L’INVENZIONE DELLA TECNICA

Roberto Renzetti

Debbo una qualche risposta ai denigratori della scienza. Tenterò in breve di spiegare a cosa serve la matematica nell’indagine scientifica. Tenterò di illustrare cosa fa la scienza, quanto essa è necessaria nella società industriale di un Paese Occidentale. Quanto potrebbe fare e non fa.

Stupisce che pensatori per altri versi stimati, si addentrino nel mondo della scienza tranciando giudizi basati su preconcetti e soprattutto sulla non conoscenza degli elementi base. So per certo che lor signori si sono abbeverati a della divulgazione ma essa può andar bene per chi non deve poi ripensare la scienza, i suoi metodi, i suoi contenuti. E’ certamente legittimo non condividere cosa si fa e si è fatto in campo scientifico. Si può discutere a fondo del ruolo interpretativo della matematica e del fatto che, da un certo punto in poi, essa sembra marciare da sola. Si può mettere in discussione tutto ad una sola condizione: sapere di cosa si sta parlando, conoscere le cose di cui si discute da letture di prima mano degli articoli originali e non da compilazioni divulgative fatte più o meno bene. Per far questo, soprattutto nei riguardi delle scienze dure, occorre conoscere, nel senso di saper lavorare, con la matematica. Con questi prerequisiti si potrà litigare sul fatto che non si condivide una certa interpretazione (ad esempio io non condivido l’interpretazione di Bohr della Meccanica quantistica ma continuo a stimare Bohr ed a riconoscerlo come uno dei più grandi fisici del Novecento; io disprezzo le scelte politiche di Heisenberg ma non posso fare a meno di considerarlo uno dei massimi geni del secolo scorso, …).

Inizio con il ricostruire ciò che credo sia stato il periodo degli albori dell’homo sapiens. Non credo proprio alla società idilliaca che si sottende quando si afferma che l’invenzione della scienza ha compromesso la felicità dell’uomo, rendendolo dipendente dalla tecnica che è tiranna e strumento di dominio. Credo che si lottasse per il territorio, per il cibo, per riprodursi. Credo che si cercasse di sconfiggere le comunità antagoniste e, per farlo, si inventava. Quella mandibola d’asino che compare nelle prime scene di 2001 Odissea nello spazio deve in  qualche modo rappresentare un momento in cui gli ominidi scoprirono una estensione micidiale delle braccia come arma di offesa. Da quel momento, che seguì all’altro, a quello che vide il quadrupede pensare di levarsi dal suolo e abilitare le mani come due meravigliosi strumenti da lavoro, da quel momento dicevo si è affermata la tecnica come voglia di dominare il mondo circostante. La società dei cacciatori e dei raccoglitori sarebbe potuta esistere e continuare indefinitamente solo di fronte ad una abbondanza illimitata in ogni stagione per tutti. La sola crescita demografica che dovette conseguire a periodi di relativa abbondanza di cibo, era il seme della voglia di sopraffare chi aveva territori più vasti e maggiore disponibilità di risorse. Se si segue la storia della tecnica in epoche preistoriche si scoprono cose di grande interesse. Riporto il primo capitolo di una delle più belle storie della tecnica che io abbia mai letto (Sam Lilley: Storia della tecnica, Einaudi 1951) insieme all’altra, che utilizzerò più oltre, di Klemm (Friedrich Klemm: Storia della tecnica, Feltrinelli 1959):

I primi uomini comparsi sulla Terra furono di tipo sensibilmente diverso dal nostro e forse poterono vivere allo stato naturale senza essere dotati di arnesi od utensili. Certo è che l’uomo che noi conosciamo è una creatura tanto debole e fragile che assai difficilmente avrebbe potuto sopravvivere col solo aiuto delle mani e dei denti nell’aspra lotta contro gli elementi e le forze della natura.
Si deve soltanto all’aiuto degli strumenti che i più antichi abitatori impararono ad usare se all’uomo d’oggi fu possibile evolversi. Egli perse certamente forza corporea e destrezza, ma fu largamente compensato dallo sviluppo del cervello, della vista e dell’uso delle mani, che lo resero capace di procurarsi l’ausilio potente della macchina e di divenire padrone del mondo.
Tralasceremo di dare indicazioni sugli arnesi più primitivi e cominceremo la storia con gli uomini della tarda età paleolitica, che già erano del nostro tipo e vivevano cacciando e raccogliendo quegli alimenti che venivano prodotti naturalmente. Già in questo stadio primitivo essi erano forniti di una ricca varietà di utensìli: possedevano ascie, coltelli, seghe, raschiatoi e specie di rasoi tutti di pietra scheggiata; mazzuole, punteruoli e pialle rudimentali, aghi di avorio, lance e fiocine; erano già dotati di arnesi per la fabbricazione degli utensili ed usavano due armi dal nostro punto di vista assai importanti: l’arco e la balestra. L’arco può essere considerato come la prima macchina ad accumulazione di energia: l’arciere, nel tendere l’arco, vi immette gradualmente la propria forza, quasi immagazzinandola o concentrandola, per scaricarla di colpo al momento del lancio. E la balestra è una applicazione della leva come estensione del braccio umano, per dare al proiettile una maggiore gittata.
Le comunità del periodo di transizione mesolitico fecero ulteriori progressi, particolarmente perfezionando gli arnesi da pesca, gli utensili di carpenteria, compresi l’ascia, lo scalpello e la sgorbia, e imparando a fabbricare e a usare la slitta e la canoa scavata in un tronco d’albero e mossa da pagaie.
Ma è con l’introduzione della coltivazione della terra e dell’intera serie delle tecniche connesse, che questa storia può realmente cominciare. Fu questa la prima grande «rivoluzione industriale» della storia degli uomini, la rivoluzione dell’epoca neolitica, che ebbe luogo non oltre settemila anni fa. In principio, come s’è detto, l’uomo raccoglieva gli alimenti così come la natura selvaggia li produceva. In questa epoca egli imparò a far sì che la natura lo fornisse di quello che desiderava. Tutte le sue precedenti conquiste appaiono insignificanti al confronto di questo balzo in avanti. Noi porremo qui in risalto solo quegli aspetti che hanno diretta influenza sulla successiva storia degli strumenti e delle macchine. Per scopi agricoli gli uomini inventarono arnesi speciali: la zappa di legno per dissodare il terreno, il falciole di legno con lama di selce per mietere il grano, il correggiato per batterlo, la macina per triturarlo (una forma primitiva di falcetto, a forma di coltello diritto, apparve un poco prima dello sviluppo dell’agricoltura, e serviva per il taglio delle erbe mangerecce, non seminate dall’uomo. Anche la zappa ha un antenato in una specie di bastone da scavare, dei tempi mesolitici; pestelli e mortai, usati per altri scopi dall’uomo dell’età paleolitica, servirono poi, come il successivo frantoio, per la prima macinazione del grano)
.
Ma un radicale mutamento dal vivere di caccia e di frutti naturali a quello basato essenzialmente sulla coltivazione della terra, non avrebbe potuto aver luogo senza un’intera serie di cambiamenti ausiliari. Occorrevano nuovi strumenti per foggiare la zappa di legno e la falce, o per preparare il terreno per la semina. Per questi e altri scopi, l’uomo dell’età neolitica sviluppò ulteriormente gli utensili da falegname, usando pietre più rifinite, invece della grezza scheggia dei suoi predecessori; vi aggiunse il trapano ad arco, nel quale la punta viene fatta ruotare rapidamente da una corda avvolta intorno ad essa e legata per i capi a una specie di arco che è spinto alternativamente avanti e indietro. I cereali richiesero l’immagazzinamento e nuovi mezzi di cottura: la selvaggina del cacciatore poteva essere arrostita sullo spiedo a fuoco aperto, ma i cereali richiedevano una lenta e graduale cottura in qualche recipiente. L’uomo neolitico risolse il problema con la fabbricazione dei vasi di terracotta.
L’uomo dell’età paleolitica si copriva con le pelli degli animali uccisi; il coltivatore dovette cercare qualcosa che le sostituisse, e fu così che trovò il tessuto. Per produrlo egli dovette procurarsi due nuovi strumenti: il filatoio e il telaio. La prima macchina per filare fu molto semplice: un corto alberello con un uncino o tacca praticata su una estremità, e alla quale il filo era attaccato; un volano o rotella di pietra o di terracotta all’altra estremità, che assicurava un movimento uniforme di rotazione dell’alberello su se stesso; e una rocca o bastoncino a forcella, per sostenere il mannello di fibre da filare. Intorno all’alberello, ossia al fuso, che ruota velocemente, si avvolge il filo, prodotto ed alimentato dalle fibre della rocca, tenuta sospesa in aria dall’operatore. È un meccanismo assai semplice rispetto agli esemplari moderni, ma è complicatissimo a confronto di qualsiasi congegno precedente; e si deve tener conto che, fino al Medioevo, non si apportarono miglioramenti rilevanti a questo sistema di filatura.
Il telaio anche nella sua forma più semplice — consistente in un riquadro di legno su cui è teso l’ordito, tra i fili del quale, alternativamente sopra e sotto, il tessitore fa passare la trama con le dita — è anch’esso un apparecchio complicato; però non rimase a lungo a quel semplice stadio, ma fu presto perfezionato con l’introduzione del liccio, per separare i fili alterni dell’ordito, e con l’aggiunta di altri congegni (le macchine per la tessitura sono difficili a descriversi, e per la storia delle pili antiche spesso non si hanno che dati assai scarsi. Perciò le illustreremo usando termini piuttosto generici).
In tal modo, fin dai primi tempi dell’età neolitica, l’uomo aveva largamente accresciuto il numero dei suoi strumenti e delle sue macchine; ma un assai rapido progresso doveva seguire. Il mutamento nel modo di vivere dell’uomo fu propizio alle invenzioni. Egli ebbe maggiore sicurezza e tranquillità di esistenza, e i periodi di riposo che si alternavano alle attività dell’agricoltura, gli consentirono di dedicarsi alle invenzioni. Cosi, nell’esistenza relativamente stabile che gli era permessa dalla coltivazione della terra (almeno nei suoi stadi più avanzati), ebbe la possibilità di costruire, di accumulare e di servirsi di un attrezzamento che l’uomo dedito alla vita di caccia avrebbe considerato soltanto un ingombro. Egli comprese infine che la natura poteva essere controllata a suo proprio vantaggio, e acquistò quel grado di fiducia in se stesso che lo incoraggiò a procurarsi nuovi mezzi per estendere questo controllo.
Condizioni ambientali particolarmente favorevoli l’uomo trovò in Mesopotamia, nelle valli del Nilo e dell’Indo, dove le piene periodiche dei fiumi, tosto ché vennero utilizzate, servirono per l’irrigazione dei seminati e per stendere ogni anno sul terreno un nuovo strato di limo che ne impediva l’esaurimento.
In questi paesi noi troviamo una grande varietà di invenzioni realizzate fra il 5000 e il 3000 a. C. In questo periodo l’uomo imparò a fondere e a usare i metalli, e a porre i finimenti agli animali; inventò l’aratro, il carro a ruote e l’imbarcazione a vela. Queste e molte altre invenzioni simili, posero le basi di un grande mutamento sociale, che esporremo più avanti.
Il rame e il ferro si trovano talvolta allo stato naturale come metalli, e l’uomo primitivo imparò assai presto a servirsene in qualche modo, come di una specie superiore di « pietra » che era molto meno fragile delle pietre comunemente adoperate e si poteva ridurre alla forma voluta battendola, a differenza delle altre che bisognava spezzare e levigare. Il passo in avanti decisivo fu compiuto quando gli uomini fecero due grandi scoperte.
La prima, che riscaldando certi tipi di pietra col carbone di legna, si otteneva il rame: il processo della fusione. La seconda, che il rame poteva essere liquefatto in un forno adatto, e fatto scorrere in uno stampo del quale, solidificandosi, riproduceva la forma: il processo del getto di fusione o colata. Queste scoperte furono probabilmente fatte in Mesopotamia o nelle regioni vicine, circa 4000 anni a. C. La fusione segnò una tappa importante, perché la quantità dei metalli allo stato naturale nel mondo è così esigua, che limitarsi al solo uso di essi non avrebbe avuto alcun effetto di rilievo sulla vita dell’uomo. E senza la colata, le più notevoli e importanti proprietà del rame sarebbero rimaste inutilizzate.
Per quanto vi fossero già, in certi luoghi, delle rudimentali fabbriche di utensili e arnesi di pietra, generalmente questi venivano prodotti direttamente da chi se ne serviva e quando ne aveva bisogno. Non fu la stessa cosa per quelli di metallo: essi richiedevano un sistema di produzione più complesso e quindi un’organizzazione relativamente elevata. L’estrazione del minerale dalla cava, e più tardi dalla miniera, esigeva un complesso di tecniche per lo sbancamento di rocce dure, ottenuto o con lo sgretolarle mediante l’azione di fuochi accesi contro di esse e il successivo getto di acqua sulla superficie rovente, o mediante l’inserzione nelle fessure di cunei di legno, i quali venivano inzuppati d’acqua in modo che, dilatandosi, sconnettessero e spaccassero la roccia.
Bisognava successivamente fondere il minerale: ciò richiedeva forni capaci di temperature così elevate, da rendere necessario l’intervento della soffiatura d’aria. Il mantice era certo il mezzo migliore per produrla, ma fu scoperto soltanto verso il 300 a. C., e fino allora i primi lavoratori usarono specie di condotte o camini, disposti in modo da utilizzare le correnti d’aria naturali.
La massa grezza di rame ottenuta dalla fusione doveva essere quindi ridotta o trasformata dal fabbro in strumenti o armi. Il primo processo consisteva nel getto di fusione che, come la fusione, richiedeva un forno a temperatura elevata, e crogiuoli nei quali fondere il metallo; erano necessari stampi di sabbia, argilla o terracotta, in cui colare il metallo fuso, e mezzi per foggiare questi stampi nelle forme desiderate. Tranne che per gli oggetti più semplici, lo stampo doveva essere fatto in due o più pezzi da unire insieme per ricevere il metallo fuso. Dopo la colata, il pezzo doveva essere rifinito in diverse maniere, fucinandolo, levigandolo con lime, affilandolo sulla pietra e così via.
Così, per utilizzare il rame, si resero necessarie molte invenzioni e molti operai specializzati, che eseguissero queste operazioni e che, evidentemente, non potendo essere occupati nella produzione degli alimenti a loro necessari, dovevano essere mantenuti dalla comunità.
Non sappiamo come sia stata scoperta la fusione del metallo. Si è supposto che qualcuno abbia accidentalmente lasciato cadere della malachite (minerale contenente rame e comunemente usato per tingere gli occhi, sia come cosmetico che come protezione dalle infezioni prodotte da certi insetti), in un braciere di carbone di legna, e abbia osservato che qualche pallottolina di rame scorreva dal fondo. Forse questo fatto fu notato molte volte e molte volte trascurato come cosa priva di valore; perché dobbiamo ricordare che il successo di una scoperta o l’utilità di una invenzione, dipendono dal tipo e dal grado di organizzazione sociale esistente. L’uso del rame, come abbiamo rilevato, richiedeva l’opera di minatori e fabbri specializzati i quali dovevano dedicare il loro tempo esclusivamente a questo lavoro, venendo nutriti, vestiti e alloggiati con quanto veniva prodotto in sovrappiù dagli altri membri della comunità. Fino a quando il livello tecnico non fu tanto elevato da consentire questa eccedenza di produzione, fu impossibile mantenere questi artigiani e, conseguentemente, impossibile l’uso dei metalli. Così, anche se la fusione del rame fosse stata casualmente scoperta presso talune delle comunità neolitiche, essa sarebbe stata messa da parte come inutile e presto dimenticata. Ma col graduale sviluppo della tecnica neolitica, venne il tempo in cui la comunità poté disporre del necessario per il mantenimento dei suoi specialisti, e così il casuale ripetersi della scoperta poté essere rapidamente messo a frutto.
I minatori e i fabbri non furono tuttavia i soli specialisti necessari a rendere i metalli utilizzabili dalla società. Il minerale di rame non poteva trovarsi nei luoghi occupati dai progrediti coltivatori neolitici, che erano in grado di mantenere i fabbri e di usare i loro manufatti. Sia i minerali che il metallo, dovevano essere spesso trasportati a grandi distanze: ciò richiedeva l’attività di mercanti e di lavoratori addetti al trasporto. Dapprima le comunità neolitiche erano state più o meno autonome, il commercio essendo limitato a poche cose, voluttuarie e di ornamento; ma quando esse furono in grado di produrre più di quello che era loro necessario, cercarono di scambiarlo con prodotti di lontana provenienza, i più importanti dei quali furono certamente il rame e i suoi minerali.
Nel contempo, i villaggi si avviarono a diventare città, residenza di artigiani come fabbri e falegnami e, più tardi, di classi del tutto improduttive, come sacerdoti, re e nobili. Tutti costoro dovettero essere naturalmente mantenuti e forniti di quanto altro loro abbisognava dal territorio circostante. Così nacque e si sviluppò l’industria dei trasporti, e di pari passo, se ne perfezionarono i sistemi.
La slitta, abbiamo visto, fu creata nell’epoca neolitica. I popoli agricoltori ne estesero enormemente l’uso; poi, probabilmente attraverso l’impiego di rulli cilindrici per facilitare il trasporto, essi inventarono il carro a ruote, che dopo l’agricoltura e la metallurgia è forse la più grande invenzione che mai sia stata fatta. Veicoli a ruote furono in uso in Sumeria già nel 3500 a. C. e forse ancor prima nella Siria del Nord. Col 3000 a. C. divennero di uso generale in Mesopotamia, Kusistan (Caldea) e Siria e raggiunsero le regioni dell’Indo intorno al 2500 a. C., mentre in Egitto rimasero sconosciuti fino a un’epoca molto più tarda.
L’invenzione del carro a ruote non avrebbe segnato un progresso così importante, se ad essa non se ne fosse combinata un’altra, e cioè la bardatura per l’attacco degli animali. Essa è collegata, sia con lo sviluppo dei trasporti, sia con un’altra grande invenzione di questo periodo: l’aratro, straordinario perfezionamento della zappa, che era stato il primo arnese usato per dissodare la terra.
Gli animali vennero presto e largamente impiegati tanto per l’aratura quanto per il traino dei carri.
La bardatura degli animali fu il primo esempio dell’impiego nel lavoro di una forza che non fosse quella dei muscoli umani. All’incirca nello stesso periodo, l’uomo imparò a valersi di un’altra forza, inorganica questa, e cioè il vento, per muovere le imbarcazioni a vela. Navi a vela furono in uso in Egitto subito dopo il 3500 a. C., e cinquecento anni dopo venivano estesamente impiegate nella navigazione del Mediterraneo orientale e probabilmente anche del Mare arabico. È in questi luoghi dell’antico Oriente, prima del sorgere della civiltà, che vediamo compiersi il primo passo verso quello sfruttamento delle energie naturali che costituisce l’elemento fondamentale della nostra èra moderna. La relativa comodità e sicurezza nelle quali oggi viviamo, poggiano essenzialmente sulla utilizzazione della forza non animale, e cioè del vento, dell’acqua, del carbon fossile e del petrolio.
La descrizione di tutte le invenzioni compiute nei mille o duemila anni che precedono il 3000 a. C. prenderebbe troppo spazio. Ricorderemo qui soltanto la ruota da vasaio, che non solo rese possibile una produzione assai perfezionata di vasellame di terracotta con molto minor lavoro, ma fece pure di quest’arte la prima industria « meccanizzata », il primo passo sulla via della fabbricazione in serie del giorno d’oggi. Notiamo infine come tutte queste invenzioni fossero strettamente collegate tra loro. I metalli non avrebbero potuto essere usati senza perfezionamenti nei mezzi di trasporto del minerale o del metallo dalla miniera al luogo di utilizzazione, né senza quei miglioramenti nella coltivazione della terra che consentirono eccedenze di produzione tali da permettere di mantenere gli specialisti distolti dal loro primitivo lavoro. E, reciprocamente, il carro a ruote, l’aratro, l’imbarcazione a vela e il tornio da vasaio, che richiedevano una ben attrezzata, carpenteria, probabilmente non avrebbero potuto essere usati su larga scala senza gli utensili metallici per fabbricarli.

La citazione è lunghissima ma descrive bene i problemi e la crescita dell’uomo, di come, senza gli strumenti della tecnica difficilmente sarebbe sopravvissuto e difficilmente avrebbe preso il primato sul mondo animale. 

Uno dei momenti citati, nella successiva storia, è quello dei greci. Si esalta questo periodo contrapponendolo alla scienza che diventa speculativa all’epoca di Galileo. Si dicono cose d’interesse ma si dimentica l’essenziale: in Grecia, a Roma, nelle società a cui ci si riferisce con ammirazione, esisteva la schiavitù che era l’energia che faceva funzionare tutto. Il mondo non si degradava con il consumo di energie non rinnovabili, perché erano gli uomini che, mangiando il necessario per sopravvivere, sopperivano alle bisogna. E la schiavitù non era un accidente ma addirittura teorizzata sia da Platone che da Aristotele (sarebbe bello avere degli automi, ma poiché non li abbiamo, servono gli schiavi). Fu la schiavitù che fotografò quelle società in una situazione statica che non necessitava di una dinamica. I prodotti della scienza avevano eminente carattere speculativo a parte alcune cose realizzate da Archimede nella Magna Grecia. Non  dovevano risolvere, se non marginalmente, problemi di sopravvivenza. Anche il vapore ebbe in Erone un brillante inventore. Le sue realizzazioni servirono però solo per divertimento, per stupire. 

A proposito della tecnica in Grecia e nell’età ellenistica, dice Klemm:

Il grande apporto culturale dell’antica Grecia è costituito, senza dubbio, dallo sviluppo di una coscienza scientifica, ed in Grecia fa la sua comparsa l’uomo teoretico. La vita dei greci era tesa alla conoscenza scientifica, che a sua volta la formava in un senso più alto. In generale la tecnica occupò nell’antica Grecia un posto in sottordine di fronte alla scienza pura. Soprattutto il realismo platonico, per il quale la realtà non era costituita dalle singole cose di questo mondo, ma dal lontano ed immutabile regno delle idee, considerava il mondo delle cose come un puro riflesso delle idee e quindi come qualcosa di secondario. Da ciò si comprende anche come il metodo sperimentale non abbia avuto grande importanza per i greci. Era invece tenuta in grande considerazione la geometria, i cui concetti appartengono al mondo delle idee. (…) La causa della incapacità da parte dell’antica Grecia di sviluppare, accanto alla statica espressa in termini matematici, una corrispondente dinamica, cioè una teoria del moto, si deve ricercare nella concezione che gli antichi greci avevano della immutabilità e della immobilità dell’Idea e della Forma. Il moto stesso avrebbe potuto essere concepito come Idea, come Forma, ma proprio a ciò i greci antichi non seppero giungere, per il concetto statico che ebbero della forma.
Come abbiamo già detto, l’antica Grecia raggiunse notevoli risultati nel campo della statica, proprio perché considerava l’essenza matematica come principio formativo del mondo delle cose. Ma i greci antichi riluttavano al passo dalla teoria alla applicazione pratica. L’uomo libero si dedicava allo stato, alla scienza pura, all’arte. La creazione tecnica era, più o meno, considerata compito dei meteci (cioè degli stranieri) e degli schiavi, il cui numero in certi periodi, particolarmente in quello ellenico, fu in Grecia eccezionalmente alto.

E la tecnica era considerata un’arte per vincere la natura, mediante le macchine:

Circa un secolo prima di Archimede comparve uno scritto attribuito al primo Aristotele, che trattava anch’esso alcune questioni di meccanica: i cosiddetti Problemi di meccanica pseudo-aristotelici (fine del IV sec. a.C.). In quest’opera si parla di molte applicazioni tecniche della meccanica, ma non come fini a se stesse: si tratta assai più della discussione e della soluzione dei cosiddetti “aporismi,” cioè di questioni, nel caso particolare anche questioni di meccanica pratica, che contengono particolari contraddizioni e difficoltà. Un esempio tipico di aporia, cioè di contraddizione, si ha quando una piccola forza deve muovere un carico pesante. È significativo a questo proposito il fatto che l’autore considerava il processo tecnico come qualcosa che avviene contro la natura. Tecnica significa “machinatio” e cioè astuzia, derivando dal greco mhcanaomai  = medito un’astuzia. Nelle questioni della meccanica tecnica si tratta pertanto di vincere con l’astuzia la natura risolvendo le contraddizioni e superando le difficoltà che si presentano. (…) La maggior parte dei dispositivi meccanici considerati dall’autore viene riportata alla leva; ed egli dimostra che il fenomeno costituito dal fatto che una piccola forza valga a smuovere in modo meraviglioso e paradossale un grosso carico, trova la sua spiegazione nelle proprietà, dialetticamente meravigliose e paradossali, del cerchio. Con la leva infatti sia la forza sia il carico si spostano secondo archi di cerchio. Il cerchio pertanto contribuisce a formare l’essenza della leva. In questa devono ritrovarsi quindi le straordinarie caratteristiche del cerchio, per cui possono venir meravigliosamente composte in armonia proprietà contrastanti. In ultima analisi, è quindi il significato filosofico quello che qui predomina: la meccanica concreta è spinta in secondo piano dalla filosofia, come in Archimede dalla matematica.

E la visione poteva restare solo filosofica o matematica solo perché vi erano, come accennato, gli schiavi:

Già nella Grecia pre-ellenistica, accanto ad una produzione di carattere domestico e di piccolo artigianato, esisteva, almeno nelle città maggiori, una tecnica di lavoro molto progredita. Abbiamo notizie di grandi officine con una netta suddivisione del lavoro, nelle quali tuttavia le singole operazioni venivano compiute con metodi puramente artigianali. Si poteva appena parlare dell’esistenza di macchine. Alla fine del V secolo a.C. abbiamo notizia di una fabbrica di telai per letti ad Atene, con 20 schiavi. Una fabbrica con 32 schiavi produceva coltelli e la famosa fabbrica di scudi di Lisia occupava 120 schiavi: mentre Ulisse si vantava ancora di essersi costruito da solo il letto di nozze, i nobili ateniesi dell’epoca di Pericle se lo compravano dal mobiliere. Nel periodo ellenistico crebbero ancora le officine che si valevano del lavoro degli schiavi. Anche nell’impero romano esistevano grosse officine, che producevano per lo più oggetti economici di largo consumo. (…) L’introduzione delle macchine negli opifici si ebbe in misura minima: l’impiego degli schiavi rendeva tanto economica la manodopera che l’impiego di macchine costose risultava inutile (il lavoro degli schiavi non era propriamente a buon mercato, ma gli schiavi potevano facilmente essere venduti, se necessario: costituivano una forza mobile nel vero senso della parola). 

Sulla scienza e la tecnica nel mondo ellenistico, merita una citazione il giudizio di A. Koyré (Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi 1967):

La scienza greca (…) non ha costituito una vera tecnologia, perché essa non ha elaborato una fisica. Ma perché (…) non l’ha fatto? Secondo tutte le apparenze, perché non ha cercato di farlo. E ciò, forse, perché essa non credeva che fosse fattibile. In effetti, fare della fisica nel nostro senso del termine (…) vuol dire applicare al reale le nozioni rigide, esatte e precise della matematica e, in primo luogo, della geometria. Impresa paradossale, se mai ve ne furono, poiché la realtà, quella della vita quotidiana in mezzo alla quale viviamo e stiamo, non è matematica. E neppure matematizzabile. Essa è il dominio del movente, dell’impreciso, del «più o meno», del «pressappoco». (…) Ne risulta che volere applicare la matematica allo studio della natura è commettere un errore e un controsenso. Nella natura non ci sono cerchi, ellissi, linee rette. È ridicolo voler misurare con esattezza le dimensioni di un essere naturale: il cavallo è senza dubbio più grande del cane e più piccolo dell’elefante, ma né il cane né il cavallo né l’elefante hanno dimensioni strettamente e rigidamente determinate: c’è dovunque un margine di imprecisione, di «giuoco», di «più o meno», di «pressappoco». 

La matematica, come visto nella citazione di Klemm, proprio per il suo carattere esclusivamente speculativo (anche qui con l’eccezione di Archimede), ebbe sviluppi incredibili e quasi nessuno pensò ad intersecarla con l’osservazione empirica. Platone lo auspicava (anche se occorreva superare ciò che ha detto Koyré), Aristotele lo rifiutava. Sta di fatto che questa operazione di intersezione si ebbe solo circa 2000 anni dopo e sarà la base su cui si costruirà la scienza moderna.

Le cose della tecnica, dopo l’epoca classica, andarono avanti (una breve ricostruzione di quanto è accaduto almeno a partire dal secolo X, la si può trovare in http://www.fisicamente.net/index-103.htm) in un continuo crescendo, fino ad arrivare all’età barocca, al momento cioè che segnerebbe l’inizio della scienza e della tecnica autoritarie ed inviso a molti critici della scienza medesima, all’età di Galileo. Cosa cambia rispetto alle epoche precedenti, all’epoca felice dei greci ? La tecnica in svariati secoli ha fatto enormi passi in avanti ed ha portato l’uomo a livelli di benessere impensabili, cosa accade in questo momento ? 

Mi sembra si possa dire che l’uomo poneva domande sempre più pressanti alla tecnica e non era più in grado di realizzare macchine e strumenti per i quali sarebbe stato necessario sottoporre le richieste, i problemi, a trattamento teorico. Questa sovrapposizione di esigenze crea la scienza che, in modo non ingenuo, lavora alla soluzione dei problemi tecnici mentre acquista vita propria che via via la porta ad affrancarsi da domande meramente utilitaristiche per dare risposte non più legate a fatti particolari ma sempre più generalizzate. Un esempio, secondo me chiarificatore di quanto ho detto, è il problema che fu posto a Galileo dai fontanieri di Firenze. Per quanti sforzi facevano non riuscivano ad ottenere zampilli più alti di una certa quota. Analogo problema veniva posto dal genovese Gian Battista Baliani che, anche lui, mentre costruiva acquedotti, non era in grado di far salire l’acqua nella condotta oltre una certa quota. Intanto occorreva capire che si tratta va dello stesso fenomeno, il che non è banale. Quindi Galileo, preso da altre incombenze, passò le questioni a Torricelli che risolse il tutto con la scoperta del vuoto, del peso dell’aria e del baromentro (vedi in proposito: http://www.fisicamente.net/index-21.htm). Si erano soddisfatte le esigenze tecniche e contemporaneamente nascevano nuove branche di ricerca, si iniziavano a costruire capitoli del tutto nuovi della nascente fisica.

Non a caso, quindi, la scienza nasce nelle botteghe artigiane, nasce con l’arte, con Brunelleschi, con Piero della Francesca, con i Della Robbia, … e Galileo è colui che raccoglie l’insieme delle esigenze ed inizia il cammino che sottopone, appunto, a trattamento teorico i fatti empirici. E’ toccato a Galileo e in un’Italia ricca ed imprenditoriale ma i tempi erano maturi perché in qualunque momento qualunque altro, in situazione socio-politica analoga, avrebbe potuto, magari con modalità diverse, realizzare il salto dall’empirismo ingenuo alla scienza. Nel processo, come accennato, un ruolo di grande rilievo lo ebbe la matematica, in particolare l’invenzione della sua applicazione allo studio dei fenomeni naturali.

LA MATEMATICA: LA FORMALIZZAZIONE DEI FATTI EMPIRICI

Ho già detto che la matematica è un linguaggio particolare, come la musica. Aggiungo ora che, mentre per le lingue ordinarie è possibile fare errori di grammatica e di sintassi e farsi comunque capire (io sono dormito bene), in questa lingua particolare, non sono ammessi errori. Uno solo di essi inficia l’intero ragionamento. La matematica ha un pregio speciale: appena è messo in moto un ragionamento che ha formalizzato un dato fatto empirico, esso si costruisce e completa da solo. E’ un possente sostegno al pensiero che ci aiuta spesso a capire la portata delle conclusioni di un dato ragionamento. Ma la matematica è nata per risolvere problemi pratici, il primo fra tutti è la numerazione. Senza di essa, indipendentemente dal concetto astratto di numero, alcune operazioni elementari non sarebbero state possibili. Scambi di merci, conta del bestiame. Siamo noi oggi che traduciamo tutto in numeri, in realtà, all’origine, potevano esserci delle corrispondenze biunivoche del tipo: ho tanti sassi in tasca quante pecore al pascolo; faccio una tacca su un pezzo di legno ogni giorno che passa; … ci potevano essere parole che facevano a meno dell’uso di un  numero preciso: ho un paio di scarpe; una coppia di polli; … Ma pian piano, certamente in modi diversi a seconda delle diverse culture, si iniziarono a costruire dei sistemi che permettessero sempre più di comunicare tra le differenti culture. Occorreva raccordare le cose al fine di realizzare scambi. Ed ancora le cose andavano bene per quantità che si potevano conteggiare con le mani (due mani; 5 dita; 10 dita) ma quando si aveva a che fare con numeri più grandi sorgevano difficoltà. L’invenzione dell’uomo riuscì ad amplificare la potenza numeratrice delle mani fino a 60 nel modo seguente. Una mano funziona solo da contatore e l’altra funziona solo da registratore. Per contare si utilizza il pollice che va ad indicare successivamente le falangi, falangine e falangette della stessa mano. Iniziando dall’indice ed esaurendolo si arriva a contare fino a 3; ripetendo l’operazione per le altre dita si arriva fino a 12. A questo punto entra in funzione l’altra mano. Ogni dozzina contata dalla prima mano, si distende un dito dell’altra. Quando il contatore ha marcato 12 un solo dito; quando il contatore ripete l’operazione si arriva a 24 e per tenere il conto, si distende un secondo dito nella seconda mano. Fino a che si esauriscono le 5 dita della seconda mano. A questo punto si ha la possibilità di moltiplicare la disponibilità di numerazione delle mani. Furono invenzioni come queste che crearono le differenti basi di numerazione e che iniziarono a sofisticare i ragionamenti. Nelle tavolette per esercitazioni scolastiche rinvenute nelle terre dei Sumeri vi sono evidenti le risoluzioni di equazioni di primo grado, la ricerca cioè del valore numerico da assegnare ad una data quantità non nota. Analogamente in Egitto. La necessità di misurare aree di terreni da una parte dette vita alla geometria e dall’altra allo sviluppo del calcolo (non tutti misuravano le terre con le pelli di vacca da distendere sulla terra, come Didone); terreni più accidentati posero problemi diversi che aprirono alla trigonometria. Insomma la matematica, come insieme del sapere più evoluto (questo significava nella Grecia antica la parola matematica), nasce e si sviluppa su problemi pratici. Solo più avanti nel tempo e proprio nella Grecia classica, iniziò a vivere di vita propria, indipendentemente da una sua applicazione pratica. E tale rimase finché non cadde il tutto nell’oblio nel nostro mondo occidentale, sotto gli implacabili colpi della Chiesa che tutto distruggeva e bruciava. Ma già nel XII secolo, sulla scia dei modelli platonici, neoplatonici e di Sant’Agostino, la matematica assurse a modello di scienza razionale e si affermò il concetto che i sensi ci ingannano e che solo la ragione può fornirci la verità. E gli affinamenti seguirono nel XIII secolo ad opera di Fibonaccie Nemorario. Se da una parte dietro questi matematici si intravede l’opera riscoperta di Euclide, Erone, gli arabi e, l’allora completamente sconosciuto in Occidente, Diofanto, dall’altra c’è l’evidente originalità di approcci totalmente differenti, a volte vicini a problemi che sorgevano dalla vita sociale. In particolare, all’epoca si iniziavano grandi viaggi e la cartografia obbligava a rivedere la costruzione di mappe che si iniziarono a costruire mediante proiezioni stereografiche.

Tutti gli autori concordano nel ritenere che, a partire da un certo momento storico (tra il Quattrocento ed il Cinquecento), i portati della tecnica nei campi della meccanica e dell’architettura civile e militare fecero riconoscere nella matematica uno strumento indispensabile. Particolarmente in Italia, dove meccanica, architettura ed arte avevano uno sviluppo clamoroso, si ponevano i problemi di misurazioni sempre più accurate di lunghezze, angoli, aree. Occorreva calcolare i volumi, fare degli studi prospettici, di simmetria. Si passò così dalle cose realizzate per mera intuizione alle cose progettate razionalmente con l’uso di proporzioni, simmetrie ed armonie. Fu nel Quattrocento, in Italia, che si iniziò la pubblicazione di svariate opere che facevano largo uso della matematica: opere di Brunelleschi, di Leon Battista Alberti, di Piero della Francesca (che ci fornì la “divina proporzione“, la sezione aurea), di Giorgio Martini, di Luca Pacioli. Come si vede si tratta (a parte Pacioli) di architetti ed artisti di varia natura che per la prima volta ci offrono opere che nascono ampiamente studiate e progettate con l’ausilio della matematica. È chiaro che la ricerca era delle migliori proporzioni, dell’armonia; è quindi evidente che sullo sfondo campeggia l’immagine del platonismo, sia nella sua veste pitagorica che in quella eudossiana. Elemento di grande importanza è che svariati autori iniziano a pubblicare trattati di matematica scritti in modo divulgativo, molto chiaro, accessibile a molti. La matematica inizia anche ad entrare come insegnamento impartito nelle Università, anche se non allo stesso rango di logica e dialettica (si pensi che come “matematico” Galileo guadagnava dalle cinque alle dieci volte meno dei suoi colleghi filosofi che insegnavano nella stessa Università). Gli studenti cominciano a diventare curiosi ed esigenti. Prima ci si accontentava dell’esposizione degli “Elementi” di Euclide, ora si volevano conoscere tutte le applicazioni pratiche della matematica, si volevano apprendere cose che poi, appena terminati gli studi, sarebbero state di immediata utilità. La domanda era così grande che addirittura sorse la professione di matematico pratico (il primo manuale di matematica pratica è l’Aritmetica di Treviso del 1478 in cui compare la prima chiara spiegazione della moltiplicazione e della divisione!). E nel frattempo venivano pubblicate, in traduzione latina, opere di classici greci fino ad allora sconosciute. La prima edizione latina a stampa di Euclide vide la luce a Venezia nel 1482. Nella prima metà del Cinquecento vennero pubblicate da F. Maurolico, monaco siciliano, traduzioni latine di Archimede, Apollonio e Diofanto e da F. Commandino (intorno al 1560) traduzioni di Euclide, Apollonio, Pappo, Erone, Archimede ed Aristarco. Pian piano i seguaci di Archimede crebbero. Ed ecco Niccolò Tartaglia, Guidobaldo dal Monte, Giambattista Benedetti, Giambattista Della Porta, Gerolamo Cardano. Sono tutti grandi matematici che porteranno l’algebra, la geometria e l’aritmetica a risultati del tutto insospettabili solo qualche decennio prima ed anche nel periodo più fulgido dei matematici greci. Si realizzò anche una svolta decisiva che vide l’algebra assumere il primato sulla geometria, a seguito proprio dei suoi più recenti successi (Tartaglia ci terrà a sottolineare che le sue elaborazioni non sono tratte né da Platone né da Plotino). 

Questa matematica così raffinata e sofisticata andava in mano a chi urgeva di strumenti per affinare le produzioni artigianali con tecniche sempre più precise. Quando si realizzò l’incontro tra questa matematica e l’osservazione dei fatti naturali, nacque la scienza moderna. L’abito scientifico sorge nel comune italiano come era sorto nella città greca, dalla contemplazione della natura, concepita come una grande opera d’arte. E questo è il motivo per cui è inscindibile il momento della crescita della scienza da quello della produzione artistica nell’Italia del Rinascimento e del Barocco. La natura: con numeri, proporzioni ed armonia. È ciò che ritroviamo in tutti i grandi artisti dell’epoca che, insieme, furono matematici e scienziati. Quindi progresso tecnico, nascita della borghesia, disponibilità economiche, riconquista della natura e studio di essa.

Senza la matematica ed i suoi arnesi, ed il suo linguaggio preciso, univoco ed essenziale non sarebbe stato possibile fare un solo passo avanti nella comprensione sempre più precisa del mondo circostante. Innanzitutto il problema della misura. Come rendere conto della durata di un fenomeno e confrontarla con quella di un altro fenomeno ? Non basta dire che questo va più piano di questo. Serve la quantità, accanto alla qualità. Inoltre senza correlazioni come si può raccontare di un sasso che cade e che il fenomeno è lo stesso della Terra che gravita intorno al Sole ? Dico che il sasso cade veloce e che riesco a vedere il Sole se non vi sono nuvole ? Che il Sole è caldo e che è più caldo quando è estate ? Che i sassi più grandi arrivano prima al suolo di quelli più piccoli, o no ? Insomma tutti capiscono queste necessità e da esse occorre partire per capire come le cose si sono complicate dall’ampliare l’orizzonte dei fenomeni da studiare. Newton, ad esempio, tentò di descrivere i fenomeni meccanici che studiava nei suoi Principia mathematica philosophiae naturalis (1686) non con una matematica agile che già possedeva (quella che poi passerà con il nome di analisi matematica o calcolo) ma venendo incontro alle esigenze del pubblico più familiarizzato con la geometria. Le sue sono dimostrazioni in gran parte geometriche e, assicuro, sono quasi incomprensibili per chi conosce l’agilità e la semplicità del calcolo (proprio così!). Un poco come le difficoltà che incontra uno come me, che conosce le equazioni, a risolvere un problema con il metodo del 3 semplice. Anche la musica è passata attraverso un  modo diverso di rappresentare le note ed oggi molti studiosi di musica si troverebbero in difficoltà a leggere un qualche incunabolo con canti gregoriani. Quelle che seguono sono alcune note che i pianeti suonerebbero, in lode al Signore, secondo Keplero:

E qui mi soffermo un istante. Si legga ora questa musica:

e, se non lo sapete, vi dico che quei pallini sul pentagramma non possiamo metterli un poco più su o un poco più giù. Se lo facessimo rovineremmo la sonata in do maggiore (K 545) di Mozart. Ed ora leggete qui:

E’ una relazione matematica che parla di un certo conto che fornisce un certo risultato. Così come ci fidiamo che quelle note ci danno quell’armonia, anche qui, data l’impostazione del calcolo, quello sarà il risultato. Il linguaggio della musica ha la stessa caratteristica di quello della matematica. In questa ultima relazione non è lo stesso se quell’8 sta sotto o sopra la linea di frazione. Tutto deve essere proprio così, a quelle quote e basta. Per leggere ciò che c’è scritto occorre conoscere la grammatica e la sintassi di questa lingua, allo stesso modo che per la musica. Nessuno si azzarderebbe ad opinare su grammatica e sintassi cinesi senza conoscere quella lingua eppure molti si permettono con allegria di parlare del linguaggio matematico senza conoscere questa lingua, anzi odiandola a priori per qualche trauma avuto nella scuola dell’obbligo. Non a caso nella nostra società, in un qualunque salotto di dotti, mentre chiunque si vergognerebbe di non conoscere Dante o Manzoni o Raffaello, tutti si farebbero vanto (con ampi sorrisi che accompagnano la testa che energicamente si scuote) non solo di non conoscere la matematica ma di non averla mai capita. Per far felici i pigri capoccioni dovrei io mettermi a dire che lì su c’è un integrale definito che vuol dire che si fa la somma di tanti elementi molto piccoli a partire da … fino ad arrivare a … Che questa è una somma di rettangolini che hanno per base quelle grandezze piccolissime e per altezza il valore medio che la funzione che sta sotto il segno di integrale assume in quel punto. E questo discorso ancora più dettagliato lo dovrei ripetere per ogni relazione che incontro, dovrei cioè fare il traduttore in simultanea con la speranza che chi ascolta continui a farlo fino alla fine della mia traduzione che sarà necessariamente lunga, tanto è vero che si è scelto per economia di linguaggio, oltre ché a tutto il resto, proprio di utilizzare un’altra lingua, quella matematica.

Insomma, trovarmi di fronte chi non studia e che vuole pontificare sulla lezione non studiata, fa saltare i nervi anche ad una persona che si ciba di bromuro. E dico questo affermando che è legittimo non conoscere la matematica ed addirittura non volerne sapere nulla. E’ chiaro che chi scegli questa eventualità, resta uno che ignora la matematica e tutto può fare meno che venire a spiegare cosa è la scienza rifugiandosi in quelle nicchie dove la matematica non compare. Anche chi, ad esempio, si rifugia nella discussione di Galileo lo fa riferendosi solo a certe lettere ed al Dialogo sopra i due massimi sistemi. Mai che si azzardino ad entrare nella discussione dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze dove compare una matematica complessa che richiama direttamente il non tanto semplice Euclide, per di più in latino. E se questi pretesi storici o filosofi o studiosi in genere vogliono spiegarci Galileo senza conoscere la sua ultima opera, la più copernicana, ma che caspita ci raccontano di Galileo ? Come chi volesse raccontarci Dante dalla Vita nova, saltando olimpicamente la Divina Commedia.

Facciamo comunque qualche esempio di applicazione della matematica a problemi pratici.

Ho già accennato alla misura che mette in relazione una qualche grandezza nota con grandezze da trovare. Se dispongo di una tavoletta e voglio misurare l’altezza di un muro, posso riportare la tavoletta di seguito più volte e poi dire che il muro è alto, ad esempio 12 tavolette e mezza. Se poi devo raccontare ad un amico quanto è alto il muro la cosa mi si complica perché il mio amico non capirà “12 tavolette e mezza” in quanto non sa cosa è una tavoletta in termini di lunghezza. E’ quindi necessario vedersi prima, accordarsi su una tavoletta che abbiamo tutti e due e quindi passare a misurare altezze e lunghezze. La comunicazione in tal caso è proficua perché ogni persona messa al corrente di cosa è una tavoletta capirà. In questo modo, dopo che le sole unità di lunghezza inventate in Italia erano oltre 2000, si capì che era necessario passare dai dialetti di lunghezza ad una lingua comune di lunghezza. In tal modo sono nati i sistemi di unità di misura. E se io oggi comunico ad un amico australiano che ho comprato una casa di 100 metri quadrati, egli capirà esattamente la dimensione della mia casa.

Ma la misura, spesso presuppone di sovrapporre la nostra tavoletta con l’oggetto da misurare. Ciò non è sempre possibile. Quanto è alta una montagna ? Con una tavoletta non risolviamo nulla. Servono allora metodi indiretti di misura. Come esempio si può ricordare come fece Talete a misurare l’altezza della grande piramide di Cheope (VI secolo a. C.). Egli piantò un bastone nel suolo e misurò la sua altezza (A’O’) e la lunghezza della sua ombra (O’P’).

Misurò poi la lunghezza (OP) dell’ombra della piramide (per farlo basta misurare la metà del lato di base della piramide ed aggiungerlo alla lunghezza della parte di ombra che fuoriesce dalla piramide medesima) e, con una semplice proporzione fornì con precisione l’altezza della piramide (OA):

A’O’ : O’P’ = AO : OP   –>  AO . O’P’  = A’O’ . OP  –>   AO  =  (A’O’ . OP)/O’P’.

Vi è un altro esempio dell’invenzione realizzata per altra importante misura, quella di Eratostene (240 a. C.) del meridiano terrestre (la circonferenza della Terra). L’idea di realizzare una tale misura venne ad Eratostene quando fece un viaggio da Alessandria d’Egitto a Siena (l’odierna Aswan) che si trova a 785 Km più a Sud sullo stesso meridiano. In quest’ultima città si accorse che il giorno del solstizio, a Mezzogiorno, gli oggetti e le persone non proiettavano ombre. Ciò voleva dire che, in quel momento il Sole si trovava perfettamente a perpendicolo sulla città (stesso fenomeno si verifica in tutta la lunghezza del tropico).  Ciò non accadeva ad Alessandria dove si aveva sempre ombra anche se variabile con il passare dell’anno. La minima inclinazione dei raggi solari rispetto alla verticale al suolo era di 7° ed 1/7 che Eratostene misurò con somma cura. Con una invenzione geniale, egli capì con un ragionamento geometrico che quei  7° e 1/7 dovevano rappresentare l’angolo che i raggi provenienti dal centro della Terra e intersecanti le due città, formavano tra loro. Il ragionamento che fece oggi sembra semplice. 

Se 7° e 1/7 al centro della Terra, sottendono un arco di 785 Km, quanto sottende l’angolo giro, cioè 360° ? Questo numero avrebbe rappresentato la lunghezza del meridiano terrestre (D). Anche qui, con una proporzione trovò:

7° 1/7  :  d  =  360°  :  D    =>  D  ~  40.000 Km

che è una misura vicinissima a quella oggi accettata.  

Come si vede, oltre alla potenza della matematica, è che ho usato delle lettere per rappresentare altezze e lunghezze. Perché non ho messo lì direttamente dei numeri ? Perché il metodo di Talete è generale, non vale solo per quel caso particolare. Ed allora la relazione che ho scritta vale per ogni grandezza io voglia misurare e non solo per quella dell’esempio. Questo fatto ci fa capire cosa si nasconde dietro l’accusa di astrazione della matematica. L’incapacità di comprendere processi generali diventa demerito di chi li propone. Vista la cosa in altro modo e con l’aiuto della psicologia dell’età evolutiva si possono dire le cose seguenti. L’uomo, fin dai suoi primi momenti di vita, ha la capacità del pensiero concreto. Sa vedere e confrontare direttamente (questo è più grande di questo; questo è caldo, questo è freddo; questo è alto; questo è verde; …); sa confrontare oggetti con oggetti. Egli non sa invece collegare concetti con concetti, e questa capacità, chiamata del pensiero astratto, si conquista mediamente intorno ai 18 anni, se prima si è lavorato opportunamente per aiutare la nostra mente in tal senso (geometria, analisi logica e grammaticale, …). Ma, fatto importante, non tutti conquistano la fase astrattiva del pensiero, soprattutto oggi, quando le sollecitazioni prima dei 18 anni non vanno in tal senso. I filosofi dei quali ho parlato prima, probabilmente soffrono di tale patologia che vorrebbero fosse della matematica. E per questo ci parlano di scienza rifacendosi a divulgazioni che vanno bene per un cittadino che vuole capire qualcosa ma non per chi vuole farci un discorso critico sopra. Riporto a proposito un brano estremamente chiaro del fisico Marco Fabbrichesi (Pensare in formule: Newton, Einstein ed Heisenberg, Bollati Boringhieri 2004):

Forse, essendo la matematica un linguaggio straniero, si potrebbero semplicemente provare a tradurre le sue formule nel linguaggio comune, in italiano nel nostro caso. Queste idee si potranno ben spiegare senza doversi iscrivere a un corso universitario di fisica o dover soffrire per pagine di formule?
In fondo, questo tipo di traduzione è lo scopo dichiarato di tutta la letteratura di divulgazione scientifica in cui, per non perdere lettori, viene consigliato di scrivere nelle introduzioni: «Nelle pagine che seguono non ci sono formule», oppure: «Nelle pagine che seguono c’è una sola formula ma, se volete, la potete saltare».
Questo 
(scritto) cerca di suggerire che concepire la divulgazione scientifica in questo modo rischia non solo di essere inutile (le idee espresse sono rese così vaghe da risultare incomprensibili oppure equivoche) ma anche diseducativa in quanto basata sull’illusione che si possa capire qualche cosa senza fare fatica. (Occorre) ribadire l’importanza di leggere gli articoli originali della letteratura scientifica, le fonti primarie, e così facendo le formule che contengono.
Il punto più importante nello spiegare la scienza, la fisica nel nostro caso, è proprio lo spiegare le formule matematiche in quanto formule. Se si potessero tradurre in linguaggio comune senza perderne il senso lo si sarebbe già fatto fin dall’inizio e gli articoli scientifici non conterrebbero nessuna formula. Ci si sarebbe semplicemente serviti del linguaggio di tutti i giorni per presentare i risultati della ricerca scientifica, così come si fa in altre discipline come la filosofia e la storia. Ma questo non è possibile per la fisica. O, se possibile, la traduzione in una «narrazione» sarebbe così lunga e richiederebbe un così gran numero di commenti da essere in pratica irrealizzabile.
Leggere della divulgazione scientifica senza formule ricorda l’esperienza un po’ penosa e noiosa di ascoltare qualcuno che ci racconta un film che ha visto. Anche lui sta cercando di tradurre un linguaggio (quello delle immagini) in un altro (quello delle parole). Meglio andare a vedere il film! Meglio imparare a leggere le formule!
Quello che viene fatto è in realtà di sostituire ai concetti precisi e necessari della fisica, e delle sue equazioni, delle vaghe analogie o delle metafore. In pratica, ci si muove a ritroso nella storia della scienza, la quale, appunto, si è sforzata di andare da idee vaghe e imprecise degli eventi naturali a concetti ben definiti e precisi. La storia del pensiero scientifico è in gran parte l’emancipazione da questo vizio.
Questa è anche la ragione, credo, per cui gli argomenti su cui si concentra la gran parte dei libri e articoli di divulgazione sono quelli che più si prestano all’uso delle metafore: dalla cosmologia alle teorie del caos, mentre si vedono pochi libri di meccanica ed elettromagnetismo sebbene questi argomenti siano più strettamente legati alla nostra vita di tutti i giorni. Ora, una metafora è appunto solo una metafora e chiamare una locomotiva il bisonte d’acciaio non ci aiuta a costruirne una, né a capire come funziona.
In realtà le tentazioni a cui bisogna cercare di resistere sono due:
– Che si possa ricorrere a metafore per spiegare ciò che sarebbe faticoso spiegare veramente; questa è una tentazione sempre presente. Si scrive o si dice: «E’ come…» e si spera che ciò basti. Ma la connessione è solo nella mente di chi parla e invece per chi ascolta la metafora diviene la cosa in sé a cui si sostituisce.
– Che un’idea possa divenire più digeribile se la forma in cui viene presentata è resa più attraente. La speranza che l’involucro (fatto di enfatizzazione in un formato accattivante) possa aiutare è un’idea derivata (ahimè) dalle tecniche commerciali di vendita dei prodotti e la speranza è qui che lo stesso valga per le idee della scienza (e della cultura in generale).
Il risultato di lasciarsi andare a questa duplice tentazione e di usare questa combinazione di metafore ed enfatizzazione è una forma di manierismo in cui lo scopo ultimo della divulgazione diviene la meraviglia e il bisogno soddisfatto non è quello di capire ma quello di credere. (…)
Purtroppo la meraviglia che si ottiene in questo modo è superficiale e poco utile, al contrario della meraviglia vera che si prova nella comprensione dei meccanismi profondi con cui la natura è organizzata e che viene raggiunta solo dallo studio e dalla comprensione del formalismo matematico.

Ritornando alla misura, occorre osservare subito che il metodo di Talete non è ancora applicabile all’altezza della montagna. La cima di essa, quasi sempre non proietta ombra in luogo dove sia possibile misurare la lunghezza di essa, dal piede della vetta. Occorre inventarsi qualcosa di diverso e la trigonometria ci risolve il problema. Allo stesso modo che la trigonometria ci permette di misurare l’estensione di un campo del tutto irregolare, che si estende tra pianura e varie colline. La matematica diventa un  poco più complessa ma è di fondamentale importanza, per chi vuole fare quelle operazioni, conoscerla (altrimenti non conoscerà quelle cose ma non dovrà venire a dirci che la misura di quel campo non è corretta!). Con metodi trigonometrici si può anche misurare la distanza della Terra dal Sole, della Terra dalla Luna, il diametro della Terra, … Tutte misure che furono fatte nella Grecia classica.

E fin qui siamo ancora al problema di misurare grandezze immobili (rispetto al tempo che impieghiamo per misurare, anche Terra, Luna e Sole possono essere considerati immobili). Nel Seicento iniziò a porsi il problema del tempo che passa in relazione ad un dato fenomeno. Ci si iniziò a porre il problema della determinazione di grandezze variabili.



Categorie:Didattica

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: