OLEODOTTI, RAPINE, DESTABILIZZAZIONI

Le cose riportate in questa rassegna di articoli relativi all’inaugurazione dell’Oleodotto tra l’ Azerbaigian ed il Mediterraneo, attraverso Georgia e Turchia sono la conseguenza ovvia della politica aggressiva degli USA nel mondo. Queste cose le scrivevo nel 2001, subito dopo l’attacco USA all’Afghanistan, all’indirizzo:

http://www.fisicamente.net/index-204.htm

Ma la cosa era di un tale interesse ed attualità che, sull’argomento ho riportato una notevole mole di studi ed articoli che potrete trovare agli indirizzi seguenti.

www.fisicamente.net/index-219.htm

www.fisicamente.net/index-207.htm

www.fisicamente.net/index-222.htm

www.fisicamente.net/index-253.htm

www.fisicamente.net/index-255.htm

www.fisicamente.net/index-224.htm

www.fisicamente.net/index-223.htm

www.fisicamente.net/index-214.htm

www.fisicamente.net/index-300.htm

www.fisicamente.net/index-379.htm

www.fisicamente.net/index-260.htm

www.fisicamente.net/index-213.htm

www.fisicamente.net/index-203.htm

www.fisicamente.net/index-209.htm

www.fisicamente.net/index-320.htm

www.fisicamente.net/index-195.htm

www.fisicamente.net/index-259.htm

www.fisicamente.net/index-257.htm

Passo ora alle novità di questi ultimi giorni, facendo notare che l’ultimo articolo che riporto è del giugno del 1998.

R.R.


Btc, la nuova pedina del Grande Gioco petrolifero

Si inaugura oggi l’oleodotto (1170 km) tra Baku, Tbilisi e Ceyhan. Fu voluto 11 anni fa dagli Usa in funzione anti-russa: ecco come da allora è mutato lo scenario.

di Piero Sinatti 

Un evento atteso da ben undici anni, quello che oggi si celebra tra Baku, capitale dell’Azerbajdzhan, e Sangachal, il vicino terminale petrolifero azero sul Caspio. Si tratta dell’inaugurazione di un nuovo grande oleodotto. E’ lungo 1770 km e costa 3,6 miliardi di dollari. E’ destinato a trasportare il greggio – un milione di barili al giorno a pieno funzionamento – dagli offshore azero – caspici al terminale turco di Ceyhan, sulle rive del Mediterraneo meridionale, dopo aver attraversato la Georgia.
L’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC) è detto sia meridionale, per la sua direzione geografica, sia occidentale, per la sua funzione strategica di servire i mercati internazionali senza ricorrere alla rete monopolistica degli oleodotti russi. Venne ideato undici anni fa, subito dopo la firma del “contratto del secolo” da parte dell’allora presidente azero Gejdar Aliev (un tempo membro del Politburo del Pcus e vicepremier dell’Urss) e da un ampio consorzio internazionale, l’Aioc.
Capeggiato da British Petroleum (Bp) con il 30% del pacchetto azionario, è costituito, oltre che dalla compagnia statale azera Socar, anche da altre grandi multinazionali, tra cui Eni , Statoil (Norvegia), TotalFinaElf (Francia), ConocoPhillips e Unocal (Usa), Tpao (Turchia), Itochu (Giappone), l’Aioc nacque per lo sfruttamento delle risorse petrolifere dei campi off shore (Chirag, Azer, Guneshli) e di altri per lo più al largo della penisola di Apsheron.
Fu, quella, l’operazione che alla metà degli anni Novanta apriva nella regione caucasico-caspica il Great Game o Grande Giuoco, cioè la lotta per l’influenza politica e per il controllo delle sue risorse, segnatamente quelle energetiche. Il fine di Washington, teorizzato dall’ex-consigliere per la sicurezza Zbignew Brzezinski, era quello di ridurre e poi azzerare influenza e presenza russa nella regione, favorendo l’affermazione e la crescita di quella occidentale, segnatamente quella americana.
La costruzione del BTC, tenacemente avversato ma alla fine accettato da Mosca (della serie: buon viso a cattivo giuoco) iniziava nel 2003. Tra non poche difficoltà e costi crescenti è arrivato all’odierna inaugurazione. I mutamenti geostrategici seguiti all’11 settembre – con la crisi mediorientale aggravata e l’ascesa vertiginosa dei prezzi del greggio – hanno moltiplicato l’importanza del BTC ed amplificato le conseguenze legate alla sua sicurezza.


Ad esempio, l’evoluzione della situazione georgiana negli ultimi due anni, fino all’accordo raggiunto in questi giorni tra Mosca e Tbilisi per il ritiro delle ultime due basi russe dal territorio georgiano, ha un rapporto diretto con il BTC.
Da osservare che lo scorso aprile era volato a Baku, per un colloquio con il nuovo (dallo scorso ottobre) “Presidente-Figlio”, Ilkham Aliev, il capo del Pentagono Rumsfeld, lo stesso che ha voluto e controllato la ristrutturazione delle Forze Armate georgiane e ha ottenuto una stabile presenza presso Tbilisi di forze aeree Usa e di istruttori di forze speciali georgiane.
Altrettanto – come si è ipotizzato dopo la sua visita a Baku del 12 aprile – Rumsfeld cercherà di ottenere dagli azeri.
L’inaugurazione odierna, cui partecipano i rappresentanti di circa trenta paesi, tra cui i capi di stato azero, turco, georgiano e il ministro americano per l’energia Bodman. Il quale, in un’intervista, ha sostenuto ieri che il BTC non è diretto contro la Russia, ma ha il solo scopo di accrescere l’offerta internazionale di greggio e di “far compiere un significativo passo in avanti nella sicurezza energetica nella regione” .
Tuttavia, al centro dell’inaugurazione odierna, c’è un fatto nuovo, di quelli che non sembrano destinati ad allietare gli umori di Mosca. La presenza all’inaugurazione di un altro leader di lingua turanica, a fianco del turco Sezer e dell’azero Aliev-Figlio: il presidente del Kazakhstan, Nursultan Nazarbaev.
Questi ha sciolto una riserva pluriennale – dovuta alla sua volontà di destreggiarsi tra la Russia di cui è il maggior partner all’interno del da poco costituito “Spazio Economico eurasiatico” e gli Usa, che da anni premevano per associare al progetto BTC anche il Kazakhstan. E’ il secondo produttore di greggio dell’area post-sovietica. Nel 2010 si prevede che supererà i 100 milioni di tonnellate di greggi estratti annualmente e oltre 150 milioni nel 2015.
Astana ha bisogno di differenziare le reti di trasporto e gli sbocchi per le produzioni dei suoi grandi giacimenti. Come quelli di Tengiz (collegato all’oleodotto del consorzio russo-kazakho KTK, che va da Tengiz a Tikhoretsk per arrivare al terminale russo di Novorossijsk, sul Mar Nero). Di Atirau e Aktjubinsk (collegati al terminale russo di Samara). E come i grandi giacimenti offshore di Kashagan . Proprio questi ultimi, saranno collegati al BTC. Prima tramite la flotta di petroliere che il Kazakhstan sta allestend, in seguito attraverso l’oleodotto sottomarino che dovrà collegare Aktau, il porto-terminale kazakho sul Caspio orientale, con il terminale azero di Sangachal.
Il BTC, dunque, oltre a quello azero, trasporterà anche il greggio kazakho. Una notevole affermazione per quanti hanno voluto il BTC, in primis gli Usa.
Sullo sfondo della inaugurazione, si staglia un Azerbajdzhan inquieto. Il greggio non è riuscito a strappare dalla soglia di povertà, entro cui vive, il 40% della popolazione (8 milioni di abitanti, volume del Pil nel 2004 pari a 6,8 miliardi di dollari, pro capite pari a 810 dollari). Un centinaio di oppositori sono ancora in carcere, nonostante una recente amnistia. Dura e costante è la repressione poliziesca contro quanti – nazionalisti, democratici, islamici – denunciano il regime autoritario, corrotto, clanico e familista della dinastia Aliev. Ultima vittima, un giovane giornalista Elmar Huseinov, ucciso ai primi di marzo. Chissà se oggi ne parlerà qualcuno degli autorevolissimi ospiti di Aliev – Figlio.
25 maggio 2005


Rumsfeld in Azerbaigian per il “Grande gioco” caspico

di Daniele Scalea

Pochi giorni fa il Capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, in visita nella neocolonia irachena, ha fatto un salto “ufficioso” in Azerbaigian, e da lì si è recato nel Kyrgyzistan. Il viaggio a Baku s’è svolto nel più completo riserbo: nessun annuncio o dichiarazione ufficiale da parte delle autorità e, non fosse stato per la stampa locale (il quotidiano “Echo” ha titolato: “Rumsfeld interessato al petrolio azero”) di questo viaggio non si sarebbe saputo nulla. Quali interessi hanno gli USA in Azerbaigian, e qual è la ragione di tanta segretezza?

Innanzitutto l’Azerbaigian è un paese ricco di petrolio che, come sappiamo ed ha argutamente notato “Echo”, è una delle parole magiche che riescono a scatenare la frenesia nelle stanze del potere statunitense. In questo momento Washington ha in ballo un affare parecchio importante col governo azero, e cioè l’oleodotto Baku-Tblisi-Ceyhan. È impossibile comprendere appieno la finalità di questo corridoio energetico, senza essersi prima calati nella realtà di quello che potremmo definire “il Grande Gioco del Mar Caspio”.

Il bacino del Caspio, molto ricco di risorse energetiche, era un tempo sotto il pieno controllo dell’Unione Sovietica. Dopo il 1992, però, la Russia ha dovuto dividerne il possesso non più col solo Iran, com’era in precedenza, ma pure con Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan e, appunto, Azerbaigian. Ad ogni modo l’importanza del Mar Caspio non si riduce a una mera spartizione delle sue risorse, ma ha una ben chiara valenza strategica: non va dimenticato che già un Sir Mackinder, padre della geopolitica anglosassone, indicava nella regione centrasiatica il “cuore del mondo” (“Heartland“) fondamentale per l’egemonia globale. Un esperto riconosciuto com’è l’italiano Fabrizio Vielmini, ha voluto sottolineare come l’interesse statunitense per l’Asia Centrale e il Mar Caspio sia prevalentemente strategico più che economico, e come lo stesso agire nel secondo campo trovi poi gli effetti maggiori nell’altra direzione.[1] In effetti, la Federazione Russa gode ancora di un importante ascendente strategico su quei paesi, dal momento ch’essi, per esportare le proprie produzioni di petrolio, debbono ricorrere alla rete d’oleodotti creata già in epoca sovietica. Washington sa bene che sottrarre a Mosca questa posizione di forza vorrebbe dire, quasi certamente, portare nella propria sfera d’influenza l’Asia Centrale, e perciò ha avviato una serie di progetti alternativi per l’esportazione del petrolio caspico, qual è, ad esempio, il celebre oleodotto che dovrebbe attraversare l’Afghanistan e il Pakistan e sfociare nell’Oceano Indiano. Al momento, comunque, il progetto principe dell’operazione strategica nordamericana è proprio il Baku-Tblisi-Ceyhan, in via di completamento, il quale senz’altro sottrarrà alla Russia l’esportazione del petrolio azero e, con buone probabilità, anche quello dei paesi dell’Asia Centrale. A Ceyhan il petrolio sarà imbarcato sulle petroliere e inviato, in massima parte, all’Europa. Una parte però potrebbe prendere una via differente, come invocano i presidenti di Ucraina, Georgia e Moldova, rispettivamente Jušcenko, Saakašvili e Vorosin (i primi due “rivoluzionari” creati da Washington, il terzo un “comunista” filamericano), per sostentare il fulcro del nuovo GUUAM (o GUAM o GUM, a seconda della sua conformazione finale), l’associazione strategica intra-CSI volta ad alleggerire il peso regionale del Cremlino, naturalmente col beneplacito della Casa Bianca.

Ad ogni modo, l’Azerbaigian è zona “calda” anche per un altro motivo, e cioè la sua vicinanza tanto alla Federazione Russa, tanto alla Repubblica Islamica d’Iran. Com’è noto il paese dell’Ayatollah è nuovamente entrato nelle mire egemoniche dei cervelli di Washington, eccitati dal sogno del “Grande Medio Oriente”, cui senza dubbio Tehran potrebbe interporre ostacoli. In vista di un possibile attacco contro l’Iran, gli USA si trovano nella necessità d’individuare basi di partenza. Il Pakistan è un fido alleato della Casa Bianca, ma ultimamente ha abbracciato un’iniziativa che ha fatto infuriare i caporioni yankee, vale a dire l’oleodotto che dovrebbe portare all’India il petrolio iraniano, naturalmente attraverso il territorio pakistano. In Afghanistan la presenza nordamericana non è così salda e sicura come servirebbe per renderla ideale base di partenza d’una offensiva: stesso discorso si potrebbe fare per l’Iraq, coll’aggiunta che colà la situazione è ancora più rovente, e pure le stesse forze collaborazioniste sono per la maggior parte politicamente vicine a Tehran. Rimane allora l’Azerbaigian. Baku ha anch’essa stretti e profondi legami con l’Iran.[2] Jumšid Nurév, uomo politico vicino al governo azero, ha affermato senza mezzi termini: «L’Azerbaigian non accetterà mai di diventare una base per l’attacco all’Iran, paese a cui ci uniscono tanti legami storici e culturali». Fatto sta che il portavoce presidenziale azero, Alì Hasanov, ha confermato come i colloqui con Rumsfeld abbiano riguardato in primo luogo questioni di «sicurezza», come oggi si usa ipocritamente definire gli affari bellici.[3] Il giorno dopo la visita di Rumsfeld a Baku il Generale Johns, comandante delle forze NATO in Europa, ha confessato l’intenzione statunitense di stabilire proprie basi militare nel bacino del Caspio «per garantire la sicurezza regionale». In effetti già da lunga data Washington ha coinvolto i paesi caspici nel progetto di una sorta di “forza armata” comune, la Caspian Guard, il cui centro operativo, secondo varie fonti,[4] sarà proprio il centro di comando radar situato a Baku, che potrebbe essere aperto a breve. Inoltre, già prima della fine di questo mese, potrebbero giungere nel paese i primi gruppi mobili armati statunitensi.

Questo spiegamento militare nordamericano nel bacino del Caspio non preoccupa solo l’Iran, possibile obiettivo di un attacco diretto, ma pure la sua alleata Russia, la quale troverà presto un potente competitore militare nella regione. Inoltre, i radar di Baku copriranno tutta la parte meridionale della Federazione, fortemente industrializzata e di primaria importanza strategica. Un altro fendente al ventre molle dell’Eurasia, cui Mosca continua a rispondere, pare, con troppa poca decisione. Il Cremlino ha cercato di convincere il Kyrgyzistan a richiedere lo smantellamento della base militare che gli USA hanno colà installato, colla scusa dell’invasione dell’Afghanistan, ma Biškek (visitata da Rumsfeld subito dopo Baku) pare decisa a consentirne l’uso agli Yankees fin tanto che durerà la farsesca “guerra al terrorismo”, vale a dire fin tanto che gli USA avranno conquistato il mondo o – Dio volendo – saranno stati sconfitti.

Daniele Scalea

[1]

Cfr. “Implications of the U S military presence in the Central Asian security system: evolution, current situation and future perspectives”, relazione alla Conferenza “Dinamiche e trasformazioni nell’Asia Centrale” (Roma, 5-6 novembre 2004). Una traduzione italiana sarà presto pubblicata sul prossimo numero di “Eurasia, rivista di studi geopolitici”.

[2]

Kaveh Afrasiabi, docente di scienze politiche presso l’Università di Tehran, ha compiuto un ragionamento simile per negare l’eventualità d’un attacco aereo israeliano contro il suo paese; presumo che la dimostrazione si possa grossomodo adattare anche inserendo gli USA nel ruolo dell’aggressore. L’articolo in questione, originariamente pubblicato sul “Asia Times”, è stato dal sottoscritto tradotto in italiano come “Il mito di un attacco israeliano all’Iran”, e può essere consultato, tra l’altro, anche su <http://www.eurasia-rivista-org/&gt;.

[3]

Per le due citazioni vedi: Maurizio Blondet, “Rumsfeld (in segreto) in Azerbaigian”, sito della Casa editrice “Effedieffe”.

[4]

Ad esempio: John Fialka, “Search for crude comes with new dangers”, “The Wall Street Journal”, 11 aprile 2005.  

Fonte: Rinascita, aprile 2005


Azerbaigian – 25.5.2005

Un tubo pericoloso

Inaugurato oggi a Baku il ‘Btc’: il più lungo, strategico e discusso oleodotto del mondo

Enrico Piovesana

Dopo undici anni di lavori, oggi a Baku, capitale dell’Azerbaijan sulla riva del Mar Caspio, viene ufficialmente inaugurato il più lungo, strategico e discusso oleodotto del mondo: il cosiddetto Baku-Tbilisi-Cheyan (Btc). Un progetto da quattro miliardi di dollari fortemente voluto dagli Stati Uniti, desiderosi di sfruttare il ricchissimo bacino petrolifero del Caspio così da rendere la propria economia meno dipendente dal greggio mediorientale, sempre più costoso in termini economici, politici e militari. Un progetto che ha suscitato e continua a suscitare forti critiche per il suo negativo impatto sociale e politico su questa delicatissima regione. Senza citare gli enormi rischi per l’ambiente in caso di incidenti.

L’oleodotto più lungo del mondo. Oggi al terminal di Sangachal, quaranta chilometri a sud di Baku, alla presenza dei capi di Stato di Azerbaigian, Georgia, Turchia e Kazakistan e del Segretario Usa all’Energia Samuel Bodman, inizia il pompaggio del greggio nella conduttura sotterranea che, passando sotto il territorio azero, georgiano e turco, sbuca nel porto mediterraneo di Ceyan. Per riempire i 1.770 chilometri di tubo ci vorranno sei mesi, alla fine dei quali il petrolio arriverà a Ceyan al ritmo di un milione di barili al giorno. Da lì verrà imbarcato sulle petroliere che lo faranno arrivare sui mercati occidentali.

A gestire la costruzione del Btc è stato un consorzio petrolifero guidato dalla compagnia britannica British Petroleum (Bp) con il 30% e di cui fanno parte l’azera Socar (25%), l’americana Unocal (9%), la norvegese Statoil (8%), la turca Tpao (6%), l’italiana Eni (5%), la francese Total-Fina-Elf (5%) e altre ancora.

Rischio di destabilizzazione. Questa pipeline attraversa una delle regioni più instabili del pianeta, un focolaio di guerre e conflitti irrisolti che covano sotto la cenere e che rischiano di reinfiammarsi a causa della destabilizzante presenza di questo tubo.
Si pensi solo al Nagorno-Karabakh (dove gli eserciti armeno e azero hanno ricominciato a spararsi quasi quotidianamente), ai conflitti separatisti georgiani in Ossezia del Sud e Abkhazia (dove continuano le provocazioni dell’una e dell’altra parte) e al conflitto nel Kurdistan turco (che negli ultimi mesi ha visto nuovi violenti scontri tra esercito e Pkk). Il percorso dell’oleodotto verrà presidiato dalle forze armate dei Paesi attraversati e, a quanto pare, anche da militari dell’esercito Usa (il 12 aprile Rumsfeld avrebbe preso accordi in tal senso con il ministero della Difesa azero). E questo potrebbe fornire il pretesto per attacchi e sabotaggi che rischiano di far salire pericolosamente la tensione in queste zone.

Un regalo al regime azero di Aliyev. Sabato scorso a Baku la polizia azera ha disperso con la forza una protesta dell’opposizione: i manifestanti sono stati brutalmente picchiati e centinaia di loro sono stati portati in prigione. Carceri nelle quali la tortura e la violenza sui detenuti ‘politici’ sono la regola. In Azerbaigian le manifestazioni antigovernative sono bandite da quando, lo scorso ottobre, è diventato presidente Ilham Aliyev (con elezioni manovrate per garantire la successione ‘dinastica’ all’ex presidente Heidar Alyev, suo padre). Da allora è iniziata una violenta campagna contro le opposizioni con arresti di massa e omicidi politici. La libertà di stampa è stata ostacolata in tutti i modi, anche con la violenza. Il 2 marzo è stato assassinato Elmar Huseynov, direttore del principale quotidiano d’opposizione. In aprile sono nati movimenti giovanili democratici che si ispirano alle ‘rivoluzioni arancioni’, ma i loro militanti sono stati subito imprigionati. Ora la sicurezza dell’oleodotto fornisce ad Aliyev un nuovo pretesto per usare il pugno di ferro. La manifestazione di sabato, ad esempio, era stata vietata perché troppo vicina alla cerimonia di oggi. 


http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/26-Maggio-2005/art71.html

La via del petrolio che aggira Mosca


Dal Caspio al Mediterraneo Inaugurato ieri il primo tratto del mega-oledotto che porterà il petrolio del Caspio dal porto azero di Baku a quello turco di Ceyhan, sottraendolo al controllo strategico della Russia. Proteste per l’impatto ambientale
MANLIO DINUCCI

E’stato inaugurato ieri il primo tratto dell’oleodotto tra il porto azero di Baku, sul Caspio, e il porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo. Presenti alla cerimonia – oltre ai presidenti di Azerbaigian, Georgia e Turchia – delegazioni di 15 paesi. Al posto d’onore il segretario Usa all’energia, Samuel Bodman, latore di una lettera in cui il presidente Bush definisce l’oleodotto una «conquista storica». Di questo non c’è dubbio. Sono stati infatti gli Usa, nel 1999, a promuovere il progetto dell’oleodotto, già definito «storico» dal presidente Clinton: la sua importanza strategica consiste nel fatto che esso segue un tracciato di 1770 km che aggira la Russia a sud, sottraendole il controllo sull’esportazione della maggior parte del petrolio del Caspio. A controllare il greggio – che, una volta terminato l’oleodotto, sarà pompato dal Caspio al Mediterraneo nella misura di 1 milione di barili al giorno nel 2007 – sarà un consorzio capeggiato dalla Bp che, dopo la fusione con la Amoco, è divenuta anglo-statunitense. Terza compagnia petrolifera nel mondo dopo la statunitense ExxonMobil e l’anglo-olandese Royal Dutch/Shell, la Bp ha una capitalizzazione di mercato di 210 miliardi di dollari e un fatturato annuo (nel 2004) di 285 miliardi, ossia 100 miliardi in più del pnl dell’Arabia saudita, maggiore produttore ed esportatore mondiale di petrolio. La Bp, che ha il 30% delle azioni del consorzio, è affiancata da altre dieci compagnie, tra cui le statunitensi Unocal e ConocoPhillips e l’italiana Eni (e all’inaugurazione dell’oleodotto ha partecipato la sottosegretaria agli esteri Margherita Boniver, con un messaggio augurale del presidente del consiglio Berlusconi).

Il grosso dei fondi per la costruzione dell’oleodotto, il cui costo è di 4 miliardi di dollari, non proviene però dalle casse delle compagnie, ma da fondi pubblici internazionali, canalizzati attraverso l’International Finance Corporation (membro del Gruppo della Banca mondiale) e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo. Il tutto sotto l’egida e il controllo della Usaid, l’agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale. I profitti invece finiranno nelle casse delle compagnie petrolifere. Quello che preme a Washington è un altro, e più importante, tipo di profitto: sottrarre alla Russia l’area strategica del Caspio. Non è un caso che il rappresentante del presidente Putin per la cooperazione energetica internazionale, Igor Yusufov, il quale avrebbe dovuto presenziare all’inaugurazione, abbia cancellato all’ultimo momento il suo viaggio a Baku. Se ci fosse stato, avrebbe dovuto assistere non solo a una cerimonia di significato funereo per Mosca, ma alla firma di una dichiarazione con la quale il presidente del Kazakistan, Nazarbayev, si è impegnato a convogliare nell’oleodotto buona parte del greggio kazako.

Alla cerimonia di inaugurazione, il presidente turco Necdetsezer si è detto convinto che «questo corridoio energetico Est-Ovest svolge un importante ruolo per la sicurezza della regione». Si tratta di intendersi sulla parola «sicurezza»: il corridoio energetico, da cui viene esclusa la Federazione russa, acuirà infatti le tensioni nell’area e richiederà un crescente spiegamento di forze militari per garantirne la sicurezza. Ne sanno qualcosa gli abitanti del territorio curdo in Turchia, «pacificato» preventivamente per garantire il sicuro passaggio dell’oleodotto.

Ne sanno qualcosa anche i cittadini azeri che, sabato scorso, hanno promosso a Baku una pacifica manifestazione chiedendo garanzie contro l’impatto ambientale dell’oleodotto e trasparenza nella gestione del progetto, nelle mani di ristretti gruppi di potere. Dopo essere stati duramente caricati dalla polizia, sono finiti in carcere. Fossero stati alla cerimonia, avrebbero potuto ascoltare, dalle labbra del segretario Usa all’energia, le parole di Bush: «Questo oleodotto costituisce il fondamento di una società prospera e giusta che promuove la causa della libertà».


http://www.operazionecolomba.org/cecenia.php

Dossier Cecenia

[Quello che segue è solo un piccolo estratto del Dossier, ndr]

… Un’altra motivazione, forse la principale, per la guerra in Cecenia è la lotta per il controllo del petrolio del Caucaso e soprattutto delle vie per il suo trasporto. «La Russia – scrive Le Monde Diplomatique di novembre ’99 – ha sempre sostenuto il principio che la maggior parte del petrolio dovesse passare sul suo territorio, come in epoca sovietica, utilizzando l’oleodotto Baku-Novorossijsk». La regione del Caucaso si trova quindi al centro di un importante scontro geopolitico, e non solo come via di transito per gli idrocarburi del Mar Caspio. È da notare che solo pochi mesi innanzi l’intrapresa della prima guerra cecena, nel settembre 1994, a Baku si celebrava la sottoscrizione di un accordo tra alcune compagnie statunitensi, capitanate dalla Amoco, e il presidente azero Heydar Aliyev. Il consorzio prendeva il nome di Azerbaijan International Operating Company (AIOC). La costituzione dell’AIOC pose ben presto un problema di trasferimento del greggio verso i mercati occidentali. Infatti le risorse provenienti dal Caspio sarebbero dovute uscire soltanto attraverso il territorio di Iran o di Russia. L’AIOC assunse l’impegno di usare la linea russa, dopo che, ad agosto, era stato raggiunto un accordo tra il Cremlino e i separatisti ceceni, ma allo stesso tempo dichiarava l’intenzione di ricorrere ad una nuova rotta occidentale, sostenuta dagli USA e fuori dal controllo russo, un oleodotto alternativo che avrebbe unito Baku al porto del Mar Nero di Supsa in Georgia. La diplomazia statunitense scegliendo una politica di diversificazione dei tracciati compiva un primo passo per estromettere la Russia dall’area. A dicembre si scatena la guerra: con la sconfitta russa e la conseguente perdita del controllo diretto sulla Cecenia la via russa al petrolio perde ancora quotazione. Una volta raggiunta la pace infatti l’oleodotto fu riparato, ma la Cecenia pretendeva tariffe dieci volte più alte di quelle che la Russia era disposta a pagare. Alla fine l’accordo fu trovato, ma il primo flusso di petrolio ha varcato il confine Russo-Azero solo il 28 febbraio 1998. Il 17 aprile 1999 è stato ufficialmente aperto l’oleodotto che collega Baku a Supsa, che di fatto si inserisce nel sistema di sicurezza della NATO. In questo modo gli Stati associati del GUUAM (Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbaijan, Moldavia) e i loro finanziatori occidentali con gli USA in prima fila, hanno creato una prima breccia nel monopolio russo.


Leggiamo in «Guerra e Pace» di settembre ’99: « La reazione del Cremlino è stata il rafforzamento di tutto il suo dispositivo militare nell’area nordcaucasica e del Daghestan. Navi da guerra nel porto di Astrahan, arrivo di reparti di fanteria meccanizzata nella città di Bujnaksk, un piano per la costruzione di una base navale militare a Kaspijsk. Anche la base militare di Gyumri, in Armenia, è stata ammodernata, dotata di nuovi aerei Mig 29 e di nuovi sistemi di difesa contraerea. Il che ha suscitato le proteste dei governi azero, ucraino e georgiano. Essi si sono accordati per creare una forza militare di difesa della linea dell’oleodotto Baku-Supsa. Il segnale per Mosca è inequivocabile, Ucraina e Georgia continueranno la loro politica di aggiramento delle rotte settentrionali russe con tutti i rischi di un ulteriore aggravamento della tensione».
«(…) Nelle sue recenti interviste il presidente ceceno Aslan Maskhadov ha parlato di «mandanti degli attentati dinamitardi molto lontani dalle frontiere» e di strani emissari che cercavano di persuadere i ceceni a forare questo oleodotto, che si è dovuto effettivamente chiudere in primavera. I russi sono stati quindi costretti a trasportare il greggio su vagoni cisterna lungo una linea ferroviaria che aggira a nord la Cecenia. A sua volta il capo dei ribelli Shamil Basaev, trasformando il Daghestan in Stato islamico, ha reso questo transito impossibile e ha minacciato l’altro grande progetto russo: la costruzione, iniziata nel maggio 1999, dell’oleodotto Tengiz (in Kazahstan)-Novorossijsk che attraversa le steppe calmucche a nord del Daghestan».


MOSCA VINCE IN CECENIA MA PERDE LA GUERRA PER IL PETROLIO

http://www.analisidifesa.it/numero0/cecenia.htm

[Quello che segue è solo un estratto dell’articolo, ndr]

… Una conferma del pesante coinvolgimento di Ankara nella crisi cecena proviene indirettamente dall’accordo firmato tra Turchia, Azerbaigian e Georgia che prevede la realizzazione di un oleodotto che convogli il petrolio azero tagliando fuori la Russia. L’intesa, ratificata ad Istanbul, gode della “benedizione” di Washington la cui politica nei confronti della crisi caucasica sembra muoversi su due binari paralleli: da un lato il massimo supporto alla costruzione di oleodotti che tolgano a Mosca il controllo sul greggio delle ex Repubbliche Sovietiche e dall’altro un discreto appoggio politico alle iniziative di Mosca tese a distruggere i santuari dell’integralismo islamico in Cecenia e Daghestan. Il Cremlino si trova quindi a dipendere da Washington per evitare la condanna internazionale a causa delle operazioni non proprio pulite condotte in Cecenia non potendo neppure alzare la voce con la Turchia che proprio recentemente, in occasione della visita del premier Ecevit a Mosca, ha firmato un contratto miliardario per la fornitura di gas russo. Imbottigliata nella guerra cecena la Russia è troppo esposta politicamente ed economicamente per contrastare le iniziative occidentali che puntano a sottrarle il controllo degli oleodotti guarda caso con l’appoggio di Azerbaigian e Georgia, paesi accusati da Mosca di concedere appoggi ai guerriglieri ceceni. Tiblisi ha negato ai russi l’uso delle proprie basi per attaccare la Cecenia e Mosca ha deciso di rispondere al “tradimento” delle due repubbliche intensificando gli aiuti militari all’Armenia (nemica storica di Baku per la questione del Nagorno-Karabakh), richiedendo visti d’ingresso ai cittadini azeri e georgiani e appoggiando le aspirazioni indipendentistiche della regione georgiana dell’Abkhazia. In questo contesto una Russia ormai sconfitta nella “guerra del petrolio” potrebbe giocare le sue ultime carte puntando a far esplodere le tensioni etniche esistenti tra i popoli caucasici infiammando nuovamente l’intera regione.

  Gianandrea Gaiani


Da “Il Manifesto” del 10 settembre 2004

Beslan: il grande gioco dietro la strage

Un intreccio geopolitico e affaristico che provoca vittime innocenti

di Manlio Dinucci

L’attacco alla scuola di Beslan non è stato solo un atto terroristico di kamikaze ceceni ma una complessa azione militare professionalmente preparata. Come confermano anche gli inviati del New YorkTimes, mesi prima era stato nascosto sotto il parquet della biblioteca un grosso deposito di armi e munizioni e i membri del commando, dotati di tute mimetiche in uso nella Nato e maschere antigas, conoscevano perfettamente la pianta della scuola. Tale azione non può essere stata organizzata da un singolo gruppo, senza una rete diappoggi sia all’interno che all’esterno della Russia. Dietro la nuova strage degli innocenti vi è quindi non solo l’aspirazione all’indipendenza, che anima il popolo ceceno sin dall’epoca zarista, e il rifiuto russo di concederla. Vi è il «grande gioco» interno e internazionale attorno a una posta di enorme importanza strategica: il controllo dell’ex Unione sovietica e, in particolare, delle sue ricchezze energetiche. All’interno della Federazione russa è in corso lo scontro tra grossi esponenti dell’oligarchia economica e Vladimir Putin che, contrariamente a quanto essi si aspettavano, ha accentrato il potere, e con esso i profitti della vendita del petrolio e del gas naturale, nelle mani degli uomini fidati della sua amministrazione. Il miliardario Mikhail Khodorkovskij, padrone della compagnia petrolifera Jukos, aveva tentato la scalata al potere politico con l’appoggio della statunitense ExxonMobil cui stava per vendere un terzo della Jukos, ma è stato imprigionato per aver evaso le tasse. Il banchiere Boris Berezovskoj, rifugiatosi a Londra, da tempo sostiene e finanzia il gruppo ceceno di Shamil Bassaev, indicato come organizzatore dell’attacco di Bessan. Il fine politico di tale azione era quello di colpire il prestigio di Putin, presentatosi come uomo forte in grado di risolvere la questione cecena e garantire la sicurezza della Russia.

Lo ha ben capito Putin che, nel discorso televisivo di sabato sera (sottovalutato dai media), sottolinea: «Alcuni vogliono strappare via un grosso pezzo del nostro paese. Altri li aiutano a farlo. Li aiutano perché pensano che la Russia, una delle più grandi potenze nucleari del mondo, costituisce ancora una minaccia e che tale minaccia deve essere eliminata. Il terrorismo è solo uno strumento per conseguire tali scopi» (The New York Times, 5 settembre). Il messaggio è chiaro ed è chiaro a chi è diretto.

Gli Stati uniti, disgregatasi l’Unione sovietica, proclamano esplicitamente nel 1994 che la regione del Caspio rientra nella loro «sfera d’interessi». Nello stesso anno, l’anglo-statunitense Bp-Amoco si assicura in Azerbaigian (membro con la Russia della Comunità di stati indipendenti) una prima concessione petrolifera. Nello stesso anno scoppia la guerra in Cecenia (repubblica della Federazione russa), i cui capi ribelli, arricchitisi dal 1991 con i proventi petroliferi, sono sostenuti dai servizi segreti turchi (longa manus della Cia). Quando, dopo gli accordi di pace del 1996, la Russia inaugura nel 1999 l’oleodotto tra il porto azero di Baku sul Caspio e quello russo di Novorossiisk sul Mar Nero, esso viene sabotato nel tratto in territorio ceceno. I russi realizzano allora un bypass attraverso il Daghestan, ma in agosto un commando ceceno di Bassaev lo rende inagibile. In settembre, Mosca effettua il secondo intervento armato in Cecenia. Nello stesso anno, per iniziativa di Washington, viene aperto un altro oleodotto che collega Baku al porto georgiano di Supsa sul Mar Nero, mettendo fine all’egemomia russa sull’esportazione del petrolio del Caspio. Nello stesso anno, sempre su iniziativa statunitense, Turchia, Azerbaigian, Georgia e Kazakistan decidono di costruire un oleodotto che collega Baku al porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo, sottraendo alla Russia il controllo sull’esportazione della maggior parte del petrolio del Caspio.

Contemporaneamente gli Stati uniti si muovono per distaccare da Mosca le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, portandole nella propria sfera d’influenza. Dopo l’11 settembre Washington dà la spallata decisiva, installando basi e forze militari, oltre che in Afghanistan, in Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan, Kazakistan e Georgia. L’area è dienorme importanza, sia per la sua posizione geostrategica rispetto a Russia, Cina e India, sia per le grosse riserve di petrolio e gas naturale del Caspio (su cui si affacciano Kazakistan e Turkmenistan), sia per la sua vicinanza alle riserve petrolifere del Golfo, dove con l’occupazione dell’Iraq gli Usa hanno rafforzato la loro presenza militare. In compenso però Bush ha espresso il suo dolore per le vite innocenti sacrificate a Beslan, assicurando di «essere con il popolo russo, cui dedichiamo le nostre preghiere».


AZERBAIJAN

BERS finanzia la costruzione del maxi oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC)

25/11/2003

www.ebrd.org-www.ice.it

http://www.informest.it/news/dettaglioNews.aspx?id=3140

La Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS) ha approvato un finanziamento di 250 milioni di dollari USA per la costruzione dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC). L’oleodotto BTC avrà una capacità di trasporto di 1 milione di barili al giorno e collegherà i giacimenti petroliferi del Caucaso con il Mar Mediterraneo, attraversando l’Azerbagijan, la Georgia e la Turchia. La BERS finanzia una parte dei 1.760 km dell’oleodotto in territorio azero e georgiano. Il maxi progetto è partecipato da British Petroleum (sponsor principale), State Oil Company of Azerbaijan (SOCAR), ENI (Italia), TPAO (Turchia), Statoil (Norvegia), Amerada Hess, Conoco Phillips ed Unocal(USA), Itochu ed IMPEX (Giappone), TOTAL (Francia). La grande opera infrastrutturale, deliberata dopo una lunga fase di preparazione e di ascolto delle comunità locali del Caucaso, prevede investimenti complessivi per 3,6 miliardi di dollari e sarà cofinanziata dall’IFC di Washington, dalla SACE e dalle altre agenzie di governo (US-Exim, JBIC, Nexi, Hermes, Coface, ECGD e OPIC) e da diverse banche commerciali Societe Generale, ABN Amro, Citibank and Mizuho. La BERS partecipa al progetto BTC con una linea di credito A di 125 milioni della durata di 12 anni e una linea di credito B decennale del valore di 125 milioni da sindacare presso banche commerciali. La BERS e BP plc hanno contemporaneamente lanciato l’iniziativa per lo sviluppo economico e sociale della Regione con un target budget di 100 milioni, di cui 25 di pertinenza BP/BERS. L’iniziativa regionale finanzierà attività di credito per le piccole e medie imprese, formazione ed infrastrutture. Per ulteriori informazioni sulle attività della BERS é possibile contattare il funzionario ICE Salvatore Parano: tel 004420 73387852 – e-mail: paranos@ebrd.com.


http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Giugno-1998/9806lm20.01.html

GIUGNO 1998

I piani occidentali per staccare gli stati indipendenti da Mosca
Le nuove vie della geopolitica a sud della Russia


“Via della seta del XXI secolo”, questo il soprannome del progetto di corridoio euroasiatico lanciato dall’Unione europea con l’appoggio degli Stati uniti a sud della Russia. Reti stradali e ferroviarie, porti, oleodotti, un corridoio aereo con il pretesto di spezzare il loro isolamento, si cerca di mettere in comunicazione con il mondo gli stati da poco indipendenti della regione che, come l’Iran, evitano la Russia e al tempo stesso di rafforzare il ruolo cerniera della Turchia. Nella battaglia per lo sfruttamento delle ricchezze tutti i colpi sono permessi.

di Jean Radvanyi*


Sette anni dopo l’implosione dell’Urss, profondi cambiamenti cominciano a vedere la luce nei dispositivi geopolitici dell’Eurasia. Come si può vedere sulla cartina riportata in questa pagina, è in corso un eccezionale sforzo di adattamento delle reti di trasporto per rispondere alla sfida delle indipendenze.
Questi progetti interessano prima di tutto la Russia, costretta a adattarsi a un territorio ridotto e che si sforza di conservare il suo ruolo di ponte fra Asia ed Europa. Ma altri mirano, al contrario, a spezzare il monopolio di fatto di cui Mosca dispone sulle reti di esportazione di numerose ex Repubbliche sovietiche. La Via Baltika, programma europeo, cerca di rafforzare l’integrazione dei tre stati baltici con la Polonia e la Finlandia senza passare né per la Russia (Kaliningrad, San Pietroburgo) né per la Bielorussia.
La questione si fa ancora più complicata a sud della Russia a causa della concomitanza fra l’indipendenza di otto nuovi stati, di cui sette isolati e la “riscoperta” degli idrocarburi del Mar Caspio (1). In poco tempo, dietro i dibattiti tecnici sul tragitto e sui modi migliori per trasportarli (strada, ferrovia, oleodotto, ecc.), si sono andate profilando questioni specificatamente politiche e strategiche: si parla ormai di un nuovo “grande gioco” per indicare l’attenzione delle multinazionali o degli stati occidentali verso una zona l’Asia centrale, il Mar Caspio e il Caucaso a lungo considerata riserva di caccia degli interessi russi.
Tutto è cominciato con la constatazione di una carenza: quando nel 1990-91 gli europei hanno voluto dare un aiuto alimentare alle repubbliche sovietiche del Caucaso e dell’Asia centrale in conflitto, si sono trovati nell’incapacità di farlo senza passare attraverso la rete di trasporti russa, notoriamente lenta e poco sicura. Degli otto stati che hanno ottenuto l’indipendenza nel 1991, solo la Georgia ha uno sbocco in mare aperto.
Lo scopo del programma Transport Corridor Europe-Caucasus-Asia (Traceca), lanciato dall’Unione europea nel 1993, è proprio quello di fornire a questi otto paesi un’alternativa credibile al monopolio russo sui grandi assi di esportazione esistenti. Il progetto è stato successivamente esteso all’Ucraina e alla Mongolia. Rivolto solo ai mezzi di trasporto tradizionali (porti, reti stradali e ferroviarie), è stato completato da un importante documento dedicato agli oleodotti (Inogate) e da un progetto di corridoio aereo (Southern Ring Air Route), che trasformerebbero la regione in un vero e proprio “corridoio euroasiatico”.
Gli Stati uniti, anche se non sono stati tra i promotori, hanno portato ben presto il loro sostegno ai vari progetti, partecipando alla loro istituzione e rispondendo alle gare di appalto. Sembrano inoltre aver dimenticato le loro reticenze sul carattere poco democratico di alcuni di questi stati. Alla fine del 1996, per rendere ancora più attraente il programma inserendolo nel contesto di un vecchio mito, la via è stata ribattezzata “Strada della seta del XXI secolo” anche se in passato non si è mai utilizzato un percorso così settentrionale..
.
L’obiettivo iniziale degli occidentali è chiaro: il consolidamento degli otto nuovi stati sovrani implica per questi la possibilità di disporre di un margine di manovra nella scelta dei partner economici e di aprirsi realmente al mercato mondiale.
Il ripristino di alcuni passaggi di frontiera a sud ha avuto solo un effetto limitato: in genere questi varchi danno accesso a regioni contese o poco propizie a importanti flussi mercantili (Xinjiang, Afghanistan, Iran settentrionale, Turchia orientale). Dal punto di vista occidentale, l’asse transcaucasico presenta quindi il doppio vantaggio di evitare la Russia e l’Iran, e di rafforzare il ruolo cerniera della Turchia, principale alleato degli Stati uniti nella regione.
Quando nel 1994-95 il Traceca entra nella sua fase attiva, la Transcaucasia è praticamente separata dalla Russia: i due principali assi di trasporto sono bloccati l’uno dal conflitto abkhazo, l’altro dagli effetti del conflitto ceceno. L’Armenia si vede sottoposta a un duplice blocco sul versante azero e turco, mentre la via che potrebbe collegare l’Azerbaigian alla Turchia è resa impraticabile dal conflitto del Nagorno Karabakh.
L’effetto cumulato dei blocchi incrociati e delle crisi economiche provoca il crollo del commercio Nord-Sud, mentre la Russia vede messo in discussione il suo ruolo di primo partner dei tre stati transcaucasici. Europei e americani intendono approfittare della situazione per avviare un profondo riequilibrio geopolitico della regione. Come afferma non senza cinismo Zbignew Brzezinski, ex consigliere del presidente Carter, bisogna indebolire la Russia, ma per il suo bene: rafforzando la sovranità dei nuovi stati indipendenti, aprendo l’accesso delle loro ricchezze naturali alle imprese multinazionali si affretta il momento in cui Mosca abbandonerà definitivamente il suo approccio neoimperialista per diventare un partner responsabile, degno di avere un suo posto regionale nello scacchiere mondiale.
Per quanto svantaggiata dalle difficoltà economiche e dalle lotte di potere in corso al Cremlino, la Russia cerca di reagire.
Non solo le grandi compagnie petrolifere russe si sforzano di entrare in tutti i consorzi di esplorazione ai quali sono ammesse, ma Mosca rilancia attivamente le sue soluzioni di trasporto. La volontà di riaprire fin dal 1997 l’oleodotto Baku-Novorossiysk ha rappresentato un elemento determinante nella conclusione dell’avventura cecena e nella contrattazione con Grozny di un accordo finanziario per il transito del greggio.
Così, in occasione dell’inaugurazione il 12 novembre 1997 del primo petrolio uscito a Baku sotto il marchio del consorzio che lega l’Azerbaigian agli occidentali (Aioc), Boris Nemtsov (all’epoca ministro delegato ai carburanti) e Serghei Kirenko (ministro dell’energia di quel periodo) hanno affermato chiaro e forte che la via russa è e sarà la più competitiva.
Proposte realistiche e bluff Allo stesso tempo, per combattere l’idea di un unico “corridoio euroasiatico”, la Russia moltiplica le proposte di coinvolgimento internazionale. Oltre alla realizzazione dell’oleodotto Kazakhstan-nord Novorossiysk, Mosca negozia con Ankara un sensibile aumento delle consegne di gas russo (è allo studio sia un oleodotto diretto che passi sul fondo del Mar Nero sia un transito attraverso la Georgia o l’Armenia); con i greci sta studiando l’ipotesi di un oleodotto balcanico che permetta di evitare il Bosforo e rilancia diversi progetti volti a spezzare l’isolamento della riva orientale del Mar Caspio attraverso l’Iran. Oltre al settore petrolifero, Mosca cerca anche di consolidare il suo ruolo di ponte euroasiatico sviluppando i collegamenti ferroviari con la Cina o rilanciando la Transiberiana.
Tuttavia questa offensiva presenta due problemi. Il primo è di natura economica: non disponendo di finanziamenti propri sufficienti, la Russia è praticamente obbligata a fare ricorso per tutti questi progetti a partner esterni, spesso occidentali. Inoltre i trasportatori russi, come dimostra chiaramente il caso dei trasporti marittimi, sono attualmente ben lontani dall’offrire il livello tecnico raggiunto dalle grandi compagnie internazionali.
La concorrenza è ormai accanita. Per spezzare il monopolio russo sul trasporto del petrolio kazako, gli Stati uniti propongono la costruzione di un oleodotto sotto il Mar Caspio che raggiunga l’asse caucasico. Intanto Gazprom, Total e la compagnia malese Petronas hanno annunciato nel 1997 la conclusione di un accordo di sfruttamento di un giacimento di gas iraniano, di cui una parte potrebbe essere consegnata in Turchia.
Per quanto molto critici su questo accordo, che deroga alla legge sulle sanzioni contro l’Iran votata nel 1996, gli Stati uniti esitano a criticare direttamente la Russia e la Francia.
Ma sembra che abbiano cercato, offrendo crediti invitanti, di dissuadere la Malesia dal partecipare all’accordo e le abbiano proposto in cambio di prendere parte a un progetto in Turkmenistan, il cui presidente è stato ricevuto a Washington nell’aprile 1998. L’obiettivo della visita che faceva seguito a quelle dei capi di stato dell’Azerbaigian, della Georgia, del Kirghizistan e del Kazakistan avvenuta meno di un anno fa era proprio quello di portare Saparmurad Niazov a sposare la tesi del corridoio caucasico, disconoscendo gli accordi firmati con l’Iran e la Russia.
Del resto la scelta iraniana, ritenuta da molti ottimale dal punto di vista finanziario, non è più un tabù e la lobby petrolifera americana segue con interesse i cambiamenti in Iran. Durante le discussioni al Congresso del Silk Road Strategy Act, un testo che deve precisare la strategia degli Stati uniti in tutta la regione, alcuni hanno criticato il boicottaggio e hanno proposto un suo alleggerimento, quantomeno per i progetti che coinvolgerebbero, oltre all’Iran, paesi alleati come la Turchia.
Una tale inversione di rotta non comporterebbe forse dei vantaggi? Dopo tutto la via iraniana è la più breve verso il terminal turco di Ceyhan sul Mediterraneo, e la partecipazione di imprese americane permetterebbe probabilmente di evitare un avvicinamento, temuto da Washington, tra Russia, Iran e Armenia, quest’ultima diventata un partner privilegiato di Tehran dopo il blocco del Karabakh. In effetti i progetti Traceca comportano l’emarginazione dell’Armenia e molti esperti cercano i mezzi per reintrodurre Erevan nel dispositivo occidentale; ciò presuppone però che si sia trovato un compromesso accettabile nel conflitto con Baku.
La battaglia sulle reti di trasporto e quella sullo sfruttamento delle ricchezze sono collegate. E tutti i colpi sono permessi: destabilizzazione dei partner, lotta per i crediti e dumping sui prezzi, progetti sempre più grandiosi senza che si possa distinguere tra proposte realistiche e bluff.
Ma la Russia deve tener conto anche di un secondo problema, ancora più importante, e che riguarda la strategia complessiva seguita da Mosca in questa regione dal 1991. Per vari anni il Cremlino ha potuto fare affidamento sul patrimonio acquisito durante la sua secolare dominazione, senza prendere in considerazione la portata dei cambiamenti in corso. Nel quadro delle relazioni bilaterali quanto all’interno della Comunità degli stati indipendenti (Csi), la Russia ha condotto una politica che mescolava imprudentemente pressioni e promesse.
Sul piano economico, mentre numerosi settori russi si disimpegnavano dalle ex repubbliche del Sud preferendo partner occidentali considerati probabilmente più promettenti, le autorità hanno troppo spesso utilizzato le tariffe e le quote di transito come strumenti di pressione sugli stati dell’Asia centrale. Talvolta la Russia non ha esitato a fare ricorso all’arma della destabilizzazione: ne dà prova la cronologia comparata tra le manovre petrolifere azere e georgiane e i conflitti o le peripezie politiche transcaucasiche. Le pressioni della Gazprom, che propone sistematicamente di estinguere il debito di clienti come la Moldavia o l’Ucraina attraverso cessioni di attività nei settori strategici (reti di gas o imprese fornitrici di prodotti particolari), sono sentite come altrettante minacce alla sovranità di questi paesi.
La Russia ha tardato a rendersi conto della portata dei cambiamenti in corso: dopo il 1995-96 diversi stati hanno ritrovato la strada della crescita. Sanno di poter contare sull’appoggio dell’Occidente e intendono servirsene per consolidare la loro sovranità e rinegoziare i rapporti con la ex potenza tutelare. Non vogliono impegnarsi sulla strada di una costruzione sovranazionale con Mosca, e l’unione tra la Russia e la Bielorussia serve più da minaccia che da esempio.
Le prospettive di discussione aperte dal Traceca (che comprende un’importante integrazione tariffaria e doganale prefigurante una sorta di zona di liberoscambio) e i contratti petroliferi hanno favorito l’espressione politica di questo malcontento.
Riuniti per discutere sui contratti di fornitura degli idrocarburi dall’Asia centrale alla Moldavia così da spezzare il semimonopolio di Mosca in questo settore cruciale i dirigenti sono andati ben oltre le semplici discussioni di carattere tecnico. Dal tema dell’apertura si è passati a quello del distacco.
Nell’ottobre 1997, in margine alle riunioni del Consiglio d’Europa e dell’Organizzazione e per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), quattro paesi hanno creato un’associazione informale, il Guam (che prende il nome dai firmatari: Georgia, Ucraina, Azerbaigian e Moldavia).Questo incontro non è casuale: tutti e quattro devono fare i conti con movimenti secessionisti nei quali la Russia è fortemente implicata (Transdnestria, Crimea, Abkhazia, Ossezia del sud e Nagorno Karabakh).
Al vertice della Comunità degli Stati indipendenti (Csi) riunito nell’ottobre 1997 a Kisinev, la capitale moldava, i contestatori hanno reclamato con insistenza una revisione completa delle norme di funzionamento della Comunità, ritenuta inefficace se non addirittura inutile. Questo movimento è continuato nel gennaio 1998 in occasione del vertice dei presidenti dell’Asia centrale il quale, oltre che dell’avvenire della regione e della Csi, ha discusso dei progetti di trasporto che permettono di evitare la Russia.
A Mosca le reazioni sono diverse. Alcuni parlano di complotto occidentale. E’ interessante notare la concomitanza di queste critiche con l’avvio delle manovre dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del nord (Nato) in Ucraina e in Kazakhstan e con le scettiche affermazioni delle autorità americane sull’interesse a ogni forma di integrazione economica incentrata sulla Russia. Altri al contrario sottolineano la necessità di approfittare di questa crisi per chiarire definitivamente le relazioni tra i dodici stati della Comunità e ripartire su basi sane, privilegiando l’economia e rispettando pienamente le rispettive sovranità.
Ma l’inquietudine resta e gli esiti di questo grande gioco sono ancora incerti. Intanto i lavori del Traceca sono iniziati e non c’è dubbio che si profileranno vie differenti. Tuttavia buona parte dei progetti è ancora allo stadio di protocolli d’intesa.
Nel frattempo nella maggior parte dei paesi della regione la popolazione, a differenza dei clan che controllano i settori energetici e le esportazioni, non ha avvertito i benefici della nuova situazione.
Molti osservatori vedono in questo elemento un grave fattore di rischio, che potrebbe compromettere tutti i calcoli fatti: le tensioni sociali continuano ad aggravarsi e in stati in cui ogni conflitto locale può degenerare in una contesa etnica o regionale, la responsabilità delle potenze impegnate nel “grande gioco” è più che mai considerevole.




note:

* Professore dell’Istituto nazionale di lingue e culture orientali (Inalco), direttore dell’Osservatorio degli stati postsovietici.

(1) Si legga Vicken Cheterian, “Il grande gioco del petrolio in Transcaucasia”, le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre 1997.
(Traduzione di A.D.R.)



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