und Weib 515 sg.). Se ciononostante vengono generate anche femmine, a parere del patrono delle università cattoliche, la lux theologorum, ciò accade o per difetto del seme maschile (la «corruptio instrumenti» di Alberto) o a causa del sangue uterino, oppure perché soffiano gli «umidi venti del sud» (venti australes), che con l’eccesso di pioggia determinano creature con maggiore contenuto d’acqua, cioè femmine.
In ogni caso la donna serve solo, secondo Tommaso, alla propagazione della specie. Ma per altro essa trascina in basso dalla sua sublime altezza l’anima dell’uomo, portando il suo corpo in «una schiavitù più amara di qualsiasi altra» . Anche la «Rivista di teologia cattolica» ascrive a gloria dell’Aquinate il fatto che, accanto alla pienezza dell’uomo, attribuisca alla donna una «triplice inferiorità»: «l’inferiorità nel divenire (inferiorità biogenetica), nell’essere (inferiorità qualitativa) e nella funzionalità (inferiorità funzionale)».
Dalla predicazione ai roghi
La devastante ostilità dei teologi verso la donna condusse attraverso innumerevoli prediche nelle pievi, nelle cattedrali, nelle cappelle dei castelli ad una vasta letteratura misogina. La donna vi appare come morte del corpo e dell’anima, come drago e serpe diabolico, come richiamo e veleno, come puttana tout court. In un componimento poetico del vescovo francese Marbodo di Rennes (1035-1123)il principe della chiesa sussume nel concetto di «puttana» l’intero sesso femminile.
A un domenicano italiano la storia della cultura è debitrice del famigerato alfabeto riguardante le donne: Avidissimum animai, Bestiale baratrum, Concupiscentia carnis, Duellum damnosum e così via… in cui la donna figura come pestilenza, naufragio dell’esistenza, bestia e molte altre cose del genere (Grupp V 152).
Anche in età contemporanea niente «egualitarismo»
E’ vero che nel 1919 il papa Benedetto XV – accusato d’aver avvelenato un concorrente al pontificato non dalle dicerie dei malvagi ambienti mondani, bensì dalla curia cardinalizia – intervenne a favore del diritto di voto per le donne, ma lo fece soltanto perché riteneva, e a ragione, che le donne fossero più conservatrici e più legate agli ambienti clericali. Per il resto il clero si adoperava sempre contro la loro emancipazione, sostenendo ancora la loro «subordinazione», la loro necessaria «ineguaglianza e inferiorità», e scrivendo: «La Sacra Scrittura sottopone soprattutto alla nostra attenzione due dei peggiori pericoli: “Vino e donne…”» .
E anche oggi che il ruolo della donna si è modificato più che nei cinquemila anni passati (tanto che lo stesso Paolo VI considera tale fatto «degno di nota») (Enc. Humanae vitae), la Chiesa dell”aggiornamento (in it. nel testo [n.d.t.]), dell’opportunistico pseudoadeguamento, in apparenza lascia cadere il suo antico antifemminismo, ma vi insiste in linea di principio. E così si insegna pur sempre che dovere «principale» della moglie è «provvedere al governo della casa in subordinazione al marito» (Jone 167) e non le concede, in fondo, nessuna forma di equiparazione dei diritti.
Se non è proprio più competente in qualche materia specifica, all’uomo spetta «l’ultima parola in tutte le questioni economiche e domestiche», e la donna deve «essere pronta all’obbedienza in tutte le cose»; «il suo posto è soprattutto in casa». Vien detto esplicitamente: «Son da condannare gli sforzi di quelle femministe (perlopiù di ispirazione socialista), le cui pretese mirano ad un’ampia eguaglianza fra uomo e donna». Per contro si rimanda alla buona e vecchia tradizione, citando in corsivo Eph. 5,23: «L’uomo è il capo della famiglia» (Haring, Dos Gesetz III 112, 287.). L’Osservatore Romano proclama senza confutazioni ancora nel 1965 la «posizione prioritaria» dell’uomo voluta da Dio .
E tuttavia i cattolici (con la sfacciataggine loro propria) esaltano la Chiesa come libera-trice della donna e si elevano al di sopra di tutto «ciò che il vecchio e nuovo paganesimo ha detto di umiliante e di volgare intorno alla natura della donna» .
Mentre così da un lato lamentano « il destino triste, opprimente, indegno della donna presso i popoli non-cristiani o pre-cristiani», mentre scrivono: «In quel tempo troviamo la donna immersa in un dispregio e in un’infamia che peggio non si può», mentre sostengono «che gli scrittori che si sono dedicati a descrivere la condizione della donna, da Marx e Bebel, fino a Johannes Scherr sulla soglia del XX secolo, erano perlopiù dei dilettanti», dall’altro lato sentono «l’inizio di una nuova epoca per l’anima femminile» già nell’opera dello Spirito Santo nel ventre di Maria («nell’officina del suo seno verginale la forza dell’Altissimo compie il suo capolavoro», e mentendo affermano: «La Chiesa ha con tutte le sue forze cercato di migliorare l’opprimente destino della donna, liberandola dalle catene della schiavitù e arrecandole una dignità tutta nuova, una possente crescita di dignità», e che la cristiana «esaltazione della verginità» ha procurato una parità di rango della donna , quantunque proprio la campagna propagandistica a favore della verginità sia stata sempre correlata negativamente alla diffamazione della donna. E non basta: coloro che chiamano col suo nome l’antifemminismo clericale vengono accusati di ignoranza della storia e viene scaricata sugli «eretici» l’intera prassi cattolica del millenario dispregio della donna .
Rispetto e disprezzo della donna presso gli «eretici»
Al contrario, già la Gnosi antica e il Manicheismo riconoscevano alle donne una posizione di tutto rispetto. Le Montaniste potevano diventare sacerdotesse e vescovesse; presso i Catari alla perfecta era lecito spezzare il pane, confessare e rimettere i peccati (Koch, G. 129 sgg.). Anche presso i Bogomili bulgari e i Valdesi la perfecta aveva accesso alla più stretta cerchia dei perfecti. Il rifiuto del matrimonio non significava una svalutazione della donna, la quale invece era ampiamente equiparata all’uomo (ibid. 35, 156 sgg., 169 sgg.). E allo stesso modo negli ambienti eretici italiani con usanze libertine non solo scomparvero le differenze di ceto fra serva e padrona, ma la donna veniva anche posta sullo stesso piano dell’uomo (ibid. 115 sgg.).
Al contrario, in ambiente protestante sopravviveva la discriminazione della donna propria del Cattolicesimo: come un qualsiasi padre della chiesa, Luterò interpretava la storiella del peccato originale a vantaggio dell’uomo, cui competeva «il governo», mentre la donna doveva «piegarsi»; l’uomo è più «elevato e migliore»; la donna «una creatura dimidiata», «una bestia idrofoba», «il merito maggiore che possiede è che veniamo generati dalla donna» (W. A. 15, 429. Anche Weber, M. 285).
A Wittenberg nel 1591 i teologi luterani discussero se le donne fossero delle persone; e nel 1672 sempre a Wittenberg apparve uno scritto intitolato «Faentina non est homo». Ciò accadeva nel medesimo giro d’anni in cui a Wittenberg si disputava intorno alla «possibilità che un cammello possa realmente passare attraverso la cruna d’un ago» e veniva pubblicato un Trattato scientifico sulle lacrime delle streghe .
b. L’esaltazione di Maria: espressione della demonizzazione della donna
La Maria della Bibbia e l’idolo della Chiesa
«In nessuna religione o visione del mondo la donna è tanto rispettata e onorata quanto nel Cristianesimo», sostiene un difensore d’ufficio delle donne; e aggiunge: «Nella Chiesa cattolica ciò trova la propria espressione specifica nella Mariologia e nella concreta venerazione di Maria, la donna che anche il figlio di Dio dovette rispettare come propria madre. Dio non avrebbe potuto onorare in modo più elevato la donna e la madre» (Haring, Das gesetz, III 289). In realtà però l’assurdità di questa religione non si è concentrata in alcuna figura più che nella Madonna, alla fine volata in ciclo in carne ed ossa, in questo arcaico prodotto mitologico altamente fornito di pie leggende e di grossolane menzogne. L’idolo così ottenuto non ha più niente a che vedere con l’immagine biblica originale, tantopiù con le versioni più antiche della tradizione.
L’arte imbonitrice clericale ha fatto dimenticare che Maria nel N.T. non svolge pressoché alcun ruolo; che il Libro dei Libri parla di lei assai raramente e senza particolare venerazione; che Paolo, l’autore cristiano più antico, non la menziona quasi mai, come il vangelo più antico; che viene ignorata dal vangelo di Giovanni, dalla Lettera agli Ebrei e dagli Atti degli apostoli; che poi gli scritti che la nominano rigurgitano di contraddizioni; che lo stesso Gesù passa del tutto sotto silenzio la propria generazione attraverso lo Spirito Santo e la sua nascita dalla Vergine; non la chiama mai madre, non parla mai d’amore materno, anzi sgrida aspramente Maria, mentre costei lo considera un pazzo; che prima del III secolo nessun padre della chiesa conosce una permanente verginità di Maria; fino al VI secolo nessuno sa nulla della sua assunzione in ciclo in carne ed ossa; la fede, poi diventata dogma, nella sua immacolata concezione è stata combattuta come superstiziosa dai più grandi lumi-nari della Chiesa, i dottori Bernardo, Bonaventura, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, assieme a molte altre cose simili concernenti aspetti rilevanti della mafiologia.
Fu già importante anche solo il fatto che attraverso tutto questo generoso stravedere e le ancor più generose invenzioni successive, alla fine si ebbe a che fare con una creatura del tutto asessuata, che venne presentata al mondo intero come un ideale, un’incarnazione non della quintessenza di ogni donna, bensì della sua caricatura.
Più bianca del bianco, ovvero: la defemminilizzazione di una madonna
Con meravigliosa consequenzialità vennero rimossi i più lievi segni di femminilità già a partire dall’aura seminalis; già prima della nascita, proprio quando il seme del padre penetrò nella madre Anna, Maria fu del tutto pura dal peccato originale, per così dire più bianca del bianco, libera dalla terribile colpa, da cui sono affetti tutti gli altri uomini: è l’immacolata concezione di Maria, invero proclamata dogmaticamente al mondo solo circa 1900 anni dopo, il 10 dicembre 1854.
Era dunque logico che una creatura generata in modo così mirabile dovesse condurre una vita del pari estremamente mirabile; e in effetti quando Maria concepisce un bambino e partorisce, resta tuttavia vergine, nessun piacere la macchia, nessun pene e sperma volgare la insudiciano, bensì Dio ottiene tutto questo molto discretamente e senza ledere il suo grembo materno. Il figlio di un falegname della Bibbia non è affatto figlio di un falegname, e i fratelli e le sorelle così ben attestati nella Scrittura non sono suoi fratelli e sorelle. Invece tutto fu meraviglioso, come, per altro, in una dozzina di altri figli divini, nati in precedenza da altrettante vergini. Ma soltanto Maria, l’Immacolata, la Pura, la Vergine ante partum, in partu, post partum, divenne alla fine in tutto e per tutto la gloriosa antagonista di Èva, la Peccatrice, la Colpevole, la Partner del serpente e cioè proprio del fallo, vale a dire, in sostanza, della donna. E quanto più s’innalzava la celebrazione della Vergine, tanto più profondamente veniva degradata ogni donna (che vivesse naturalmente); là iperdulia senza pari, qui sconfinata diffamazione. Ciò fu il frutto di un solido effetto di reciprocità.
Maria contro Eva
Nel VII secolo il clero gallico e germanico metteva in contrasto nel modo più reciso, secondo una tradizione già antica, la rappresentazione di Eva come immagine primigenia della donna e Maria, la «Vergine madre di Dio». Durante la messa il vescovo diceva: «La sua vita non derivò dalla voluttà, il suo cadavere non venne dissello dalla violenza della natura… I meriti di questa fanciulla vengono esaltali nel modo migliore (!) se li confrontiamo con gli alti dell’antica Eva: la prima ha recato la vita al mondo, la seconda ha procurato la legge della morte; così ci ci ha corrotto con i suoi peccati, quella ci ha salvalo con la sua maternità. Eva con la mela dell’albero ci ha ferito nel profondo… ha generato la maledizione del dolore… La sua infedeltà assentì alla serpe, ingannò l’uomo, corruppe la creatura; l’obbedienza di Maria riconciliò il padre, meritò il figlio, redense la posterità. Quella porge amarezza nel succo della mela, questa porge perpetua dolcezza, che scaturisce dalla fronte del figlio. Quella…» e così via (cit. da Beissel 17).
Questo era il tenore di una ininterrotta umiliazione della donna; e mentre nel Medioevo l’esaltazione di Maria andava vieppiù fiorendo e pullulava di inni a Maria, di devozioni mariane, di chiese dedicale alla Madonna e di confraternite mariane (ibid. 276 sg.), la donna veniva disprezzata, umiliata e oppressa. E mentre Maria (come prodotto di una ideologia patriarcale, invero e nonostante tutto «ancella del Signore», serva di Dio, cioè del prete) poteva diventare «ianua coeli», ogni altra donna, tento più se non era una suora o strumento diretto del clero, diventava la «porta sempre aperta dell’inferno».
Appare mollo consequenziale il fallo che la svalutazione di Maria presso certi eretici non abbia recalo con sé alcuna svalutazione della donna, bensì, al contrario, sia stata collegata a una parità ecclesiale. Anche nei culli adamitici essa non veniva screditala. Il libero rapporto sessuale, in uso talvolta presso Catari o Valdesi, fra perfecti e perfectae, figli e figlie di Dio, non creava alcuna forma di discriminazione del partner femminile; il che, del resto, è del tutto naturale. Per contro, alla successiva inclinazione di questi ambienti verso la concezione cattolica di Maria significativamente seguì poi una svalutazione della donna (Koch, G. 100 sg. 121, 178 sgg.).
e. Il pregiudizio verso la donna nella vita ecclesiastica
Il mondo paga con l’ingratitudine
Da Gesù equiparate ai maschi, nel Cristianesimo in un primo momento le donne potevano diventare missionarie e insegnare: le profetesse cristiane sono forse più antiche dei profeti. Ci furono donne che fondarono comunità o ne furono le guide; ciò è già nolo per l’età apostolica, come l’ufficio delle vedove nelle comunità e quello delle diaconesse, che in parte corrispondeva a quello dei sacerdoti. Per dirla in breve, le donne ebbero funzioni profetiche, catechistiche, caritative e liturgiche; furono ben presto prevalenti nella nuova religione, ne furono spesso le «guide» e furono anche le più facili alla conversione. Celso definisce il Cristianesimo la religione delle donne, e Porfirio sostiene persino che la Chiesa era dominata dalle donne: e furono proprio loro a guadagnare alla nuova religiosità le persone colte e infine anche l’impero.
Ma già alle origini la donna fu sempre più messa da parte, dichiarata inadatta all’assunzione di uffici ecclesiali e alla ricezione della consacrazione, una lotta legata generalmente alla posizione del clero contro il mondo laico. E dopo la loro definitiva esclusione dalla gerarchia esse vennero ulteriormente poste da parte.
Le mestruate e le gravide sono impure
Nel Medioevo le donne non potevano portare i capelli sciolti, sedere in mezzo ai chierici nei banchetti, entrare nel coro, accostarsi all’altare, toccare oggetti consacrati, prendere l’eucaristia sulle mani nude: e tutto ciò talvolta veniva espressamente giustificato adducen-do la debolezza e l’impurità femminili e affermando «la contaminazione dei sacramenti divini ad opera delle mani delle donne». Se poi era consentito a un laico di battezzare in caso di necessità, alla donna ciò era proibito.
Anche nei libri penitenziali medievali essa si trova sempre più in basso dell’uomo.
Al principio del X secolo Regino di Priim nelle sue istruzioni per la frequenza parrocchiale, una delle più importanti raccolte di fonti di diritto canonico prima di Graziano, proibisce a tutte le donne di cantare in chiesa (Hellinger 73. 1). Proprio per questo per secoli si fecero castrare i fanciulli, per sostituire nei cori delle cattedrali le voci sopranili delle donne.
Quanto poi si volesse colpire la donna come essere sessuato è dimostrato dal fatto che nella Chiesa le donne mestruate e incinte erano considerate impure. Proprio quelle funzioni femminili (mestruazione, concepimento, parto) che originariamente abilitavano spesso la donna ai servizi religiosi, nel Cristianesimo furono considerate cause impedienti. In proposito san Girolamo insegnava: «Nulla è più impuro di una donna nel suo mestruo: essa rende impuro tutto ciò che tocca» . Perciò nella Chiesa primitiva venivano punite quelle donne mestruate, che avessero baciato la mano di un sacerdote (Hamburger 48). Anzi, in quasi tutto l’Oriente veniva loro interdetto l’ingresso in chiesa e proibita la comunione fino al principio dell’età moderna; chi contravveniva era sottoposta a una penitenza settennale e i preti che avessero loro porto l’eucaristia, in molti luoghi venivano destituiti (Jonkers 158).
Ma anche in Occidente per lungo tempo le donne mestruate, anche le suore, furono escluse dalla chiesa e dalla comunione . Al principio del XV secolo molti teologi intervennero a favore di tali disposizioni, e ancora nel XVI e nel XVII secolo si giunse perciò a pubbliche umiliazioni: un protocollo dello Schwarzwald del 1684 proclama: «Mulieres menstrua patien-tes stiano sulla soglia della chiesa e non vi entrino, e rimangano per così dire alla gogna».
Anche il parto viene insozzato
La Chiesa riguardava come impure non solo le mestruate e le gravide, ma anche le puerpere, e spesso persino le levatrici. Se nel «Paganesimo» antico il mestiere della levatrice godeva di molto prestigio, nell’occidente cristiano esso venne annoverato fra i lavori disonorevoli e spregevoli . Un’importante ordinanza ecclesiastica del III secolo proibiva a tutte quelle che avevano assistito a un parto la partecipazione «ai misteri», e precisamente per venti giorni se si trattava di un maschio, per quaranta se si trattava di una femmina; il periodo di purificazione per la madre durava quaranta giorni nel caso di nascita di un maschio, ma era di ottanta giorni in caso di nascita di una femmina, (e ciò dimostra ancora una volta il disprezzo clericale della donna) (Schepelern 137). Nel tardo V secolo i preti si rifiutavano persino di battezzare puerpere agonizzanti, se non erano trascorsi i termini della purificazione (ibid. 213, nota 658). Ancora nell’XI secolo venivano punite tutte quelle donne che entravano in chiesa durante questo periodo (Hamburger 47).
Solo a partire dalla metà del XII secolo il clero consentì alle puerpere, almeno in teoria, di recarsi in chiesa; praticamente, invero, esse per tutto il Medioevo lasciavano le proprie case perlopiù soltanto dopo trenta o quaranta giorni, non senza essersi fatte prima «benedire» per ottenere il perdono del piacere goduto («Nella colpa mia madre mi ha concepito») !, e non senza pagare «tasse» e balzelli (per i quali spesso preti e monaci litigavano), che in caso di nascite fuori dal matrimonio erano sovente più elevati, e in vari luoghi erano graduati a seconda della gravita del peccato (Browe, ibid. 26 sgg.).
Nel XX secolo poi – infatti anche oggi ci sono le «benedizioni» – l’arcivescovo Gròber interpreta la faccenda in modo diverso: «La benedizione della madre cristiana dopo il parto è un atto di ringraziamento, e non una cerimonia di purificazione e di perdono» (Gròber 403).
Il Concilio Vaticano II e la donna
Il Concilio Vaticano II non ha del tutto svalutato la posizione della donna nella Chiesa e nella società, trattandola però in maniera singolarmente fuggevole e in tutto e per tutto al modo di quelle magre pseudolamentazioni, con le quali i papi nelle cosiddette encicliche sociali di tanto in tanto esortano i ricchi alla misericordia verso i poveri.
Infatti, che significato ha il fatto che il Concilio sia intervenuto con parole generiche e fievoli a favore del «diritto della libera scelta del consorte e della condizione di vita» oppure a favore della «partecipazione della donna alla vita culturale» ? Non si ebbe il coraggio di dire molto di più; e le formulazioni difficilmente superabili nella loro mancanza di entusiasmo sono tanto più disimpegnate in quanto le presenti manifestazioni della Chiesa cattolica dimostrano una clamorosa svalutazione della donna.
La sacra congrega fu per altro quasi esclusivamente composta da maschi: a duemilacin-quecento prìncipi della Chiesa si accompagnarono solo cinquanta donne, «uditrici laiche», perlopiù suore, che inoltre non intervennero mai, quasi a dimostrare in pieno il paolino «mulier taceat in ecclesia»; esse non furono che semplici spettatrici: collocate in ultima fila, a partire dal terzo turno di sedute, dovettero sedere su delle panche prive di spalliere (Hampe III 251). Anche il Codex Juris Canonici, il codice in vigore della Chiesa cattolica, rigurgita di discriminazioni dirette e indirette della donna.
A fronte dei cattolici maschi si trovano almeno altrettante femmine, e accanto a circa 370.000 frati e religiosi laici stanno 1.250.000 suore.
Ed ora leggete gli articoli che seguono, a cominciare da questo, degli Apostolici (una delle tante sétte cristiane). Ci si sente male, stridono i denti.
Più oltre vi sono interventi del reazionario Ratzinger ed anche un raggio di luce di Rossana Rossanda.
Leggete è davvero istruttivo e, se siete donne credenti, o scappate o ribellatevi decisamente.
http://www.apostolici.it/temi/donna.asp
LA DONNA: IL SUO POSTO E LA SUA IMPORTANZA
NELLA RIVELAZIONE BIBLICA
Il testo biblico citato è quello della traduzione del Diodati (1962)
Iddio ha assegnato ad ognuno un posto nell’ampio sistema della Sua opera per il raggiungimento di alcuni fini positivi e spirituali che rispecchiano aspetti della Sua sapienza e della Sua bontà; ed ognuno deve essere e dimostrarsi fedele per la generale armonia e la comune benedizione ed anche perché Iddio sia glorificato nell’opera della Sua creazione, la quale è caratteristica per la sua grande e complessa struttura che presenta una diversità di funzioni, di qualità, di fini tutti rivolti alla dimostrazione di qualche verità relativa al Creatore. Angeli ed uomini; sole, luna e stelle; la terra con la sua flora, fauna, sistemi montagnosi e abissali oceani, tutto parla di Lui e tutte le opere della Sua creazione hanno come finalità, prima dei loro complicati ed armoniosi movimenti, l’attuazione dei Suoi disegni e la Sua gloria. L’ordine, la pace e l’armonia dell’universo trovano motivo proprio nel fatto che ogni cosa sussiste, si muove e si regge nella sfera assegnatole adempiendo perfettamente il proprio compito con le relative finalità.
CRISTO E LA CREAZIONE
Quanto testè detto è vero anche indipendentemente dalla specifica rivelazione cristiana, intendendo con tale espressione la Rivelazione che Dio dà di Sé nel Suo Figliuolo unigenito, Cristo Gesù. Ma da quando si adempì il piano di Dio nella Incarnazione del Cristo è divenuta chiara la verità che tutte le cose furono fatte per l’Uno-Incarnato, il Dio-Uomo, il Quale deve essere l’Eterno Capo e Reggitore della creazione.
Iddio creò ogni cosa in funzione del Suo Figliuolo e perché é al Suo Figliuolo il tutto fosse subordinato. L’universo dovrà essere e sarà un maestoso regno su cui Cristo dominerà riempiendolo della gloria di Dio.
CRISTO E LA CHIESA
È noto che in tutta la creazione è l’uomo che occupa la posizione di maggiore vicinanza al Cristo il Quale prese la nostra natura e non quella degli Angeli, morendo per noi e non per gli Angeli. L’intera opera di redenzione fu attuata nell’umanità e per l’umanità, che in tal modo fu sottratta dal dominio della morte, dalla potenza della maledizione e fu glorificata alla destra di Dio. È fra gli uomini e non fra gli Angeli che Egli raccoglie la Sua Chiesa, il Suo Corpo, la Sua Sposa che dovrà avere preminenza su tutte le creature partecipando al dominio, alla gloria ed alla beatitudine di Colui che è il Capo di tutte le cose, il Re dei re, il Signore dei signori.
Cristo e la Sua Chiesa sono le figure centrali nel piano di Dio in relazione all’universo il quale raggiungerà la sua reale condizione solo quando entrambi occuperanno le loro posizioni di governo. La funzione che un re ed una regina possono assolvere nel loro regno, sarà assolta, certo in misura infinitamente ed eternamente superiore, dal Figliuolo di Dio e dalla Sua Sposa nel regno universale.
1. LA DONNA E LA CREAZIONE
Tenendo presente il proponimento di Dio verso gli uomini come già brevemente accennato, possiamo subito considerare come sin dal principio della storia degli uomini, Iddio ha cercato di presentare il Suo Figliuolo, Cristo Gesù, la Sua Chiesa e le loro relazioni mediante figure, simboli ed episodi che informa tipica contenevano un sì pregnante ed eterno significato.
Adamo fu creato quale prefigurazione di Cristo e fu posto come “economo” della sua eredità fino a che il vero erede, Cristo stresso, non ne fosse entrato in diretto possesso. Ad Adamo fu dato un giardino come sua fortezza, suo palazzo dal quale avrebbe dovuto esercitare la sovranità che gli fu data su tutta la terra e su tutte le creature viventi. In ciò egli era un’immagine, una figura di Colui che in seguito avrebbe fissato il Suo trono sulla terra per governare su essa in giustizia. È nella luce di ciò che Cristo sarà, che noi possiamo meglio comprendere il posto di Adamo in Paradiso, Re e Sacerdote di Dio, libero dal peccato e dalla morte, padre di innumerevoli miriadi di individui.
Anche la Chiesa, l’eterna compagna di Cristo nel Suo regno, trova la sua prefigurazione nella progenitrice dell’umanità. Adamo non fu lasciato solo nella funzione di progenitore di tutta l’umanità e nella dignità di signore della terra, ma gli fu data una persona quale aiuto nella sua opera e compartecipe della sua potenza e signoria: una persona che era simile a lui nei tratti essenziali del suo essere, ma da lui differente nella struttura fisica e nella potenza o facoltà dello spirito. Tali differenze hanno un significato prefigurativo di quelle sussistenti oggi tra Cristo e la Sua Sposa, la Chiesa.
L’uomo fu creato per essere TIPO di Colui che sarebbe stato il reale perfetto reggitore, mentre la donna fu creata per essere il TIPO di coloro che sarebbero stati eternamente subordinati a Cristo e nel contempo elevati alla dignità di compartecipi nel Suo dominio. Il governo, nella sua forma più alta fu affidato all’uomo e la donna, se da un lato era onorata e benedetta dalla partecipazione a tale elevata posizione, d’altro canto gli era inferiore in quanto ad autorità e potenza. Il motivo di ciò è da ricercarsi nel fatto che Dio nel Suo piano ha voluto rendere l’umanità un’immagine di Cristo e della Chiesa, per cui l’ha creata nella sua struttura originale in due distinte ma armoniose parti, di cui la prima, l’uomo, rappresenta in tipo il Capo della Chiesa e il reggitore della creazione, e la seconda, la donna, tipifica invece quel Corpo di persone a Cristo necessariamente inferiore anche se a Lui organicamente unite.
Ecco le ragioni per cui sin dall’inizio l’uomo si è trovato in una posizione di autorità sovrana e la donna in uno stato di graziosa subordinazione. Ciononostante non si tratta di una questione di superiorità assoluta, ma di relazioni volute e determinate da Dio, il Quale pone le Sue creature ove a Lui piace, non arbitrariamente, ma in virtù della Sua profondissima sapienza ed amore. Egli volle l’uomo capo della donna poiché Cristo sarebbe stato Capo della Chiesa e questa verità la volle imprimere nella naturale ed essenziale relazione matrimoniale come anche su un piano generale di vita associata.
Il Nuovo Testamento ci presente chiaramente questa dottrina nelle parole dell’Apostolo Paolo: “Ma io voglio che sappiate, che il capo d’ogni uomo è Cristo, e che il capo della donna è l’uomo, e che il Capo di Cristo è Iddio” (1 Corinzi 11:3), “Conciossiaché il marito sia capo della donna, siccome ancora Cristo è Capo della Chiesa, ed Egli stesso è Salvatore del Corpo” (Efesini 5:23). Il significato di queste parole è chiaro. Esse ci presentano una verità che non ha limiti di tempo o di spazio, che è cioè attuale nel nostro ventesimo secolo come lo fu nel primo, nella democratica America, come nella teocratica Palestina.
Cristo è il Capo della Chiesa in tutte le età ed in tutti i Paesi e se l’autorità dell’uomo e la subordinazione della donna si poggiano su questa eterna verità non cesseranno di essere la legge perfetta della vita umana fino alla fine.
2. LA DONNA E LA CADUTA
Subito dopo l’avvenuta creazione e sistemazione di Adamo ed Eva nel giardino di Dio perchè lo lavorassero e lo custodissero, cominciò quel conflitto con le potenze delle tenebre, conflitto che dura da circa seimila anni e che non cesserà finchè Satana non sarà gettato nel lago di fuoco.
Vi fu nel cielo una ribellione fomentata e guidata dal grande Arcangelo il quale si levò contro il proponimento di Dio in relazione all’uomo (proponimento che s’accentrava nel Suo Figliuolo, Cristo Gesù uomo, sebbene Satana non ne fosse a conoscenza); l’uomo, infatti, doveva governare la divina creazione e lui stesso. Questo Arcangelo che era stato creato come la più alta delle creature considerava come una beffa il fatto che un’altra persona gli fosse anteposta e rifiutò di essere uno spirito ministratore, un servo, e non voleva che vi fosse una più alta dignità, quella cioè di un figliuolo ed erede. Satana perciò in uno spirito di profonda malizia ed invidia si propose di distruggere l’uomo non appena fosse apparso sulla scena, sì da frustrare per sempre il proponimento di Dio che iniziava con l’atto della Sua creazione. Per l’attuazione del suo diabolico piano Satana si avvalse dell’unica proibizione fatta all’uomo per far prova della sua fedeltà ed obbedienza ed alla quale era legata intimamente la condanna di morte spirituale; però non pensava affatto ad una possibile redenzione da essa.
La storia sacra ci racconta che il Serpente si rivolse prima alla donna ed, avendola vinta, ella stessa indusse il marito alla medesima trasgressione. Nel compiere quest’atto tanto deprecabile, perché era un’aperta disubbidienza a Dio e comportava la perdita del Paradiso e rendeva ereditaria la morte spirituale a tutti gli uomini, la donna agì in uno stato d’indipendenza da suo marito; non gli chiese consiglio, non si sottomise al riparo della sua guida e peccò proprio perché non conferì al marito quell’onore dovutogli quale suo capo e trovatasi sola di fronte alla tentazione non poté non cadere: non sostenuta dalla sapienza e dalla forza che il marito poteva darle, Eva rifiutò quella condizione di subordinazione che le fu assegnata da Dio e da sola, insubordinatamente, si avventurò in una questione che pregiudicava non solo lei ed il marito, ma il destino dell’intera umanità. Ella agì come se non vi fosse stata nessuna relazione che la legasse al marito, come se fosse stata indipendente, come se la sua responsabilità fosse completa senza, cioè, alcun rispetto verso l’uomo: in tale maniera violò virtualmente la divina istituzione del matrimonio dissolvendone i vincoli e non riconoscendone gli obblighi impliciti.
Il peccato di Eva non fu, però, maggiore di quello di Adamo in quanto ella lo precedette soltanto nella trasgressione e la motivazione della sua caduta sta nel fatto che ella assunse una posizione che assolutamente non le era concessa e trascurò di avvalersi dell’aiuto maritale che Dio le aveva dato. L’Apostolo Paolo ci dice che Adamo non fu ingannato: egli comprese la menzogna del tentatore e s’avvide dei suoi inganni e se Eva si fosse con lui consigliata certo il pericolo sarebbe stato eluso. Non dobbiamo dimenticare che Adamo non prese il frutto dalle mani del serpente, ma dalle mani della donna peccando in tale maniera con conoscenza, coscienza, deliberatamente e con occhi aperti preferendo affrontare la condanna rigorosa ed irrimediabile piuttosto che separarsi nell’atto peccante dalla compagna della sua vita.
Quello di Adamo fu il peccato maggiore in quanto sapeva ciò che stava per fare e pose in rischio tutto, accettando il dispiacere e la maledizione di Dio invece della benedizione che da principio godeva. In questa trasgressione vi fu un profondo autoabbandono che ci fa pensare alla abnegazione e totale rinunzia di sè con cui Cristo consumò sulla Croce il Suo Sacrificio espiatore per la redenzione della caduta umanità.
In definitiva, la storia della caduta la possiamo compendiare come segue: la donna dimenticò il suo dovere verso il marito, ascoltò le parole ingannevoli del serpente e gli credette, quindi persuase il marito a seguirlo nella trasgressione anche se questi fosse in un primo momento contrario.
Quanto detto è la conclusione della prima scena della storia dell’umanità. Il nemico prevalse sull’uomo ed un’infamante maledizione venne sulla sua anima, sul suo corpo e sulla sua progenie. La porta della sua fortezza fu abbattuta ed il tentatore poté prenderne possesso corrompendo ed oppressando la terra che rimarrà sotto tale triste e diabolico dominio fino al giorno in cui sarà distrutto da Uno più forte di lui, l’uomo, l’Uomo-Dio. Satana sarà cacciato via, sarà schiacciato e sconfitto completamente nella pienezza dei tempi da Uno che sarà proprio di quella razza che egli ha trascinato nel mare della rovina. Il seme della donna schiaccerà il capo del serpente. La vendetta di Dio non sarebbe completa se l’uomo non fosse lo strumento di distruzione dello spirito di orgoglio che ha riempito di confusione il cielo e la terra, calpestando e disprezzando il consiglio dell’Altissimo. La donna che egli ha sedotta con ardita menzogna sarà la madre di Colui che lo calpesterà fino alla polvere.
Tra tanta vergogna, dolore e desolante rovina che ormai la circonda, la donna riceve una grande e consolante promessa: da lei nascerà il Liberatore il Quale lotterà in un mortale conflitto con l’astuto nemico fino a sconfiggerlo anche se con sofferenza, ma per sempre.
Ma finché non arriverà il giorno della liberazione, ella dovrà soffrire molti dolori che accompagneranno sempre la sua maternità e, quale segno della disapprovazione divina al suo atto di peccaminosa indipendenza nei confronti del marito, Iddio le disse: “I tuoi desideri dipenderanno dal tuo marito, ed egli signoreggerà sopra te” (Genesi 3:16). L’uomo da parte sua poiché cedette alla moglie invece di salvarla in ciò che gli era possibile e poiché non seppe conservare la sua posizione di preminenza, fu punito con la perdita della sua eredità spirituale e fu condannato a lavorare come uno schiavo, mentre avrebbe potuto governare e dominare come re.
Da quel fatale momento la vita della donna fu resa in verità dura e triste a causa dell’oppressione dell’uomo. Il peccato cambiò il gentile ed amorevole compagno del Paradiso in un aspro tiranno ed in molti luoghi, infatti, ella è decaduta dalla onorata posizione di un essere amato e guidato dall’uomo, divenendo lo strumento della sua avarizia e la vittima della sua concupiscenza.
3. LA DONNA ED ISRAELE
In Israele la condizione e la sfera di azione della donna era stabilita dalla rivelazione divina e quindi era migliore di quanto non lo fosse nelle altre nazioni. Purtuttavia, quella della donna rimaneva sempre una condizione di subordinazione.
L’ufficio sacerdotale poteva essere assolto solo dai figli di Aaronne e, eccezion facendo per Debora, i poteri di governo erano affidati solo agli uomini. Spesso troviamo donne profetesse, come Debora, Anna, Ulda, tramite le quali lo Spirito Santo esprimeva gloriosi canti di ringraziamento e dava anche dei consigli ai re, ma l’ufficio profetico per eccellenza fu adempiuto principalmente dagli uomini e sono di questi profeti i messaggi che ci sono pervenuti, perché fossero di edificazione anche per la Chiesa di oggi.
È impossibile negare che prima della venuta del Signore il governo del Suo popolo e l’esercizio d’autorità erano affidati ad uomini; purtuttavia non possiamo negare che in molte donne troviamo nobili caratteri e profonde spiritualità come nelle mogli e figli di patriarchi, profeti e re. Il più alto onore che abbia ricevuto una donna fu quello di Maria, strumento umile e benedetto di Dio per la nascita del promesso Liberatore, la progenie della donna. Il Cristo compì ogni dovere che gli fu imposta dal Suo mandato: schiacciò il capo al serpente, debellò il peccato, dette alla morte un colpo definitivo, aprì la porta di una nuova vita mediante la Sua Resurrezione dalla morte ed infine glorificò l’umanità sedendosi sul trono di Dio. Fu da questa posizione elevata che Egli effuse lo Spirito Santo per raccogliere ed edificare la Chiesa.
4. LA DONNA E LA CHIESA
Una nuova dispensazione ebbe inizio sotto la Signoria ed il governo di Uno, nato da donna e per la preparazione di una sposa, di cui la donna era il tipo, per essere partecipe con Lui nel dominio e gloria attraverso tutte le età.
In questa dispensazione, si è avuta la emancipazione della donna da quello stato di inferiorità in cui si trovava rispetto all’uomo e la sua elevazione ad un perfetto stato di uguaglianza in relazione a tutti i doni e prerogative spirituali che sono date nella Chiesa. Molti preziosi doni sono affidati alla donna da Colui che nutre ad un tempo amore di figlio e di marito, sì che ancora una volta sono vere le parole di Paolo: “non v’è né maschio né femmina; perciocchèévoi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Galati 3:28-29).
La rigenerazione ed il battesimo con lo Spirito Santo partecipano alla donna la nuova vita dell’asceso Signore e la rendono parte del Suo Corpo, ossa delle Sue ossa, carne della Sua carne; nella Santa Comunione ella riceve il nutrimento di quella vita, il cibo celeste del Suo Corpo e Sangue; per imposizione della mani degli Apostoli ella riceve i dono spirituali secondo la distribuzione dello Spirito Santo che già dimora in lei come Divino Consolatore. Ogni benedizione spirituale che Cristo effonde, ella può ricevere liberamente.
Ciò che alla donna non è concesso è l’amministrazione dei vari riti per i quali vengono concesse le benedizioni divine. LE DONNE NON SONO “Apostoli”, ma sono benedette di ogni grazia che gli Apostoli partecipano; NON SONO “Pastori”, ma sono curate con ogni amorevole cura che Gesù, il gran Pastore, esercita mediante i Pastori; NON SONO “Evangelisti” ma ad esse mediante gli Evangelisti giunge il caro messaggio della Croce e del Regno. Tutto ciò non esclude che esse possano esercitare i doni dello Spirito per la edificazione ed il conforto della Chiesa: alcune possono profetizzare, come le figliuole di Filippo e mediante loro lo Spirito Santo parla nelle comunità dei fedeli consolando i cuori con salmi, inni e cantici spirituali; alcune, come Fede, possono essere Diaconesse adempiendo quel ministerio di aiuto e di consolazione per i santi.
Alla donna sono ormai aperte nuove sfere di santa attività, nuove speranze sono sorte in loro, respirano una nuova atmosfera di vita: nel loro carattere sono state infuse una nuova dolcezza ed una nuova dignità.
In relazione al governo bisogna dire che esse ne sono completamente escluse non meno di quanto lo fossero sotto la legge. Il Signore è geloso delle Sue prerogative come Capo della Chiesa. Egli desidera mostrare che ogni autorità è da Lui emanata e viene pertanto affidata all’uomo che è Suo tipo e rappresentante. Alla donna invece dette doni come tipo della Sposa. L’uomo non ha in sé medesimo il diritto di autorità e di potenza: tutto è dono di Cristo e deve essere esercitato e tenuto in uno stato di perfetta subordinazione a Lui. In tutto ciò Egli vuole dare nella Sua Chiesa chiara e precisa testimonianza di una grande verità: Egli è il solo Capo e Signore per volontà del Padre, e la Chiesa, sebbene sia UNA con Lui, deve essere eternamente subordinata a Lui!
Quanto detto è la chiave di molte ingiunzioni apostoliche che noi troviamo negli scritti di Paolo: “Tacciansi le vostre donne nelle raunanze della Chiesa, perciocché non è loro permesso di parlare, ma debbono esser soggette, come ancora la legge dice” (1 Corinzi 14:34); “… come la Chiesa è soggetta a Cristo, così le mogli debbono esser soggette ai lor mariti in ogni cosa” (Efesini 5:24); “Ma io non permetto alla donna di insegnare, nè di usare autorità sopra il marito, ma ordino che stia in silenzio” (1 Timoteo 2:12). Tali proibizioni non sono per l’umiliazione e l’oppressione della donna (nessun pensiero del genere poteva essere nel cuore di Gesù) ma per esprimere in tipo quel glorioso mistero della relazione della Chiesa con Cristo, del quale esprimerne ogni aspetto in parola, atto o simbolo, dovrebbe essere la più alta gioia tanto dell’uomo come della donna.
Il cristianesimo ha elevato e nobilitato il carattere della donna mediante la santità impressa alla famiglia tanto vessata nella sua istituzione da una invadente poligamia, mediante le molteplici e possibili attività sante che le sono offerte e mediante le possibilità di purificazione, conforto e consolazione che si annidano nella sua vita. L’espressione “Mariti, amate le vostre mogli, siccome ancora Cristo ha amato la Chiesa, e ha dato se stesso per lei” (Efesini 5:25) ha introdotto elementi di gentilezza e di tenerezza nella famiglia cristiana, elementi che erano completamente assenti nel paganesimo. La posizione della moglie, come simbolo della Sposa di Cristo, ha dato alla donna dignità e preziosità sconosciute fino alla rivelazione del mistero della Chiesa. La storia cristiana risplende di moltissimi ricordi di opere e sofferenze di sante donne prodigatesi presso i malati ed i morenti, nell’educazione dei fanciulli, nella cura della propria casa, in atti di celeste devozione, nel sacrificio di se stesse per aiutare l’uomo in ogni sfera della vita umana.
Grandi sono state le benedizioni che la donna ha ricevuto dal Cristianesimo rispetto sia a privilegi esteriori quanto alla vita e gioia spirituale come ognuno può vedere comparando le leggi ed abitudini cristiane con quelle di popoli pagani. Senza dubbio vi sono ancora molte cose da cambiare poiché il Cristianesimo non ha finora avuto nel mondo una positiva possibilità di agire; infatti la vita del mondo è più o meno corrotta e debilitata e le istituzioni di nessuna nazione sono state modellate sulla Legge di Cristo. Ciò che ancora resta da fare ai Cristiani per migliorare la condizione della donna, e nel rimuovere ancora crudeltà esistenti e nell’estendere la sfera della sua attività, deve essere fatto nel più breve lasso di tempo possibile: Cristo sta per ritornare!
Oggi vi è un movimento molto avanzato che favorisce gli pseudodiritti della donna, movimento che non è affatto aderente alla fede cristiana, anzi è sovversivo e radicalmente rivoluzionario nel senso più malvagio ed anticristiano; la conseguenza di una sua eventuale affermazione (cosa del resto possibile per essere noi giunti oramai al tempo in cui matura e si manifesta ogni malvagità) sarebbe quella di abbattere una delle più grandi barriere che ancora resiste alla piena dell’empietà che dovrà sommergere la cristianità nella iniquità e nella bestemmia.
5. LA DONNA E L’ANTICRISTO
Il peccato più iniquo ancora non è stato commesso sulla terra: cioè ancora non è giunto il momento in cui un uomo si fa chiamare Dio e, sedendosi nel Tempio di Dio, avoca a sè onori e prerogative divine rifiutandosi di riconoscere il vero Dio ed il Suo Unigenito ed Unto Figlio.
Vi sono state molte manifestazioni germinali di questo peccato nei secoli scorsi, basta ricordare gli imperatori pagani i quali sono stati adorati come dii e l’istituzione religiosa che oggi ha usurpato il posto e l’autorità di Cristo in maniera tale da giustificare pienamente i riformatori che la denunziarono all’opinione pubblica come espressione dell’anticristo. Il vero Anticristo, l’uomo del peccato, colui che si porrà contro ogni cosa e che porterà il nome di Dio, però ancora deve venire. Questi sarà la perfezione del capolavoro di Satana: come “Dio fece l’uomo” (che fu la più grande opera della Deità) così “l’uomo farà un dio” (che sarà la più grande opera del Serpente).
Fu grande il trionfo del nemico quando riuscì a far cadere l’uomo usurpandogli il posto e l’eredità, ma sarà più bello per lui sbarazzarsi del Cristo come Redentore e quindi ingannare l’uomo non facendogli sentire il bisogno della salvezza. La prima vittoria ottenuta in terra dal Maligno fu quella di far uscire l’uomo dal Paradiso e facendolo trovare sotto l’ira di Dio ed il giudizio della morte; ma il suo sforzo maggiore è consistito sempre nell’impedire l’attuazione dell’opera salvifica che Dio avrebbe compiuta mediante il Suo Figlio Incarnato; e la sua ultima e più potente opera consisterà nel fondare un falso regno in cui l’uomo regnerà con splendore di pseudodivinità. Cristo riporterà nel Paradiso l’uomo dopo averlo lavato da ogni peccato nel Suo Sangue e liberato dalla morte mediante la Sua Resurrezione. Satana da parte sua dichiarerà di ristabilire l’uomo nella sua posizione di governo pur rimanendo privo della espiazione del suo peccato ed affatto rimossa la sua maledizione. L’ultima e peggiore malvagità sarà rivelata sulla terra con la deificazione della caduta umanità e l’elevazione dell’uomo fino a farlo sedere sul seggio di Dio e portar lo scettro di Dio: ma questo non può accadere mentre rimane viva la testimonianza del peccato e della caduta dell’umanità; l’uomo non può affermare di essere Dio mentre confessa di aver peccato contro Dio e di essere caduto in Sua disgrazia. Perché ciò avvenisse dovrebbe essere cancellata tutto quanto si sa della colpa umana ed ogni testimonianza circa la necessità della Redenzione per il Sangue di Cristo.
L’inferiorità della donna rispetto all’uomo in relazione all’autorità ed al governo è in uno dei suoi aspetti un ricordo della passata trasgressione; fa ricordare la caduta ed è una prova che l’umanità è sotto la maledizione del peccato e rivela così la menzogna della pretesa perfezione, indipendenza e sovranità dell’uomo. Ciononostante v’è anche un aspetto di misericordia e di speranza facendo vedere prospettivamente la redenzione, le nozze dell’Agnello e la gloria del regno in cui Cristo regnerà per sempre con la Sua Sposa.
6. LA DONNA E LA FAMIGLIA
Il posto che la donna occupa nella famiglia cristiana è simbolo divinamente spiegato di un mistero celeste, quello in relazione al rapporto tra la Chiesa ed il Signore nelle età a venire: una con Lui nella partecipazione di tutto il frutto della Sua fatica e di tutti i doni del Suo Padre, ma tuttavia ancora protesa a dilettarsi nel gettare la sua corona ai Suoi piedi e a renderGli omaggio. Satana vuole ad ogni costo liberarsi di questa duplice testimonianza della caduta e della redenzione, testimonianza che ancora condiziona l’attuale posizione della donna e la legge cristiana del matrimonio. Egli non può portare in essere l’Anticristo, egli non può trasformare l’uomo in Dio fino a che non sarà rimossa tale testimonianza che ricorda agli uomini proprio ciò che egli vorrebbe che dimenticassero, cioè che il peccato è venuto nel mondo e che è stato profetizzato una futura liberazione da esso, liberazione mediante Gesù Cristo. Egli deve annullare quindi tutto ciò per potere ingannare l’uomo assicurandogli che nessuna colpa gli è ascritta e che nessuna maledizione è su lui e per fargli credere quindi che non ha bisogno alcuno di redenzione.
L’uomo del peccato mai può indicarsi e presentarsi come Dio se non fondandosi sul fatto che l’umanità è divina, cosa che non si può affermare fino a tanto che la donna continua a tenere il posto di subordinazione che le è stato proprio in tutte le età della storia umana ed al quale la cristianità ha posto il suo suggello poiché v’è in questa posizione della donna la confessione di una colpa passata e la profezia di una futura redenzione. Non c’è da meravigliarsi se Satana si impegni a cancellare questa testimonianza e stimoli la donna a lottare per la sua uguaglianza all’uomo facendole affermare: «Io e l’uomo siamo uguali», “Egli è un usurpatore e tiranno ed il suo diritto a governare la famiglia e lo stato è solo una pretesa: nel nostro rapporto con l’uomo non v’è immagine alcuna di Cristo e della Chiesa». È questo il carattere anticristiano dei movimenti femministi che dovrebbe farci stare in guardia. Siamo chiamati a contrastare non qualche buona riforma a favore della donna né tantomeno una sua generica emancipazione, ma tutto ciò che è contro al principio fondamentale per cui il marito è il capo della donna come Cristo è il Capo della Chiesa.
È da lottarsi il principio di totale indipendenza che la donna pretende avere nei confronti dell’uomo, principio che è sovversivo in seno alla cristianità, come nella società comune, e che è in contraddizione all’insegnamento di Cristo ed alla rivelazione che se ne ha nel mistero della Incarnazione e nella teologia paolina. La donna pecca nell’affermare la sua uguaglianza all’uomo, ma pecca maggiormente l’uomo quando offre il suo assenso, poiché significa che abdica alla sua funzione di governo ricevuta da Dio.
Quando sarà raggiunta la totale indipendenza della donna, ogni opposizione alla rivelazione dell’Anticristo sarà rimossa e, come il primo peccato dalla donna compiuto (agire indipendentemente dal marito) lasciò ruinare l’umanità, così il secondo (liberarsi totalmente dal giogo della sottomissione) porterà a rigettare la redenzione e quindi ad una caduta ultima e definitivamente senza speranza. Del tutto vere sono le parole del Signore “Chi s’innalza sarà abbassato!”. Per tutti, uomini e donne, i giorni che viviamo sono giorni di prova: il giorno della perfetta libertà non verrà finché l’Uomo che è nato da donna non ritornerà per rompere tutti i legami e ricompensare ogni anima paziente. Prova più triste della prossima fine non v’è al di là di questo movimento che vuole rivoluzionare i principi della natura e la legge di Cristo nella Sua Chiesa.
Tra tutte le insurrezioni antiautoritarie del nostro tempo, questa prende vita dalle radici più profonde del peccato e del male ed ha in sé il germe della più grande disorganizzazione della società del nostro tempo. Infatti, è da tanto che gli uomini si sono schierati contro ogni forma di governo che non sia proveniente da loro stessi, rifiutando perciò di essere sottomessi a re, sacerdoti e signori; ed ora è la donna che sta cominciando a far valere i propri diritti d’indipendenza ed a liberarsi dal governo dell’uomo in ogni tipo di relazione umana e spirituale: ella sta seguendo l’esempio offertale dall’uomo stesso e sta introducendo nella famiglia il principio di ribellione che si è tanto cercato di eliminare dalla vita sociale e dalla Chiesa. Vi è una divina legge che retribuisce anche le opere della umana malvagità e non è senza questo suo significato ed adattabilità che quest’ultimo peccato della donna sta ora principalmente manifestandosi proprio mentre vediamo consumarsi tanti peccati della Chiesa contro il Suo Signore e Capo. La Chiesa ha usurpato le prerogative del Suo Capo: essa ha parlato di “suoi” ministri, di “sue” dottrine, di “suoi” diritti di obbedienza da parte degli uomini, mentre Egli, il Capo e Reggitore da cui solo può ottenere vita e forza, è stato quasi del tutto dimenticato.
7. LA DONNA E L’ORDINE DIVINO NELLA CHIESA APOSTOLICA
Il Signore Gesù Cristo in questi ultimi giorni sta richiamando la donna all’obbedienza mostrandole quale è il suo posto di moglie, sì da ottenere da lei di nuovo amore e lealtà, in guisa tale da poter ricevere di nuovo i celesti doni che Egli offre in preparazione del Suo ritorno come Sposo e della Sua gloria come Re.
Egli ha mandato i Suoi Apostoli, i Suoi ministri plenipotenziari, per prendere il governo della Chiesa e portarla via dall’attuale suo vagabondare per riportarla ad una amorevole obbedienza: ma essa non li ha voluto ricevere. Gli Apostoli hanno presentato la loro testimonianza a popoli, nazioni, lingue e regni, ma è stata purtroppo rigettata. La Chiesa ha detto: «Non voglio sottomettermi alla volontà del mio Signore; Egli non avrà il posto dello Sposo; io riceverò dagli uomini leggi e comandamenti; io assumerò il loro nome». Ma alcuni hanno accolto l’ultima visitazione di Dio e tra costoro Dio è lodato: nella Sua Chiesa Apostolica!
Iddio sta ora vendicando il Suo Figlio che è ora disonorato nelle continue ribellioni delle mogli contro i mariti. La donna oggi asserisce la sua indipendenza nei confronti dell’uomo e porta in tal modo nel cuore della società umana il peccato che sta tanto disonorando la Chiesa di Dio.
Cari fratelli, non date luogo alla tentazione del nemico. Tenete ferma la volontà di Dio nella famiglia; adoperatevi a fare della Chiesa l’immagine della Sposa, piena di obbedienza arricchita di doni celesti ed in paziente, ma gioiosa attesa della Sua venuta e delle nozze con l’Agnello.
“ECCO, LO SPOSO VIENE!”
http://www.fides.org/ita/dossier/2004/nschiave4_0804.html
LA CHIESA ALZA LA SUA VOCE IN DIFESA DELLA DIGNITA’ DELLA DONNA
La Chiesa ha sempre levato la sua voce in difesa degli esseri umani, della dignità di ogni uomo e di ogni donna, del valore della sessualità e del matrimonio, per denunciare lo sfruttamento sessuale, il traffico di persone, la prostituzione, la pornografia, l’uso indebito della pubblicità…
“Tutti gli uomini, dotati di un’anima razionale e creati ad immagine di Dio, hanno la stessa natura e la medesima origine; tutti, redenti da Cristo godono della stessa vocazione e del medesimo destino divino: è necessario perciò riconoscere ognor più la fondamentale uguaglianza fra tutti. Sicuramente, non tutti gli uomini sono uguali per la varia capacità fisica e per la diversità delle forze intellettuali e morali. Ma ogni genere di discriminazione circa i diritti fondamentali della persona, sia in campo sociale che culturale, in ragione del sesso, della razza, del colore, della condizione sociale, della lingua o religione, deve essere superato ed eliminato, come contrario al disegno di Dio. (Gaudium et Spes n.29)
LA DIGNITÀ DELLA DONNA
“La donna rappresenta un valore particolare come persona umana e, nello stesso tempo, come quella persona concreta, per il fatto della sua femminilità. Questo riguarda tutte le donne e ciascuna di esse, indipendentemente dal contesto culturale in cui ciascuna si trova e dalle sue caratteristiche spirituali, psichiche e corporali, come, ad esempio, l’età, l’istruzione, la salute, il lavoro, l’essere sposata o nubile.” (Mulieris Dignitatem n.29)
La Chiesa ha sostenuto da sempre la dignità della donna e la sua femminilità. La sua posizione è, naturalmente, in relazione con gli insegnamenti della Sacra Scrittura e della Tradizione.
Il Santo Padre Giovanni Paolo II è intervenuto numerose volte sull’argomento, mostrando una profonda preoccupazione per la situazione di discriminazione e di sofferenza che, ancora oggi, la donna subisce nel mondo. Tra questi interventi segnaliamo:
Lettera Apostolica “Mulieris Dignitatem” (15 Agosto 1988) sulla dignità e la vocazione della donna in occasione dell’Anno Mariano.
“Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (Gen 1,27). Questo conciso frammento contiene le verità antropologiche fondamentali: l’uomo è l’apice di tutto ciò che è stato creato nel mondo visibile, ed il genere umano, che ha la sua origine nella chiamata all’esistenza dell’uomo e della donna, corona tutta l’opera della creazione; ambedue sono esseri umani allo stesso livello, sia l’uomo che la donna; ambedue furono creati a immagine di Dio. Questa immagine e somiglianza a Dio, essenziale per l’essere umano, viene trasmessa ai suoi discendenti dall’uomo e dalla donna, come sposi e genitori: “«Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra; soggiogatela” (Gen 1,28). Il Creatore affida il “dominio” della terra al genere umano, a tutte le persone, uomini e donne, che ricevono la loro dignità e vocazione da quel “principio” comune.
Nell’«unità dei due» l’uomo e la donna sono chiamati sin dall’inizio non solo ad esistere «uno accanto all’altra» oppure «insieme», ma sono anche chiamati ad esistere reciprocamente «l’uno per l’altro». (n.7)
Solamente in base a questo principio entrambi, e in particolare la donna, possono «ritrovarsi» come vera «unità dei due» secondo la dignità della persona…La donna non può diventare «oggetto» di «dominio» e di «possesso» maschile. (n.10)
Il Santo Padre evidenzia come il primo esempio di difesa della dignità della donna lo troviamo nello stesso Gesù Cristo: “In tutto l’insegnamento di Gesù, come anche nel suo comportamento, nulla si incontra che rifletta la discriminazione, propria del suo tempo, della donna. Al contrario, le sue parole e le sue opere esprimono sempre il rispetto e l’onore dovuto alla donna…Ciò diventa ancora più esplicito nei riguardi di quelle donne che l’opinione corrente indicava con disprezzo come peccatrici, pubbliche peccatrici e adultere.” (n.13)
E segnala altresì come in questa dignità della donna rientri la maternità come parte essenziale dell’essere donna: “La maternità è legata con la struttura personale dell’essere donna e con la dimensione personale del dono” (n.18). La maternità è collegata alla verginità, ma è anche distinta da essa: “Nella verginità liberamente scelta la donna conferma se stessa come persona, ossia come essere che il Creatore sin dall’inizio ha voluto per se stesso (41), e contemporaneamente realizza il valore personale della propria femminilità, diventando «un dono sincero» per Dio che si è rivelato in Cristo, un dono per Cristo Redentore dell’uomo e Sposo delle anime: un dono «sponsale».” (n.20)
Nell’Esortazione Apostolica Postsinodale “Ecclesia in Asia” il Santo Padre manifesta la sua preoccupazione per la situazione della donna in questo continente: “Riflettendo sulla situazione delle donne nelle società asiatiche, i Padri sinodali hanno notato che « anche se il risveglio della presa di coscienza delle donne circa la loro dignità e i loro diritti è uno dei segni più significativi del nostro tempo, la loro povertà e il loro sfruttamento restano un serio problema in tutta l’Asia ».20 L’analfabetismo femminile è di molto superiore a quello maschile e le bambine sono molto più soggette ad essere abortite o addirittura ad essere soppresse subito dopo la nascita. Vi sono inoltre in tutta l’Asia milioni di persone indigene o appartenenti a tribù che vivono in isolamento sociale, culturale e politico nei confronti della popolazione dominante.” (n.7)
Dinanzi a questa situazione, il Sinodo chiede un maggior riconoscimento del ruolo della donna, favorendo la sua azione in ogni campo, anche all’interno della Chiesa:” che le Chiese locali in Asia promuovano, ove possibile, iniziative a tutela dei diritti umani per conto delle donne. Lo scopo deve essere quello di introdurre un cambiamento di atteggiamenti attraverso un’adeguata comprensione del ruolo degli uomini e delle donne nella famiglia, nella società e nella Chiesa attraverso una maggiore coscienza della originaria complementarità tra uomini e donne, e un maggiore apprezzamento della dimensione femminile in ogni attività umana. Il contributo delle donne è stato troppo spesso sottovalutato o ignorato, con il risultato di un impoverimento spirituale di umanità. La Chiesa in Asia potrebbe difendere più visibilmente ed efficacemente la dignità e la libertà delle donne incoraggiandone il ruolo nella vita della Chiesa, inclusa la vita intellettuale, ed aprendo loro maggiori opportunità per essere attivamente presenti nella missione di amore e di servizio che le è propria.” (n.34)
Un appello simile lo ritroviamo nell’Esortazione Apostolica Postsinodale “Ecclesia in Africa” nella quale il Sinodo ha deplorato “quei costumi africani e quelle pratiche « che privano le donne dei loro diritti e del rispetto che è loro dovuto » (161) e ha chiesto che la Chiesa nel continente si sforzi di promuovere la salvaguardia di tali diritti.” (n.82). “La Chiesa deplora e condanna, nella misura in cui sono ancora presenti in diverse società africane, tutti « i costumi e le pratiche che privano le donne dei loro diritti e del rispetto che è loro dovuto ». È quanto mai auspicabile che le Conferenze episcopali diano vita a commissioni speciali per approfondire lo studio dei problemi della donna in collaborazione con gli uffici governativi interessati, là dove è possibile.” (n.121)
Nell’Esortazione Apostolica Postsinodale “Ecclesia in Europa” il Santo Padre afferma che “è necessario che, anzitutto nella Chiesa, venga promossa la dignità della donna, poiché identica è la dignità della donna e dell’uomo, ambedue creati a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gn 1, 27) e ricolmati ciascuno di doni propri e particolari.” (n.43)
“La Chiesa non cessa di alzare la sua voce per denunciare le ingiustizie e le violenze perpetrate contro le donne, in qualsiasi luogo e circostanza avvengano. Essa chiede che siano realmente applicate le leggi che proteggono la donna e siano messe in atto misure efficaci contro l’uso umiliante di immagini femminili nella propaganda commerciale e contro il flagello della prostituzione”. (n.43)
Il Santo Padre Giovanni Paolo II nel 1995 scrisse una “Lettera alle donne” in cui affermava come, tante volte, la donna sia stata disprezzata ed emarginata: “Siamo purtroppo eredi di una storia di enormi condizionamenti che, in tutti i tempi e in ogni latitudine, hanno reso difficile il cammino della donna, misconosciuta nella sua dignità, travisata nelle sue prerogative, non di rado emarginata e persino ridotta in servitù. Ciò le ha impedito di essere fino in fondo se stessa, e ha impoverito l’intera umanità di autentiche ricchezze spirituali. Non sarebbe certamente facile additare precise responsabilità, considerando la forza delle sedimentazioni culturali che, lungo i secoli, hanno plasmato mentalità e istituzioni.” (n.3) (Agenzia Fides, 2/8/2004)
http://www.escriva.it/News/19680201.htm
OPUS DEI
Data: 2002
Autore: San J. Escrivá
Fonte: Colloqui con mons. Escrivá
Editore: Ares
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La donna nella vita sociale e nella Chiesa
Intervista raccolta da P. Salcedo, pubblicata in “Telva” (Madrid) il 01/02/1968
D – Monsignore, la presenza della donna nella vita sociale sta diventando sempre più ampia, anche aldilà dell’àmbito famigliare in cui essa si è mossa quasi esclusivamente fino a ora: Che cosa pensa di questa evoluzione? E quali sono, secondo lei, le caratteristiche di base che la donna deve possedere per il compimento della missione che le è assegnata?
R – Innanzitutto, mi sembra opportuno non contrapporre i due àmbiti a cui ha accennato. Come nella vita dell’uomo, anche in quella della donna, ma con caratteristiche molto peculiari, il focolare e la famiglia occuperanno sempre un posto preminente: è evidente che il dedicarsi ai compiti famigliari costituisce una grande funzione umana e cristiana.
Tuttavia questo non esclude la possibilità di svolgere altre attività professionali – anche quella domestica è un’attività professionale – in una qualunque delle mansioni e degli impieghi dignitosi esistenti nella società in cui si vive. È facile capire che cosa si intende impostando così il problema; penso però che se si insiste troppo sulla contrapposizione sistematica tra casa ed attività esterne, e ci si limita a spostare l’accento da un termine all’altro, si potrebbe giungere, da un punto di vista sociale, a un errore maggiore di quello che si cerca di correggere, giacché sarebbe senz’altro più grave che la donna abbandonasse il lavoro di casa.
Nemmeno sul piano personale si può affermare, in modo unilaterale, che la donna può raggiungere la propria perfezione solo al di fuori della famiglia: come se il tempo che essa dedica alla famiglia fosse tempo rubato allo sviluppo ed alla maturità della sua personalità.
Il focolare – qualunque esso sia, poiché anche la donna non sposata deve avere un focolare – è un àmbito particolarmente propizio per lo sviluppo della personalità. Il maggior motivo di dignità della donna sarà sempre costituito dalle cura prestate alla famiglia; con la sollecitudine verso il marito e i figli o, per parlare in termini più generali, con il proprio impegno per creare intorno a sé un ambiente accogliente e formativo, la donna realizza l’aspetto più insostituibile della sua missione, e in conseguenza può raggiungere proprio lì la sua personale perfezione.
Come ho già detto, questo non si oppone ad altri aspetti della vita sociale, compresa la politica, per esempio. Anche in questi settori, la donna – come persona, e con le caratteristiche proprie della sua femminilità – può apportare un valido contributo; e ci riesce nella misura in cui è preparata da un punto di vista umano e professionale. Tanto la famiglia, infatti, quanto la società, hanno bisogno del suo speciale contributo, che non è affatto secondario.
Sviluppo, maturità, emancipazione della donna non devono significare una pretesa di uguaglianza – di uniformità – nei riguardi dell’uomo, una “imitazione” dei modelli maschili: ciò per la donna non sarebbe una conquista, ma piuttosto una perdita, e non perché essa valga di più o di meno dell’uomo, ma perché è diversa.
Sotto il profilo essenziale – che deve avere un riconoscimento giuridico sia civile che ecclesiastico – si può certamente parlare di “uguaglianza di diritti”, perché la donna ha allo stesso modo dell’uomo la dignità di persona e di figlia di Dio. Ma da questa base di uguaglianza fondamentale, ognuno deve mirare a ciò che gli è proprio; l’emancipazione viene quindi a significare per la donna la possibilità reale di sviluppare pienamente le proprie virtualità: quelle che essa possiede nella sua singolarità, e quelle che ha in quanto donna.
L’uguaglianza di fronte al diritto, la parità davanti alla legge, non sopprimono ma anzi presuppongono e promuovono tale diversità, che è poi ricchezza per tutti.
La donna è chiamata ad apportare alla famiglia, alla società civile, alla Chiesa, qualche cosa di caratteristico che le è proprio e che solo lei può dare: la sua delicata tenerezza, la sua instancabile generosità, il suo amore per la concretezza, il suo estro, la sua capacità di intuizione, la sua pietà profonda e semplice, la sua tenacia… La femminilità non è autentica se non sa cogliere la bellezza di questo insostituibile apporto e non ne fa vita della propria vita.
Per compiere questa missione la donna deve sviluppare la propria personalità, senza lasciarsi trasportare da un ingenuo spirito di imitazione che finirebbe quasi sempre per collocarla in una situazione di inferiorità e mortificherebbe le sue possibilità più originali.
Se si forma bene, con autonomia personale, con autenticità, essa realizzerà efficacemente la sua opera, la missione a cui si sente chiamata, qualunque essa sia: la sua vita, il suo lavoro, saranno veramente costruttivi e fecondi, ricchi di significato, sia che trascorra le proprie giornate dedita al marito e ai figli, sia che, avendo rinunciato al matrimonio per nobili motivi, essa abbia deciso di dedicarsi interamente ad altri compiti.
Ciascuna per la propria strada, fedele alla sua vocazione umana e divina, può realizzare, come di fatto avviene, la personalità femminile in tutta la sua pienezza. Non dimentichiamo che la Madonna, Madre di Dio e Madre degli uomini, non solo è un modello, ma anche la prova del valore trascendentale che può assumere una vita apparentemente irrilevante.
D – Talvolta, però, la donna non si sente certa di trovarsi veramente al posto che le spetta, al posto cui è chiamata. Molto spesso, quando lavora fuori, pesano su di lei le esigenze della casa; quando invece si dedica completamente alla famiglia, avverte una limitazione delle proprie possibilità. Lei che cosa direbbe alle donne che provano tali contraddizioni?
R – Tale sensazione – molto reale – deriva spesso, più che da vere e proprie limitazioni – che tutti abbiamo, perché siamo esseri umani – dalla mancanza di ideali ben determinati, tali da dar senso a una vita intera, o anche da inconsapevole superbia: a volte vorremmo essere i migliori in tutti i campi e a tutti i livelli.
E siccome ciò non è possibile, nasce uno stato di ansietà e di disorientamento o addirittura di tedio e di scoraggiamento: non si riesce a badare a tutto; non si sa a che dedicarsi e si finisce per non concludere nulla. In una simile situazione, l’anima rimane esposta all’invidia, l’immaginazione facilmente si sbriglia e cerca rifugio nella fantasticheria, che allontana dalla realtà e finisce con l’addormentare la volontà.
È ciò che spesso ho chiamato mistica del magari, fatta di vani sogni e di falsi idealismi: magari non mi fossi sposato, magari avessi un altro lavoro, magari avessi una salute migliore, o meno anni, o più tempo a disposizione!
Il rimedio (costoso, come qualsiasi cosa di valore) sta nel cercare il vero centro della vita umana, ciò che a tutto può dare il giusto posto, un ordine e un senso: il rapporto con Dio attraverso un’autentica vita interiore. Se vivendo in Cristo abbiamo in Lui il nostro centro, scopriamo il senso della missione affidataci, abbiamo un ideale umano che diviene divino, nuovi orizzonti e nuove speranze ci si aprono dinanzi, e arriviamo sino a sacrificare con gioia non già questo o quell’aspetto della nostra attività, ma la vita intera, dandole così, paradossalmente, il compimento più profondo.
Il problema che lei riscontra nella donna, non le è esclusivo: pur con circostanze diverse, molti uomini sperimentano talvolta una situazione analoga. La radice di solito è la stessa: mancanza di un profondo ideale, che si arriva a scoprire solo alla luce di Dio.
Comunque, occorre mettere in pratica anche dei piccoli rimedi, che sembrano banali, ma non lo sono affatto: se si hanno molte cose da fare, bisogna stabilire un ordine, organizzarsi. Molte delle difficoltà nascono dalla mancanza di ordine, dal non aver acquistato questa dote.
Ci sono donne che fanno mille cose, e tutte bene, perché hanno saputo organizzarsi, imponendo con energia un ordine all’abbondanza dei compiti. Hanno saputo badare in ogni occasione a ciò che dovevano fare in quel momento, senza frastornarsi col pensiero di ciò che sarebbe venuto poi o di ciò che forse avrebbero potuto fare prima. Altre invece si lasciano opprimere dal molto da fare, e così non fanno nulla.
Certo, ci saranno sempre molte donne che non avranno altra occupazione che quella di portare avanti la propria casa. Ebbene, vi dico che si tratta di una magnifica occupazione, e vale la pena dedicarvisi. Attraverso tale professione – perché lo è: vera e nobile – esercitano un positivo influsso non solo sulla famiglia, ma anche su moltissimi amici e conoscenti, su tante persone con cui in un modo o nell’altro vengono in contatto: esercitano un’influenza a volte molto più estesa di quella di altre professioni.
Non parliamo poi di quando pongono la loro esperienza e la loro scienza al servizio di centinaia di persone, in centri destinati alla formazione della donna, del tipo di quelli che dirigono le mie figlie dell’Opus Dei in tutti i Paesi del mondo. Allora diventano maestre della casa, con un’efficacia educativa, direi, superiore, a quella di molti docenti universitari.
D – Mi scusi, ma vorrei insistere sullo stesso tema. Da lettere che ci arrivano in redazione, sappiamo che alcune madri di famiglia numerose si lamentano di vedersi ridotte al compito di mettere figli al mondo, e sentono un’insoddisfazione molto grande perché non possono dedicarsi nella loro vita ad altre cose: lavoro professionale, cultura, impegno sociale. Che cosa consiglierebbe a queste persone?
R – Vediamo un po’. Che cosa è la dimensione sociale se non darsi agli altri, con senso di dedizione e di servizio, per contribuire con efficacia al bene di tutti? Il lavoro della donna nella propria casa non solo è di per sé una funzione sociale, ma può essere addirittura la funzione sociale di maggior rilievo.
Pensate a una famiglia numerosa: in essa l’importanza del lavoro di una madre può essere ben paragonata a quella degli educatori di professione, e sovente il confronto è a vantaggio delle donne. Un insegnante, durante una vita intera, riesce a formare così così un certo numero di ragazzi o di ragazze. Una madre invece può formare i suoi figli in profondità, negli aspetti più basilari, e può farli diventare, a loro volta, educatori, in modo da creare un’ininterrotta catena di responsabilità e di virtù.
Anche in questi temi è facile lasciarsi sedurre da un criterio meramente quantitativo, fino a pensare che è preferibile il lavoro dell’insegnante, per le cui aule passano migliaia di persone, o quello dello scrittore che si dirige a migliaia di lettori. In realtà, quello scrittore o quell’insegnante, quante persone formano realmente? Una madre si cura di tre, cinque, dieci o più figli; e può fare di loro una vera e propria opera d’arte, una meraviglia di educazione, di equilibrio, di comprensione, di senso cristiano della vita, in modo che siano felici e possano essere realmente utili agli altri.
D’altronde trovo naturale che i figli e le figlie aiutino nei lavori della casa: una madre che sappia preparare bene i figli, riesce a farsi aiutare, e così potrà disporre di più occasioni e di più tempo per coltivare – se ben utilizzato – interessi e talenti personali e arricchire la propria cultura.
Per fortuna oggi – come ben sapete – non mancano mezzi tecnici che risparmiano molto lavoro, se sono bene impiegati e si sa ricavarne il miglior profitto. Qui, come in tutte le cose, sono determinanti le condizioni personali: ci sono donne che hanno una lavatrice ultimo modello, eppure a lavare impiegano più tempo e lo fanno peggio di quando lo facevano a mano. Gli strumenti sono utili quando si sa adoperarli.
So di molte donne sposate e con parecchi figli, che governano ottimamente il loro focolare, e in più trovano il tempo per collaborare ad altre attività apostoliche, come quella coppia di sposi della cristianità primitiva, Aquila e Priscilla, che lavoravano sia in casa che nel loro mestiere, e furono inoltre degli splendidi collaboratori di san Paolo; con la loro parola e con l’esempio attrassero Apollo alla fede di Cristo, ed egli divenne poi un grande predicatore della Chiesa nascente.
Come ho già detto, buona parte dei limiti si possono superare senza trascurare nessun dovere, se davvero si vuole. In fondo c’è tempo per fare molte cose: per governare la casa con senso professionale, per dedicarsi costantemente agli altri, per elevare la propria cultura e arricchire quella altrui, per svolgere tanti compiti pieni di efficacia.
D – Lei ha accennato alla presenza della donna nella vita pubblica, nella politica. In questo campo si sono fatti in questi ultimi tempi dei notevoli passi avanti. A suo avviso, qual è il ruolo specifico che spetta alla donna in questo terreno?
R – La presenza della donna nel complesso della vita sociale è un fenomeno logico e completamente positivo, che fa parte del processo più ampio a cui mi riferivo prima. Una società moderna, democratica, deve riconoscere alla donna il diritto di prendere parte attiva alla vita politica, e deve creare le condizioni atte a favorire l’esercizio di questo diritto da parte di tutte coloro che desiderino farlo.
La donna che vuole dedicarsi attivamente alla gestione della cosa pubblica è tenuta a prepararsi come si deve, in modo che il suo operato nella vita della comunità sia responsabile e positivo. Qualsiasi lavoro professionale richiede una formazione previa e lo sforzo costante per elevare il livello di questa preparazione e per aggiornarla in rapporto alle circostanze sempre nuove.
Questa esigenza rappresenta un dovere del tutto speciale per coloro che aspirano a posti direttivi della società: essi infatti sono chiamati a svolgere un servizio della massima importanza, dal quale dipende il bene di tutti.
Una donna dotata della necessaria preparazione deve poter trovare aperti tutti gli sbocchi alla vita politica, a tutti i livelli. In questo senso, non si possono indicare alcune attività specifiche riservate solo alle donne.
Come dicevo prima, in questo terreno l’apporto specifico della donna non consiste tanto nell’attività o nel posto in sé, quanto nel modo di svolgere questa funzione, cioè nelle sfumature che la sua natura di donna saprà dare alle soluzioni dei problemi che si trova ad affrontare, e anche nel saper individuare e impostare in un certo modo questi problemi.
Grazie alle sue doti naturali, la donna può arricchire notevolmente la vita civile. Questa è una cosa evidente, soprattutto se pensiamo al vasto campo della legislazione famigliare e sociale. Le doti femminili costituiranno la migliore garanzia che saranno rispettati gli autentici valori umani e cristiani al momento di prendere delle misure che interessano in qualche modo la vita della famiglia, l’ambiente educativo, l’avvenire dei giovani.
Ho accennato al ruolo dei valori cristiani nella soluzione dei problemi sociali e famigliari: vorrei ora sottolineare la loro importanza in tutta la vita pubblica. Quando una donna deve occuparsi di questioni politiche, la fede cristiana dà a lei come all’uomo la responsabilità di realizzare un autentico apostolato, cioè un servizio cristiano a tutta la società.
Non si tratta di rappresentare ufficialmente o ufficiosamente la Chiesa nella vita pubblica, e meno ancora di servirsi della Chiesa a vantaggio della propria carriera o per interessi di parte. Si tratta invece di formarsi liberamente un’opinione su tutti i problemi temporali nei quali i cristiani sono liberi, e di assumersi personalmente la responsabilità del proprio pensiero e del proprio operato, che dovranno comunque essere sempre coerenti con la fede che si professa.
D – Nell’omelia pronunziata a Pamplona lo scorso mese di ottobre, durante la santa Messa celebrata per l’assemblea degli Amici dell’Università di Navarra, lei parlò dell’amore umano con parole commoventi. Molte lettrici ci hanno scritto dell’emozione che provarono nel sentirla parlare così. Ci direbbe ora quali sono i valori più importanti del matrimonio cristiano?
R – È materia che conosco bene, per mia diretta esperienza sacerdotale di molti anni e in molti Paesi. La maggioranza dei soci dell’Opus Dei vive nello stato matrimoniale; per loro l’amore umano e i doveri coniugali sono parte della vocazione divina. L’Opus Dei ha fatto del matrimonio un cammino divino, una vocazione, e ciò comporta molte conseguenze riguardanti la santificazione personale e l’apostolato.
Da quasi quarant’anni predico il significato vocazionale del matrimonio. Quante volte ho visto illuminarsi il volto di tanti, uomini e donne, che credendo inconciliabili nella loro vita la dedizione a Dio e un amore umano nobile e puro, mi sentivano dire che il matrimonio è una strada divina sulla terra!
Il matrimonio è fatto perché quelli che lo contraggono vi si santifichino e santifichino gli altri per mezzo di esso: perciò i coniugi hanno una grazia speciale, che viene conferita dal sacramento istituito da Gesù Cristo. Chi è chiamato allo stato matrimoniale, trova in esso, con la grazia di Dio, tutti i mezzi necessari per essere santo, per identificarsi ogni giorno di più con Gesù e per condurre verso il Signore le persone con cui vive.
È per questo che penso sempre con speranza e affetto ai focolari cristiani, a tutte le famiglie sbocciate dal sacramento del matrimonio, che sono luminose testimonianze del grande mistero divino – sacramentum magnum (Ef 5, 32), sacramento grande – dell’unione e dell’amore fra Cristo e la sua Chiesa.
Dobbiamo adoperarci perché queste cellule cristiane della società nascano e crescano con desiderio di santità, coscienti che il sacramento iniziale – il Battesimo – conferisce già a tutti i cristiani una missione divina, che ciascuno deve portare a compimento lungo il suo cammino.
Gli sposi cristiani devono avere la consapevolezza di essere chiamati a santificarsi santificando, cioè a essere apostoli; e che il loro primo apostolato si deve realizzare nella loro casa. Devono capire l’opera soprannaturale che è insita nella creazione di una famiglia, nell’educazione dei figli, nell’irradiazione cristiana nella società. Dalla consapevolezza della propria missione dipende gran parte dell’efficacia e del successo della loro vita: la loro felicità.
Non devono però dimenticare che il segreto della felicità coniugale è racchiuso nelle cose quotidiane, e non in fantasticherie. Consiste nello scoprire la gioia intima del ritorno al focolare, nell’incontro affettuoso coi figli; nel lavoro di ogni giorno a cui collabora tutta la famiglia; nel buon umore dinanzi alle difficoltà, che vanno affrontate con spirito sportivo; e anche nel saper approfittare di tutti i progressi offertici dalla civiltà per rendere la casa accogliente, la vita più semplice, la formazione più efficace.
Ripeto insistentemente a quanti sono stati chiamati da Dio a formare una famiglia di amarsi sempre; di amarsi con l’amore appassionato di quand’erano fidanzati. Ha un povero concetto del matrimonio – che è un sacramento, un ideale e una vocazione – colui che pensa che l’amore finisca quando iniziano le pene e i contrattempi che la vita porta sempre con sé.
È proprio allora che il legame d’affetto si rafforza. La piena delle tribolazioni e delle contrarietà non è capace di spegnere il vero amore: il sacrificio generosamente condiviso rafforza l’unione. Come dice la Bibbia, aquae multae – le molte difficoltà, fisiche e morali – non potuerunt extinguere caritatem (Ct 8, 7), non hanno potuto spegnere l’amore.
D – Sappiamo che la sua dottrina sul matrimonio come cammino di santità non è nuova nella sua predicazione. Già dal 1934, in Consideraciones espirituales, lei insisteva sulla necessità di vedere il matrimonio come una vocazione. Però, sia in questo libro che in Cammino, lei scrisse anche che il matrimonio è per “i soldati” e non per lo “stato maggiore” di Cristo. Ci spiegherebbe come si conciliano i due aspetti?
R – Nello spirito e nella vita dell’Opus Dei non c’è mai stata nessuna difficoltà per conciliare questi due aspetti. D’altronde, è bene ricordare che la maggiore eccellenza del celibato – quello fondato su motivi spirituali – non è una mia opinione teologica, bensì dottrina di fede della Chiesa.
Quando verso gli anni trenta scrivevo quelle frasi, nell’ambiente cattolico – nella vita pastorale concreta – si tendeva a promuovere la ricerca della perfezione cristiana nella gioventù facendo apprezzare solo il valore soprannaturale della verginità, e lasciando in ombra il valore del matrimonio cristiano come cammino di santità.
Normalmente nelle scuole cattoliche non si era soliti formare i giovani ad apprezzare adeguatamente la dignità del matrimonio. Anche oggi è frequente che negli esercizi spirituali che si danno agli alunni degli ultimi anni, vengano proposti molti più elementi per considerare una possibile vocazione religiosa, piuttosto che quelli dell’altrettanto possibile orientamento al matrimonio.
E non mancano coloro – in numero, fortunatamente, sempre minore – che screditano la vita coniugale, presentandola ai giovani come qualcosa che la Chiesa si limita a tollerare, come se la formazione di una famiglia non permettesse di aspirare seriamente alla santità.
Nell’Opus Dei ci siamo sempre comportati in un altro modo, e – mettendo ben in chiaro la ragion d’essere e l’eccellenza del celibato apostolico – abbiamo indicato il matrimonio come un cammino divino sulla terra.
Non mi spaventa l’amore umano, l’amore santo dei miei genitori, di cui il Signore si valse per darmi la vita. Quell’amore io lo benedico con tutte e due le mani. I coniugi sono i ministri e la materia stessa del sacramento del matrimonio, come il pane e il vino sono la materia dell’Eucaristia.
Per questo mi piacciono tutte le canzoni che parlano dell’amore puro degli uomini: per me sono canti d’amore umano che innalzano al divino. Allo stesso tempo, dico sempre che quelli che seguono la vocazione al celibato apostolico non sono degli scapoloni che non comprendono e non apprezzano l’amore, tutt’altro: la spiegazione della loro vita sta nella realtà di quell’Amore divino – mi piace scriverlo con la maiuscola – che è l’essenza stessa di ogni vocazione cristiana.
Non c’è nessuna contraddizione fra apprezzare la vocazione matrimoniale e comprendere la maggior eccellenza della vocazione al celibato propter regnum coelorum (Mt 19, 12). Sono convinto che qualsiasi cristiano capisce perfettamente che queste due cose sono compatibili, se fa in modo di conoscere, accettare e amare l’insegnamento della Chiesa, e se cerca anche di conoscere, accettare e amare la propria vocazione personale. Vale a dire: se ha fede e vive i fede.
Quando scrivevo che il matrimonio è per i soldati non facevo altro che descrivere ciò che è sempre stato nella Chiesa. Sapete che i Vescovi – che formano il Collegio Episcopale, che hanno il Papa come capo e governano con lui tutta la Chiesa – sono scelti fra coloro che vivono il celibato; questo vale anche per le Chiese orientali, dove sono ammessi i presbiteri sposati. Inoltre è facile capire e verificare che i celibi godono di fatto una maggior libertà di cuore e di movimento per dedicarsi stabilmente a dirigere e sostenere attività apostoliche, e questo è vero anche nell’apostolato dei laici.
Ciò non vuol dire che gli altri laici non possano svolgere o non svolgano di fatto un apostolato meraviglioso e di primaria importanza: vuole solo dire che esistono diverse funzioni, diversi compiti in posti di diversa responsabilità.
In battaglia – il mio paragone voleva significare solo questo – i soldati non sono meno necessari dello stato maggiore, e possono essere più eroici e meritare più gloria. Insomma: ci sono compiti diversi, e tutti sono importanti e nobili. Quello che importa è soprattutto la corrispondenza di ciascuno alla propria vocazione: per ognuno ciò che è più perfetto è – sempre e solo – compiere la volontà di Dio.
Quindi, un cristiano che si impegna per santificarsi nello stato matrimoniale ed è consapevole della grandezza della propria vocazione, sente spontaneamente una particolare venerazione e un profondo affetto verso quanti sono chiamati al celibato apostolico; e quando, per grazia di Dio, qualcuno dei suoi figli intraprende questo cammino, egli ne prova sincera gioia. E giunge ad amare ancora di più la propria vocazione matrimoniale, che gli ha permesso di offrire a Cristo – il grande Amore di tutti, celibi o sposati – i frutti dell’amore umano.
D – Molti coniugi si sentono disorientati dai consigli che ricevono, perfino da alcuni sacerdoti, in rapporto al numero dei figli. Che cosa consiglierebbe lei a questi sposi, di fronte a tanta confusione?
R – Quanti confondono in questo modo le coscienze, dimenticano che la vita è sacra, e si rendono meritevoli dei duri rimproveri del Signore contro i ciechi che guidano altri ciechi, contro quelli che non vogliono entrare nel Regno dei cieli e non vi lasciano entrare nemmeno gli altri.
Non giudico le loro intenzioni; anzi, sono convinto che molti danno simili consigli spinti dalla compassione e dal desiderio di risolvere situazioni difficili: ma non posso nascondere che mi causa profondo dolore l’opera distruttrice – diabolica, in molti casi – di quanti non solo non trasmettono la buona dottrina, ma addirittura la corrompono.
Gli sposi, quando ricevono consigli e raccomandazioni in materia, non dimentichino che l’importante è di conoscere quello che vuole Dio.
Quando vi è sincerità – rettitudine – e un minimo di formazione cristiana, la coscienza sa scoprire la volontà di Dio, qui come in tutte le altre cose. Può infatti succedere che si stia cercando un consiglio che favorisca il proprio egoismo, che metta a tacere, con la forza di una presunta autorità, la voce della propria anima; e addirittura che si vada passando da un consigliere all’altro fino a trovare il più “benevolo”. Questo, fra l’altro è un atteggiamento farisaico indegno di un figlio di Dio.
Il consiglio di un altro cristiano e in particolare nei problemi di morale o di fede, il consiglio del sacerdote, sono un valido aiuto per riconoscere quello che Dio ci chiede in una determinata circostanza; ma il consiglio non elimina la responsabilità personale: siamo noi, singolarmente, a dover decidere, e dovremo rendere personalmente conto a Dio delle nostre decisioni.
Al di sopra dei consigli privati c’è la legge di Dio, contenuta nella Sacra Scrittura, e che il Magistero della Chiesa custodisce e propone con l’assistenza dello Spirito Santo. Quando i consigli di una persona contraddicono la Parola di Dio, quale viene insegnata nel Magistero, bisogna scostarsi con decisione da quei pareri erronei.
Dio aiuterà con la sua grazia colui che agisce con una simile rettitudine, ispirandogli quello che deve fare e, qualora ne abbia bisogno, facendogli trovare un sacerdote capace di condurre la sua anima attraverso sentieri retti e puliti, anche se spesso difficili.
Non bisogna impostare la direzione spirituale dedicandosi a fabbricare delle creature prive del proprio giudizio e che si limitano a eseguire materialmente ciò che un altro dice loro; la direzione spirituale invece deve tendere a formare persone di criterio. E il criterio implica maturità, fermezza nelle proprie convinzioni, sufficiente conoscenza della dottrina, delicatezza di spirito, educazione della volontà.
È importante che gli sposi acquistino un chiaro senso della dignità della loro vocazione; che sappiano di esser stati chiamati da Dio a raggiungere l’amore divino attraverso l’amore umano; che sono stati scelti, fin dall’eternità, per cooperare con il potere creatore di Dio nella procreazione e poi nell’educazione dei figli; che il Signore chiede che facciano della loro casa e della loro vita di famiglia una testimonianza di tutte le virtù cristiane.
Il matrimonio – non mi stancherò mai di ripeterlo – è un cammino divino, grande e meraviglioso; e come tutto ciò che abbiamo di divino in noi, ha manifestazioni concrete di corrispondenza alla grazia, di generosità, di donazione, di servizio. L’egoismo in ciascuna delle sue forme, si oppone all’amore di Dio che deve dominare nella nostra vita. Questo è un punto fondamentale, che dev’essere tenuto ben presente a proposito del matrimonio e del numero dei figli.
D – Ci sono donne che, avendo già un certo numero di figli, non osano comunicare ai parenti e agli amici l’arrivo di un altro bambino. Temono le critiche di quelli che pensano che, dal momento che esiste la “pillola”, la famiglia numerosa è sorpassata. È chiaro che oggigiorno può essere difficile tirar su una famiglia con parecchi figli. Che cosa ci può dire al riguardo?
R – Io benedico quei genitori che, ricevendo con gioia la missione che Dio ha loro affidata, hanno molti figli. E invito gli sposi a non inaridire le sorgenti della vita, ad aver senso soprannaturale e coraggio per far crescere una famiglia numerosa, se Dio la concede.
Quando esalto la famiglia numerosa, non mi riferisco a quella che è conseguenza di mere relazioni fisiologiche; mi riferisco alla famiglia che nasce dall’esercizio delle virtù cristiane, che ha un senso elevato della dignità della persona e sa che dare figli a Dio non vuol dire soltanto metterli al mondo, ma richiede anche tutto un lungo lavoro di educazione: dar loro la vita è la prima cosa, ma non è tutto.
Ci possono essere dei casi concreti in cui è volontà di Dio – manifestata attraverso mezzi ordinari – che una famiglia sia piccola. Ma sono criminali, anticristiane e infraumane tutte le teorie che fanno della limitazione delle nascite un ideale o un dovere universale o semplicemente generale.
Non è altro che contraffare e pervertire la dottrina cristiana far leva su di un preteso spirito post-conciliare per attaccare la famiglia numerosa. Il Concilio Vaticano II ha proclamato che “tra i coniugi che soddisfano alla missione loro affidata da Dio, sono da ricordare in modo particolare quelli che, con decisione prudente e di comune accordo, accettano con grande animo anche un più gran numero di figli da educare convenientemente” (Cost. past. Gaudium et spes, n. 50).
Paolo VI, poi, in un’allocuzione del 12 febbraio 1966, commentava: “Che il Concilio Vaticano II appena concluso diffonda tra gli sposi cristiani questo spirito di generosità per dilatare il nuovo Popolo di Dio… Ricordiamo sempre che la dilatazione del Regno di Dio e la possibilità di penetrazione della Chiesa nell’umanità, per la sua salvezza eterna e terrena, è affidata anche alla loro generosità”.
In sé, il numero dei figli non è decisivo: averne molti o pochi non basta perché una famiglia sia più o meno cristiana. Ciò che conta è la rettitudine con cui si vive la vita matrimoniale. Il vero amore reciproco trascende la comunione di vita tra marito e moglie, e si estende ai suoi frutti naturali, i figli.
Invece l’egoismo finisce per degradare questo amore al livello della semplice soddisfazione dell’istinto, e distrugge il rapporto che unisce genitori e figli. È difficile sentirsi buon figlio – vero figlio – dei propri genitori quando si possa pensare di essere venuto al mondo contro la loro volontà, cioè di essere nato non da un amore degno di questo nome, ma da un imprevisto o da un errore di calcolo.
Dicevo che in sé il numero dei figli non è determinante. Tuttavia vedo con chiarezza che gli attacchi alle famiglie numerose provengono dalla mancanza di fede: sono il prodotto di un ambiente sociale incapace di comprendere la generosità, e che pretende di nascondere il proprio egoismo e certe pratiche inconfessabili con motivazioni apparentemente altruiste.
E così, paradossalmente, i Paesi dove si fa più propaganda del controllo delle nascite, e dai quali tale pratica viene imposta ad altri Paesi, sono proprio quelli che hanno raggiunto un più alto tenore di vita. Si potrebbero forse considerare seriamente i loro argomenti di natura economica e sociale, qualora tali argomenti li muovessero a rinunziare a una parte dei beni opulenti di cui godono, a favore dei bisognosi.
Ma finché questo non avviene, è difficile non pensare che in realtà i veri moventi di tali argomentazioni sono l’edonismo e l’ambizione di dominio politico, il neocolonialismo demografico.
Non ignoro i grandi problemi che tormentano l’umanità, né le concrete difficoltà in cui può imbattersi una determinata famiglia; vi penso anzi con frequenza, e mi si riempie di pietà quel cuore di padre che come cristiano e come sacerdote sono obbligato ad avere. Ma non è lecito cercare la soluzione per simili vie.
Non capisco come possano esserci cattolici – o addirittura sacerdoti – che da anni consigliano, con coscienza tranquilla, l’uso della pillola per evitare la concezione. Non si possono ignorare gli insegnamenti pontifici con tanta leggerezza. Né si può addurre a pretesto – come fanno costoro, con incredibile superficialità – che il Papa quando non parla ex cathedra è un semplice “dottore privato” soggetto all’errore. Ci vuole proprio una smisurata arroganza per pensare che il Papa si sbagli e loro no!
Oltretutto, costoro dimenticano che il Romano Pontefice non è solo un dottore – infallibile, quando espressamente lo dice -, ma anche il supremo legislatore. E nel caso in questione, ciò che in termini inequivocabili ha deciso l’attuale pontefice Paolo VI è che si devono seguire obbligatoriamente, in questo campo così delicato, tutte le disposizioni del santo pontefice Pio XII, di venerata memoria, perché continuano ad essere vigenti; e Pio XII si limitò a permettere certi accorgimenti naturali – non una pillola – per evitare la concezione in casi isolati e ardui. Consigliare il contrario è dunque una disobbedienza grave al Santo Padre, e in materia grave.
Potrei scrivere un grosso libro sulle tristi conseguenze che l’uso dell’uno o dell’altro dei vari anticoncettivi comporta in ogni campo: distruzione dell’amore coniugale – marito e moglie non si guardano come sposi, ma come complici -, infelicità, infedeltà, squilibri spirituali e mentali, innumerevoli danni per i figli, perdita della pace del matrimonio…
Ma non lo ritengo necessario: preferisco limitarmi a obbedire al Papa. Se un giorno il Sommo Pontefice decidesse che per evitare la concezione è lecito l’uso di una certa medicina, io agirei in conformità alle parole del Santo Padre: attenendomi alle norme pontificie e a quelle della teologia morale, prenderei in considerazione, caso per caso, gli evidenti pericoli cui accennavo, e darei a ciascuno in coscienza il mio consiglio.
In ogni modo terrei sempre conto che questo nostro mondo di oggi lo salveranno non coloro che pretendono di narcotizzare la vita dello spirito e ridurre tutto a questioni economiche o di benessere materiale; ma quelli che sanno che la norma morale è in funzione del destino eterno dell’uomo: quelli cioè che hanno fede in Dio e ne accettano generosamente le esigenze, diffondendo in coloro che li circondano il senso trascendente della nostra vita sulla terra.
Questa certezza di fede porta non già a incoraggiare l’evasione, ma a procurare efficacemente che tutti abbiano i necessari mezzi materiali, che per tutti ci sia lavoro, che nessuno si veda ingiustamente limitato nella propria vita famigliare e sociale.
D – L’infecondità matrimoniale, per la frustrazione che può provocare, talvolta è fonte di discordia e di incomprensione. A suo giudizio, qual è il senso che devono dare alla loro unione gli sposi cristiani che non hanno prole?
R – In primo luogo direi loro che non devono darsi per vinti con troppa facilità: per prima cosa, bisogna che implorino Dio di concedere loro discendenza, di benedirli – se questa è la sua volontà – come benedisse i Patriarchi del Vecchio Testamento; e poi è bene ricorrere a un buon medico, sia lei che lui.
Se, nonostante tutto, il Signore non dà loro dei figli, non devono vedere in questo alcuna frustrazione: devono essere contenti di scoprire in questo stesso fatto la volontà di Dio nei loro confronti. Molte volte il Signore non dà figli perché “chiede di più”. Chiede che lo stesso sforzo e la stessa delicata dedizione vengano posti al servizio del nostro prossimo, senza la legittima soddisfazione umana d’aver avuto figli: non c’è quindi motivo per sentirsi falliti e tristi.
Se i coniugi hanno vita interiore, comprenderanno che Dio li spinge a fare della loro vita un generoso servizio cristiano, un apostolato che è diverso da quello che realizzerebbero coi loro figli, ma altrettanto meraviglioso.
Si guardino intorno: scopriranno immediatamente persone che hanno bisogno di aiuto, di carità e di affetto. E poi ci sono mille iniziative apostoliche in cui possono lavorare. Se sono capaci di dedicarsi con tutto il cuore a questo compito, donandosi agli altri con generosità e dimenticando sé stessi, avranno una splendida fecondità, una paternità spirituale che colmerà la loro anima di autentica pace.
Le soluzioni concrete saranno diverse in ogni singolo caso, ma in fondo tutte si riducono a occuparsi degli altri con desiderio di servizio, con amore. Dio premia sempre con una gioia profonda la generosa umiltà di chi sa non pensare a sé stesso.
D – Ci sono casi in cui la moglie – per una ragione o per l’altra – è separata dal marito, in situazioni degradanti ed insostenibili. Sono casi in cui è difficile accettare l’indissolubilità del vincolo coniugale. Queste donne separate dal marito si lamentano che si neghi loro la possibilità di costruirsi un nuovo focolare. Qual è la sua risposta in casi del genere?
R – Direi loro, con piena comprensione della loro sofferenza, che anche in questa situazione esse possono vedere la volontà di Dio, che non è mai crudele, perché Dio è un Padre amoroso. Può darsi che per un certo tempo la situazione sia particolarmente dura, ma, se ricorrono al Signore e alla sua Madre benedetta, non mancherà l’aiuto della grazia.
L’indissolubilità del matrimonio non è un capriccio della Chiesa, e neppure una semplice legge ecclesiastica positiva: è un precetto della legge naturale e del diritto divino, e risponde perfettamente alla nostra natura e all’ordine soprannaturale della grazia.
Per questo, nella stragrande maggioranza dei casi, l’indissolubilità è condizione indispensabile per la felicità dei coniugi e per la sicurezza anche spirituale dei figli. In ogni caso – pure quando si diano le circostanze dolorose di cui parliamo -, la docile accettazione della Volontà di Dio porta con sé una soddisfazione profonda, insostituibile. Non si tratta di una specie di ripiego, di una ricerca di consolazione: è la stessa essenza della vita cristiana.
Se queste donne hanno dei figli a loro carico, devono vedere in questo fatto una continua richiesta di amorosa e materna dedizione, più che mai necessaria per sopperire in queste creature alle deficienze di un focolare diviso. Devono anche capire, con generosità, che quella stessa indissolubilità che per loro comporta un sacrificio, è per la maggior parte delle famiglie la salvaguardia della loro integrità, un qualcosa che nobilita l’amore degli sposi e impedisce che i figli si trovino nell’abbandono.
Lo stupore di fronte all’apparente durezza del precetto cristiano dell’indissolubilità non è una novità: gli stessi Apostoli si meravigliarono quando Gesù ne diede loro conferma. Può apparire un peso, un giogo; ma proprio Cristo ha detto che il suo giogo è soave e il suo peso è leggero.
D’altronde, pur riconoscendo l’inevitabile durezza di parecchie situazioni – che in non pochi casi si sarebbero potute e dovute evitare -, non bisogna drammatizzare eccessivamente. La vita di una donna in queste condizioni è veramente più dura di quella di una donna maltrattata, o di quella di chi deve sopportare qualcuna delle grandi sofferenze fisiche o morali che la vita comporta?
Ciò che veramente rende infelice una persona – o un’intera società – è l’affannosa ricerca del benessere, la pretesa di eliminare a ogni costo qualsiasi contrarietà. La vita presenta mille aspetti diversi, situazioni svariatissime, difficili alcune, altre facili forse solo in apparenza.
Ciascuna di esse porta con sé un seme di grazia, una chiamata di Dio unica: sono occasioni irripetibili di operare e di offrire la testimonianza divina della carità. A chi sente il peso di una situazione difficile, io consiglierei anche di provare a dimenticare un po’ i suoi problemi e preoccuparsi di quelli degli altri: così,facendo avrà più pace e, soprattutto, si santificherà.
D – Uno dei beni fondamentali della famiglia consiste in una stabile pace domestica. Purtroppo però non è raro che motivi di carattere politico o sociale seminino la divisione in una famiglia. Come pensa che si possano superare questi conflitti?
R – La mia risposta non può essere che una: convivere, comprendere, scusare. Il fatto che uno la pensi in maniera diversa dalla mia – specie quando si tratta di cose che sono oggetto di libera opinione – non può assolutamente giustificare un contegno ostile, e neppure freddo o indifferente. La mia fede cristiana mi dice che la carità va vissuta con tutti, anche con coloro che non hanno la grazia di credere in Gesù Cristo.
Figuratevi dunque se non si deve vivere la carità quando, uniti da un medesimo sangue e da una medesima fede, si diverge in cose opinabili! Dirò di più: dato che in questo terreno nessuno può pretendere di essere in possesso della verità assoluta, un reciproco rapporto affettuoso è un buon sistema per imparare dagli altri quello che essi ci possono insegnare; e per fare sì che gli altri, se vogliono, imparino a loro volta qualcosa da quanti vivono con loro. E sempre c’è un “qualcosa”.
Non è cristiano e neppure umano che una famiglia si divida per questioni del genere. Quando si capisce fino in fondo il valore della libertà, quando si ama appassionatamente questo dono divino, si ama il pluralismo che la libertà necessariamente comporta.
Posso addurre l’esempio di ciò che avviene nell’Opus Dei, che è una grande famiglia di persone unite da un medesimo fine spirituale. In tutto ciò che non è di fede, ognuno pensa e agisce come vuole, con pienissima libertà e con pienissima responsabilità personale.
Il pluralismo, che è la conseguenza logica e sociologica di questo fatto, non costituisce in modo alcuno un problema per l’Opera: anzi, tale pluralismo è una manifestazione di buono spirito. Appunto perché il pluralismo non è temuto, ma amato come legittima conseguenza della libertà personale, le diverse opinioni dei soci non impediscono nell’Opus Dei la massima carità nei rapporti reciproci e la mutua comprensione. Libertà e carità: non è per caso che il discorso ci riporta sempre a questi due princìpi. Si tratta infatti di due condizioni essenziali: vivere con la libertà che Cristo ci ha conquistato, e vivere la carità che Egli ci ha dato come comandamento nuovo.
D – Lei ha accennato al grande valore dell’unità famigliare, e questo mi dà lo spunto per un’altra domanda: come mai l’Opus Dei non organizza attività di formazione spirituale in cui partecipino insieme marito e moglie?
R – In questa come in tante altre cose, noi cristiani abbiamo la possibilità di scegliere fra soluzioni diverse, secondo le preferenze e i criteri di ciascuno; nessuno può pretendere di imporci un metodo unico. Bisogna rifuggire, come dalla peste, da certi modi di impostare la pastorale e in generale l’apostolato, che sembrano una nuova edizione, riveduta e accresciuta, del partito unico nella vita religiosa.
So dell’esistenza di gruppi cattolici che organizzano ritiri, spirituali e altre attività di formazione per coppie di sposi. Benissimo: usando della loro libertà, facciano quello che ritengono più opportuno; e vadano pure a queste riunioni quanti trovano in esse un mezzo che li aiuta a vivere meglio la loro vocazione cristiana. Ma ritengo che questa non sia l’unica possibilità, e neppure è cosa scontata che si tratti della migliore.
Ci sono molti aspetti della vita ecclesiale che gli sposi, o anche tutta la famiglia, possono e a volte devono vivere insieme, come per esempio la partecipazione al sacrificio eucaristico e ad altri atti di culto.
Penso però che certe attività di formazione spirituale riescono più efficaci quando marito e moglie vi assistono separatamente; da un lato, si sottolinea meglio il carattere essenzialmente personale della santificazione, della lotta ascetica, dell’unione con Dio, cose tutte che riverberano sugli altri, ma in cui la coscienza di ciascuno non può essere sostituita; dall’altro lato è più facile adattare la formazione alle esigenze e alle necessità personali di ciascuno e anche alle diverse psicologie.
Ciò non vuol dire che in queste attività si prescinda dallo stato matrimoniale dei partecipanti: niente di più lontano dallo spirito dell’Opus Dei.
Sono ormai quarant’anni che a voce e per iscritto, dico che ogni uomo, ogni donna, deve santificarsi nella sua vita ordinaria, nelle condizioni concrete della sua esistenza quotidiana; e che pertanto gli sposi devono santificarsi vivendo con perfezione i loro obblighi famigliari. Nei ritiri spirituali e nelle altre attività di formazione organizzate dall’Opus Dei a cui prendono parte persone sposate, si cerca sempre di fare in modo che esse prendano coscienza della dignità della propria vocazione matrimoniale, e si preparino, con l’aiuto di Dio, a viverla meglio.
In molti aspetti, le esigenze e le manifestazioni pratiche dell’amore coniugale sono diverse per l’uomo e per la donna. Con mezzi di formazione specifici li si può aiutare efficacemente a scoprire tali aspetti nella realtà della loro vita. La separazione per alcune ore o per qualche giorno li induce quindi a essere più uniti e ad amarsi di più e meglio per tutto il resto del tempo: con un amore pieno anche di rispetto.
Torno a ripetere che non abbiamo la pretesa che il nostro modo di agire sia l’unico valido e che tutti lo debbano adottare. Mi pare solo che dia ottimi risultati e che ci siano ragioni solide – oltre a una lunga esperienza – che consigliano di fare cosi; ma non mi oppongo all’opinione contraria.
D’altronde se nell’Opus Dei si segue questo criterio per determinate iniziative di formazione spirituale, per altre e svariate attività le coppie di sposi partecipano e collaborano assieme. Si pensi, per esempio, all’apostolato che si fa con i genitori degli alunni delle scuole dirette da soci del- l’Opus Dei; o alle riunioni, conferenze, tridui, ecc. dedicati in particolare ai genitori degli studenti ospiti nelle Residenze dirette dall’Opera.
Come vede, quando il carattere dell’iniziativa lo richiede, marito e moglie vi partecipano assieme. Ma questo tipo di attività è diverso da quello che mira direttamente alla formazione spirituale personale.
D – Continuando il discorso sulla vita famigliare, vorrei ora farle una domanda sull’educazione dei figli e i rapporti fra genitori e figli. Il mutamento della situazione famigliare ai nostri giorni conduce, a volte, a sperimentare una certa difficoltà nel comprendersi, e può addirittura nascere l’incomprensione, verificandosi così il cosiddetto “conflitto di generazioni”. Come lo si può superare?
R – Il problema è vecchio, anche se oggi lo si costata forse con maggiore frequenza o in modo più acuto, dato il rapido ritmo di evoluzione che caratterizza la società attuale. È perfettamente comprensibile e naturale che i giovani e gli adulti vedano le cose in maniera diversa: è successo sempre così. Ci sarebbe da meravigliarsi, semmai, che un adolescente ragioni come un adulto.
Tutti abbiamo provato moti di ribellione nei riguardi degli adulti, quando cominciavamo a formarci autonomamente un criterio; e tutti, man mano che passavano gli anni, abbiamo anche capito che i nostri genitori avevano ragione in tante cose, frutto della loro esperienza e del loro affetto. Spetta pertanto innanzitutto ai genitori – che hanno già attraversato l’età difficile – favorire la comprensione, con flessibilità, con prontezza di spirito, evitando con un amore intelligente ogni possibile conflitto.
Consiglio sempre i genitori di cercare di farsi amici dei loro figli. Si può sempre armonizzare l’autorità paterna, necessaria all’educazione, con un sentimento di amicizia che porta a mettersi in qualche modo allo stesso livello dei figli.
I ragazzi – anche quelli che sembrano meno docili e affezionati – desiderano sempre in cuor loro questa vicinanza, questa fraternità con i genitori. Il segreto del successo è sempre la fiducia: che i genitori sappiano educare in un clima di famigliarità, senza mai dare un’impressione di sfiducia; sappiano concedere la giusta libertà e insegnino ad amministrarla con responsabile autonomia.
È preferibile che qualche volta si lascino ingannare: la fiducia data ai figli fa sì che essi stessi provino vergogna di averne abusato e si correggano; se invece non hanno libertà, se vedono che non c’è fiducia in loro, si sentiranno spinti ad agire sempre con sotterfugi.
L’amicizia di cui parlo – il sapersi mettere allo stesso livello dei figli ed aiutarli a parlare fiduciosamente dei loro piccoli problemi – rende possibile una cosa che ritengo di vitale importanza: che siano i genitori a far conoscere ai figli l’origine della vita, in modo graduale, adattandosi alla loro mentalità e alla loro capacità di capire, prevenendo un po’ la loro naturale curiosità; bisogna evitare che i ragazzi avvolgano di malizia questa materia, e che apprendano cose – in sé nobili e sante – attraverso le malevoli confidenze dei compagni.
Tutto ciò costituisce di solito un passo importante nel consolidamento dell’amicizia tra genitori e figli perché impedisce che si crei una frattura nel momento stesso in cui comincia a destarsi la vita morale.
D’altra parte, i genitori devono cercare di conservare giovane il loro cuore, per riuscire così ad accogliere con simpatia le giuste aspirazioni dei figli e perfino le loro stravaganze.
La vita cambia e ci sono parecchie cose nuove che magari a noi non piacciono – è pure possibile che oggettivamente non siano migliori delle vecchie -, ma che non sono cattive: si tratta semplicemente di modi diversi di vivere; ed è tutto qui. In più di un caso i conflitti sorgono perché si dà importanza a piccolezze su cui invece, con un po’ di prospettiva e di senso dell’umorismo, si può transigere.
Non tutto , però, dipende dai genitori. Anche i figli devono contribuire con qualche cosa. I giovani hanno sempre avuto una grande capacità di entusiasmo per le cose nobili, per gli ideali più alti, per tutto ciò che è autentico.
È bene aiutarli a capire la bellezza semplice – a volte molto silenziosa, e sempre rivestita di naturalezza – che c’è nella vita dei loro genitori. Bisogna aiutarli a rendersi conto (senza farglielo pesare) dei sacrifici compiuti per loro, dell’abnegazione – spesso eroica -con cui hanno tirato avanti la famiglia.
È bene che anche i figli imparino a non drammatizzare, a non fare la parte degli incompresi. Non dimentichino che saranno sempre in debito verso i genitori, e che la loro corrispondenza – non potranno mai pagare quello che devono – deve essere fatta di venerazione, di affetto grato, filiale.
D’altronde, siamo sinceri: la famiglia unita è la cosa normale. Ci sono screzi, differenze, ma sono cose scontate e che, in un certo senso, contribuiscono a dare sapore alle nostre giornate.
Sono cose senza importanza, che il tempo fa superare; rimane, invece, solo ciò che è stabile, cioè l’amore, l’amore vero, fatto di sacrificio, non di finzione, che porta a preoccuparsi gli uni degli altri, a intuire i piccoli problemi trovando con delicatezza la soluzione. E siccome è normale che le cose vadano così, la stragrande maggioranza delle persone mi ha capito molto bene quando, sin dagli anni venti, mi ha sentito chiamare “dolcissimo precetto” il quarto comandamento del Decalogo.
D – Reagendo forse a un’educazione religiosa coercitiva, basata talvolta solo su poche pratiche abitudinarie ed esteriori, parte della gioventù odierna si è allontanata quasi totalmente dalla pietà cristiana, considerandola null’altro che bigotteria. Come si può risolvere questo problema, a suo parere?
R – La soluzione è implicitamente contenuta nella domanda: si deve insegnare (prima con l’esempio, poi con la parola) in che cosa consiste la vera pietà. La bigotteria non è che una desolante caricatura pseudo-spirituale, frutto quasi sempre di mancanza di dottrina e anche di una certa deformazione umana: è logico che risulti ripugnante a chi ama l’autenticità e la sincerità.
Con gioia costato che la pietà cristiana attecchisce nel cuore dei giovani – quelli di oggi come quelli di quarant’anni fa – quando la vedono incarnata come vita sincera;
– quando capiscono che pregare è parlare con il Signore come si parla con un padre, con un amico: non nell’anonimato, bensì con un rapporto personale, in una conversazione a tu per tu;
– quando si riesce a far echeggiare nelle loro anime quelle parole di Gesù, che sono un invito all’incontro fiducioso: Vos autem dixi amicos (Gv 15, 15), vi ho chiamati amici;
– quando si rivolge un deciso appello alla loro fede, affinché vedano che il Signore è lo stesso “ieri, oggi e sempre” (Eb 13, 8).
D’altra parte è necessario che si rendano conto che questa pietà semplice e sincera esige anche l’esercizio delle virtù umane, e che pertanto non può ridursi a qualche pratica di devozione settimanale o quotidiana: essa deve impregnare tutta la vita, deve dare un senso al lavoro e al riposo, all’amicizia, allo svago, a tutto.
Non possiamo essere figli di Dio solo di quando in quando, anche se ci devono essere alcuni momenti particolarmente riservati a considerare e approfondire la realtà e il senso della filiazione divina, che è il nocciolo della pietà.
Ho detto prima che i giovani capiscono bene tutto questo. Ora aggiungo che chi cerca di vivere tutto ciò, si sente sempre giovane. Il cristiano, anche di ottant’anni, quando vive in unione con Cristo. può veramente assaporare le parole che si pronunciano ai piedi dell’altare: “Salirò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza” (Sal 42,4).
D – Lei quindi crede che sia importante educare fin da piccoli i bambini alla vita di pietà? Pensa che sia bene fare in famiglia alcune pratiche di pietà?
R – Penso che sia proprio questo il cammino migliore per dare ai figli un’autentica formazione cristiana. La Sacra Scrittura ci parla delle famiglie dei primi cristiani – la “Chiesa domestica”, dice San Paolo (1 Cor 16, 19) – alle quali la luce del Vangelo dava un nuovo slancio, una nuova vita.
In tutti gli ambienti cristiani si sa per esperienza quali buoni risultati dia questa naturale e soprannaturale iniziazione alla vita di pietà, fatta nel calore del focolare. Il bambino apprende a situare il Signore tra i primi e più fondamentali affetti; impara a trattare Dio come Padre, la Madonna come Madre; impara a pregare seguendo l’esempio dei genitori. Quando tutto ciò si comprende, appare evidente il grande compito apostolico che i genitori sono chiamati a svolgere; e il loro dovere di vivere sinceramente la vita di pietà, per poterla trasmettere – più che insegnare – ai figli.
I mezzi? Ci sono delle pratiche di pietà – poche, brevi e abituali – che le famiglie cristiane hanno sempre adottato, e che per me sono meravigliose: la benedizione a tavola, il rosario recitato tutti assieme – anche se oggi non manca chi attacca questa solidissima devozione mariana -, le preghiere personali al mattino e alla sera. Si tratterà di consuetudini che possono variare a seconda dei luoghi; ma credo che si debba sempre promuovere qualche pratica di pietà da vivere insieme, in famiglia, in modo semplice e naturale, senza bigotteria.
In tal modo otterremo che Dio non venga considerato come un estraneo che si va a visitare una volta alla settimana, la domenica, in chiesa; che invece lo si veda e lo si tratti come è nella realtà: anche in famiglia, perché, come ha detto il Signore, “dove sono due o tre riuniti in nome mio, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20).
È con gratitudine e orgoglio di figlio che vi dico che continuo a recitare ad alta voce mattina e sera, le preghiere che ho imparato da bambino dalle labbra di mia madre. Mi conducono a Dio e mi fanno sentire l’affetto con cui mi si insegnò a fare i primi passi sulla strada della vita cristiana; così, offrendo al Signore il giorno che comincia, o ringraziandolo per quello che finisce, chiedo a Dio di aumentare in Cielo la felicità di coloro che amo di più, e di tenerci poi sempre uniti insieme nella gloria.
D – Se permette, continuiamo a parlare dei giovani. Per mezzo della rubrica Giovani della nostra rivista, ci giungono molti dei loro problemi. Uno dei più frequenti si riferisce al fatto che a volte i genitori impongono loro il proprio parere in scelte decisive.
Questo avviene tanto nella scelta dell’indirizzo degli studi o della professione, quanto nella scelta del fidanzato, e più ancora quando si tratta di seguire la chiamata di Dio per dedicarsi al servizio delle anime. Un simile atteggiamento da parte dei genitori ammette giustificazioni? Non è piuttosto una violazione della libertà necessaria per giungere alla maturità personale?
R – È chiaro che le scelte che decidono il corso di una vita vanno prese personalmente da ciascuno, con libertà, senza nessun tipo di coercizione o di pressione.
Questo non vuol dire che non sia di solito necessario l’intervento di altre persone. Proprio perché si tratta di passi decisivi che riguardano tutta la vita e dato che la felicità dipende in gran parte dal modo in cui si compiono, è necessario agire con serenità evitare la precipitazione, procedere con senso di responsabilità e prudenza.
Gran parte della prudenza consiste appunto nel chiedere consiglio: sarebbe presunzione – che di solito si paga cara – ritenersi in grado di decidere senza la grazia di Dio e senza il calore e la luce che altre persone, soprattutto i nostri genitori, ci possono dare.
I genitori possono e devono fornire ai figli un aiuto prezioso, aprendo loro nuovi orizzonti, comunicando la propria esperienza, facendoli riflettere, in modo che non si lascino trasportare da stati d’animo passeggeri, e avviandoli a una valutazione realistica delle cose. Quest’aiuto verrà fornito dai genitori personalmente, con i loro consigli, oppure invitando i figli a rivolgersi a persone competenti: a un amico leale e sincero, a un sacerdote preparato e zelante, a un esperto di orientamento professionale.
Il consiglio non toglie però la libertà, ma fornisce elementi di giudizio e quindi allarga le possibilità di scelta, evitando l’influenza di fattori irrazionali nella decisione. Dopo aver prestato ascolto al parere degli altri, e aver ponderato ogni cosa, arriva il momento della scelta, e allora nessuno ha il diritto di far violenza alla libertà. I genitori devono fare attenzione a non cedere alla tentazione di proiettarsi indebitamente nei propri figli – di costruirli secondo i propri gusti -, perché devono rispettare le inclinazioni e le capacità che Dio dà a ciascuno.
Di solito quando esiste vero amore, tutto questo non è difficile. E anche nel caso estremo in cui il figlio prende una decisione che i genitori ritengono a ragione errata e prevedibile fonte di infelicità, nemmeno allora la soluzione sta nella violenza, ma nel comprendere e – più di una volta – nel saper rimanere al suo fianco per aiutarlo a superare le difficoltà e trarre eventualmente da quel male tutto il bene possibile.
I genitori che amano davvero i loro figli e cercano sinceramente il loro bene, dopo aver offerto i loro consigli e le loro riflessioni, devono farsi da parte delicatamente, in modo che nulla si opponga alla libertà, a questo grande bene che rende l’uomo capace di amare e di servire Dio. Devono tener presente che Dio stesso ha voluto essere amato e servito in libertà, e rispetta sempre le nostre decisioni personali: “Dio lasciò l’uomo – dice la Bibbia – arbitro di sé stesso” (Sir 15, 14).
Ancora qualche parola per rispondere esplicitamente all’ultima parte della domanda: la decisione di dedicarsi al servizio della Chiesa e delle anime. Quando dei genitori cattolici non comprendono tale vocazione, ritengo che abbiano fallito nella loro missione di formare una famiglia cristiana, e che non si siano nemmeno resi conto della dignità che il cristianesimo conferisce alla loro vocazione matrimoniale.
Comunque, la mia esperienza nell’Opus Dei è molto positiva. Sono solito dire ai soci dell’Opera che il novanta per cento della loro vocazione lo devono ai genitori che li hanno saputi educare insegnando loro a essere generosi. Posso dirvi che, nella stragrande maggioranza dei casi – per non dire sempre -, i genitori non solo rispettano, ma amano la decisione dei figli e vedono subito nell’Opera un ampliamento della loro famiglia. Questa è una delle mie gioie più grandi, ed è un’altra prova che per essere molto divini bisogna essere anche molto umani.
D – Oggi c’è chi sostiene la teoria che l’amore giustifica tutto, e conclude che il fidanzamento è una specie di “matrimonio di prova”. Pensano che sia una cosa inautentica e retrograda non seguire le cosiddette “esigenze dell’amore”. Che cosa pensa di questo atteggiamento?
R – Penso quello che deve pensare una persona onesta specialmente un cristiano: e cioè che si tratta di un atteggiamento indegno dell’uomo e che avvilisce l’amore umano confondendolo con l’egoismo e con il piacere.
Chiamano retrogrado chi non fa o non pensa così? Retrogrado è piuttosto chi retrocede ai tempi della giungla e non riconosce altro impulso che l’istinto. Il fidanzamento dev’essere un’occasione per approfondire l’affetto e la conoscenza reciproca, e, come ogni scuola di amore, dev’essere ispirato non dall’ansia di possesso, ma dallo spirito di dedizione, di comprensione, di rispetto, di delicatezza.
Proprio per questo volli regalare all’Università di Navarra, poco più di un anno fa, una statua della Madonna, Madre del Bell’Amore, affinché i ragazzi e le ragazze che studiano in quell’ateneo imparassero da Lei la nobiltà dell’amore, anche dell’amore umano.
Matrimonio di prova? Come conosce poco l’amore chi parla cosi! L’amore è una realtà ben più sicura, più vera, più umana. Non lo si può trattare come un prodotto commerciale, di cui si fa la prova e poi si tiene o si butta via, a seconda del capriccio, della comodità o dell’interesse.
Questa mancanza di criterio è così deplorevole che non c’è nemmeno bisogno di condannare chi pensa o agisce in questo modo, perché si condanna da sé all’infecondità, alla tristezza, all’isolamento desolante nel giro di pochi anni.
Non posso che pregare molto per costoro, amarli con tutta l’anima e cercare di far loro capire che hanno sempre aperta davanti a sé la strada del ritorno a Gesù; se ci mettono impegno, potranno essere santi, cristiani coerenti, perché non mancherà loro né il perdono né la grazia del Signore. Solo allora capiranno veramente che cos’è l’amore: conosceranno l’Amore divino e la nobiltà dell’amore umano; proveranno che cos’è la pace, la gioia, la fecondità.
D – Un grave problema femminile è quello delle donne nubili; ci riferiamo a quelle che, pur avendo vocazione matrimoniale, non giungono a sposarsi. Allora si domandano: che cosa ci stiamo a fare al mondo? Lei che risposta darebbe?
R – Che cosa stiamo a fare al mondo? Ci stiamo per amare Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima, e per far sì che questo amore arrivi a tutte le creature. Vi pare poco? Dio non abbandona nessun’anima a un destino cieco: per tutte ha un progetto, una chiamata, una vocazione personalissima, intrasferibile.
Il matrimonio è un cammino divino, una vocazione. Ma non è l’unico cammino, non è la sola vocazione. I piani di Dio su ogni donna non sono legati necessariamente al matrimonio. Hanno la vocazione al matrimonio e non arrivano a sposarsi?
Qualche volta sarà vero, e forse allora sarà stato 1’egoismo o l’amor proprio a impedire che si compisse la chiamata di Dio; ma altre volte – forse la maggioranza dei casi – queste circostanze possono essere segno che il Signore non ha dato loro una vera vocazione matrimoniale. Sì: amano i bambini; sentono di poter essere delle buone madri, capaci di donare tutto il cuore, fedelmente, al marito e ai figli.
Ma questo è quello che sentono tutte le donne, anche quelle che per vocazione divina non si sposano, pur potendolo fare, per dedicarsi al servizio di Dio e delle anime.
Non si sono sposate: ebbene, continuino ad amare la Volontà del Signore, cercando l’intimità con il Cuore amabilissimo di Gesù, che non abbandona nessuno, che è sempre fedele, che si prende cura di noi durante tutta la vita e ci offre in dono se stesso, già ora, e per sempre.
Inoltre la donna può compiere la sua missione – come donna, con tutte le caratteristiche femminili, comprese quelle affettive della maternità – in àmbiti diversi da quello della propria famiglia: in altre famiglie, nella scuola, in opere assistenziali, in mille posti.
A volte la società è molto dura – molto ingiusta – nei confronti delle donne che chiama zitelle. Ci sono invece donne nubili che diffondono intorno a sé gioia, pace, efficacia: donne capaci di dedicarsi a un nobile servizio degli altri e di essere madri, nella profondità del proprio spirito, in modo più reale che non molte altre, che sono madri solo fisiologicamente.
D – Le domande precedenti riguardavano il fidanzamento; ora vorrei che ci soffermassimo sul matrimonio: che consigli darebbe alla donna sposata affinché, con il passare degli anni, la sua vita matrimoniale continui a essere felice senza cadere nella monotonia? Forse la cosa può sembrare poco importante, ma a noi scrivono molte lettrici interessate all’argomento.
R – A me sembra senz’altro una questione importante; ritengo quindi importanti anche le possibili soluzioni, benché possano avere un’apparenza modesta.
Perché il matrimonio conservi sempre lo slancio e la freschezza iniziali, la moglie deve cercare di conquistare il marito ogni giorno; e lo stesso si dovrebbe dire del marito rispetto alla moglie. L’amore va recuperato ogni giorno; e l’amore si conquista con il sacrificio, con il sorriso e anche con un po’ di furbizia.
Se il marito torna a casa dal lavoro stanco e la moglie si mette a parlare senza misura, raccontando tutto quello che secondo lei va male, è forse strano che il marito finisca per perdere la pazienza? Gli argomenti meno gradevoli si possono lasciare per un momento più opportuno, quando lui sia più disteso e meglio disposto.
Un altro particolare: la cura della propria persona. Se un altro sacerdote vi dicesse il contrario, penso che sarebbe un cattivo consigliere. Una persona che deve vivere nel mondo, quanti più anni ha, tanto più è necessario che si sforzi di migliorare non solo la vita interiore, ma – appunto per questo – anche l’impegno per “essere presentabile”, d’accordo, naturalmente, con l’età e le circostanze.
Spesso, scherzando, dico che le vecchie facciate sono quelle che hanno più bisogno di un buon restauro. È un consiglio di sacerdote. C’è un vecchio proverbio che dice: “Quando la moglie non si trascura, il marito non cerca l’avventura”.
Proprio per questo oserei dire che l’ottanta per cento della colpa delle infedeltà dei mariti è delle mogli, che non sanno riconquistarli ogni giorno, non sanno essere premurose, affettuose, delicate. L’attenzione della donna sposata deve concentrarsi sul marito e sui figli. E quella del marito deve concentrarsi sulla moglie e sui figli. Ciò richiede tempo e impegno, per sapere quello che va fatto e farlo bene. Tutto ciò che rende impossibile il compimento di questo dovere, non è cosa buona e non va bene.
Non ci sono scuse per non compiere questo amabile dovere. Non è certo una scusa il lavoro extradomestico, e neppure le pratiche religiose che, se non sono compatibili con i doveri di tutti i giorni, non sono buone, e Dio non le accetta. La donna sposata si deve occupare prima di tutto della casa. C’è un canto popolare della mia terra che dice: La mujer que, por la iglesia, / deja el puchero quemar / tiene la mitad de angel / de diablo la otra mitad (La donna che, per stare in chiesa, / lascia bruciare il pranzo, / è per metà angelo, / e diavolo per l’altra metà). Io direi che è diavolo del tutto.
D – Oltre alle difficoltà che possono esserci tra genitori e figli, non sono rari i litigi tra marito e moglie, che talvolta arrivano sul serio a compromettere la pace famigliare. Che cosa consiglierebbe agli sposi?
R – Di volersi bene. E di rendersi conto che durante la vita ci saranno screzi e difficoltà, che però, se risolte con naturalezza, contribuiranno a render ancor più profondo l’affetto.
Ciascuno di noi ha il suo temperamento, i suoi gusti personali, il suo carattere – un caratteraccio, a volte -, i suoi difetti. Ognuno ha anche i lati piacevoli della sua personalità, e per questo – e per molte altre ragioni – gli si può voler bene.
La convivenza è possibile quando tutti si sforzano di correggere i propri difetti e cercano di passar sopra alle manchevolezza degli altri; quando cioè vi è amore, che supera e annulla tutto quanto potrebbe falsamente sembrare motivo di separazione e di divergenza. Se invece si drammatizzano i piccoli contrasti e ci si comincia a rinfacciare mutuamente i difetti e gli sbagli, la pace è finita e si corre il pericolo di far morire l’affetto.
Gli sposi hanno grazia di stato – la grazia del sacramento – per praticare tutte le virtù umane e cristiane della convivenza: la comprensione, il buon umore, la pazienza, il perdono, la delicatezza nel rapporto reciproco. L’importante è non lasciarsi andare, non lasciarsi dominare dal nervosismo, dall’orgoglio o dalle manie personali.
Per riuscirci, marito e moglie devono sviluppare la propria vita interiore e apprendere dalla Sacra Famiglia a vivere con finezza – per un motivo che è allo stesso tempo umano e soprannaturale – le virtù del focolare cristiano. Lo ripeto ancora: la grazia di Dio ce l’hanno.
Quando uno dice che non può sopportare questo o quello e che gli è impossibile tacere, sta esagerando per giustificare se stesso. Bisogna chiedere a Dio la forza di dominare il proprio umore, la grazia per conservare il dominio di sé.
Perché i pericoli di un’arrabbiatura sono proprio questi: si perde il controllo, le parole si riempiono di amarezza, arrivano a offendere e, forse involontariamente, a ferire, a far male.
Occorre imparare a tacere, ad attendere, a dire le cose in modo positivo, con ottimismo. Quando è lui a perdere la calma, è il momento in cui lei deve essere particolarmente paziente, finché la serenità torna di nuovo; e viceversa. Quando l’affetto è sincero e ci si sforza di farlo crescere è ben difficile che tutti e due si lascino dominare dal malumore nello stesso momento…
Un’altra cosa molto importante: abituarsi a pensare che non abbiamo mai tutta la ragione. Si può addirittura dire che, in questioni di solito tanto discutibili quanto più siamo sicuri di avere tutta la ragione, tanto più è certo che abbiamo torto.
Se si ragiona in questo modo, riesce semplice alla fine rettificare e, se occorre, chiedere scusa, che è il modo migliore di concludere un’arrabbiatura; e così si assicurano la pace e l’affetto. Non voglio incoraggiare a bisticciare; ma è comprensibile che bisticciamo qualche volta con quelli che amiamo di più, perché sono quelli che vivono abitualmente assieme a noi.
Non si bisticcia di certo con lo zio d’America! Pertanto, queste piccole tempeste fra gli sposi, se non sono frequenti – e bisogna fare in modo che non lo siano -, non sono indice di poco amore, anzi, possono contribuire ad aumentarlo.
Infine un ultimo consiglio: non litigare mai davanti ai figli. Per evitarlo, basterà che marito e moglie si intendano con una parola, con uno sguardo, con un gesto. Litigheranno dopo, con più serenità, se proprio non sono capaci di farne a meno.
La pace coniugale dev’essere l’ambiente della famiglia, perché è la condizione indispensabile per un’educazione profonda ed efficace. I piccoli devono vedere nei genitori un esempio di dedizione, di amore sincero, di mutuo aiuto, di comprensione; le piccole difficoltà di ogni giorno non devono nascondere la realtà di un affetto capace di superare tutto.
A volte ci prendiamo troppo sul serio. Tutti ci arrabbiamo di quando in quando, a volte perché è necessario, altre volte perché ci manca spirito di mortificazione. L’importante è dimostrare che queste arrabbiature non incrinano l’affetto, sapendo ristabilire l’intimità famigliare con un sorriso. Insomma, marito e moglie devono vivere amandosi l’un l’altra e amando i propri figli, perché è così che amano Dio.
D – Mi riferisco ora a un fatto più concreto: recentemente è stata annunciata a Madrid l’apertura di una Scuola diretta da socie dell’Opus Dei, con il fine di creare un clima di famiglia e di dare alle lavoratrici domestiche una formazione completa e una qualificazione professionale. Che incidenza crede che possa avere nella società questo tipo di attività?
R – Quest’opera apostolica – ce ne sono molte altre del genere dirette da socie dell’Opus Dei, che vi lavorano insieme ad altre persone che non appartengono alla nostra istituzione – ha come fine principale quello di nobilitare il mestiere delle impiegate domestiche in modo che possano realizzare il proprio lavoro con competenza tecnica. Dico competenza tecnica perché bisogna che il lavoro domestico venga condotto per quello che è: una vera professione.
Non dimentichiamo che si è preteso di presentare questo lavoro come una cosa umiliante. Ma non è vero; umilianti erano senza dubbio le condizioni in cui molte volte si svolgeva questo lavoro. E umilianti continuano a esserlo in vari casi anche oggi: quando chi vi si dedica deve adattarsi ai capricci di persone irriguardose e deve lavorare senza garanzie legali, con scarsa retribuzione, senza affetto.
Bisogna esigere il rispetto di un contratto di lavoro adeguato, che dia garanzie chiare e precise, e stabilisca bene i diritti e i doveri di ciascuna delle parti.
Oltre a queste garanzie legali, occorre che la persona che presta il servizio sia qualificata, professionalmente preparata. Ho detto servizio – anche se oggi la parola non piace – perché ogni attività sociale ben compiuta è appunto questo, un bellissimo servizio: e lo è tanto l’attività di una lavoratrice domestica quanto quella di un docente o di un giudice. L’unica attività che non è servizio è quella di chi subordina tutto al proprio interesse.
Il lavoro domestico è una cosa di primaria importanza. Del resto, tutti i lavori possono avere la stessa qualità soprannaturale: non ci sono compiti grandi o piccoli; tutti sono grandi se si fanno per amore.
Le funzioni che tutti ritengono elevate, diventano meschine appena si perde il senso cristiano della vita. Invece ci sono cose piccole all’apparenza, che possono essere molto grandi per le effettive conseguenze che hanno.
Per me, il lavoro di una figlia mia dell’Opus Dei che è collaboratrice domestica, ha la stessa importanza di quello di un’altra mia figlia che abbia un titolo nobiliare. In entrambi i casi, a me interessa solo che il loro lavoro sia mezzo e occasione di santificazione propria e altrui: e sarà alla fine più importante il lavoro della persona che nella propria occupazione e nel proprio stato cresce di più in santità e compie con più amore la missione ricevuta da Dio.
Dinanzi a Dio, una docente universitaria non è più importante di una commessa di negozio, o di una segretaria, di un’operaia, o di una contadina: tutte le anime sono uguali. Solo che spesso sono più belle le anime delle persone più semplici; e, in ogni caso, sono più accette al Signore quelle che entrano più intimamente in rapporto con Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo.
Con la scuola aperta a Madrid si può fare molto: si può dare un autentico ed efficace aiuto alla società in un’importante funzione, e al tempo stesso svolgere un lavoro cristiano nelle famiglie, portando nelle case la gioia, la pace, la comprensione.
Parlerei per ore intere su questo argomento; ma quanto ho detto è sufficiente per capire che vedo il lavoro domestico come un mestiere di particolare importanza, perché con esso si può fare molto bene – o molto male – nel cuore stesso delle famiglie. Speriamo che sia molto il bene: non mancheranno persone di buona stoffa umana, competenti e con slancio apostolico, che faranno di questa professione un lavoro pieno di gioia e di incalcolabile efficacia in tante famiglie del mondo.
D – Da circostanze di indole molto diversa, come anche da esortazioni e insegnamenti della Chiesa, è nata e si è sviluppata una profonda sensibilità sociale. Si fa un gran parlare della virtù della povertà come testimonianza. Come può viverla una donna di casa, che deve offrire un giusto benessere alla propria famiglia?
R – Nella Sacra Scrittura, proprio come uno dei segni che manifestano l’arrivo del Regno di Dio, leggiamo che “il Vangelo è annunciato ai poveri” (Mt 11, 6). Non ha lo spirito di Cristo chi non ama e non vive la virtù della povertà; e ciò vale per tutti, tanto per l’anacoreta che si ritira nel deserto, quanto per il comune cristiano che vive nel mezzo della società umana, fornito delle risorse di questo mondo o privo di molte di esse.
Su questo tema vorrei soffermarmi un po’, perché oggi non sempre si predica la povertà in modo che il suo messaggio giunga a farsi vita. Con buona volontà senza dubbio, ma senza aver afferrato a fondo il senso dei tempi, c’è chi predica una povertà che è frutto di mera elucubrazione intellettuale, che porta con sé vistosi segni esteriori e al tempo stesso enormi deficienze interiori, quando non anche esterne.
Facendo eco a un’espressione del profeta Isaia – discite benefacere (1, 17) – mi piace dire che “le virtù bisogna imparare a viverle”, e questo vale forse in modo speciale per la povertà.
Bisogna imparare a viverla perché non si riduca a un ideale sul quale si può scrivere molto, ma che nessuno mette seriamente in pratica. Occorre far vedere che la povertà è un invito che il Signore rivolge a ogni cristiano, e che pertanto è una chiamata concreta che deve dar forma a tutta la vita dell’umanità.
Povertà non è miseria, e meno che mai sporcizia. La prima ragione è che ciò che definisce il cristiano non sono le condizioni esterne della sua vita, ma piuttosto gli atteggiamenti del suo cuore.
Ma poi vi è una seconda ragione (e qui tocchiamo un punto assai importante, dal quale dipende un’esatta comprensione della vocazione laicale): ed è che la povertà non viene definita dalla pura e semplice rinuncia.
In certe occasioni particolari, la testimonianza di povertà richiesta ai cristiani può essere l’abbandono di tutto, la contestazione di un ambiente che non ha orizzonti aldilà del benessere materiale, proclamando così, con un gesto spettacolare, che nessuna cosa è buona se viene preferita a Dio. Ma è forse questa la testimonianza che oggi la Chiesa chiede a tutti? Non è vero forse che essa esige anche una testimonianza esplicita di amore al mondo, di solidarietà con gli uomini?
A volte, chi riflette sulla povertà cristiana prende come punto di riferimento principale i religiosi, cui è proprio dare sempre e ovunque una testimonianza pubblica, ufficiale; e così si corre il rischio di non scorgere il carattere specifico di una testimonianza laicale, che viene data dall’interno, con la semplicità delle cose di tutti i giorni.
Un cristiano qualsiasi deve rendere compatibili, nella propria vita, due aspetti che possono sembrare a prima vista contraddittori. Povertà reale, anzitutto: una povertà che si noti, che si possa toccare con mano perché fatta di cose concrete, che sia una professione di fede in Dio, una testimonianza che il cuore non si soddisfa con le cose create, ma aspira al Creatore e anela colmarsi d’amor di Dio per poi comunicare a tutti questo stesso amore.
E, nello stesso tempo, essere uno dei tanti in mezzo agli uomini nostri fratelli, condividendone la vita, le gioie, le ansie, e collaborando nelle stesse attività; amando il mondo e tutte le cose buone che vi sono, utilizzando tutte le cose create per risolvere i problemi della vita umana, e per costruire l’ambiente materiale e spirituale propizio allo sviluppo delle persone e delle comunità.
Raggiungere la sintesi di questi due aspetti è – in buona parte – una questione personale, una questione di vita interiore, per saper giudicare momento per momento e scoprire caso per caso che cosa Dio ci chiede. Non voglio dunque dare regole fisse, ma solo delle linee generali di orientamento, riferendomi specialmente alle madri di famiglia.
Sacrificio: ecco in che cosa consiste, in gran parte, la povertà reale. Si tratta di saper prescindere dal superfluo, misurato non tanto con regole teoriche, quanto con l’ascolto della voce interiore che ci avverte che l’egoismo o la comodità ingiusta si stanno inoltrando nella nostra vita. Il benessere, inteso in senso positivo, non significa lusso, né corsa al piacere, ma quanto serve a rendere la vita gradevole alla propria famiglia e agli altri, perché tutti possano servire meglio Dio.
La povertà consiste nel raggiungere sul serio il distacco dalle cose terrene; nel sopportare lietamente le scomodità, quando ci sono, o la mancanza di mezzi.
Chi è povero sa poi avere tutto il giorno “preso” da un orario elastico, che deve prevedere fra le cose importanti – oltre alle pratiche giornaliere di pietà – il necessario riposo, il tempo per star assieme ai propri cari, un po’ di lettura, i momenti da dedicare a un hobby di arte o di letteratura, o ad altra distrazione onesta; e così sa riempire le ore con un’attività utile, cerca di fare le cose nel migliore dei modi, e cura i particolari di ordine, di puntualità, di buon umore.
In una parola, sa trovar posto per servire gli altri e per sé stesso: senza dimenticare che tutti gli uomini e tutte le donne – e non solo quelli materialmente poveri – hanno l’obbligo di lavorare; la ricchezza o una situazione economica agiata non sono che un segno del fatto che si è maggiormente obbligati a sentire la responsabilità dell’intera società.
È l’amore che dà senso al sacrificio. Ogni madre sa bene che cos’è il sacrificio per i figli: non si tratta solo di dedicare loro alcune ore, ma di spendere per il loro bene tutta la vita. Vivere dunque pensando agli altri, usare i beni in modo tale che non manchi qualcosa da offrire agli altri: ecco le dimensioni della povertà, che garantiscono un effettivo distacco.
Per una madre, è importante non solo vivere cosi, ma anche insegnare ai figli a vivere così. Si tratta di educarli promuovendo in loro la fede, l’ottimismo della speranza e la carità; si tratta di insegnare loro a superare l’egoismo e a usare parte del proprio tempo generosamente al servizio delle persone meno fortunate, partecipando a lavori (adeguati alla loro età) in cui si manifesti una vera preoccupazione di solidarietà umana e divina.
In poche parole: ciascuno deve vivere la propria vocazione. Per me il miglior modello di povertà sono sempre stati quei padri e quelle madri di famiglie numerose e povere, che non vivono che per i propri figli, e che con il loro sforzo e con la loro costanza – spesso senza voce per manifestare agli altri le loro ristrettezze – sanno mandare avanti la casa, creando un focolare pieno di gioia, in cui tutti imparano ad amare, a servire, a lavorare.
D – Nel corso dell’intervista, lei ci ha commentato vari e importanti aspetti della vita umana e in particolare della vita della donna, e ci ha fatto notare in che modo li valuta lo spirito dell’Opus Dei. Potrebbe dirci, per terminare, come pensa che si debba promuovere il ruolo della donna nella vita della Chiesa?
R – Non nascondo che di fronte a una domanda di questo tipo, sento, contrariamente alla mia abitudine, la tentazione di rispondere in modo polemico, perché ci sono persone che adoperano questa terminologia in maniera clericale, usando la parola Chiesa come sinonimo di qualcosa che appartiene al clero, alla Gerarchia ecclesiastica.
Così, per partecipazione alla vita della Chiesa intendono solo o principalmente l’aiuto prestato alla vita parrocchiale, la collaborazione ad associazioni “con mandato” della Gerarchia, l’assistenza attiva alle funzioni liturgiche, e cose del genere.
Coloro che pensano così dimenticano all’atto pratico – anche se forse lo proclamano in teoria – che la Chiesa è la totalità del popolo di Dio, l’assieme di tutti i cristiani; e che pertanto, ovunque un cristiano si sforza di vivere in nome di Gesù Cristo, là è presente la Chiesa.
Con ciò non intendo minimizzare l’importanza della collaborazione che la donna può prestare alla vita della struttura ecclesiastica. La considero anzi imprescindibile. Ho dedicato tutta la vita a difendere la pienezza della vocazione cristiana dei laici (cioè degli uomini e delle donne comuni, che vivono in mezzo al mondo) e a promuovere, pertanto, il pieno riconoscimento teologico e giuridico della loro missione nella Chiesa e nel mondo.
Voglio solo far notare che c’è chi vorrebbe imporre una riduzione ingiustificata di tale collaborazione; e mi preme rilevare che il comune cristiano, sia uomo o donna, può svolgere la propria missione specifica, anche quella che gli spetta all’interno della struttura ecclesiale, solo a condizione di non clericalizzarsi, di continuare cioè ad essere secolare, ad essere persona che con normalità vive nel mondo e partecipa alle vicende del mondo.
Ai milioni di cristiani, uomini e donne, che riempiono la terra, spetta il compito di condurre a Cristo tutte le attività umane, annunciando con la propria vita che Dio ama tutti e tutti vuole salvare. Pertanto, il modo migliore di partecipare alla vita della Chiesa – il più importante, e quello che in ogni caso dev’essere il fondamento di tutti gli altri – è essere integralmente cristiani nel posto assegnato dalla vita, nel posto in cui la vocazione umana ci ha condotti.
Mi commuove pensare a tanti cristiani e a tante cristiane che, forse senza proporselo in modo esplicito, vivono con semplicità la vita ordinaria, cercando di incarnare in essa la Volontà di Dio. Renderli consapevoli di quanto sia eccelsa la loro vita; rivelare loro che ciò che sembra privo di importanza ha un valore di eternità; insegnare ad ascoltare più attentamente la voce di Dio che parla loro attraverso fatti e situazioni, è qualcosa di cui oggi ha urgente necessità la Chiesa, perché a questo la sta spingendo Dio.
Cristianizzare dal di dentro il mondo intero, dimostrando che Gesù ha redento tutta l’umanità: ecco la missione del cristiano. E la donna vi parteciperà nel modo che le è proprio, sia nella casa che nelle varie occupazioni ove realizza le sue capacità peculiari.
La cosa essenziale è dunque che si viva, come Maria Santissima – donna, Vergine e Madre -, al cospetto di Dio, pronunciando quel fiat mihi secundum verbum tuum (Lc 1, 38) da cui dipende la fedeltà alla vocazione personale, sempre unica e intrasferibile, e che ci rende cooperatori dell’opera di salvezza che Dio realizza in noi e nel mondo intero.
http://www.ratzinger.it/documenti/valoreordinatio.htm
VALORE DELLA DOTTRINA
DELLA LETTERA APOSTOLICA
“ORDINATIO SACERDOTALIS” (1)
CONGREGATIO PRO DOCTRINA FIDEI, Responsum ad dubium Utrum doctrina circa doctrinam in Epist. ap. “Ordinatio sacerdotalis” traditam, 28 octobris 1995: AAS 87( 1995), p. 1114; Notitiae, 31(1995), p. 61 Os. – Commento alla Risposta: L’Osservatore Romano, 19.11.1995, p. 2.
28 ottobre 1995
Dubbio: Se la dottrina, secondo la quale la chiesa non ha la facoltà di conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne, proposta nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis come da tenersi in modo definitivo, sia da considerarsi appartenente al deposito della fede.
Risposta: Affermativa.
Questa dottrina esige un assenso definitivo poiché, fondata nella parola di Dio scritta e costantemente conservata e applicata nella tradizione della chiesa fin dall’inizio, è stata proposta infallibilmente dal magistero ordinario e universale (cf. Conc. Vaticano II, Cost. Dogm. Lumen gentium, n. 25,2). Pertanto, nelle presenti circostanze, il sommo pontefice, nell’esercizio del suo proprio ministero di confermare i fratelli (cf. Lc 22,32), ha proposto la medesima dottrina con una dichiarazione formale, affermando esplicitamente ciò che si deve tenere sempre, ovunque e da tutti i fedeli, in quanto appartenente al deposito della fede.
Il sommo pontefice Giovanni Paolo Il, nel corso dell’udienza concessa al sottoscritto cardinale prefetto, ha approvatola presente risposta, decisa nella riunione ordinaria di questa congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.
Roma, dalla sede della Congregazione per la dottrina della fede, il 28 ottobre 1995.
+ Joseph card. RATZINGER, prefetto
+ Tarcisio BERTONE, arciv. em. di Vercelli, segretario
_________________
COMMENTO ALLA RISPOSTA
In occasione della pubblicazione della Risposta della Congregazione per la Dottrina della fede a un dubbio riguardante il motivo per cui è da considerarsi definitive tenenda la dottrina esposta nella lettera apostolica Ordìnatio sacerdotalis, sembrano opportune alcune riflessioni. La rilevanza ecclesiologica di questa lettera apostolica veniva sottolineata anche dalla stessa data di pubblicazione: infatti ricorreva in quel giorno, 22 maggio 1994, la solennità della Pentecoste. Ma tale rilevanza si poteva scoprire soprattutto nelle parole conclusive della lettera: “al fine di togliere ogni dubbio su di una questione di grande importanza, che attiene alla stessa costituzione divina della chiesa, in virtù del mio ministero di confermare i fratelli (cf. Lc 22,32), dichiaro che la chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della chiesa” (n. 4).
L’intervento del Papa si era reso necessario non semplicemente per ribadire la validità di una disciplina osservata nella chiesa sin dall’inizio, ma per confermare una dottrina (n. 4) “conservata dalla costante e universale tradizione della chiesa” e “insegnata con fermezza dal magistero nei documenti più recenti”: dottrina che “attiene alla stessa divina costituzione della chiesa” (ivi). In questo modo il santo padre intendeva chiarire che l’insegnamento circa l’ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini non poteva essere ritenuto come “discutibile”, né si poteva attribuire alla decisione della chiesa “un valore meramente disciplinare” (ivi).
Nel tempo trascorso dalla pubblicazione della lettera si sono fatti vedere i suoi frutti. Molte coscienze che in buona fede si erano forse lasciate agitare più che dal dubbio dall’insicurezza, hanno ritrovato la serenità grazie all’insegnamento del santo padre. Tuttavia non sono venute meno le perplessità, non solo da parte di coloro che, lontani dalla fede cattolica, non accettano l’esistenza di un’autorità dottrinale nella chiesa, cioè del magistero sacramentalmente investito dell’autorità di Cristo (cf. Cost. dogm. Lumen gentium, 21), ma anche da parte di alcuni fedeli ai quali continua a sembrare che l’esclusione dal ministero sacerdotale rappresenti una violenza o una discriminazione nei confronti delle donne. Taluni obiettano che non risulta dalla rivelazione che una tale esclusione sia stata volontà di Cristo per la sua chiesa, e altri s’interrogano sull’assenso dovuto all’insegnamento della lettera.
Sicuramente si possono approfondire ancora di più i motivi per cui la chiesa non ha la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale; motivi già esposti, ad esempio, nella dichiarazione Inter insigniores (15 ottobre 1976), della Congregazione per la dottrina della fede, approvata da Paolo VI, e in vari documenti di Giovanni Paolo Il (come l’esort. ap. Christi fideles laici, 51, e la lett. ap. Mulieris dignitatem, 26). nonché nel Catechismo della chiesa cattolica, n. 1577. Ma in ogni caso non si può dimenticare che la chiesa insegna, come verità assolutamente fondamentale dell’antropologia cristiana, la pari dignità personale tra uomo e donna, e la necessità di superare ed eliminare “ogni genere di discriminazione nei diritti fonda mentali” (Cost. past. Gaudium et spes, 29).
Alla luce di questa verità si può cercare di capire meglio l’insegnamento secondo il quale la donna non può ricevere l’ordinazione sacerdotale. Una corretta teologia non può prescindere né dall’uno né dall’altro insegnamento, ma deve tenerli insieme; soltanto così potrà approfondire i disegni di Dio circa la donna e circa il sacerdozio – e quindi, circa la missione della donna nella chiesa. Se invece si dovesse asserire l’esistenza di una contraddizione tra le due verità, forse lasciandosi condizionare troppo dalle mode o dallo spirito del tempo, si sarebbe smarrito il cammino del progresso nell’intelligenza della fede.
Nella lettera Ordinatio sacerdotalis il papa sofferma la sua considerazione in modo paradigmatico sulla persona della beata vergine Maria, madre di Dio e madre della chiesa: il fatto che ella “non abbia ricevuto la missione propria degli apostoli né il sacerdozio ministeriale mostra chiaramente che la non ammissione delle donne all’ordinazione sacerdotale non può significare una loro minore dignità né una discriminazione nei loro confronti” (n. 3). La diversità per quanto riguarda la missione non intacca l’uguaglianza nella dignità personale.
Inoltre, per capire che non c’è violenza né discriminazione verso le donne, bisogna considerare anche la natura stessa del sacerdozio ministeriale, che è un servizio e non una posizione di umano potere o di privilegio sugli altri. Chi, uomo o donna che sia, concepisce il sacerdozio come affermazione personale, come termine o addirittura punto di partenza di una carriera di umano successo, sbaglia profondamente, perché il vero senso del sacerdozio cristiano, sia quello comune dei fedeli sia, in modo del tutto speciale, quello ministeriale, non si può trovare se non nel sacrificio della propria esistenza, in unione con Cristo, a servizio dei fratelli. Il ministero sacerdotale non può costituire né l’ideale generale né tantomeno il traguardo della vita cristiana. In questo senso, non è superfluo ricordare ancora una volta che “il solo carisma superiore, che si può e si deve desiderare, è la carità (cf. 1Cor 12,13)” (Inter insigniores, IV).
Per quanto riguarda il fondamento nella sacra Scrittura e nella tradizione, Giovanni Paolo Il si sofferma sul fatto che il Signore Gesù, com’è testimoniato dal Nuovo Testamento, chiamò soltanto uomini, e non donne, al ministero ordinato, e che gli apostoli “hanno fatto lo stesso quando hanno scelto i collaboratori che sarebbero a essi succeduti nel ministero” (Ordinatio sacerdotalis, 2; cf. lTm 3,Iss; 2Tm 1,6, Tt 1,5). Vi sono argomenti validi per sostenere che il modo di agire di Cristo non fu determinato da motivi culturali (cf. n. 2), così come ci sono ragioni sufficienti per affermare che la tradizione ha interpretato la scelta fatta dal Signore come vincolante per la chiesa di tutti i tempi.
Qui però siamo già di fronte all’essenziale interdipendenza tra sacra Scrittura e tradizione; interdipendenza che fa di questi due modi di trasmissione del Vangelo un’unità inscindibile insieme al magistero, il quale è parte integrante della tradizione e istanza interpretativa autentica della parola di Dio scritta e trasmessa (cf. Cost. dogm. Dei verbum, 9 e 10).
Nel caso specifico delle ordinazioni sacerdotali, i successori degli apostoli hanno sempre osservato la norma di conferire l’ordinazione sacerdotale soltanto a uomini, e il magistero, con l’assistenza dello Spirito Santo, ci insegna che questo è avvenuto non per caso, né per ripetizione abitudinaria, né per soggezione ai condizionamenti sociologici, né meno ancora per un’immaginarla inferiorità della donna, ma perché “la chiesa ha sempre riconosciuto come norma perenne il modo di agire del suo Signore nella scelta dei dodici uomini che egli ha posto a fondamento della sua chiesa” (Ordinatio sacerdotalis, IV).
Com’è noto, ci sono dei motivi di convenienza mediante i quali la teologia ha cercato e cerca di capire la ragionevolezza del volere del Signore. Tali motivi, come si trovano esposti ad esempio nella dichiarazione Inter insigniores, hanno un loro indubbio valore, ma non sono concepiti né adoperati come se fossero dimostrazioni logiche e stringenti derivate da principi assoluti. Tuttavia, è importante tener presente che la volontà umana di Cristo non soltanto non è arbitraria come quei motivi di convenienza aiutano infatti a capire, ma è intimamente unita con la volontà divina del Figlio eterno, dalla quale dipende la verità ontologica e antropologica della creazione di ambedue i sessi.
Davanti a questo preciso atto magisteriale del romano pontefice, esplicitamente indirizzato all’intera chiesa cattolica, tutti i fedeli sono tenuti a dare il loro assenso alla dottrina in esso enunciata. Ed è a questo proposito che la Congregazione per la dottrina della fede, con l’approvazione del papa, ha dato una risposta ufficiale sulla natura di questo assenso. Si tratta di un pieno assenso definitivo, vale a dire irrevocabile, a una dottrina proposta infallibilmente dalla chiesa. Infatti, come spiega la Risposta, questo carattere definitivo deriva dalla verità della stessa dottrina perché, fondata nella parola di Dio scritta e costantemente tenuta e applicata nella tradizione della chiesa, è stata proposta infallibilmente dal magistero ordinario universale (cf. LG 25). Perciò la Risposta precisa che questa dottrina appartiene al deposito della fede della chiesa. Va quindi sottolineato che il carattere definitivo e infallibile di questo insegnamento della chiesa non è nato dalla lettera Ordinatio sacerdotalis. In essa, come spiega anche la Risposta della Congregazione per la dottrina della fede, il romano pontefice, tenuto conto delle circostanze attuali, ha confermato la stessa dottrina mediante una formale dichiarazione, enunciando di nuovo quod semper, quod ubique et quod ab omnibus tenendum est, utpote ad fidei depositum pertinens. In questo caso, un atto del magistero ordinario pontificio, in se stesso per sé non infallibile, attesta il carattere infallibile dell’insegnamento di una dottrina già in possesso della chiesa.
Infine, non sono mancati alcuni commenti alla lettera Ordinatio sacerdotalis secondo cui quest’ultima costituirebbe un’ulteriore e non opportuna difficoltà nel già difficile cammino del movimento ecumenico. A questo riguardo bisogna non dimenticare che secondo la lettera e lo spirito del concilio Vaticano II (cf. Decr. Unitatis redintegratio, 11), l’autentico impegno ecumenico, al quale la chiesa cattolica non vuole né può venir meno, esige una piena sincerità e chiarezza nella presentazione dell’identità della propria fede.
Inoltre occorre rilevare che la dottrina riaffermata dalla lettera Ordinatio sacerdotalis non può non giovare alla ricerca della piena comunione con le chiese ortodosse le quali, conformemente alla tradizione, hanno mantenuto e mantengono con fedeltà lo stesso insegnamento.
La singolare originalità della chiesa e del sacerdozio ministeriale al suo interno, richiede una precisa chiarezza di criteri. Concretamente, non si deve perdere mai di vista che la chiesa non i trova la fonte della propria fede e della propria struttura costitutiva nei principi della vita sociale di ogni momento storico. Pur guardando con attenzione al mondo nel quale vive e per la cui salvezza opera, la chiesa ha la coscienza di essere portatrice di una fedeltà superiore alla quale è legata.
Si tratta della radicale fedeltà alla parola di Dio ricevuta dalla stessa chiesa stabilita da Gesù Cristo fino alla fine dei tempi. Questa parola di Dio, nel proclamare il valore essenziale e il destino eterno di ogni persona, manifesta il fondamento ultimo della dignità di ogni essere umano: di ogni donna e di ogni uomo.
NOTA
La dottrina secondo la quale la chiesa non ha la facoltà di conferire l’ordinazione alle donne appartiene al deposito della fede e pertanto esige un assenso definitivo. Con questa Risposta al dubbio circa la dottrina della lettera apostolica “Ordinatio sacerdotalis” la Congregazione per la dottrina della fede intende sciogliere ogni residuo dubbio sul carattere infallibile dell’insegnamento sull’ordinazione delle donne espresso da Giovanni Paolo II nel maggio 1994. Dopo il dogma dell’assunzione di Maria (1.11.1950), non sono poche le volte che – dal Concilio Vaticano I – un Sommo Pontefice Romano, proclamando con atto definitivo una dottrina, fruisce della prerogativa dell’infallibilità (cf. Lumen gentium, n. 25: EV 1/346) pur nella diversità di modalità e di strumenti magisteriali utilizzati nei due casi.
http://www.oliari.com/chiesa/chiesa23.html
Congregazione per la dottrina della Fede
“Considerazioni circa il riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali”
31 luglio 2003
1. Diverse questioni concernenti l’omosessualità sono state trattate recentemente più volte dal Santo Padre Giovanni Paolo II e dai competenti Dicasteri della Santa Sede.(1) Si tratta infatti di un fenomeno morale e sociale inquietante, anche in quei Paesi in cui non assume un rilievo dal punto di vista dell’ordinamento giuridico. Ma esso diventa più preoccupante nei Paesi che hanno già concesso o intendono concedere un riconoscimento legale alle unioni omosessuali che, in alcuni casi, include anche l’abilitazione all’adozione di figli. Le presenti Considerazioni non contengono nuovi elementi dottrinali, ma intendono richiamare i punti essenziali circa il suddetto problema e fornire alcune argomentazioni di carattere razionale, utili per la redazione di interventi più specifici da parte dei Vescovi secondo le situazioni particolari nelle diverse regioni del mondo: interventi destinati a proteggere ed a promuovere la dignità del matrimonio, fondamento della famiglia, e la solidità della società, della quale questa istituzione è parte costitutiva. Esse hanno anche come fine di illuminare l’attività degli uomini politici cattolici, per i quali si indicano le linee di condotta coerenti con la coscienza cristiana quando essi sono posti di fronte a progetti di legge concernenti questo problema.(2) Poiché si tratta di una materia che riguarda la legge morale naturale, le seguenti argomentazioni sono proposte non soltanto ai credenti, ma a tutti coloro che sono impegnati nella promozione e nella difesa del bene comune della società.
I. NATURA E CARATTERISTICHE IRRINUNCIABILI DEL MATRIMONIO
2. L’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla complementarità dei sessi ripropone una verità evidenziata dalla retta ragione e riconosciuta come tale da tutte le grandi culture del mondo. Il matrimonio non è una qualsiasi unione tra persone umane. Esso è stato fondato dal Creatore, con una sua natura, proprietà essenziali e finalità.(3) Nessuna ideologia può cancellare dallo spirito umano la certezza secondo la quale esiste matrimonio soltanto tra due persone di sesso diverso, che per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed esclusiva, tendono alla comunione delle loro persone. In tal modo si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla generazione e alla educazione di nuove vite.
3. La verità naturale sul matrimonio è stata confermata dalla Rivelazione contenuta nei racconti biblici della creazione, espressione anche della saggezza umana originaria, nella quale si fa sentire la voce della natura stessa. Tre sono i dati fondamentali del disegno creatore sul matrimonio, di cui parla il Libro della Genesi.
In primo luogo l’uomo, immagine di Dio, è stato creato « maschio e femmina » (Gn 1, 27). L’uomo e la donna sono uguali in quanto persone e complementari in quanto maschio e femmina. La sessualità da un lato fa parte della sfera biologica e, dall’altro, viene elevata nella creatura umana ad un nuovo livello, quello personale, dove corpo e spirito si uniscono.
Il matrimonio, poi, è istituito dal Creatore come forma di vita in cui si realizza quella comunione di persone che impegna l’esercizio della facoltà sessuale. « Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne » (Gn 2, 24).
Infine, Dio ha voluto donare all’unione dell’uomo e della donna una partecipazione speciale alla sua opera creatrice. Perciò Egli ha benedetto l’uomo e la donna con le parole: « Siate fecondi e moltiplicatevi » (Gn 1, 28). Nel disegno del Creatore complementarità dei sessi e fecondità appartengono quindi alla natura stessa dell’istituzione del matrimonio.
Inoltre, l’unione matrimoniale tra l’uomo e la donna è stata elevata da Cristo alla dignità di sacramento. La Chiesa insegna che il matrimonio cristiano è segno efficace dell’alleanza di Cristo e della Chiesa (cf. Ef 5, 32). Questo significato cristiano del matrimonio, lungi dallo sminuire il valore profondamente umano dell’unione matrimoniale tra l’uomo e la donna, lo conferma e lo rafforza (cf. Mt 19, 3-12; Mc 10, 6-9).
4. Non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia. Il matrimonio è santo, mentre le relazioni omosessuali contrastano con la legge morale naturale. Gli atti omosessuali, infatti, « precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun modo possono essere approvati ».(4)
Nella Sacra Scrittura le relazioni omosessuali « sono condannate come gravi depravazioni… (cf. Rm 1, 24-27; 1 Cor 6, 10; 1 Tm 1, 10). Questo giudizio della Scrittura non permette di concludere che tutti coloro, i quali soffrono di questa anomalia, ne siano personalmente responsabili, ma esso attesta che gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati ».(5) Lo stesso giudizio morale si ritrova in molti scrittori ecclesiastici dei primi secoli (6) ed è stato unanimemente accettato dalla Tradizione cattolica.
Secondo l’insegnamento della Chiesa, nondimeno, gli uomini e le donne con tendenze omosessuali « devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione ».(7) Tali persone inoltre sono chiamate come gli altri cristiani a vivere la castità.(8) Ma l’inclinazione omosessuale è « oggettivamente disordinata »(9) e le pratiche omosessuali « sono peccati gravemente contrari alla castità ».(10)
II. ATTEGGIAMENTI NEI CONFRONTI DEL PROBLEMA DELLE UNIONI OMOSESSUALI
5. Nei confronti del fenomeno delle unioni omosessuali, di fatto esistenti, le autorità civili assumono diversi atteggiamenti: a volte si limitano alla tolleranza di questo fenomeno; a volte promuovono il riconoscimento legale di tali unioni, con il pretesto di evitare, rispetto ad alcuni diritti, la discriminazione di chi convive con una persona dello stesso sesso; in alcuni casi favoriscono persino l’equivalenza legale delle unioni omosessuali al matrimonio propriamente detto, senza escludere il riconoscimento della capacità giuridica di procedere all’adozione di figli.
Laddove lo Stato assuma una politica di tolleranza di fatto, non implicante l’esistenza di una legge che esplicitamente concede un riconoscimento legale a tali forme di vita, occorre ben discernere i diversi aspetti del problema. La coscienza morale esige di essere, in ogni occasione, testimoni della verità morale integrale, alla quale si oppongono sia l’approvazione delle relazioni omosessuali sia l’ingiusta discriminazione nei confronti delle persone omosessuali. Sono perciò utili interventi discreti e prudenti, il contenuto dei quali potrebbe essere, per esempio, il seguente: smascherare l’uso strumentale o ideologico che si può fare di questa tolleranza; affermare chiaramente il carattere immorale di questo tipo di unione; richiamare lo Stato alla necessità di contenere il fenomeno entro limiti che non mettano in pericolo il tessuto della moralità pubblica e, soprattutto, che non espongano le giovani generazioni ad una concezione erronea della sessualità e del matrimonio, che le priverebbe delle necessarie difese e contribuirebbe, inoltre, al dilagare del fenomeno stesso. A coloro che a partire da questa tolleranza vogliono procedere alla legittimazione di specifici diritti per le persone omosessuali conviventi, bisogna ricordare che la tolleranza del male è qualcosa di molto diverso dall’approvazione o dalla legalizzazione del male.
In presenza del riconoscimento legale delle unioni omosessuali, oppure dell’equiparazione legale delle medesime al matrimonio con accesso ai diritti che sono propri di quest’ultimo, è doveroso opporsi in forma chiara e incisiva. Ci si deve astenere da qualsiasi tipo di cooperazione formale alla promulgazione o all’applicazione di leggi così gravemente ingiuste nonché, per quanto è possibile, dalla cooperazione materiale sul piano applicativo. In questa materia ognuno può rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza.
III. ARGOMENTAZIONI RAZIONALI CONTRO IL RICONOSCIMENTO LEGALE DELLE UNIONI OMOSESSUALI
6. La comprensione dei motivi che ispirano la necessità di opporsi in questo modo alle istanze che mirano alla legalizzazione delle unioni omosessuali richiede alcune considerazioni etiche specifiche, che sono di diverso ordine.
Di ordine relativo alla retta ragione
Il compito della legge civile è certamente più limitato riguardo a quello della legge morale,(11) ma la legge civile non può entrare in contraddizione con la retta ragione senza perdere la forza di obbligare la coscienza.(12) Ogni legge posta dagli uomini in tanto ha ragione di legge in quanto è conforme alla legge morale naturale, riconosciuta dalla retta ragione, e in quanto rispetta in particolare i diritti inalienabili di ogni persona.(13) Le legislazioni favorevoli alle unioni omosessuali sono contrarie alla retta ragione perché conferiscono garanzie giuridiche, analoghe a quelle dell’istituzione matrimoniale, all’unione tra due persone dello stesso sesso. Considerando i valori in gioco, lo Stato non potrebbe legalizzare queste unioni senza venire meno al dovere di promuovere e tutelare un’istituzione essenziale per il bene comune qual è il matrimonio.
Ci si può chiedere come può essere contraria al bene comune una legge che non impone alcun comportamento particolare, ma si limita a rendere legale una realtà di fatto che apparentemente non sembra comportare ingiustizia verso nessuno. A questo proposito occorre riflettere innanzitutto sulla differenza esistente tra il comportamento omosessuale come fenomeno privato, e lo stesso comportamento quale relazione sociale legalmente prevista e approvata, fino a diventare una delle istituzioni dell’ordinamento giuridico. Il secondo fenomeno non solo è più grave, ma acquista una portata assai più vasta e profonda, e finirebbe per comportare modificazioni dell’intera organizzazione sociale che risulterebbero contrarie al bene comune. Le leggi civili sono principi strutturanti della vita dell’uomo in seno alla società, per il bene o per il male. Esse « svolgono un ruolo molto importante e talvolta determinante nel promuovere una mentalità e un costume ».(14) Le forme di vita e i modelli in esse espresse non solo configurano esternamente la vita sociale, bensì tendono a modificare nelle nuove generazioni la comprensione e la valutazione dei comportamenti. La legalizzazione delle unioni omosessuali sarebbe destinata perciò a causare l’oscuramento della percezione di alcuni valori morali fondamentali e la svalutazione dell’istituzione matrimoniale.
Di ordine biologico e antropologico
7. Nelle unioni omosessuali sono del tutto assenti quegli elementi biologici e antropologici del matrimonio e della famiglia che potrebbero fondare ragionevolmente il riconoscimento legale di tali unioni.
Esse non sono in condizione di assicurare adeguatamente la procreazione e la sopravvivenza della specie umana. L’eventuale ricorso ai mezzi messi a loro disposizione dalle recenti scoperte nel campo della fecondazione artificiale, oltre ad implicare gravi mancanze di rispetto alla dignità umana,(15) non muterebbe affatto questa loro inadeguatezza.
Nelle unioni omosessuali è anche del tutto assente la dimensione coniugale, che rappresenta la forma umana ed ordinata delle relazioni sessuali. Esse infatti sono umane quando e in quanto esprimono e promuovono il mutuo aiuto dei sessi nel matrimonio e rimangono aperte alla trasmissione della vita.
Come dimostra l’esperienza, l’assenza della bipolarità sessuale crea ostacoli allo sviluppo normale dei bambini eventualmente inseriti all’interno di queste unioni. Ad essi manca l’esperienza della maternità o della paternità. Inserire dei bambini nelle unioni omosessuali per mezzo dell’adozione significa di fatto fare violenza a questi bambini nel senso che ci si approfitta del loro stato di debolezza per introdurli in ambienti che non favoriscono il loro pieno sviluppo umano. Certamente una tale pratica sarebbe gravemente immorale e si porrebbe in aperta contraddizione con il principio, riconosciuto anche dalla Convenzione internazionale dell’ONU sui diritti dei bambini, secondo il quale l’interesse superiore da tutelare in ogni caso è quello del bambino, la parte più debole e indifesa.
Di ordine sociale
8. La società deve la sua sopravvivenza alla famiglia fondata sul matrimonio. La conseguenza inevitabile del riconoscimento legale delle unioni omosessuali è la ridefinizione del matrimonio, che diventa un’istituzione la quale, nella sua essenza legalmente riconosciuta, perde l’essenziale riferimento ai fattori collegati alla eterosessualità, come ad esempio il compito procreativo ed educativo. Se dal punto di vista legale il matrimonio tra due persone di sesso diverso fosse solo considerato come uno dei matrimoni possibili, il concetto di matrimonio subirebbe un cambiamento radicale, con grave detrimento del bene comune. Mettendo l’unione omosessuale su un piano giuridico analogo a quello del matrimonio o della famiglia, lo Stato agisce arbitrariamente ed entra in contraddizione con i propri doveri.
A sostegno della legalizzazione delle unioni omosessuali non può essere invocato il principio del rispetto e della non discriminazione di ogni persona. Una distinzione tra persone oppure la negazione di un riconoscimento o di una prestazione sociale non sono infatti accettabili solo se sono contrarie alla giustizia.(16) Non attribuire lo statuto sociale e giuridico di matrimonio a forme di vita che non sono né possono essere matrimoniali non si oppone alla giustizia, ma, al contrario, è da essa richiesto.
Neppure il principio della giusta autonomia personale può essere ragionevolmente invocato. Una cosa è che i singoli cittadini possano svolgere liberamente attività per le quali nutrono interesse e che tali attività rientrino genericamente nei comuni diritti civili di libertà, e un’altra ben diversa è che attività che non rappresentano un significativo e positivo contributo per lo sviluppo della persona e della società possano ricevere dallo Stato un riconoscimento legale specifico e qualificato. Le unioni omosessuali non svolgono neppure in senso analogico remoto i compiti per i quali il matrimonio e la famiglia meritano un riconoscimento specifico e qualificato. Ci sono invece buone ragioni per affermare che tali unioni sono nocive per il retto sviluppo della società umana, soprattutto se aumentasse la loro incidenza effettiva sul tessuto sociale.
Di ordine giuridico
9. Poiché le coppie matrimoniali svolgono il ruolo di garantire l’ordine delle generazioni e sono quindi di eminente interesse pubblico, il diritto civile conferisce loro un riconoscimento istituzionale. Le unioni omosessuali invece non esigono una specifica attenzione da parte dell’ordinamento giuridico, perché non rivestono il suddetto ruolo per il bene comune.
Non è vera l’argomentazione secondo la quale il riconoscimento legale delle unioni omosessuali sarebbe necessario per evitare che i conviventi omosessuali perdano, per il semplice fatto della loro convivenza, l’effettivo riconoscimento dei diritti comuni che essi hanno in quanto persone e in quanto cittadini. In realtà, essi possono sempre ricorrere – come tutti i cittadini e a partire dalla loro autonomia privata – al diritto comune per tutelare situazioni giuridiche di reciproco interesse. Costituisce invece una grave ingiustizia sacrificare il bene comune e il retto diritto di famiglia allo scopo di ottenere dei beni che possono e debbono essere garantiti per vie non nocive per la generalità del corpo sociale.(17)
IV. COMPORTAMENTI DEI POLITICI CATTOLICI NEI CONFRONTI DI LEGISLAZIONI FAVOREVOLI ALLE UNIONI OMOSESSUALI
10. Se tutti i fedeli sono tenuti ad opporsi al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, i politici cattolici lo sono in particolare, nella linea della responsabilità che è loro propria. In presenza di progetti di legge favorevoli alle unioni omosessuali, sono da tener presenti le seguenti indicazioni etiche.
Nel caso in cui si proponga per la prima volta all’Assemblea legislativa un progetto di legge favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, il parlamentare cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro il progetto di legge. Concedere il suffragio del proprio voto ad un testo legislativo così nocivo per il bene comune della società è un atto gravemente immorale.
Nel caso in cui il parlamentare cattolico si trovi in presenza di una legge favorevole alle unioni omosessuali già in vigore, egli deve opporsi nei modi a lui possibili e rendere nota la sua opposizione: si tratta di un doveroso atto di testimonianza della verità. Se non fosse possibile abrogare completamente una legge di questo genere, egli, richiamandosi alle indicazioni espresse nell’Enciclica Evangelium vitae, « potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica », a condizione che sia « chiara e a tutti nota » la sua « personale assoluta opposizione » a leggi siffatte e che sia evitato il pericolo di scandalo.(18) Ciò non significa che in questa materia una legge più restrittiva possa essere considerata come una legge giusta o almeno accettabile; bensì si tratta piuttosto del tentativo legittimo e doveroso di procedere all’abrogazione almeno parziale di una legge ingiusta quando l’abrogazione totale non è possibile per il momento.
CONCLUSIONE
11. La Chiesa insegna che il rispetto verso le persone omosessuali non può portare in nessun modo all’approvazione del comportamento omosessuale oppure al riconoscimento legale delle unioni omosessuali. Il bene comune esige che le leggi riconoscano, favoriscano e proteggano l’unione matrimoniale come base della famiglia, cellula primaria della società. Riconoscere legalmente le unioni omosessuali oppure equipararle al matrimonio, significherebbe non soltanto approvare un comportamento deviante, con la conseguenza di renderlo un modello nella società attuale, ma anche offuscare valori fondamentali che appartengono al patrimonio comune dell’umanità. La Chiesa non può non difendere tali valori, per il bene degli uomini e di tutta la società.
Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nell’Udienza concessa il 28 marzo 2003 al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato le presenti Considerazioni, decise nella Sessione Ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.
Roma, dalla sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 3 giugno 2003, Memoria dei Santi Carlo Lwanga e Compagni, Martiri.
Joseph Card. Ratzinger
Prefetto
Angelo Amato, S.D.B.
Arcivescovo titolare di Sila
Segretario
NOTE
(1) Cf. Giovanni Paolo II, Allocuzioni in occasione della recita dell’Angelus, 20 febbraio 1994 e 19 giugno 1994; Discorso ai partecipanti dell’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per la Famiglia, 24 marzo 1999; Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2357-2359, 2396; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Persona humana, 29 dicembre 1975, n. 8; Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali, 1º ottobre 1986; Alcune Considerazioni concernenti la Risposta a proposte di legge sulla non discriminazione delle persone omosessuali, 24 luglio 1992; Pontificio Consiglio per la Famiglia, Lettera ai Presidenti delle Conferenze Episcopali d’Europa circa la risoluzione del Parlamento Europeo in merito alle coppie omosessuali, 25 marzo 1994; Famiglia, matrimonio e « unioni di fatto », 26 luglio 2000, n. 23.
(2) Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24 novembre 2002, n. 4.
(3) Cf. Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 48.
(4) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2357.
(5) Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Persona humana, 29 dicembre 1975, n. 8.
(6) Cf. per esempio S. Policarpo, Lettera ai Filippesi, V, 3; S. Giustino, Prima Apologia, 27, 1-4; Atenagora, Supplica per i cristiani, 34.
(7) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2358; cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali, 1º ottobre 1986, n. 10.
(8) Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2359; Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali, 1º ottobre 1986, n. 12.
(9) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2358.
(10) Ibid., n. 2396.
(11) Cf. Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Evangelium vitae, 25 marzo 1995, n. 71.
(12) Cf. ibid., n. 72.
(13) Cf. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 95, a. 2.
(14) Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Evangelium vitae, 25 marzo 1995, n. 90.
(15) Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum vitae, 22 febbraio 1987, II. A. 1-3.
(16) Cf. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 63, a. 1, c.
(17) Occorre non dimenticare inoltre che sussiste sempre « il pericolo che una legislazione che faccia dell’omosessualità una base per avere dei diritti possa di fatto incoraggiare una persona con tendenza omosessuale a dichiarare la sua omosessualità o addirittura a cercare un partner allo scopo di sfruttare le disposizioni della legge » (Congregazione per la Dottrina della Fede, Alcune considerazioni concernenti la risposta a proposte di legge sulla non discriminazione delle persone omosessuali, 24 luglio 1992, n. 14).
(18) Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Evangelium vitae, 25 marzo 1995, n. 73.
http://www.kattoliko.it/leggendanera/chiesa/femminismo.htm
Femminismo e cattolicesimo
Nato contro il Magistero della Chiesa cattolica, il femminismo odierno ha abbandonato i toni battaglieri e gli slogan urlati. Ma non per questo è meno pericoloso. Vediamo perché.
Esiste un femminismo “buono”? E soprattutto: il femminismo è compatibile con il cattolicesimo? Fino a qualche tempo fa, le risposte a queste domande sarebbero state pressoché scontate: il femminismo nasce e si afferma contro il Magistero della Chiesa, colpendo al cuore la famiglia. Per come si è manifestato nella storia, nessuna convivenza è possibile tra la visione del mondo femminista e l’antropologia cristiana.
Il femminismo oggi
Tuttavia, negli ultimi decenni molte cose sono cambiate: da un alto, si è affermata nel dibattito teologico una propensione al “dialogo con il mondo”, volto a ricercare aspetti positivi anche nei fenomeni deteriori. Perfino ideologie apertamente condannate dal Magistero, come il comunismo, sono state oggetto di questo tentativo di conciliazione, con i risultati che abbiamo visto: molti fratelli “partirono” cristiani e ritornano marxisti. Dall’altro lato, il femminismo ha modificato le sue strategie: ha quasi completamente messo da parte toni e linguaggi degli anni Settanta, anche perché ha vinto: tutte le “rivendicazioni della donna” sono parte integrante della nostra vita quotidiana e delle nostre leggi. C’è in questo cambiamento un’analogia con il progetto gramsciano di occupazione della società, che evita lo scontro aperto, e che predilige la trasformazione progressiva ma inesorabile dei modelli di comportamento e della mentalità dominante.
Contro le donne o contro il femminismo?
Grazie ad un abile uso dei mass media, le lobby femministe sono riuscite a diffondere nell’opinione pubblica una falsa identificazione tra femminismo e donna; con il risultato che oggi chi critica il pensiero femminista viene bollato come nemico delle donne. Si tratta di un tipico “scacco matto” della ragione, simile alla retorica dell’antifascismo, che atrofizza la discussione vera e sostituisce la verità con i luoghi comuni. Per cui molti uomini pensano nel segreto della loro coscienza ogni male del femminismo, ma preferiscono tacere per non apparire degli anacronistici nemici delle donne. Un sacerdote, ad esempio, può pensare che sia meglio “digerire” il femminismo piuttosto che rischiare di perdere il contributo prezioso di preghiere, di lavoro e di idee che le donne assicurano alla parrocchia. Ignorando che, spesso, le prime a diffidare del femmiriismo sono proprio le donne, soprattutto le donne semplici che fanno da silenziosa colonna portante della Chiesa. In questo contesto è stata autorevolmente proposta l’idea che esista un “nuovo femminismo” – addirittura alcuni parlano di femminismo cristiano – che abbandoni molti dei contenuti del femminismo storico, insistendo sulla promozione della dignità della donna. Si tratta di un’operazione realmente possibile?
I capisaldi del pensiero femminista
Sarà bene riassumere quali sono alcuni elementi caratteristici del pensiero femminista: natura ideologica: il femminismo è un’ideologia, nasce dall’elaborazione di pochi teorici che a tavolino decidono di ridefinire la posizione della donna nella società. Così come i giacobini o i filosofi marxisti, che capovolsero il mondo secondo un modello teorico. La Chiesa da sempre insegna di diffidare degli “ismi”, perché essi – come le eresie – offrono una lettura parziale della realtà.
a. Una forma di individualismo: il femminismo vuole che la donna si collochi al centro del mondo, che si preoccupi esclusivamente della propria “realizzazione” cui dovrà essere sacrificato tutto ciò che un tempo costituiva cura primaria della donna.
b. Omologazione dei sessi: il femminismo muove dall’idea che l’unica diversità tra uomo e donna sia quella genitale; ogni altra differenza è frutto di sovrastrutture culturali che dovranno al più presto essere superate.
c. Distruzione del concetto di ruolo: se uomo e donna sono la stessa cosa, significa che possono svolgere le medesime mansioni ed essere del tutto interscambiabili fra loro. Non ci sono più atteggiamenti paterni e materni in senso proprio, attitudini o sentimenti maschili e femminili. E, dunque, non ci sono più ruoli riconducibili a una vocazione legata alla propria identità sessuale. Chi si meraviglia della (assurda) pretesa di ammettere le donne al sacerdozio, dimostra di non cogliere la perfetta coerenza tra questa istanza e la lettura femminista della realtà.
d. Relativismo: dunque, la natura non esiste; esistono solo le culture, ognuna delle quali esprime una morale del tutto relativa. Non esiste un punto di riferimento oggettivo che può giudicare una certa azione umana. La donna è libera quando finalmente scopre di essere lei metro e giudizio di tutte le cose.
e. Una rincorsa verso il peggio: il femminismo alimenta uno spirito di rivalsa e di competizione nei confronti dell’uomo, che viene visto come un nemico. Tuttavia, esso assume implicitamente gli aspetti deteriori del maschio come modelli da inseguire: se in passato solo l’uomo si permetteva certi difetti, parità significa che anche la donna può finalmente fare le stesse cose sbagliate, in una mortificante rincorsa verso il peggio.
I frutti del pensiero femminista
A partire dagli anni Settanta le società occidentali hanno subito una trasformazione nelle leggi e nei costumi, che ha nel femminismo una delle sue cause principali. L’albero va giudicato dai suoi frutti, e quelli del femminismo sono senza dubbio avvelenati.
a. Parità di potere: la parità predicata dal femminismo riguarda non la dignità — che la Chiesa ha sempre insegnato — ma il potere: nasce da uno schema marxiano che vuole dare alta donna la stessa forza del maschio oppressore.
b. Crisi del ruolo della donna di casa: il femminismo ha svolto un ruolo determinante — per altro funzionale alla società dei consumi – per strappare la donna dal suo ruolo di moglie e di madre. Oggi, dedicarsi a questa vocazione significa imboccare una strada controcorrente, che non gode più di un riconoscimento morale da parte della società. La casalinga è, nell’immaginario collettivo, definibile come “colei che non lavora”.
c. Legalizzazione del divorzio: date le premesse appena descritte, l’unità familiare diventa una chimera irraggiungibile. La famiglia è la sommatoria di tanti singoli, secondo un modello individualista esposto ai capricci di ognuno dei coniugi.
d. Legalizzazione dell’aborto procurato: il femminismo ha da sempre rivendicato questo abominevole delitto come simbolo del potere della donna sui figli e sul coniuge.
e. Crisi del ruolo del padre: il femminismo ha travolto ta figura paterna, svuotandola di contenuto e di autorità. Il disagio giovanile è spesso il sintomo più evidente di questa “morte del padre”.
Un femminismo dal volto umano?
Come ha scritto il cardinale Giacomo Biffi qualche anno fa, l’immagine della donna proposta dalla società contemporanea sembra essere la negazione programmatica della Vergine Maria. Sofisticata e disperata, la donna femminista appare davvero lontana dal modello della Donna che sbrigava le faccende nella piccola casa di Nazareth. I modelli individualisti — applicati tanto all’uomo che alla donna — sono incompatibili con l’esempio della Madre di Gesù. Alla luce delle considerazioni fatte, si può concludere che inseguire un “nuovo femminismo” è operazione piuttosto pericolosa. Assomiglia molto alla speranza di costruire un comunismo dal volto umano, che è rimasta un’utopia irrealizzabile. Perché delle due l’una: o il femminismo, pur se riveduto e corretto, non rinnega le sue radici; e allora rimane incompatibile con l’antropologia cristiana. Oppure, questo nuovo femminismo abbandona radici e frutti perversi, e si concentra sulla promozione della femminilità vera; e allora cessa di essere un vero femminismo. In tal caso, sarebbe molto meglio evitare di usare questa parola, che tante sciagure evoca alla memoria, e sostituirla con qualche altro termine, che designi il recupero di una nuova sensibilità tutta cristiana per la dignità della donna. Forse, tra gli intellettuali che animano questo giornale e tra i numerosi lettori del Timone qualcuno potrà proporre un termine nuovo per indicare una realtà ben diversa dal femminismo che conosciamo.
Ricorda
“La Chiesa ringrazia per tutte le manifestazioni del “genio” femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e Nazioni; nngrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del Popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità; ringrazia per tutti i frutti dl santità femminile”. (Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, n. 31).
Bibliografia
Libro del Siracide, Antico Testamento.
Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie, 2 febbraio 1994.
Romano Guardini, Persona e Libertà, Morcelliaria, Brescia 1987.
Ugo Borghello, Liberare l’amore, Ares, Milano 1997.
© Il Timone – n.27 Settembre/Ottobre 2003
http://www.universitadelledonne.it/ratzing.htm
Nulla di nuovo sul fronte di Ratzinger
di Rossana Rossanda
questo articolo è apparso su il manifesto del 22 agosto 2004
Non credo che convenga discutere assieme di Judith Butler e di Joseph Ratzinger. La prima è una individua, sola, problematica, esposta. Il secondo è il Sant’Uffizio, custode e sorvegliante della verità della Chiesa cattolica e apostolica romana, che indirizza a tutti i vescovi una direttiva sulla «collaborazione fra uomini e donne» siglata dal Papa Giovanni Paolo II. Luisa Muraro – che ne ha scritto su queste pagine il 7 agosto – è ben indulgente quando si rivolge all’uomo Joseph invitandolo a partire da sé e a individuare in sé il conflitto fra i sessi; quella lettera non è di un uomo ma di una istituzione, la quale parte per l’appunto da sé e si riferisce a sé come alla rivelazione. Soprattutto mi sorprende il clamore che la lettera ha sollevato.
Essa innoverebbe perché assume il tema della differenza? Non è una novità. La Chiesa ha sempre fatto sua la differenza femminile, ma in un’accezione molto diversa e opposta a quella per la quale si batte Luisa Muraro. Per la chiesa i sessi sono sempre stati diversi, anche al di là del dato biologico, perché diversi Dio li ha creati assegnando una diversa funzione e definendo fra di essi una gerarchia. Che Ratzinger rimanda alla «antropologia biblica», riassumendo l’inizio del Genesi: Dio che ha creato per primo Adamo, poi lo ha visto triste e solo (lasciamo correre su quel prima e poi), allora ha tratto dalle sue carni e dalle sue ossa quella che sarebbe stata la sua compagna, stabilendo così – glossa il cardinale ad uso delle mie amiche femministe – che l’umanità ha «ontologicamente» bisogno della relazione.
Il Genesi aggiunge un essenziale: Dio li fece a sua immagine e somiglianza, e Paolo dirà: «In Cristo non ci sono maschio e femmina», volendo significare (Sofri ha inteso male) che uno e uguale è il rapporto fra Dio e la specie umana, altro è il rapporto fra i due sessi nel loro passaggio terrestre. Il quale è segnato dalla caduta, il peccato originale di disobbedienza alla sola proibizione che Dio dette alla prima coppia, cioè il gustare quel frutto della conoscenza che li farebbe diventare uguali a lui. Eva invece cede alla tentazione, convince Adamo a mangiare la celebre mela e l’irato Javé condanna i due irriconoscenti, che aveva creato immortali, a morire. L’umanità si dovrà riprodurre attraverso il loro congiungimento carnale, Eva partorirà con dolore e, aggiunge Javè: lui ti dominerà. È stata creata a sua immagine ma è diventata soggetta all’uomo.
Tutto questo era già noto, prima della lettera di Ratzinger, a chiunque sia andato da ragazzo a dottrina. Ratzinger si guarda bene infatti dall’inserire il racconto biblico nel contesto storico, ridimensionandone il valore paradigmatico. Precisa anzi che il congiungimento dei sessi, necessario alla riproduzione umana (ma anche di quasi tutti gli animali, innocenti da ogni disobbedienza) è infaustamente legato al peccato originale, e minacciato dall’ulteriore peccato di concupiscenza. Non si capisce come egli pensi che il congiungimento carnale avverrebbe senza desiderio, e in che cosa questo desiderio si distinguerebbe dalla concupiscenza: forse nell’essere cercato per sé, anche fra coniugi invece che ai fini della riproduzione. Non dice, il cardinale, che Tommaso d’Aquino sosteneva, nella Questio 94 della Summa ricordata da Adriana Zarri, che il congiungimento sessuale doveva essere parte dello stato di perfezione nell’Eden. Si limita a far capire, come Paolo, che meglio sarebbe rinunciare ad esso, singolarmente o nel rapporto coniugale – a costo di metter fine all’umanità o affidarne la prosecuzione alla tentazione diabolica; insomma la carne che si congiunge è indissolubilmente legata al peccato.
La donna se ne può distaccare per il ruolo, separato e superiore al dato biologico, di compagna «per l’altro», capace di ascolto, compassione, adattamento, passività (sic) – qualità quasi tristi che, certo, dovrebbero praticare tutti ma alle quali essa è «per natura» (cioè per disegno di Dio) predisposta.
E quale essenzialismo, quale ontologia è più solidamente basata di quella derivante dalla creazione? Si capisce che la Lettera dichiari fin dall’inizio la sua preoccupazione, essendo scritta per mettere in guardia da due recenti tendenze: il fatto che la donna tende a riappropriarsi di sé e «per sé» andando così contro la sua intima natura e il suo «genuino» interesse, e l’avanzare di idee e pratiche di intervento sulla riproduzione «naturale»; nonché la tentazione che avanza di un polimorfismo sessuale, che rivelerebbe la tendenza diabolica dell’uomo a uccidere il suo corpo prescindendo dall’ordine di natura. Tutte derive fatali che stanno mettendo in pericolo l’ordine famigliare, che è alla base dell’ordinamento sociale.
Dov’è l’innovazione? Non è nuovo neppure che, pur nella gerarchia naturale dei sessi, il cristianesimo assegni all’essere femminile una dignità che lo distingua sia dalla tradizione greca (per Esiodo la donna è il «bel male» che l’irato Giove fa confezionare da Minerva per punire gli uomini), sia da quella ebraica, in quanto impone una unicità di rapporto fra un uomo e una donna, che nel Libro non c’è. Si può avere dignità a parte intera, anche essendo «un altro io dell’umanità»: altro e senza quel potere di mediazione fra l’umanità stessa e il suo creatore che compete all’uomo attraverso la chiesa. Il sacerdote è infatti il solo ad amministrare i sacramenti, il solo che abbia l’immenso potere conferitogli dal signore di far rifiorire nella messa e nell’eucarestia la presenza e il sacrificio di Cristo, il solo che possa condannare e assolvere dai peccati dell’umanità che è tenuta a confidarglisi nella confessione, il solo che può legare o separare, il solo a somministrare o negare la presenza di Dio nell’eucarestia, insomma il solo a essere parte della funzione della Chiesa. A lui «esclusivamente» riservata in virtù della non casuale mascolinità di Gesù.
La donna è nella chiesa ma appunto passivamente, in funzione di compagna, madre, moglie, sorella, figlia se non sposa di Dio. A Ratzinger piace la dizione «nuzialità» in quanto simboleggia questo rapporto assieme impari e amoroso: non è nuziale nel Libro il rapporto di Dio con Israele. Egli è lo sposo che l’ha eletta mentre lei, Israele, è la sposa incline a cadere, a idolatrare altre immagini, a prostituirsi, attirandosi la collera di lui che però è anche pronto a un amoroso perdono. Le pagine di Osea sono profuse di questa indulgente tenerezza che ristabilisce fra Javè e Israele il patto da lei violato. E nuziale sembra al nostro cardinale il rapporto fra Dio e la chiesa, che legge anche nel Cantico dei Cantici – metafora sublime d’una reciproca attesa che la Chiesa è costretta un po’ faticosamente a desessualizzare.
Più recente e insistente l’indicazione di Maria nella donna assolutamente perfetta, quella che accoglie l’intervento divino nel concepire Gesù magnificando Dio per averla scelta, che adora il figlio e lo segue, ne patisce i tormenti e la morte in croce e ne riceve in grembo la salma e lo seppellisce senza una sola parola di protesta. Maria è soltanto amore e dolore. Papa Pio IX, centocinquanta anni fa, ha deciso che era stata concepita lei stessa senza peccato, cosa che ai padri non era neanche passato per la mente. E Pio XII, quasi un secolo dopo, le ha risparmiato addirittura la morte perché sarebbe stata «assunta in cielo». Si direbbe che una certa mariologia, propria dei papi più tremendi – salvo il rispetto per la figura di Woytila – tenda a disumanizzare la madre di Cristo, quale che ne siano le conseguenze per la scelta del figlio di Dio di essere uomo in tutta l’umana miseria. Uomo sì, ma passando per il ventre di una donna non soggetta ai limiti del resto dell’umanità.
Ma non voglio continuare: stanca anche me, come Luisa Muraro, l’analisi della Lettera ai vescovi, facilmente consultabile sul sito vaticano. Chiedo piuttosto alle mie amiche del femminismo della differenza perché questo testo le abbia così singolarmente interessate. Certo, Ratzinger interessa loro più di quanto loro interessino lui, considerando che non è neppure sfiorato dall’idea di una libertà femminile che non sia obbedienza all’ordine del creato. Ordine subìto e amato, fino a quel sostare davanti al mistero, rinunciando alla conoscenza (Eva ne è stata scottata) cui saremmo inclini, preferendo comprendere «per amore» che «per ragione».
Ragione fatale, afferma Luisa Muraro, madre di tutte le guerre. Ma come la mettiamo con il Logos? Neanche Ratzinger se la cava molto bene con l’apostolo Giovanni, per il quale «al principio era il Logos», quando se la prende con l’astrazione e loda la concretezza femminile. Astratto perché senza corpo? Come il Logos? Povero Logos. Che ne pensano quelle di noi che usano il terribile neologismo: fallologocentrismo? Oppure si tratta di una metafora? E di che? Ratzinger preferisce assegnarci una volta per tutte all’ineffabilità del misticismo, sulla traccia di Meister Eckhart. Da parte mia ringrazio e declino.
http://www.acquaviva2000.com/CATECHESI/donne%20nel%20vangelo.htm
Le donne del Vangelo
Articolo di P. Alberto Maggi
edito su “Emmaus”, anno XVI, 15 marzo 2001.
In un mondo nel quale si affermava che “Chiunque discorre molto con una donna, è causa di male a se stesso, trascura lo studio della Legge e finisce nella Geenna”, la rivoluzionaria normalità con la quale Gesù si rapportava con le donne non doveva essere ben vista, come appare nel vangelo di Giovanni dove i discepoli, colto il Signore in colloquio con una samaritana, “si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna” (Gv 4,27). Perché mai parlare con una donna? Non insegna la tradizione che “una donna non ha da imparare che a servirsi del fuso”, e che “l’uso della donna è di stare in casa”, mentre “l’uso dell’uomo è di uscire e di apprendere dagli uomini”?
La donna era esclusa dall’istruzione religiosa. Per i rabbini questa esclusione era giustificata dal fatto che riguardo alla Parola di Dio nella Bibbia è scritto “la insegnerete ai vostri figli” (Dt 11,19). Se il Signore avesse voluto che l’insegnamento fosse esteso anche alle donne, avrebbe aggiunto “alle vostre figlie”, invece non l’ha fatto. Gli scribi arrivavano ad affermare che è meglio che “le parole della Legge vengano distrutte dal fuoco piuttosto che essere insegnate alle donne”, perché Dio “non parlò con alcuna donna se non con quella giusta ed anche quella volta per una causa”. Infatti, il Signore, offeso dell’innocente bugia di Sara che, “poiché aveva paura”, negò di aver riso all’annuncio della sua maternità (Gen 18,1-15), non rivolse più la parola a nessuna donna.
L’emarginazione della donna ebrea non riguardava solo la sfera religiosa ma la sua intera esistenza fin dal primo apparire. Infatti, secondo il Libro del Levitico, la nascita di una bambina rende impura la madre per circa tre mesi (Lv 12,-25). Per la sua particolare condizione fisiologica la donna viveva inoltre in una situazione di perenne impurità (Lv 15,19-30), e per questo era considerata l’essere umano più distante da Dio. Se in tutte le culture la nascita di una bambina non è mai stata auspicabile (“Auguri e figli maschi!”), nel mondo giudaico l’arrivo di una figlia era considerato un’autentica sciagura, come scrive sconsolato l’autore del Siracide: “Una figlia è per il padre un’inquietudine segreta, la preoccupazione per lei allontana il sonno: nella sua giovinezza, perché non sfiorisca, una volta accasata, perché non sia ripudiata. Finché è ragazza, si teme che sia sedotta e che resti incinta nella casa paterna; quando è con un marito, che cada in colpa, quando è accasata, che sia sterile” (Sir 42,9-10).
Questa pessimista visione veniva confermata dal Talmud: “Il mondo non può esistere senza maschi e senza femmine, ma felice colui i cui figli sono maschi e guai a colui i cui figli sono femmine”, e codificata nella preghiera recitata tre volte il giorno da ogni maschio ebreo che così ringrazia Dio: “Benedetto Colui che non mi ha fatto pagano, non mi ha fatto donna, non mi ha fatto bifolco”. Nelle famiglie, quando esistevano già un paio di bambine l’arrivo di un’ altra femmina era particolarmente temuto, per questo era uso abbastanza comune esporre la nascitura, cioè abbandonarla fuori del villaggio: “Ti gettarono via in aperta campagna, nauseati di te, nel giorno della tua nascita” (Ez 16,5). Quando la bambina veniva tenuta nella famiglia, era per allevarla come serva del padre e dei fratelli e poi, a circa dodici anni, del marito e, infine, dei figli.
In questo contesto culturale non può pertanto non sorprendere l’eccezionale rilievo che le donne hanno nei vangeli. Mentre i protagonisti maschili del vangelo sono quasi tutti negativi, i personaggi femminili sono tutti positivi, eccezione fatta per le due donne che gli evangelisti ci presentano in relazione con il potere: colei che lo detiene, Erodiade, adultera e assassina, e colei che lo desidera per i suoi figli, l’ambiziosa madre dei figli di Zebedèo.
Le donne nei vangeli vengono presentate come coloro che per prime hanno saputo accogliere e comprendere il Signore: dalla madre, grande non perché ha dato alla luce Gesù, ma perché ha saputo diventare discepola del figlio, a Maria di Magdala, prima testimone e annunciatrice della risurrezione del Cristo. Nella lingua ebraica non si conosceva un termine per indicare discepola, che esisteva solo al maschile, e al tempo di Gesù la tradizione insegnava che “un discepolo dei saggi non deve parlare con una donna per strada neanche se è sua moglie, sua figlia, sua sorella”.
Ma per Gesù non “c’è più ne maschio né femmina” (Gal 3,28), c’è la persona umana, che come tale merita rispetto e dignità indipendentemente dalla sua identità sessuale. Per questo, contravvenendo tradizione e morale, Gesù associa al suo gruppo anche “alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità” (Lc 8,1), e nei vangeli sono le donne le privilegiate protagoniste delle azioni del Signore.
La prima persona alla quale Gesù si manifesterà come il Messia atteso sarà una samaritana, essere umano che come donna, adultera e impura era il meno credibile cui affidare l’importante rivelazione. Ugualmente l’unico fatto che il Signore chiede espressamente venga fatto conoscere ovunque è l’unzione compiuta su di lui da una donna: “In verità io vi dico: dovunque sarà predicato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che essa ha fatto” (Mc 14,9).
Se i discepoli maschi scomparvero di scena al momento della crocifissione, le uniche testimoni della sua morte “erano alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, le quali quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme” (Mc 15,40-41). Gli evangelisti affermano che le donne oltre che seguire Gesù lo servono. Di nessun discepolo è detto questo.
Nella concezione religiosa del tempo Dio abitava in una “luce inaccessibile” (1 Tm 6,16). Gli esseri che gli erano più vicini erano gli angeli del servizio, gli unici che stavano sempre davanti al Signore per servirlo. Nei vangeli gli unici esseri che servono Gesù sono gli angeli (“e gli angeli lo servivano”, Mc 1,13) e le donne. Per gli evangelisti le donne non solo sono uguali agli uomini, ma svolgono un ruolo superiore, lo stesso degli angeli. L’azione di “annunziare”, esclusiva prerogativa degli angeli, i nunzi di Dio, è infatti nei vangeli compito privilegiato delle donne. Per questo solo le donne sono incaricate dall’Angelo del Signore di annunciare la risurrezione di Gesù: “Presto, andate a dire ai suoi discepoli: «È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto». Abbandonato in fretta il sepolcro, con timore e gioia grande, corsero a dare l’annunzio ai suoi discepoli” (Mt 28,7-8). E proprio la donna, che la Bibbia definiva responsabile della morte (“Dalla donna ha avuto inizio il peccato, per causa sua tutti moriamo”, Sir 25,24), sarà la prima testimone della vita: “Maria di Magdala andò subito ad annunziare ai discepoli: «Ho visto il Signore!»” (Gv 20,18).
http://www.alcatraz.it/redazione/news/show_news_p.php3?NewsID=2241
14 Novembre 2004
Il Vangelo e le donne, di Dario Fo
Vi presentiamo, ancora in bozza di lavoro, un’anticipazione del nuovo lavoro di Dario su Gesu’ e le donne. Ovviamente si tratta di una versione iniziale del lavoro ma ci sembra molto interessante proporvela perche’ credo sia utilissima per capire come lavora Dario. Sul file del testo c’e’ scritto “sesta stesura”, ce ne saranno molte altre prima di considerare il lavoro finito, e poi, una volta messo in scena, il testo verra’ di nuovo ribaltato, rigirato, limato e riscritto. Insomma piu’ di un’anticipazione, quella che vi stiamo presentando e’ l’ecografia del testo.
Speriamo che quest’esperienza con la fase prenatale dell’arte vi entusiasmi.
Bando alle ciance, ecco la futura creatura:
DARIO FO, FRANCA RAME, JACOPO FO
IL VANGELO E LE DONNE
I – PROLOGO
Nel secolo trascorso, la donna ha goduto di una improvvisa emancipazione che di certo non le e’ stata regalata, ma e’ stata frutto di lotte spesso durissime e cruente. Pensiamo alle battaglie delle suffragette (1,001) per conquistarsi il diritto al voto e ottenere l’applicazione di ordinamenti civili non discriminatori. Appresso dobbiamo far mente locale alle lotte sindacali delle operaie, specie le tessitrici “filandiere”, contro la decurtazione del salario, anche se svolgevano gli stessi “lavori” degli uomini. Non parliamo poi delle lotte dentro le scuole, a cominciare dall’acquisizione del diritto per le donne di frequentare le universita’ e le accademie.
A proposito di lotte e relativa repressione delle donne e’ bene ricordare il rogo di Chicago. Nei primi anni del secolo scorso (1908) le filandiere di quella citta’ si erano decise, pur di ottenere i loro giusti diritti, a occupare la fabbrica in cui lavoravano (Cottons). Era il mattino dell’otto marzo quando scoppio’ un incendio, non si sa quanto accidentale. Le donne, che si erano barricate all’interno, cercarono di salvarsi spalancando le porte. Ma qualcuno dall’esterno le aveva bloccate. Nel rogo morirono 129 operaie. Qualche giorno appresso, al loro funerale c’era una gran folla; il corteo funebre transitava nel grande viale ombreggiato da piante di mimose, che attraversa il quartiere dove era avvenuto il massacro. Molti ragazzi e ragazze si arrampicarono su quegli alberi in fiore e letteralmente li spogliarono gettando sui feretri mazzi gialli coi quali furono ornate le bare. Di qui viene il rito di donare ancor oggi mimose alle donne l’otto di marzo, che e’ diventata la loro festa.
Nei cosiddetti secoli luminosi dell’Umanesimo era fonte di meraviglia scoprire una donna pittrice (le figlie di Tintoretto e Artemisia Gentileschi, per la cronaca violentata da un suo collega, oltretutto pittore mediocre).
In teatro ancora agli inizi del Seicento in tutta l’Europa era impensabile che una donna montasse su un palcoscenico. Faceva eccezione l’Italia dove, fin dagli inizi del Cinquecento, i ruoli delle protagoniste femminili erano interpretati da donne, che spesso erano prostitute. Prostitute erano anche le virtuose del liuto e della viola; cosi’ per le poetesse e le danzatrici. In Inghilterra le opere di Shakespeare non hanno mai visto una Giulietta ne’ una Ofelia interpretate da femmine, ma solo travestiti e “femminielli”.
In compenso molte erano le fattucchiere e le streghe “medicone”, quasi immancabilmente perseguitate dall’Inquisizione. Dagli innumerevoli processi pubblicati dai tribunali siamo venuti a scoprire che spesso la denuncia a queste donne, abilissime nei massaggi, sapienti nel preparare intrugli di erbe e radici davvero portentosi, impareggiabili nell’arte di “aggiustaossi”, veniva dai medici addottorati che non ne sopportavano lo straripante successo.
Finalmente oggi tutta questa incivile discriminazione verso le femmine e’ quasi del tutto cessata. Vediamo donne operare nelle vesti di medici rispettati e stimati, di professoresse universitarie, addirittura chirurghi ineguagliabili, donne ingegneri meccanici, fisici e perfino premi Nobel per l’elettronica; una gran quantita’ di giudici e avvocati; registi cinematografici, direttrici di grandi complessi musicali. Per ritrovare cucitrici e ricamatrici al tombolo e punto croce ormai bisogna far ricerca fra maschi orientali, ma attenzione che anche in Cina vanno scomparendo.
L’unico campo nel quale le donne sono rimaste relegate all’ultimo gradino e’ quello della religione, specie in quella cattolica apostolica romana e in quella coopta e ortodossa.
La regola invalicabile di queste chiese e’ ancora quella dettata da S. Agostino e S. Tommaso d’Aquino: nessun accesso per le femmine, nessun ruolo, nemmeno un posto da chierichetto o sacrestano. L’unico ingaggio e’ quello di perpetua; ma bisogna essere molto vecchie, e soprattutto bruttine.
Non bisogna dimenticarci dei movimenti monacali sorti fin dai primi secoli. L’imperatrice Teodora raccolse, pagando di persona il riscatto, centinaia di donne pubbliche, quindi le libero’ dalla prostituzione, relegandole in monasteri dai quali era loro impedito uscire: dalla strada a una vera e propria galera!
Molte di esse fin dai primi giorni della loro liberazione si gettarono dalle alte mura che le costringevano a non piu’ peccare. Stesso trattamento piu’ o meno fu riservato alle sorelle di santa Chiara che, seguendo san Francesco, aveva fondato un ordine di donne il cui intento kera dedicarsi ai poveri e agli afflitti. Santa Chiara attese anni che il pontefice concedesse loro il timbro della regola. Finalmente (ma purtroppo stava per morire) Chiara ricevette il sacro documento, in fondo al quale era una postilla: “Le sorelle di questo monastero debbono giurare che accetteranno con devozione la clausura e quindi mai usciranno dalla loro casa”.
Eppure agli inizi del movimento cristiano (I, II, III secolo), il ruolo delle femmine nel rituale era pari a quello dei maschi, non c’era discriminazione di sorta. Alle origini troviamo donne diaconi, presbiterie e perfino con cariche corrispondenti a quelle di vescovi.
Per non parlare delle oranti. Il ruolo di quest’ultime era simile a quello delle sacerdotesse nei riti arcaici del Mediterraneo: come nella liturgia nata in comunita’ di origine africana, le oranti avevano il compito di recitare o cantare la prima frase di una litania, che appresso veniva ripetuta con varianti spesso improvvisate dal coro dei fedeli.
Ma a un certo punto, gia’ durante i primi secoli dopo Cristo, le donne sono state dispensate dal partecipare ai riti.
Come siamo arrivati a tale discriminazione sulle femmine? Che cosa ha generato questa sorta di paradossale misoginia nei loro confronti? Cercheremo di scoprirlo insieme.
Gesu’ era ebreo e circonciso. E cosi’ i suoi apostoli. Come lui lo erano Pietro e gli altri seguaci. Perfino Paolo era ebreo anche se all’inizio stava al servizio dei Romani.
Cristo ha sempre ripetuto di essere fedele alle leggi di Mose’. Quindi il Vangelo si forma sul sacro libro dell’Antico Testamento; ne segue i precetti e le regole.
Ma spesso (qui sta il fatto rivoluzionario del Vangelo: euangelos in greco significa il lieto annuncio) Cristo si oppone a gran parte di quelle antiche consuetudini con forza straordinaria, buttandole letteralmente all’aria. Per capirne l’incisivita’ e il valore ci bastera’ rileggere i vari passi del Vangelo, inserendoli nel loro contesto storico e sociale, oltre che religioso.
Quindi, procedendo per ordine, crediamo sia fondamentale informare, seppure sinteticamente, sulle origini del movimento cristiano e in particolare sulla nascita delle scritture che testimoniano della vita e del pensiero di Cristo.
III – LE DONNE NEL CRISTIANESIMO
Ora, la predicazione di Gesu’ era rivolta a tutta la popolazione dei giudei compresi i foresti, i samaritani, i cananei, i farisei, i pubblicani e soprattutto era dedicata ai diseredati, agli esclusi, agli umiliati, e prime fra tutte le donne.
Spesso nella Galilea si vedevano gruppi di credenti che seguivano il proprio maestro, ma erano seguaci esclusivamente maschi: le femmine a casa!
Con Gesu’, per la prima volta, insieme agli apostoli e ai miserabili, apparivano stuoli di femmine spesso coi loro piccoli in braccio.
Dice un testimone pagano del tempo: “La quantita’ di femmine nella comunita’ che segue il cosiddetto Figlio dell’uomo nel suo pellegrinare e la loro vivacita’ di azione, scossa dalla presenza di molti bimbi, la fa assomigliare a una tribu’ di nomadi”.
Il passaggio del gruppo che accompagnava Gesu’ era quindi fonte di disapprovazione e indignazione da parte degli abitanti dei luoghi attraversati da quella strana carovana.
Un altro particolare che rendeva eccentrico e a momenti addirittura scandaloso il gruppo era la presenza di storpi, vecchi e vedove malandate, ammalati, qualche prostituta molto nota, perfino lebbrosi e indemoniati: come dire, pazzi furiosi. In tanto bailamme non potevano mancare di certo musici e cantori e qualche saltimbanco, tanto per gradire.
C’e’ un’antica canzone di zingari andalusi che quasi in un dialogo cosi’ si esprime:
Chi ha mai detto che Cristo non sapesse cantare?
Oh, nessuno
Anzi penso che una bella voce teneva.
E se cantava, di certo con la chitarra s’accompagnava.
La chitarra non e’ forse degna di un profeta?
Di certo, anche d’un re! Pure Davide, cantando, strimpellava.
Gesu’ di certo batteva il tempo e danzava.
Oh si’, di certo, di certo.
E se danzava e cantava battendo mano con mano, chi puo’ giurare non fosse anche gitano?
Quelle donne seguivano da tempo Gesu’, fin da quando il Nazareno, appena battezzato da Giovanni, s’era mosso dalla Galilea. Alle volte esse apparivano piu’ numerose dei maschi e sostenevano ad alta voce le sentenze lanciate da Gesu’, superando e sfidando la consuetudine che le avrebbe volute riservate e non coinvolte in azioni religiose.
Negli Atti degli Apostoli si racconta dei viaggi dei primi sostenitori della parola del Profeta, che rispondevano all’invito di scegliere fra il fuoco della fede e il fuoco domestico. Turbe di donne abbandonavano le proprie case e trascuravano i doveri della famiglia, compreso l’accudire i figli e seppellire i genitori. I loghia (detti che non fanno parte dei Vangeli canonici) piu’ antichi menzionano padri, madri, sorelle abbandonati nella loro casa dagli itineranti.
Essi rispondevano cosi’ al drastico invito del Nazareno:
“Voi credete che io sia venuto a portare la pace nel mondo. No, io vi porto la discordia. Infatti sono venuto a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera. E ognuno avra’ nemici anche nella propria famiglia. Poiche’ chi ama sua madre e suo padre piu’ di me non e’ degno di me”. (Mt. 10,34).
Si discuteva a volte di come questa ribellione riguardo al ruolo della donna portasse a un vero e proprio sfacelo nella struttura della comunita’ tradizionale.
Di certo la gran parte delle donne che seguivano Gesu’ manifestava riconoscenza al maestro che le liberava dal giogo domestico. A testimoniare l’entusiasmo che dimostravano le seguaci femmine per questa insolita chiamata del Nazareno, basta il grido che Matteo mette in bocca a una di loro: “Beata la donna che ti ha generato e allattato”.
Esse erano le prime a scoprire che di fronte al regno di Dio i doveri della donna (come lavoro e impegni familiari) non contano.
La scelta di figure femminili nelle parabole raccontate da Gesu’ fa delle donne modelli coi quali identificarsi sia per le femmine che per gli uomini.
La donna che in una societa’ patriarcale si batte fino a imporre che le sia accordata attenzione e giustizia (Lc. 18,1) ha un significato e un peso allegorico straordinari, diremmo eversivi. Soprattutto e’ importante ed emblematico che Gesu’, come abbiamo gia’ detto, si serva di continuo di personaggi femminili per alludere a un problema di giustizia civile.
Vedi la parabola della moneta smarrita. La donna che l’ha perduta cerca per tutta la casa, alla luce di una lampada, spostando ogni mobile, finche’ la sua caparbieta’ viene premiata: la moneta e’ simbolo del bene perduto e ritrovato! Cioe’ a dire che bisogna andare fino in fondo senza mai cedere per guadagnarsi il nuovo regno.
I piu’ reputavano il Nazareno un eccentrico, un pazzo scriteriato. Giovanni e Marco raccontano che i parenti di Gesu’, venuti per controllare il suo comportamento, dopo averlo ascoltato predicare, commentano sconvolti “Egli e’ fuori di se'”. Quindi anche la sua stessa gente lo considerava socialmente disadattato, un inguaribile esaltato.
Luca (Lc. 22,37) testimonia che in Israele Gesu’ era considerato un malfattore (anomos in greco), un asociale.
In uno studio storico sulla vita di Gesu’, Adolf Holl dichiara verosimile la versione secondo cui Pilato, uomo duro, decide di sbarazzarsi di un personaggio molesto, esaltato e pericoloso come il sedicente Messia: un facinoroso che prometteva di voler abbattere il tempio dei giudei, la “spelonca di ladri” (Mt. 21,13), insultava i rappresentanti del potere religioso e civile, incitava alla disobbedienza verso le leggi e le consuetudini imposte dai maggiori.
Ma il crimine piu’ grave era ritenuto l’aver spinto le donne a uscire dalla loro normale condizione di emarginate e sottomesse, e per di piu’ condotto le femmine ad abbandonare la casa, il focolare, i figli, il marito, la suocera per seguirlo. Insomma un sovversivo del genere meritava senz’altro la forca!
Ma Gesu’ non e’ colpevole solo di aver creato disordine. Egli e’ colpevole anche per aver portato l’agape, cioe’, in greco, l’amore. Ma urge spiegare perche’ l’amore portato da Cristo fosse tanto pericoloso.
Egli incita ognuno a non tenere ne’ odio ne’ rancore verso chicchessia, ne’ verso i nemici della religione ne’ tanto meno contro i diversi, gli estranei, gli infetti. Peggio: Gesu’ ordina di amare nemici, infedeli, donne svergognate, schiavi, gabellieri, strozzini…
Come puo’ una societa’ vivere senza nemici da odiare, furfanti d’altra razza da uccidere, “malefemmine” da lapidare?
Per di piu’ questo amore non e’ piu’ un sentimento circoscritto all’ambito familiare. C’e’ una passione che si muove verso l’esterno, centrifuga: ama il tuo nemico come il tuo simile, non uccidere mai, non giudicare e non punire, porgi sempre l’altra guancia a chi ti colpisce, offri pace a chi t’aggredisce. Una innovazione insostenibile per ogni potere.
Pensandoci bene, riportandoci ai nostri giorni, Gesu’ agli occhi dei credenti dell’attuale chiesa conserva ben poco della sua originaria natura di anticonformista e ribelle.
E’ chiaro che, a differenza di cio’ che asseriscono alcuni storici e teologi, nella sua condanna a morte non ci fu errore giudiziario o equivoco per ignoranza. Tant’e’ che quegli ordinamenti da lui scardinati vengono ripristinati ben presto da Paolo, pur di tenere in piedi l’accettazione del movimento cristiano. La base dei diseredati, a partire dalle donne, dagli schiavi e dagli emarginati, non accetta quella svolta conservatrice e istituzionale; ritorna alla illegalita’.
Cristo si poneva al di sopra della legge, rivendicando per se’ l’autorita’ di Dio. Ribadiamo che il comportamento, le tesi di Gesu’, per la societa’ in cui viveva e operava, erano ritenute criminali.
Sulla condanna a morte di Cristo si e’ caricata la responsabilita’ degli ebrei, saltando pari pari di considerare l’attenzione agli ordinamenti e alle leggi che vigevano presso quel popolo. Dal momento che Cristo, dopo un secolo e piu’, veniva accettato in Occidente, Roma capitale, come il figlio di Dio, ecco che doveva diventare vittima innocente di un popolo “caparbio nel male”.
Egualmente la predicazione di Gesu’ era vista come azione sovversiva dai romani in appoggio agli zeloti, i ribelli organizzati della Galilea. Si sa, i principi fondamentali sui quali si regge ogni potere sono costanti: rispetto dell’autorita’ costituita, rispetto delle consuetudini, della morale vigente, accettare la struttura gerarchica della societa’ (ricchi da una parte, servi e schiavi dall’altra; le donne ferme nel loro spazio ecc.), rispetto per l’economia, il denaro e la sua circolazione.
Ma non dobbiamo pensare a Gesu’ come a un severo asceta del deserto, tutto proiettato a fustigare i malcostumi e gli eccessi gaudenti, puntando il dito sui seguaci, imponendo loro di battersi il petto.
No, egli e’ proprio il contrario di questo stereotipo: non c’e’ mai l’ombra di ascetismo quando per esempio si siede a tavola. Lui dice ai seguaci: “Mangiate e bevete di quello che vi e’ offerto” Lc, 10,7.
Nel suo comportamento crea sempre scandalo.
Tanto per cominciare digiunava pochissimo, non mangiava locuste e odiava ricoprirsi di pelli di capra, si lavava appena ne aveva l’occasione, in piu’ si lasciava profumare da donne compiacenti.
Luca (5,33) riferisce che i maestri della legge facevano notare al Nazareno che i seguaci di Giovanni il Battista digiunavano spesso, cosi’ pure i discepoli dei farisei. “I tuoi invece mangiano e bevono”, senza alcuna moderazione.
Gesu’ prese con se’ un gabelliere di nome Levi; costui appena entrato nella comunita’ degli apostoli organizzo’ un ricco pranzo. I gabellieri erano socialmente al bando poiche’ raccoglievano tasse su ordine dei romani. Il Maestro si faceva vedere spesso con loro e dormiva perfino nelle loro case.
L’operare di Gesu’ e’ visto come una festa nuziale dove lui e’ lo sposo. “Quando io non ci saro’ piu’ allora i miei ospiti potranno digiunare. Ora siamo nel bel mezzo della festa, quindi brindiamo e gustiamo il pranzo”.
Egli raccontava la parabola del banchetto identificandosi col festeggiato: “Andate dunque ai crocicchi delle strade e raccogliete tutti quelli che trovate e invitateli a questa festa. Allora i servitori andarono intorno e radunarono tutti quelli che incontrarono, buoni e cattivi, e la sala delle nozze fu piena di commensali”.
21 Novembre 2004
Il Vangelo e le donne – Seconda parte
Lo spazio dove si trova a operare Gesu’.
Dalla Galilea a Gerusalemme ci sono sette giorni di cammino; da Cafarnao, citta’ che si bagna sul lago di Genesaret, a Gerusalemme ci sono circa duecento chilometri. Egli coi suoi seguaci attraversa in tutti i sensi quelle regioni in circa tre anni. Tutta la vita di Gesu’ che conosciamo si svolge in poco tempo e in uno spazio ristretto. E’ come fosse vissuto in Veneto al tempo dell’occupazione austriaca, e avesse operato oltre che nella zona delle Venezie anche in Friuli, Trentino Alto Adige, per non parlare della bergamasca con l’emigrazione di croati, dalmati, istriani, tirolesi, albanesi e qualche arabo qua e la’.
Nella Palestina, al tempo di Gesu’, le classi sociali erano come in tutto il Mediterraneo molto distinte tra loro: al piu’ basso gradino stavano i contadini senza terra (braccianti) e i pastori seminomadi che allevavano piccoli greggi di pecore e capre e tiravano la vita con molta fatica. Poi i pescatori, gli agricoltori stanziali con proprio terreno, gli artigiani. Quindi la classe dei facoltosi e dei signori ai quali si affiancava quella dei grandi sacerdoti. A condizionare in peggio la situazione c’era l’occupazione dell’esercito romano e l’amministrazione dei prefetti, coadiuvati da un re con la sua corte da operetta.
Cristo, nato povero in mezzo ai minori, si rivolgeva nelle sue prediche quasi esclusivamente ai diseredati: “Beati voi poveri perche’ vostro e’ il regno dei cieli. Beati voi che avete fame perche’ sarete saziati. Beati voi che ora piangete perche’ riderete”. Come abbiamo lungamente descritto, grande era la percentuale, fra queste classi, del numero delle donne.
Il linguaggio di Gesu’ era semplice e diretto: il lessico degli artigiani, quello appunto di un falegname. Anche il linguaggio dei suoi apostoli era fatto di parole semplici e affatto ricercate. L’avevano notato anche i detrattori pagani del cristianesimo: “I loro maestri sono rozzi di modi e linguaggio, addirittura ignoranti”.
In contrappunto Gesu’ ringraziava il Creatore per quel suo lessico essenziale: “Io ti rendo lode Padre perche’ hai tenuto nascosto quello che mi hai insegnato ai ricchi e ai sapienti. Cosicche’ lo possano intendere solo i semplici e i bimbi”.
E ribadiva: “Vi porto la buona novella (il Vangelo, appunto). Giorni buoni vi attendono: a voi sara’ dato di gioire, voi mangerete a sazieta’, voi che ora state in fondo alla sala salirete e vi alloggerete seduti nella tavola alta con me”.
Non allude all’altro mondo ma a una condizione che si realizzera’ imminente sulla terra. Nel nuovo ordine dell’universo diventera’ realta’.
Si insiste sul presente, anzi sull’oggi: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano; venga il tuo regno”. “Se Dio mi ha dato la forza di scacciare i demoni (Mc. 10,31) il nuovo mondo e’ gia’ da noi”.
Vivete oggi la vostra vita, insiste: cercate di vivere alla giornata, e quindi nega l’accumulo delle provviste e del denaro. “Non vi fate tesori sulla terra: la ruggine e la tignola consumano e i ladri forzano le serrature”. Egli e’ assolutamente contro la logica economica della vigente societa’, fondata sull’accumulazione e i granai. Voi siate come “uccelli e gigli che non si preoccupano di vestirsi e di seminare” (Mt. 6,19).
Logico e’ considerare Gesu’ un visionario: non c’e’ nulla di piu’ facile che bollare di ridicola questa ingenuita’.
San Francesco espone lo stesso principio sulla poverta’, sull’accumulo dei beni e perfino sulla gestione della carita’ al papa Innocenzo III. Il pontefice reagisce invitandolo a tenere quella predica in un porcile: “Solo i maiali ti capiranno perfettamente”. Il paradosso e’ che Francesco accetta la provocazione e va a predicare veramente in un allevamento di porci.
Abbiamo presentato l’ambiente sociale, politico, religioso in cui predicava Gesu’. Pensiamo che la novita’ piu’ evidente che abbiamo sottolineato sia quella della straordinaria presenza di donne a lui devote. Le fonti sinottiche in tal modo non confermano l’immagine delle femmine costrette in casa. La donna nelle zone immiserite non ha legami fissi con il focolare domestico, e’ costretta a uscire per campi e mercati, pur di sopravvivere. Percio’ puo’ piu’ facilmente scegliere di seguire il Messia. Gesu’ si trova a rivolgersi quindi soprattutto a donne che penano la vita.
Egli ha trasformato la rassegnazione in slancio creativo.
Gesu’ parla a femmine che sono costrette a girare la macina del mulino e per loro infrange impudente le regole e le consuetudini di un buon comportamento: libera una donna dai demoni di sabato; rivolge la parola per strada a femmine sconosciute, straniere o addirittura intoccabili; elogia la povera vedova che versa al tempio le sue ultime piccole monete; rifa’ il viso con la creta a una lebbrosa; accetta di miracolare la figlia di una donna di razza nemica; concede che una prostituta lo baci in pubblico dinanzi a commensali in casa di un fariseo, esponendosi quindi a essere fortemente criticato; salva e perdona un’adultera che sta per essere lapidata.
A loro, alle miserabili, “alle prostitute e ai pubblicani (gabellieri) sara’ concesso di passare avanti ed entrare nel regno di Dio” (Mt. 21,31).
Il popolo dei giudei che lo ascoltava spesso rimaneva a dir poco scioccato dalle dichiarazioni di Gesu’. Abbiamo gia’ detto quale fosse la reputazione del Messia presso i suoi contemporanei: pazzo era l’epiteto piu’ garbato.
Ma non dobbiamo stupirci. Ancora oggi, un pubblico politicamente moderato come reagirebbe nel sentirsi aggredito da un predicatore che cosi’ lo apostrofa:
Apocalisse (3, 16): “Visto che tu sei tiepido e non sei ne’ freddo ne’ fervente, io ti vomitero’ fuor dalla mia bocca”.
I carismatici che seguivano Gesu’ formavano una nuova famiglia di madri, padri, sorelle, fratelli e figli che condivideva case e campi, ma che viveva senza padre umano.
Nella Lettera ai Corinzi di Paolo emerge che dopo la morte di Gesu’ diverse donne furono sue seguaci (sorelle) insieme ai loro mariti e che per esempio avevano svolto missioni in ambito siro-palestinese, andando sole o a coppie.
E’ possibile che le predicatrici (S. Paolo, lettera ai Romani) fossero missionarie carismatiche che dipendevano dal sostegno dei seguaci di Gesu’. Spesso le loro case diventavano centri di comunita’ in procinto di sorgere.
I discepoli e le discepole di Gesu’, itineranti o meno, si sentivano parte dell’irrazionale regno di Dio che avrebbe letteralmente capovolto i rapporti di dominio di questo mondo.
Abbiamo visto come nelle sue lettere Paolo elogi spesso le donne che lo accompagnano per la loro forza, l’abnegazione, la costanza e l’insostituibilita’ della loro azione. Ma ecco che appresso, come colpito da una incredibile paranoia misogina, egli si lancia spietato a denigrare e mortificare l’intiero mondo femminile. Che cosa gli causa questo imprevedibile rovesciamento?
Giacche’ Paolo e’ troppo importante per la storia della diffusione del cristianesimo, e’ il caso di presentarne vita, crisi e ascesi con assoluta chiarezza e onesta’.
Saulo di Tarso – San Paolo
Saulo di Tarso non aveva mai conosciuto Gesu’, con tutto che era ebreo e suo contemporaneo. Negli Atti degli Apostoli egli ci viene presentato all’inizio come un personaggio ambiguo del quale e’ meglio diffidare.
Tutti ricordiamo, atei, religiosi e agnostici, l’incidente occorso a Paolo sulla via di Damasco. Esistono numerosissimi dipinti, specie eseguiti dal XV al XVII secolo, che raccontano la caduta da cavallo del futuro santo. Gli storici piu’ qualificati ci avvertono che non ci si riferisce a Damasco in Siria ma molto probabilmente a un’altra localita’, detta oggi Qumran, cioe’ il luogo dove sono stati reperiti i famosi rotoli che raccolgono i primi scritti di un Vangelo che testimonia l’esistenza di una comunita’ cristiana primordiale.
Il piu’ famoso dipinto sulla caduta di Paolo da cavallo e’ certamente quello di Caravaggio. Nel grande quadro e’ rappresentato Paolo in primo piano, rovesciato a terra dal fulmine, o scarica di luce, lanciatogli addosso da Dio. Il disarcionato con le braccia spalancate si protegge dalla violenta apparizione di Cristo che gettandosi letteralmente, minaccioso, verso di lui gli grida: “Paolo, perche’ perseguiti i miei fratelli?”. Paolo quindi era un persecutore di cristiani? Pare proprio di si’; anzi egli e’ accusato di trovarsi al soldo dei romani col compito di vigilare e quindi distruggere le comunita’ che seguivano il Vangelo. In particolare e’ indicato come colui che con le sue informazioni diede argomenti al sommo sacerdote dei sadducei per condannare a morte il fratello di Gesu’, Giacomo.
Un santo padre della chiesa spia e confidente dei romani? Purtroppo, dai documenti in possesso degli storici la sua colpa pare indifendibile; ce lo assicurano anche gli Atti degli Apostoli (21,26):
“Allora Paolo … entro’ nel tempio … quando i giudei della provincia d’Asia, vistolo nel luogo sacro, aizzarono tutta la folla e misero le mani su di lui gridando: ‘Uomini d’Israele, questo e’ l’uomo che va insegnando a tutti e dovunque contro il popolo, contro la legge e contro questo luogo’… Impadronitisi di Paolo lo trascinarono fuori dal tempio e subito furono chiuse le porte.”
Stavano gia’ per ucciderlo quando arrivo’ il tribuno della coorte con centinaia di romani armati che lo salvarono. I romani che salvano un predicatore convertito al cristianesimo? “Ma che film stiamo vedendo? Che interesse avevano i romani per attuare un tale spiegamento di forze in difesa di Paolo, traditore del paganesimo? Quanto era importante per loro questa nuova Chiesa che stava nascendo?”1 (METTERE IN NOTA Jacopo Fo, Laura Malucelli, Gesu’ amava le donne, Edizioni Nuovi Mondi, Libera universita’ di Alcatraz, 1999).
L’ipotesi di Eisenmann, noto storico del cristianesimo, e’ che Paolo fosse una specie di agente di Roma, nominato nei rotoli di Qumran come l'”Uomo di Menzogna”. Ad ogni modo, che Paolo si trovasse almeno all’inizio dall’altra parte e’ accettato anche dalla Chiesa, purche’ non lo si sottolinei troppo.
Infatti il dipinto di Caravaggio che narra della sua conversione, opera di grande valore drammatico e pittorico, venne brutalmente censurato, anzi rifiutato, da papa Clemente VIII per la evidente accusa di Cristo in persona. Caravaggio fu costretto ad approntare un’altra tela nella quale Gesu’, teso a condannare Paolo, era del tutto sparito. Al suo posto campeggia potente un cavallo pezzato che sta quasi addosso al disarcionato per calpestarlo. Il cardinale Del Monte, amico e protettore del Caravaggio, gli chiese: “Ma chi dei due e’ il santo: Paolo o il cavallo?”. E Caravaggio rispose: “Il cavallo non e’ santo, ma di certo e’ il possente messaggero di Cristo”.
In seguito alla conversione Paolo si diede da fare per organizzare le comunita’ evangeliche, fino ad allora autonome una dall’altra e centrifughe, facilmente contaminabili da altre credenze e religioni. Alcuni studiosi assicurano che Paolo fu il vero creatore della chiesa cristiana. Prima di lui nessuno degli apostoli aveva pensato a tradurre il movimento di Gesu’ in una vera e propria religione ne’ tanto meno a realizzare la chiesa. Per riuscirci bisognava imporre regole e ordinamenti severi, a costo di sacrificare alcuni concetti fondamentali della predicazione di Cristo, a cominciare da quelli con cui lo stesso Paolo aveva indicato l’entita’ del cristianesimo.
Ci riferiamo alla frase finale, gia’ riportata, della sua lettera ai Galati: “Non c’e’ piu’ ne’ giudeo ne’ greco, ne’ schiavo ne’ libero, ne’ maschio ne’ femmina poiche’ ogni cristiano e’ uno in Cristo Gesu'”. Ed ecco la nuova versione: “Schiavi, obbedite ai vostri padroni con devozione e timore, serviteli con sollecitudine, come se si trattasse del Signore stesso, e non di uomini” (Lettera agli Efesini, VI, 5,8). Ed era proprio lui, Paolo, a dare per primo il buon esempio, tanto che “quando lo schiavo Onesimo, che si era lasciato incantare dai suoi discorsi sull’eguaglianza, scappo’ dal padrone e cerco’ protezione presso Paolo, lui lo riconsegno’ al suo padrone (e la fuga di uno schiavo era punita con la morte)”, in croce. (Il libro nero del cristianesimo, p. 41)
Lo stesso voltafaccia mette in atto con le donne. Egli inizia congratulandosi con le missionarie che lo seguono. In particolare con tre di loro: Lidia, mercantessa di porpora di Tiatira, prima convertita dei Filippi, Prisca, moglie di Aquila, “che hanno rischiato la loro testa per salvare la mia” (Paolo, lettera ai Romani), Febe, diakonos della chiesa di Cencre, porto di Corinto. Esse ogni giorno “si affaticano nel Signore di citta’ in citta’” (Paolo per affaticarsi intende, come dice di se stesso, l’andare intorno a indottrinare e far proseliti – evangelizzare). Di queste donne egli sente di non poter piu’ fare a meno: sono collaboratrici indispensabili, compagne insostituibili nella vita di un uomo, maestro di fede, come lui. Tanto che nella lettera ai Corinzi esclama accorato: “Non sono libero? Non sono apostolo? Non abbiamo noi il diritto di portare con noi una moglie-sorella come gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?”. (Cefa e’ il nome ebraico di Pietro, che aveva moglie e figli.)
Ma un conto e’ desiderare una donna come moglie (e’ chiaro che Paolo era per il matrimonio dei sacerdoti) e un altro e’ considerare le femmine come eguali, fatte di un’unica carne davanti a Dio. Infatti ecco come si esprime nella lettera a Timoteo: “La donna impari in silenzio con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, ne’ di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perche’ prima e’ stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione” (lettera a Timoteo, 2,11,15).
E nella lettera ai Corinzi asserisce che “La testa della donna e’ l’uomo”. Le femmine non possiedono una testa propria quindi il corpo della donna non puo’ insegnare alla testa del figlio d’Adamo: paradosso metafisico. Vedi pag. 494
In poche parole Paolo riprende paro paro il precetto piu’ maschilista della legge ebraica, buttando in un sol colpo alle ortiche ogni apertura libertaria che Cristo aveva offerto alle donne. Infatti proprio dal costume ebraico prende l’ordine: la donna non si permetta di chiedere la parola durante un’assemblea, se dovesse sorgere in lei qualche dubbio si rivolga al marito ma nel chiuso delle mura domestiche.
E’ quasi prevedibile il comportamento che il buon cristiano debba tenere davanti a donne appestate, emorroisse, prostitute. E Gesu’ si faccia in la’!
Di certo Paolo dimostra di essere un politico formidabile. Infatti a seconda delle diverse comunita’ a cui si rivolge nelle sue lettere, dai corinzi ai romani, dai galati agli ebrei, egli adatta e modifica di volta in volta non solo il linguaggio ma le tesi e gli ordinamenti che va enunciando. La crescita del nuovo nucleo cristiano, sebbene privato della iniziale carica sovversiva, infastidiva egualmente lo Stato romano che non faceva distinzione fra le comunita’ che seguivano l’ordinamento primordiale dei Nazareni e i piu’ moderati Paolinisti.
A un certo punto i prefetti ricevettero l’ordine di reprimere in massa il cristianesimo. I martiri si contarono a migliaia. Fra i primi, fu decapitato Paolo (Roma, 67 d.C.).
Quasi a irridere la misoginia del grande riformatore con lui furono immolate molte donne. Erano indubbiamente le prime martiri, alle quali nel tempo se ne sarebbero dovute aggiungere una moltitudine che la memoria e la devozione cristiane ricordano nei loro canti e nelle giaculatorie: schiave, matrone, mogli di nobili, perfino ex prostitute redente. Donne condannate proprio perche’ avevano disubbidito all’accettazione del silenzio e della sottomissione dettati da Paolo. Queste femmine prendevano la parola, si permettevano di discutere, predicavano e persino insegnavano.
http://digilander.libero.it/maximusmagnus/Gnosi/donna.htm
Massimo Cogliandro
Il femminismo gnostico
Premessa
Ogni organizzazione sociale che si propone di cambiare il modo di vivere degli esseri umani si dota di quella che si potrebbe definire una “teologia politica”, cioè una concezione di Dio e dell’uomo che ne giustifichi l’azione politica, a prescindere dal carattere reazionario o progressista di tale azione.
Tutte le organizzazioni sociali, anche i partiti moderni che si dicono “laici” od “atei”, si dotano di una teologia politica: si pensi, ad esempio, a quella particolare “religione dell’ateismo e dell’Uomo Nuovo”, che serviva a giustificare l’azione politica persecutoria operata dalla burocrazia politica sovietica dei tempi di Stalin.
Il liberalcomunismo sa bene che non esiste una alternativa alla dialettica tra le religioni alienanti (tra le quali, come ci insegna Marx, va annoverato l’ateismo) e l’unica grande, autentica Religione dell’Uomo e ha deciso di fare una scelta ben precisa in favore di quest’ultima e di ispirare la propria teologia politica ai grandi valori espressi dai maggiori maestri gnostici antichi e moderni.
Questo saggio ha lo scopo principale di illustrare come la Religione dell’Uomo nella storia abbia teso costantemente a spezzare le catene create dalla società patriarcale e che inchiodavano la donna ad un destino di obbedienza e di servitù nei confronti dell’uomo.
Il liberalcomunismo, che è essenzialmente un comunismo di tipo gnostico, si propone di continuare questa millenaria lotta contro le forze dell’oscurantismo teologico, politico ed ideologico, che hanno ridotto in schiavitù per molti secoli metà del genere umano.
Il ruolo della donna nel Cristianesimo antico
Nel Cristianesimo antico il problema relativo al ruolo della donna è stato affrontato in maniera diversa a seconda della particolare teologia politica adottata da ogni singola comunità cristiana. In genere, da come è stato affrontato e risolto il problema femminile ci si può rendere conto del carattere “reazionario” o “rivoluzionario” di ogni singola setta cristiana antica.
In linea di massima, si può tracciare una distinzione abbastanza netta tra la posizione assunta dalla Setta degli Apostolici fondata da Paolo di Tarso e quella assunta dalle comunità cristiane gnostiche: la setta fondata da Paolo riproduceva in ogni aspetto della sua teologia politica le formazioni ideologiche, la mentalità e i pregiudizi tipici del mondo antico, mentre le comunità gnostiche, come dimostrato dal loro rifiuto del Dio e dei profeti dell’Antico Testamento, intendevano rompere proprio con questo genere di mentalità e di pregiudizi.
Non è un caso che lo scontro a livello teologico-politico tra le sette cristiane dei primi due secoli si sia giocato sul problema della accettazione o meno dell’Antico Testamento. E’ proprio nell’Antico Testamento, una raccolta di libri che si configura come una delle principali espressioni sovrastrutturali della società patriarcale ebraica antica, che sono stati affrontati in ambito ebraico tutti i problemi cruciali, come appunto quello della donna, che sono dirimenti per capire il carattere reale di una determinata formazione od organizzazione sociale. Ora, nell’Antico Testamento, la donna era vista in maniera molto negativa come dimostrato da passi come Qo 7, 26; Sir 47, 21; Pro 11, 22.
La donna nella patristica
La Chiesa Cattolica da sempre ha assunto una posizione negativa nei confronti della donna e questo per il carattere assolutamente reazionario della teologia politica, che ha espresso sin dal momento della sua nascita.
Già Paolo di Tarso nella prima lettera a Timoteo (2,12-14) aveva assunto una posizione ben precisa – estremamente negativa – nei confronti della donna:
“Non permetto alla donna di insegnare, né di avere autorità sull’uomo, ma di stare in silenzio. Adamo, infatti, fu creato per primo, poi Eva. E non fu Adamo ad essere sedotto, ma fu la donna a essere sedotta nella trasgressione.”
La donna per Paolo di Tarso non ha lo stesso valore dell’uomo perché Eva, la prima donna, si è lasciata “sedurre” dal demonio e ha trascinato anche l’uomo nel peccato.
Questo tema è stato sviluppato da tutta la patristica successiva.
Ireneo nell’Adversus Haereses, l’opera scritta contro i maestri gnostici del II° sec., afferma:
“Eva si dimostra disubbidiente: in effetti non ha obbedito, quando era ancora vergine. Come questa è stata causa, per sé e per tutto il genere umano, della morte, così Maria, con la sua obbedienza, ha causato la propria salvezza e quella di tutto il genere umano” (Adv. Haer. III, 22, 4).
Allo stesso modo, Tertulliano nel De cultu feminarum definisce la donna “porta del diavolo” e Gerolamo addirittura “strumento del diavolo”.
La donna, dunque, per i cattolici è un essere diabolico e come afferma Pietro nel Vangelo di Tomaso “non degno della vita”.
Di qui le note posizioni della Chiesa Cattolica sull’indissolubilità del matrimonio e sull’aborto, che presuppongono una visione della donna in chiave esclusivamente riproduttiva.
Tertulliano nel De virginibus velandis è giunto addirittura ad affermare la necessità che le vergini portino il velo… E’ evidente il carattere sessuo-repressivo e liberticida di questa e di altre misure del genere proposte dai principali esponenti della teologia politica cattolica del tempo.
L’importanza della donna per le comunità gnostiche antiche
Quasi tutte le comunità gnostiche antiche rifiutavano l’Antico Testamento e l’ideologia reazionaria di tipo patriarcale che esso esprime con la conseguente affermazione in maniera forte ed inequivocabile del ruolo della donna nella società, al punto che essi giunsero ad attribuire ad una donna, Maria Maddalena, uno dei loro principali vangeli.
Elena Giannarelli in un suo scritto ha affermato giustamente che “nel mondo antico la donna era considerata, per natura, inferiore all’uomo: per esempio, il sostantivo latino mulier (donna, appunto) è messo etimologicamente in relazione con mollities (debolezza); vir (uomo) trova spiegazione nel fatto che il maschio è dotato di maggior forza (vis) della femmina; a questa definizione si lega il nome virtus (virtù), dote tipica del sesso forte” e che “la donna eccezionale […] non può che connotarsi come ‘virile’: perché le sue azioni possano essere valutate in maniera positiva, deve diventare uomo”.
Lo gnosticismo antico ha ripreso proprio il tema della possibilità per la donna di trasformarsi in uomo e lo ha usato contro la mentalità reazionaria di cui tale topos era espressione. A questo proposito, è significativo il loghion 114 del Vangelo di Tomaso, che così recita:
Simon Pietro disse loro: “Maria deve andare via da noi! Perché le femmine non sono degne della vita”. Gesù disse: “Ecco, io la guiderò in modo da farne un maschio, affinché ella diventi uno spirito vivo uguale a voi maschi. Poiché ogni femmina che si fa maschio entrerà nel regno dei cieli”.
Gesù ben Pantera, rompendo con la tradizione, ha affermato per la prima volta nella storia la totale uguaglianza tra l’uomo e la donna.
Il suo insegnamento sarà ripreso pienamente dai maestri gnostici, che, in polemica con i fondatori della Setta degli Apostolici, cioè Pietro e Paolo, strettamente legati alla concezione giudaica tradizionale della donna, hanno affidato sempre nei loro scritti un ruolo di primo piano proprio a quella donna che Pietro voleva cacciare dalla cerchia di Gesù per il fatto stesso di essere una donna.
Questa posizione è diventata ancora più esplicita nel Vangelo di Maria:
Levi replicò a Pietro dicendo: “Tu sei sempre irruente, Pietro! Ora io vedo che ti scagli contro la donna come (fanno) gli avversari. Se il Salvatore l’ha resa degna, chi sei tu che la respingi?”
La violenza dell’attacco di Levi a Simon Pietro sul problema della donna riportato dal Vangelo di Maria può indicare, infatti, soltanto l’esistenza di una forte polemica tra la comunità gnostica di cui questo vangelo era espressione da un lato e la gerarchia della Setta degli Apostolici – la futura “Grande Chiesa” – e i pagani (“gli avversari”) dall’altro lato.
D’altra parte, lo stesso Tertulliano nel De præscriptione hæreticorum ha messo in evidenza la netta differenza tra il ruolo della donna all’interno delle comunità gnostiche del tempo e il ruolo della donna nella Grande Chiesa:
“Le stesse donne eretiche, come sono sfacciate! Osano insegnare, disputare, compiere esorcismi, promettere guarigioni, forse anche battezzare.” (De præscr. 41, 2-6).
Anche i valentiniani affidavano alla donna un ruolo centrale nella missione salvifica della Chiesa, come dimostra il seguente passo riportato nel Commento al vangelo di Giovanni scritto dallo gnostico valentiniano Eracleone nel punto in cui tratta della figura della samaritana: “La donna […] si volse al mondo per annunciare ai chiamati la presenza di Cristo: infatti per mezzo dello Spirito e dallo Spirito l’anima è condotta al Salvatore”.
E’ interessante notare la violenza con cui Origene, in quel momento strenuo difensore dell’ “ortodossia cattolica”, ha tentato di confutare nel suo Commento a Giovanni le idee sul ruolo della donna all’interno della Chiesa riportate in questo passo di Eracleone. Per Origene la donna ha “abbandonato la disposizione a ricevere la vita e la nozione della potenza e la nozione della potenza che è nel Salvatore” e non può in alcun modo “annunciare ai chiamati la presenza di Cristo”.
Conclusioni
Il comunismo liberale, che affonda le proprie radici nell’umanesimo gnostico antico e moderno, lotta per l’emancipazione della donna e per l’affermazione dei suoi diritti in ogni campo della vita materiale e spirituale, rifacendosi al vero insegnamento di quello stesso Gesù in nome del quale per secoli la donna è stata condannata ad un ruolo sociale assolutamente subordinato.
Roma, 29/7/2000
http://digilander.libero.it/ingeberg/Orig/Vangelo.html
Il Vangelo secondo Marcus Prometheus
Introduzione
Questa pagina è una raccolta di citazioni dal Nuovo Testamento, curata e commentata da Marcus Prometheus, e resa pubblica in origine per la sezione file della Mailing List [Ateismo].
Poiché l’autore autorizzava la redistribuzione di questo pezzo, ho pensato di renderlo disponibile su web, in maniera che potesse avere una diffusione non limitata agli iscritti alla lista.
Dal punto di vista contenutistico, non ho apportato variazioni al testo originale: mi sono limitato a rivedere l’impaginazione, per adattarla al formato web, e ad aggiungere due o tre virgole qua e là, per rendere più chiari alcuni passaggi che mi sembravano un po’ troppo “compatti”.
Ho poi fatto alcune aggiunte, ma esterne al testo, e sotto forma di note a pié di pagina. Le aggiunte sono essenzialmente dovute al seguente fatto.
Marcus Prometheus ha utilizzato, per le citazioni, la classica Bibbia CEI Interconfessionale, ovvero la Bibbia che la Chiesa Cattolica consiglia, diciamo così, alla “plebe”, e che utilizza per la Messa. Per una serie di casi fortuiti, mi trovo invece tra le mani una Bibbia, sempre curata dalla CEI ed edita dalle Edizioni Paoline, che, sostiene nell’introduzione, “si caratterizza per la sua aderenza al testo originale – anche con le relative asperità, a volte“: in pratica, una versione “filologicamente corretta” (per questo motivo nelle note mi sono riferito ad essa come “la filologica”), e soprattutto normalmente utilizzata dai preti: è dunque, a mio avviso, interessante il confronto tra quello che si vuole far sapere all’esterno, e quello che si utilizza – e si sa – all’interno della Chiesa Cattolica stessa.
Per questa ragione, lì dove Marcus Prometheus sottolinea errori di traduzione ed “addolcimenti” presenti nella “interconfessionale”, ho pensato di riportare anche la versione “filologica”, per permettere il confronto diretto. Ho poi aggiunto qua e là alcune battutine che non riuscivo proprio a risparmiarmi.
Voglio sottolineare che non ho voluto, con questo lavoro, prevaricare l’autore, né mostrarmi più in gamba di lui. Ho semplicemente visto il suo lavoro, che mi è piaciuto; ho notato di avere la possibilità di aggiungervi qualcosa; e l’ho fatto. Tutto qui. Allo stesso modo, il documento è aperto a suggerimenti ed addizioni da parte dei lettori (eventualmente da pubblicare in un file separato).
Spero di aver fatto cosa gradita rendendo disponibile questo documento in questa forma. Buona lettura.
Luca Bergamasco
LA VERITÀ della SACRA BIBBIA
Lista di Passaggi Biblici
ad uso di laici, scettici, atei, agnostici, razionalisti, umanisti secolari, pagani,
ma raccomandata soprattutto a credenti, battezzati, cristiani, cattolici, ebrei:
È la PAROLA del SIGNORE !
A cura di Marcus Prometheus
(Si autorizza la libera riproduzione )
XX Settembre 2000 – 1a edizione
Dove non spiegato altrimenti il testo italiano utilizzato è quello della Bibbia Interconfessionale
approvatissima dalla chiesa cattolica, ed anche dalle chiese protestanti Italiane.
IL NUOVO TESTAMENTO:
I SANTI EVANGELI
Dal Vangelo secondo Matteo
Matteo 10:34
“Non pensate che io sia venuto a portare pace nel mondo: Io sono venuto a portare non la pace ma la discordia. Infatti io sono venuto a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera.
Matteo 10: 35-36
“E ognuno avrà nemici anche nella propria famiglia. Perché chi ama suo padre o sua madre più di quanto ama me non è degno di me, chi ama suo figlio o sua figlia più di me non è degno di me”
(Al solito la traduzione della Bibbia interconfessionale è addomesticatissima. Una traduzione più aderente al testo di Matteo 10: 35 è : «E i nemici di un uomo saranno i suoi stessi familiari».[1])
(Gesù riafferma il comandamento di uccidere i figli che “insultino i genitori.”)
Matteo 15:3 – 6:
” Gesù rispose loro: E voi perché non rispettate i comandamenti di Dio per seguire la vostra tradizione? Dio ha detto : Onora il padre e la madre. Eppoi: Ci parla male di suo padre e di sua madre deve essere condannato a morte. Voi invece insegnate che uno non ha più il dovere di onorare suo padre e sua madre se dice ad essi che ha offerto a Dio quei beni che doveva usare per loro. Così per mezzo della vostra tradizione voi fate diventare inutile la parola di Dio. “
(Gesù rafforza il comandamento Divino stabilito in Esodo 21:17, e nel Levitico 20:9, e soprattutto nel Deuteronomio 21:18-21, che specifica l’obbligo che i genitori conducano i figli testardi alle porte della città perché siano colà giustiziati mediante lapidazione. Inoltre Gesù denuncia gli sforzi umanitari dei Farisei che avevano lottato per secoli per ridurre l’impatto di questo brutale comandamento per renderlo praticamente inapplicabile o quasi.)
(parla Gesù ed ordina di non pregare né nelle chiese, né in pubblico. Figuriamoci che cosa penserebbe di Giubilei, processioni ecc., anche se la Bibbia in altri punti è contraddittoria )
Matteo 6 : 5
“E quando pregate, non fate come gli ipocriti che si mettono a pregare nelle sinagoghe o agli angoli delle piazze per farsi vedere dalla gente. Vi assicuro che questa è l’unica loro ricompensa.
Tu invece, quando vuoi pregare, entra in camera tua e chiudi la porta. Poi prega Dio presente anche in quel luogo nascosto. E Dio tuo Padre che vede anche ciò che è nascosto, darà la ricompensa.”
(Ammirare le forme di una donna è eguale all’adulterio)
Matteo – 5:27-30 :
“Sapete che nella Bibbia è stato detto «Non commettere adulterio»:
Ma io vi dico se uno guarda la donna di un altro perché la vuole, nel suo cuore egli ha già peccato di adulterio con lei.
Se il tuo occhio destro ti fa compiere il male, strappalo e gettalo via: ti conviene perdere soltanto una parte del tuo corpo piuttosto che essere gettato tutto intero all’inferno.
Se la tua mano destra ti fa compiere il male, strappala e gettala via: ti conviene perdere soltanto una parte del tuo corpo piuttosto che essere gettato tutto intero all’inferno”.
Matteo – 5:31-32: Contrariamente alla legge mosaica un uomo può divorziare solo in caso di “relazione illecita”.
Qui non è chiaro se la cosa debba significare relazione illecita propria riferentesi dunque all’uomo, e cioè se si voglia ammette solo di lasciare le concubine non sposate legalmente, come preferisce il testo della Bibbia Interconfessionale probabilmente per iper antidivorzismo, oppure se la cosa debba significare che in caso di adulterio altrui, ovvero della propria moglie, il marito abbia il diritto di divorziare. Questa interpretazione è data come possibile (“alcuni sostengono..”) nella nota della Bibbia interconfessionale[2]. Siamo in presenza di una situazione veramente un po’ incerta, di una addomesticazione per scelta fra due possibilità, se non altro, e non di un falso clamoroso come in altri casi. Probabilmente la scelta più giusta sarebbe comunque la seconda, ma non è la preferita della Bibbia interconfessionale, perché incrinerebbe la assoluta indissolubilità del vincolo del matrimonio propugnata finora dalla chiesa cattolica. La conclusione in tema matrimoniale può essere che probabilmente, almeno in alcuni casi il Vangelo stesso (come già stabiliva l’antico testamento) ammetterebbe il divorzio.
Ma a parte tutto questo argomento “di diritto di famiglia” si possono fare 4 importanti considerazioni:
- Il Vangelo quando vuole si permette di predicare chiaramente in modo difforme dal Vecchio Testamento, DUNQUE il Vecchio Testamento NON è l’immutabile parola di Dio.
- Questo è clamorosamente in contrasto con la definizione stessa di Bibbia e specificatamente con le disposizioni del Vecchio Testamento in materia di innovazioni: Deuteronomio 4 : 2 “Non aggiungete e non togliete nulla a quello che dico” e Deuteronomio 28 : 45 – 46 “Tutte queste maledizioni si abbatteranno su di voi e vi perseguiteranno fino a distruggervi perché non avete ubbidito al Signore, vostro Dio, e non avete messo in pratica i suoi comandamenti e le sue norme, come io vi ho ordinato. Tutto questo sarà per voi e per i vostri discendenti, per sempre, un ammonimento solenne“.
- Queste innovazioni attribuite a Gesù sarebbero anche in clamoroso in contrasto con il precedente della riaffermazione delle peggiori rigidità antico testamentarie da parte di Gesù nel caso della punizione con condanna a morte dei figli ribelli, che era già stata superata dalla tradizione dei farisei.
- Se col Nuovo Testamento cambiano alcune leggi divine, non solo relative al culto, bensì relative alla morale, allora ciò equivale al relativismo morale, sempre condannato dalla chiesa cattolica (e non solo da essa, ma da tutti i cristiani.)
Matteo – 19:12 Castratevi per Gesù! Anche se il testo della Bibbia interconfessionale elenca anodinamente:
Matteo – 19:12
“Vi sono diversi motivi per cui certe persone non si sposano: per alcuni vi è una impossibilità fisica, fin dalla nascita, altri sono incapaci di sposarsi perché gli uomini li hanno fatti diventare così; altri ancora non si sposano per servire meglio il regno di Dio. Chi può capire cerchi di capire”,
noi sosteniamo che una traduzione più fedele all’originale sarebbe quella che menzionasse che si sta parlando di castrazione subita e di castrazione volontaria, e non solo di astinenza dal matrimonio[3]. Il finale del versetto 12 suona quasi una beffa “Chi può capire cerchi di capire“.
Matteo – 22:24 e 22: 30 Spiegazione della legge del Levirato[4]:
Matteo – 22:24
“Gli domandarono: – Mosè ha stabilito questa legge: Se uno muore senza figli, suo fratello deve sposare la vedova e cercare di avere dei figli per quello che è morto”.
Gesù non apporta variazioni, ma precisa che “Dopo la resurrezione gli uomini e le donne non si sposeranno più ma saranno come gli angeli del cielo“.
Matteo – 24:19
“Saranno giorni tristi per le donne incinte e quelle che allattano”.
(Ma non doveva essere onnipotente ed infinitamente buono almeno il Dio del Vangelo? Qui risulterebbe solo onnisciente e preveggente. Se fosse molto potente e piuttosto buono non dovrebbe alleviare almeno un pò i guai predetti? O li prevede perché li manderà lui come sostiene l’antico testamento in Isaia 45:7 “Io procuro il bene ed il male“. Ed in Lamentazioni 3: 38 “Non è forse la parola dell’Altissimo che provoca benessere e sventure?” Ed in Amos 3: 6 “Può abbattersi una sciagura in città se il Signore non l’ha provocata?“)
Dal Vangelo secondo Luca[5]
Luca capitolo12 : versetti 51-53 (Gesù è causa di divisione fra gli uomini )
Luca 12 : 51-53
“Pensate che io sia venuto a portare la pace nel mondo?
No, ve l’assicuro, non la pace, ma la divisione*.
D’ora in poi se in famiglia ci sono cinque persone, si divideranno fino a mettersi tre contro gli altri due e due contro gli altri tre.
Il padre contro il figlio e il figlio contro il padre, la madre contro la figlia e la figlia contro la madre, la suocera contro la nuora e la nuora contro la suocera”.
* “non la pace, ma la Spada” (secondo altre versioni egualmente accettate dalla chiesa.)
Luca 14:26 (L’odio dei parenti è fra le condizione per seguire Gesù)
Luca 14:26
“Se qualcuno viene con me e non ama me più del padre e della madre, della moglie e dei figli, dei fratelli e delle sorelle, anzi se non mi ama più di sé stesso, non può essere mio discepolo.
Questa è la versione dal greco riportata dalla “Bibbia Interconfessionale”.
Una seconda versione dal greco è accennata dalla nota a piè di pagina della stessa “Bibbia Interconfessionale”: di cui riportiamo le precise parole:
« Non ama me più del ….: L’espressione si può tradurre anche – e non odia suo padre….; Matteo 10, 37 attenua il tono radicale di Luca. L’amore che Gesù richiede, per Matteo è prioritario, per Luca esclusivo.»
La distorsione della traduzione riportata nel testo della Bibbia Interconfessionale è evidente.
La lingua greca è più che sviluppata e precisa tanto da non consentire simili equivoci fra due concetti ben diversi. Un conto è amare di più, un secondo conto è amare soltanto, mentre un terzo conto ancora è odiare. Matteo dirà amare di più e si parlerà allora di amore prioritario, ma Luca parla chiaramente di ODIARE, non di amare esclusivamente, e la castigatissima Bibbia Interconfessionale pur controvoglia, dopo aver nascosto la verità dal testo, cita questa realtà fra le note anche se solo per tentare di distorcerla. C’è riuscita con voi?
Considerate che se la lingua greca in Matteo riesce ad esprimere chiaramente il concetto della priorità (e non altro come esclusività o riferimento all’odio), questo significherà anche che se invece in Luca si legge odio nel testo greco, allora vorrà dire che Luca aveva in mente proprio odio, e non esclusività d’amore per altri.
La sola traduzione aderente al testo originale è dunque questa:
Luca 14:26
“Se qualcuno viene con me e non odia suo padre e sua madre, sua moglie e sua figlia, e fratelli e sorelle, sì, ed anche la sua stessa vita, egli non può essere mio discepolo[6]“.
Luca 19:27 (La parabola dei 10 servi)
Luca 19:27
” Ed ora portate qui i miei nemici, quelli che non mi volevano come loro re.
Una volta qui uccideteli alla mia presenza..”
Luca – 6: 36- 38 “Non giudicate e non condannate… … Perdonate e sarete perdonati“
contraddice totalmente il Deuteronomio 43: 7-10 “Uccidi subito ………“
Luca – 2:22 (Maria è impura dopo al nascita di Gesù – Presentazione di Gesù al Tempio)
“Venne poi per la madre e per il bambino il momento della loro purificazione…”
Dal Vangelo secondo Giovanni
Giovanni 15:6
“Se uno non rimane unito a me è gettato via come i tralci che diventano secchi e che la gente raccoglie per bruciare”.
Al solito la Bibbia interconfessionale addolcisce una espressione più cruda. Più aderente al testo sarebbe: “Se uno non rimane unito a me è gettato via come i tralci, ed è disseccato, e la gente li raccoglie per bruciarli[7]“.
(Questo passo, una citazione di Gesù, è stato usato per secoli non per bruciare simbolicamente rami secchi, bensì per giustificare i roghi di decine di migliaia esseri umani, nostri predecessori per essersi rifiutati di credere.)
Coerenza
Giovanni 10: 30 “Io ed il padre siamo una cosa sola” è in contraddizione con
Giovanni 14: 28 “Io vado dal padre perché il padre è più grande di me“.
Dal Vangelo secondo Marco[8]
Marco 11: 12 (Anche Marco 11:20 e Marco 13: 20)
Gesù maledice un fico perché fuori stagione non ha frutti e il fico si secca.
Le Lettere
Lettera di San Paolo ai Romani
(Romani 1:26 -27 e 1: 32 Gli omosessuali sono degni di morte anche se le passioni omosessuali risultano da Dio)
Romani 1:26 -27 e 1: 32
“Dio li ha abbandonati lasciandoli travolgere da passioni vergognose: Le loro donne hanno avuto rapporti sessuali contro natura, invece di seguire quelli naturali. Anche gli uomini, invece di avere rapporti con le donne si sono infiammati di passione gli uni per gli altri. Uomini con uomini commettono azioni turpi e ricevono così loro stessi il giusto castigo per questo traviamento.
Eppure sanno benissimo come Dio giudica quelli che commettono queste colpe: sono degni di morte”.
(Romani – 7: 7-11 La legge è peccato? No, però Secondo San Paolo il Vecchio Testamento era quasi un libro porno.)
Romani – 7: 7-11
“Dobbiamo forse concludere che la legge è peccato? No di certo! La legge però mi ha fatto conoscere che cos’è il peccato. Per esempio io ho saputo che era possibile desiderare cose cattive, perché la legge ha detto: Non desiderarle. Il peccato allora, da quel comandamento ha preso l’occasione per far nascere in me malvagi desideri di ogni specie. Invece, dove non c’è legge, il peccato è senza vita e io prima vivevo senza la legge, ma quando venne il comandamento, allora il peccato prese vita ed io morii. …. Il peccato infatti ha colto l’occasione offerta dal comandamento, mi ha sedotto e mi ha fatto morire per mezzo dello stesso comandamento”.
Romani – 7: 14-18 L’uomo dominato dal peccato
“Noi certo sappiamo che la legge è spirituale. Ma io sono un essere debole, schiavo del peccato. Difatti non riesco neppure a capire quel che faccio: non faccio quel che voglio, ma quel che odio……..In me c’è il desiderio del bene, ma non c’è la capacità di compierlo”.
Romani – 13:1-6 Obbedite ai vostri capi –
(e se fossero Hitler o Stalin o Pol Pot?)
Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi
Corinzi – 6:18-20 (Vivere per la gloria di Dio significa astenersi dal sesso)
(Corinzi – 7:1-40 Per essere ancora più santi astenersi totalmente dal sesso. Hai una migliore possibilità di andare in paradiso se non ti sposi – in contrasto logico con la proclamazione della famiglia come base della società e con la persecuzione o discriminazione degli omosessuali basata sulla gravità della deviazione dal modello familiare eterosessuale e dall’imperativo demografico crescete e moltiplicatevi, che peraltro è il SOLO che l’umanità possa dire di avere compiuto a dovere – e stracompiuto pure, tanto che forse sarebbe il caso di dichiararlo compiuto e di passare ad altro, per esempio ad estirpare il furto e l’omicidio ).
Corinzi – 7:1-2
“..Io vi dico è meglio per l’uomo non sposarsi; tuttavia, per non cadere nell’immoralità, ogni uomo abbia la propria moglie”.
(Corinzi 11:3-15 L’uomo è il capo della moglie; Solo l’uomo è l’immagine e gloria di Dio)
Corinzi 11:3-15
“…Tuttavia desidero che sappiate questo: Cristo è il capo di ogni uomo, il marito è il capo della moglie …
… la donna si copra anche il capo con un velo[9]. L’uomo non ha bisogno di coprirsi il capo perché è immagine e gloria di Dio. Infatti l’uomo non è stato tratto dalla donna, ma la donna è stata tratta dall’uomo. E inoltre l’uomo non è stato creato per la donna, ma la donna è stata creata per l’uomo. Per tutte queste ragioni ed anche a motivo degli angeli la donna deve portare sul capo un segno della sua appartenenza all’uomo”.
Corinzi 14:33-35 “Le donne tacciano: possono imparare solo dagli mariti
Dio infatti non vuole il disordine, ma la pace: Come in tutte le comunità di credenti alle donne non è permesso parlare durante l’assemblea. Facciano silenzio e stiano sottomesse come dice anche la legge di Mosè. Se vogliono spiegazioni le chiedano ai loro mariti a casa perché non sta bene che una donna parli in assemblea.
Lettera di San Paolo agli Efesini
(Efesini 5:22-23 e 5-24 Mogli sottomettetevi ai mariti)
Efesini 5:22-23 e 5-24.
“Le mogli ubbidiscano al marito come al Signore perché il marito è capo della moglie come Cristo è capo della Chiesa; ……… Le mogli ubbidiscano in tutto al loro marito”.
(La Bibbia Interconfessionale ammorbidisce l’espressione originale che era Sottomettetevi! piuttosto che ubbidite[10]).
Lettera di San Paolo ai Colossesi
(Colossesi 3:18 Altro “Mogli, sottomettetevi ai mariti…”)
Colossesi 3:18
“Voi mogli siate sottomesse ai vostri mariti, così com’è giusto di fronte al Signore”.
Prima Lettera a Timoteo
(1 Timoteo Donne, adornatevi di modestia!)
1 Timoteo 2:9
“E così preghino anche le donne : … con modestia e semplicità. I loro ornamenti non siano complicate pettinature, gioielli d’oro, perle e vestiti lussuosi”.
(1 Timoteo Adamo non ha avuto colpa, solo Eva peccò, per cui si deduce che le donne sono inferiori agli uomini e tanti saluti alla “eguale dignità….”)
1 Timoteo 2:11-14
Durante le riunioni le donne restino in silenzio, senza pretese. Non permetto alle donne di insegnare nè di comandare agli uomini. Devono starsene tranquille. (Il testo greco sarebbe anche per sottomesse) perché Adamo è stato creato per primo eppoi Eva, ed inoltre non fu Adamo che si lasciò ingannare: fu la donna a lasciarsi ingannare e a disubbidire agli ordini di Dio[11].
1 Timoteo 2:15 (Ma almeno non moriranno di parto).
1 Timoteo 2:15
“Tuttavia anche la donna si salverà, nella sua vita di madre se conserva la fede, l’amore e la santità nella modestia”.
Così la Bibbia interconfessionale. In altre traduzioni più antiche la Bibbia o Dio che dir si voglia, si limitava a promettere alle donne che esse non sarebbero morte di parto[12].
1Timoteo – 3:2,12 (Se si è vescovi o diaconi non si deve avere più di una moglie! Se ne può anche concludere che se invece non si è vescovi o diaconi la poligamia è ammissibile per il cristianesimo. Ma ovviamente tutta la storia si perde nella traduzione della Bibbia interconfessionale):
1 Timoteo – 3:2,12
“Un Pastore deve essere un uomo buono, fedele alla propria moglie, capace di controllarsi, prudente, dignitoso”[13].
(1 Timoteo 6:1-5 La schiavitù è accettata. Allontanatevi da chiunque insegni altrimenti).
1 Timoteo 6:1-5
“Quelli che si trovano ad essere schiavi siano molto rispettosi verso i loro padroni perché nessuno possa bestemmiare il nome di Dio e parlar male della nostra fede. E se i padroni sono cristiani, non possono loro mancare di rispetto, per il semplice fatto che sono fratelli nella fede. Anzi, devono servirli ancor meglio, proprio perché compiono un servizio verso persone credenti ed amate da Dio.
Sono queste le cose che tu devi insegnare e raccomandare.
Se qualcuno insegna diversamente, se non segue le sane parole di Gesù Cristo nostro signore e l’insegnamento della nostra religione, è un superbo e un ignorante, un malato che va in cerca di discussioni e vuol litigare sulle parole. …..Chi fa così è gente squilibrata lontana dalla verità. “
Prima lettera di Pietro (I Pietro)
(1 Pietro 3:1-7 Le donne dovrebbero parlare ai loro mariti con timore).
1 Pietro 3:1-7
“Anche voi mogli, siate sottomesse ai vostri mariti…”
Apocalisse di San Giovanni (Rivelazioni di S. Giovanni)
(Apocalisse 17:1-6 Una prostituta è spogliata, bruciata e mangiata – ma se non altro l’Apocalisse è un libro allegorico e non è da interpretare come un libro che presenta una regola “morale” a cui si è invitati a conformarsi come il resto dei Vangeli. Resta la crudeltà dell’immagine tutt’altro che educativa o morale, e resta la possibilità che pur sbagliando qualcuno presuma che la crudeltà verso la prostituzione abbia una sanzione divina)
A m e n !
Note:
[1] La “filologica” riporta la seguente traduzione:
Sono venuto a separare l’uomo da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora da sua suocera; sì, nemici dell’uomo saranno quelli di casa sua
[2] Nella nota a Matteo 5, 32 la “filologica” rimanda a Matteo 19, 9, dove viene fornita la seguente spiegazione in nota:
All’affermazione dei versetti precedenti [analoghi a Matteo 5, 32] pare contraddire l’inciso: se non per impudicizia: infatti i protestanti e le chiese orientali ritengono che l’inciso riguardi l’adulterio e permettono la soluzione del matrimonio quando esso sia comprovato. In realtà, la parola impudicizia traduce il greco pornéia, mentre ad adulterio corrisponde il termine moichéia. È quindi da vedere, nella parola impudicizia, il corrispondente dell’ebraica zenùt, in greco pornéia, che indica qualsiasi unione tra parenti, indicata e proibita da Levitico 18, 6-18 e perciò considerata incestuosa. In tal caso, Gesù permette di sciogliere una unione che non era vero matrimonio, ma piuttosto una specie di concubinato. L’inciso manca in altri passi del Nuovo Testamento che trattano dell’indissolubilità del matrimonio: Marco 10, 2-12; Luca 16, 18; 1 Corinzi 7, 10 segg.
La spiegazione mi pare molto farraginosa. Che io sappia, porné significa prostituta, e la radice del termine è un verbo che significa vendere: non si vede proprio come ciò si colleghi all’incesto! D’altro canto, pur non conoscendo il Greco, mi sembra strano che i Greci non avessero un termine specifico per indicare l’incesto… Forzata come al solito, poi, la giustificazione della traduzione di un termine ebraico: i Vangeli furono scritti direttamente in Greco, da persone appartenenti al mondo classico greco-romano. Il significato del passo mi sembra più del tipo: “Non ripudiare tua moglie, a meno che questa proprio non si metta a fare la bagascia”.
È da notare il fatto che i Farisei ammettevano il divorzio, e discutevano su quali ne potessero essere le cause accettabili, mentre gli Esseni lo rifiutavano completamente, come fa Gesù in Marco e Luca, e Paolo in 1 Corinzi. È questo uno dei motivi che spingono alcuni autori moderni a vedere il personaggio Gesù (reale o mitico che sia) come figlio di un ambiente Esseno più che Farisaico (al proposito si veda anche l’articolo Da quale setta religiosa è emerso Gesù?).
[3] Ed infatti la filologica ha:
Vi sono infatti eunuchi che nacquero così dal seno della madre, e vi sono eunuchi i quali furono resi tali dagli uomini, e vi sono eunuchi che si resero tali da sé per il Regno dei cieli. Chi può comprendere, comprenda.
Il povero Origene, Padre della Chiesa (183? – 254? EC), prese un po’ troppo alla lettera questo brano evangelico… Beh, questo comporta che il Cristianesimo è stato fondato anche da gente senza palle.
[4] Da non confondersi con il passo precedente, che chiaramente descrive invece la Legge dell’Evirato.
[5] Il curatore del presente documento tiene a precisare di non aver nulla a che fare con il Luca sedicente autore del terzo Vangelo.
[6] E regolarmente nella filologica troviamo:
“Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle ed anche la propria vita, non può essere mio discepolo”
La Chiesa Cattolica è ben conscia di ciò che c’è nella Bibbia, ma tenta di nasconderlo al “volgo”, diffondendolo solo tra gli “iniziati”. Il vizietto della religione misterica non l’hanno proprio mai perso! (E dico così proprio per essere benevolo…)
[7] Ancora una volta, la filologica ha una traduzione proprio simile:
“Se qualcuno non rimane in me, è gettato fuori come il tralcio e si dissecca; poi li si raccoglie e li si getta nel fuoco e bruciano”.
Niente da dire, la filologica è ben fatta. Peccato che sia così poco conosciuta e reclamizzata…
[8] Si tende a precisare che nemmeno l’autore dello studio ha nulla a che fare con il Marco sedicente autore del secondo Vangelo.
[9] L’obbligo del velo, che, trovandosi nelle epistole Paoline, risale quasi sicuramente al primo secolo, fu abolito solo dal Concilio Vaticano II, nel 1965 – dopo circa 1.900 anni. Ancora oggi, molte donne anziane si velano il capo quando vanno in chiesa.
[10] E tanto per cambiare, la filologica ha proprio:
[Efesini 5, 22] Le donne siano soggette ai loro mariti come al Signore [23] poiché l’uomo è capo della donna come anche il Cristo è capo della chiesa, lui, il salvatore del corpo. [24] Or come la chiesa è soggetta al Cristo, così anche le donne ai loro mariti in tutto.
Ma allora tirate a fregare! Le sapete, le cose!
[11] Qui vale proprio la pena di vederla, la traduzione filologica:
[1 Timoteo 2, 11] La donna impari in silenzio, con perfetta sottomissione. [12] Non permetto alla donna d’insegnare, né di dominare sull’uomo, ma (voglio) che stia in silenzio. [13] Per primo infatti è stato formato Adamo e quindi Eva. [14] Inoltre, non fu Adamo ad essere sedotto; la donna, invece, fu sedotta e cadde nel peccato
Cosa dire, ancora? Sembra quasi che stiamo leggendo due libri diversi…
[12] La filologica ha invece:
Tuttavia essa si salverà mediante la generazione dei figli, a condizione però di perseverare nella fede, nella carità e nella santità, con saggezza.
Qui è più schietto ancora: la salvezza per la donna si ha solo con la maternità – morte per parto o meno! Le donne sterili, dunque, o con poca voglia di riprodursi, sembrano condannate all’inferno…
Ma un’altra cosa è notevole. La stessa espressione è riportata nella Nuova Bibbia Riveduta evangelica e nella Revised Standard Version anglicana, oltre che nella vecchia Vulgata; anche la Bibbia CEI seconda versione, la cosiddetta “Gerusalemme”, ha la stessa versione. La domanda sorge allora spontanea: chi diamine utilizza la Bibbia interconfessionale, dato che tutte le confessioni utilizzano altre versioni? Solo quei poveri fessi dei credenti cattolici “plebei”?
[13] Neanche a dirlo, la filologica è anche qui più schietta:
[1 Timoteo 3, 2] Bisogna infatti che l’episcopo sia irreprensibile, marito di una sola moglie, (…)
[1 Timoteo 3, 12] I diaconi siano mariti di una sola moglie, sappiano governare bene i loro figli e le loro case.
Notare anche la nota al versetto 2, che cerca un salvataggio in corner:
L’episcopo in questa lettera non è ancora il vescovo, ma una persona chiamata a presiedere e sorvegliare sulla comunità, particolarmente nelle assemblee liturgiche (cfr. Filippesi 1, 2, nota). Ne vengono elencate le qualità richieste, tra le quali che sia marito di una sola moglie; il che significa, secondo l’opinione comunemente accettata, che non si tratti di persona risposata, cioè passata a seconde nozze. Il passo può quindi documentare l’inizio di un processo che porterà rapidamente alla richiesta del celibato sacerdotale. (Corsivi originali, sottolineature mie)
Signori, dichiaro aperto il Primo Campionato Mondiale di Arrampicata su Specchi. Ma vediamola questa nota a Filippesi 1, 2 – che poi è la nota a Filippesi 1,1! Ma voglio credere ancora all’errore di stampa:
Vengono menzionati nella Chiesa di Filippi gli episcopi e i diaconi. A Filippi esiste dunque una gerarchia ecclesiastica: si tratta di persone rivestite di autorità in seno alla comunità. Episcopo è il termine greco che significa sorvegliante, ispettore; diacono significa servitore, inserviente. È la prima testimonianza che nelle comunità greche si andava definendo la figura di quelli che saranno poi chiamati vescovi e diaconi.
Cioè, qui gli episcopi sono gli antenati dei vescovi, ma nell’altra nota sono comunque differenti dai vescovi. Vi ricordate Nanni Moretti nel finale di “Palombella Rossa”? “Noi siamo uguali agli altri, però siamo diversi, siamo uguali ma diversi, uguali, diversi…” (incidente d’auto).
http://www.educational.rai.it/mat/ss/forte09.asp
Bruno Forte risponde alle migliori domande inviate dagli utenti del sito.
Domanda 9) Lei ha citato ora, nell’ultima risposta, anche le donne. Cioè un apostolo non solo rivolto agli uomini ma anche alle donne. C’è invece una domanda di Flavia Favaretto, forse un po’ provocatoria, in cui dice che “Paolo è l’apostolo, il santo più misogino che ci sia”. Cosa ci dice a tale riguardo?
“Io distinguerei un elemento culturale che indubbiamente c’è, Paolo è di formazione ebraica e nell’ebraismo la donna ha un ruolo molto importante, si è ebrei se si nasce da donne ebree, ma anche obiettivamente una posizione secondaria rispetto al maschio. Basta dare due indicazioni: nel censimento dell’Antico Testamento si contavano gli uomini e gli animali maschi, ma non le donne. Oppure quando si ha la preghiera del popolo di Israele? Quando ci sono dieci ebrei maschi che pregano insieme. Le donne non si contano. E il bambino maschio a dodici, tredici anni, fa la grande cerimonia nella quale egli diventa adatto ad essere uno dei dieci. Quindi fino a quell’età non è considerato adatto a fare numero legale perché ci sia la preghiera. Dunque, Paolo si porta questa concezione che fa parte della sua identità, della sua cultura. Eppure Paolo annuncia il vangelo a tutti, il vangelo di Gesù, e Gesù non ha fatto differenze fra uomo e donna. Ha considerato totalmente la dignità della persona umana dovunque l’ha incontrata. E allora è bellissimo vedere i rapporti che si costruiscono anche con le donne. Nella storia di Paolo le conversioni che si operano anche a livello femminile e la relazione amicale che egli stabilisce anche con alcune o la presenza femminile nelle sue lettere. Questo significa che l’elemento culturale è stato, come dire, trasfigurato dalla radicalità del vangelo e da questo straordinario messaggio di Gesù che specialmente nel suo campo, del rapporto con la donna, è veramente tale da parlare di una rivoluzione misconosciuta. Gesù ha portato nel mondo la relazione uomo-donna completamente nuova e liberante che Paolo non può fare a meno di assimilare e di annunciare, in qualche modo, al di là anche dei pregiudizi culturali che si portava in sé”.
Una nota personale:
Questo testo mostra i livelli di menzogne che costellano i messaggi della Chiesa. E Forte è prete che parla alla RAI in nome della Chiesa. Egli dice due cose vergognose in relazione a quello che comunemente si dice nella Chiesa.
1) Paolo parla così delle donne perché è ebreo e le cose che dice sono della cultura ebraica. E Gesù cosa era, un marziano ?
2) Paolo dice queste cose perché al suo tempo le cose erano così. Ma questo non è il peggiore relativismo che viene sempre contestato ai liberi pensatori della società contemporanea ?
R.R.
http://www.queendido.org/jesus.htm
Gesù e le donne
di Franco Capone
(con la collaborazione di Giacinto Mezzarobba)
Le reclutò come discepole. Sostenne la loro dignità.
E, quando risorse, si rivelò prima a loro.
Ecco perché tra i primi cristiani c’erano anche le sacerdotesse.
Ma poi scoppiò la “caccia alle streghe”…
Gesù di Nazaret era sposato? Molto probabilmente no. Praticava il celibato? Quasi sicuramente sì, vista la sua vicinanza alla setta ebraica degli esseni. Ma che amasse le donne è un fatto accertato dagli storici: non solo le amava come persone, ma riconosceva loro anche dignità e rispetto. Secondo la teologa americana Elisabeth Schussler, che ha approfondito forse più di tutti i rapporti fra Gesù e il sesso femminile, le donne di oggi devono sapere che il primo femminista fu, oltre 2 mila anni fa, proprio lui, il Messia.
«Gesù si pose in forte rottura con le usanze palestinesi dell’epoca: la legge ebraica, nell’interpretazione dei farisei, dava ben poco spazio alle donne» osserva Remo Cacitti, docente di storia del cristianesimo antico all’Università di Milano. «Si pensi alle norme sulla purezza, che impedivano qualsiasi contatto durante il ciclo mestruale. Le donne non mangiavano con gli uomini. Non partecipavano alle discussioni in pubblico, non potevano uscire, se non per lavorare nei campi o per prendere l’acqua; dovevano portare il velo. Non potevano testimoniare ai processi e potevano essere ripudiate anche per futili motivi».
Una “comune” di seguaci. Lo storico ebreo Flavio Giuseppe (I secolo d.C.) ricorda che per la legge “la donna è inferiore all’uomo in ogni cosa”. «Nel tempio» aggiunge Cacitti «non avevano accesso alla sala del sacrificio (riservata agli uomini): potevano stare solo in un’area marginale. Gesù ha combattuto in un modo impensabile, per quei tempi, tutti i tabù sulle donne». Il motivo era forse legato più alla sua battaglia sociale che a quella teologica. Quando diceva “gli ultimi saranno i primi” nel nuovo Regno (un tempo di giustizia che lui immaginava prossimo e in parte attuabile subito con comportamenti concreti), si riferiva agli emarginati: malati e perciò ritenuti impuri e peccatori; persone con problemi psichici, che allora erano considerate indemoniate; poveri e pubblicani (ovvero esattori delle tasse, di livello sociale anche alto, però malvisti dalla gente). In questa vasta categoria di “ultimi”, il sesso femminile era largamente rappresentato: prostitute, donne ripudiate, vedove, tutte particolarmente svantaggiate in una società patriarcale. Non solo i ricchi (“Difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli” dice Gesù in Matteo 19,23), ma lo stesso fondamento della società ebraica, la famiglia patriarcale, fu da lui duramente attaccato. Come? Con la vita comunitaria che proponeva ai suoi seguaci di ambo i sessi: dovevano uscire dall’ambito familiare per diffondere la nuova fede, cosa che per le donne poteva costituire una vera liberazione da padri o mariti autoritari.
Discepole e ministre. L’affermazione di Gesù riportata nel Vangelo di Marco (3,34) “Ecco mia madre e i miei fratelli” riferendosi ai suoi seguaci, spiega quanto fosse forte l’alternativa della comunità. Gesù proponeva, invece del digiuno, un pasto comunitario (che poi diventerà la santa messa), e tra i discepoli le donne dividevano la mensa con gli uomini. Erano, insomma, diventate soggetti del rito religioso, non più vissuto per concessione dell’uomo o attraverso di lui. «Fra i discepoli» conferma Cacitti «vi erano anche molte donne (Maria di Magdala, cioè la Maddalena, Giovanna, moglie di Cusa, Susanna e tante altre, citate per esempio nel Vangelo di Luca 8,2-3). Fatto davvero importante, quasi tutti i Vangeli canonici concordano nel dire che, una volta risorto, Gesù apparve per primo alle discepole». In due ricostruzioni apparve a Maria di Magdala (Marco 16,9 e Giovanni 20,14-18) e in un’altra (Matteo 28,9) anche a Maria di Cleofa.
Vangeli in rosa. «Sono le donne che avvertono i discepoli maschi del grande evento: sono loro insomma le prime inviate di Gesù per l’annuncio della sua resurrezione» argomenta Cacitti. L’analisi dei Vangeli consente di scoprire, attraverso le concordanze fra i diversi autori, i punti di rottura con la tradizione patriarcale dovuta all’emancipazione femminile sostenuta da Gesù. Un esempio? L’episodio della donna che da 12 anni soffriva di emorragia uterina, e per questo motivo era considerata impura ed era emarginata (Matteo 9,20-22; Marco 5,25-34): sfidando il tabù dell’impurità, Gesù si fa toccare da lei il mantello, sente che le forze gli vengono meno, ma decide di guarirla. La chiama “figliola di Israele” e le dice di essere felice. Altro atteggiamento rivoluzionario per l’epoca era quello di rivolgersi anche ai non ebrei nella predicazione come nell’aiuto.
Una lezione per Gesù. Nell’episodio della madre cananea (Matteo 15,22-28), una volta tanto è Gesù a essere spinto a fare una cosa giusta: per merito di una donna. Il problema era se guarire o no la figlia di una pagana. Alla richiesta della donna di guarire sua figlia indemoniata, Gesù disse: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele (…) Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”. Ma Gesù recede da questa posizione di chiusura quando la donna gli ricorda che anche i cagnolini si cibano delle briciole quando cadono dalla tavola.
Primo: non ripudiarla. Sono molto spesso donne non giudee a credere in Gesù, come nell’episodio della samaritana al pozzo. C’è poi il famoso capitolo in difesa dell’adultera (“Chi è senza peccato…”) oppure quello del fariseo e la peccatrice (Luca 7,36-49), che viene perdonata. O ancora, le risposte di Gesù ai farisei sul divorzio. «In un tempo in cui il dibattito era se ripudiare la moglie per adulterio o perché aveva sbagliato a mettere il sale nella minestra» dice ironicamente Cacitti «lui aveva una posizione sul matrimonio più equa per la donna». In Matteo 19,4-9, Gesù dice: “Non avete letto che il Creatore lì creò da principio maschio e femmina e disse che per questo l’uomo (…) si unirà a una moglie e questi saranno una carne sola? (…) Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma all’inizio non era così. In verità vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio”. Gesù tendeva a parificare l’uomo e la donna, a sfumare i confini del maschile e del femminile. Secondo Schussler interpretava Dio in un modo nuovo: avrebbe sposato il concetto di Dio-Sophia (spirito-sapienza). Gesù, figlio di Dio, è anche Sophia e questa è sia maschile sia femminile. «Gesù era interessato al superamento dei sessi» afferma Cacitti «atteggiamento che si riflette quando spiega ai farisei che se uno in vita ha sposato 7 mogli, le ritroverà nel regno dei cieli per condividere con tutte un amore più profondo di quello della carne».
Donna-profeta. Significativo anche l’episodio che ha ispirato il libro di Schussler In memoria di lei (Claudiana editrice). E’ riportato in tutte le versioni evangeliche ed è ambientato durante la cena di Betania, non molto prima della cattura e della morte di Gesù. Una donna unge con olio prezioso i piedi (oppure la testa, secondo le versioni) di Gesù, in un rito che, per Schussler, era destinato solo a un Messia: dunque, un rito che attribuisce un ruolo profetico alla donna. I curatori maschi dei Vangeli, intervenuti in tempi in cui la donna venne di nuovo emarginata, hanno forse modificato in senso restrittivo il brano (per esempio, manca il nome della donna), ma resta significativo quello che dice Gesù in risposta alle critiche “maschiliste” dei discepoli: “Dovunque sarà predicato l’evangelo, anche quello che costei ha fatto sarà raccontato in memoria di lei” (Matteo 26,13).
Testimone indipendente. E’ un fatto storico che dopo la morte di Gesù le donne presero alla lettera i suoi insegnamenti per l’emancipazione. Fino a che punto lo rivela una fonte esterna al dibattito fra i primi cristiani e per questo particolarmente attendibile: il governatore romano Plinio il Giovane (I secolo d.C.). Plinio stava istruendo processi ai cristiani con alcune condanne a morte e scrisse all’imperatore Traiano.
Ecco Gesù secondo Gibson
E’ costato 25 milioni di dollari ed è già noto come film di violenza cruda. “La passione di Cristo”, di Mel Gibson, al cinema da aprile, porta in scena una storia di interesse (e di incasso) sicuro, perché parla di Gesù. Ma c’era bisogno di evidenziare l’aspetto più truce della passione? Forse Gibson, integralista cristiano, ha voluto scuotere i fedeli.
Errori. Ma quando si descrive una religione senza tenere conto dei contesti politici ed economici, si rischia di sbagliare. Il film, infatti, ripropone la colpa degli ebrei nella crocifissione di Cristo. «E’ solo un mito» dice Cristiano Grottanelli docente di storia delle religioni all’Università di Firenze. «Gesù fu crocifisso per decisione di Pilato, che lo eliminò perché era un problema politico e d’ordine pubblico».
Regine dell’altare. E in una lettera disse di avere sottoposto a tortura due schiave che si definivano ministre, ovvero sacerdotesse: una prova evidente che a quel tempo erano presenti donne-prete. Non solo: dagli Atti degli Apostoli alle numerose Lettere di Paolo (ai Romani, Corinzi eccetera), emerge che diverse donne erano a capo delle prime comunità cristiane. Per esempio Febe, patrona della Chiesa di Cencrea, il porto di Corinto. Altre battezzavano, come Tecla. Le comunità cristiane potevano contare, negli ambienti ellenistici e romani, sulla tendenza da parte delle donne benestanti a partecipare a sette (all’epoca erano di moda quelle pitagoriche e i misteri orfici). Inoltre la casa e la mensa comunitaria, aree d’azione femminile in cui si riunivano i primi cristiani, si opponevano al primato ebraico e patriarcale del tempio. Donne anche facoltose garantivano ospitalità e organizzavano i fedeli.
Pietro contro Maddalena. Una cosa è certa: fra i cristiani si scatenò ben presto una battaglia sul ruolo della donna. Il fatto che solo Luca indichi Pietro come primo testimone della resurrezione di Cristo viene interpretato dagli studiosi come una traccia del conflitto fra i seguaci di Pietro e quelli di Maria di Magdala, che pure ebbe una funzione carismatica. Il Vangelo apocrifo di Tommaso riflette questa battaglia. In Tommaso (121) Simon Pietro dice: “Maria sia allontanata di mezzo a noi perché le donne non sono degne della vita. Gesù allora risponde: ‘Ecco, io la trarrò a me in modo da farla diventare un maschio, affinché anch’essa possa diventare uno spirito vivo’ (…)”. E in Tommaso (27) aggiunge: “Quando farete del maschio e della femmina una cosa sola, cosicché il maschio non sia più maschio e la femmina non sia più femmina (…) allora entrerete nel Regno”.
Eva? L’altra metà di Adamo
Il gruppo di Gesù non fu l’unico a opporsi ai farisei. Gli scavi indicano che a Qumran, sul Mar Morto, dove gli esseni si ritirarono in polemica coi farisei, c’erano anche donne. «E alcuni ebrei della diaspora, i terapeuti» spiega Cacitti «fondarono comunità religiose di uomini e donne ad Alessandria, come riferisce Filone». Di un ruolo femminile importante c’è traccia anche nell’Antico Testamento. «Le creazioni dell’uomo, nella Genesi, sono due: in una Dio creò il pupazzo di fango a cui diede vita come uomo e donna insieme. Nell’altra addormentò Adamo e fece la donna da una sua costola, come immagine dell’uomo, immagine di Dio».
Non solo costola. Osserva il filosofo Mauro Fracas: «il termine ebraico “selah” vuol dire costola, ma anche lato, elemento di complementarietà di una stessa cosa. Infatti i lati dell’arca dell’Alleanza sono definiti selah». Altra stranezza: nella Bibbia c’è due volte un canto di vittoria per avere superato il Mar Rosso. Uno lo intonano Mosè e Aronne; l’altro Miriam, loro sorella. E divenne una sorta di danza estatica delle donne. In base a una versione trovata a Qumran, si pensa che il canto originale fosse quello di Miriam, a dimostrazione del peso della donna anche nella cultura ebraica del passato.
Da “ministre” a “serve”. E mentre in un altro Vangelo apocrifo, il Vangelo di Maria, si sostiene l’autorità di Maria di Magdala per il fatto che “Cristo l’amò più di tutti gli altri discepoli”, nelle Costituzioni Apostoliche (un testo del 500) si sostiene l’esclusione delle donne dal ministero. E la contraddizione era presente persino in san Paolo, grande organizzatore del cristianesimo primitivo. Si va da quel “Tacciano le donne in assemblea, perché non è loro permesso di parlare; stiano invece sottomesse (…)” nella prima lettera ai Corinzi (14,34-36) fino alla dichiarazione (Galati 3,28) che tutte le distinzioni fra ebrei e greci, liberi e schiavi, uomini e donne sono cancellate e non hanno più alcun significato nel corpo di Cristo. Nelle sue lettere, Paolo si riferisce a donne dirigenti di Chiese. Ministre come Giunia o Prisca avevano da tempo funzioni direttive, erano a un livello simile a Paolo nel movimento cristiano primitivo. Ecco perché gli esegeti, cioè gli studiosi delle scritture, sono divisi sull’autenticità di quel “tacciano le donne in assemblea” che potrebbe essere stato aggiunto in tempi di restaurazione maschilista. Tempi in cui nelle traduzioni dal greco si preferiva definire le religiose importanti “serve” della Chiesa e non patrone o ministre, allo scopo di sminuire il ruolo. Operazione, però, poco realistica: nel II secolo il filosofo Celso riferiva che fra i cristiani “ci sono i marcelliani, seguaci di Marcellina, gli arpocraziani, seguaci di Salomè, e altri ancora di Maria Maddalena e di Marta”. Anche se il cristianesimo si poneva come religione universale, doveva fare i conti con società dove il potere economico e politico era dei maschi. E anche la religione, alla fine, non poteva che riflettere questa realtà. Gradualmente vi fu quindi una restaurazione. Ovunque fosse attuata, si invocava il “fatto” che Eva era stata originata da una costola di Adamo a riprova dell’inferiorità della donna. «Ma se Adamo diede i nomi agli animali (Genesi 2,19-20), e attribuire un nome nella cultura ebraica significava prendere possesso» dice il filosofo Mauro Fracas «non lo fa con la donna. E’ Dio che dà nome alla nuova creatura, ed è quindi l’unico ad accampare diritti su di lei».
Dio? Madre e padre. Altra giustificazione maschilista: era stata Eva a commettere il peccato originale. Ma per gli gnostici, che pensavano a un Dio severo della Creazione e a un Dio buono svelato da Gesù, il vero colpevole era stato Adamo che non aveva difeso dall’errore fatale la sua donna: dopotutto, Eva era stata ingannata da un serpente che era in realtà un potente angelo decaduto. Le cose però andarono in un’altra direzione: vinse la restaurazione patriarcale, anche contro gruppi “eretici” come marcioniti, gnostici e montanisti. Il valore dell’elemento femminile però era ancora vivo nel I Concilio di Nicea (325) in cui fu riconosciuto il ruolo delle diaconesse nel battesimo e come aiutanti all’altare. Erano meno importanti dei sacerdoti, ma appartenevano pur sempre a un ordine sacro. Nei documenti storici, presentati nel sito www.womenpriests.org, lediaconesse erano ordinate con complessi riti sacramentali. E’ vero che due concili locali, quelli di Orange (“Nessuna donna venga ordinata diacono”, 441) e di Epanon (“E’ abrogata la congregazione delle diaconesse”, 517) vietarono il diaconato femminile, ma era ancora una realtà diffusa nel II Concilio di Nicea del 787. Per sette secoli i concili lo avevano riconosciuto. Poi l’esclusione, sancita dal Capitolario di Teodolfo di Orleans nell’800 circa: “Quando il prete celebra messa, le donne non devono in alcun modo avvicinarsi all’altare (…) e devono ricordare l’inferiorità del loro sesso, avendo timore di toccare qualsiasi cosa sacra nel ministero della Chiesa”. Nel 1100 si parlava ancora di natura anche materna di Dio e di “madre Gesù” (Anselmo da Canterbury), ma ormai era già iniziata la gara per mandare al rogo le donne come streghe.
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Chiesa ed anima delle donneChi avesse dei dubbi sull’anima delle donne, può iniziare con il leggere quanto scrive il protoprete Messori. Di seguito vi sono altri articoli che tentano di spiegare il grave dilemma. L’argomento del contendere è una donna trattata dalla Chiesa come gli aborigeni delle Americhe. E per fortuna! Perché quegli aborigeni, come le donne, si sono salvati fin quando prevalse la teoria della non presenza dell’anima in tali esseri inferiori. Poi qualche avventuroso teorizzò che anche questi esseri inferiori hanno l’anima. Ed allora iniziarono i guai perché iniziarono i massacri di indigeni e la caccia alle streghe come fenomeno di massa. Sembrerà una frase da bar dello sport ma non posso fare a meno di chiedermi come fanno, particolarmente le donne, ad essere credenti. Donne che, ancora oggi, per la Chiesa non hanno la dignità dell’uomo, tanto è vero che non possono officiare messa, il rito che ripropone il momento della morte e della Resurrezione di Gesù. Mettendo insieme questo con tutta la dottrina, a partire da San Paolo, vengono i brividi a considerare il profondo razzismo della teologia cattolica contro le donne.
PS. Anche questa vicenda degli animali privi di anima è qualcosa tutta da discutere. Noi intelligenti e loro istintivi ? Ma ci facciano il piacere !
L’anima delle donne
di Vittorio Messori
Ma, insomma: le donne sono “persone” a pieno titolo, alla pari dell’uomo? oppure, come gli animali, hanno un corpo mortale ma non un’anima immortale?
Prima di decidersi ad ammettere che l’anima ce l’hanno anche le femmine, la Chiesa ha esitato per secoli, ha convocato concili, ha permesso scontri di teologi. Alla fine ha dovuto arrendersi, ma riluttante e magari con qualche dubbio sempre risorgente. Così si legge in libri di scuola o in articoli da terza pagina di giornale o si sente da chi la saprebbe lunga sull’oscurantismo cattolico. Di recente, alla tv di Stato, una “specialista”, all’ennesimo dibattito sulla parità dei sessi, ha fatto correre nelle schiene dei nuovi benpensanti fremiti di indignazione, rivelando: “È solo nel XV secolo che la Chiesa ha ammesso che la donna ha un anima come quella dell’uomo!”. Ascoltando, ho sorriso, ben sapendo il livello medio di conoscenza storica di simili “esperte”. Ma non ho sorriso, ho sobbalzato, prima sorpreso e poi un po’ avvilito, consultando – lo faccio spesso – le duemila pagine, nell’edizione del 1978, de La civiltà del Medioevo europeo. Opera assai pregiata, e giustamente, a livello internazionale, scritta da quel medievista insigne che è Paolo Brezzi. Il quale è a tutti noto come studioso di esplicito orientamento cristiano; e, proprio come “cattolico”, è stato eletto al Senato per due legislature nelle liste comuniste, in Compagnia di altri “credenti del dissenso”. Ho sobbalzato, dicevo, leggendo a pag. 482 del primo volume: “Il famoso concilio di Mâcon, che discusse se la donna ha l’anima, non è un caso isolato o assurdo, anche se la decisione fu favorevole alle donne, in base alla considerazione che Cristo era il figlio di una donna (ecco, ancora una volta, il segno della maternità che riscatta e nobilita la femmina e le ottiene un riconoscimento nell’ambito della società)”.
C’è davvero da rattristarsi se una delle più plateali menzogne elaborate nel Settecento dalla propaganda illuminista lascia il segno, due secoli dopo, nelle pagine di uno specialista non solo illustre ma anche di riconosciuta fede cristiana, quali che siano le sue discutibili scelte politiche. Il povero sottoscritto che, dopo la laurea, non ha più frequentato aule universitarie e di nulla è “professore”, pur a disagio è costretto allora a ricordare al cattedratico insigne (e ai tanti che ripetono le stesse cose) come andò davvero. E in modo certo, non smentibile. A Mâcon, nella Francia centrale, si tenne nell’anno 585 non un “concilio” ma un secondo sinodo provinciale. Ne possediamo gli atti, ma invano vi cercheremmo discussioni sull’anima, tanto meno su quella femminile. Né vi è traccia di simili discussioni mai, nè prima nè dopo, in nessun documento della Chiesa ufficiale. Questo in realtà avvenne; a quel sinodo partecipò anche il vescovo dì Tours, il futuro san Gregorio, il quale, al libro ottavo della sua Historia Francorum, ci lasciò la descrizione dei lavori. In una pausa, come per distrarsi dalle ardue discussioni teologiche, un vescovo pose ai confratelli una sorta di quiz filologico: il termine latino homo, può essere usato nel senso allargato di “persona umana”, comprendente dunque entrambi i sessi, o è da intendersi nel senso ristretto di vir, di maschio? Si noti che il problema è ritornato d’attualità: negli Stati Uniti, ad esempio, se si intende alludere a entrambi i sessi, ora non si usa più man ma sempre person. (Se, negli States, vi capita di partecipare a un congresso, e se non volete essere aggredito come “sessista” e “sciovinista maschilista”, guardatevi dal chiamare il “presidente” o “moderatore” chairman: secondo il vocabolario “non discriminante” ora si dice chairperson…).
Ritornando al cronista Gregorio di Tours, questi ci narra che, per rispondere al quiz del confratello, gli altri vescovi lo rinviarono unanimi alla traduzione latina della Genesi, secondo cui Dio creò l’essere umano (homo) come maschio e femmina; e, inoltre, alla definizione di Gesù come “figlio dell’uomo” (filius hominis), benché egli fosse “figlio della Vergine”, dunque di una donna. Una curiosità linguistica, dunque, per un momento di relax tra quei vescovi, non certo una disputa teologica. Ché, se per caso tale fosse stata, allora sì sarebbe stata davvero “isolata e assurda”, cioè il contrario esatto di quanto scrive il professor Brezzi. Perché, come ricorda un suo collega medievista: “Per secoli, dunque, si sarebbero battezzati, confessati, ammessi all’eucaristia degli esseri sprovvisti d’anima? Ma allora, perché non fare altrettanto con gli animali? Strano che i primi martiri onorati come santi siano donne e non uomini: sant’Agnese, santa Cecilia, sant’Agata e tante altre. Triste davvero che santa Blandina e santa Genoveffa fossero prive di un’anima immortale!”.
Si noti che buona parte delle moltissime martiri dei primi secoli, subito venerate dalla comunità cristiana come sante, appartengono alla categoria delle “vergini”: riesce dunque ancor più incomprensibile il commento del Brezzi, per il quale solo “la maternità (per la Chiesa) riscatta e nobilita la femmina e le ottiene un riconoscimento nell’ambito della società”. Nella cerchia degli enciclopedisti settecenteschì, qualcuno pensò di strumentalizzare in funzione anticristiana (“Schiacciate l’Infame!”) l’aneddoto di Gregorio di Tours, fidando sul fatto che ben pochi avrebbero mai letto i dieci libri della quasi introvabile Historia Francorum. Calcolo esatto perché, da allora sino ad oggi, la menzogna di un apposito concilio per stabilire se le donne avessero un’anima è passata da un autore all’altro, senza verifica né discussione; ed è stata poi rilanciata alla grande nei nostri anni dal pressappochismo pseudofemminista, spesso gestito da maschi. Passi per questi; ma non per gli studi seri e in vario modo preziosi di specialisti come il cattolico Paolo Brezzi.© Pensare la storia, San Paolo, Milano 1992, p. 501.
http://www.ateismodigiannigrana.it/lasessuofobiacattolicadeglierotomanivergini.htm
LA SESSUOFOBIA CATTOLICA
DEGLI EROTOMANI “VERGINI”
Il risvolto reale di questa oratoria dogmatica è la morale cattolica, che è ancora oggi fondata e radicata – chi vi riflette con raccapriccio? – sull’arcaico decalogo ebraico di Es.20,1-17 e Deut.5,6-21, attribuito a Mosé e celebrato, fraseggiato e commentato nell’ultimo Catechismo della Chiesa cattolica (Libreria Editrice Vaticana 1992), voluto e ordinato dal papa Wojtyla! La “Parte terza”, intitolata “La vita in Cristo”, alla “sezione prima” riafferma imperativamente “La vocazione dell’uomo: la vita dello spirito”, integrata poi con ”la nostra vocazione alla beatitudine”, prerogative di donazione irrinunziabili della santa ecclesia, con “la libertà dell’uomo” garantita, “la moralità degli atti umani”, “la moralità delle passioni” e “la coscienza morale” da essa medesima presidiate. La sezione seconda è tutta dedicata ai “Dieci Comandamenti” mosaici: “Amerai il Signore Dio tuo”, con espressa e attualissima citazione biblica dell’Esodo, rifraseggiata e chiosata con ampio afflato predicatorio, nel più collaudato stile vaniloquente.
Qui il sesto comandamento, “Non commettere adulterio”, è integrato di un dubbio detto di Gesù secondo Matteo (5,27-28), severamente regressivo: “Avete inteso che fu detto. ‘Non commettere adulterio’; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore”.. Segue un commento che riafferma impudentemente, allo scadere del XX secolo, le originarie alienanti istanze ascetiche, preponendo “La vocazione alla castità”, e mistificando che essa oscuramente “esprime la positiva integrazione della sessualità nella persona e conseguentemente l’unità interiore dell’uomo nel suo essere corporeo e spirituale”. E’ così ritemprata l’antica vocazione sessuofòbica, l’ossessione repressiva peculiare del cristianesimo dalle origini paoline, patrocinata non a caso dagli operosi asceti cristiani più afflitti da erotomania irrisolta, e più ardentemente impegnati a perseguire “eresie” nel mondo nemico..
Ma se il sesso s’identifica con la propulsione e la continuità della vita, funzione naturale primaria per la procreazione e per la difesa e la durata biologica della vita universale, di che nessuno può ragionevolmente, legittimamente dubitare, l’inibizione e repressione sessuale è uno dei crimini contro natura, contro la vita, contro l’umanità più perversi, più malvagi, più psichiatricamente pericolosi, che si siano escogitati e praticati. Chi ha del corpo e di tutte le sue funzioni naturali, non solo un generico rispetto, ma anche un elevato concetto, prioritario rispetto a ogni fantasia animistica, a ogni illusionismo spiritualistico; chi riconosce massimamente il valore dovuto alla naturalità della materia vivente, degli organismi generativi e degenerativi, comunque vitali; chi ha raggiunto o ritrovato nell’antica cultura della physis tale superiore livello anche conoscitivo, attinto da nobili funzioni cerebrali; non può che trovare esaltante l’universale attualità del sesso, la pura bellezza del-l’eros, che nel piacere intenso genera e rigenera la perpetuità della vita.
Lo avevano inteso bene i greci, celebrando l’eros in tutta la sua complessità, fisica psichica estetica, istintuale e ideale, in quel capolavoro lirico-dramma-tico e filosofico che è il citato Convivio platonico. Ma occorsero due millenni perché la scienza moderna ritrovasse, nella esplorazione dei processi fisici, la riassunzione definitiva del suo compito esclusivo. E solo nel secolo XX Freud, partendo da ricerche neuro-psichiche e da esperienze terapeutiche, ha comunque riscoperto la sessualità pervasiva e “profonda” della intera esistenza psico-somatica dell’uomo: parcella minima – io aggiungo – della sessualità universale, che rigurgita di energia generativa e conservativa, rigenerando il deperibile mondo vivente. In questo quadro remoto e presente della “cultu-ra dell’uomo”, proiettato nel futuro, si è sempre patologicamente opposta la cultura avversa, la cultura alienata del cristianesimo.
Sul cristiano “Rifiuto del piacere”, Le Goff ha scritto un saggio accolto in L’immaginario medievale (1985, tr.it. Laterza 1988, Mondadori 1993, pp.123ss.). Ma è appena sortita (2000), nelle edizioni Massari, la traduzione italiana del libro che K. Deschner dedicò nel 1974 alla “Storia del sesso nel cristianesimo”, col titolo La croce della Chiesa, riveduto e ampliato nel 1989. Vi trovo conferme esatte dei miei punti di vista, sulle buone ragioni della globale reiezione dell’anti-umanesimo ecclesiastico cristiano-cattolico, della cultura innaturalistica e sessuofòbica che ne è il fondamento, e ne esprime le manifestazioni psichiatriche e criminògene. più odiose per ipocrisia etica, più violente e distruttive per l’uomo. La tecnica compositiva di Deschner mi pare legata al suo privilegio di usufruire di un’amplissima letteratura critica e storico-religiosa di lingua tedesca, che non ha eguali in nessuna altra lingua. E che lui utilizza largamente, con dipendenza ricercata e con accorta selezione tematica, costruendo i suoi capoversi variabili irti di citazioni e dei relativi rimandi alle fonti, accolte sempre cumulativamente, in funzione della sua inflessibile contestazione anti-cristiana. Qui interessano principalmente i primi capitoli, che affrontano i temi inerenti alle aberrazioni psicotiche dell’ascetismo, su cui insistiamo nel vol.I, e non ci stancheremo di continuare a farlo.
Deschner al solito non ne fa una propria trattazione specifica, ma vi apporta pezze di appoggio significative, risalendo intanto fino ai più antichi culti, dalla Grande Madre al “santo membro”, quando ancora beneficamente i genitali erano finanche sacralizzati, e l’amplesso ritualizzato nei templi. L’ascetismo nasceva per stravolgi- mento, in opposizione a tutto questo, con rigetto spiritualistico della corporeità, della natura vivente, quindi delle funzioni naturali, dalla nutrizione alla sessualità. E sùbito l’attacco giustificato colpisce il (mono)teismo post-esilico ebraico, in cui la “castità cultuale” era legata al “disprezzo della donna”, alla subordinazione biblica della donna, “creata dall’uomo” (pp.25ss.). Ma la Bibbia che, pure essendo ossessivamente teistica, è eminentemente mondana e anti-ascetica, “consentiva la poligamia, il concubinaggio con schiave e con prigioniere di guerra, il rapporto sessuale con le prostitute e le donne non sposate, non più soggette alla tutela paterna, e il divorzio (Babilonesi ed Egizi concedevano il diritto alla separazione anche alle donne)” (p.30).
Così Deschner, conoscitore sommario e esterno della cultura ellenica, sembra fare interamente carico alle religioni misteriche ellenistiche, dall’orfismo dipendente dal pitagorismo fino alle derivazioni neoplatoniche ecc., del rovesciamento antimondano e ascetico. Nella duplice svalutazione cristiana (cita Clemente alessandrino!) e nietzschiana, esce malconcio specialmente Platone, crocifisso cristianamente alla utopia senile della Repubblica. Per Deschner, che qui combina pregiudizi cristiani e anticristiani, Platone è riassumibile nelle battute tendenziose di Clemente, visto come il “Mosè di lingua greca”; e di Nietzsche che lo infama come “il grande calunniatore della vita”, e “la più grande disgrazia d’Europa” (cit. p.32). Deschner evidentemente non ha mai letto il Simposio, e probabilmente ha letto poco di Platone, nella tradizione dei vari “padri” del cristianesimo, o non lo ha recuperato almeno dopo il suo rigetto antimistico e anti-teologale, che l’ha reso così giustamente avverso alle nefaste culture e pratiche ascetiche orientali e misteriche, confluenti nel cristianesimo con una peculiare esasperazione sessuofòbica.
L’ex teologo cristiano tende a differenziare nettamente la mancanza di ascetismo, il realismo vitale che quasi potrebbe dirsi umanistico, nell’insegnamento evangelico e nella vita di Gesù, a fronte della sessuofobia psichiatrica di Paolo, vero ispiratore di Agostino: i due ossessi del “peccato originale” identificato con la “lussuria”, che improntarono l’aberrante ideologia repressiva della corporeità nel cristianesimo, la sua violenza etica della “mortificazione della carne” ecc. Una sorta di contro-apologetica la più acre è qui riservata al monachesimo cristiano maschile e femminile, alla “santa verginità” che il “dottore” Ambrogio esaltava perché “essa stessa rende martiri”. Avendo già citato nel vol.II gli scritti del retore Ambrogio su La verginità (Città nuova 1974), ora vorrei rifarmi su questo tema al commento di una donna, M.L.Danieli, forse una religiosa attuale, traduttrice e introduttrice del libello da cui attingo. Secondo la sua oratoria cristologica femminile, “la verginità non è l’astenersi dall’unione carnale, non è un esercizio di filosofia, è il Cristo stesso: la sua carne immacolata, gloriosa, risorta, comunicata a noi nella vita generatrice del battesimo, nel nutrimento dell’eucarestia, nella incessante operazione vivificante dei misteri: non il Cristo è ‘della verginità’, ma la verginità ‘del Cristo’” (cita Ambrogio, p.14).
E’ ancora una tipica celebrazione teo-spiritualistica, gonfia di parole-vento, a beneficio di quella aspra negatività contro-naturale che è l’astensione virginale dal-l’amplesso, oratoria che così continua: “se la verginità è un dono di partecipazione alla vita dello Spirito, un dono che discende dall’alto, dal Padre delle luci [ancora ENEL], essa è pure una consuetudine di vita celeste che si estrinseca in una condizione umana, in una consacrazione ecclesiale che Ambrogio è fra i primi, in occidente, ad avere ratificato con la sua paternità di vescovo, con il suo grande ascendente sulle anime” (pp.14-15). E’ infatti qui che vuole arrivare Ambrogio, vescovo autoritario di grande potere politico: a questo dominio mira la rappresentazione esemplare della pseudo-virginea patologia ecclesiastica cristiana, che coinvolge il mito della verginità assoluta di una “Madonna” di pura invenzione, eretta sugli altari come “Madre del Dio” nuovo. Prosegue insaziata la melopea apologetica della Danieli: “Fratello di sangue di una vergine consacrata, Marcellina, padre nello Spirito di numerose vergini che da lui ricevono il velo della consacrazione, Ambrogio vibra per queste anime a lui affidate di un affetto tenerissimo e le segue con vigilanza mirabile. Le accoglie fin dall’Africa lontana, le ricerca per le varie regioni d’Italia, ne ricorda i nomi, le lotte, le fatiche, le difficoltà presso i parenti, le sostiene, le illumina e soprattutto si preoccupa di innestarle fortemente nella radice che può sostenerle e portarle: la verginità luminosa della Madonna” (ivi).
Ambrogio, come poi Agostino alla sua schola, due “grandi” vescovi eresiologi implacabili, al culmine delle “origini” della già “grande chiesa” imperiale, con tali droghe retoriche sulla sacra virginitas mitizzata nella stessa Mater Dei, adescavano, eccitavano, seducevano tante giovani donne alla castità sessuòfobica più rigida, fra le delizie “spirituali” delle rinunce monastiche. Ancora oggi, come la Danieli qui citata, padre Trapè agostiniano di nome Agostino, introduttore e commentatore pletorico, dedica l’edizione Città nuova del libello di Agostino santo, su La verginità consacrata, “Alle novizie della casa di formazione delle monache agostiniane d’Italia (Roma, Santi Quattro Coronati), dove molte pagine di quest’opera sono state approfondite insieme, e ai loro monasteri”. Il libello-orazione di santo Agostino, uomo anche sessualmente ardente, nella giovinezza e nella maturità, dopo il Proemio esordisce con questo capoverso lirico di falso pathos mistico, inverginando sulla scia di Paolo finanche la sua chiesa, già piuttosto malfamata (pp.84-85).
“Ci aiuti Cristo, figlio della Vergine e sposo dei vergini, nato fisicamente da un grembo verginale, sposato misticamente con nozze verginali. Se tutta la Chiesa è una vergine fidanzata a un sol uomo, il Cristo (come si esprime l’Apostolo), quale non dovrà essere l’onore che meritano quelle persone che custodiscono anche nel corpo l’integrità che tutti i credenti conservano nella fede! La Chiesa ricopia gli esempi della madre del suo Sposo e del suo Signore, ed è, anche lei, madre e vergine. Se infatti non fosse vergine, perché tanto preoccuparci della sua integrità? E se non fosse madre, di chi sarebbero figli coloro ai quali rivolgiamo la parola? Maria mise al mondo fisicamente il capo di questo corpo; la Chiesa genera spiritualmente le membra di quel capo. Nell’una e nell’altra la verginità non ostacola la fecondità; nell’una e nell’altra la fecondità non toglie la verginità. La Chiesa è tutta intera santa nel corpo e nell’anima, ma non tutta intera è vergine nel corpo, anche se lo è nell’anima. Di quale santità non dovrà dunque rifulgere in quelle sue membra che conservano la verginità nel corpo e nell’anima?”
E’ la predicazione confusa e mistificante con cui la chiesa si auto-celebra, con l’autorità dei suoi vescovi, esigendo la riduzione contro-naturale dell’uomo, asservito al “sacro”, strumento del potere ecclesiastico, con la soppressione inibitiva e auto-repressiva della corporeità naturale, la “carne” degradata nella vergogna. Sempre con le sue annotazioni rapide, assai spesso di stile esemplificativo e quasi aneddotico, Deschner compone un profilo ripugnante della ascesi cristiana, antica medioevale e moderna, come il “rovescio dell’umano”, in polemica espressa coi retori ecclesiastici odierni, falsi ammiratori dell’ascesi altrui, predicata dai loro pulpiti inascoltati (pp.52ss.). Si arriva così alla mistica nel cristianesimo, che a noi molto interessa, e che Deschner compendia nell’erotismo mariologico e cristologico (pp.68ss.), riferendosi in particolare alle “Spose di Gesù” del Medioevo alto fino al XVI secolo, con l’esemplarità di Matilde di Magdeburgo e di Teresa di Avila. Ma questa è materia che intendiamo trattare estensivamente, cioè col possibile “appro-fondimento”, sui testi aurei dei mistici cristiani “moderni”, nella terza parte di questo volume III.
Vorrei invece notare la libertà di linguaggio critico, perfino con apparenti rimandi genitali, che si permette l’ex teologo tedesco, parlando ambiguamente della “Minne intensa” [“Minne” è però l’amore ideale] delle mistiche cattoliche (p.72), e della “mistica del prepuzio”! S’intende quello di Gesù, ancora “in epoca moderna” (pp. 81ss.), con ovvio riferimento al Gesù amante oggetto del desiderio ardente dei mistici cristiani, nel florilegio di una diffusa letteratura ecclesiastica, fino al XVIII secolo e oltre. Prepuzio non metaforico, se nel XV secolo fu fondata una Confraternita del Santo Prepuzio. “La monografia composta dall’ex domenicano A.V.Müller, Il santissimo prepuzio di Gesù (1907), indica 13 luoghi che vantano il possesso di un ‘autentico’ prepuzio divino: il Laterano, Charroux presso Poitiers, Anversa, Parigi, Brugge, Boulogne, Besançon, Nancy, Metz, Le Puy, Conques, Hildesheim, Calcata ‘e anche altri luoghi’. Il prezioso pezzo d’antiquariato prepuziale giunse a Roma grazie a Carlomagno, che a sua volta l’aveva avuto da un angelo” (p.83). Non meno ampio il capitolo sulla vita scandalosa dei monaci nei conventi, degradati a lupanari privilegiati (pp.86ss.), il più crudo rovescio realistico delle verbose fantasie virginali di cui sopra.
Sul tema rimosso della sessuofobia cristiana (perfino il “laico” di Nola, che non ne era esente, nella sua voce “Sesso” della Enciclopedia delle Religioni italiana (vol.V), insolitamente corta e ridotta a motivi etnologici, dedica al sesso nel cristianesimo le ultime tre righe-colonna più elusive, prossime al silenzio preferibile), si potrebbe e dovrebbe scrivere largamente, come fa Deschner. Mi limito a segnalare che, fra le derivazioni e ripercussioni da una sessuofobia sostanzialmente anti-femminista, nel secolo di Freud vi sono stati pure intellettuali “laici” (filosofi) che, eredi sia pure ignari di quella cultura millenaria, si sono permessi di fare della “metafisica” del sesso. Mi riferisco in particolare al giovanissimo Weininger, morto suicida a 23 anni, che all’inizio del secolo, in Sesso e carattere (1903, tr.it. Bocca 1945, 1967), fece scandalo per la sua radicale misoginia “metafisica”. Che opponeva l’archetipo femminile, della “donna” radicata nella sua natura terrestre, irrazionale e demonica, a un fantastico archetipo maschile, dell’“uomo” ascendente al “cielo”, con la sua irresistibile tensione “spirituale”, “soprannaturale”, “trascendente” ecc., ostacolato dalla carne femmina.
Mezzo secolo dopo, l’arcaista Evola ritraduttore di Weininger si è messo su quella scia con un suo ampio libro, che azzardava appunto il titolo Metafisica del sesso (Atanòr 1958, Mediterranee1969, 1994). Vi ha svolto e integrato in latitudine quelle tesi. sempre nella sua consueta visione stravolgente, nella sua più antiquata riduzione “spiritualistica” e esoterica al “sacro” e al “trascendente”, anche della sessualità universale, nel presupposto paradossale che l’ascetismo sarebbe “una forma superiore di virilità”, ovviamente inattingibile dalla “fisicità” della donna, tellurica-materna ecc. Fra gli altri paradossi, quello anti-evoluzionistico per cui non l’uomo deriverebbe dalla scimmia per evoluzione, ma la scimmia dall’uomo per involuzione. Basti dire in sintesi stringente che questa “metafisica”, in quanto tale, è eminentemente virilista (maschlista), nella predominante tradizione cattolica.
Ma infine oggi si può registrare la pubblicazione di un libro di reazione piuttosto eccezionale, della tedesca Uta Ranke-Heinemann teologa cattolica – “prima donna abilitata dalla chiesa cattolica” lungimirante –, poi privata di quell’insegnamento, per avere osato affermare la “verginità” non biologica ma solo teologica della ultra-vergine Maria. Il libro, dal titolo Eunuchi per il regno dei cieli. La chiesa cattolica e la sessualità (1988, tr.it. Rizzoli 1991), dedicato “A mio marito”, purtroppo è viziato dall’inizio, dalla pretesa tutta cattolica che anche la sessuofobìa sia “un retaggio dell’antichità classica”, cioè abbia radici greco-romane, pescate a caso fra un Pitagora quasi monastico e un Seneca o un Musonio stoici ellenisti, o un Galeno medico di Marco Aurelio (oltre ai soliti gnostici cristiani), intellettuali già in età cristiana deltutto malintesi a suo uso e consumo. Sembra ignorare o rimuovere tutta la ierolatria sessuale antica dei culti fallici e degli amplessi sacri ecc., di cui pure riferiva brevemente Deschner (“Il santo membro”), mentre alla “antichità” intera addebita “La pianificazione familiare”, l’uccisione dei neonati, l’aborto e la contraccezione, violentemente contrastati dai cristiani.
Inevitabile poi che punti sùbito su Agostino, principe dei mistici erotici sessuòfobi per repressione, che Ranke-Heinemann pone giustamente all’origine della sessuomania fobica dominante nella chiesa cattolica (pp.91ss.): in questo senso ne sottopone a critica le tesi più note, con approfondimenti per noi superflui. E’ questo carattere di discussione etico-teologica continua, da un punto di vista essenzialmente femminile e femminista cristiano, su temi proiettati sempre nella storia della chiesa fino ai nostri giorni; è questo che differenzia nettamente il libro da quello di Deschner. Ciò che l’autrice non osserva col massimo scandalo, lei che di famiglia protestante si è “convertita” al cattolicesimo, è la inamovibilità antistorica della grande ecclesia nei molti secoli della sua storia, la pervicace fissità psichiatrica nell’innatura, che si àncora alla teologia: culminante nella sua “età d’oro”, quella dei domenicani sessuòfobi Alberto e Tommaso.
Che non ha rilievo solo per la “diffamazione delle donne”, denunciata già da Deschner e ora assunta come Leimotiv dalla teologa cattolica recidiva, ma più generalmente per l’avversione al sesso e al piacere, al piacere sessuale in particolare, che si dà ulteriori pazzesche motivazioni bio-spiritualistiche. Per es. nella grande Summa Theologiae tomistica le sentenze che “il piacere sessuale frena l’uso della ragione”, “opprime la ragione”, oscura e perfino annienta lo spirito! Ma a conferma della scarsa e distorta conoscenza del pensiero greco, che mostra l’autrice pursempre cattolica, si legge qui che Tommaso avrebbe trovato sostegno nell’Etica Nicomachea di Aristotele, per la sua “avversione al piacere e alla sessualità” (p.229). Viene cioè attribuita a Aristotele l’affermazione che “il piacere sessuale impedisce l’attività mentale”, in un discusso capitolo (VII,12) in cui invece, parlando del piacere in generale, il filosofo greco espone pareri altrui, che nel VII,13 confuta!
Aristotele, che non parlava di sesso, accennando a piaceri fisici in eccesso ecc., da cui il saggio moderato rifugge, affermava ragionevolmente che il piacere in sé è un bene, in quanto “è un’attività della disposizione che è secondo natura”. Inoltre affermava che anche l’attività della mente procura piacere (e può procurare danno), ma non è impedita che da “piaceri estranei”, che cioè procedono da altra attività, per es. fisica. Semmai Aristotele confutava fra l’altro tesi che trova nel Filebo platonico, dove si oppongono i piaceri e la mente nella ricerca della verità, che è tuttaltro problema: ma è stato notato che nemmeno questo assume là “una valenza anti-eude-monistica”, cioè avversa al piacere (M.Zanatta, in Etica Nicomachea, tr.it. Rizzoli 1986, p.976).Tommaso quindi abusava, come d’abitudine, dei testi aristotelici stravolgendoli, e la contestatrice odierna vi si associa pregiudizialmente. Aristotele poteva tutto fuori che “confermare” Tommaso d’Aquino, pilastro dottrinale ecclesiastico, medioevale e “moderno”, della chiesa cattolica. Le cui “antiche” e quindi anacronistiche, snaturate dottrine si pretende, per decreti pontifici, facciano testo e norma morale fino nel secolo XX, con abuso autoritario di violenza inveterata.
Ma in materia di sesso, l’autrice è di un apprezzabile quasi spregiudicato “realismo”, culturalmente provveduto, di cui mi limito a raccogliere le evocazioni ripetute di un altro mostro ecclesiastico cattolico “moderno”, oramai settecentesco, dunque vissuto e predicante e scrivente nel “secolo dei lumi”: Alfonso de’ Liguori, vescovo santo e dottore della chiesa, grande moralista eroto-sessuòfobo di antico stampo agostiniano, “massima autorità in teologia morale nel XIX e nel XX secolo” (p.326). Di cui purtroppo non hanno avuto remore a scrivere biografie anche illustri storici letterari (cattolici) come G.Getto, sia pure nella giovinezza (Sant’Alfonso de’ Liguori, Perinetti Casoni 1946), con imprimatur.
Ma la Ranke-Heinemann ne ricorda benaltro che gli scritti “letterari”, citando la sua Theologia moralis e altre opere, in cui l’asceta affronta, con la solita arroganza di un magistero degradato, molte gravi questioni come quelle che dovrebbero indirizzare i confessori, per es. “Come il confessore deve comportarsi con coloro che sono infastiditi dal demonio”, s’intende sessualmente. L’illuminato “Alfonso descrive come nascano i figli del demonio: dal rapporto del demonio con una donna, e che un tale bambino non è propriamente un figlio del demonio, ma è figlio di quell’uomo da cui il demonio si era precedentemente procurato il seme” (p.288)! Di lui la biografia ufficiale dell’Ordine redentorista, da lui fondato, ne descrive le psicosi come altamente meritorie: “Come vescovo, dava udienza alle donne solo in presenza di un domestico; una volta accolse una donna molto anziana in modo che ella sedesse a un estremo di un lungo banco, ed egli, con la schiena voltata, all’altra estremità. Alla cresima delle donne, se doveva dare lo schiaffo prescritto dalla chiesa, non toccava mai la guancia scoperta, ma il copricapo delle cresimande” (p.394).
Commenta l’autrice cattolica, dopo averne offerto molti esempi lungo tutto il libro: “La sua opera ha raggiunto più di settanta edizioni. Centinaia di teologi moralisti lo hanno copiato e tutti insieme hanno fissato per iscritto la miseria di una teologia morale che, non soltanto presupponeva la minorità dell’essere umano, ma inoltre impartiva sistematicamente un’educazione in funzione di ciò” (pp.294-95). Interessanti infine sono le conclusive “Considerazioni mariologiche”, in cui sono ribadite le tesi mariologiche di bonsenso, che le sono costate la perdita dell’insegnamento teologico. La Ranke-Heinemann parte dal dato oggettivo che la cosiddetta mariologia “non fu elaborata da donne, ma da uomini, per giunta celibi, da persone dunque che non avevano alcun rapporto col matrimonio. Essi anzi affermavano che il loro stato celibatario, che chiamavano e chiamano stato di verginità, avesse un valore più alto del matrimonio, ritenuto inferiore” (p.411).
La Maria storica però era sposata con numerosa prole, e quei preti e monaci mistificatori della loro fede, celibi ma nemmeno vergini, non esitarono a negarle il parto di Gesù e la maternità degli altri figli, distanziati come “cugini” di Gesù, per affermare pregiudizialmente, teo-politicamente, la “verginità” assoluta di Maria, sua madre naturale, eretta a “Madre di Dio” con la divinizzazione del figlio. Ci piace che l’au-trice, di educazione protestantica ma ancora – sembra –, incredibilmente “cattolica”, cioè credente in questa chiesa di falsari pervicaci, scriva che “questa dottrina della ‘verginità nel parto’, alla quale non si può rinunciare senza che tutta la costruzione artificiosa della ‘verginità perpetua’ di Maria rovini su se stessa, è un esempio particolarmente significativo delle fantasticherie alle quali si ricorre per potere trasformare Maria in una vergine” (p.412). Ma l’intera cristologia ha il medesimo fondamento fantastico e artificioso: e lei continua a credervi?
Ci piace comunque che una donna assurdamente “credente” reagisca a tali fiabe disumane, sentendone offesa la sua natura e umanità femminile, come noi ne sentiamo offesa la nostra natura e identità umane. Ancora oggi il “mariologo” papa Wojtyla che, pure nelle sue quotidiane recite agoniche sui massmedia, è riuscito a sforare nel duemila, assicura che Maria è rimasta “inviolata”: lo riattesta lui d’autorità, violatore di ogni verità credibile.
http://web.tiscali.it/vitasenzacarne/primi.htmI primi cristiani e i cristiani d’oggi
“Non essere tra quelli che si inebriano di vino, né fra coloro che son ghiotti di carne!”Proverbi 23. 20
Si sa poco (almeno ufficialmente) dell’alimentazione di Gesù. Si sa, tuttavia, che i primi cristiani e i cronisti della tradizione cristiana che appoggiavano il vegetarianesimo erano molti, inclusi luminari come San Girolamo, Tertulliano, San Giovanni Crisostomo, San Benedetto, Clemente, Eusebio, Plinio, Papias, Cipriano, Pantaneo e John Wesley, per nominarne solo alcuni.
Molti testi affermano che i dodici apostoli erano vegetariani, e che i primi cristiani si astenevano dal mangiare carne. Per esempio, San Giovanni Crisostomo (345-407 d.C.), uno dei più importanti esponenti letterari del cristianesimo del suoi tempi, scrisse: “Noi capi cristiani pratichiamo l’astinenza dalla carne di animali per sottomettere il corpo… mangiare carne è innaturale e impuro“.
Clemente d’Alessandria (160-240 d.C.), uno dei primi accademici della Chiesa, senza dubbio esercitò grande influenza su Crisostomo, infatti poco più di cent’anni prima aveva scritto: “Ma coloro che indugiano intorno a tavole di fiamme, nutrendo la loro stessa malattia, sono governati da un demone estremamente lussurioso, che non ho vergogna di chiamare il demone della pancia, il peggiore di tutti i demoni… E’ molto meglio essere felici che rendere i nostri corpi simili a tombe di animali. Di conseguenza, l’apostolo Matteo si nutriva di semi, noci e vegetali, niente carne.“
Il Clementine Homilies, scritto nel II secolo dopo Cristo, è considerato uno dei più antiche testi cristiani dopo la Bibbia, basato sulle predicazioni di San Pietro. Homili XII dichiara orgogliosamente: “Il consumo innaturale di carne è contaminante quanto la pagana adorazione dei demoni, con i suoi sacrifici e i suoi festini impuri, e quando vi prende parte l’uomo diviene un compagno di tavola dei diavoli“. Chi siamo noi per contraddire San Pietro?
Non solo, si dibatte tra studiosi sulle pratiche alimentari di San Paolo, nonostante l’attitudine altezzosa dei suoi scritti nei confronti dell’alimentazione. Gli atti 24:5 parlano di Paolo come di un membro della setta dei Nazareni, setta che seguiva i principi degli Esseni, compreso il vegetarianesimo. Inoltre, secondo quanto scrive Edgar Goospeed nel suo libro History of Early Christianity, è esistito un tempo un “Atto di Tommaso”, a cui facevano riferimento le prime sette cristiane. Il documento afferma che anche San Tommaso si asteneva dal mangiare carne.
Allo stesso tempo, veniamo a sapere dall’eminente padre della Chiesa Eusebio (264-349 d. C.), il quale a sua volta cita Hegesippus (circa 160 d. C.), che Giacomo, considerato da molti il fratello di Cristo, rifiutava di mangiare la carne degli animali. Tuttavia, la storia riferisce che la cristianità organizzata gradualmente si allontanò dalle sue origini vegetariane, anche se i primi padri della Chiesa seguivano un regime senza carne. In tempi più recenti, anche la Chiesa cattolica aveva stabilito che i cattolici praticanti osservassero almeno alcuni giorni di digiuno e si astenessero dal mangiare carne al venerdì. Ma perfino questa restrizione (ridicola) è stata ridotta, quando nel 1966 la Conferenza Cattolica degli Stati Uniti ha deciso che è sufficiente che i cattolici si astengano dal mangiare carne il venerdì di Quaresima.
Molti dei primi gruppi cristiani sostenevano la scelta di vita vegetariana, segno evidente che gli insegnamenti di Gesù di Nazareth (vedi Quinto: non uccidere. Le parole del Cristo) fossero chiare ed inequivocabili, almeno all’epoca. Gli scritti dell’antica Chiesa indicano che ufficialmente il consumo di carne non fu permesso fino al IV secolo dopo Cristo, quando l’imperatore Costantino decise che tutti dovevano adottare la sua visione del cristianesimo. Una interpretazione della Bibbia a favore del mangiare carne divenne il credo ufficiale dell’Impero Romano, e i cristiani vegetariani dovevano seguire la regola in segreto, con il rischio di essere messi a morte per eresia.
I cristiani del Medioevo vennero rassicurati da Tommaso D’Aquino (1225-1274 d. C) sul fatto che uccidere gli animali era sancito dalla divina provvidenza. Forse le abitudini perdonali di D’Aquino hanno influenzato la sua opinione, perché, pur essendo sotto molti aspetti un asceta, i suoi biografi lo descrivono come un goloso. D’Aquino inoltre era famoso per la sua dottrina sui vari tipi di anima che un corpo può possedere (altra bizzarra e inconsistente teoria). Gli animali, insegnava, non hanno l’anima. E’ da notare che, sempre secondo le farneticazioni di D’Aquino, inizialmente neanche le donne avevano un’anima! Poi, però, ricordandosi che la Chiesa si era addolcita e aveva ammesso che in realtà le donne hanno un’anima, d’Aquino a malincuore accondiscese che fossero un gradino più su degli animali, i quali certamente non l’avevano (malgrado nella Bibbia, Genesi 1. 30, Dio stesso affermi il contrario… ma evidentemente d’Aquino l’aveva dimenticato).
Comunque si vogliano interpretare gli insegnamenti successivi del cristianesimo, le sue espressioni più antiche (e molte delle sette ebraiche da cui derivavano) predicavano l’ideale vegetariano. E’ tutt’altro che sorprendente dunque la loro attitudine generale nei confronti degli animali; Nazareni, Terapeuti, Ebioniti, Gnostici ed Esseni, tutti avevano scelto di vivere senza cibarsi di carne. I Montanisti, un’altra delle prime sette cristiane, si astenevano dai cibi carnei, e così anche Tertulliano, uno dei primi padri della Chiesa. Origene (185-254 d. C.), forse il pupillo più noto di Clemente e uno degli scrittori più prolifici dei primi anni della Chiesa, aveva davvero colto nel segno parlando di coloro che avrebbero appoggiato il consumo di carne: “… credo che i sacrifici animali siano stati inventati dall’uomo come pretesto per mangiare carne”. (Stromata, “Sui Sacrifici”, Libro VII). Anche confessioni cristiane più recenti hanno sostenuto il vegetarianesimo. Ellen G. White, uno dei fondatori della Chiesa Avventista del Settimo Giorno, era un ardente vegetariano, così come John Wesley, il fondatore del Metodismo. Sylvester Graham, il ministro presbiteriano, era un sostenitore dell’ideale vegetariano. Trappisti, Benedettini e gli Ordini Cathusian della Chiesa Cattolica Romana, così come altre organizzazioni cristiane quali il Movimento Gnostico Universale e i Rosa croce, tutti promuovono la scelta vegetariana. San Francesco, nonostante le ingiustificate accuse di essere un vegetariano incoerente, era in realtà un convinto difensore degli animali, che amava e rispettava come se stesso.
Si tratta di coincidenze? O forse tutte questi gruppi, questi insieme di credenti erano in realtà pazzi? Non è forse “probabile” che seguissero semplicemente i precetti di Dio e rispettassero la natura? E non è forse vero che l’uomo decise di sua spontanea volontà di ignorare i comandamenti del suo Dio solo per mangiare un piatto di carne saporita?
http://www.bloggers.it/Hereticus/dottori_chiesa/
agostino_tommaso/sessuofobia/le_donne_esseri_privi_della__ragione.htm
19/12/2005
Le donne… esseri privi della ragione
Tratto da Razionalmente
TOMMASO D’AQUINO, LUMEN ECCLESIAE
Basterebbe il fatto che la chiesa romana del terzo millennio si basi su modelli teologici dei secoli bui della nostra storia, per farle perdere la credibilità.In 17 secoli, praticamente la chiesa non si è mai rinnovata. Le timide aperture fatte dal concilio vaticano II sono già state trangugiate, digerite ed infine espulse come feccia, dal sacro corpo della chiesa romana.La ecclesia, gelosa delle tradizioni, sfodera i suoi migliori campioni di “surplace”. Meglio dei ciclisti del Vigorelli, riesce a stare in equilibrio sulla sua biciclettona bianco e gialla per omnia saecula saeculorum …amen. Chi sono i due grandi campioni citati ad ogni piè sospinto come se fossero i fari della sapienza, la summa teologica assoluta, invece che due alzheimeriani all’ultimo stadio?Sono Agostino e Tommaso: i dottori della chiesa, i pilastri su cui si poggia la fede cattolica, la fonte di ogni conoscenza a cui il nostro amato pontefice attinge a piene mani. Il nostro omino bianco, fine teologo e profondo conoscitore degli emeriti santoni, li cita continuamente come esempi di virtù e di pensiero illuminato. Da Tommaso vengo a sapere ad esempio, che essendo sposato, non potrò godere interamente dei piaceri del paradiso. Il godimento totale dell’empireo cattolico, spetta ai vergini. Il 60% ai vedovi e a noi poveri coniugati solo il 30%. Vergine non posso tornarlo… potrei diventare vedovo sopprimendo la mia adorata metà… ma sono contro la violenza.
TOMMASO D’AQUINO, LUMEN ECCLESIAE
tratto da “Eunuchi per il regno dei cieli”
di Uta Ranke-Heinemann
Benché Tommaso d’Aquino (morto nel 1274) faccia in sostanza soltanto una sintesi sistematica che rappresenta complessivamente la visione dell’alta scolastica e benché, per quanto riguarda l’assunzione della biologia di Aristotele, egli non dica nulla di diverso da quanto aveva esposto dettagliatamente, anche se in modo un po’ meno ordinato, il suo maestro Alberto Magno, è necessario approfondire l’etica sessuale di Tommaso, perché le sue riflessioni hanno avuto un’importanza decisiva fino ai nostri giorni. Nella morale sessuale Tommaso d’Aquino è rimasto, con Agostino, fino ad oggi l’autorità. Nella sua fondamentale opera cattolica Die Lehre des hl. Augustinus von der Paradiesehe und ihre Auswirkung in der Sexualethik des 12. und 13. Jahrhunderts bis Thomas von Aquin (1953) Michael Müller giudica che la dottrina di Tommaso “nella sostanza dei singoli argomenti sorprendentemente è per lo più quasi solo una esposizione delle opinioni comuni della scuola più rigoristica, basata su passi delle dottrina aristotelica” (p. 255). A parte il fatto che in ciò non c’è nulla di “sorprendente”, questo giudizio sull’opera del più grande teologo cattolico è esatto. Solo chi pensa che nella chiesa cattolica qualcosa sia realmente cambiato nella diffamazione delle donne e nel disprezzo nei loro confronti da Agostino (nel IV e V secolo) fino a Tommaso (nel XIII secolo), o che qualcosa sarebbe potuto cambiare in considerazione dello straordinario influsso di Tommaso dal XIII fino al XX secolo, può constatare, “sorpreso”, che in realtà tutto è rimasto come prima. Tommaso d’Aquino scrive: “Il celibato permanente è indispensabile per una pietà perfetta […]. Per questa ragione Gioviniano, che pose il matrimonio sullo stesso piano della verginità, fu condannato” (Summa Theologiae II-II q. 186 a. 4). E Tommaso d’Aquino ripete a più riprese i calcoli fatti da Girolamo già nel IV e V secolo, che cioè i vergini ottengono il premio del paradiso al cento per cento, coloro che sono diventati vedovi al sessanta per cento e gli sposati al trenta per cento (Summa Theologiae II-II q. 152 a. 5 ad 2). Chi tenti di innalzare il matrimonio allo stesso livello della verginità sarà, oggi come nel passato, considerato come uno che degradi la verginità allo stesso livello del matrimonio e diffami la Vergine per antonomasia, cioè Maria. Anche per ciò che concerne la posizione della donna rispetto alla chiesa maschile, non è cambiato proprio nulla.
Già Agostino aveva scritto che ogni disgrazia dell’umanità ha avuto inizio in certo qual modo con la donna, cioè con Eva, per colpa della quale ebbe luogo la cacciata dal paradiso – e ancora a cavallo fra il XIX e il XX secolo, il racconto della Genesi sulla creazione e sul peccato originale era inteso dal Papa più o meno come un resoconto da prendere alla lettera. Perché il demonio non si è rivolto ad Adamo, ma ad Eva? si domanda. Cosi suona la risposta di Agostino: egli si rivolse dapprima alla “parte inferiore della prima coppia umana”, pensando: “L’uomo non è così credulone e potrebbe più facilmente essere ingannato cedendo all’errore di un altro [l’errore di Eva] piuttosto che cadere in un errore proprio”. Agostino riconosce ad Adamo circostanze attenuanti: “L’uomo ha ceduto alla sua donna […] costrettovi da uno stretto legame, senza tener per vere le sue parole […]. Mentre la donna accetta come verità le parole del serpente, egli voleva restate legato alla sua compagna, anche nella comunanza del peccato” (De Civitate Dei 14,11). L’ amore per la donna trascina l’uomo alla rovina. La monaca Ildegarda di Bingen (morta nel 1179) accetta la spiegazione di Agostino e la chiarisce ulteriormente: “Il demonio […] vide che Adamo era preso da un ardente amore per Eva, al punto che avrebbe fatto qualsiasi cosa ella gli avesse detto” (Scivias I, visio 2). Questa è la solita, vecchia condanna della donna che, secondo ogni teoria celibataria, è la raffigurazione del nemico: e le donne stesse hanno accettato troppo frequentemente il loro sesso come una specie di lebbra voluta da Dio.
A questo antico disprezzo nei confronti delle donne, di derivazione agostiniana, i teologi del XIII secolo – soprattutto Alberto Magno e Tommaso d’Aquino – aggiunsero, a sostegno della loro tesi, Aristotele. Questi apri gli occhi ai monaci sul motivo più profondo della inferiorità della donna: essa deve la sua esistenza a un errore e a una deviazione nel suo processo di formazione: è cioè un “uomo malriuscito”, un uomo difettoso. Benché questa concezione di Aristotele stesse al concetto agostiniano della chiesa maschile come il coperchio alla pentola, l’assunzione di una simile scoperta biologica non procedette senza opposizione. Guglielmo di Auvergne (morto nel 1249), magister regens dell’Università di Parigi e nel 1228 vescovo di quella città, riteneva che se la donna viene definita uomo malriuscito, allora si potrebbe anche definire l’uomo come donna perfetta, il che farebbe sorgere il sospetto di “eresia sodomitica” (=omosessualità) (De sacramento matrimonii 3). Ma il timore degli ecclesiastici di assumere insieme al greco Aristotele anche l’esaltazione greca dell’omosessualità, avversa alle donne, era più debole del desiderio di trovare alla fine una convincente spiegazione della subordinazione della donna nei confronti dell’uomo. I teologi-patriarchi cristiani si fanno impartire su questo punto una lezione dai filosofi-patriarchi pagani. Dopo che i maschi (pagani e cristiani) avevano relegato la donna in cucina per badare ai bambini, riservando a se stessi tutte le altre attività che sembravano loro interessanti, notarono (i maschi pagani come quelli cristiani) che l’uomo è “attivo” e la donna “passiva”. E questo dato di fatto dell’attività maschile, secondo Alberto Magno, conferisce all’uomo una maggiore dignità. L’affermazione di Agostino “ciò che è attivo vale più di ciò che è passivo” sarebbe assolutamente “giusta” (Summa Theologiae ps. II tr. 13 q. 82 m. 2, ob. 1; cfr. Michael Müller, Grundlagen der Katholischen Sexualethik, p. 62).
L’attività maschile e la passività femminile riguardano secondo Aristotele anche l’atto procreativo: l’uomo “genera” il figlio, la donna lo “concepisce”. L’uso linguistico è rimasto inalterato fino ad oggi anche presso di noi, benché nel 1827 K. E. von Baer abbia scoperto l’ovulo femminile, provando così la partecipazione della donna alla generazione in misura pari a quella dell’uomo.
Grazie a Tommaso d’Aquino, il concetto che il seme maschile sia l’unico principio attivo della generazione si è affermato a tal punto che anche oggi nella gerarchia ecclesiastica la scoperta dell’ovulo femminile è ignorata non appena ne derivino conseguenze teologiche, ad esempio per il concepimento di Gesù. Se fino al 1827, cioè fino alla scoperta dell’ovulo femminile, si poteva affermare che Maria aveva concepito Gesù dallo Spirito Santo, ora non si può più sostenere questa tesi senza negare l’esistenza dell’ovulo femminile. Se però la si accetta, si nega l’attività esclusiva di Dio: il concepimento dallo Spirito Santo sarebbe un concepimento soltanto al cinquanta per cento (cfr. Uta Ranke-Heinemann, Widerworte, Goldmann, 1989, p. 287 sgg.).
L’idea che l’uomo sia il solo ad essere attivo nell’atto procreativo non fu escogitata da Aristotele, ma corrisponde all’immagine che l’uomo aveva di sé anche in precedenza. Già Eschilo (morto nel 525 a.C.), il padre della tragedia occidentale, vede l’uomo come il solo che generi. Perciò il fatto che Oreste abbia assassinato sua madre Clitemnestra non è tanto grave quanto lo sarebbe stato se avesse ucciso suo padre. “Colei che viene chiamata madre, non è la genitrice del figlio, bensì la nutrice dell’embrione appena seminato; è il padre che lo genera, lei porta il germe a compimento”, afferma Apollo. Egli fa poi riferimento a Pallade Atena che nacque dalla testa di suo padre Zeus. “Può esserci un padre anche senza una madre: il testimone è qui vicino, la figlia di Zeus, l’Altissimo, che non fu allevata nel buio di un grembo materno”. E Atena, degna figlia di suo padre, spiega poi: “Non vi è infatti nessuna madre che mi abbia generato. Sono tutta di mio padre, così non farò prevalere la morte di una donna che ha ucciso il marito, signore della casa” (Eschilo, Eumenidi 627 sgg.; 736 sgg.).
La scarsa stima della donna, vista come una specie di vaso da fiori per il seme maschile, viene poi elaborata da Aristotele in una teoria che sopravvivrà per millenni. Aristotele, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino pensano in questi termini: secondo l’assioma che “ogni principio attivo produce qualcosa di simile a sé”, propriamente dovrebbero essere generati sempre dei maschi, poiché in sé la forza attiva del seme maschile tende a produrre qualcosa di altrettanto perfetto, cioè di nuovo un altro maschio. Tuttavia, per circostanze avverse, vengono fuori le donne, che sono maschi malriusciti. Aristotele chiama la donna arren peperomenon, “uomo mutilato” (Generazione degli animali 2,3). Alberto Magno e Tommaso d’Aquino traducono questa espressione così: Mas occasionatus. Alberto Magno scrive: “Occasio significa un difetto, che non corrisponde all’intenzione della natura” (De animalibus 1,250). E per Tommaso ciò significa “qualcosa che in sé non è previsto, ma che deriva da un difetto” (In II Sententiarum 20,2,1,1; De Veritate 5,9 ad 9).
Fin dalla nascita, pertanto, ogni donna ha alle spalle un fallimento anzi, ogni donna è un fallimento. Le circostanze avverse che impediscono al maschio di generare qualcosa di perfetto come lui sono per esempio i venti umidi del sud, che portano abbondanti precipitazioni e fanno quindi nascere esseri umani con un maggior contenuto d’acqua: così scrive Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae I q. 92 a.1).
Egli sa anche che questa circostanza spiacevole comporta come conseguenza che “poiché nelle donne c’è un maggior contenuto d’acqua, esse possono essere più facilmente sedotte dal piacere sessuale” (Summa Theologiae III q. 42 a. 4 ad 5). Opporsi al piacere sessuale riesce loro tanto più difficile per il fatto che “possiedono una forza spirituale minore di quella degli uomini” (II-II q. 49 a. 4). Anche Alberto Magno rende, tra le altre cose, l’influsso dei venti responsabile della nascita di maschi o femmine: “Il vento del nord dà forza, quello del sud la toglie […]. Il vento del nord favorisce la generazione di maschi, il vento del sud quella delle femmine, poiché il vento del nord è puro e purifica completamente l’aria e le esalazioni e stimola la forza naturale. II vento del sud invece è umido e carico di pioggia” (Quaestiones super de animalibus XVIII q. 1). Tommaso d’Aquino la pensa in modo simile (Summa Theologiae I q. 99 a. 2 ad 2). La donna è dunque un prodotto dell’inquinamento ecologico, un aborto. Essa non esprime, pensa Tommaso nella sua concezione non tanto di tipo ecologico quanto piuttosto filosofico-astratta, “la prima intenzione della natura”, che mira alla perfezione (l’uomo), bensì “l’intenzione secondaria della natura, come putrefazione, deformità, debolezza senile” (Summa Theologiae Suppl. q. 52 a. 1 ad 2). La donna è pertanto una creazione di riserva, che si verifica quando la prima intenzione della natura, che aspira all’uomo, fallisce. Essa è un uomo ostacolato nel suo sviluppo. Da parte di Dio tuttavia anche il fiasco costituito dalla donna è in qualche modo programmato, certo non primariamente, ma secondariamente, o altrimenti, poiché “la donna è destinata alla procreazione” (Summa Theologiae I q. 92 a. 1). Ma con ciò si esaurisce l’utilità della donna agli occhi maschili e monastici di Tommaso d’Aquino.
Tommaso d’Aquino cita Agostino senza nominarlo: l’aiuto in vista del quale Dio creò la donna per Adamo si riferirebbe soltanto alla procreazione, perché per tutte le altre attività un uomo sarebbe un aiuto migliore per l’uomo. Anche Alberto Magno aveva sostenuto la stessa cosa (In II Sententiarum 20,1 e In IV Sententiarum 26,6). I teologi maschi hanno interiorizzato Agostino. Per la vita spirituale dell’uomo la donna non ha alcuna importanza. Al contrario. Tommaso d’Aquino pensa che – come insegna Agostino – al contatto con la donna l’anima dell’uomo cadrebbe dalla sua altezza sublime, e il suo corpo cadrebbe sotto il domino della donna, e perciò in “una schiavitù peggiore di ogni altra” (Super I ad Corinthios 7,1). Tommaso d’Aquino cita Agostino: “Niente abbassa tanto lo spirito dell’uomo dalla sua altezza quanto le carezze della donna e i toccamenti dei corpi, senza cui un uomo non può possedere la propria moglie” (Summa Theologiae II-II q. 151 a. 3 ad 2).
La donna possiede una minore forza fisica e anche una minore forza spirituale. L’uomo ha “una ragione più perfetta” e “una virtù (virtus) più solida” della donna (Summa contra gentiles III,123).
A motivo del “difetto di ragione”, “evidente anche nei bambini e nei malati di mente”, alle donne non è concesso far da testimoni nelle questioni testamentarie, afferma Tommaso (Summa Theologiae II-II q. 70 a. 3). (II diritto canonico vietò alle donne di testimoniare nelle questioni testamentarie e nei processi penali, mentre in altri casi vengono autorizzate a fare da testimoni). Anche i figli devono apprezzare l’eccellente qualità del loro padre: “Il padre deve essere amato più della madre, perché egli è il principio attivo della generazione, la madre quello passivo” (Summa Theologiae II-II q. 26 a. 10).
Anche nell’atto coniugale c’è differenza: “L’uomo ha la parte più nobile nell’atto coniugale e perciò è naturale che egli si vergogni di meno, se chiede il debito coniugale, di quanto arrossirebbe sua moglie” (Summa Theologiae Suppl. q. 64 a. 5 ad 2). Poiché l’atto coniugale “ha sempre in sé qualcosa di vergognoso e causa il rossore” (Summa Theologiae Suppl. q. 49 a. 4 ad 4). Le donne sono anche più inclini degli uomini all’incontinenza, afferma Tommaso d’Aquino richiamandosi ad Aristotele (Summa Theologiae II-II q. 56 a. 1). II Martello delle streghe vede più tardi (1487) in questo stato di cose il motivo per cui esistono più streghe che stregoni (I, q. 6).
Come creatura difettosa, in un certo senso ancora allo stadio infantile, la donna è in grado di partorire, ma non di educare i figli. L’educazione spirituale dei bambini può avvenire solo attraverso il padre, poiché è lui la guida spirituale. L’indissolubilità del matrimonio verrà ampiamente fondata da Tommaso d’Aquino sul fatto che per l’educazione della prole “la donna non basta in alcun modo”. Per l’educazione il padre è molto più importante della madre. A motivo della sua “ragione più perfetta” può “istruire” meglio l’intelligenza dei bambini, e in conseguenza della sua “più solida virtus”, che significa tanto “forza” quanto “virtù”, li può “tenere meglio a freno” (Summa contra gentiles III, 122).
Per un altro motivo ancora, Tommaso proclama l’indissolubilità del matrimonio: “La donna ha bisogno dell’uomo non soltanto per la procreazione a l’educazione dei figli, ma anche come suo signore”, poiché l’uomo ha, come Tommaso ripete, “ragione più perfetta” e “forza” o “virtù” “più salda”. Molti uomini immaginano, per il fatto di avere una maggior forza fisica (virtus), di avere anche più virtù (virtus). Per questo motivo si può tradurre la parola latina virtus (da vir=uomo) con “virtù” o “forza” o semplicemente con “virilità”. Già presso i romani, infatti, la virtù aveva la sua origine concettuale nella forza virile. Esistono buoni motivi per ritenere che la prima nobiltà emersa tra gli uomini, che riservò un privilegio agli uni sugli altri, agli uomini sulle donne, e agli uomini di chiesa sulle donne di chiesa, fu quella con cui i più forti si attestarono come signori dei più deboli, procurandosi così gloria e onore. E così la forza e il valore in guerra degli uomini (virtus) finirono per avere lo stesso significato di virtù.
Come che sia, secondo Tommaso la donna è quindi “subordinata all’uomo come suo signore (gubernator)”, poiché l’uomo ha “una ragione più perfetta” e “una virtù più solida”. Ma di cosa si tratta precisamente? Di “forza”, per tenere a freno la donna, o di “virtù”, per istruirla? Tommaso pensa a entrambe le cose. In ogni caso la donna riceve dal suo uomo, più ragionevole e più forte nella virtù, gli stessi vantaggi dei suoi figli, che sono “istruiti e tenuti a freno” dal padre (Summa contra gentiles III, 123; 122). Che invece l’uomo si serva della donna solo per la procreazione, mentre in tutte le altre cose gli sarebbe più utile un altro uomo, lo sappiamo già.
“Poiché le donne sono in una condizione subordinata”, esse non possono neppure ricevere l’ordinazione sacerdotale, afferma Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae Suppl. q. 39 a. 1). Questo fatto della subordinazione agli uomini è per Tommaso d’Aquino il motivo determinante del rifiuto del ministero ecclesiastico alla donna. Egli tuttavia si contraddice, quando parla di donne che non si trovano in una condizione di subordinazione agli uomini: “Per il fatto che esse fanno voto di verginità o di vedovanza, e cosi sono spose di Cristo, vengono innalzate alla dignità degli uomini (promoventur in dignitatem virilem), per cui vengono liberate dalla subordinazione agli uomini e vengono unite direttamente a Cristo” (Super I ad Corinthios 11, 2). Perché allora queste donne non possono diventare sacerdoti? A questo proposito Tommaso d’Aquino è debitore di una risposta. Forse il motivo sta più negli uomini che nelle donne. Del resto già Girolamo ha sostenuto l’idea astrusa che “una donna cessa di essere donna” e può essere chiamata “uomo” “quando essa vuole servire più Cristo che il mondo” (Comm. ad Ephesios III, 5).
A questo punto si deve fare per inciso un’osservazione: per quanto siano gravi queste forme di denigrazione della donna da parte della chiesa, occorre tuttavia chiarire che l’accusa più grave, quella cioè secondo cui la chiesa avrebbe addirittura dubitato che le donne abbiano un’anima o che possano chiamarsi esseri umani, non ha fondamento. Si sente e si legge spesso che su tale questione, se la donna avesse un’anima, si sarebbe addirittura discusso in un concilio, il secondo sinodo di Mâcon (585). Ciò non corrisponde al vero. Al concilio non si parlò dell’anima. Gregorio di Tours, che vi partecipò, riferisce che un vescovo pose la domanda “se la donna potesse essere definita homo”. Si tratta dunque di un problema filologico, sorto tuttavia per il maggior valore che gli uomini attribuivano a se stessi: homo indica tanto il maschio quanto l’essere umano in generale. Anche oggi in tutte le lingue romanze e in inglese il termine per maschio e uomo è lo stesso. Se gli uomini si sono appropriati del termine uomo per sé soli, che cosa resta per la donna? E anch’essa un uomo-maschio, un maschio-uomo? Non la si può certo definire uomo. Gli altri vescovi, cosi riferisce Gregorio di Tours, rinviarono colui che aveva posto la domanda al racconto della creazione, secondo cui Dio creò l’essere umano (homo) come maschio e femmina, e inoltre alla definizione di Gesù come figlio dell’uomo (filius hominis), benché egli fosse “figlio della vergine”, quindi “figlio di una donna”. Con questi chiarimenti il quesito fu risolto: il termine homo può essere usato anche per le donne. Esso significa oltre al concetto di maschio anche quello di essere umano (Gregorio di Tours, Historia Francorum 8,20).
Tommaso si sente confermato da Aristotele non soltanto per quanto concerne la denigrazione della donna, ma anche riguardo all’avversione al piacere e alla sessualità. L’osservazione di Aristotele che il piacere sessuale impedisce l’attività mentale (Etica nicomachea 7,12) è acqua per il suo mulino e conferma il suo pessimismo sessuale di marca agostiniana. Egli riprende una citazione di Aristotele tratta da Omero, secondo cui Afrodite “anche dei più assennati sconvolge i sentimenti”, e sottolinea che “il piacere sessuale assoggetta completamente il pensiero” (Summa Theologiae II-II q. 55 a. 8 ad 1). Tommaso ritorna continuamente sul fatto che “il piacere sessuale frena del tutto l’uso della ragione”, che esso “opprime la ragione” e “assorbe lo spirito”.
Oggi per noi è difficilmente comprensibile il fanatico rifiuto con cui Tommaso d’Aquino (soprattutto lui, ma con lui tutta la teologia che si basa su sant’Agostino) si oppone all’atto sessuale, in particolare con la motivazione che esso “oscura” e addirittura “annulla” lo spirito. Tommaso d’Aquino afferma che frequenti rapporti sessuali conducono a “debolezza di mente” (mentem enervat; In IV Sententiarum d. 33 q. 3 a. 3 ex.). Quindi le sue motivazioni non sono in primo luogo di carattere teologico e le sue paure primitivo-biologiche le può percepire soltanto chi ancora oggi e dell’idea che rapporti frequenti rendano stupidi e distruggano le cellule del cervello. Tommaso d’Aquino sembra intendere qualcosa di simile con il termine enervare. E così nella descrizione della verginità, “la virtu più bella” (Summa Theologiae II-II q. 52 a. 5), aggiunge espressamente un fattore: la libertà da una “corruzione della ragione” (corruptio rationis) che si verificherebbe nella vita sessuale (In IV Sententiarum d. 33 q. 3 a. 1 ad 4). A quanto pare i celibatari non avanzano soltanto la pretesa di possedere col loro tipo di vita più grazia presso Dio (Il cento per cento, in confronto al trenta per cento degli sposati), ma anche di possedere una ragione non intaccata: ma purtroppo, accanto al loro quoziente di santità, non specificano il loro quoziente di intelligenza, anche se questo risveglierebbe sicuramente l’interesse generale.
Il rapporto tra sessualità e peccato originale e questa degradazione dello spirito attraverso il piacere sessuale erano stati per Agostino i principi fondamentali per sviluppare la sua teoria dei beni di compensazione che rendono discolpabile il matrimonio. Tommaso d’Aquino fa propria questa dottrina. Come Agostino, non indica il piacere dell’atto matrimoniale come peccaminoso in assoluto, ma come punizione conseguente al peccato originale. Perciò i beni che discolpano il matrimonio sono necessari, e il più importante di essi è la prole. Del tutto in linea con Agostino, afferma: “Nessun uomo ragionevole può accettare per sé una qualsiasi perdita se essa non viene compensata da un valore uguale o maggiore”. Ma il matrimonio è in effetti una condizione in cui si sperimentano perdite: la ragione viene assorbita dal piacere, come dice Aristotele, e arrivano “le tribolazioni della carne”, come insegna Paolo. Perciò la scelta del matrimonio è da considerarsi conforme all’ordine soltanto “quando a fronte di questo danno sta un adeguato compenso, che rende degno di stima il legame matrimoniale: ciò avviene in forza dei beni che discolpano e rendono degno di stima il matrimonio”. Come termine di confronto Tommaso assume il mangiare e il bere: poiché ad essi non è connesso un piacere cosi travolgente che assorbe l’uso della ragione, il mangiare e il bere non hanno bisogno di alcuna compensazione. Al contrario “la potenza sessuale”, attraverso cui viene trasmesso il peccato originale, “è come inficiata e corrotta” (Summa Theologiae Suppl. q. 49 a. 1 ad 1). A Tommaso sembra che “la resistenza della carne allo spirito che si manifesta soprattutto negli organi sessuali sia una pena più grave della fame e della sete, poiché queste riguardano solo il corpo, quella anche lo spirito” (De malo 15, 2 ad 8). Persino il gesuita Fuchs trova questa visione di Tommaso “abbastanza unilaterale” (Fuchs, p. 40).
Se il piacere sessuale trasmette il peccato originale, ciò non significa che chi non sente nulla non trasmette nulla: altrimenti i figli delle persone frigide sarebbero senza peccato originale. Ma i teologi hanno pensato anche a questo. Tommaso specifica: “Se per mezzo della potenza divina a qualcuno fosse dato di non sentire nell’atto procreativo alcun piacere disordinato, trasmetterebbe ugualmente il peccato originale al figlio”. Poiché nel piacere sessuale, che trasmette il peccato originale, non si tratta del piacere attuale (sentito al momento della procreazione), ma di quello abituale (connesso alla condizione umana), e che è uguale in tutti gli uomini (Summa Theologiae I-II q. 82 a. 4 ad 3). Così anche coloro che sono frigidi non hanno alcuna possibilità: perché, per così dire, hanno un piacere latente, inclinano al piacere che assorbe lo spirito, e questo basta; perciò anche il dono di Dio, che risparmia loro nell’atto procreativo il concreto piacere che offusca lo spirito, non può cambiare nulla. Tutto ciò è insito nel piacere, cioè ciascuno porta in sé questo piacere che oscura lo spirito, e questo è il grave. E anche in caso di assenza di piacere, la situazione non cambia.
Dalle maglie dei teologi non sfugge alcuna coppia di genitori. Che soltanto i genitori di Maria costituiscano un’eccezione a questo riguardo fu stabilito soltanto nel 1854 col dogma dell’Immacolata Concezione di Maria. Secondo Tommaso d’Aquino l’assenza di peccato originale si applica solo a Gesù, non a Maria. Egli pensa: poiché ogni atto coniugale significa una “corruzione” e una “contaminazione” (pollutio) del grembo materno, non ebbe luogo in Maria “a motivo della purezza e della illibatezza” alcun rapporto coniugale nel concepimento di Gesù (Catena aurea in Matthaeum 19, 247). Secondo Tommaso soltanto Gesù è puro, cioè concepito senza la contaminazione sessuale, senza subire il contagio del peccato originale attraverso l’atto procreativo dei genitori. Il gesuita Josef Fuchs, profondo conoscitore di Tommaso d’Aquino, pensa a questo riguardo: “Come Tommaso d’Aquino intenda questa “impurità” della sessualità, non è possibile stabilire in modo preciso” (Fuchs, p. 52). Soprattutto per quanto concerne il principe dei teologi, per Tommaso d’Aquino, i teologi sono inclini a interpretare tutto nel senso migliore. E quando non è più possibile, preferiscono sottolineare di non averlo compreso piuttosto che dire chiaramente che Tommaso d’Aquino sostiene cose assurde e ricade nelle assurdità dell’altro grande teologo, Agostino.
Qui di seguito, ecco un breve elenco di termini poco santi usati da san Tommaso per definire l’atto coniugale, che secondo Josef Fuchs “potrebbero sorprendere” (Fuchs, p. 50), e che tuttavia sorprendono soltanto chi non vuol vedere come tutta la morale sessuale cattolica fin da principio abbia sbagliato strada: “sozzura” (immunditia), “macchia” (macula), “vergogna” (foeditas), “turpitudine” (turpitudo), “disonore” (ignominia). I chierici, secondo Tommaso, custodiscono attraverso il loro celibato “la purezza corporale” (passi presso Fuchs, p. 50 sgg.), Fuchs aggiunge a sua discolpa: “Tommaso era nel solco di una lunga tradizione […], così non poteva facilmente sviluppare una dottrina più libera” (ibid., p. 51). Ma nessuno dovrebbe ripetere delle assurdità, e nel frattempo la tradizione, con Tommaso, si è ulteriormente rafforzata: queste assurdità continuano a essere ripetute, mentre una dottrina più libera diventa sempre più improbabile per il peso sempre maggiore della tradizione.
Se questo non basta, ecco qualche altra descrizione dell’atto coniugale fatta da san Tommaso, chiamato doctor angelicus, maestro simile agli angeli: “deformità” (deformitas), “malattia” (morbus), “corruzione della integrità” (corruptio integritatis) (Summa Theologiae I q. 98 a. 2), motivo di “avversione” e “ribrezzo” (repugnantia). Tale ripulsa verso il matrimonio “a motivo dell’atto coniugale” l’avvertono, secondo Tommaso, coloro che sono ordinati preti, perché esso, cioè l’atto coniugale, “ostacola gli atti spirituali” ed è d’intralcio “a una maggiore rettitudine” (Summa Theologiae Suppl. q. 53 a. 3 ad 1). In maniera più particolareggiata di tutti gli altri teologi medievali, Tommaso d’Aquino si sofferma sulla spiegazione e sull’interpretazione della dottrina di papa Gregorio I sulle “otto figlie della lussuria”. Una delle brutte conseguenze della lussuria è “la femminilizzazione del cuore umano” (Summa Theologiae II-II q. 83 a. 5 ad 2). I maschi pagani hanno elevato la virtus (=forza virile) al rango di termine che designa la virtù. I celibatari cristiani, perlomeno Tommaso d’Aquino, hanno degradato la femminilità a sinonimo di vergogna. L’avversione celibataria alla sessualità è avversione alle donne. Fuchs osserva: “Tommaso ripete volentieri ciò che Paolo dice in 1 Cor. 7,1: “E cosa buona per l’uomo non toccare donne”” (Fuchs, p. 261).
Il fatto che si continui a citare come sua una frase gnostica che Paolo riprende solo per confutarla, ha causato moltissimi danni, da duemila anni a questa parte. La presunta frase di Paolo è diventata il principale sostegno del celibato. Tommaso riprende poi il tariffario stabilito da secoli, che cioè la ricompensa celeste ammonta per le vergini al cento per cento, per le vedove al sessanta e per le persone sposate solo al trenta, mentre i celibatari annoverano se stessi tra le vergini (Summa Theologiae II-II q. 152 a. 5 ad 2; I-II q. 70 a. 3 ad 2; Suppl. q. 96 a. 4).
Anche per Tommaso – come per Agostino e per tutta la tradizione – è “più santo un matrimonio senza il rapporto carnale” (In IV Sententiarum d. 26,2,4). Il fatto che non soltanto Tommaso, ma i teologi in genere si occupino dettagliatamente dei voti di castità dei coniugi, indica che le persone sposate che vivevano alla maniera dei monaci non erano rare. Tanto Graziano quanto Pietro Lombardo trattano nelle loro opere fondamentali di tali matrimoni e di cosa debbano, cosa possano, e cosa non possano più fare i coniugi, eccetera. A questo riguardo, il modello è sempre il matrimonio di Maria e di Giuseppe.
Tra l’altro, le donne sposate, che già partecipano con i loro mariti alla quota più bassa della ricompensa celeste, un misero trenta per cento, costituiscono a loro volta in gran parte un gruppo cui spetta una ricompensa ancora minore. E’ quanto risulta dall’osservazione del gesuita Peter Browe, un conoscitore del Medioevo cristiano, che nella sua opera Die häufige Kommunion im Mittelalter del 1938 scrive: “Le donne sposate non potevano comunicarsi frequentemente; non erano ritenute abbastanza pure e degne. Soltanto quando il marito era morto o entrambi avevano fatto la promessa di mantenersi casti, potevano incominciare ad aspirare davvero alla perfezione ed eventualmente ricevere più spesso la comunione” (p. 120).
Ma non tutte le persone sposate raggiungono la meta della vedovanza o della castità totale. Anche se non possono essere perfette, possono almeno evitare di cadere nel peccato. E a questo riguardo Agostino e Tommaso propongono due tipi di rapporto coniugale: 1. il rapporto con l’intenzione di procreare e 2. il rapporto come debito nei confronti del coniuge che lo richiede; quest’ultimo mezzo, secondo Tommaso, “è destinato a tenere lontano il pericolo” (Summa Theologiae Suppl. q. 64 a. 2 ad 1; ad 4), cioè “a impedire l’incontinenza [dell’altro]” (Summa Theologiae Suppl. q. 48 a. 2). Tutti gli altri motivi, per quanto buoni e nobili (ad esempio l’amore, che non viene menzionato), conducono soltanto a un rapporto peccaminoso, a peccare almeno venialmente (Summa Theologiae Suppl. q. 49 a. 5).
Alcuni teologi della prima scolastica avevano pensato che anche il rapporto per evitare la propria incontinenza fosse immune da peccato, così anche un’opera per confessori della meta del XIII secolo, attribuita al cardinale Ugo di St. Cher (morto nel 1263). Egli prescrive che il confessore debba chiedere al penitente: “Hai avuto rapporti con tua moglie solo per il piacere? Poiché tu dovresti avere rapporti con lei per la procreazione o per evitare la tua incontinenza o per rendere il debito” (Noonan, p. 335). Ma Tommaso segue rigidamente Agostino e scrive, respingendo tale lassismo: “Se nel rapporto coniugale qualcuno intende evitare la propria incontinenza […], si tratta di peccato veniale, perché il matrimonio non è stato ordinato a questo scopo”. Sicuramente si possono – e in tale caso senza peccato – avere rapporti coniugali per impedire l’incontinenza del coniuge, perché allora si tratta di una forma di adempimento del debito (Summa Theologiae Suppl. q. 49 a. 5 ad 2).
Se si leggono i dibattiti teologici, durati secoli, sul pericolo dell’incontinenza, propria e dell’altro coniuge (che si deve evitare attraverso il rapporto coniugale) o soltanto di incontinenza dell’altro e non della propria (al pericolo della propria incontinenza si rimedia meglio, secondo Tommaso d’Aquino, con digiuni e preghiere), questa visione dell’atto coniugale può essere considerata soltanto un’offesa per le coppie sposate. Se è stato raggiunto il numero massimo dei figli, resta soltanto una possibilità di avere rapporti senza peccare: se l’altro minaccia di cadere nell’incontinenza e perciò si è tenuti a soddisfare il debito. Il continuo rischio dell’incontinenza e dell’adulterio, che i celibatari attribuiscono a torto ai coniugi e che portano come motivo del rapporto coniugale, è un’assurdità intollerabile. Anche il Concilio Vaticano II, a torto presentato come un passo avanti nella morale sessuale, dice a questo proposito: “Non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo […], se il numero dei figli, almeno per un certo tempo, non si può aumentare” e non possono essere usate “soluzioni non oneste” (cioè la contraccezione). Il pericolo dell’infedeltà è il primo che viene in mente al Concilio sul tema della contraccezione. L’unico altro pericolo che il Concilio ancora vede è quello che “il bene della prole ne possa essere compromesso e sia minacciata la coraggiosa disponibilità ad accettare altri figli” (Gaudium et spes, Costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo, 51).
Ecco: il secondo pericolo che la chiesa vede, se non si possono avere altri figli, è di non volerne altri. Il primo pericolo è quello che i coniugi commettano adulterio. La teologia celibataria col suo presunto pericolo di adulterio non coglie la verità, cioè il pericolo che i coniugi a poco a poco voltino le spalle a una chiesa di monaci e celibi, perché sono stanchi di queste assurde e incompetenti pressioni e vorrebbero avere rapporti non per prevenire chissà quali pericoli ma per motivi che evidentemente superano la fantasia dei celibatari. “Il coltivare la virtù della castità coniugale” raccomandato dal Concilio Vaticano II, invece di “seguire metodi di regolazione delle nascite condannati dal magistero”, significa una intrusione negli affari personali dei coniugi che questi non sono più disposti ad accettare.
Ritorniamo a Tommaso d’Aquino. Posizioni diverse da quella normale rientrano secondo lui tra i vizi contro natura, la cui valutazione, di origine agostiniana, come depravazione peggiore del rapporto con la propria madre, verrà trattata nel prossimo capitolo. Il fatto di annoverare il rapporto coniugale che si discosta dalla posizione normale tra i peccati contro natura non rientra completamente nello schema di Tommaso d’Aquino, perché tutti gli altri vizi contro natura da lui enunciati hanno una caratteristica comune: escludono la procreazione, cosa che non si può dire delle posizioni diverse da quella normale. Per questo motivo, in casi eccezionali egli le permette: quando cioè per motivi medici, ad esempio per la loro corporatura, i coniugi non potessero fare diversamente (In IV Sententiarum 31 exp. text.). Altre azioni gravemente peccaminose, perché vizi contro natura peggiori dell’incesto, dello stupro e dell’adulterio, sono, secondo Tommaso, la masturbazione (chiamata onanismo), il rapporto sessuale con gli animali, l’omosessualità, il rapporto anale, quello orale e il coitus interruptus (Summa Theologiae II-II q. 154 a. 11). Tommaso sembra perciò inserire le posizioni diverse da quella normale tra i peccati più gravi, quelli che escludono la generazione, perché era dell’opinione che in questo modo la procreazione sarebbe stata quanto meno ostacolata. Alberto Magno, maestro di Tommaso d’Aquino, aveva insegnato che in una donna coricata sul fianco il seme non sarebbe arrivato facilmente nell’utero e che, se la donna si fosse posta sopra l’uomo, “capovolto”, il seme sarebbe andato addirittura disperso (De animalibus 10,2). Comunque si risolva la questione teologica sul perché Tommaso abbia annoverato le posizioni diverse da quella normale tra i peccati contro natura, cioè tra gli atti che impediscono la procreazione, resta il fatto che queste vengono considerate da lui e da tutti i teologi che lo seguono “tra i più gravi peccati di incontinenza” in quanto motivate dalla ricerca del piacere. E ciò accade ancor oggi, persino nel nostro secolo, benché nel frattempo la spiegazione biologica dell’ostacolo alla procreazione si sia rivelata erronea. Per i teologi, la ricerca del piacere rimane esecrabile. Basta far riferimento all’opera di van de Velde, Die volkommene Ehe, il cui esecrabile peccato, nel 1926, consisteva nel voler introdurre cambiamenti nel monocorde modello previsto dalla chiesa per la posizione dei coniugi durante l’atto sessuale.
Nei libri penitenziali del primo Medioevo e nella teologia medievale le posizioni innaturali del rapporto vengono trattate in modo particolareggiato. Alberto Magno cerca di propagandare con argomenti di natura fisiologico-anatomica la sola posizione naturale: “Se l’uomo deve giacere sopra o sotto, se deve stare in piedi, o giacere o sedere, se l’unione deve aver luogo da dietro o dal davanti […], siffatte vergognose questioni non dovrebbero mai in realtà essere trattate se non lo richiedessero cose strane che si ascoltano oggi in confessionale” (In IV Sententiarum 31). (Se i celibatari non si immischiassero con l’aiuto del loro confessionale in cose che non li riguardano…). Per Tommaso d’Aquino il rapporto coniugale consiste nell’emissione del seme orientata al fine della procreazione. A questo unico fine è ordinato l’atto sessuale (Summa contra gentiles III,122). Il fine a cui a diretto l’uso degli organi sessuali è la procreazione (De malo 15,1c). Questa emissione finalizzata del seme, prescritta da Tommaso d’Aquino, è legata a una forma precisa. L’atto sessuale è dunque morale soltanto quando è conforme al retto ordine. Le espressioni “modo ordinato” (Summa Theologiae II-II q. 153 a.2) e “ordine” (II-II q. 125 a. 2) ricorrono continuamente. Si tratta del comportamento che risponde nel modo migliore al fine della procreazione; è pertanto una forma determinata da cui non ci si può scostare. Discostarsi da questa forma, e dunque dal modo prescritto dalla chiesa nell’emissione del seme, è contra naturam, contro natura. Tommaso scrive: “La specie e il modo del rapporto sono prescritti dalla natura” (In IV Sententiarum 31, exp. text.). L’atto deve svolgersi secondo questa regola, anche quando da una donna sterile non può seguire alcuna procreazione. Allontanarsi da questo modello di comportamento ordinato è sempre peccato grave, è sempre contro natura. Questa emissione del seme finalizzata a uno scopo giusto prescritta da Tommaso d’Aquino in riferimento a Dio e alla natura, trova oggi il suo riflesso nella posizione della chiesa sulla cosiddetta inseminazione omologa. Quest’ultima a stata proibita nel 1987 dalla Congregazione vaticana per la dottrina della fede: “L’inseminazione omologa artificiale all’interno del matrimonio non può essere ammessa”. C’e tuttavia un’eccezione: quando è possibile ottenere il seme maschile con l’atto coniugale, per mezzo di un preservativo; ma attenzione: il preservativo deve essere forato, in modo da salvaguardare la forma di un atto procreativo secondo natura e non si utilizzi quindi un metodo contraccettivo illecito. Il rapporto coniugale deve pertanto svolgersi come se esso portasse alla procreazione. Il preservativo deve essere forato come se così la procreazione fosse possibile (cfr. “Publik-Forum”, 29.5.1987, p. 8). E solo con lo stratagemma di un rapporto che si svolge in apparenza come un atto fecondo si può ovviare alla sterilità iniziale di un atto coniugale. La pretesa forma naturale dell’atto coniugale è diventata il comandamento più importante ed è poi rimasta tale, anche se il fine originario prescritto dalla chiesa, cioè la procreazione, non può affatto essere raggiunto e l’ottenimento del seme attraverso la masturbazione sarebbe altrettanto corretto e meno complicato. Ma la masturbazione rientra sempre, anche in questo caso, tra i più gravi peccati contro natura, in quanto impedisce la procreazione: anche se in questo caso essa la renderebbe possibile. Lo svolgimento secondo la norma è diventato più importante del fine, cioè la procreazione. Ciò che è “naturale” viene stabilito nella teologia morale da tradizioni antiche, che sono custodite accuratamente da uomini vecchi e estranei al matrimonio.
Tommaso d’Aquino considera prescritto dalla natura anche che il rapporto procreativo, nel modo stabilito dalla chiesa, non possa aver luogo senza il matrimonio. Tommaso d’Aquino ha scoperto che presso alcune specie di animali, ad esempio gli uccelli (con Aristotele come precursore di Konrad Lorenz), il maschio e la femmina rimangono insieme dopo la procreazione per allevare insieme i piccoli, “poiché la femmina da sola non basterebbe per l’allevamento”. L’indissolubilità del matrimonio è dunque indicata dalla natura, poiché come presso gli uccelli (per i cani, secondo Tommaso d’Aquino, le cose stanno un po’ diversamente) neanche la femmina umana è in grado di provvedere da sola all’educazione della prole, dal momento che questa educazione, inoltre, dura “lungo tempo” (Summa contra gentiles III,122). Già da questo deriva che per la chiesa cattolica una inseminazione eterologa, cioè con i gameti di un donatore o di una donatrice, è fuori discussione e viene decisamente respinta. Essa non è conforme al modo ordinato del rapporto procreativo.
Tommaso d’Aquino afferma che “le oneste abitudini secondo natura degli animali si ritrovano presso gli uomini, e in maniera più compiuta” (Summa Theologiae Suppl. q. 54 a. 3 ad 3). C’è dunque da sperare in nuovi metodi di procreazione, qualora siano preventivamente riscontrati nel regno animale. Josef Fuchs dice di Tommaso d’Aquino: “Tommaso ricerca sempre la strada nel regno animale (p. 115). Il confronto della vita sessuale umana con quella degli animali è […] da lui […] seguito come metodo molto più che da tutti gli altri teologi” (Fuchs, p. 277). Quello che la natura insegna a tutti gli esseri viventi è secondo Tommaso d’Aquino, vincolante e ciò si può rilevare nel modo migliore dal comportamento degli animali. Il messaggio principale che proviene dal regno animale è ancora oggi vincolante per la chiesa cattolica: gli animali si accoppiano solo per la procreazione (almeno secondo l’opinione dei teologi). In ciò si può riconoscere la moralità dell’atto sessuale. Gli animali non usano alcun contraccettivo. Da ciò si deduce che i contraccettivi sono contro natura. In questo modo una etologia pseudoteologica può portare a eterne verità ecclesiastiche
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