Le prove nei documenti di Kew Gardens pubblicati ne “Il golpe inglese” di Mario J. Cereghino e Giovanni Fasanella.
di Rossella Guadagnini da Micromega 14 ottobre 2011
E’ il 1976. Per un anno intero la diplomazia, i servizi, le forze armate e anche il ministero della Difesa inglesi progettano “un colpo di stato militare da attuare in Italia per impedire il compromesso storico tra Moro e Berlinguer. Quel progetto, organizzato dettagliatamente e sottoposto poi all’esame di altri paesi Nato – Stati Uniti, Francia e Germania – alla fine venne abbandonato, perché gli americani non erano entusiasti, la consideravano un’iniziativa pericolosa”. A sostenerlo sono due studiosi, Mario Josè Cereghino, ricercatore italo-argentino, nato a Buenos Aires ed esperto di archivi statunitensi e britannici, e il giornalista Giovanni Fasanella, autore di diversi libri sulla ‘storia invisibile’ del nostro Paese. Resistenze c’erano anche da parte della Germania e della Francia di Giscard d’Estaing, tanto che “di fronte agli ostacoli provenienti dagli stessi Paesi membri, gli inglesi abbandonarono l’iniziativa e scelsero una seconda opzione, che definiscono testualmente, in un memorandum segreto del Foreign Office datato 6 maggio, il ‘sostegno a una diversa azione sovversiva’”. Il resto del documento è stato poi ‘oscurato’, in quanto non è quella “la sede per discutere nei dettagli gli scenari sopra descritti”. Due anni dopo Moro veniva rapito e ucciso dalle Brigate Rosse.
Chi si chieda come mai negli Anni 70 esplosero il terrorismo, l’eversione, la lotta armata, ci furono stragi, attentati e servizi segreti deviati, insomma tutto ciò che gli anni di piombo rappresentarono, mentre ora malgrado un’analoga situazione di crisi economica, instabilità politica e perdita di prestigio del Paese a livello internazionale non accade nulla di simile, potrebbe trovare in questa nuova prospettiva una risposta convincente. Dopo aver consultato e analizzato centinaia di lettere, cablogrammi, rapporti e analisi di intelligence, ministeri e uffici diplomatici, con diversi gradi di riservatezza (confidential, secret e top secret), contenuti nei National Archives di Kew Gardens, 20 chilometri a sud di Londra, nel Surrey, dove si conserva la memoria storica del Regno Unito in 30 milioni di documenti, dall’anno Mille in poi, (www.nationalarchives.gov.uk), Cereghino e Fasanella hanno pubblicato “Il golpe inglese” (pp. 354, euro16), edito di recente da Chiarelettere. In esso è raccolta questa vasta mole di documenti, desecretati dopo i 30 anni di rito e, dunque, ormai a disposizione di chiunque li voglia consultare: dal 2007 il quotidiano “la Repubblica” ha cominciato a pubblicarne dei brani.
“Un materiale – commentano gli autori – che consente di ricostruire il colpo di stato più lungo della storia, perché durato oltre mezzo secolo: quello attuato in Italia dall’Inghilterra a partire almeno dal 1924, anno del sequestro e assassinio di Giacomo Matteotti, deputato socialista, fino al 1978 anno del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro, presidente della Dc, passando per un altro grande della storia italiana, Enrico Mattei. Un golpe in grado di condizionare il corso della politica interna ed estera del nostro Paese, che Londra ha sempre considerato alla stregua di un proprio ‘protettorato’. Una guerra segreta combattuta contro di noi per il controllo del Mediterraneo, delle fonti energetiche e delle rotte petrolifere”. In attuazione delle parole profetiche di Winston Churchill al delegato del papa Pio XII nel novembre del 1945: “L’unica cosa che mancherà all’Italia è una totale libertà politica”.
Quello stesso premier britannico, nel 1941, aveva ordinato di “insabbiare il delitto Matteotti”. In un viaggio a Londra, intrapreso due mesi prima della morte, Matteotti viene a sapere dai laburisti che “Arnaldo Mussolini, fratello del duce, e alcuni membri di Casa Savoia hanno intascato tangenti per stipulare una convenzione tra governo italiano e una società petrolifera americana, la Sinclair Oil – precisa Cereghino – E’ questo lo scandalo che vuol denunciare nella seduta della Camera dell’11 giugno 1924, presentando i documenti che provavano quei maneggi. Ma il giorno prima sparisce e con lui spariscono le carte. Il regime è salvo, ma è salva anche l’Inghilterra che sarebbe stata danneggiata da questo accordo segreto con gli americani, che colpiva gli interessi petroliferi inglesi; un accordo annullato dopo la morte del deputato socialista. Se Matteotti è stato vittima ufficialmente di un sicario, Amerigo Dumini, l’uomo della Ceka, massone, che dal 1934 lavora per i servizi segreti italiani, ma legato anche a quelli inglesi probabilmente dal ’24, Moro di chi e di che cosa è stato vittima? “E’ interesse della Gran Bretagna fermare l’avanzata comunista in Italia, con ogni mezzo a nostra disposizione”, scrive a Londra il 28 aprile del 1976 Martin Morland dell’Ird di Roma, l’Information Research Department.
Che Stati stranieri avessero avuto un ruolo nell’affare Moro non era mai balzato agli onori delle cronache. Il caso è sempre stato trattato “alla stregua di un grande episodio di cronaca nera, il prodotto di una situazione tutta interna”, ricorda Cereghino. Qualcuno, tuttavia, doveva averci pensato, tanto è vero che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, capo dei nuclei antiterroristici, intravide quasi subito “lo scenario delle complicità internazionali”, prosegue il ricercatore. Il caso Moro “non è mai stato chiuso per il giudice Rosario Priore, titolare delle prime quattro inchieste giudiziarie. Anche lui ha subodorato menti straniere dietro la vicenda “. E lo stesso accadde per Giovanni Pellegrino, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi e sul terrorismo dal ’94 al 2001, che ha sempre ritenuto come l’’affaire’ Moro non può essere ricostruito che “all’interno del contesto più ampio, quello della storia del Paese e dei conflitti geopolitici vissuti nel dopoguerra”. Chiuso non lo è mai stato neppure “per i nostri servizi – puntualizza Fasanella – le inchieste si fermano sempre lì. C’è una specie di limite invalicabile contro cui si scontrano i giudici protagonisti della vicenda. Così il quadro internazionale è sempre rimasto fuori da ogni ricostruzione del sequestro e dell’assassinio dello statista”.
Cossiga, Gladio e la gestione del caso Moro dopo 33 anni e 26 inchieste
“Quando non si può fare niente e tutto è perduto, bisogna almeno cercare di capire”. Sono parole di Aldo Moro che suonano come un monito, “un insegnamento valido anche per l’oggi”, ha ricordato Maria Fida, la figlia maggiore del presidente della Democrazia Cristiana, ucciso il 9 maggio 1978. Ma dopo 33 anni e 26 inchieste giudiziarie, la sua vicenda risulta ancora oscura quanto a responsabilità e complicità che ne impedirono la liberazione.
Nel 2008, però, qualcosa inizia a cambiare. Due anni prima della sua morte, Francesco Cossiga rivela che “unità speciali” di Stay-Behind, la rete atlantica in Italia meglio nota come Gladio, vennero impiegate durante il caso Moro e consegna a Giovanni Fasanella un documento riservato del Bnd, il servizio segreto della Germania Federale. Si tratta di una relazione inviata il 19 novembre del 1990 allo stesso Cossiga, allora presidente della Repubblica, il quale la fece avere alla procura romana, depurandola delle parti su cui il Bnd aveva imposto il vincolo del segreto. Dalla magistratura, il documento così “mutilato” arrivò poi sul tavolo della Commissione Stragi. Fra i brani secretati dal Bnd, in seguito ricostruiti dal settimanale “Panorama”, c’è il riferimento al ruolo di Gladio durante i 55 giorni del sequestro Moro. In diversi passaggi si delinea la storia di Stay-Behind, rete clandestina della Nato destinata ad attivarsi in caso di invasione dell’Europa occidentale da parte delle truppe del Patto di Varsavia e si parla del ruolo cruciale che ebbe nella gestione dell’intera vicenda, sia sul piano militare che politico.
Queste “unità speciali” di Stay-Behind erano coordinate da un direttorio che comprendeva Gran Bretagna, Francia, Usa e Germania, esautorando di fatto l’Italia. “Inevitabile – osserva Fasanella – che durante un vicenda delicata come il caso Moro, con tutte le implicazioni internazionali che comportava, al nostro Paese fosse ricordato il suo status di nazione sconfitta in guerra e quindi soggetta, in base al trattato di pace del 1947, al controllo delle potenze vincitrici, tra cui in primo luogo la Gran Bretagna”.
A marzo del 2011, la giornalista Stefania Limiti, autrice di “L’Anello della Repubblica” (Chiarelettere), scrive del racconto fattole da un ex carabiniere, dopo aver letto il suo libro sui retroscena della struttura di Intelligence tanto occulta quanto determinante nel destino del nostro Paese. L’uomo, che è voluto rimanere anonimo, afferma di aver sorvegliato via Montalcini 8, dove i movimenti delle Br sembrano essere seguiti costantemente, ma senza alcun intervento.
“Ci dissero di sorvegliare l’appartamento dove era sequestrato l’onorevole Moro. Il nostro compito principale era controllare tutti i movimenti provenienti da quell’appartamento. Sulla strada era situato un lampione per l’illuminazione stradale, smontato da falsi tecnici dell’Enel e portato in una caserma dei Carabinieri, dove fu installata una microtelecamera all’interno della lampadina. Serviva per vedere gli spostamenti dentro l’appartamento. Dovevamo poi sorvegliare i movimenti intorno al palazzo e tenere sotto osservazione i bidoni della spazzatura. Moro era tenuto, ci dissero, nell’appartamento del piano rialzato, quello con il giardinetto. In quello del primo piano erano stati messi microfoni ad alta ricezione, in grado di captare anche i più piccoli rumori. Roba sofisticata per l’epoca, forniti, infatti, da agenti stranieri. Ricordo di aver visto la Renault 4 rossa parcheggiata nel cortile che dava ai garage e un’altra auto, una Rover con targa straniera e con una o forse più multe poste sul parabrezza”. La missione durò fino all’8 maggio, un giorno prima dell’epilogo tragico del sequestro. “Ci dissero che il nostro compito era finito e che ci avrebbero rispedito alle nostre destinazioni. Mi è stato esplicitamente detto di dimenticare quello che avevo visto e fatto a Roma”.
“Durante i 55 giorni del sequestro di Aldo Moro – commenta la giornalista – nessuno sapeva dell’esistenza di un covo-prigione in via Montalcini. Comunque, qualcuno sapeva che in quell’appartamento non c’era solo una coppia di giovani sposi. Così come era sotto osservazione, da lontano, il covo di via Gradoli: lo ha detto un uomo dell’Anello, spiegando che fu impedito un blitz per liberare Moro”.
L’ex giudice Imposimato si oppone alla richiesta di archiviazione, chiedendo la prosecuzione delle indagini.
“Invito i mandanti della morte di mio padre a guardare nel profondo della loro coscienza. Non so chi siano e che volto abbiano. Loro però lo sanno”. Come parte offesa nel processo sulla strage di via Fani e il sequestro e l’omicidio del padre, Maria Fida Moro sceglie come suo legale Ferdinando Imposimato, dal 1978 al 1984 giudice istruttore del processo. Nel luglio scorso, l’ex magistrato si oppone alla richiesta di archiviazione del caso, chiedendo la prosecuzione delle indagini: “Ritengo ci siano tutti gli elementi per fare ulteriori indagini, oltre a quelle svolte puntualmente dalla procura della Repubblica di Roma e dalla procura di Novara”. E aggiunge: ”La verità sul caso Moro è più vicina e vogliamo conoscerla, anche per onorare la memoria dei martiri di via Fani. Senza paura e con fiducia nella giustizia. Ma non c’è giustizia senza verità”.
Quali sono questi nuovi elementi? “Un ‘commando’ era pronto a liberare Moro – rivela Imposimato all'”Adnkronos” – ma all’ultimo minuto è arrivato l’ordine di abbandonare l’operazione. Avevano deciso di intervenire l’8 o il 9 maggio del 1978. Si erano preparati al blitz, dopo aver ispezionato l’appartamento soprastante quello in cui era prigioniero lo statista democristiano. Poi un contrordine improvviso blocca l’operazione in via Montalcini 8″. Una pista che legherebbe ancora una volta il caso Moro all’organizzazione Gladio. La vicenda, infatti, si riapre perché esiste una denuncia fatta da un brigadiere della Guardia di Finanza, G.L. che appare “persona attendibile”: è stato militare dei bersaglieri presso il Battaglione Valbella, di stanza ad Avellino, insieme ad altri 40 commilitoni. Una parte di questi fu portata a Roma, con lo scopo di liberare un “importante uomo politico”. Questo Battaglione Valbella, nel frattempo ‘scomparso’, ossia smantellato, “poteva essere una struttura di Gladio”, commenta Imposimato.
”Altro elemento acquisito – sottolinea Imposimato – riguarda la presenza a Roma, durante il sequestro dello statista, dell’inglese Sas, lo Special Air Force Service. A detta di Cossiga, allora ministro dell’Interno, doveva essere impiegato per la liberazione di Moro”. Secondo l’ex giudice, inoltre, “gli atti dei processi che non fanno in alcun modo riferimento alla presenza di agenti inglesi nella vicenda Moro”. Ai militari che dovevano compiere il blitz fu chiesto di dimenticare quanto successo. E calò il silenzio su tutto. A mio avviso, occorre eliminare in questo caso qualunque tipo di segreto di Stato; occorre sentire i vertici di Gladio per conoscere la sua reale struttura e se sia possibile che ne abbiano fatto parte soldati dell’esercito o di altre forze armate, oltre agli agenti del Sismi”.
”Ero e sono d’accordo – prosegue l’ex giudice – con la linea della fermezza, ma prova di maggior fermezza sarebbe stato intervenire ‘manu militari’ per liberare Moro. E’ questa la pagina che manca e che la famiglia dello statista e direi tutta l’Italia, attende di conoscere per sgomberare il campo da ogni dubbio su quella che, per dirla con il Presidente Ciampi, è stata la più grande tragedia che ha colpito il Paese dalla nascita della Repubblica”. A chi gli chiede perché Moro doveva morire, Imposimato replica: ”Perché il suo progetto politico era in contrasto con la strategia dell’America e dell’Unione Sovietica. Gli americani non potevano accettare un governo con i comunisti, né i sovietici consentire il dialogo comunisti-cattolici, perché questo avrebbe scardinato il ‘modello’ dell’Est”. Ma americani e sovietici sono davvero i principali attori della vicenda?
Cereghino e Fasanella dicono di no. Ed è questa la chiave di volta del loro libro, che sposta l’attenzione dal peso dell’influenza sull’Italia avuto dagli Stati Uniti a quello avuto invece dall’Inghilterra.
“Dalle carte emerge un conflitto di cui mai in Italia si era sospettato potesse esistere, tra Usa e Gran Bretagna. Le loro visioni del problema italiano, del problema comunista, erano il più delle volte in contrasto tra di loro, a cominciare dallo status da attribuire al nostro Paese dopo la fine della seconda guerra mondiale. Per gli americani, noi eravamo un paese cobelligerante, cioè un paese che attraverso la Resistenza, attraverso il fronte delle forze antifasciste, si era liberato della dittatura e aveva sconfitto il nazismo, combattendo a fianco degli eserciti alleati. Per gli inglesi, invece, eravamo il paese sconfitto, quindi soggetto al dominio delle potenze vincitrici”. Nel 1943, in un documento del governo inglese, si afferma esplicitamente: “I nostri piani prevedono la conquista assoluta dell’Italia”.
(12 ottobre 2011)
Categorie:Politica
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