Scienze cognitive e sociologia della conoscenza per una ricostruzione socio-cognitiva della scienza
di Andrea Cerroni
Università Milano-Bicocca
e-mail: andrea.cerroni@unimib.it
E’ assai recente l’applicazione delle scienze cognitive allo studio della scienza, tradizionale terreno della storia e della filosofia della scienza e, più recentemente, della sociologia della scienza. Grazie alle scienze cognitive possiamo però meglio attrezzarci ad apprendere dalla scienza qualcosa di irrinunciabile sui suoi fondamenti e sul più generale ragionamento umano. Nei più eclatanti fenomeni “rivoluzionari” che conducono ad una grande scoperta scientifica, come è il caso della scoperta einsteiniana della Teoria della Relatività, vengono infatti in superficie con maggior visibilità lo stile, il metodo e gli strumenti cognitivi impiegati nel ragionamento comune, oltre che in quello propriamente scientifico. In questi casi, infatti, lo scienziato deve costruirsi nuove conoscenze sfruttando al massimo tutte le risorse disponibili, facendole quindi emergere con particolare chiarezza agli occhi dell’analista.
Premessa. Scienze cognitive e sociologia della scienza
Solo un approccio cognitivo sembrerebbe capace di gettare nuova luce sul rapporto fra scoperta scientifica e risorse culturali che, nei recenti sviluppi costruttivisti della sociologia della conoscenza scientifica, ha visto una progressiva perdita di specificità della produzione scientifica rispetto alle produzioni genericamente culturali. Ma la scienza non può essere ridotta tout-court ad una forma culturale, se solo si pone mente ai successi tecnologico, predittivo ed esplicativo in comparazione con le varie forme di magia che, pure, ancora sopravvivono nelle società contemporanee. D’altra parte, proprio quella cultura tanto spesso evocata, soprattutto da Kuhn in poi, è in realtà rimasta in ombra più come un presupposto dato per scontato che come un terreno di analisi sistematica. Laddove il “culturalismo” si è arenato, alcune delle euristiche cognitive che individueremo si prestano particolarmente bene a scomporre le Weltanschauungen in termini più abbordabili per la stessa indagine sociologica sulla conoscenza.
La scienza, insomma, sembra un laboratorio particolarmente proficuo tanto per le scienze cognitive quanto per la sociologia della conoscenza.
In questo articolo lavoreremo all’interno del framework cognitivo elaborato da Tweney (in: Gholson et al. 1989; v. anche Gorman 1992), applicandolo agli scritti disponibili di Einstein. Giungeremo, in particolare, a mostrare che le sue scelte teoriche risultano, ad un’analisi cognitiva retrospettiva, alquanto razionali, mentre invece con i soli strumenti della filosofia della scienza, sarebbero classificate come irrazionali (Viale 1997). Questa razionalità, però, sarà limitata all’applicazione di alcune assunzioni di credenza che Einstein fece, più o meno inconsapevolmente, senza avere grandi garanzie della loro adeguatezza empirica. Ma questo non è che un caso particolare del procedere della conoscenza.
Alcune credenze, infatti, non vengono scelte razionalmente anche dallo scienziato “più razionale”, ma sono piuttosto date per scontate, presupposte dal ragionamento, recepite inconsapevolmente dal repertorio cognitivo socialmente disponibile. Esse rinviano, perciò, alla dimensione culturale delle risorse cognitive che il ragionatore si ritrova a disposizione attraverso il suo percorso di acculturazione ed il contagio sociale delle idee. Queste credenze sono sostanzialmente tacite (Polanyi 1958), e possono avere la forma di teorie ingenue (analogie, pre-idee, prototipi, ecc.), routine epistemiche (metodi di trattamento della conoscenza e delle sue fonti, criteri di attribuzione della rilevanza, criteri di controllo delle ipotesi, procedure di categorizzazione, schemi, script, ecc.), od anche semplici pratiche ed abilità non trasmissibili linguisticamente. Collettivamente, possiamo ricondurre con sufficiente esattezza queste credenze al tipo di conoscenza denominata knowing-how (Ryle), ma useremo di preferenza il termine usato da Hume di credenze, perché ha ormai dato origine ad una certa tradizione. Tali conoscenze sono anche caratterizzate dall’essere svincolate da stringenti requisiti di coerenza logica e, in gran parte, dal controllo razionale di adeguatezza empirica e, spesso, persino dall’accesso immediato da parte del ragionatore.
Di quando in quando, comunque, alcune di queste credenze vengono tematizzate e divengono, così, oggetto di attenzione focale ed argomento di indagine razionale. Le grandi scoperte scientifiche (le “rivoluzioni kuhniane”, per intendersi) sono alcuni di questi momenti, durante i quali lo scienziato cerca di sottoporre tali credenze a rigidi criteri di coerenza interna ed a sistematiche procedure di controllo della coerenza esterna. Da quel momento, almeno per lo scienziato in questione, queste credenze vanno ben distinte dalle altre, perché divengono sistemi di idee al pari di altre teorie esplicite, algoritmi risolutivi, definizioni e modelli espliciti. Conoscenze di questo secondo tipo richiamano, più o meno da vicino, il concetto di knowing-that (Ryle), ma anche in questo caso ci atterremo alla denominazione di Hume: idee. Successivamente, la comunicazione dei risultati inizia a diffondere il nuovo sistema razionalizzato, facendolo progressivamente entrare nel novero delle risorse condivise a livello sociale. Osserviamo, però, che nella fase di emersione delle credenze, lo scienziato non può ricorrere soltanto a procedure rigorose, ma deve necessariamente affidarsi anche ad euristiche informali ed insicure, proprie, ad esempio, del pensiero immaginativo. In ogni caso, dunque, altre credenze lo guideranno, rimanendo il più delle volte al di sotto del livello della sua personale consapevolezza o della sua capacità di controllo effettivo.
Conformemente ad euristiche di questo tipo, alcuni concetti fondamentali della teoria disponibile vengono rivisti, nuove ipotesi vengono assunte ed altre scartate, linee di ricerca prima indipendenti vengono integrate nel corpus di conoscenza, nuovi sviluppi, infine, vengono delineati sotto forma di idee guida. Tre sono i contesti cognitivi nei quali queste euristiche divengono produttive: nella diagnosi iniziale, nella produzione di nuove ipotesi e nella selezione di alcune sole fra tutte quelle che vengono da lui prodotte. Sviluppando un’intuizione di van Fraassen (in: Nersessian 1987), la prima fase può essere definita diagnosi personale, la seconda espansione sistolica, e l’ultima contrazione diastolica (Cerroni 2001b).
L’approccio che seguiremo, in quanto cercherà di contemperare ragionamento e cultura, può essere denominato approccio socio-cognitivo.
Il percorso einsteiniano
Iniziamo stabilendo obiettivi ed idee guida del programma einsteiniano, onde articolare un primo profilo concettuale della cosiddetta “rivoluzione einsteiniana”, scandito dalle due tappe fondamentali della formulazione della Teoria della Relatività, nella forma, rispettivamente, di Teoria Speciale e di Teoria Generale.
In molti luoghi chiave della sua ricerca sulla relatività (1905; 1916; 1921sgg.) Einstein parte segnalando un difetto nelle spiegazioni o nelle modellizzazioni, una restrizione non motivata, o più in generale una insufficienza epistemologica nella teoria corrente, che egli si ripropone di superare.
Nel primo articolo, ad esempio, egli osserva un’asimmetria esplicativa nella teoria elettrodinamica di Maxwell per il caso dell’azione reciproca che si esercita fra un magnete ed un conduttore in moto l’uno rispetto all’altro. Mentre ciò che può essere osservato dipende esclusivamente dal moto relativo dei due corpi, le spiegazioni fornite dall’elettrodinamica sono differenti se prendiamo un osservatore in un sistema di riferimento in quiete rispetto all’uno oppure all’altro. Si badi che, però, le previsioni nei due casi sono le medesime, e dunque l’asimmetria è anche fra spiegazioni diverse e previsioni identiche da parte della medesima teoria. Sorge il sospetto che tale asimmetria sia indizio di qualcosa che non funziona nella cinematica data per scontata ed impiegata senza una adeguata indagine, poiché non si vede come una differenza nella velocità del sistema dell’osservatore possa mutare la realtà di un fenomeno naturale. Tutt’al più, può cambiare la sua mera apparenza. Anzi, Einstein ritiene fermamente, più in generale, che le leggi scientifiche debbano essere indipendenti dalla velocità del sistema scelto. E ciò deve valere, innanzi tutto, per le equazioni con le quali il fisico le esprime. A questo stadio della sua ricerca, per esattezza, egli considera il solo caso dei sistemi inerziali, per i quali così già avviene per la meccanica di Newton (principio di relatività). A queste esigenze teoriche si aggiunge anche il dato sperimentale dei ripetuti fallimenti nel rilevare la presenza dell’etere elettromagnetico, la materializzazione del concetto astratto di spazio assoluto. Con ciò, l’intero quadro depone a sfavore dell’idea di quiete assoluta ed il moto, conseguentemente, emerge come grandezza essenzialmente relativa.
Ecco, dunque, che Einstein passa a tematizzare alcuni concetti fondamentali fra i più usuali (più precisamente delle pre-idee): spazio, tempo e moto. Fa questo a partire dalle concrete misurazioni che possono essere pragmaticamente condotte entro un sistema di riferimento. A questo punto, egli assegna una nuova, particolare rilevanza al fatto che la velocità della luce compare esplicitamente nelle equazioni fondamentali di Maxwell per il campo elettromagnetico. Mentre nella cinematica tradizionale la prima dovrebbe variare in ogni sistema, queste debbono invece valere per ogni sistema. Per conciliare la presenza di questa velocità con l’invarianza delle equazioni, egli assume la prima come una grandezza fondamentale ed invariante della natura. In questo modo le equazioni di Maxwell rimangono, ovviamente, invarianti per i sistemi inerziali e l’equazione dell’addizione delle velocità nella dinamica newtoniana continua ad essere valida solo nell’approssimazione di velocità piccole rispetto a quella della luce, che diventa una velocità limite ed in tutto analoga alla velocità infinita della precedente teoria.
Così facendo, però, Einstein riesce anche a dare una spiegazione per le trasformazioni di coordinate che, come Lorentz aveva appena scoperto, lasciano invariate le equazioni di Maxwell. Contrazione delle dimensioni spaziali e dilatazione delle durate temporali, infatti, sono ora spiegate in quanto causate dalle modalità di misura: se le misuriamo in un sistema in cui gli strumenti impiegati appaiono in moto, i regoli di misura dello spazio si contraggono e gli orologi rallentano. Con questa ridefinizione delle misure degli spazi e dei tempi, e in definitiva degli stessi loro concetti, cinematica ed elettrodinamica vengono unificate, ed il concetto di etere diviene ormai superfluo.
Ma nel 1916 esce l’articolo con il quale Einstein conclude la sua ricerca sulla relatività. Stavolta egli stringe ancor di più l’attenzione sulle misure con le quali sole possiamo stabilire le grandezze fondamentali della fisica: tutte le misure che noi possiamo fare non sono mai altro che coincidenze fra punti materiali dei nostri strumenti di misura ed altri punti materiali, fra lancette di un orologio e punti sul quadrante dell’orologio, e così via. Se, dunque, tutta la nostra esperienza fisica può essere ridotta a tali coincidenze, perché mai preferire un sistema di coordinate ad un altro? Quale senso può avere, in particolare, distinguere i sistemi inerziali dai sistemi accelerati? La limitazione del principio di relatività ai soli sistemi inerziali sembra dunque costituire, stavolta, un’asimmetria esplicativa fra cinematica e fisica.
Ecco che, allora, sarà la fisica a dover essere a sua volta rivista dalle fondamenta. Il cammino sarà, però, assai simile, in quanto si partirà dalle modalità (covarianti rispetto alle coordinate del sistema scelto) con le quali le grandezze fisiche vengono introdotte entro le equazioni, per trovare un modo nuovo e più generale di scriverle, così da tener conto della struttura dello spaziotempo (calcolo differenziale assoluto o calcolo tensoriale). Il precedente principio di relatività speciale andrà, conseguentemente, generalizzato in un nuovo principio di relatività generale: per la descrizione dei processi naturali occorre esplicitare il sistema di riferimento scelto, ma l’equazione che rappresenta una legge di natura deve avere la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento. Resta inteso che i valori numerici delle singole grandezze (ovvero le loro misure) saranno, in generale, differenti in ogni sistema, ma sono le leggi ricavate in uno qualunque di essi che dovranno essere identiche a quelle ricavate in ogni altro, a prescindere dal suo stato di moto. Vedremo più avanti come Einstein affronterà questo problema, attraverso l’euristica di covarianza/invarianza.
Nella diagnosi di Einstein, inoltre, vi sono anche altre non minori carenze esplicative nella fisica corrente.
In primo luogo, l’identità sperimentale fra la massa gravitazionale passiva, cioè quella che compare nella legge di attrazione universale di Newton, e la massa inerziale, quella che compare nella seconda legge fondamentale della dinamica, sembra una coincidenza del tutto casuale. Ciò a dispetto del fatto che si tratta di una proprietà palesemente fondamentale del campo gravitazionale, in quanto grazie ad essa ogni corpo che si trova in caduta entro un campo gravitazionale riceve la medesima accelerazione (le due masse si elidono e le traiettorie ne sono indipendenti), a prescindere dalla loro composizione chimico-fisica interna.
Per di più, risulta sempre possibile annullare ogni effetto gravitazionale, almeno all’interno di una zona di spazio sufficientemente piccola, introducendo un’opportuna accelerazione. Così come, viceversa, possiamo ristabilire la validità del principio d’inerzia all’interno di un sistema accelerato, introducendo un opportuno campo gravitazionale (principio di equivalenza). Possibile che sia tutto una dovuto ad una coincidenza casuale, si chiede Einstein (1911)? Invece di darle per scontate, egli cercherà di trovarne una spiegazione sistematica tematizzando il concetto di accelerazione e di gravità.
In secondo luogo, dalla Teoria Speciale della Relatività deriva che ad ogni quantità di energia è associata una massa inerziale ad essa proporzionale (E=mc2). Sorge però una grave difficoltà non appena ci chiediamo se ci sia anche un proporzionale aumento di massa gravitazionale. Se, infatti, supponiamo che non ci sia, le due masse non saranno più uguali ed il corpo violerà il principio di equivalenza sperimentalmente ben stabilito. Se, invece, supponiamo che un pari aumento di massa gravitazionale ci sia effettivamente, la Teoria Speciale della Relatività si mostra del tutto sguarnita di spiegazioni causali per il legame fra peso di un corpo ed energia in esso contenuta. Questo legame rimane un dato per scontato della Teoria Speciale, e dunque un immotivata coincidenza.
Inoltre, la Teoria Speciale sembra, per certi aspetti, addirittura contraddittoria con la gravitazione. Se vi fosse un qualche effetto gravitazionale su un raggio luminoso, ad esempio, esso porterebbe ad una sua accelerazione, e questa variazione di velocità violerebbe il principio di costanza della velocità della luce. Ma se, d’altra parte, la luce fosse esente da effetti gravitazionali si verrebbe a violare il principio di equivalenza fra energia-massa inerziale e massa gravitazionale. Siamo, in questo caso, di fronte addirittura ad un’antinomia, che può essere risolta soltanto superando la Teoria Speciale per inglobare anche la gravitazione in una nuova teoria.
Infine, la struttura dello spaziotempo entra nella fisica come presupposto fondato solo intuitivamente. Essa, però, si distingue per una sua natura curiosa: essa sembra agire su tutto, senza che sia possibile una qualunque azione su di essa (Einstein 1921sgg.). Il passo ulteriore che farà Einstein sarà quello di concepire uno spaziotempo interagente con i corpi, e il tramite sarà, ovviamente, la gravitazione. La costante ricerca di sopprimere (gradualmente) tutti gli assoluti presenti nella dinamica newtoniana (e nella filosofia kantiana su di essa modellata) caratterizza, in effetti, tutto il percorso di Einstein. La teoria finale rimarrà con il solo invariante (a parte la conservazione dell’energia-impulso) della distanza spaziotemporale, che però è, a differenza degli altri, un elemento geometrico già strutturalmente imbevuto della dinamica del campo gravitazionale e conseguentemente, grazie proprio alle equazioni di campo di Einstein, determinato dalla distribuzione spaziotemporale di materia ed energia.
L’unificazione di geometria, gravitazione e dinamica operata con la Teoria Generale della Relatività elimina, perciò, tutti (o almeno quasi tutti) gli altri ingombranti fantasmi che nella Teoria Speciale venivano dati per presupposti: l’accelerazione assoluta, il sistema inerziale e la velocità della luce.
Il percorso einsteiniano, in conclusione, è caratterizzato dunque dalla progressiva introduzione di nuovi accenti di rilevanza a fatti (teorici ed empirici) già noti e dall’aspirazione ad eliminare asimmetrie, limiti e difetti epistemologici insiti nelle correnti teorie, in un’ottica che possiamo definire satisficing (Simon p.es. 1972; Giere 1988). Il programma, inoltre, della progressiva relativizzazione della fisica, consistente nella ricerca di leggi invarianti più generali possibile e nell’eliminazione delle grandezze assolute, era iniziato già con Galileo Galilei e giungeva così con Einstein al suo (temporaneo) compimento. La nuova Teoria Generale era stata ricavata a partire dalla gravitazione e dinamica newtoniana e, poi, dalla stessa Teoria Speciale, che erano stati assunti, così, come degli specifici casi limite. Essa risulta effettivamente invariante per tutti i sistemi di riferimento (fisicamente) ipotizzabili proprio grazie alla loro definizione covariante. Torneremo su questo punto fondamentale più avanti.
Vediamo ora i principali strumenti euristici utilizzati da Einstein nel percorrere le tappe fondamentali che abbiamo appena visto in questo breve excursus. Ci occuperemo, nell’ordine, delle quattro euristiche astrattive, di impiego assai generale nel ragionamento (Nersessian in: Giere 1992), e delle quattro euristiche orientative, invece assai più specifiche della scoperta einsteiniana (Cerroni 1999). Tutte le euristiche sono degli strumenti cognitivi deboli, e in questo si distinguono dagli algoritmi, poiché non garantiscono l’esito di una soluzione (comunque sia) e neppure prevengono gli errori. In altre parole, non è certa né la loro efficienza conoscitiva nel produrre ipotesi controllabili, né, tanto meno, la loro efficacia conoscitiva nel produrre conoscenza deduttivamente certa. Einstein, in effetti, venne più volte tratto fuori strada o rallentato proprio dal loro utilizzo, ma in questi casi imputò il fallimento più a limiti personali che non a difetti delle euristiche stesse. Comunque, esse sono state capaci di fornirgli ottime (o meglio, soddisfacenti) ragioni per formulare un’ipotesi o un criterio per attribuire maggiore rilevanza ad un problema, ad un effetto o ad una coincidenza. In questo rivelano proprio la loro funzione cognitiva fondamentale, ma pure rinviano, come vedremo, ad altre credenze che le sostengono più o meno inavvertitamente.
Analizziamo, quindi, separatamente i due tipi di euristiche alle quali Einstein in maniera palese ricorse, a volte per condurre la sua diagnosi sullo stato della teoria, per generare nuove ipotesi e per selezionarne una sola: le euristiche astrattive e le euristiche orientative.
2. Le euristiche dell’astrazione
Le prime euristiche che affrontiamo sono molto utilizzate nel ragionamento comune come anche in quello scientifico, in particolare durante le sue fasi cosiddette “rivoluzionarie” e sono le seguenti (Nersessian in: Giere 1992): ragionamento analogico, ragionamento per immagini, esperimento mentale e analisi di casi limite. Esse sono strumenti di costruzione induttiva di astrazioni, e come vedremo la loro componente logico-proposizionale è minima, non potendo essere ridotte ad una sequenza di operazioni di calcolo.
Ragionamento analogico
Si tratta di un’euristica largamente utilizzata nel ragionamento comune, con grande naturalezza, ed anche gli scienziati vi ricorrono sovente. Un ragionamento analogico può essere schematizzato in questo modo: se un certo A (meglio conosciuto) ed un certo B (meno conosciuto) condividono alcune proprietà (p1¼ pm) possiamo ipotizzare che un’altra proprietà pn, di cui gode A, sia condivisa analogamente anche da B (Hesse 1966). Quest’inferenza è, però, molto debole, soprattutto perché, nelle applicazioni pratiche, viene usata quando le somiglianze fra A e B e fra pn e le altre proprietà sono poco accurate. È proprio in questi casi, d’altra parte, che essa si mostra utile nel generare nuove ipotesi altrimenti impossibili a partire dai troppo scarsi elementi a disposizione.
In effetti, ad essere più precisi, la conoscenza che trasferiamo dal dominio A (source) al dominio B (target) non è mai, almeno nei casi scientificamente rilevanti, una proprietà isolata. Si tratta, piuttosto, di una certa struttura particolare di relazioni fra le proprietà del dominio source che viene proiettata sul target. Quello che avviene, dunque, è un mapping isomorfo della conoscenza del source sul target (Gentner in: Vosniadou, Ortony 1989).
In una fase successiva, lo scienziato deve comunque sempre intervenire con una qualche modifica finale, una “ri-rappresentazione” volta a fornire la corretta interpretazione dei termini, ovvero a stabilire quali debbano essere i significati esatti da attribuirsi agli elementi collegati ex-novo dalla struttura trasferita. In questa fase, egli deve tenere conto di quelli che debbono essere ritenuti i vincoli semantici specifici del dominio target, a differenza del source. Il diverso grado di conoscenza dei due domini e la ricontestualizzazione semantica sul nuovo, inoltre, rendono conto del fatto che l’analogia non istituisce necessariamente un legame transitivo.
L’analogia viene così a creare un nesso astratto che, se ripetuto fino a diventare abitudine o altrimenti rafforzato dall’attenzione e dal convincimento, può divenire un nesso stabile ed essere, quindi, successivamente riutilizzato intuitivamente, divenendo uno schema di collegamento fra due domini anche assai eterogenei. Questo schema diviene, perciò, una nuova conoscenza incamerata dallo scienziato.
Le analogie sono spesso presenti nei ragionamenti che conducono a delle scoperte scientifiche. In alcuni casi si tratta di riconoscere somiglianze o analogie fra problemi (Kuhn 1977). Così è anche nel caso di Einstein, quando, ad esempio, prende a modello per la sua teoria del campo gravitazionale la teoria di Maxwell per il campo elettromagnetico, (Einstein 1921sgg.). L’analogia individuata gli fa imporre la condizione che le equazioni della Teoria Generale siano alle derivate parziali del secondo ordine tanto nella metrica che nel campo gravitazionale. Ma le peculiarità del target gli impongono che le stesse equazioni siano non-lineari, visto che l’energia del campo gravitazionale è essa stessa fonte di campo gravitazionale.
Per altro verso, si noti la debolezza dell’euristica applicata al caso in questione: Einstein si fisserà inutilmente sull’analogia con la teoria maxwelliana anche successivamente, quando tenterà invano un’ulteriore generalizzazione della Teoria Generale (Einstein 1921sgg.).
Fra le altre analogie fondamentali usate da Einstein, e più o meno stringenti, si possono citare quelle fra spazio e tempo; fra sistemi di coordinate tridimensionali, quadridimensionali e poi gaussiane; e fra problema matematico della Teoria Generale della Relatività e teoria gaussiana delle superfici.
Ragionamento per immagini
Un ragionamento di tipo analogico particolarmente potente è quello che impiega un’immagine sensoriale (generalmente visiva) come se fosse un correlato percettivo di un modello mentale, considerato da un preciso punto di vista (Johnson-Laird 1983). In questo modo lo scienziato può rappresentarsi una certa struttura semplificata dei fenomeni e compiervi agevolmente delle operazioni (Kosslyn 1983), grazie alla facilità con cui la nostra mente costruisce inferenze con materiale di tipo percettivo. L’astrazione che così si costruisce è di livello intermedio fra i fenomeni rappresentati e le formule matematiche. Si tratta di una tecnica molto diffusa nel lavoro scientifico, soprattutto nei periodi che Kuhn definirebbe di “crisi”, ed è ormai ben studiata (Mach 1905, Hadamard 1945, Miller 1984, Finke et al. 1992).
Vediamo alcuni esempi di ragionamento per immagini condotto da Einstein che compaiono nei suoi scritti.
Nei lavori di taglio storico-divulgativo egli ricorre molto spesso a questa euristica: la tavola di marmo ed il mollusco di riferimento con cui egli si rappresenta, rispettivamente, il continuo spazio-temporale ed un sistema di riferimento non rigido in relatività generale; i dischi rotanti e gli esseri piatti dotati di strumenti piatti (Einstein 1917), i fantasmi bidimensionali, in analogia con le immagini dei personaggi di un film proiettato sullo schermo (Einstein, Infeld 1938); gli uomini che conoscono solo una parte molto piccola della superficie terrestre e che non riescono a vedere le stelle (in: Schilpp 1949).
Pur essendo molto più difficile acquisire evidenze dell’uso di questa euristica nel processo di scoperta, Einstein stesso riferisce di farvi ricorso (cit. in Wertheimer 1945,1959):
(¼ ) durante tutti quegli anni ci fu la sensazione di una direzione, dell’andare direttamente verso qualcosa di concreto. Naturalmente è molto difficile esprimere a parole quella sensazione, ma decisamente le cose stavano così, ed erano tali da venir distinte chiaramente da considerazioni successive circa la forma razionale della soluzione. Naturalmente dietro a una tale direzione c’è sempre qualcosa di logico; ma in me è sempre presente sotto forma di una specie di sguardo generale, in un certo senso, in modo visivo.
Analizzando più da vicino i suoi lavori, sembra di poter condividere il giudizio espresso da Miller (1984) secondo il quale Einstein tende a cristallizzare i problemi in immagini fino a che non ne scaturisce la soluzione. Forse possiamo allora concludere, con Holton (1981), che egli avesse l’abitudine di pensare per immagini.
L’uso più o meno spinto di immagini da parte di uno scienziato fornisce un criterio per distinguere due stili cognitivi fondamentalmente diversi. Ad uno stile logico, fondato su ragionamenti stringenti e argomenti rigorosamente deduttivi, infatti, si può contrapporre uno stile immaginativo che privilegia la malleabilità cognitiva del ragionamento per immagini. Nella storia della scienza vi sono casi notevoli di scienziati che spiccano per ciascuno dei due stili.
Esperimento mentale
Alle volte sull’immagine si compie una vera e propria simulazione mentale, un vero e proprio esperimento mentale. Questo può risultare decisivo qualora un esperimento reale risulterebbe irrealizzabile, per motivi di ordine tecnico o per la violazione di limitazioni fisiche, o semplicemente per attrezzarsi con un modello mentale particolarmente semplificato per la situazione studiata. L’accuratezza e capacità predittiva che spesso li caratterizza ci spingono a non condividere la concezione “idealista” (come quella di Koyré 1966) che vorrebbe l’esperimento mentale condotto a priori, cioè utilizzando esclusivamente delle risorse interne alla costituzione della mente. Nei casi che ora esamineremo esso assolve alla medesima funzione psicologica di un esperimento reale, e l’esser compiuto all’interno di un modello mentale non sembra costituire una particolare specificità epistemica (Johnson-Laird 1983, Gooding 1990, Boniolo 1997, Gooding 1994).
Il primo esempio di esperimento mentale che è d’uopo rilevare in Einstein è quello al quale si riferiva come al pensiero più felice della mia vita (cit. in: Pais 1982): per un osservatore che cada liberamente dal tetto di una casa, non esiste – almeno nelle immediate vicinanze – alcun campo gravitazionale. Standosene comodamente seduto in poltrona nella sua stanza presso l’ufficio brevetti di Berna, un certo giorno del novembre 1907 questo ragionamento, all’apparenza banale, gli permette di focalizzare l’attenzione sul principio di equivalenza fra massa inerziale e massa gravitazionale e di rendersi, come abbiamo visto, meglio conto degli stretti legami fra campi gravitazionali e sistemi di riferimento accelerati.
Un altro esperimento, famoso perché riportato nei testi più popolari (Einstein, Infeld 1938), è quello dell’uomo in un ascensore. Un ascensore si trova all’ultimo piano di un grattacielo molto, ma molto più alto di quelli che esistono realmente. Improvvisamente immaginiamo che si spezzi il cavo che lo sostiene e l’ascensore inizia a cadere nel vuoto. Vediamo le due differenti varianti rappresentative che, della medesima situazione fisica, possono formarsi un osservatore all’interno dell’ascensore ed uno al suo esterno, che rimanga solidale con il resto del grattacielo, ma possa guardare al suo interno.
All’interno dell’ascensore, l’accelerazione di caduta dell’ascensore (trasmessa a tutti gli oggetti che si trovano al suo interno) annulla esattamente, grazie al principio di equivalenza, la forza peso alla quale tutti gli oggetti sono sottoposti. Quindi, la variante che può farsi l’osservatore al suo interno non contempla alcuna accelerazione: tutti gli oggetti (se stesso compreso) sono rigorosamente immobili. Con i soli mezzi disponibili dentro l’ascensore (cioè, senza guardare all’esterno) non si può che concludere di trovarsi in un sistema inerziale. È chiaro invece che, nella variante costruita dall’osservatore esterno, l’ascensore (e tutto il suo contenuto) appare in palese moto accelerato all’interno di un campo gravitazionale. Dunque, ne conclude Einstein (qui assieme a Infeld), possiamo rinunciare allo statuto privilegiato di sistema inerziale a patto di introdurre la gravitazione, che esiste per l’osservatore esterno, ma non per quello interno.
Cambiamo adesso l’intera situazione: l’ascensore, stavolta, viene tirato con forza costante verso l’alto. L’osservatore al suo interno sperimenta un campo di forze (locali) in tutto equivalenti a quelle che eserciterebbe un campo gravitazionale che lo spingesse verso il basso. L’osservatore all’esterno, invece, vede l’ascensore soggetto soltanto ad un’accelerazione verso l’alto. Non vi è modo di decidere quale delle due rappresentazioni è quella vera. Ma supponiamo che sopraggiunga adesso un raggio luminoso proveniente dall’esterno, passi attraverso l’ascensore correndo a velocità costante parallelamente alla sua base, andando a colpire la parete opposta a quella di entrata. L’osservatore all’interno vedrà un percorso luminoso curvato verso il basso (durante il percorso, la seconda parete “scorrerà” un poco verso il basso, dato che l’ascensore, a differenza del raggio, si sposta verso l’alto), in violazione del principio fondamentale dell’ottica geometrica (propagazione rettilinea). L’osservatore all’esterno, invece, vedrà (come noi) un percorso luminoso rettilineo, perché, per lui, sarà stato l’ascensore, durante il passaggio del raggio, ad essersi spostato verso l’alto. Per riconciliare le due descrizioni, e ristabilire una perfetta equivalenza fra le rappresentazioni che possono farsi i due osservatori, bisogna che la luce venga “curvata” da un campo gravitazionale.
Nelle due diverse situazioni descritte, se entrambi gli osservatori vogliono formarsi una teoria fisica generale, debbono poter trovare le medesime equazioni, visto che la situazione fisica è una sola. Einstein ne conclude di dover ricercare un unico sistema di equazioni invariante che descriva la medesima situazione fisica e che contemporaneamente permetta le due diverse varianti rappresentative, che divengono il prodotto di una semplice variazione di sistema di riferimento. Oltre all’importanza di questo esperimento, ovviamente irrealizzabile in laboratorio, si può vedere l’accuratezza della sua elaborazione, la dovizia di particolari, la successione di diversi esperimenti con il medesimo “apparato sperimentale”. Questo sembra confermare la validità che può essere attribuita all’euristica.
Nelle pagine di Einstein si possono trovare anche altri esperimenti mentali.
Ad esempio, quello di due osservatori che registrano un evento improvviso, uno da un vagone ferroviario in moto rettilineo ed uniforme lungo i binari di una ferrovia, e l’altro fermo sulla banchina di una stazione (Einstein 1917). Da questo esperimento, che è una rielaborazione di quello simile già esposto in (Einstein 1905), Einstein ricava stavolta la necessità di ridefinire il concetto di simultaneità, poiché essa non può essere definita al di fuori di un sistema di riferimento.
Infine, vi è l’esperimento che Einstein ci dice di essersi immaginato all’età di sedici anni (in: Schilpp 1949, v. anche: Pais 1982): se fosse possibile andare a cavallo di un raggio di luce, il campo elettromagnetico sarebbe per noi un’onda stazionaria e le leggi dell’ottica non sarebbero più quelle che possiamo sperimentare in ogni contesto reale: la velocità della luce deve avere un significato del tutto particolare.
In conclusione, va notato che, dietro all’esperimento mentale dell’ascensore come dietro a quello del vagone ferroviario, riecheggia l’esperimento della nave ferma in porto e poi in moto rettilineo uniforme usata da Galilei (1632). Ma già prima di Galilei esso era diventato tradizionale, con Buridano, Oresme, Copernico e Bruno, e l’esperimento verrà anche successivamente ripreso da Newton e Kant. Dall’osservazione di questa tradizione, dunque, intravediamo un repertorio cognitivo definito di analogie, immagini e modelli al quale Einstein verosimilmente ha attinto, probabilmente traendone anche ispirazione per il suo stile.
Analisi di un caso limite
In alcuni esperimenti mentali si fa un esperimento, oppure un calcolo, in condizioni estreme, che dobbiamo definire come condizioni limite, perché alcuni parametri critici vengono portati ad un loro “valore limite”. I risultati dell’esperimento così condotto vengono utilizzati per fattorizzare un problema in sotto-problemi cognitivamente più facili o per evidenziare parametri e situazioni particolarmente critici.
Si parte da un modello (in genere un’immagine sensoriale) molto scarno e semplificato, perfettamente dominato dallo scienziato in tutte le variabili da lui ritenute rilevanti. A questo punto egli compie un esperimento mentale “ottimale”, per poi generalizzare i risultati a tutti i casi ipotizzabili, con i rischi che vanno mesi nel conto di ogni generalizzazione induttiva.
Il caso paradigmatico di analisi di caso limite nella storia della fisica è probabilmente quello dell’esperimento mentale che Galilei compie nel Dialogo sul principio di inerzia. Egli immagina delle sfere, progressivamente sempre più levigate, fino alla sfericità perfetta, in caduta lungo un piano inclinato, con superficie sempre più levigata fino ad annullare le asperità. Ne ricava che le sfere si fermeranno sempre più lontano, e, al limite in cui si saranno rimossi tutti gli impedimenti, proseguiranno di moto rettilineo uniforme. La generalizzazione che egli ne fa costituisce il primo principio della dinamica, e consiste nell’affermazione che ogni corpo non soggetto a forze esterne o è in quiete o si muove di moto rettilineo uniforme.
Anche Einstein ricorre sovente all’analisi di casi limite. Un caso valga per tutti: quando egli (Einstein 1916, Parte E) costruisce l’approssimazione di campo gravitazionale debole e quasi-statico e vi deduce la teoria newtoniana della gravitazione quale prima approssimazione della Teoria Generale. Quindi, calcola il valore del coefficiente di proporzionalità fra “fisica” e “geometria” e le tre nuove previsioni della Teoria Generale: spostamento verso il rosso delle righe spettrali di una sorgente in un campo gravitazionale, deflessione gravitazionale dei raggi di luce da parte del Sole e di Giove, precessione del perielio dell’orbita di Mercurio. Questo caso è emblematico di tutti quei casi in cui egli pone la teoria che sta costruendo nelle condizioni limite di buona validità della vecchia teoria, onde usare questa in conformità con l’euristica di covarianza esplicativa, che esamineremo tra breve.
Inutile dire che, tanto i criteri di rilevanza che lo scienziato introduce per tenere sotto controllo l’esperimento, quanto quelli che utilizza per condurre la generalizzazione finale, non sono sempre suffragati da un’indagine paragonabile a quella della conduzione dell’esperimento. Questi criteri poggiano su credenze di qualche tipo, come l’omogeneità ed isotropia dello spazio, la continuità dei domini fenomenici, la capacità di riprodurre mentalmente lo stesso ordine che regge le sorti dei fenomeni fisici, e così via.
3. Le euristiche di orientamento
Nella ricerca einsteiniana è diffusamente presente un secondo tipo di euristiche che illuminano sul contenuto della Teoria della Relatività ed in certa misura ne costituiscono addirittura il cuore scientifico-filosofico. Esse sono, sostanzialmente, delle sistematizzazioni di credenze che Einstein recepisce, in qualche con grande consapevolmente in altri meno, ed utilizza con grande incisività e perseveranza per produrre delle mutazioni all’interno della teoria corrente. Quello che intravedremo, dunque, non sarà soltanto il tipo di ragionamento che possiamo presumere abbia condotto Einstein alla sua scoperta, stando almeno agli scritti che prenderemo in considerazione, ma anche lo stesso contenuto epistemologico e, in certa misura, l’intero retroterra culturale della Teoria della Relatività.
Come notazione generale possiamo dire che nessuna di queste euristiche deve soddisfare necessariamente un criterio di coerenza logica, sia nel suo essere applicata radicalmente fino alle sue estreme conseguenze, sia nel confronto con le conclusioni che possono essere tratte dalle altre. Piuttosto, l’intera impresa cognitiva è intonata ad un generale criterio di razionalità satisficing, che può dunque legittimamente essere concepita come un’ulteriore euristica della scoperta. Lo stesso criterio di coerenza, anzi, viene sostituito dall’assai più sfumata perfezione interna della teoria, che costituisce proprio la prima di queste euristiche.
Perfezione interna
Un requisito necessario per una teoria scientifica è, senza dubbio, un (soddisfacente) grado di conferma esterna, ovvero di corrispondenza fra previsioni teoriche e dati empirici disponibili. Non è questa la sede per affrontare i problemi di filosofia della scienza insiti nei criteri di accertamento del grado di conferma e del suo concetto stesso. Ciò che dobbiamo qui invece notare è che, comunque, ad una ricognizione storica non si rivela un requisito sufficiente. Una teoria scientifica deve anche avere, infatti, un (soddisfacente) grado di perfezione interna.
Questa euristica è molto diffusa nella scienza, ed è ben presente nel pensiero di Einstein. Egli infatti afferma esplicitamente (in: Schilpp 1949): una teoria è tanto più convincente quanto più semplici sono le sue premesse, quanto più varie sono le cose che essa collega, quanto più esteso è il suo campo d’applicazione. Dunque, la perfezione interna consiste nella semplicità dei presupposti espliciti, nell’assenza (per quanto possibile) di ipotesi ad hoc, e nell’ampiezza e diversificazione dei domini da essa unificati. Similmente, Thagard (1992) ha esaminato il ruolo della explanatory coherence nella scelta delle teorie, riferendosi con questo termine allo “stare insieme” di un sistema di proposizioni per mezzo di strette relazioni di spiegazione, e dunque non solo per via deduttiva.
Rientrano come casi di applicazione di questa euristica da parte di Einstein il superamento di tutti quei difetti delle spiegazioni e modellizzazioni, quelle limitazioni teoriche che sembrano artificiose, e le altre carenze epistemologiche che abbiamo fin qui visto.
Un punto particolare merita, comunque, di essere approfondito. Einstein afferma (1948) di aver sempre voluto costruire una teoria che, invece di costruire una rappresentazione a partire da costituenti elementari (come per una teoria che egli chiama costruttiva), formuli dei principi generali che governano i fenomeni e ne produca deduttivamente delle equazioni che valgono in tutti i casi particolari (teoria di principi). La differenza fra i due tipi di teoria sta nel fatto che, nel primo caso, la teoria può essere particolarmente chiara, ma nel secondo la teoria può essere ben più salda (Einstein 1948). La perfezione interna, inoltre, riguarda soltanto la teoria fisica nel suo complesso, geometria compresa, e non ciascun ingrediente che la compone, preso singolarmente (in: Schilpp 1949).
A questo proposito, infatti, Einstein si mostra spesso disposto a rinunciare, almeno temporaneamente, alla facilità del calcolo matematico ed all’intuitività della geometria, e persino all’intelligibilità di singoli termini (Zahar 1973) a vantaggio della semplificazione della fisica ed all’allargamento della sua portata teorica.
Un impiego più puntuale di questa euristica è quello in cui egli cerca di costruire delle (assai complicate) equazioni covarianti per il campo gravitazionale, senza disporre dell’interpretazione fisica degli enti matematici che ha dovuto introdurre. La conseguente compattezza logica della teoria fa sì che, se una qualsiasi deduzione tratta dalla teoria dovesse rivelarsi insostenibile, la teoria dovrebbe esser messa da parte per intero. Una sua modificazione sembra impossibile senza distruggere la struttura di insieme (Einstein 1936). E questo, evidentemente, è per lui un punto di vantaggio della sua rispetto alle teorie precedenti.
Questa sembra, dunque, un’euristica particolarmente esplicita. Ma dietro di essa si possono intravedere delle credenze che, più implicitamente, sembrano guidare il ragionamento di Einstein. Fra esse, possiamo individuare la credenza in un ordine logico nella natura, tanto astratto quanto semplice, il cui disegno va svelato superando le molte complessità in cui l’uomo si imbatte nella sua ricerca. Ancora, un’altra credenza data per scontata è che un criterio di verità per una teoria sia la sua generalità. Le ascendenze di queste credenze rimontano al rasoio di Occam ed al veritatis splendor di origine medievale, ma con anticipazioni nella filosofia greca (Platone). Per altro, i criteri estetici per una teoria scientifica sono certo cambiati storicamente, e quella di Einstein svolge tuttora da ottimo esemplare di riferimento.
Spiegare-o-assumere
Un’euristica più elementare, ma non meno potente, che compare molto di frequente negli scritti di Einstein, sia in quelli scientifici, sia in quelli storici e metodologici è riassumibile con il principio di non considerare come casuali le connessioni regolari tra fenomeni percepiti o descritti come distinti (Petroni 1990; cfr. Zahar 1973, 1989). Si possono fare molti esempi:
la non rilevabilità del moto assoluto gli suggerisce che questo non esista(1905);
la fondamentale invarianza delle equazioni di Maxwell sotto trasformazioni di Lorentz per le coordinate gli impone di trovarne una qualche spiegazione (1905);
l’evidenza a favore della costanza della velocità della luce in tutti i sistemi di riferimento (inerziali) gli suggerisce di assumere questa come nuovo principio fondamentale (1905);
l’eguaglianza fra massa inerziale e massa gravitazionale lo spinge alla ricerca di una teoria che colleghi cinematica e dinamica gravitazionale (1911).
Per ogni dato empirico o relazione teorica che appare tanto certa quanto inspiegabile, dunque, bisogna cercare una spiegazione opportuna, oppure, in via subordinata, trasformarla in un principio fondamentale per una nuova teoria della quale controllare successivamente le previsioni.
Questa euristica è palesemente basata sulla credenza implicita che ogni fatto abbia una sua causa e che la scienza debba proprio andare di queste cause che reggono tutte le regolarità che possiamo riscontrare. Ma, è chiaro, non tutti i dati empirici vanno necessariamente spiegati: se, ad esempio, per Keplero il numero dei pianeti del sistema solare era legato all’intero ordine del cosmo, per Newton ed Einstein esso è solo un dato contingente che non merita una spiegazione cosmologica, ma una semplice ricostruzione locale. I criteri che vengono utilizzati per attribuire queste rilevanze, e quindi per applicare l’euristica spiegare-o-assumere concretamente ai problemi scientifici, variano, dunque, storicamente.
Corrispondenza esplicativa
All’inizio degli anni Venti del XX secolo, il grande scienziato Niels Bohr introdusse questa euristica nella maniera più esplicita, come principio base per la teoria quantistica, il principio di corrispondenza. Essa ha anche ricevuto grande attenzione da parte dei metodologi (Achinstein 1968, Fadner 1985, Popper 1951-6, Reichenbach 1920, Radder 1991, Toraldo di Francia 1976,1981) Zahar 1973, 1989), Post (1971), in particolare, la interpreta anche come principio euristico ed è stata studiata in Einstein da Zahar (1973, 1989).
Possiamo mettere l’euristica in questi termini: ogni nuova teoria scientifica dovrebbe ridursi alle precedenti teorie formulate nel medesimo dominio di fenomeni, negli ambiti particolari in cui queste sono ben corroborate dai dati empirici. Le vecchie teorie, dunque, divengono dei particolari casi limite o delle approssimazioni della più generale e più precisa nuova teoria. Questo vale, innanzi tutto, per le equazioni nelle quali le teorie trovano espressione matematica. Ma, nella solita maniera non definitiva delle nostre euristiche, questo tende a valere anche per la semantica degli stessi termini teorici (Achinstein 1968).
Anche se non con la manifesta esplicitazione di Bohr, un’evidenza di applicazione dell’euristica nella prima accezione in Einstein si ha in (Einstein 1921sgg.). Qui egli così scrive a proposito della Teoria Generale:
per decidere se le equazioni sono in accordo con l’esperienza, è necessario anzitutto esaminare se, in prima approssimazione, conducono alla teoria newtoniana. A tal fine introdurremo in esse varie approssimazioni.
Più in generale, si può notare la costante ricerca che egli compie di riottenere le teorie già disponibili sotto forma di casi particolari della nuova che va elaborando (Einstein 1905, 1916).
Per quanto riguarda l’accezione semantica dell’euristica, ci possiamo aspettare che, nell’elaborare la nuova teoria lo scienziato consideri le vecchie teorie come repertori di termini semanticamente ben connotati per poter aggiungere delle nuove entità teoriche o per interpretare, magari anche ricorrendo ad analogie, termini ed equazioni della nuova teoria. Di quest’uso semantico dell’euristica di corrispondenza esplicativa v’è traccia in Einstein quando egli interpreta, nella nascente Teoria Generale, i coefficienti dei differenziali delle coordinate (metrica dello spazio) come campo gravitazionale, poiché ricorre alla metrica della (vecchia) Teoria Speciale (1916). Quando, poi, deve interpretare il tensore energia-impulso che compare nell’equazione del campo gravitazionale, sostiene addirittura di dover utilizzare i concetti della fisica prerelativistica, adattandoli soltanto a posteriori al principio della relatività generale (Einstein 1921sgg.).
Possiamo, perciò, sostenere che la nuova teoria viene costruita sfruttando sistematicamente un’analogia semantica parziale con quello che si ottiene dalle vecchie pur nei soli ambiti in cui queste vengono ancora accettate. Ma a questo ruolo “parassitario” o continuista della nuova teoria, fa da contrappeso la coerenza esplicativa che la nuova teoria porta in dote alle vecchie teorie, fornendo loro una nuova luce ed una nuova portata: l’universo di Einstein, in un certo senso, è più vasto di quello di Newton, poiché contempla casi semplicemente inconcepibili all’epoca di Newton. È chiaro, però, che alcune conseguenze della nuova teoria possono essere del tutto imprevedibili a partire dalle vecchie.
Una generale credenza che si può facilmente scorgere dietro questa euristica può essere riassunta nell’immagine medievale di nani sulle spalle di giganti, nella presupposizione, dunque, di un lavoro continuativo dell’umanità nell’accertamento della verità. Scrive al proposito Einstein nel 1921 (cit. in: Holton 1986):
Si è ampiamente diffusa tra il grande pubblico la falsa opinione che la teoria della relatività si discosti radicalmente dai precedenti sviluppi della fisica da Galileo e Newton in poi, e che essa si opponga drasticamente alle loro deduzioni. È vero il contrario. Senza le scoperte di ciascuno dei giganti della fisica, ovvero coloro che in passato ne formularono le leggi, non sarebbe stato possibile concepire la relatività e tanto meno garantirle una base. È psicologicamente impossibile pervenire d’un balzo a tale teoria, prescindendo dal lavoro che essa presuppone. Galileo, Newton, Maxwell e Lorentz sono stati coloro che hanno gettato le fondamenta della fisica su cui ho potuto costruire le mia teoria.
Non sembra, perciò, condivisibile la tesi kuhniana secondo cui la teoria di Einstein può essere accettata soltanto se si riconosce che quella di Newton era sbagliata (Kuhn 1962sgg.). Al contrario, Einstein utilizza costantemente la teoria di Newton per prevedere sia la forma generale della nuova teoria, sia alcuni requisiti delle sue equazioni, e addirittura i significati di alcuni nuovi termini. La teoria newtoniana, dunque, entra in quella di Einstein carica di molti suoi presupposti, molti dei quali implicitamente recepiti. Solo una futura teoria che generalizzi la stessa Relatività Generale, probabilmente, potrà esplicitare queste credenze.
Covarianza/invarianza (relatività metodologica)
Il vizio di fondo delle teorie scientifiche disponibili contro il quale Einstein si scaglia costantemente è quello, da noi già incontrato, di non fornire una risposta adeguata all’esigenza di contemperare leggi invarianti, cioè indipendenti dal sistema di riferimento, e grandezze fisiche costruite all’interno di un dato sistema di riferimento, e dunque naturalmente covarianti con esso. Filosoficamente i due aspetti appaiono come antinomici, ma la (senza dubbio parziale) soluzione da lui trovata ci fornisce invece un programma di mediazione metodologicamente assai interessante.
Tale è il rilievo che questo obiettivo fondamentale ha per Einstein, che esso diventa un vero e proprio criterio guida per tutto il suo percorso di ricerca. Egli si riferisce esplicitamente, infatti, al valore euristico o direttivo della teoria della relatività o del principio generale di relatività (Einstein 1917; v. anche in: Schilpp 1949) che così stabilisce in (Einstein 1916):
Le leggi generali della natura debbono essere espresse da equazioni che valgono per tutti i sistemi di coordinate, cioè che sono co-varianti rispetto ad ogni sostituzione qualsiasi (generalmente co-varianti).
Si riscorrano le pagine appena trascorse, e si troverà costante traccia dell’euristica.
Vediamo ora, però, di discutere meglio i due termini di covarianza ed invarianza.
A parte i (pochi) parametri numerici fondamentali, per ogni grandezza che compare nella teoria vale quello che scrive (Reichenbach 1927):
se si passa da un sistema di riferimento a un altro, essa muta, varia insieme a – questo è il significato della parola covariante. Non è da credere, tuttavia, che con ciò si sia eliminato il significato oggettivo della conoscenza della natura, poiché tutte queste descrizioni che possono essere fornite a partire da sistemi di riferimento diversi costituiscono soltanto diversi modi di parlare attraverso i quali si può cogliere il vero carattere della natura. (¼ ) tutte queste descrizioni intendono riferirsi a un solo e medesimo stato oggettivo. Questo stato è l’invariante, ciò che non muta. Nella coppia di concetti invariante-covariante si esprime forse con la massima chiarezza la peculiarità della matematica relativistica: covariante è il tipo della descrizione, invariante lo stato colto in comune da tutte le diverse descrizioni.
Non è sufficiente, però, una mera invarianza-in-forma delle equazioni. Osserva, infatti, van Fraassen (1989) che, per essere veramente generale, una proposizione deve essere covariante, deve avere questo status logico: o è vera in tutti i sistemi di riferimento oppure non è vera in nessuno.
Quindi la sostituzione di un sistema di riferimento con un altro deve lasciare invariata l’intera struttura fondamentale del problema, in modo tale che le soluzioni che vengono prodotte siano sempre le medesime. Le rappresentazioni prodotte nei diversi sistemi di riferimento, dunque, sono così ricondotte ad una legge più generale (van Fraassen 1989). E’ a questo punto, però, che questa euristica, che possiamo anche denominare euristica della relativizzazione, diviene speculare a quell’euristica della corrispondenza esplicativa che abbiamo incontrato poco sopra.
Fra le rappresentazioni ottenute nei vari sistemi di riferimento e la legge più generale si viene a stabilire un legame in certa misura speculare a quello che vigeva fra le vecchie teorie inizialmente disponibili, da una parte, ed una nuova teoria in corso di formazione, dall’altra. La legge più generale, non solo ha validità più ampia, ma fornisce una vera e propria reinterpretazione delle differenti rappresentazioni, con ciò rafforzandole proprio nel momento in cui le scopre motivate da un contesto teorico-esplicativo, oltre che empirico, più generale. Nella scrittura covariante delle equazioni, infatti, vengono esplicitati e riconosciuti come oggettivamente fondati i processi di costruzione delle grandezze fisiche che prima erano dati per scontati. E queste spiegazioni vanno ad arricchire l’intero sistema di idee disponibile per il dominio oggetto di studio. Per altro verso, la generalizzazione è possibile proprio perché la legge più generale viene ottenuta non contro le rappresentazioni locali, ma proprio a partire da una concreta situazione pragmatica ricostruita nei suoi processi fondamentali. Questa è, inoltre, la migliore garanzia di poter riottenere le rappresentazioni locali ben corroborate come casi particolari della legge più generale.
Riassumendo, le grandezze fisiche fondamentali debbono essere costruite con “memoria” delle coordinate del sistema dal quale vengono calcolate e non i maniera astratta (devono avere forma tensoriale). Le componenti delle grandezze, quindi, debbono variare-con le coordinate del sistema di riferimento scelto, cioè esattamente come variano le misurazioni delle coordinate. Contemporaneamente, però, affinché la sostituzione del sistema di riferimento usato (per misurare quelle grandezze e formulare le leggi fondamentali che le collegano) con un qualunque altro sistema (all’interno della classe di equivalenza) lasci in-variata la relazione che la legge generale stabilisce fra le grandezze, deve ammettere una simmetria per tali sostituzioni. La relatività sembra in realtà, dunque, una ricerca di invarianza, perseguita attraverso la strumentale covarianza. Così egli scrive a proposito del nome della sua teoria (Einstein 1921 cit. in: Holton 1986):
Veniamo ora al nome teoria della relatività. Riconosco che si tratta di un’espressione infelice, che ha dato adito a fraintendimenti filosofici. Il termine ‘Invarianz-Theorie’ sarebbe adatto a descrivere un metodo di ricerca della teoria, ma non, purtroppo, il suo contenuto materiale (…) ma credo che cambiare, dopo tutto questo tempo, il nome generalmente accettato sarebbe motivo di confusione”.
È possibile rintracciare alcune credenze che muovono questa euristica. Innanzi tutto, un’ostilità di principio verso gli assoluti ed un’attenzione speciale alle concrete dinamiche processuali dei mutamenti. Entrambe compaiono non solo in tanta parte della storia della fisica, da Galilei a Mach (p.es. Tonnelat 1971), ma anche in molte elaborazioni filosofiche lungo tutto l’Ottocento, fino all’imperativo di smascherare la relatività di tutte le astrazioni (Nietzsche). Esse si possono ritrovare anche in linee di ricerca scientifica all’interno di altri domini del secolo precedente ad Einstein (Marx, Darwin, Freud, Simmel). Altri riferimenti di ordine culturale possono ancora essere individuati nel retroterra culturale di Einstein, dalla formazione comune a gran parte degli intellettuali della sua generazione (Feuer 1982) alla sua educazione religiosa (Cerroni 1999).
Conclusioni
Da quanto abbiamo qui esaminato possiamo trarre alcune conclusioni di interesse per le scienze cognitive e per la sociologia della conoscenza.
Abbiamo, innanzi tutto, visto che adeguatezza empirica e successo predittivo non esauriscono il valore epistemologico della teoria della relatività. La scoperta che l’ha prodotta non sembra potersi concepire come nient’altro che pattern recognition (Simon 1972; 1977; 1995; Langley et al. 1987). La superiorità esplicativa di una teoria (Petroni 1990), che appare epistemologicamente irrinunciabile quanto filosoficamente inattingibile, può venir precisata proprio grazie a criteri valutativi che esorbitano dall’impresa scientifica considerata, e rinviano al fondamento storico-genetico (psicologico, antropologico, sociologico) dell’esperienza umana contestualizzata.
Dalla transizione dall’elettrodinamica classica alla Teoria Speciale della Relatività, come anche dalle successive transizioni dalla Teoria Speciale a quella Generale e dalla teoria newtoniana della gravitazione alla Teoria Generale della Relatività, si ricava, inoltre, una prospettiva sul progresso nelle teorie scientifiche radicalmente diversa da quella che vuole che la teoria di Einstein può essere accettata soltanto se si riconosce che quella di Newton era sbagliata (Kuhn 1962sgg.; cfr. anche Zahar 1989). Proprio al contrario, il profondo legame semantico fra teorie successive, tessuto da Einstein con grande chiarezza e determinazione, suggerisce una ridefinizione del dualismo continuità-incommensurabilità attraverso l’impiego di un’euristica di corrispondenza fra nuova teoria in fieri e vecchia teoria ben corroborata. L’adeguatezza empirica ed il successo predittivo emergeranno come supporto o controllo certamente utili nella definizione della ricerca, ma complementari rispetto agli obiettivi concettuali di Einstein, e dunque ad esigenze di ordine, in primo luogo, epistemologico e, in secondo, culturale.
Lo statuto di universalità delle teorie scientifiche viene ad essere ridefinito, attraverso l’euristica di covarianza/invarianza, nella direzione di un superamento della contrapposizione tradizionale fra assolutezza (decontestualizzazione) e relativismo (contingenza). Il concetto di relatività va inteso metodologicamente come la caratteristica distintiva di quelle costruzioni astratte che fanno dei propri criteri di fondazione empirica l’oggetto specifico di un programma controllabile. La questione dei fondamenti cessa, in altre parole, di essere una questione filosofica, e diviene una questione di accertamento scientifico dei processi concreti di elaborazione socio-cognitiva. La non conclusività di una tale indagine è controbilanciata dall’apertura delle questioni metodologiche sulla Scienza alle acquisizioni delle scienze reali.
Si potrà, infatti, notare che le euristiche esaminate sono emerse, sia come strumenti (presumibilmente) utilizzati da Einstein per giungere alla scoperta scientifica che porta il suo nome, sia anche (nel caso delle euristiche che abbiamo chiamato orientative) come cuore epistemologico stesso della teoria da lui elaborata. Il cosiddetto contesto della giustificazione si è così innestato sul cosiddetto contesto della scoperta in maniera inscindibile, fornendo un argomento a sostegno della tesi, che possiamo far risalire a Quine, che uno studio cognitivo è una via privilegiata per risalire ai fondamenti epistemologici della scienza.
Quasi sempre Einstein, come abbiamo visto, attacca alcuni dei più resistenti presupposti dati per scontati in quanto, in realtà, ereditati poco avvertitamente assieme con più ponderate idee scientifiche, consolidatesi nella storia disciplinare. A volte, dietro tali presupposti si staglia un’intera tradizione culturale ove, al di sotto di sistemi di idee filosofiche e persino sistemi scientifici, risiedono osservazioni ingenue surrettiziamente ipostatizzate a partire dalla realtà dell’esperienza percettiva.Così, Einstein non appare tanto iniziatore di un nuovo programma di ricerca o portatore di un’ipotesi tanto assurda e inverosimile (cfr. Lakatos 1970). Egli sembra, piuttosto, farsi carico di un percorso cognitivo di revisione delle credenze tradizionali lungo il quale si è snodata la storia della fisica e tanta parte della cultura moderna. In questo senso, la modernità va intesa come intrinsecamente riflessiva (cfr. Bech et al. 1999).
Inoltre, i concetti scientifici che abbiamo visto in costante mutazione mostrano una flessibilità che non può essere in alcun modo cristallizzata in una definizione classica del concetto, in quella concezione, cioè, basata su vincoli rigidi di proprietà singolarmente necessarie e congiuntamente sufficienti. Sarebbe opportuno indagare più a fondo sulle reali potenzialità di concezioni alternative, come quella per prototipi e similarità elaborata nell’ambito delle scienze cognitive (ad es. in Smith, Medin 1981) ed altre più recenti (per una rassegna si veda Cerroni 1999). Questo potrebbe risultare d’aiuto, sia nel mettere alla prova le varie proposte sinora avanzate, sia anche nel risolvere le molte controversie sorte nell’ambito della storia della scienza in relazione alla “reale” coincidenza di concetti in autori diversi (Nersessian in: Giere 1992). Finché pensiamo che un concetto sia definito da proprietà necessarie e sufficienti, non abbiamo infatti alcun criterio per riconoscere una eventuale “somiglianza di famiglia” (Wittgenstein 1945sgg.), una genealogia o una parentela per un dato concetto. Sembra esistere, al contrario, una conoscenza riguardante i concetti che esorbita dalla capacità di una qualsiasi definizione ed è con questa, anzi, in tensione essenziale.
Le teorie scientifiche, dal canto loro, non sembrano esauribili in una visione sintattica o proposizionale. Ciò è dovuto, oltre che ai limiti riscontrati dai fautori del cosiddetto approccio semantico (p.es. Suppe 1972, van Fraassen 1980), anche al rilievo che nelle teorie assumono credenze spesso tacite, non coerenti, esplicitabili quasi solo a posteriori dall’analista con notevole sforzo interpretativo e senza certezze ultimative. Ma un generico appello ad una matrice disciplinare (Kuhn 1962sgg, 1977) non può essere sufficiente a garantire la specificità della conoscenza scientifica. Generalizzazioni simboliche, modelli, analogie, valori, tecniche, strumenti ed esemplari, per citare i componenti principali di una matrice disciplinare kuhniana, vanno articolati molto meglio, per trovare insiemi di più elementari schemi interpretativi (Goffman), euristiche (Simon, Kahneman & Tversky), stili cognitivi (Duhem, Fleck, Galison), fino a credenze e teorie ingenue (Fleck, Atran, Gopnik & Meltzoff, Vosniadou) del tipo delle credenze che abbiamo posto in evidenza nelle euristiche di Einstein.
Se il riferimento delle teorie scientifiche alla cultura dello scienziato porta inevitabilmente, almeno da Kuhn in poi, a qualche forma di relativismo culturalista, la successiva riduzione della cultura ad insiemi di credenze e sistemi di idee può fornire una seconda relativizzazione, che può (dovrà) essere in grado di trasformare ogni relativismo in un programma scientifico di relativizzazione. Si dovrebbe cercare di spiegare ognuna di queste componenti più elementari come prodotto specifico di concreti processi, pragmaticamente contestualizzati, di ordine antropologico-evoluzionistico e socio-comunicativo (Cerroni 2001a). Ma qui, più che alle conclusioni di una ricerca, siamo appena agli inizi di un nuovo programma di ricerca.
Un approccio socio-cognitivo alla ricostruzione delle scoperte scientifiche, che qui abbiamo mostrato nel caso della teoria della relatività di Einstein, sembra anche particolarmente utile per superare l’attuale frantumazione degli studi sulla scienza. Esso si pone, infatti, sullo snodo fra studi di sociologia della conoscenza, scienze cognitive, storie delle varie discipline scientifiche e filosofia della scienza. In questa sua posizione esso trova tutta la forza potenziale proveniente dalle acquisizioni di tutte le scienze, e tutta la debolezza che è conveniente, però, attribuire ai limiti dell’analista.
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