Terrorismo al servizio del farmabusiness

Risvolti e retroscena del terrore creato ad arte dai signori della guerra. Ecco i sospetti denunciati da Fulvio Grimaldi durante la presentazione a Milano del suo video Chi vivrà Iraq!

Ricordate l’Imperatore Costantino? In seguito alla vittoria su Massenzio, rammentate cosa accadde a Saxa Rubra?  Il pubblico che affolla la sala della biblioteca di Via Baldinucci a Milano sogghigna, memore di fatti e misfatti in una Saxa Rubra decisamente più recente.

Ma Fulvio Grimaldi, a Milano per presentare il suo video-reportage, introduce la serata con una metafora perspicace. Per chi abbia disimparato la storia più scolastica, la vittoria di Costantino consegnò al Cristianesimo il ruolo di religione ufficiale dell’Impero.

Presero così avvio le persecuzioni a danno dei pagani; e quando l’Imperatore Teodosio apprese dell’esistenza di un eminente centro di cultura in quel di Alessandria, trovò intollerabile che un tale serbatoio di potenziale dissenso all’Impero continuasse ad esistere e prosperare.

Alessandria, con la sua ricchissima biblioteca, fu distrutta. Lo stesso accanimento integralista uccise la giovane Ipazia, ideatrice dell’idroscopio, astronoma e filosofa, che venne liquidata dai ‘monaci assassini’ agli ordini del patriarca Cirillo.

Non fu un delitto inopinato: Ipazia, sapiente non cristiana, aveva scoperto l’eliocentrismo del nostro sistema planetario: Ecco qualcosa di inaccettabile per tutte le autorità che vogliano regnare sul mondo e imporre la loro egemonia: che si chiamino Imperatori Romani, Papi o Presidenti degli Stati Uniti poco importa. L’eliocentrismo del sistema era una verità scomoda, un’eresia da estirpare: Ipazia morì anche per questo”, continua Grimaldi.
Del resto, dovettero passare mille anni perché si riparlasse di eliocentrismo, ed una sorte altrettanto spiacevole toccò a Galileo. Convocato da Bellarmino e da Papa Urbano VIII affinché illustrasse le rivoluzionarie scoperte, Galileo commise un grave errore: divulgò le sue teorie in volgare, a uso e consumo del popolo.

Inaccettabile, per la Chiesa. Se conoscenza doveva esserci, che restasse blindata dietro i portoni di bronzo del potere. E questo è quel che accade ancora oggi. Ci sottraggono conoscenze e dati.

Continuiamo a non capire, e a credere scioccamente –come scioccamente eravamo persuasi che la terra fosse al centro del sistema solare- che l’Occidente sia al centro di ogni cosa. Neppure ci sfiora il dubbio che esistano altri centri possibili.

Ce lo contestano, con lo stesso accanimento integralista di Cirillo e Urbano VIII. E’ il medesimo meccanismo che continua a impedirci di conoscere la verità.

Ho realizzato questo video in Iraq per combattere l’ignoranza che viene scientificamente coltivata dai mezzi di informazione concentrati in pochissime mani, e integrati in un sistema sinergico con i poteri economici, politici e militari.

Oggi le grandi fonti di informazione sono tutt’uno con la grande industria. Alleati verso un unico traguardo: l’egemonia sul mondo e sui profitti che si possono ricavare dallo sfruttamento degli uomini e delle risorse
.

Così Fulvio Grimaldi mette in guardia il pubblico, e lo incoraggia a procurarsi fonti di informazione alternative, a cominciare da Internet. Anche nel tentativo di avere la meglio sul metodo di controllo e di profitto più subdolo del mondo moderno: la paura. Ci offre un buon paradigma istruttivo il Cinventare malattie per poter somministrare farmaci e trarne vantaggio economico.

Negli Stati Uniti si è recentemente discusso della sindrome  denominata GADgeneralized anxiety disorder, disturbo da ansia generale. Gli organi scientifici l’hanno tempestivamente definita ‘patologia’: quattro milioni di cittadini statunitensi ne sarebbero afflitti. Non avviene per caso, spiega Grimaldi: Nel momento in cui ci fanno credere che si tratti di patologia, allora è d’obbligo una terapia. La terapia è naturalmente un farmaco.

Il farmaco contro la Gad si chiama Paxil, e va a ruba, come capitò anche per il Prozac. Ecco il metodo: inventare malattie per poter somministrare farmaci e trarne vantaggio economico. Del resto, in seguito al panico da antrace magistralmente reclamizzato dai mass media, negli Stati Uniti si diffuse a macchia d’olio il vaccino anti-antrace, milioni di vaccini acquistati da ospedali e centri sanitari, aziende e privati cittadini.

E chi produce i vaccini? Sorpresa! Li fabbrica una società che si chiama BioPort Corporation. Che fa parte della holding Carlyle. E chi c’è fra i soci di maggioranza di questa holding? La famiglia Bush e la famiglia Bin Laden.

Ma tutto questo non è una novità: se foste un po’ più attenti sapreste che questi signori operano di conserva. Hanno sempre operato di conserva per trarre profitto e tenerci sottomessi. La paura, dunque, come infinita fonte di guadagno: dall’11 settembre in poi le vendite di armi ad uso personale negli Stati Uniti sono lievitate del 70%.

E sebbene negli anni ’90 in tutti i paesi occidentali si sia verificato un calo tangibile dei crimini in genere, la propaganda dei mass-media con la centralità assillante che viene data alla cronaca nera, ha creato uno stato di panico diffuso che fa incrementare le vendite di sistemi di controllo e di sicurezza, di allarme e di autodifesa.

Gli Stati Uniti sono maestri di questa sistematica proliferazione di angosce pubbliche e private: a ridosso dell’attentato alle Torri sono nate vere e proprie industrie specializzate in produzione di sistemi di sopravvivenza anti-terrorismo.

E le guerre che l’Occidente ha combattuto nel nuovo millennio hanno trovato ampio consenso  in un’opinione pubblica smarrita soprattutto grazie a questi timori sociali.

Nata come paura del singolo –acritica paura dell’ipotetico immigrato scippatore, dell’ipotetico sconosciuto stupratore, scassinatore, maniaco-, nemici fantasmi d’una società sempre meno lucida per via del battage pubblicitario somministrato in dosi massicce dalle televisioni e dai giornali, la paura s’è estesa a livello nazionale ed internazionale: angoscia che il ‘nostro’ mondo venga minacciato, colpito, contaminato da ‘mondi altri’.

L’Italia è un paese chiuso e intimorito, che a causa di questa paura accetta di partecipare ad operazioni di gendarmeria internazionale e le definisce ‘umanitarie’ per ripulirsi la coscienza. Eppure la nostra Costituzione, a cominciare dall’articolo 11 che dal governo D’Alema in poi sembra sia stato affisso nei cessi di Palazzo Chigi, è invece una Costituzione di apertura e di dialogo: l’Italia rifiuta la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, ricorda Grimaldi. E non smette di spingere il pubblico all’esercizio del dubbio:

Diffidate dei nemici che i mass media vi costruiscono su misura. Fate la tara su quel che vi raccontano: ve lo dice uno che ha lavorato sedici anni per una cerchia di individui che aveva come fine ultimo la criminalizzazione dei nemici: i nemici dei padroni, naturalmente. Fate la tara  anche su quel che vi raccontano oggi sull’Iraq.

Ricordatevi quel che vi hanno raccontato per giustificare i bombardamenti sulla Jugoslavia. Non vedevate gli ospedali, le scuole, gli ospizi, le case dei civili sbriciolate.

Lo stesso è accaduto con l’Afghanistan: non vi hanno mostrato i pastori, i contadini sotto le bombe.
E allo stesso modo non vi fanno vedere gli iracheni. Non li conoscete, non sapete cosa pensano, cosa fanno, come vivono. Perché conoscendoli rischiereste di stabilire un rapporto empatico.

Potreste ribellarvi alle ingiustizie e alle diffamazioni che questi popoli subiscono. Potreste diventare sempre più convinti di una verità differente da quella ufficiale e cominciare a sostenere la causa della pace
.

La proiezione del video-reportage, realizzato in più riprese nel corso degli ultimi anni, coglie impreparato un pubblico non più avvezzo alla visione di immagini prive di effetti ‘troppo speciali’ e di dolcificanti emotivi e narcotici politici.

I lavori in video di Fulvio Grimaldi (Popoli di troppo, Serbi da morire, Jugoslavia/Il popolo invisibile, per citarne alcuni) hanno sempre la consistenza fondata della realtà: la gente nelle scuole, nelle strade, nelle case, allo stadio, nelle fabbriche, nei musei, nelle università e nei mercati dell’Iraq.

E’ la vita quotidiana che –veduta senza il filtro della propaganda- non appare più incivile come è di rigore far credere per dare avvio a nuovi bombardamenti. La storia di un’antica civiltà fiorita sul Tigri e l’Eufrate si legge nei volti e nei luoghi che Grimaldi riprende con grande semplicità.

Le vicende di un Iraq scomodo, “modello sociale che impensieriva l’imperialismo” per usare le parole del giornalista che guidano durante la visione del documentario, l’inferno di una guerra decennale e delle sanzioni imposte che hanno causato oltre un milione e mezzo di morti civili, le interviste a Ramsey Clark e Padre Benjamin, la presenza dei volontari di Un ponte per Baghdad fanno del video di Fulvio Grimaldi una lezione pratica di storia contemporanea.

E le visite agli ospedali di Bassora e Baghdad, che mostrano le vittime dell’uranio impoverito e delle patologie più elementari (dissenteria, colera, denutrizione) causate dall’embargo che agisce come soluzione finale hanno, della storia moderna e della realtà, tutto il peso. Un peso che le nostre televisioni ‘democratiche’ non sembrano disposte a sopportare.      
(sabato 7 dicembre 2002)

Indymedia Italia – network di media indipendenti


L’articolo originale e’ recuperabile a http://italy.indymedia.org/news/2003/02/170798.php

Le grandi manovre…….della finanza.

by agapito@robles Friday February 07, 2003 at 01:48 PM

Volete sapere perchè Berlusconi è schierato (per non dire prono) in maniera aprioristica con gli States (o meglio, con la famiglia Bush)?

Semplice.

Mediobanca (Maranghi- E. Doris – Berlusconi) e Carlyle (Bush senior) vorrebbero approfittare del “disordine” giuridico-istituzionale causato dalla guerra e dalle spossanti liti interne, per creare un nuovo oligopolio finaziario transnazionale (Usa – Ita) spostando gli equilibri geopolitici.
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MEDIOBANCA: FT, STUDIA MAXI-FONDO DA 1 MILIARDO DI EURO CON CARLYLE

MA RESTANO DA SUPERARE OSTACOLI NORMATIVI

Roma, 7 feb. (Adnkronos) – Carlyle, il gigante statunitense di private equity, è in trattative con Mediobanca per lanciare un maxi-fondo da 1 miliardo di euro. Lo riferisce il Financial Times secondo il quale se l’accordo andasse in porto, sarebbe la prima volta che una società di private equity avrà raccolto una somma così ingente da una singola istituzione[“Silvio vuole dimostrarsi fedele per non farsi scappare l’affare, tutto qui!Dell’affaire Iraq, non gliene può fregà de meno!”].

http://www.adnkronos.com/IGNDispacci/20030207/ADN20030207114254.htm

http://www.wallstreetitalia.com/articolo.asp?ART_ID=145732


  [06.06.2002]

LA SAGA DI MEL E BETTY SEMBLER


I guerrieri contro le droghe in America

Di Arnold S. Trebach
Professore Emerito American University

Washington DC, 6 giugno 2002  

Da orgoglioso americano quale sono, trovo che Melvin Sembler, il nostro ambasciatore in Italia, e sua moglie, Betty, sono per me motivo di profondo imbarazzo. E’ importante che i loro espedienti sulla lotta alla droga e in particolar modo sul trattamento verso i pazienti, siano del tutto ignorati. Di certo, sarebbe meglio che gli italiani ascoltassero cosa ha da dire sulle droghe questa potente coppia, per poi seguire esattamente le politiche contrarie.
Anche i migliori paesi nel mondo hanno il loro punto debole. Uno dei peggiori punti deboli del mio bel paese è la nostra dedizione alla guerra alle droghe. Uno dei peggiori aspetti della guerra statunitense alle droghe è il supporto al trattamento “Toughlove” [letteralmente Amore violento, ndt] per gli abusi di droghe. Il trattamento Toughlove enfatizza i metodi duri verso i giovani tossicodipendenti. Una delle peggiori organizzazioni che impiega le misure violente del Toughlove verso i giovani è la Straight, Inc. Questa organizzazione, nata negli anni settanta, è cresciuta sino a venti sedi in tutti gli Stati uniti. Le caratteristiche essenziali della Straight includono, tra le tante, la seguenti: sospetta incarcerazione forzata di giovani consumatori e in abuso di droghe, spesso in seguito alla richiesta di genitori esasperati. La Straight è inoltre accusata di: aver trattenuto giovani in regime di isolamento dal mondo esterno per mesi o anni; aver ridotto i contatti con genitori o altri parenti prossimi, eccetto in particolari circostanze controllate; aver obbligato questi prigionieri a sedere in una grande stanza per dieci, dodici ore e anche più, ogni giorno obbligandoli ad ascoltare letture o confessioni di colpevolezza l’uno dell’altro; aver utilizzato il cibo come arma di controllo; aver provveduto loro alla minima quantità di cibo, con il risultato che molti dei giovani prigionieri hanno perso sensibilmente peso; la possibilità di utilizzare il bagno basata sugli schiribizzi del momento dello staff del Toughlove, il che significa che spesso molti dei giovani si sedevano sui loro stessi escrementi; l’uso della forza fisica per bloccare coloro che obiettavano a questo brutale trattamento o che cercavano di scappare. Una ventina di giovani si sono procurati tagli su tutto il corpo o hanno tentato il suicidio senza che alcuno vi riuscisse, per quanto ne so, probabilmente perché sorvegliati costantemente. Tragicamente, decine di loro sono riusciti nei loro intenti auto-distruttivi, dopo aver lasciato i centri. Numerose cause civili e procedimenti penali sono stati condotti nei confronti di alcune persone della Straight di molte sedi negli Stati uniti. Sono state decine, anche centinaia le vicende raccontate sulla carta stampata e nei media televisivi riguardo a questi orribili abusi da parte della Straight. Io stesso ho scritto molto riguardo agli Straight e uno dei loro prigionieri, il giovane Fred Collins, in uno dei miei libri sulle politiche riguardanti le droghe, “La grande guerra alla droga” [The great drug war], pubblicata nel 1987 dalla Mac millian. Collins ha testimoniato in una corte federale gli abusi che lui stesso ha subito e ottenne 220mila dollari di risarcimento nel 1983. Altre giovani vittime hanno ricevuto anche somme maggiori vincendo cause civili, dalla Straight o altre organizzazioni ad essa correlate. Per anni ho lavorato per chiudere la Straight. L’ho fatto come professore e scrittore indipendente e come fondatore della Drug Policy foundation, che ha contato 20mila iscritti negli Stati uniti e in altri paesi. Così hanno fatto molte altre persone, molti dei quali, come Wes Fager, erano genitori di reclusi dagli Straight, altri, come Richard Bradbury, avevano “soggiornato” dagli Straight. Per i primi anni ignoravo l’esistenza di Melvin e Betty Sembler. Tutto cambiò durante una visita a Melbourne, in Australia, nel 1989, quando fui invitato ad una conferenza internazionale sulla droga. Un giorno durante la conferenza, io ero stato inserito come oratore nel pannello che riguardava le riforme delle leggi sulle droghe, con una maggioranza di oratori australiani, ma anche esperti provenienti da tutto il mondo. Uno degli oratori era Donald Ian McDonald, principale consigliere in materia del presidente Reagan. Quando arrivò il suo turno di parlare, McDonald proruppe in un attacco personale nei miei confronti: la mia presenza lì era una vergogna. Rimasi di stucco e quando salii io sul podio per parlare, dissi più o meno così: “Sono grato per questo attacco:lei, dottor McDonald siede al fianco destro del presidente Reagan e lei lo ha consigliato sulle politiche nazionali e internazionali sulla lotta alla droga. Lei dimostra, grazie a questo attacco, meglio di quanto avrei potuto fare io, come sia carico di rabbia il cuore della politica statunitense sulla droga. E’ comunque una vergogna che lei si sia comportato così di fronte a tanta gente e davanti all’ambasciatore statunitense e sua moglie, seduti nelle prime file”. Non avevo mai incontrato Mel Sembler, ma mi era stato indicato, seduto vicino alla moglie, seduto in prima fila. L’oratore principale di quella serata in un hotel a cinque stelle non era altri che l’Onorabile Melvin Sembler. Quando prese la parola, fu molto cortese e ringraziò “il dottor McDonald e il signor Trebach” per la loro presenza, poiché, disse, era interessato ad ascoltare tutti i punti di vista su questo argomento. Quindi disse una cosa che scioccò me e mia moglie, Marj Rosner, e ci fece saltare sulla sedia. Disse parole quali: “conosco un po’ il problema della politica sulle droghe e sui trattamenti poiché molti anni fa, con altre otto persone a St. Petesbourg, in Florida, ho fondato un’organizzazione, chiamata Straight, Inc., che ha aiutato molti ragazzi con problemi di droga”. Quindi iniziò a spiegare come funzionava il programma di recupero, facendolo sembrare meraviglioso. Mentre continuava, io e mia moglie non riuscivamo a credere alle nostre orecchie. Davanti ad una platea internazionale di funzionari ed esperti, l’ambasciatore americano in Australia stava sostenendo che uno dei programmi peggiori di riabilitazione era invece uno dei migliori, senza nemmeno un cenno a tutti i processi persi e a carico. Mentre io e mia moglie commentavamo sempre più animatamente, le altre persone al nostro tavolo, soprattutto funzionari stranieri, gentilmente ci chiesero cosa ci avesse turbato tanto. Spiegammo brevemente e un alto ufficiale olandese ci rispose: “Ah, si, conosco il programma: la gioventù hitleriana”. Durante i giorni seguenti, feci alcune apparizioni sulle radio e televisioni australiane, tra cui il Today Show, avvertendo di non seguire i consigli distruttivi dei Sembler sulle politiche contro le droghe, allo stesso modo in cui ora avverto gli italiani. Fortunatamente, le politiche sulle droghe in Australia sono indirizzate verso una direzione più salutare. Negli anni seguenti a quel traumatico incidente a Melbourne, sono felice di poter dire che l’organizzazione originale chiamata Straight, Inc. è stata obbligata a chiudere sotto il diluvio di cause civili e nuove rivelazioni. Questo per quanto riguarda le buone notizie.
Ho scoperto che il dottor McDonald era stato il direttore delle ricerche della Straight prima di diventare consigliere di Reagan alla Casa bianca. Numerosi altri nuovi metodi sono nati sul modello della Straight, continuando così le sue pratiche distruttive. Mel e Betty Sembler continuano ad essere i maggiori leaders americani di politiche sulle droghe, ottenendo supporto non solo da dottori in vista come il dottor McDonald, ma anche da politici, tra cui la famiglia Bush. I Bush hanno fondato numerose nuove organizzazioni per la riabilitazione, in particolare la Drug-Free America Foundation, Inc., che appare come il diretto erede della Straight. I Sembler tengono in pugno importanti posizioni politiche nella struttura di potere repubblicana, riguardo alle politiche sulle droghe. Il sito web del Comitato repubblicano nazionale, l’RNC, il gruppo dominante nella sfera repubblicana, e lo stesso signor Sembler riassumono su internet altri fatti molto significativi: rivelano che Sembler è la mente dietro al grande successo di una catena di più di cinquanta shopping centers, funzionario del Comitato nazionale per la finanza e la direzione che appoggiava la campagna elettorale per Gorge Bush Presidente nel 1998, il Direttore alla finanza per l’insediamento a presidente di Bush padre nel 1989 e un funzionario del museo sull’Olocausto. Ma, probabilmente la cosa più importante al momento è che il signor Sembler è il maggior finanziatore del partito repubblicano: direttore delle finanze dell’RNC. Il sito web del Comitato repubblicano nazionale orgogliosamente sottolinea che “nel 1976, Sembler e la moglie fondarono la Straight, un nuovo programma di riabilitazione dalla droga. Nei suoi diciassette anni di esistenza, la Straight ha promosso più di 12mila ragazzi in tutto il mondo grazie al suo programma”. Quindi, i Sembler uniscono un forte potere economico [che serve per comprare gli incarichi da ambasciatore] al dominante Partito repubblicano e all’impegno ideologico verso alcuni dei peggiori dogmi mai creati nella storia degli Stati uniti, il mio paese, che [chiedo scusa a coloro che non guardano questo nobile paese con i miei occhi] io credo essere la grande speranza del mondo. Appare ancora peggiore l’idea che vogliano esportare questo dogma repressivo in altri paesi nel mondo, come l’Italia. A coloro che si oppongono ai programmi della Straight, che abusano di ragazzi nel nome della riabilitazione dalle droghe, Betty Sembler ha risposto che lei e il marito non hanno nulla da nascondere e che coloro che li criticano cercano di legalizzare le droghe. Questa è una falsità ed è fuorviante, perché bisogna soppesare separatamente le critiche. Primo, secondo la mia personale opinione, il bisogno di trattamenti civili e umani deve essere la prima cosa. L’alcool è legale praticamente ovunque e ancora c’è bisogno dello stesso trattamento positivo di quello per i casi di eroina, che invece è quasi ovunque illegale. Secondo, anche se fossero rese legali tutte le droghe, una posizione che io appoggio fortemente, la necessità di un trattamento umano nei programmi riabilitativi continuerebbe. In altre parole, il mio impegno, a livello mondiale, per la legalizzazione delle droghe, non significa incoraggiare l’uso delle droghe, né significa che io mi astenga dalla responsabilità di lavorare per metodi efficaci di riabilitazione. I Sembler non comprendono queste concezioni. Come molti “guerrieri” contro la droga negli Stati uniti, così come in Italia, si oppongono fortemente alla legalizzazione, approvando metodi brutali e incivili per riabilitare consumatori e dipendenti dalle droghe. Sembrano non capire che la crudeltà e l’estrema irrazionalità fanno parte sia delle leggi proibizioniste, sia dei metodi repressivi nei trattamenti sulle droghe. D’altronde, nessuno dei due metodi funziona nella vita reale. Il dottor Arnold S.Trebach ha alle spalle una lunga esperienza in trattamenti e politica sulle droghe ed è stimato ed apprezzato in tutto il mondo. Ha scritto numerosi libri e articoli. Fondatore ed ex presidente della Drug policy foundation, ha fatto parte del Partito radicale transnazionale.

 E-mail arnold@trebach.com
Sito web www.trebach.com visitate anche il sito di Wesley Fager www.thestraights.com [traduzione di Carlo Dutto] http://www.clorofilla.it/articolo.asp?articolo=2590 



Valerio Ricci

L’Italia e il grande
 gioco asiatico

http://www.asslimes.com/documenti/mondialismo/

l’italia%20e%20il%20grande%20gioco%20asiatico.htm 

Il precedente della guerra del golfo
Obiettivi reali e obiettivi dichiarati nella guerra moderna
L’impero marittimo americano ed il controllo dell’Hearthland
La nuova via della droga. La battaglia degli oleodotti
L’importanza di una politica di potenza italiana ed europea.

Prima di ordinare ai propri generali l’invasione del Kuwait, Saddam Hussein ebbe un lungo colloquio con l’ambasciatrice americana a Bagdad. La guerra con l’Iran era finita da pochi anni e gli irakeni credevano di poter riscuotere i crediti internazionali maturati in precedenza. Gli USA in effetti, preferendo l’ideologia Baath del laico Irak alla dottrina Sharia della teocrazia di Teheran, in pochi anni avevano garantito a Saddam Hussein un potenziamento militare straordinario e l’impunità per l’enorme utilizzo di gas tossici contro gli iraniani. Nel 1991, forte di un appoggio occidentale pluridecennale, il dittatore di Bagdad era convinto di poter occupare il piccolo ed opulento emirato confinante rischiando al massino una condanna formale dell’ONU o, al limite, un conflitto di bassa intensità. L’ambasciatrice USA, avendo ricevuto istruzioni tanto generiche quanto sospette da Washington, sembrò confermare le impressioni di Saddam Hussein. L’invasione del Kuwait, invece, portò l’Irak al massacro. Gli USA, bandendo in fretta la crociata umanitaria, scatenarono l’inferno contro Bagdad. La guerra durò circa un un e mezzo ed il Kuwait venne “liberato” con estrema facilità. Bush senior tuttavia, invece di proseguire il conflitto sino alla capitale irakena, fatto che avrebbe comportato la destituzione di Saddam Hussein, preferì porre fine alle ostilità. L’obiettivo dichiarato ovvero la realizzazione di un’operazione di polizia internazionale era stato centrato. Ma, soprattutto, venne raggiunto l’obiettivo reale dell’intervento militare americano nel golfo. La guerra aveva permesso a Washington, per la prima volta nella storia, di imporre un controllo militare diretto sui giacimenti petroliferi del golfo persico. Gli americani, escludendo clamorosamente il loro tradizionale partner mediorientale di Tel Aviv, avevano allestito a tale scopo una coalizione internazionale forte del sostegno di numerosi paesi arabi piùo meno moderati: Arabia Saudita, Egitto, Marocco, Oman, Qatar etc. Gli USA, in questo modo, poterono stanziare per la prima volta le proprie truppe in Arabia Saudita. Oggi, a più di dieci anni dal conflitto, sono ancora lì. I nuovi equilibri determinatisi a loro favore spieganoperché gli americani abbiano imposto una relativa pacificazione dell’area del golfo, minacciata ‘potenzialmente’ dalla presenza del dittatore di Bagdad ancora solidamente al potere. E proprio la ‘minaccia” permanente irakena a giustificare oggi le basi militari americane in Arabia Saudita. La pacificazione del golfo ha trovato sin dall’inizio due grandi avversari i cui interessi attuali da una parte confliggono e dall’altra convergono. Se il fondamentalismo islamico, infatti, considera la liberazione della Mecca un obiettivo prioritario, il nazionalismo israeliano vede nella “pace” americana in medio oriente un ostacolo oggettivo alla sua politica di espansione nei territori palestinesi. Il precedente significativo della guerra del golfo consente di evidenziare un aspetto peculiare della guerra moderna, a suo modo un segno eloquente dei tempi, per cui nei conflitti militari l’obiettivo reale non coincide mai con quello ufficialmente dichiarato. Quest’ultimo assume un’importanza del tutto relativa. Le stragi dell’11 settembre hanno motivato la reazione militare anglo-americana contro il regime talebano di Kabul, colpevole di aver protetto Bin Laden e la sua multinazionale del terrore. Se però la guerra del golfo costituì l’effetto evidente della strategia per il medio oriente concepita da Bush senior e dalle lobbies che lo sostenevano, la genesi dell’attuale crisi mondiale appare molto più complessa, chiamando in causa una pluralità di soggetti e di interessi contrapposti, anche all’interno dello stesso mondo occidentale, non facili da decifrare dall’esterno. L’abbattimento di un aereo siberiano da parte della contraerea ucraina e la tragedia del 12 novembre, in tal senso, hanno posto interrogativi inquietanti. Quello che rileva in tale sede, tuttavia, è l’individuazione delle ragioni reali dell’intervento militare anglo-americano nel cuore dell’Asia. Anche in tal caso la coalizione planetaria allestita in grande fretta è nata con l’obiettivo dichiarato di realizzare un’opera di polizia internazionale, consistente in concreto nella “liberazione” dell’Afghanistan e nella cattura del terrorista saudita. Ma l’obiettivo reale è di ben altra natura.L’Afghanistan, stretto tra l’Asia centrale e le regioni che si affacciano sull’oceano indiano, è situato in una regione di estrema rilevanza geopolitica, soprattutto per gli USA che costituiscono per definizione un impero essenzialmente marittimo. La talassocrazia statunitense si estende da sempre lungo l’Oceano Atlantico trovando nella massa continentale centroasiatica, ad essa tradizionalmente estranea, un naturale bilanciamento del suo potere. Questa regione, denominata Hearthland dal geopolitico inglese sir Halford Mackinder, costituirebbe a livello strategico il “perno” del mondo. Mackinder sosteneva che in linea teorica il controllo dell’Hearthland consente il controllo dell’isola del mondo (l’insieme della massa continentale eurasiatica e dell’Africa) mentre il controllo di quest’ultima permette a sua volta il dominio sul mondo stesso. Se gli americani, già dominatori degli oceani, arrivassero in un futuro non immediato a controllare l’Hearthland, si determinerebbe a loro favore una situazione di egemonia mai raggiunta sin ora. La stampa iraniana vicina all’Ayatollah Khamenei, del resto, ha interpretato le manovre USA nel cuore dell’Asia come l’effetto di una nuova strategia americana finalizzata nel lungo periodo alla definizione di un “mondo unipolare”. Prima dei fatti dell’11 settembre le prospettive geopolitiche degli USA erano assai differenti e l’unipolarismo a stelle e strisce sembrava un’ipotesi impraticabile. La grave crisi economica del gigante economico americano, la graduale crescita dei partners occidentali, l’irrompere anche a livello economico di potenze extraeuropee dotate di risorse nucleari, si erano saldate ad una forte tendenza neoisolazionista affermatasi nello stesso impero americano, lasciando presupporre un futuro scandito da un inedito policentrismo geopolitico. Questa tendenza neoisolazionista ha trovato però una forte opposizione sia all’interno degli stessi potentati USA sia negli alleati storici degli americani in medio oriente, gli israeliani, in rotta con la famiglia Bush e le sue lobbies di riferimento dai tempi della guerra del golfo. L’abbattimento delle torri gemelle e l’attacco al Pentagono hanno generato una crisi mondiale talmente forte da mischiare completamente tutte le carte in tavola. La linea Huntington, fondata sulla formula del conflitto tra civiltà e rigettata dall’amministrazione Bush, torna prepotentemente di attualità. Una presenza militare nel cuore dell’Asia, sino a ieri, sembrava impensabile. Oggi le divisioni di montagna dell’esercito USA, giustificate dalla necessità di intervenire rapidamente in Afghanistan, sono stanziate presso le basi militari uzbeke, a metà strada tra i giacimenti petroliferi del Caspio e le regioni occidentali della Cina. L’Uzbekistan, governato da un regime autoritario in lotta con il fondamentalismo islamico, è uno dei paesi dell’area centroasiatica più ricco di risorse energetiche al punto di meritare citazioni particolari, certo non casuali, nell’ultima fatica editoriale di George Soros. Washington ha precisato da subito che si sarebbe trattato di una guerra molto lunga (di cui la liberazione di Kabul ha rappresentato solo la prima fase) lasciando intendere una presenza continuativa del proprio contingente militare nella repubblica postsovietica. Gli americani, in questo modo, hanno aperto la partita per il controllo dell’Hearthland che si giocherà in modo decisivo nei prossimi anni, muovendo innanzitutto dall’attuale e non agevole gestione del governo afgano postalebano  del presidente Rabbani. Questo governo, in ogni caso, non potrà prescindere dal sostegno determinante dell’etnia di maggioranza pashtun. L’unica attività commerciale svolta in Afghanistan negli ultimi decenni è stata quella della droga: Kabul è il principale produttore mondiale di oppio. Il 90% dell’eroina presente nel mercato europeo esce da laboratori afgani e pakistani. La lotta internazionale alla produzione e al traffico di droga, negli ultimi anni, ha assunto tratti molto spesso grotteschi tali da suscitare sospetti negli osservatori più maliziosi. Lo United Nations Drug Control Program, diretto da Pino Arlacchi, già nel 1997 iniziò un’opera di pressione verso il regime afgano per indurlo a rinunciare alla produzione di oppio, proponendo in alternativa la conversione dei campi in coltivazioni di mandorle e albicocche. A tale scopo Kabul percepì un finanziamento di 16 milioni di dollari. Gli effetti dell’indulgente politica dell’UNDCP furono disastrosi perché aumentò sino a garantire, nel 1999, un raccolto annuo più che duplicato rispetto al precedente. Il solo Afghanistan in quell’anno immagazzinava 4691 tonnellate di oppio rispetto alle 6000 complessive mondiali. Lo United Nations Drug Control Program aveva fallito clamorosamente e qualcuno si interrogò sulla singolare fretta di Kabul nell’accumulare quantità di oppio che eccedevano, di gran lunga, la “domanda” del mercato europeo della droga. Nel 2000 la produzione continuava a marciare spedita quando il mullah Omar emise un decreto di divieto assoluto della coltivazione di oppio. Sul finire della primavera del 2001, quasi d’incanto, i satelliti russi ed americani attestavano che le coltivazioni dell’oppio erano state eliminate da tutto il territorio allora controllato dai talebani, pari al 90-95% dell’Afghanistan. Le coltivazioni permanevano solo nelle zone come Badakshan che già prima della guerra erano controllate dall’alleanza del nord. Malgrado i toni trionfalistici assunti da qualche media, tuttavia, il problema droga in Afghanistan non solo permaneva, ma assunse toni ancora più preoccupanti. L’oppio immagazzinato negli ultimi anni, secondo i dati forniti dalla Conferenza Interpool già nel 2000, consente all’Afghanistan di rifornire i tossicodipendenti europei per i prossimi tre anni. I bombardamenti anglo-americani avrebbero reso impossibile la coltivazione dell’oppio e gli osservatori più smaliziati riflettono sulla sorprendente lungimiranza dimostrata dai talebani nella programmazione della produzione che, tra l’altro, ha comportato un aumento vertiginoso dei prezzi della droga acquistata in territorio afgano. Questo rialzo dei prezzi è pari al mille per cento. Le ultime novità del mercato dell’eroina, inoltre, riguardano anche le rotte del traffico europeo. Un elemento di novità ha messo in crisi la tradizionale rotta balcanica che, muovendo dall’Afghanistan, supera l’Iran, passa la Turchia e attraverso il corridoio kosovaro raggiunge l’Europa. L’Iran infatti, preoccupato dall’aumento straordinario del consumo di oppio nel proprio territorio, ha intrapreso una lotta reale al traffico di eroina arrivando ad intercettare, da solo, circa la metà dell’eroina sequestrata in tutto il mondo. Questo ha indotto i narcotrafficanti ad impegnare una nuova rotta, quella baltica. Essa descrive una traiettoria che partendo dall’Afghanistan taglia le repubbliche postsovietiche, raggiunge Mosca e di lì, muovendo verso il Baltico, scende poi nel resto d’Europa. Nel 2000 l’Interpool annunciava il crescente ruolo acquisito dalla nuova rotta baltica che oggi si dimostra perfettamente alternativa a quella balcanica. Il prezzo dell’eroina sale vertiginosamente durante il tragitto lungo questi paesi privi, sino a ieri, della presenza militare americana. Essa, al confine afgano costa dai 2 ai 4 mila dollari al chilo, in Kirghizistan 7 mila mentre a Mosca balza a 50 mila. Nel mercato europeo, da ultimo, può arrivare ad un prezzo pari a 100 mila dollari al chilo. Le necessità logistiche della guerra all’Afghanistan hanno consentito alle truppe americane di trovarsi di nuovo in un territorio che va ad intrecciarsi con le rotte dei trafficanti di eroina in viaggio verso l’Europa. Persino quotidiani come il “Corriere della Sera”, al di sopra di ogni sospetto di anti-americanismo preconcetto, hanno raccontato la “singolare” vicenda del Generale Dostum, militare dell’Alleanza del nord notoriamente legato alla CIA. Dostum, ricercato dai taliban, ma inviso anche all’alleato Massud (ucciso proprio pochi giorni prima delle stragi americane), per alcuni anni si nascose tra l’Iran e la Turchia. Dopo la tragedia dell’11 settembre è tornato in Afghanistan, puntando direttamente alla liberazione del suo vecchio “feudo” Mazar-i-Sharif. Raggiunto il suo obiettivo verso la metà dello scorso novembre, il Generale Dostum ha trovato pressoché intatti gli hangar della sua linea aerea privata, utilizzata in passato per esportare l’oppio a Samarcanda. Ad inizio degli anni novanta sia la CIA sia l’ISI, il servizio segreto pakistano, iniziarono a lavorare in Afghanistan nel contesto di un quadro operativo che consentì successivamente l’ascesa al potere dei talebani. L’obiettivo era quello di porre le condizioni idonee alla realizzazione, in un futuro non immediato, di un oleodotto e di un gasdotto che, muovendo dalle repubbliche centroasiatiche postsovietiche, attraverso l’Afghanistan ed il Pakistan, raggiungessero il mare arabico. L’esecuzione di un questo progetto avrebbe determinato una situazione oggettivamente sfavorevole agli interessi russi ed iraniani. Le grandi compagnie anglo-americane, consapevoli delle enormi risorse di petrolio e di gas naturali offerte dalle regioni che si affacciano sul Caspio, da tempo studiano per questo motivo strategie di intervento nel cuore dell’Asia. Le ricerche americane del resto, effettuate in Alaska e nelle terre del nord, hanno fornito risultati deludenti, accentuando ulteriormente l’importanza strategica dell’area centroasiatica in termini di potenziale energetico. Nel frattempo è entrato in funzione l’oleodotto Tangiz-Novorossijk che, saldando il Kazakistan alle coste russe del Mar Nero, ha innescato un business internazionale di proporzioni gigantesche. Questo oleodotto esalta il ruolo geoeconomico della Russia e potrebbe determinare per l’Europa, da sempre sottoposta al “ricatto” del petrolio, una svolta di portata epocale. Nel maggio scorso l’ENI, giocando d’anticipo, ha acquisito i diritti di sfruttamento dei giacimenti della regione russa di Astrakhan che si affaccia proprio sui pozzi petroliferi di Tangiz. Un altro progetto di oleodotto, altrettanto rilevante sotto il profilo economico, è quello di Kashagan-Kharg Island. Esso prevede il collegamento del Caspio con le coste iraniane. Il 23 luglio scorso del resto, proprio nel Caspio, Londra e Teheran avevano rischiato un serio incidente diplomatico: la marina militare iraniana respinse verso la costa azera una nave della British Petroleum che stava effettuando prospezioni ritenute sospette. Oggi la crociata “umanitaria” nel cuore dell’Asia consente alle multinazionali anglo-americane di tornare in gioco nella partita del pètrolio e del gas, determinando un nuovo rimescolamento delle carte. I progetti di oleodotti e gasdotti diretti sia verso le coste sia verso l’interno del Pakistan, tornano prepotentemente di attualità. E infatti evidente che chiunque voglia recitare un ruolo di primo piano nella nuova epoca, sorta con la tragedia dell’11 settembre, non può essere estromesso dal “grande gioco” asiatico. Si deve considerare, a tale proposito, che la situazione politica dei paesi adiacenti al Caspio è fortemente instabile. Questo lascia supporre che le grandi potenze mondiali, formalmente concordi nell’azione di liberazione di Kabul, hanno avviato dietro le quinte una contesa a livello d’intelligence che troverà nelle numerose conflittualità etniche presenti nella regione uno dei suoi punti chiave. Gli USA hanno fatto la prima mossa. La presenza militare anglo-americana in Uzbekistan infatti, giustificata dalle necessità logistiche della guerra contro il regime taliban, ha sancito il nuovo orientamento di politica internazionale del regime di Tashkent. Dopo una continua e a volte convulsa oscillazione tra Mosca e Washington., il presidente Karimov ha posto le basi per una relazione stretta e duratura con gli americani.
Il rischio di una reimpostazione complessiva della geopolitica dell’Asia centrale in chiave antirussa ed  antieuropea, pertanto, inizia a farsi evidente proprio nel momento in cui sembravano emergere, sulle rive del Mar Nero, le serie premesse di un’evoluzione improvvisa della prospettiva eurasiatica. Un errore commesso da taluni dopo l’11 settembre è stato quello di ritenere il fondamentalismo islamico sprovvisto di un disegno strategico di ampio respiro. Se al-Qa’ida non è il frutto di alcuna fiction televisiva, ipotesi per la verità piuttosto azzardata, allora risulta impossibile equipararla alle organizzazioni estremistiche occidentali. Le potenzialità finanziarie e le modalità operative dimostrate dalla nuova multinazionale del terrore, a prescindere dalle probabili e finanche ovvie connivenze, testimoniano l’esistenza di un progetto complesso che esclude categoricamente ogni forma di improvvisazione. Di là dai numerosi interessi che hanno generato la crisi mondiale dell’11 settembre, è arduo sostenere che il fondamentalismo islamico abbia agito per puro masochismo. Concepire l’attacco a New York come un’azione fine a sé stessa che, anzi, avrebbe determinato in tempi brevissimi il solo risultato della perdita dell’Afghanistan, appare un paradosso insostenibile. Occorre ricordare che l’escalation del terrorismo islamico contro gli USA ebbe inizio con il primo attentato al Word Trade Center nel 1993 ovvero due anni dopo lo stanziamento militare americano in Arabia Saudita. La “riconquista” di questo paese, all’interno del quale è situata La Mecca, costituisce ovviamente l’obiettivo prioritario del fondamentalismo islamico. Se la stessa Palestina infatti, malgrado la recente crescita di Hamas e della Jihad, assume un’importanza secondaria nell’ambito di un’ipotetica strategia fondamentalista, l’Afghanistan è stata in questi anni, oltreché una redditizia fonte di finanziamento, una mera base logistica e di addestramento dei nuovi miliziani dell’Islam. La rapida caduta di Kabul, dopo l’apocalissi dell’11 settembre, era oggetto di previsioni addirittura scontate. E’ probabile, pertanto, che la strategia islamica si snodi sul lungo periodo. La guerra in Afghanistan ha schiuso agli americani la strada del cuore asiatico, ad essi tradizionalmente proibita, garantendo in prospettiva la possibilità di accedere alle enormi risorse petrolifere del Caspio. Un futuro certo non imminente potrebbe rendere l’Arabia Saudita e forse l’area intera del golfo persico non più indispensabili, in modo assoluto, per gli interessi americani. Se si verificasse tale ipotesi, il governo moderato di Riyad troverebbe serie difficoltà di tenuta, considerato il proliferare sempre più fitto del fondamentalismo nel proprio territorio. È altrettanto evidente che se l’interesse americano dovesse progressivamente spostarsi lungo la direttrice centroasiatica, anche il nazionalismo israeliano alla lunga ne trarrebbe diretto giovamento. In realtà l’orientamento conservato in medio oriente dagli USA, dopo l’11 settembre, non conforta assolutamente questa ipotesi. Le relazioni tra Washington e Tel Aviv hanno raggiunto momenti critici. Ma la progressiva evoluzione della partita che si sta giocando a ridosso del Caspio potrebbe riservare, in un futuro non imminente, novità clamorose anche nel golfo persico. A risultare sprovvista di una strategia geopolitica, piuttosto, è proprio l’Europa che ha gestito in modo inadeguato la crisi dell’11 settembre. La gravità oggettiva delle stragi di New York, d’altronde, non avrebbe permesso comunque una gestione differente della crisi: nessuno avrebbe potuto pretendere l’interdizione della strada verso il cuore dell’Asia agli americani colpiti da un attacco terroristico senza precedenti nella storia. Le grandi potenze mondiali, per questo motivo, hanno preferito intraprendere negoziati bilaterali con gli USA facendo di necessità virtù. La Cina, ad esempio, ha fornito il suo assenso all’intervento americano ottenendo probabilmente maggiore “comprensione” per l’azione repressiva verso la minoranza mussulmana nelle regioni dello Xinijang. La Russia, come si è visto, nutre interessi diretti nella regione centroasiatica che verranno gestiti secondo un lavoro sottile di intelligence. Ma è logico supporre che un “alleggerimento” sulla Cecenia rappresenti il costo formale che gli americani si sono impegnati a “sopportare” per l’assenso di Mosca alla guerra contro l’Afghanistan. I grandi d’Europa, consapevoli dell’importanza della partita, hanno preferito escludere dal proprio tavolo i partners più deboli. L’Italia, trovatasi ancora una volta avulsa dal “grande gioco”, ha deciso di partecipare attivamente al conflitto asiatico, segnando una piccola significativa svolta rispetto ai primi cinquanta anni del suo dopoguerra. Il senso di questa scelta ha determinato nelle differenti aree di opposizione radicale atteggiamenti di dissenso ampiamente prevedibili. Ma la questione dell’intervento italiano, come dimostrano i paragrafi precedenti, è stata posta secondo termini errati. Gli USA infatti, forti di un consenso mondiale mai raggiunto negli ultimi cinquanta anni, non avevano alcun interesse alla partecipazione italiana alla guerra afgana. Washington, soddisfatta dell’assenso formale di Roma, non aveva ragione di pretendere un’ulteriore manifestazione di sudditanza da una nazione considerata molto poco utile sotto il profilo militare. Il minor numero di soggetti presenti realmente nel conflitto asiatico avrebbe garantito la massima agilità americana nella partita più importante, quella post­bellica. E significativo che l’accettazione americana della proposta di Berlusconi sia stata formulata sprezzantemente per fax: qualche giornalista dotato di una buona dose di ironia ha proposto il paragone della contrattazione via Internet con un’agenzia di viaggi. In realtà l’intervento militare, consistente essenzialmente nelle attività postbelliche di peacekeeping, serve solo all’Italia. Quando le aree radicali, da tempo oscillanti tra pacifismo ed anti-americanismo verbale, riflettevano sulla linea da assumere la guerra afgana era quasi terminata. Antimoderni per taluni e mercanti della droga per altri, del resto, i taliban non potevano godere delle simpatie riservate ai loro numerosi predecessori dello scorso secolo. Constatata l’impossibilità oggettiva di evitare la presenza americana nel cuore dell’Asia, una partecipazione italiana ed europea al conflitto presentava solo aspetti positivi. La guerra afgana, peraltro, ha assunto tratti di evidente virtualità. Tonnellate di bombe ad alta tecnologia sono state scagliate contro i sassi di Kabul mentre il magazzino della Croce Rossa Internazionale veniva colpito tre volte nell’arco di dieci giorni. L’intervento militare, deciso in extremis, consente ora all’Italia di partecipare, seppure con un ruolo decisamente modesto, al “grande gioco” iniziato a ridosso del Caspio. Una posizione nettamente defilata, al contrario, avrebbe determinato l’unico effetto di una nuova completa esclusione di Roma dalla grande politica mondiale. Il paragone con la guerra di Crimea avrà infastidito i lettori più esigenti, ma ha la sua efficacia. Il silenzio delle aree radicali, dissimulato da sterili manifestazioni di protesta contro la guerra americana, rivela l’assenza in Italia di un’avanguardia culturale e politica. Quest’ultima, denunciando pubblicamente i termini reali del conflitto in atto, avrebbe potuto esprimere una linea interventista capace di invocare non solo una legittima protezione degli interessi asiatici dell’ENI, ma soprattutto, una politica di potenza italiana ed europea nell’Hearthland, nel quadro di quella concezione eurasiatica che dovrebbe caratterizzarla fisiologicamente. Il fatto avrebbe generato in linea di principio un piccolo, significativo elettroshock delle coscienze che, invece, saranno presto consegnate all’immaginario cinematografico americano del soldato italiano suonatore di mandolino. A rendere impossibile in Italia una linea di avanguardia delle aree radicali contribuiscono essenzialmente due fattori: l’incapacità di un approccio politico ed il timore di essere assimilate alle forze moderate. Una lettura politica della crisi mondiale avrebbe consentito di ragionare non su schemi desueti ed astratti, ma in base all’ovvio criterio dell’interesse nazionale ed europeo. Il timore dell’identificazione con soggetti non graditi, del resto, costituisce una manifestazione di forte immaturità ideologica: la politica è l’arte del possibile e la storia non inventa mai nulla di nuovo. L’interventismo di Corridoni non sarà mai quello di Salandra.


Tratto da orion n° 206

CIA: LA MADRINA
DELLA COCAINA E DELL’EROINA

La «guerra alle droghe», proclamata da Ronald Reagan all’inizio degli anni Ottanta, per quanto assurda, sembrava giustificarsi alla luce della tragedia del crack, che distruggeva letteralmente interi pezzi delle maggiori città americane, oltre alle vite di chi vi abitava. La crudeltà delle droghe, fino ad allora riscontrabile negli effetti dell’eroinomania, diventava incontestabile di fronte ai danni distruttivi del crack. In realtà a sponsorizzare il crack era allora la CIA, sotto la direzione dello stesso Reagan. Già si sapeva, fin dallo scandalo dell’Irangate, che la CIA, e più particolarmente la cellula di Oliver North, direttamente connessa alla Casa Bianca, aveva finanziato i ribelli anticomunisti affidando loro una parte del flusso della cocaina che, dalla Colombia, irrigava gli Stati Uniti. Il rapporto della commissione Kerry (1989) non lascia alcun dubbio al riguardo. Nel 1996, Gary Webb pubblicò su un quotidiano della Silicon Valley, il «San José Mercury News», una serie di articoli che riferivano dei risultati di un anno di ricerche: The Dark Alliance. Per portare a termine questa inchiesta, realizzata con la collaborazione del corrispondente del suo giornale in Nicaragua, Webb aveva viaggiato e intervistato molti personaggi, ma si era basato soprattutto sulle carte giudiziarie pubblicate a proposito di affari in corso o recenti. Fu così che si apprese come la CIA proteggesse una rete di trafficanti nicaraguensi che faceva arrivare la cocaina dalla Colombia a South-Central, Los Angeles. Essi rifornivano in modo particolare Freeway Rick, leggendario DEAler che fece fortuna col boom del crack, oggi in prigione con una condanna all’ergastolo. L’ondata di crack era un fenomeno di marketing che aveva lo scopo di smaltire rapidamente grossi quantitativi di coca, destinandola non più ai ricchi, ma ai poveri, un enorme mercato conquistato a passo di carica. Ciò coincide con gli anni in cui Reagan era alle prese con il veto del Congresso usa, che gli proibiva di sovvenzionare i Contras in Nicaragua. E con gli anni della «guerra alle droghe». Da una parte venivano arrestati a tutto spiano – come accade tuttora – i neri e gli ispanici dei ghetti, il più delle volte per infrazioni alle leggi sugli stupefacenti. Dall’altra li si riforniva della roba che avrebbe fatto loro commettere i crimini per cui li si imprigionava! Questo incredibile cinismo merita attenzione. Passiamo la parola a Gary Webb e Michael Levine. Ex poliziotto della «narcotici», Levine è anche testimone a carico nella grande istruttoria informale che il popolo ha aperto contro lo Stato criminale. Sua è la chiusa: «ho passato praticamente tutta la mia vita di adulto all’interno di questo sistema, credendo fermamente che il fine giustificasse i mezzi. Sono arrivato a imparare che questo modo di pensare è quanto di peggio ci possa capitare; è proprio questo modo di pensare che rischia di distruggere le nostre libertà». E lungo il percorso, quante vite distrutte?


Crack e CIA: Intervista a Gary Webb

«Revolutionary Worker» – Secondo lei, perché il suo esposto ha suscitato tanto clamore? Che cosa ha davvero attirato l’attenzione della gente e inquietato a tal punto il governo?

Gary WEBB – Semplicemente il fatto che noi abbiamo scoperto dove arrivava questa cocaina. Durante gli anni Ottanta, erano già stati pubblicati un discreto numero di articoli, anche sulla stampa a grande tiratura, a proposito della Contra che avrebbe spacciato cocaina negli Stati Uniti. Ciò che noi siamo riusciti a stabilire è il luogo in cui la merce veniva venduta; ed era nei ghetti, principalmente a Los Angeles. Abbiamo così potuto anche mostrare gli effetti di tutta questa storia: l’orribile epidemia di crack che da Los Angeles si era diffusa in centinaia di altre città statunitensi negli anni seguenti. Penso che sia stato questo che più di tutto ha fatto infuriare la gente.

È interessante, perché all’inizio della sua inchiesta lei insisteva da un lato sulle migliaia di giovani neri condannati a lunghe pene detentive per aver venduto cocaina e dall’altro sull’assenza di questa droga nel mercato delle comunità nere finché i nicaraguensi della Contra, sostenuti dalla CIA, non la fecero arrivare fino a South-Central, L.A.

Personalmente, sono convinto che si tratti semplicemente di una questione di tempo. Ricordate, nella stessa epoca, in Colombia si formavano i cartelli. Di colpo la cocaina sparì dalla circolazione. I volumi si gonfiarono, i prezzi calarono. Penso perciò che abbiamo trovato la spiegazione. Prima dell’inizio degli anni Ottanta, costava cara per tutti. Con la nascita dei cartelli, i prezzi crollarono perché la produzione era in aumento. Cosa che comunque non spiega ancora come mai se ne trovasse a South-Central. Ciò che noi abbiamo spiegato è come questa cocaina a buon mercato sia arrivata a South-Central, attraverso l’intermediazione del cartello legato alla Contra su cui ho condotto l’inchiesta.

Che cosa ha appreso sulla relazione tra il cartello e la proliferazione del crack nella comunità nera?

Ecco! Il know-how per la fabbricazione del crack era nell’aria già da un po’. Già dalla fine degli anni Settanta esistevano qua e là ricette sul modo di convertire la polvere in crack, scaldandola con della soda. L’unico problema era che, non essendoci abbastanza cocaina, risultava troppo caro. Quando si è cominciato a importare cocaina a buon mercato in quantità, chi sa come produrre il crack ha di colpo l’opportunità per farlo. È una materia prima a tutti gli effetti: costoro hanno fornito la materia prima di ciò che è divenuto il problema del crack. Eccola, la relazione. Non sto dicendo che la CIA ha inventato il crack, o che la Contra l’ha fatto arrivare. Essi hanno soltanto immesso la polvere sul mercato, ma i clienti della strada sapevano come trasformarla in crack pur non avendo mai potuto farlo, in mancanza delle quantità necessarie.

Una delle cose che lei ha rivelato, è il volume di cocaina che di colpo si rende disponibile.

L’uomo alla testa di questo cartello, Norwin Meneses, era uno dei più grossi trafficanti di cocaina in America latina. Egli trattava direttamente con gli altri cartelli; aveva un accesso illimitato alla cocaina, ed era capace di farne entrare tonnellate nei vari Paesi illegalmente. Se volete crearvi un mercato a Los Angeles, vi conviene averne molta, di roba.

Che cosa ha saputo del modo in cui questi personaggi hanno potuto far entrare tanta cocaina negli Stati Uniti?

Avendo molti mezzi a disposizione, cambiavano i percorsi ogni volta che ne veniva scoperto uno o che una maglia veniva localizzata. Potevano far arrivare la coca in auto o in camion. All’inizio degli anni Ottanta, si servivano dei cargo colombiani, che navigavano lungo le coste degli Stati Uniti. E questi cargo facevano scalo a Los Angeles, a San Francisco, a Portland, a Seattle, giusto il tempo per attraccare e scaricare. La cosa più interessante è quando hanno incominciato a utilizzare aerei dell’aviazione militare salvadoregna, verso il 1984-85. Esisteva una base aerea in Salvador, che era utilizzata per i rifornimenti ai Contras. La cocaina era caricata sugli aerei salvadoregni fino a una base aerea nel Texas, dove veniva scaricata, per essere indirizzata altrove.
E se voi prestate attenzione a ciò che ha scoperto la commissione Kerry, istituita dal Senato negli anni Ottanta, troverete testimonianze secondo le quali aerei carichi di droga atterravano in una base aerea militare in Florida. Quale miglior modo di proteggere una partita di coca che farla trasportare da aerei militari, frammista a materiale bellico? Nessuno sospetta di nulla. Esisteva un regolamento doganale il quale precisava che certi voli non dovevano essere sottoposti ad alcun controllo, trattandosi di voli della CIA. Si hanno forti motivi di ritenere che siano stati proprio quelli con cui viaggiava la cocaina.

Ha un’idea dei quantitativi in questione?

L’avvocato di un trafficante mi ha rivelato che non erano rare le spedizioni superiori alla tonnellata. Avevano a disposizione di grossi aerei da trasporto utilizzati per l’invio degli aiuti umanitari alla Contra; cosa che sembrerebbe coinvolgere il programma nhao sotto il diretto controllo del Dipartimento di Stato. Di che programma si trattava? Del Nicaraguan Humanitarian Assistance Office (Ufficio per l’Assistenza Umanitaria al Nicaragua), istituito per distribuire 27 milioni di dollari in aiuti umanitari, dopo che il Congresso aveva votato la chiusura dei crediti militari. L’amministrazione Reagan tergiversò e mise in piedi l’nhao, i cui aerei furono adoperati per le cosiddette spedizioni varie. Forniture militari e non. Inoltre, l’avvocato di Danilo Blandon mi ha spiegato che per il viaggio di ritorno, dopo aver consegnato le forniture, ritornavano negli Stati Uniti con carichi di diverse tonnellate. Niente male: in un C-130 di cocaina ce ne sta un bel po’!

E quanta gente doveva tenere gli occhi ben chiusi quando queste partite di coca venivano scaricate nelle basi militari americane? Come si distribuiva?

Non credo che ciò avvenisse alla luce del sole. La coca era generalmente impacchettata in coperte militari imbottite color kaki. Quando si comincia a scaricare un aereo militare pieno zeppo di equipaggiamenti e si vedono coperte militari imbottite qua e là nessuno ci fa caso. Penso che perfino gli equipaggi degli aerei potevano esserne all’oscuro. Tutto ciò di cui si ha bisogno è un uomo di fiducia all’interno della base aerea di Ilopongo, in Salvador, per fare il carico. Dopo, a nessuno verrà in mente di perquisire un aereo militare che rientra negli Stati Uniti da una missione.

Quali erano allora le agenzie governative implicate nell’invio della cocaina verso gli usa e nella sua distribuzione?

È difficile a dirsi, perché i trafficanti non avevano legami diretti con loro. Si tenevano sempre a debita distanza. Ho scoperto legami con il Dipartimento di Stato, con il Consiglio di sicurezza nazionale, la CIA e la DEA. Ognuna di queste agenzie era implicata in svariati modi. Siamo in possesso di prove significative secondo le quali membri del cartello in questione erano in contatto con funzionari delle suddette agenzie proprio mentre questo traffico di cocaina era al suo apice. Tali agenti non sono stati mai inquisiti.

Che legami ha scoperto circa la DEA?

La DEA era in rapporto con Norwin Meneses, il capo del cartello. Egli stesso lavorava per quest’agenzia già da qualche anno. Ecco perché non è mai stato arrestato negli usa: era protetto.

Ha saputo qualcosa di nuovo, nel quadro della sua inchiesta circa i legami tra la CIA e l’operazione nel suo insieme?

Uno dei legami che abbiamo scoperto passava attraverso un agente del Costa Rica. Abbiamo incontrato un corriere di questa rete, che lavorava per l’organizzazione di Meneses, a San Francisco. Questi ha identificato l’agente, ce ne ha fornito il nome e ha aggiunto che, secondo lui, controllava la distribuzione dei fondi, che trasportava personalmente. Esistevano anche corrieri gestiti da un agente della CIA, che era il loro finanziatore quasi esclusivo. Quest’uomo era Enrique Bermudez, il comandante della fdn, un’unità militare della Contra. Abbiamo anche ottenuto prove che qualcuno, a Washington, qualcuno corrispondente perlomeno a un alto funzionario della CIA a Washington, possedeva precise informazioni sul traffico che si svolgeva nella base aerea salvadoregna.

La CIA sembra sempre operare in modo da poter in seguito negare il suo coinvolgimento. È la loro prassi.

Esatto. Non beccherete mai la CIA in flagrante! Troverete persone stipendiate dall’agenzia che domandano ad altri di fare qualcosa. Proprio come nel nostro caso. Avete un agente straniero, Enrique Bermudez, che chiede a due uomini, la cui professione, guarda caso, è lo smercio della cocaina, di fare qualcosa per un esercito finanziato dalla CIA, sulla strada maestra della politica estera degli Stati Uniti. È dunque molto difficile credere che costoro facessero tutto ciò di testa loro. Io non ho mai incontrato trafficanti di cocaina generosi, neanche un po’.

Ha un’idea dell’ammontare delle somme che entrarono alla fine nelle casse della Contra, grazie alla vendita di cocaina?

Nel 1982 e nel 1983, all’epoca cioè in cui questo corriere lavorava per loro, egli stimava che questa somma fosse tra i 5 e i 6 milioni di dollari. […] L’emendamento Boland, grazie al quale il Congresso soppresse i crediti che la CIA destinava alla Contra, è del 1984. Ma questi finanziamenti ripresero grazie alla reinstallazione di Meneses in Costa Rica. Danilo Blandon cominciò a fornire a Eden Pastora, uno dei comandanti della Contra, caserme, camion e soldi. Ma non abbiamo la più pallida idea delle somme che riguardano questi ultimi anni. Mi sorge il dubbio che la Contra non abbia mai ricevuto gran parte di questi narcodollari. Con tutta la cocaina venduta dalle nostre parti, se i soldi fossero andati interamente alla Contra, questa non avrebbe solo vinto la guerra, ma preso il potere in tutta l’America Centrale.

Milioni di dollari?

Non si sputa mica su 5 o 6 milioni di dollari.

Quindi lei afferma anche di aver trovato legami con il Dipartimento di Stato. Ciò rientra nel quadro?

Ciò fa parte del resto dell’inchiesta. Ancora inedito. Ma ci sono state stranissime riunioni, con certi funzionari del Dipartimento di Stato implicati in vicende di grande interesse.

Dall’inizio della sua inchiesta, si è assistito a una campagna molto intensa per screditarla e impedirle l’accesso ai mass media. Può parlarcene

Una campagna che mi sembra trionfale. Ma il dado ormai è tratto. Se guardate indietro, al momento degli scandali della CIA durante gli anni Settanta, rivelati da un esposto di Seymour Hersh, o dal lavoro di Daniel Schore per la cbs, troverete che entrambi si sono ritrovati oggetto della stessa campagna diffamatoria.

Può descrivere per i nostri lettori cosa le è capitato?

Be’, ho visto giornalisti scrivere che non avevo alcuna prova a sostegno di quanto avanzavo; che niente di quanto affermavo era fondato. C’è stato un articolo del «Washington Post», secondo cui l’inchiesta insinuava che la CIA avesse mire sull’America nera. Era una campagna di disinformazione molto sottile che cercava di far credere alla gente che questi articoli dicessero altro da ciò che in realtà dicevano. O per far loro dire altro da ciò che noi avevamo inteso. «Va be’, dopo tutto non ci sono prove», questo era quanto la gente avrebbe dovuto pensare. Si tratta di pura e semplice propaganda. Ho proposto un libro e c’è stata una fuga di notizie verso il «Los Angeles Times». Questi che cos’hanno fatto? Molto semplicemente, ne hanno censurato una parte pubblicando poi il resto sul loro giornale, in modo da farmi passare per un teorico del complotto.

Che cosa significa, secondo lei, la presenza del capo della CIA a un meeting a South-Central, Los Angeles?

Dimostra quanta paura avesse la CIA di questa storia: non avevano mai fatto una cosa del genere. Il capo della CIA che appare in pubblico e risponde a delle domande! Non si può certo dire che abbia poi risposto, ma almeno è stato obbligato a fingere di provarci. Questo ci dà l’esatta misura dell’allarme a Washington.

Parlando dei diversi attacchi subìti, ha utilizzato il termine campagna di disinformazione. Può dirci di più in merito?

Negli anni Ottanta, esisteva la «Gestione della Percezione». Si trattava di un programma istituito all’interno stesso del Dipartimento di Stato, da esperti in propaganda della CIA con l’obiettivo di: a) rilevare, ponendoli nell’impossibilità di nuocere, tutti i giornalisti critici verso la guerra della Contra e che lavoravano intorno al coinvolgimento della Contra nel traffico di cocaina; b) intimorire i redattori e gli altri giornalisti tentati di seguirne l’esempio. Ci sono molte similitudini, se guardate bene i risultati ottenuti negli anni Ottanta, con quanto succede oggi. C’è gente incaricata di propalare dicerie sul vostro conto. Sono gli agenti di Accuracy in Media, l’organizzazione di Reed Irvine, gli stessi, dunque, che oggi si svegliano per dire che dietro questa storia della CIA non c’è niente, che è tutto inventato. Gli stessi agenti, dunque, che erano montati sugli spalti negli anni Ottanta per sostenere che a El Mozote non era successo niente [un’unità speciale, addestrata dall’esercito americano, procedette allo sterminio della popolazione del villaggio di El Mozote, in Salvador, trucidando più di 300 tra uomini, donne, vecchi e bambini, ndr], che la notizia del massacro era una bufala e che il reporter del «Times», Raymond Bonner, era un simpatizzante comunista. Gli stessi. E una delle cose che s’impara, occupandosi delle agenzie d’informazione, è riconoscere il loro modo di operare. Le persone cambiano ma le procedure restano. La «Gestione della Percezione» degli anni Ottanta era uguale a quella praticata oggi. La grande stampa è ormai convinta che alla base della nostra inchiesta non ci sia nulla di concreto. Anche se nessuno, di fatto, è riuscito a scoprirvi degli errori.

Perché allora, malgrado questi attacchi, sia personali che diretti contro i suoi reportage, continuare a rischiare per raccontare questa storia?

Perché è vera. È la base di tutta questa storia: la verità. E si diventa per forza giornalisti per questa verità. Se pensassi che si tratta di favole, o se fossi convinto di essermi sbagliato, lo direi: «Ho fatto un errore». Ma non mi sto sbagliando. La gente deve conoscere questa storia non solo per capire quanto è successo, ma anche perché, perdiana, dovrà pur esserci un responsabile! È criminale quanto è accaduto. Si continua ad arrestare gente per traffico di cocaina. E proprio questo affaire ha fatto entrare tonnellate su tonnellate di cocaina negli Stati Uniti. Nei ghetti dei downtown. Ma nessuno finora è ancora stato punito per questo, a parte gli abitanti dei quartieri presi di mira. […]

Devono comparire ancora quattro puntate, vero?

È come se non esistessero. Nessuno le pubblicherà mai.

Può farcene un sunto, a grandi linee?

Si tratta principalmente di sapere chi, nel governo degli Stati Uniti, era al corrente. E anche di conoscere i legami fra altre agenzie governative e i cartelli della droga. Le loro attività in Costa Rica, in Salvador. I vani sforzi dei poliziotti di Los Angeles per portare quei tipi lì davanti alla giustizia, come si sono fatti imbrogliare e prendere per il naso. Il coinvolgimento di Oliver North nel giro dei trafficanti di droga del Costa Rica, in ogni caso il coinvolgimento della sua rete. Esistono molte informazioni su questo aspetto. Tutto inutile…

«Revolutionary Worker», n. 912 22 giugno 1997


The Dark Alliance

18, 19 e 20 agosto 1996: il «San José Mercury News» pubblica una serie di tre articoli di Gary Webb. Nessun quotidiano nazionale li riprende. Ma le radio locali della comunità nera, sì. Lo splendido sito internet che il «San José Mercury News» dedica a The Dark Alliance, in cui, per la prima volta nella storia del giornalismo, i testi degli articoli vengono pubblicati con le relative fonti, in immagini e sonoro, viene assalito dalle connessioni… fino a un milione al giorno! Bisogna aspettare ottobre perché la stampa reagisca! Il «Washington Post» apre il fuoco per tentare di smentire Gary Webb. Poi è la volta del «New York Times», ma è al «Los Angeles Times» che spetta la pubblicazione del pezzo forte in questa campagna: dal 20 al 22 ottobre, una serie di tre articoli lunghi come quelli di Gary Webb. La denuncia unanime della stampa benpensante induce il caporedattore del «San José Mercury News», Jeremy Ceppo, a ritrattare. In seguito, Gary Webb va in pensione, e pubblica nel 1998, presso le edizioni Seven Stories, il suo libro The Dark Alliance.
Se lo straordinario sito internet The Dark Alliance del «San José Mercury News» è stato chiuso, molti altri siti internet di controinformazione forniscono oggi una documentazione di ottima qualità intorno a questo dossier.


Michael Levine, il dissidente che la DEA ha bandito

Michael Levine ha alle spalle una carriera di venticinque anni come agente infiltrato al servizio di quattro agenzie federali americane nei cinque continenti. Egli è diventato il più noto e aspro fra i critici della Drug Enforcement Administration (DEA). Dal Triangolo d’Oro alle Ande, tutti i suoi sforzi per mettere le mani sui pezzi grossi del traffico sono stati, come ci spiegherà, sabotati dai burocrati della DEA e dalle pressioni della CIA. La storia delle sue operazioni contro la mafia boliviana della cocaina è raccontata dettagliatamente nei suoi libri Deep Cover (Delacorte, 1990) e The Big White Lie. Il suo ultimo libro, Triangle of death (Dell, 1996), scritto in collaborazione con la moglie, Laura Kavanau, è un giallo basato sulla sua esperienza professionale. È anche ospite fisso della trasmissione radiofonica settimanale Expert Witness, in onda sulla radio newyorkese wbai-fm, nei cui studi è stata realizzata questa intervista.

«High Times» – Perché un ex agente della DEA interviene in una radio?

M. Levine – Perché si assiste alla totale abdicazione dei media, che non svolgono più il loro ruolo, per quanto minimo, di controllo. Io ero il funzionario americano di grado più elevato nel cono Sud. Ebbene, voi non potete immaginare peggiori tradimenti verso il popolo americano di quelli cui mi è toccato di assistere! E voglio parlare del sostegno fornito dalla CIA e dai suoi collaboratori alla presa del potere in Bolivia da parte di narcotrafficanti e ricercati nazisti.

Ci vuole parlare del 1980 quando, dopo il «colpo di Stato della cocaina», l’economia sudamericana della droga è diventata un’industria di grandi proporzioni…

È esatto. Ciò che voglio dire è che tutto si svolgeva sotto gli occhi dei mass media. «Newsweek» aveva pubblicato un articolo sulla situazione boliviana talmente lontano dalla realtà, che ho fatto la più grande stupidata della mia vita inviando alla redazione una lettera con intestazione dell’ambasciata in cui dicevo: «Voi siete totalmente inseriti dentro il programma, la verità è che la CIA ci ha tradito».

Dov’è stato l’errore?

I giornalisti non mi hanno mai chiamato e io mi sono ritrovato con una inchiesta interna sul groppone. E chi si è reso conto che qualcosa andava veramente storto nella copertura degli avvenimenti in Bolivia? Sentite questa! «High Times», articolo di Dean Latimer (agosto 1981). Ve lo riassumo. Diceva, per sommi capi: «Il governo ha lavorato di lima fin nei dettagli di questo colpo di Stato, e non cerca nemmeno di metterlo al suo attivo. C’è qualcosa che non torna».

E ciò si riferisce a…

All’affaire Roberto Suarez, che mi hanno sabotato in ogni modo. E «High Times» è stato il solo organo di stampa ad aver fiutato la pista giusta. Se avessi scritto a loro invece che a «Newsweek», avrebbero svelato il caso.

Riprendiamo dall’inizio. Com’è entrato nella DEA?

Quand’ero nella polizia militare, per una storia del cazzo, un giorno un tipo mi ha piantato una pistola nello stomaco e ha premuto il grilletto. Il colpo non è partito. Questa vicenda ha provocato in me un profondo cambiamento. Ho voluto vivere a cento all’ora. Pensavo allora che avrei potuto diventare il James Bond degli agenti infiltrati. Ero bravo nelle infiltrazioni. Parlavo correntemente lo spagnolo. Conoscevo la strada. Da giovane ero stato un teppista, arrestato due volte prima dei sedici anni. Ora, ero pagato per andare a zonzo nel Bronx come da ragazzino. Nel 1965, ero uno dei pochi, insieme a quelli del fisco, che potevano comprare dei numeri della bolita, la lotteria clandestina ispanica. Potevo spacciarmi per chi volevo. Facevo tutto questo senza un vero scopo, giusto come un gioco che poteva offrirmi una dose di brivido. Fino al momento in cui scopro che proprio mio fratello, David, era scimmiato di eroina.
Di colpo ho creduto di vedere il puzzle nelle sue concatenazioni. Io ci credevo, sapete, al discorso ufficiale. Per me, lo spacciatore di droga era davvero il peggio del peggio. E mi sono messo in testa che se m’ero salvato era solo per uno scopo: entrare nell’antidroga.

Lei era dunque nella DEA fin dalla creazione dell’agenzia?

Sì. Nel 1970 sono stato trasferito dall’ufficio ATF (1) alla brigata di investigazione sulle droghe pesanti alle dogane. Ed è là che per la prima volta ho avuto a che fare con la CIA. È stato in occasione del processo Governo degli Stati Uniti vs. Liang-Sae Tiw et al. Il caso iniziò il 4 luglio 1971, con un arresto all’aeroporto Kennedy di New York. Il tipo arrestato è diventato un mio informatore. Faceva venire l’eroina da Bangkok, in Thailandia. Abbiamo messo le mani sui suoi associati, che organizzavano la distribuzione su scala nazionale, in una palude della Florida. E sono andato a infiltrarmi in Thailandia per incontrare il loro contatto a Bangkok. I signori mi adoravano, ci tenevano a portarmi con loro fino a Chiang Mai. Ma le cose cominciano ad andar male. Io non riesco a ricevere i fondi per l’operazione: seguo questo tipo della mafia, che mente come un cavadenti, e loro cominciano seriamente a pensare di sopprimermi. Da parte mia, inizio a dare in escandescenze con i miei superiori. Risultato, a mezzanotte mi portano all’ambasciata degli Stati Uniti. Vi incontro il capo delle dogane americane, Joey Jenkins, e un tipo calvo in camicia guayabera che mi dice: «Lei non andrà a Chiang Mai». Dopo che se n’è andato, Jenkins si gira verso di me e mi mormora all’orecchio: «Quel tipo è della CIA». Allora, eseguendo gli ordini, arresto quello con cui facevo affari e chiudo il caso. Ho perfino ricevuto una medaglia speciale dal Dipartimento del Tesoro. Ma non sono riuscito né ad andare a Chiang Mai né ad arrestare i fornitori. Parecchi anni dopo, mentre lavoravo per conto della DEA, che aveva in carico le fazioni tribali del Triangolo d’Oro, ne ho di nuovo sentito parlare. Era proprio questa rete, che mi si era impedito d’intaccare, a introdurre l’eroina negli Stati Uniti nascondendola dentro i cadaveri dei soldati rimpatriati. Ma all’epoca, tutto ciò che sapevo è che mi si impediva di realizzare il più grosso sequestro di eroina di tutti i tempi.
Nel 1973 sono stato incorporato nella DEA, subito dopo la sua istituzione. Quando mi sono di nuovo trovato in contrasto con la CIA, ero in Sudamerica. Ed è là che ho veramente flippato correndo rischi enormi.

Nel frattempo suo fratello si è suicidato.

Sì, nel 1977. Lasciando scritto: «Non posso più sopportare le droghe». Aveva 34 anni. Il mio desiderio di azione si è decuplicato, del tipo: «Gliela faccio vedere io a quei figli di puttana».

In Sudamerica il suo bersaglio era Roberto Suarez, il «re della cocaina».

Sì, anche lui mi adorava. Io gli ho parlato solo al telefono, ma lui mi dava del «comandante», lo stesso titolo attribuito a lui. Fu arrestato anni dopo, ma la mia operazione era stata sabotata. La nostra finta famiglia mafiosa si era installata in una casa a Miami. Si fingeva di avere un pacco di grana, e non si aveva un soldo. Teatrino. Il nostro budget per l’intera operazione ammontava a 2500 dollari, subito finiti.

In un rapporto della DEA (Operation Hun: A Chronology) sta scritto che esistevano prove sufficienti per incolpare l’intero governo boliviano. E la CIA ha bloccato tutto perché metteva in pericolo i loro programmi. Nel rapporto, si legge: «un’altra agenzia», il solito eufemismo.

Io mi spacciavo per un compare mezzo siciliano mezzo portoricano, Miguel Luis Garcia, e loro hanno abboccato. Pagai 9 milioni di dollari a José Gasser e Alfredo «Gutucci» Gutierrez attraverso una banca di Miami, mentre i nostri aerei sorvolavano la giungla boliviana, e i nostri ragazzi misero le mani su una mezza tonnellata di pasta di coca. Regolai i dettagli del contratto con Roberto Suarez dopo Buenos Aires e saltai su un aereo per Miami. Gli si misero sotto gli occhi i 9 milioni in contante. Il tutto non durò più di due ore.
Li si arrestò, ma vennero immediatamente rilasciati. Tutte le accuse contro Gasser furono respinte da Michael Sullivan, giudice federale di Miami. Gutierrez, rilasciato sotto cauzione, riparò in Bolivia e ordinò di uccidermi. Sullivan sosteneva che non si poteva vincere. Stronzate. Gli dissi: «Spesso abbiamo in mano molto meno contro la maggior parte degli americani attualmente in prigione». Cominciai a definirla «un’ostruzione da parte del Dipartimento della Giustizia». L’operazione Hun si chiuse con la mia messa sotto inchiesta interna e l’espulsione dall’Argentina. A Buenos Aires subii un attentato da parte di gente al servizio della CIA, degli assassini professionisti argentini. Assassini di massa. Boia a ripetizione. Chiamateli come volete.

Quelli dei desaparecidos?

Sì. Mi è difficile dirvi quanto li odio quei signori là. Ma io ero un miracolato, non un nazi.

Così, già prima di sostenere la Contra in Nicaragua, la CIA proteggeva i cartelli sudamericani?

Ho cercato di appurarlo. Ho scoperto che il padre di José Gasser era stato uno dei fondatori della Lega anticomunista mondiale. E che era in contatto con la CIA dall’inizio degli anni Sessanta. Per il mio primo colpo portato a segno in Bolivia, che «Penthouse» ha definito la più grande truffa di tutti i tempi, avevamo bisogno dell’aiuto del governo boliviano. A quell’epoca, nel 1980, era al potere Lidia Gueiler. Era alla testa di un governo liberale, proibizionista convinta, e ci ha aiutato. Tanto che i trafficanti sono poi andati a raccontare ai loro corrispondenti della CIA che Lidia Gueiler era una militante di sinistra. Ecco perché il governo degli Stati Uniti ha sostenuto la «rivoluzione» in Bolivia: facendo venire degli argentini, sbloccando fondi segreti ecc. Tutti sanno che i trafficanti di droga sono capitalisti. Sono sempre anticomunisti! [Risate].

Chi finì in prigione, dopo l’operazione Hun?

M.L.: Il pesce più grosso, «Papo» Mejia, uno degli assassini più dementi mai nati in Colombia. E quella bellissima donna, Sonia Atala, la «Regina della cocaina» boliviana. Vendeva più cocaina lei di qualunque altro essere vivente. Disponeva di truppe scelte, e un potere di morte su chiunque, dappertutto e sempre. Nel 1980, di fatto, salì al potere. Nel 1982 rimasi completamente paralizzato dalle inchieste e dagli attentati contro di me. Mi trasferirono al Quartier Generale della DEA. Venni pedinato, il mio telefono fu messo sotto controllo. Tappa successiva, mi domandarono se ero pronto ad accettare una missione di infiltrazione. Avrei fatto patti col diavolo pur di riuscire ad allontanarmi dal Quartier Generale della DEA. Domandai: «Di che affare si tratta?», e mi risposero: «Quella donna, Sonia Atala. Vogliamo che tu ci vada a vivere insieme». Aveva deciso di collaborare. Il suo potere era diventato tale che il «ministro della cocaina» della Bolivia, Luis Arce Gomez (cugino di Roberto Suarez), l’aveva presa di mira e cercava di toglierla di mezzo. Dopo aver incassato due milioni di dollari da Papo Mejia, i suoi fornitori rifiutarono di effettuare la consegna. Papo le disse: «O mi restituisci i soldi, o ti uccido tutta la famiglia». Adesso erano i colombiani, oltre ai boliviani, a volerle fare la pelle. Lei andò direttamente alla DEA. E si pensò a me come suo compagno.
C’installammo a Tucson, in Arizona, recitando la parte dell’uomo e la sua amichetta. Avevamo intenzione di cominciare ad acquistare, e quindi di mettere le mani su ciascuno dei colombiani e dei boliviani che avessero voluto fare affari con noi. I miei dossier contro Roberto Suarez, Arce Gomez, Klaus Barbie e tutta la cricca s’ispessirono. Il governo cominciò a fare il difficile quando si trattò di scegliere chi avrebbe dovuto essere incolpato. Ma almeno Papo ce l’abbiamo, ora sconta i suoi trentacinque anni. Sonia è rientrata in Bolivia e ha recuperato tutti i suoi beni.

Cosa intende per «truppe scelte naziste» a sua disposizione?

Intendo dire mercenari europei addestrati da Klaus Barbie («il macellaio di Lione», ufficiale della Gestapo ricercato). La sua villa a Santa Cruz, in Bolivia, era soprannominata la «casa della tortura». Aveva spesse mura e tutto l’equipaggiamento necessario.

E lei abitava con quella donna a Tucson?

Sì. Allora lei vendeva droga. Si è fatta pizzicare mentre vendeva a due infiltrati della DEA, due agenti del Texas, che sono stati obbligati a non arrestarla. È tutto scritto nero su bianco in The Big White Lie. I nomi, le date, i luoghi e i momenti.è

Ci ha fatto l’amore?

No. Potevano sottopormi in ogni istante alla macchina della verità..

L’operazione Trifecta fu il vostro tentativo successivo per far cadere la mafia colombiana?

Esatto. Il nostro obiettivo era la Corporacion, organizzazione nata dalla rivoluzione. Noi avevamo anche preso di mira l’intero governo messicano, inclusa l’équipe del futuro presidente Carlos Salinas. E, una volta di più, dovevamo renderci conto che il Dipartimento di Giustizia faceva tutto il possibile per insabbiare la faccenda. Fino a far sì che il ministro della Giustizia, Edwin Meese chiamasse il suo collega messicano per avvertirlo!

Ancora una volta, perché?

Il futuro presidente, Salinas, assicurava ai nostri politici l’appoggio al NAFTA (2). Nello stesso tempo, i suoi subordinati raccontavano a me, «Luis Miguel Garcia», padrino di mafia mezzo siciliano, che una volta al potere Salinas, il Messico si sarebbe spalancato al traffico.

Ed è andata proprio così.

Esattamente! E tutto questo è disponibile in un video. Ma se gli americani avessero saputo del nocciolo della faccenda, niente nafta!

Avete comunque arrestato il colonnello Jorge Carranza, figlio del fondatore del Messico moderno.

Esatto, il figlio di Venustiano Carranza, il George Washington messicano! Stava seduto davanti a me in alta uniforme, e mi assicurava che avrei potuto far cadere il governo. E intanto il video filmava.

E che ne è stato di tutta quella gente?

Sono tutti liberi. Carranza è stato assolto in appello. Io ho scritto un memoriale che racconta come il governo abbia fatto di tutto per demolire l’affaire. Se mi si fosse lasciato andare avanti, avrei incontrato i veri padrini della Corporacion, in particolare il ministro della Difesa messicano, Arevalo Guardoqui. Mi era stato combinato un appuntamento con lui, sempre sotto l’occhio della telecamera!

Perché non è successo niente?

Bisogna chiederlo a loro. Io sono andato alla trasmissione di McNeil e Lehrer, e il vero capo della DEA, Terry Burke, si è rifiutato di rispondere in onda alle mie accuse. Ha detto: «Voi capite, questo ragazzo è implicato in un affare commerciale», un riferimento al mio contratto editoriale, probabilmente.

Oggi, Luis Arce Gomez e Roberto Suarez sono entrambi in prigione.

Sì. Arce Gomez negli USA e Roberto Suarez in Bolivia. Se si può chiamare quella una prigione! Vive nel lusso.

Nel suo romanzo, Triangle of Death, molti personaggi sono riconoscibili, li si è già incontrati in altri suoi libri.

Il fatto è che non si tratta veramente di immaginazione. Il Triangolo della morte è il vero nome dell’organizzazione creata da un ex capo della Gestapo, Augusto Ricord. Costui è stato condannato a morte in contumacia in Francia. Metteva in atto operazioni in Paraguay col sostegno della CIA. Volete una prova della potenza di quest’organizzazione? Un’inchiesta delle dogane, iniziata con una partita di eroina ordinata dalla mafia italiana al Triangolo della morte, si concluse con incriminazioni in tutto il mondo. Ma il Paraguay si rifiutò fermamente di consegnare Augusto Ricord, finché Nixon non minacciò un’invasione. Allora cedette. La nostra prima reazione fu di farne dono alla Francia. Ma non lo volevano! Ci dissero: «L’avete voi, tenetevelo!». Incriminato negli USA e condannato a una pena detentiva, nel giro di due anni è stato rilasciato. È rientrato in Paraguay ed è morto in libertà.

Avete dunque le prove di tutto, perché allora farne un romanzo?

Nessuno legge altro. La gente è persuasa che le storie narrate da Tom Clancy siano vere. Ho visto gente piangere alla rappresentazione teatrale di Clear and Present Danger. Io mi trattenevo per non urlare: «È una menzogna, è tutta propaganda!» ma la gente ci crede. Allora abbiamo deciso di scrivere un thriller che mettesse in scena la vera CIA, perché adesso so che la gente avrà più paura di questo che di tutti i documentari del mondo!

Suo figlio Keith era nella polizia di New York. È stato ucciso in servizio.

Il 28 dicembre 1991. Stava cercando di impedire un furto. L’uomo che ha ucciso mio figlio era uno scimmiato di crack che aveva già ucciso altri due uomini, imprigionato due volte, e due volte rilasciato.

Di recente lei ha pubblicamente proposto al governo della Costa Rica di arrestare Oliver North perché risponda alle accuse di traffico di droga davanti alla giustizia di quel Paese?

La Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso che i nostri agenti potevano intervenire in altri Paesi per arrestare persone che avessero infranto le nostre leggi. Ebbene, Oscar Arias, premio Nobel e presidente costaricano, ha proibito a vita l’ingresso nel suo Paese a Oliver North, per associazione a delinquere allo scopo di far transitare dal Costa Rica la droga destinata agli Stati Uniti! Io ho portato questa logica fino in fondo: visto che gli USA avevano legalizzato arresti di questo tipo, ch’io avevo già praticato per conto della DEA, sarei stato felice di farne approfittare il Costa Rica!
E volevo soprattutto esser chiaro su un punto: ho passato praticamente tutta la mia vita di adulto all’interno di questo sistema, credendo fermamente che il fine giustificasse i mezzi. Ho imparato poi che questo modo di pensare è quanto di peggio ci possa capitare; è proprio questo modo di pensare che rischia di distruggere le nostre libertà.

Note

(1) Bureau for Alcohol, Tobacco and Firearms: un corpo di polizia specializzato in alcol, tabacco e armi da fuoco.
(2) Accordo di libero scambio nordamericano, comprendente Stati Uniti, Canada e Messico. [NdT]

L’intervista a Michael Levine appare per gentile concessione della rivista «High Times».


IL PRESIDENTE ERA IN AFFARI CON IL FRATELLO DI OSAMA BIN LADEN

Il mio socio George Bush

Avrebbero fondato insieme la Arbusto Energy, una compagnia petrolifera del Texas

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A poco meno di due settimane dall’attentato al World Trade Center emergono inquietanti rivelazioni che collegano il presidente americano George Bush alla holding Bin Laden. Il quotidiano britannico Daily Mail scrive infatti che uno dei fratelli di Osama Bin Laden, il miliardario saudita indicato come il massimo responsabile degli attacchi a New York e Washington, sarebbe stato in affari proprio con la massima autorità degli Stati Uniti.
Salem Bin Laden e George W. Bush avrebbero fondato insieme, nel Texas, una compagnia petrolifera, la Arbusto ( Bush, n.d.r.) Energy.

Salem, uno dei 54 fratelli di Osama, avrebbe investito gran parte del suo capitale derivante dall’eredità del padre in compagnie petrolifere e nel 1978 avrebbe nominato James Bath, un intimo amico di George W. Bush come suo rappresentante a Houston. Sempre stando alla pubblicazione del giornale britannico, Bath avrebbe investito la somma di 50 mila dollari nelle azioni della Arbusto e, sempre per conto di Salem Bin Laden, avrebbe acquistato l’aeroporto della Houston Gulf.

Il filo rosso tra la famiglia Bush e quella Bin Laden si interruppe tragicamente con la morte di Salem in un misterioso incidente aereo avvenuto nel 1983 proprio in Texas.



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