Considerazioni sui metodi d’insegnamento della fisica.

Salvo D’Agostino

Università “La Sapienza”

Roma

E’ evidente che gli irrisolti problemi istituzionali e di politica della scuola italiana concorrono in modo determinante  ai  fallimenti nell’insegnamento scientifico a livello di scuola secondaria che sono stati recepiti anche da recenti statitistiche ed anche dagli stessi insegnanti.[1] Ma  una volta scontati questi presupposti, occorre pure ammettere  che altre cause attribuibili alla formazione degli insegnanti concorrono in modo non trascurabile ad aggravare la situazione. Di conseguenza,  il mio contributo intende riferirsi in questa occasione ai metodi  più frequenti d’insegnamento della fisica, partendo dalla convinzione  che i presupposti delle critiche mosse all’insegnamento tradizionale non sono sempre chiaramente emersi. Le proposte di “umanizzazione della scienza”, spesso epistemologicamente ambigue,  sono  di per sé indicative di un disagio presente in molti insegnanti.

Per quanto riguarda la parte propositiva dei contenuti e dei metodi di un insegnamento connessi ad alcuni presupposti epistemologici dei quali mi occuperò in queste pagine, mi limiterò in questa occasione solo ad alcuni accenni. Una prima considerazione  che intendo proporre a proposito delle impostazioni attuali dell’insegnamento è l’impossibilità di un insegnamento fondato solamente su definizioni, teoremi, leggi fisiche in forma matematica,  anche se accompagnato da una pratica di laboratorio. Una simile scienza semplicemente non si può insegnare. Mi propongo di mostrare che gli aspetti di “quadro”, le concezioni generali, sono altrettanto indispensabili a un insegnamento quanto le definizioni , le dimostrazioni e una pratica di laboratorio.[2]

Esprimendo in termini riassuntivi quello che intendo presentare nelle pagine seguenti, si può dire che i linguaggi teorici non possono appellarsi per la loro costruzione, e per le loro trasformazioni, al ruolo determinante dell’osservazione,  nè possono d’altra parte pretendere  a una loro autonomia  nel  riguardo delle osservazioni. E’ su questo delicato equilibrio fra due componenti del metodo scientifico che si fonda oggi un ragionevole approccio ai metodi d’insegnamento.

1. Né leve induttive né deduzioni

Per scendere a maggiori dettagli, desidero presentare alcune considerazioni sui problemi che, per mia diretta esperienza,  si pongono oggi al professore di fisica in una scuola secondaria.

Inizio con il discutere l’opinione molto diffusa dell’ importanza delle cosiddette osservazioni scientifiche per un ingresso iniziale nella fisica. A questa opinione si associa spesso un  uso del “laboratorio scientifico” come luogo in cui si colgono i “fatti” della scienza. Proverò a smentire questa opinione mediante alcune semplici considerazioni. Per chi pensa che la caduta o il lancio di oggetti (o esperimenti consimili) possano suggerire o introdurre alle leggi della meccanica,  io obietto che il concetto di accelerazione non si “trova” nell’esperimento del sasso lanciato, che non vale puntare il dito verso quest’ultimo per mostrare che accelera verso la terra, perché nella sua traiettoria il sasso “ostensivamente” non cade “verso” terra ma si muove verso l’alto o scende a terra lungo una parabola. In un altro esempio, il raggio luminoso non si “vede”  nell’oggetto luminoso o illuminato, ma è un concetto  utile a spiegare come vediamo.

Da questi semplici esempi, e da numerosi altri che si potrebbero fare, risulta che una concezione semplicistica della “oggettività scientifica”[3] svierebbe l’insegnante da un corretto metodo di usare il laboratorio e gli creerebbe difficoltà nel trasferimento della conoscenza scientifica. In altre parole una situazione fenomenica non consiste in una collezione di concetti-oggetti – le forze, le masse, le accelerazioni – a cui sia il docente che lo studente possano fare riferimento (più o meno ostensivamente) e servirsene come di “leve induttive” per generalizzare il discorso scientifico sino ad arrivare al concetto.

  Questo punto può essere ulteriormente precisato: è ovvio che il sasso lanciato rappresenta un “referente oggettivo” sia per il docente che per lo studente, e lo stesso potrebbe dirsi per l’equilibrio della bilancia, per le oscillazioni della molla, per l’indicazione degli indici degli strumenti; ma deve essere altrettanto chiaro che non sono essi gli “oggetti” del discorso della fisica, cioè i termini ed i concetti su cui si muove il discorso scientifico, che sono invece, per restare nell’esempio, le forze, le masse, le accelerazioni e che questi sono concetti per cui non vale comunemente il riferimento ostensivo. Non è la constatazione che alcuni oggetti galleggiano sull’acqua l’oggetto del principio di Archimede (come affermava un “oggettivamente” convinto  collega) ma la correlazione del galleggiare o dell’affondare con concetti  come la densità, la forza di spinta, oppure, ad un livello diverso del discorso (alla Euler), la definizione costitutiva di liquido come sistema in cui sono nulli gli sforzi di taglio.

Da posizioni opposte a quelle sopra accennate,  ma altrettanto discutibili,  si sostiene l’efficacia di un insegnamento che inizia con l’esposizione delle leggi della fisica, nelle loro formulazioni matematiche.[4] Alla base di questo metodo, quando è consapevolmente   proposto (specie a livello di formazione universitaria dei docenti), sta la pretesa di un’assoluta superiorità dei linguaggi formali rispetto al linguaggio che chiamerò “semantico”,  parlato o scritto, una pretesa che si fonda sull’idea errata che il formalismo sia capace di generare una sua interpretazione.[5]

In questo metodo, si pensa di collegare il significato empirico (corretto) dei concetti, e delle leggi rimandandolo a un secondo tempo, mediante la loro “applicazione”, cioè alla loro semantica (ad es. negli esercizi,  o nel laboratorio)  dopo la lezione teorica). Sono ben note a ogni insegnante le difficoltà incontrate da alcuni studenti a “fare gli esercizi” e le difficoltà dei professori a capire le difficoltà degli studenti, difficoltà che sono spesso incontrate da studenti che in altri campi mostrano normali o eccellenti capacità intellettuali.

2. Il problema del linguaggio. Critica della pretesa superiorità dei linguaggi formali e del laboratorio come “paradiso empirico”

Per restare su un piano di ragionevole concretezza  desidero ora limitarmi a discutere la funzione del laboratorio in un insegnamento della fisica al livello ad es. di scuola secondaria superiore. Sono convinto dell’importanza degli esperimenti nei corsi iniziali di fisica a qualsiasi livello. Ma occorre precisare che l’esperimento si presenta con caratteristiche  diverse ai vari livelli d’insegnamento,  ma anche nei diversi capitoli della fisica. Prendiamo ad esempio in un liceo un esperimento che si proponga di rilevare il carattere ondulatorio delle onde radio che fanno funzionare la radiolina e il telefono cellulare. E’ interessante analizzare le caratteristiche della onde elettromagnetica, ad es. misurare l’ ampiezza di oscillazione della stessa radiazione   (longitudinale o trasversale) e la sua polarizzazione. Si nota già, nel linguaggio adoperato per la formulazione del problema, la presenza di termini densi di riferimenti analogici:[6] radiazione, ondulatorio, etc., perché è ovvio che, nel contesto dell’elettromagnetismo, questi termini hanno perso molti dei loro significati primitivi: ondulatorio non implica onde materiali, come radiazione non implica raggi. Essi hanno assunto un significato “interno” alla stessa teoria (al suo linguaggio), sulla cui acquisizione da parte dello studente verte il problema didattico. L’esperimento dovrebbe essere un incentivo per l’acquisizione di un uso corretto dei termini del linguaggio[7]

Ancora: nel rilevare zone di massima e minima intensità della radiazione elettromagnetica  dell’esempio precedente,  cioè onde stazionarie in un tipico esperimento di riflessione su specchio piano di un fascio parallelo, il nocciolo della spiegazione è il concetto di interferenza. Anche se il discorso potrà sembrare scontato, non sarà male portare l’attenzione, specie ai livelli scolastici intermedi, sul fatto che l’ampiezza elettromagnetica viene qui rilevata in modo diverso a seconda del tipo di rivelatore adoperato,  suono nel caso di rivelatore acustico,  spostamento di un indice o di un segnale luminoso che si collegano a loro volta con variazioni di potenziale o di corrente,  ed inoltre, quello che viene rilevato è proporzionale ad una intensità e può riguardare, a seconda della teoria dello strumento,  la componente  elettrica  o quella magnetica dell’onda.

Si tratta allora di introdurre il concetto di “strumento trasduttore”.[8] Dal punto di vista epistemologico sarà bene far notare che la “distanza” fra il concetto e ciò che “si vede” è qui aumentata,  rispetto al caso di un esperimento meccanico. E’ in queste occasioni che le posizioni realistiche ingenue si traducono spesso in difficoltà pedagogiche disastrose sul piano dell’insegnamento.[9]

 Per comprendere come queste difficoltà vengono ignorate dai metodi tradizionali d’insegnamento prendiamo in considerazione ciò che è caratteristica comune delle diverse metodologie didattiche a cui ho accennato,  le une, che per semplicità chiamerò “empiriste”, mentre le altre le dirò allo stesso modo “razionaliste”. Ambedue i metodi  si basano sulla falsa supposizione che la connessione fra osservabili e concetti  sia diretta ed assoluta (spiegherò fra poco il significato di questi termini), cioè che essa si realizzi al di fuori di un “contesto”. Cioè, sul piano di una pedagogia della scienza (quello appunto su cui ho scelto di muovermi  in questo scritto) l’empirista crede che il laboratorio sia il luogo adatto per tale connessione (il luogo dove lo studente possa “scoprire” le leggi della fisica, o dove l’insegnante possa “mostrare” tali leggi). Ho chiamato questa credenza, con un po’ di ironia, la fiducia nel “paradiso empirico”, mentre é chiaro ai fisici che i concetti non si trovano negli osservabili ne si “astraggono” da ripetute osservazioni (Popper, fra l’altro)  Per esemplificare ancorai raggi della luce non sono “visibili”, il termine “tensione” di un vincolo e quello comune che indica lo spingere o il tirare,  non sempre si identificano.

Sul versante opposto,  l’insegnante convinto di una metodologia razionalista (per così dire) crede anch’egli di poter connettere direttamente concetti e osservabili. Gli esercizi di fisica alla fine dell’esposizione teorica dovrebbero essere proprio il luogo per questo auspicato – ma non sempre riuscito – connubio.

  Ma vediamo ciò che accomuna i due metodi nel senso di presentarne un errato presupposto: sia il “docente empirista” che il “razionalista” sostengono e auspicano che, attraverso il loro metodo di insegnamento si verifichi l’auspicata connessione fra concetti e osservabili,  anche se ciascuno di essi crede in un differente modo di realizzarla. In poche parole, per l’empirista il processo consisterebbe nella presunta generalizzazione delle osservazioni nel loro “approssimarsi” al concetto, alla legge,  per il razionalista si tratterebbe di dare significato empirico (corretto) ai concetti, alle leggi, mediante la loro “applicazione” a situazioni concrete (ad es. negli esercizi, o nel laboratorio, dopo la lezione teorica). Ciò che accomuna ( nel loro aspetto  didatticamente negativo) i due ipotetici docenti è l’assenza di dubbi sulla efficacia del presupposto che si possano connettere direttamente  concetti  e osservabili: non li sfiora nessun sospetto che per la connessione sia richiesto qualcos’altro,  che occorra un “catalizzatore” del processo. Sia l’uno che l’altro credono che le “concezioni”, il contorno delle idee, il quadro concettuale in cui concetti e osservabili si inseriscono sia qualcosa di vago ed impreciso, qualcosa di cui si dovrebbero occupare solo i filosofi e i letterati.[10] In termini differenti, la congiunzione che razionalisti ed empiristi auspicano si fonda sul tacito presupposto che i due poli siano autonomi,  che possa esistere cioè una distinzione assoluta fra un linguaggio teorico ed un linguaggio osservativo, come presupposto alla loro congiunzione. In effetti la distinzione fra i due linguaggi è possibile e realizzabile solo in un “contesto” (adopero questo termine per indicare quelle idee sul metodo e la natura della scienza, immagini della realtà, etc., che non appartengono, in quanto tali, né alla teoria scientifica in senso stretto né all’esperimento).[11]

Chiamerò allora “schema osservativo” il complesso di nozioni di cui è  inizialmente in possesso lo studente nel caso di una iniziale lezione in aula o nel laboratorio di fisica (ammesso che questo utile locale sia disponibile nella maggioranza delle scuole italiane). Queste nozioni possono essere state acquisite nella vita di ogni giorno o nei primi insegnamenti scientifici. Inizierò con un drammatico interrogativo, che, a mio parere , riassume le difficoltà che tutti noi insegnanti abbiamo sperimentato nei corsi iniziali di fisica. Se lo studente, ignaro di scienza, non possiede ancora uno “schema osservativo”adeguato , come può egli attingere alla lezione o all’osservazione per formarselo, quando lo “schema osservativo”  precede l’osservazione “scientifica”, e, d’altra parte,  questa è possibile solo in conseguenza di questo schema?  Come ho mostrato non si tratta della banale metafora dell’uovo e della gallina, ma di un problema che tocca il  centro dell’insegnamento di una scienza. E’ evidente in questa impostazione del problema che sono inefficienti i metodi didattici che presuppongono un semplicistico uso delle osservazioni o del laboratorio come “leva induttiva”.[12] E’ vero che esistono gli “schemi osservativi” del senso comune,  ma è oggi accettato che essi non coincidono, o coincidono molto poco, con quelli scientifici, anzi a volte ne sono la negazione ( è ben noto che…il moto della Terra, non è accettato  dal senso “comune”). Ammesso che l’insegnante voglia iniziare il processo didattico partendo dallo schema osservativo che è posseduto dallo studente, il problema è allora: come può egli perfezionarlo quando non vi sono ” leve induttive” su cui far presa?

3. Da un linguaggio semantico  a un linguaggio sintattico attraverso i modelli

 Desidero argomentare che nella fisica si fa uso frequente di un  linguaggio analogico come mezzo  per l’acquisizione del significato “interno” del termine scientifico.[13] Come sopra mi servirò di esempi per illustrare i temi in argomento. Nel facile esperimento di cui sopra, di una riflessione di un’onda  elettromagnetica (onde stazionarie)  oggi facilmente realizzabile con una sorgente ad uso didattico di microonde ( lunghezza d’onda di tre cm.), è’ interessante osservare che l’ostacolo linguistico e concettuale che si dovrà superare è che l’ampiezza dell’oscillazione si presenta, nel caso elettromagnetico, come una grandezza diversa dall’ampiezza meccanica, non soltanto nel senso ovvio che essa non ha gli stessi riferimenti empirici, ma anche perché ha un suo significato “interno” alla teoria del campo elettromagnetico , davanti a cui cade parte dell’analogia,  ad es., con le onde elastiche. Infatti, com’è noto, dopo la relatività  einsteiniana, non si può più rispondere alla domanda “chi oscilla o chi ruota nell’onda elettromagnetica”, indicando un “portatore materiale” dell’oscillazione,  come nel caso del corpo elastico . In questi casi è bene notare che si passa a concezioni  modellistiche degli oggetti fisici che si prestano maggiormente all’espressione matematica  delle leggi.[14] 

  Orbene è proprio l’uso di un linguaggio analogico [15]  che consente l’acquisizione del significato “interno” del termine: “ampiezza di un’oscillazione elettromagnetica”, con una funzione di contrasto fra ciò che è comune al referente ordinario e ciò che non lo è (integrazione fra la parte positiva e la parte negativa dell’analogia). L’analogia si può porre come mediatrice fra vecchio e nuovo linguaggio solo in quanto esiste una differenza di livello, una quasi incommensurabilità, che si manifesta nel processo di apprendimento come “tensione” acquisitiva. Il discorso scientifico non si limita a presentare un parallelismo fra oggetti preesistenti all’analogia stessa (aspetto semantico dei termini), ma costituisce esso stesso il suo oggetto (nell’esempio: l’ampiezza di un’onda elettromagnetica).

   E’ evidente allora che, specie ai livelli scolastici liceali e universitari più alti, l’insegnamento riguarda il passaggio da una forma ad un’altra dello stesso linguaggio scientifico. La “tensione acquisitiva” non si presenta soltanto come salto fra linguaggio comune e linguaggio scientifico ma, specie nella teoria della fisica moderna, come passaggio da un linguaggio “semantico” ad uno “sintattico”. E’ nel linguaggio sintattico che il significato “interno” dei termini acquista la massima rilevanza. Si può dire che in questo caso alcuni termini hanno un significato principalmente in quanto inseriti in una sintassi, l’espressione linguistica della teoria, e non in quanto siano direttamente riferibili ad oggetti o a singole percezioni.

In questo modo si presentano le teorie della fisica moderna, nelle teorie relativistiche e quantistiche,  i concetti di tensore elettromagnetico, di già ai livelli liceali, parlando della trasformazione ad es. di un linguaggio scalare in uno vettoriale della dinamica, oppure alle diverse formulazioni della meccanica,  da quelle più specificatamente newtoniane alle equazioni di Lagrange e di Hamilton.

  Anche in un liceo occorrerebbe far notare come l’introduzione delle forze di attrito, e più generalmente delle forze vincolari che dipendono dalla velocità, costituisce un allargamento ed una modifica del concetto e del termine di forza impressa. I fenomeni elettromagnetici possono essere descritti in termini di potenziali e correnti, oppure in termini di campi: si tratta anche qui di linguaggi e concetti differenti e il passaggio dall’uno all’altro va preparato e giustificato come non sempre viene fatto nel nostro insegnamento.

Da questi elementari esempi è palese che solo una minima parte della cosiddetta osservabilità delle grandezze della fisica, coincida con la loro “ostensività”, e che l’osservabilità è un processo complesso in cui la teoria stessa di cui si discute entra in modo determinante. Cioè: prevale l’aspetto “sintattico” del linguaggio teorico rispetto a quello “semantico”. E’ un altro gradino di allontanamento dal piano della osservabilità e un’altra sconfitta delle concezioni  empiristiche ingenue .

             Il trasferimento  mediante analogie [16] del significato dei termini di un linguaggio ad un altro è un procedimento “metaforico” in conseguenza del quale viene accresciuto il significato “interno” alla teoria dei termini del nuovo linguaggio.[17]               La conoscenza fisica è quindi un processo complesso non esauribile nei suoi componenti empirici – dato che la correlazione osservabile – ente teorico è possibile soltanto all’interno della teoria stessa. La complessità della fisica è anche riconducibile al fatto che i processi analitici (a cui si è voluto ricondurre la massima parte se non la totalità della conoscenza fisica, ad es. da parte della filosofia analitica) sono a loro volta condizionati da processi sintetici, come il linguaggio, specie per quel suo caratterizzarsi sotto l’aspetto “sintattico”, che è proprio anch’esso della fisica moderna.

    Queste posizioni di rovesciamento delle idee tradizionali al riguardo di un certo modo di concepire il processo di acquisizione della conoscenza scientifica – a cui era legata, com’è facile capire, anche una certa concezione primitiva dell'”oggettività” della scienza – sono seguite  a ricerche e concezioni più equilibrate sulla natura di questo processo e possono oggi essere utili a una moderna impostazione dell’insegnamento della fisica.

 Osservazioni a modo di conclusione. Formazione universitaria dei docenti di materie scientifiche e programmi di insegnamento.

L’insegnamento scientifico, a tutti i livelli, in Italia (sempre con le dovute eccezioni) e in una valutazione media complessiva, si trascina dietro un retaggio negativo legato in parte a concezioni ormai sorpassate della scienza, riassumibili in una “rigidità” di fondo delle categorie di giudizio e di selezione dei programmi. [18] Le immagini della scienza del passato – prevalentemente quella positivistica e neo-positivistica- in mancanza di un rinnovamento critico delle ricerche – hanno avuto una funzione ritardatrice nello sviluppo della ricerca pedagogica e della formazione dei docenti.[19] A riprova si può citare il fatto che, negli anni scorsi i più impegnati programmi ministeriali di aggiornamento dei docenti e di rinnovamento dei programmi si sono ispirati ai metodi del PSSC americani e di un analogo programma inglese senza trovare motivi ispiratori nella nostra scuola.

Questo ha comportato da una parte l’attenzione esagerata (a livello di insegnamento secondario) alla formulazione astratta delle leggi (senza riferimento al contesto semantico e in vista dei loro referenti problematici) e dall’altra, come reazione al quadro precedente, un empirismo riduttivo e un salto nel laboratorio,  quale toccasana di tutti i mali. Era questo  il presupposto in un programma universitario di alcuni decenni fa, gestito da un fisico universitario, che intendeva introdurre alla relatività einsteiniana facendo misurare la variabilità della massa elettronica con la velocità.

       Sono significative al riguardo le oscillazioni pendolari che si sono avute nei programmi di materie scientifiche. Brevemente: si era creduto in un primo tempo – anche sotto le suggestioni di esponenti del mondo scientifico male orientati – di individuare nel momento empirico della “osservazione” il fondamento funzione d’onda, di spin, di forze di scambio, etc., ne sarebbero esempi molto evidenti. L’esemplificazione, oltre a quella presentata, può riferirsi dell’insegnamento scientifico nelle scuole dell’obbligo. Il fallimento è stato quasi completo e si è fatto subito “marcia indietro”, reintegrando componenti teoriche negli attuali programmi.

  Per scendere in qualche particolare, nella Scuola italiana, che proveniva da una tradizione principalmente umanistica, ha avuto un ruolo negativo un’immagine della scienza tesa a esacerbare la differenza fra le cosiddette due “culture” e tutti i tentativi, falliti, di rinnovare i programmi in base a un cosiddetto “asse scientifico”.

Osservo con piacere che in questi ultimi anni si è assistito a un serio coinvolgimento da parte di fisici e pedagogisti con i problemi della formazione dei docenti di fisica.

Per soffermarmi brevemente sulla parte propositiva delle mie note desidero chiarire che nei programmi scolastici di fisica di fisica io intendo che si insegni fisica e non storia o filosofia. Quelle notazioni precedenti sulla indispensabilità di conoscenze storiche ed epistemologiche riguardano la formazione del docente di fisica il quale se ne avvantaggia , come risulta dalle mie note, per svolgere un buon insegnamento della sua materia. Sta alla sua discrezionalità introdurre commenti  dell’un tipo o dell’altro, che riguarderebbero in effetti una storia critica della sua materia d’insegnamento, Perché l’insegnamento è frutto principalmente della formazione del docente e solo in parte può essere condizionato dalle strettoie dei programmi. La critica ricade quindi sulla formazione universitaria dei docenti.

Il premio Nobel per la fisica I. I. Rabi ritiene che la scienza debba essere insegnata in un “contesto”.cioè nell’ambito di particolari concezioni, con determinati scopi. Queste “condizioni al contorno”, questi “contesti”, sono appunto parte essenziale della “scienza”, assieme ai suoi risultati oggettivi, alla conoscenza oggettiva. La sottovalutazione o l’ignoranza del contesto da parte dell’insegnante ha come conseguenza un impoverimento concettuale della scienza, anche nel senso di una artificiale autonomizzazione di una particolare “disciplina” nei riguardi delle altre “scienze”, nel senso che l’insegnante tende, fra l’altro, ad ignorare tutti quei tramiti “esterni”, che collegano la scienza di un dato periodo alle altre scienze. Forse anche a questo si riferisce lo Schwab[20], quando afferma che spesso la fisica è insegnata come una “retorica delle conclusioni”, nel senso che le costruzioni fluide della scienza sono inserite come verità empiriche per mostrare che, in quanto tali, esse sono immutabili. La conseguenza è che lo studente riceve la convinzione che tutte le “cose” di cui si parla, un corpo in caduta libera, la forza di gravità, lo “spin” di un elettrone, godono tutte dello stesso “status” epistemologico. Questo appiattimento epistemologico ingenera alla fine disinteresse, inducendo alla convinzione che la maggior parte delle cose della fisica riguarda “verità” indiscutibili, nel senso di dogma. Quando, dopo qualche anno e decennio, gli si dice che talune delle “cose” che gli sono state insegnate vanno modificate, è facile che reagisca con un “qualunquismo” epistemologico. (Un’assenza di differenziazione fra il “polo” dei fatti ed il “polo” delle idee). Basterebbe questa limitazione per togliere all’insegnamento molto di quell’interesse che la maggior parte dei pedagogisti ritengono oggi indispensabile dal punto di vista dei requisiti di una buona pedagogia.[21]

            Poichè la scienza è fatta dagli scienziati e la scienza moderna viene prodotta e insegnata nelle Università e negli Istituti di ricerca, il problemma diventa quello delle possibilità di apertura verso l’innovazione che vengono offerte nel presente assetto istituzionale della formazione dei professori di fisica nella scuola del secondo ciclo. E’ questo un problema di grande interesse che mi propongo di trattare a parte.

A questo riguardo non si può oggi ignorare che una componente umanistica- è parte determinante in qualsiasi attività di insegnamento che si prefigga un apprendimento (anche se di semplici tecniche). Nell’apprendimento di qualsiasi tecnica è determinante l’espressione linguistica e grafica, nei suoi vari aspetti di lingua come struttura grammaticale-sintattica, espressiva etc. Ed è evidente che l’apprendimento linguistico, in tutti i suoi aspetti, non può certo configurarsi come l’apprendimento di un sapere tecnologico.[22] Per non parlare poi della necessità di conoscenze che mirino a dare ai giovani una conoscenza civile e democratica, una garanzia per lo stesso progresso e la utilizzazione a fini utili all’uomo dello stesso sapere scientifico-tecnologico.

            Per concludere questi cenni voglio osservare che un’impostazione errata dell’insegnamento scientifico allontana da soluzioni di problemi importanti quale quello del rapporto fra professionalità e formazione nelle strutture scolastiche, in quanto ogni formazione professionale si rifà in definitiva a un delicato equilibrio di pensiero e strumentalità.

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Israel Scheffner, Science and Subjectivity, Bobbs-Merrill, N.Y. 1967. Scheffner, Anatomia della ricerca, Il Saggiatore, Milano 1972).

        Note


[1] Parisi, Nuova civiltà delle macchine, (NCM) 2004.

[2] D’Agostino, NCM 2004, pp.144-146.

[3] Scheffner 1972.

[4] Bernardini , De Mauro, 2003.

[5] Questa idea é giustamente criticata da Tullio De Mauro, in: C. Bernardini, T. De Mauro, 2003.

[6] D’Agostino, “Sostanza o Funzione?…”, 2004.

[7] Parisi, NCM 2004, p.84.

[8] S.D’Agostino, 2005; Maragliano, “La rimeditazione tecnologica della didattica”, NCM 2004,pp. 36-42.

[9] Tagliagambe, NCM 2004,p.15.

[10] D’Agostino NCM 2004, p.145.

[11] Scheffner 1972.

[12] V. Fano, 1996.

[13] S.D’Agostino, “Sostanza o funzione…”, 2004, pp. 223 passim.

[14] Ibid.pp. 225-228.

[15] Ibid.pp. 230 passim.

[16] S.D’Agostino, “Sostanza o funzione…” 2004, p.237 passim.

[17] Cfr. R. Boyd,T. S. Kuhn, 1979.

[18] Parisi, NCM 2004, “Vino vecchio in botti nuove…”, p.72.

[19] Olimpo, NCM,2004, p. 87 passim.

[20]Schwab, 1966.

[21] J.S. Bruner. 1964, pp. 60, 64, 71.

[22] Maragliano, NCM 2004, p.41.



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