Noam Chomsky
http://www.vergantesocialforum.org/page/ dossier/Noam%20Chomsky/articoli/art32.htm
19 Ottobre 1994
Mellon Lecture, Loyola University, Chicago
L’argomento che mi è stato proposto e di cui sono molto lieto di parlare è “democrazia ed istruzione”. Questa frase mi richiama subito alla mente la vita e l’opera ed il pensiero di uno dei maggiori pensatori del secolo scorso, John Dewey, che dedicò gran parte della sua vita e la sua riflessione a questo insieme di questioni. Credo che dovrei confessare il mio interesse speciale. Semplicemente si dà il caso che il suo pensiero abbia esercitato una forte influenza su di me negli anni della mia formazione – di fatto a partire dai due anni di età, per una serie di ragioni nel cui dettaglio non entrerò ma che sono reali. Per gran parte della sua vita, prima che divenisse scettico, Dewey sembra aver ritenuto che le riforme nell’istruzione di base potessero costituire in se stesse delle leve di cambiamento sociale, che avrebbero potuto aprire la strada verso una società più giusta e libera, in cui, nelle sue parole, “il fine ultimo della produzione non sia la produzione di beni, ma la produzione di esseri umani liberi reciprocamente associati in condizioni di uguaglianza”.
Questa convinzione fondamentale, che attraversa tutto il lavoro ed il pensiero di Dewey, è in profondo disaccordo con le due tendenze principali della vita intellettuale della società moderna. Una, forte ai suoi tempi – scrisse di questi temi negli anni 20 e 30 – si associa con le economie dell’Europa Orientale di quel tempo, i sistemi creati da Lenin e Trotsky e trasformati in una mostruosità finanche maggiore da Stalin. L’altra, la società industriale a capitalismo di stato degli USA e dell’Europa Occidentale, segnata dal dominio effettivo del potere privato. Questi due sistemi sono in realtà simili in aspetti fondamentali, incluso quello ideologico. Entrambi erano, ed uno di essi rimane, profondamente autoritari ed entrambi erano nettamente e fortemente opposti ad un’altra tradizione, quella libertaria di sinistra radicata nei valori dell’Illuminismo, una tradizione che comprendeva i liberali progressisti alla John Dewey, socialisti indipendenti come Betrand Russell, i principali esponenti della corrente fondamentale del marxismo, soprattutto antibolscevichi, e naturalmente i socialisti libertari dei vari movimenti anarchici, per non parlare di porzioni sostanziali del movimento dei lavoratori e di altri settori popolari.
Questa sinistra indipendente, di cui Dewey faceva parte, ha radici profonde nel liberalismo classico. Ne deriva direttamente, dal mio punto di vista, e si oppone nettamente alle correnti assolutiste delle istituzioni e del pensiero del capitalismo di stato o del socialismo di stato, compresa quella forma di assolutismo piuttosto estrema che è chiamata oggi conservatrice negli USA, una terminologia che avrebbe divertito Orwell e farebbe rivoltare nella tomba tutti i conservatori autentici, se solo se ne potesse trovare uno.
Non c’è bisogno di sottolineare che questo quadro non è quello convenzionale, per dirla con un eufemismo, ma credo che ha un merito, almeno, cioè quello dell’accuratezza. Cercherò di spiegare perché.
Facciamo ritorno ad uno dei temi centrali di Dewey, cioè che il fine ultimo della produzione non è la produzione di beni ma quella di esseri umani liberi che si associano reciprocamente in condizioni di uguaglianza. Ciò comprende, naturalmente, l’istruzione, una delle sue occupazioni principali. L’obiettivo dell’istruzione, per spostarci a Bertrand Russell, è “dare un senso al valore delle cose diverso da quello del dominio, contribuire a creare cittadini consapevoli di una comunità libera, incoraggiare la combinazione di cittadinanza e libertà, creatività individuale, che significa che consideriamo un bambino allo stesso modo in cui un giardiniere guarda ad un arbusto, come qualcosa dotata di una natura intrinseca che si svilupperà in maniera ammirevole data la giusta combinazione di terreno, aria e luce”. Di fatto, per quanto discordassero su molte cose, Dewey e Russell sono stati forse i due maggiori pensatori del XX sec. in Occidente, secondo me. Erano d’accordo su ciò che Russell chiamava concezione umanistica, radicata nell’Illuminismo, l’idea che l’educazione non va vista come l’atto di riempire un recipiente d’acqua, ma piuttosto quello di aiutare un fiore a crescere a suo modo.
Dewey e Russel condividevano altresì la convinzione che queste idee dell’Illuminismo e del liberalismo classico avessero un carattere rivoluzionario, e lo avevano proprio al tempo in cui essi scrivevano, nella prima metà del secolo. Se realizzate, queste idee potevano produrre esseri umani liberi i cui valori non fossero l’accumulazione e il dominio, ma piuttosto la libera associazione in condizioni di eguaglianza e la condivisione e la cooperazione, la partecipazione paritaria al raggiungimento di obiettivi comuni che fossero concepiti democraticamente. Vi era solo disprezzo per ciò che Adam Smith definì “la vile massima dei signori dell’umanità, tutto per loro e niente per gli altri”. Il principio guida che oggi ci viene insegnato ad ammirare e riverire, quando ormai i valori tradizionali sono stati erosi attraverso un attacco senza sosta, con i cosiddetti conservatori alla guida dell’offensiva negli ultimi decenni.
Vale la pena di prendersi il tempo per sottolineare quanto netto e forte è lo scontro di valori tra la concezione umanistica, da un lato, che corre dall’Illuminismo fino a figure capitali del XX sec. come Russell e Dewey e le dottrine predomimanti di oggi, dall’altro, quelle che furono denunciate da Adam Smith come “la vile massima” e altresì dalla vivace e vibrante stampa della classe lavoratrice di un secolo fa, che condannava ciò che chiamava il “nuovo spirito della nuova era, guadagnare ricchezze, dimenticando tutto tranne se stessi”. La vile massima di Smith. È del 1850 o giù di lì, dalla stampa della classe lavoratrice americana.
È significativo tracciare l’evoluzione dei valori a partire da un pensatore precapitalistico come Adam Smith, che poneva l’accento sulla simpatia, sull’obiettivo dell’uguaglianza perfetta e sull’essenzialità del diritto umano ad un lavoro creativo, e contrastarli, venendo al presente, con quelli che lodano il nuovo spirito del tempo, invocando a volte senza vergogna il nome di Adam Smith. Per esempio, James Buchanan, economista vincitore del Premio Nobel, che scrive che “ciò che ogni persona cerca in una situazione ideale è il dominio su un mondo di schiavi”. Questo è quello che volete, se non ve ne foste resi conto. Una cosa che Adam Smith avrebbe considerato patologica. Il miglior libro che conosco sul pensiero reale di Adam Smith (Adam Smith and His Legacy From Capitalism) è scritto da una professoressa di questa Università, Patricia Werhane. È il suo pensiero effettivo. Ovviamente è sempre meglio leggere l’originale.
Una delle illustrazioni più significative di questo nuovo spirito dell’epoca e dei suoi valori è il commento che trova spazio nei media sulle difficoltà che incontriamo nel sollevare i popoli dell’Europa Orientale. Come sapete, stiamo estendendo ad essi, i nostri nuovi beneficiari, la cura amorosa profusa sui nostri protetti in America Latina e nelle Filippine e così via. In ogni caso, stiamo per sollevare i popoli liberati dal comunismo come in passato abbiamo fatto con gli haitiani, con i brasiliani, i guatemaltechi, i filippini, i nativi americani, gli schiavi africani e così via. Il New York Times sta pubblicando attualmente una serie di interessanti articoli su questi problemi che gettano luce sui valori dominanti. C’è stato per esempio un articolo sulla Germania dell’Est scritto da Steven Kinzer che si apriva citando un prete che era stato uno dei leaders della protesta popolare contro il regime comunista. Descrive le preoccupazioni crescenti per ciò che sta accadendo alla società. Dice: “la competizione brutale ed il desiderio di ricchezza stanno distruggendo il nostro senso di comunità e quasi tutti provano una certa paura, depressione o un senso di insicurezza” nell’adottare il nuovo spirito del tempo che noi insegniamo ai popoli arretrati della terra.
L’articolo successivo si rivolgeva a quella che consideriamo la dimostrazione, il vero esempio di successo, la Polonia, scritto da Jane Perlez. Il titolo è: “Corsie lente e veloci sulla strada capitalista”. La tesi dell’articolo è che alcuni stanno comprendendo le cose mentre altri restano indietro. Dà un esempio di buono ed uno di cattivo studente. Il buon studente è il proprietario di una piccola fabbrica che è un “esempio prosperoso del meglio nella moderna Polonia capitalista. Produce intricatissimi abiti da sposa che sono venduti prevalentemente ai ricchi tedeschi e al piccolissimo settore dei polacchi super-ricchi”. Questo in un paese in cui la povertà si è più che raddoppiata da quando si sono introdotte le riforme, secondo uno studio della Banca Mondiale dello scorso luglio, e il reddito è sceso di circa il 30%. Comunque, le persone affamate e senza lavoro possono sempre guardare gli intricati abiti da sposa nelle vetrine, apprezzando il nuovo spirito del tempo, e quindi si capisce che la Polonia sia osannata come il maggior esempio positivo delle nostre conquiste. Questo bravo studente spiega che “alle persone occorre insegnare che devono combattere per se stessi e che non possono appoggiarsi ad altri”. Descrive un corso di training che sta conducendo con la finalità di instillare i valori americani tra le persone ancora sotto l’effetto del lavaggio del cervello con slogan come: “sono un minatore. Chi è meglio?” Devono tirarsi questa cosa fuori della testa. Un sacco di persone sono migliori, in particolare coloro che possono disegnare abiti da sposa per i tedeschi ricchi.
Questa è l’immagine scelta per rappresentare il successo dei valori americani. Poi ci sono i fallimenti, quelli che sono sulla corsia lenta della strada capitalista. Qui prende ad esempio un minatore quarantenne che “siede in un soggiorno con le pareti rivestite di legno e ammira il frutto del suo lavoro sotto il comunismo: un televisore, arredamento confortevole, una cucina lucente e moderna, e si domanda perché sta a casa, disoccupato e dipendente dal salario di disoccupazione”, non avendo ancora assorbito il nuovo spirito del tempo, “fatti ricco, dimenticando tutto di te stesso” e non “sono un minatore. Chi è meglio?” La serie continua allo stesso modo. È interessante da leggere per vedere ciò che si dà per scontato.
Ciò che sta accadendo nell’Europa dell’Est riassume ciò che è accaduto nei nostri domini del terzo mondo per molto tempo e si colloca in una storia molto più lunga. È una cosa che ci è molto familiare dalla nostra storia e da quella dell’Inghilterra prima di noi. C’è un libro recente, di uno storico emerito all’Università di Yale, David Montgomery, in cui si mette in evidenza che l’America moderna fu creata sulla base delle proteste della sua classe lavoratrice. Ha completamente ragione. Quelle proteste furono vigorose e sonore, in particolar modo sulla stampa della classe e della comunità lavoratrice che fiorì negli USA dagli inizi del XIX sec. fino a circa gli anni 30 del ‘900, quando fu distrutta dal potere privato, come accadde alla sua controparte inglese circa trent’anni dopo. Il primo studio significativo di questo argomento fu quello di Norman Ware del 1924. È ancora una lettura molto illuminante. Fu pubblicato qui a Chicago e ristampato molto di recente da Ivan Dee, un editore locale. Vale davvero lo sforzo di leggerlo, è un lavoro che segna uno studio davvero sostanzioso della storia sociale.
Ciò che Ware descrive, considerando soprattutto la stampa dei lavoratori, è come il sistema di valori sostenuto dal potere privato dovette essere letteralmente conficcato nelle teste delle persone normali, cui si dovette insegnare ad abbandonare i sentimenti umani normali per sostituirli con il nuovo spirito del tempo, come lo chiamavano. Ware esamina la stampa della classe lavoratrice della metà del XIX sec., spesso, detto per inciso, guidata da donne della classe lavoratrice. I temi che la attraversano non cambiano per un lungo periodo. Si incentrano su ciò che chiamano “degradazione” e “perdita della dignità e dell’indipendenza, perdita del rispetto di sé, declino del lavoratore come persona, declino netto del livello culturale e delle conquiste culturali poiché i lavoratori erano soggetti a” ciò che chiamavano “schiavitù del salario”, che consideravano non diversa dalla schiavitù in catene, che avevano combattuto durante la Guerra Civile. Particolarmente significativo e piuttosto rilevante per i problemi di oggi fu il declino netto di ciò che chiamiamo “cultura superiore”, la lettura dei classici e della letteratura contemporanea da parte di coloro che a Lowell venivano chiamate le “ragazze da fabbrica”(*) e da parte di artigiani ed altri lavoratori. Gli artigiani avrebbero potuto assumere qualcuno che leggesse loro qualcosa mentre lavoravano perché erano interessati ed avevano le biblioteche.
Ciò che descrivevano, citando dalla stampa dei lavoratori, è che “quando si vende un prodotto si conserva integra la persona. Ma quando si vende il lavoro, ci si vende interamente, perdendo i diritti di uomo libero e diventando vassalli di stabilimenti elefantiaci di un’aristocrazia danarosa che minaccia di annichilire chiunque metta in discussione il loro diritto a schiavizzare ed opprimere. Coloro che lavorano nelle fabbriche dovrebbero possederle, non avere lo stesso status di macchinari governati da despoti privati che impiantano i principi monarchici su suolo democratico mentre ricacciano indietro la libertà ed i diritti, la civiltà, la salute, la morale e l’intellettualità nel nuovo feudalesimo commerciale”. Solo in caso che siate confusi, questo accadeva molto prima del Marxismo, sono lavoratori americani che parlano delle loro esperienze negli anni 40 dell’ottocento.
La stampa dei lavoratori condannava anche ciò che chiamava i “clerici venduti”, riferendosi ai media e alle università e alla classe intellettuale, cioè agli apologeti che cercavano di giustificare il dispotismo assoluto che era il nuovo spirito dell’epoca e di instillare i suoi valori sordidi e sminuenti (sottolineatura mia, n.d.r.).Uno dei leaders originari dell’AFL, circa un secolo fa, alla fine dell’ottocento, espresse il punto di vista standard descrivendo la missione del movimento dei lavoratori in questi termini: “sconfiggere i peccati del mercato e difendere la democrazia estendendola fino al controllo delle industrie da parte di lavoratori”.
Tutto ciò sarebbe risultato perfettamente comprensibile ai fondatori del liberalismo classico, gente come Wilhelm von Humbolt, per esempio, che ispirò John Stuart Mill e che, come il suo contemporaneo Adam Smith, considerava il lavoro creativo liberamente intrapreso in associazione con altri uomini come il valore centrale della vita umana. Così, se una persona produce un oggetto su ordinazione, scriveva Humboldt, possiamo ammirare ciò che ha fatto ma disprezzeremo ciò che è, non un vero essere umano che agisce seguendo i suoi impulsi ed i suoi desideri. I clerici venduti avevano il compito di minare alla base questi valori e distruggerli nelle persone che si vendono sul mercato del lavoro. Per ragioni simili, Adam Smith avvisò che in ogni società civile i governi avrebbero dovuto intervenire per impedire che la divisione del lavoro trasformasse le persone in “creature tanto stupide ed ignoranti quanto è possibile per un essere umano”. Smith basava il suo supporto sfumato al mercato sulla tesi che se le condizioni fossero davvero libere, i mercati avrebbero portato all’uguaglianza perfetta. Questa era la loro giustificazione morale, ma tutto ciò è stato dimenticato dai clerici venduti che hanno una storia piuttosto diversa da raccontare.
Dewey e Russel sono due dei maggiori eredi, nel XX sec., di questa tradizione, che ha radici nell’Illuminismo e nel liberalismo classico. Ancor più interessante è la storia ispiratrice delle lotte e dell’organizzazione e della protesta degli uomini e delle donne lavoratrici a partire dagli inizi del XIX sec., quando cercavano di conquistare la libertà e la giustizia e di conservare i diritti che una volta avevano, mentre il nuovo dispotismo del potere privato sostenuto dallo stato estendeva la sua influenza. La questione elementare fu formulata con una buona dose di chiarezza da Thomas Jefferson attorno al 1816, prima che la rivoluzione industriale avesse preso davvero piede nelle ex colonie ma quando già potevano vedersene gli sviluppi. Nei suoi ultimi anni, Jefferson, osservando ciò che accadeva, nutriva dei seri dubbi circa il destino dell’esperimento democratico. Temeva la nascita di una nuova forma di assolutismo più minacciosa di quella che era stata schiacciata con la rivoluzione americana, di cui era stato un leader. Jefferson faceva la distinzione, negli ultimi anni di vita, tra quelli che chiamava gli “aristocratici” e i “democratici”. Gli aristocratici sono “coloro che temono e che non hanno fiducia nelle persone, e desiderano sottrarre loro tutti i poteri per metterli nelle mani delle classi superiori”. I democratici, al contrario, “si identificano con il popolo, hanno fiducia in esso, si preoccupano per esso e lo considerano come il repositorio dell’interesse pubblico, se non sempre il più saggio”. Gli aristocratici dei suoi giorni erano i sostenitori del nascente stato capitalista, che Jefferson guardava con sdegno, riconoscendo chiaramente la contraddizione del tutto evidente tra democrazia e capitalismo, o, più accuratamente, ciò che potremmo chiamare il capitalismo esistente in realtà, cioè guidato e finanziato da potenti stati in sviluppo, come accadeva in Inghilterra e negli USA e di fatto ovunque.
Questa contraddizione fondamentale fu rafforzata dalla concessione di poteri sempre maggiori alle nuove strutture economiche, non attraverso procedure democratiche ma prevalentemente attraverso tribunali e avvocati che trasformarono quelle che Jefferson chiamava le “istituzioni bancarie e le incorporazioni monetarie” – che, diceva, avrebbero distrutto la libertà e di cui potette a stento vedere la nascita nei suoi giorni – in “persone immortali” con poteri e diritti ben al di là dei peggiori incubi di pensatori precapitalisti come Adam Smith o Thomas Jefferson. Mezzo secolo prima Adam Smith già aveva messo in guardia da questo, benché potesse a stento vederne gli inizi.
La distinzione jeffersoniana tra aristocratici e democratici fu sviluppata circa mezzo secolo più tardi da Bakunin, pensatore ed attivista anarchico, con una delle poche predizioni delle scienze sociali che di fatto si siano dimostrate vere. Dovrebbe avere un posto d’onore in ogni curriculum accademico serio nelle scienze sociali e nelle lettere per questa ragione sola. Nel XIX sec. Bakunin previde che l’intelligentzia nascente del XIX sec. avrebbe seguito una di due strade parallele. Una sarebbe stata sfruttare le lotte popolari per prendere il potere statale, costituendosi in quella che chiamava una “burocrazia rossa che imporrà il regime più crudele e viziato della storia”. Questo è un cammino, l’altro, diceva, sarà di quelli che scopriranno che il potere reale è altrove, e si trasformeranno nei suoi clerici venduti, nelle parole della stampa dei lavoratori, servendo i veri padroni del sistema di potere privato sostenuto dallo stato, o come managers o apologeti che picchiano il popolo con il bastone del popolo, per dirla con le sue parole, nelle democrazie capitaliste di stato. Le somiglianze sono sorprendenti e arrivano fino al presente. Aiutano a spiegare la rapida transizione delle persone dall’una all’altra posizione, all’apparenza strana ma di fatto rispondente ad una ideologia comune. Lo stiamo vedendo proprio ora in Europa dell’Est con il gruppo di quelli a volte chiamati capitalisti della Nomenklatura, la vecchia classe dominante al potere, ora i maggiori entusiasti del mercato, che si arricchiscono mentre le loro società diventano normali società del Terzo Mondo. Il passaggio è semplicissimo, perché si tratta essenzialmente della stessa ideologia. Il passaggio simile dall’essere commissari stalinisti alla celebrazione dell’America è piuttosto normale nella storia moderna, e non richiede un grosso cambio nei valori, solo lo spostamento del giudizio di dove risiede il potere.
Indipendentemente da Jefferson e Bakunin, altri giungevano alla stessa comprensione durante il XIX sec. Uno dei principali intellettuali americani era Charles Francis Adams, che descrisse nel 1880 il sorgere di quella che è oggi chiamata “società post-industriale” da Daniel Bell, Robert Reich, John Kenneth Galbraith ed altri. Siamo nel 1880, si ricordi, una società in cui, diceva Adams, “il futuro è nelle mani delle università, delle scuole, dei nostri specialisti, dei nostri uomini di scienza e di coloro che svolgono il lavoro concreto di organizzazione nelle istituzioni ideologiche ed economiche”. Oggigiorno sono chiamati “elite tecnocratica” e “intellettuali d’azione” o la classe nuova o con qualche altra parola simile. Adams, nel 1880, concludeva che “il primo obiettivo dei cittadini pensanti, perciò, dovrebbe essere non mantenere al potere questo o quel partito politico ma insistere sull’ordine e sulla supremazia della legge”, intendendo con ciò che alle elite avrebbe dovuto essere concesso di lavorare in quello che la Banca Mondiale chiama “isolamento tecnico” – sono un po’ anacrostico qui, questo è gergo moderno – o, come dice il London Economistic oggi, “le politiche dovrebbero essere slegate dalla Politica”. Questo è il caso della libera Polonia, assicurano ai loro lettori, così non devono preoccuparsi del fatto che le persone possano richiedere qualcosa di completamente diverso in libere elezioni. Può succedere quello che si vuole alle elezioni, però, siccome le politiche sono del tutto separate dalla Politica e l’isolamento tecnocratico avanza, non conta. Questa è la democrazia.
Un decennio prima, nel 1870 – erano preoccupati per il suffragio universale allora, la popolazione stava lottando per il diritto di voto – Adams aveva avvertito che il suffragio universale avrebbe “portato il governo dell’ignoranza e del vizio, con il potere nelle mani del proletariato europeo e soprattutto celtico della costa atlantica”, questi orrendi irlandesi, “del proletariato africano sulle spiagge del golfo e del proletariato cinese sul Pacifico”. Adams non previde le tecniche sofisticate che si sarebbero sviluppate nel XX sec. per assicurare che le politiche restassero isolate dalla Politica mano a mano che il diritto si allargava grazie alla lotta del popolo e per garantire che il pubblico generale rimanesse marginalizzato e disaffezionato, soggiogato dal nuovo spirito del tempo e che arrivasse a vedersi non come un popolo libero che aveva un diritto alla dignità e all’indipendenza ma come atomi di consumo che si vendono sul mercato del lavoro, per lo meno se sono fortunati.
Adams esprimeva di fatto una vecchia idea. Ottant’anni prima, Alexander Hamilton l’aveva detto chiaramente. Disse che esisteva l’idea che il popolo è una grande bestia e che la vera malattia è la democrazia. Questo è Hamilton. Queste idee si sono radicate sempre di più nei circoli colti, e le paure di Jefferson e le previsioni di Bakunin si sono progressivamente realizzate. Gli atteggiamenti elementari che sono arrivati in questo secolo sono ben rappresentati dal segretario di stato di Woodson Wilson, Robert Lansing, atteggiamenti che condussero al “Terrore Rosso” di Wilson, come fu chiamato, che distrusse il movimento operario ed il pensiero indipendente per un decennio. Lansing mise in guardia di fronte al pericolo di permettere alla “massa ignorante ed incapace dell’umanità” di diventare “dominante sulla terra”, o finanche influente, come credeva che volessero i bolscevichi. Questa è la reazione isterica e completamente erronea che è del tutto comune tra le persone che sentono il loro potere minacciato. Queste preoccupazioni furono articolate molto chiaramente dagli intellettuali progressisti dell’epoca, di cui forse il principale era Walter Lippman con i suoi saggi sulla democrazia, prevalentemente negli anni 20. Lippman fu anche decano del giornalismo americano e uno dei commentatori più autorevoli per molti anni.
Il suo consiglio era che “il pubblico deve essere messo al suo posto in modo che gli uomini responsabili possano vivere liberi dal calpestio e dal brusio di una schiera selvaggia”. La bestia di Hamilton. In una democrazia, sosteneva Lippman, questi “ignoranti e invadenti nuovi venuti” hanno una “funzione”. La loro funzione è essere “spettatori interessati dell’azione” ma non “partecipanti”. Devono periodicamente affidare il loro peso a qualche membro della classe dominante, queste sono le elezioni, e poi si suppone che ritornino alle loro occupazioni private. Di fatto nozioni simili divennero parte della teoria ortodossa nell’accademia più o meno allo stesso tempo.
Nel messaggio presidenziale all’Associazione americana per le scienze politiche nel 1934, William Shepard sostenne che il governo dovrebbe essere nelle mani di “un’aristocrazia di intelletto e potere”, mentre agli “elementi ignoranti, non informati e antisociali” non deve essere permesso controllare le elezioni, come egli credeva erroneamente che avessero fatto in passato. Uno dei fondatori delle scienze politiche moderne, Harold Lasswell, scrisse nell’Enciclopedia delle scienze sociali nel 1933 o 1934 che le moderne tecniche di propaganda, che erano state incredibilmente affinate dai liberali wilsoniani, fornivano il modo di tenere il pubblico in riga. Lasswell descriveva Wilson come “il grande generalisimo [così nel testo inglese, ndt] sul fronte della propaganda”. I risultati conseguiti da Wilson in termini di propaganda nella prima guerra mondiale fecero colpo su altri, compreso Hitler. Se ne può leggere qualcosa in Mein Kampf. Ma più di tutto colpirono la comunità economica americana. Ciò portò ad una gigantesca espansione dell’industria delle relazioni pubbliche che si dedicava al controllo dell’opinione pubblica, come i suoi sostenitori ammettevano in tempi più onesti, proprio come, scrivendo nella Enciclopedia delle scienze sociali nel 1934, Lasswell descrisse ciò di cui stava parlando in termini di propaganda. Noi non usiamo più quel termine, siamo più sofisticati.
In quanto studioso di scienze sociali, Lasswell si faceva sostenitore di un uso più sofisticato di questa nuova tecnica di controllo del pubblico offerta dalla propaganda moderna. Essa permeterrebbe, diceva, agli uomini intelligenti di una comunità, i capi naturali, di superare la minaccia della grande bestia che può minacciare l’ordine a causa dell’ignoranza e della superstizione delle masse, nelle parole di Lasswell. Non dovremmo soccombere al “dogmatismo democratico che vuole gli uomini essere i migliori giudici dei loro propri interessi”. I migliori giudici sono le elites, cui bisogna assicurare i mezzi per imporre il loro volere per il bene comune. Gli aristocratici di Jefferson, in altre parole.
Lippman e Lasswell rappresentano la frangia più liberale e progressista, che garantisce alla bestia almeno il ruolo dello spettatore. All’estremo reazionario ci sono quelli che si denominano impropriamente conservatori nel linguaggio mediatico attuale. Così i reazionari reaganiani pensavano che il pubblico, la bestia, non dovesse avere neppure il ruolo di spettatore. Ciò spiega la fascinazione per le operazioni di terrore clandestino, che non erano segrete per nessuno eccetto il pubblico americano, certamente non per le loro vittime. Le operazioni di terrore clandestino erano pensate per lasciare la popolazione domestica nell’ignoranza. Invocavano altresì misure assolutamente prive di precedenti in termini di censura e propaganda per assicurare che lo stato ricco ed interventista che allevavano potesse fungere da stato di welfare per i ricchi e non fosse turbato dalla marmaglia. L’immenso aumento della propaganda economica in anni recenti, il recente assalto alle università da parte di fondazioni di destra ed altre tendenze attuali sono altre manifestazioni delle stesse preoccupazioni. Queste furono risvegliate da ciò che le élites liberali chiamavano “crisi della democrazia”, sviluppatasi negli anni 60, quando settori della popolazione precedentemente marginalizzati ed apatici, quali le donne, i giovani, gli anziani, i lavoratori e così via, cercarono di entrare nell’arena pubblica, dove hanno il diritto di stare, come comprendono tutti gli aristocratici onesti.
John Dewey era un residuo della tradizione liberale classica dell’Illuminismo che si opponeva al dominio dei saggi, alla carica degli aristocratici jeffersoniani, che si collocassero nella porzione reazionaria o liberale di questo ristrettissimo spettro liberale. Dewey comprese chiaramente che “la politica è l’ombra proiettata sulla società dai grandi interessi economici”, e fintanto che ciò permanga vero, “un’attenuazione dell’ombra non cambierà la sostanza”. Intendendo che le riforme sono di utilità limitata. La democrazia richiede che la causa dell’ombra sia rimossa non solo per il suo dominio sull’arena politica, ma perché le stesse istituzioni del potere privato incrinano la democrazia e la libertà. Dewey era molto esplicito riguardo al potere antidemocratico che aveva in mente. Per citarlo: “il potere oggi” – siamo nel 1920 – “risiede nel controllo dei mezzi di produzione, scambio, pubblicità, trasporto e comunicazione. Chiunque li possieda controlla e domina la vita del paese, anche se permangono forme di democrazia. Affari finalizzati al profitto privato attraverso il controllo privato delle banche, della terra e dell’industria rafforzato dal controllo della stampa, delle agenzie stampa e degli altri mezzi di pubblicità e propaganda, che è il sistema di potere attuale, la fonte di coercizione e controllo, e finché non sia rovesciato non potremo parlare seriamente di democrazia e libertà”. L’istruzione, sperava, del tipo di cui parlava, la produzione di esseri umani liberi, doveva essere uno dei mezzi per mettere in discussione questa mostruosità assolutista.
In una società libera e democratica, sosteneva Dewey, i lavoratori dovrebbero essere padroni del loro destino industriale, non strumenti affittati dai datori di lavoro. Concordava su questioni fondamentali con i fondatori del liberalismo classico e con i sentimenti democratici e libertari che animavano i movimenti dei lavoratori sin dagli inizi della rivoluzione industriale, fino a che non furono abbattuti da una combinazione di violenza e propaganda. Nel campo dell’istruzione, perciò, Dewey riteneva “illiberale ed immorale” insegnare ai bambini a lavorare “non liberamente ed intelligentemente, ma allo scopo di guadagnare dal lavoro”, nel qual caso la loro attività “non è libera perché non vede una libera partecipazione”. Ancora la concezione del liberalismo classico e dei movimenti dei lavoratori. Perciò, sosteneva Dewey, le aziende devono cambiare da “un ordine feudale ad uno democratico” basato sul controllo da parte dei lavoratori e sulla loro libera associazione, ancora una volta classici ideali anarchici che affondano le loro radici nel liberalismo classico e nell’Illuminismo.
Siccome il sistema dottrinale si è ristretto sotto l’assalto del potere privato, in particolare nel corso degli ultimi decenni, questi valori libertari fondamentali suonano oggi esotici ed estremi, forse anche antiamericani, per usare uno dei termini del pensiero totalitario odierno in Occidente. Dati questi cambiamenti, è utile ricordare che il genere di idee che Dewey esprimeva sono americane quanto la torta di mele. Trovano origine direttamente nelle tradizioni americane, proprio quelle di maggioranza, al di là di qualsiasi influenza da parte di pericolose ideologie straniere, all’interno di una degnatradizione che viene lodata in maniera rituale, benché sia normalmente distorta e dimenticata. E tutto ciò è parte del deterioramento della democrazia al giorno d’oggi, sia al livello istituzionale che ideologico, secondo me.
L’istruzione è, chiaramente, in parte una questione di scuole ed università. Ciò è vero sia che il suo fine sia l’educazione alla libertà ed alla democrazia, come sosteneva Dewey, sia l’educazione all’obbedienza, alla subordinazione ed alla marginalizzazione, come vogliono le istituzioni dominanti. James Coleman, sociologo all’Università di Chicago, uno dei maggiori studiosi dell’istruzione e degli effetti dell’esperienza sulla vita dei bambini, conclude dopo molti studi che “l’effetto complessivo del contesto familiare è considerevolmente maggiore dell’effetto totale di tutte le variabili scolastiche nel determinare i risultati degli studenti”. In realtà, circa due volte più forte, conclude. Perciò è importante dare uno sguardo a come le politiche sociali e la cultura dominante stanno plasmando questi fattori, le influenze familiari e così via.
È un argomento molto interessante. L’indagine è facilitata da uno studio dell’UNICEF pubblicato un anno fa dal titolo: La negligenza verso i bambini nei paesi ricchi, scritto da una nota economista americana, Sylvia Ann Hewlett, che studia gli ultimi 15 anni, dai tardi anni 70 ai primi anni 90, nelle nazioni ricche. Non parla dei paesi del terzo mondo ma delle nazioni ricche e trova una divisione netta tra le società angloamericane da un lato e l’Europa continentale ed il Giappone dall’altro. Il modello angloamericano, affinato dai reaganiani e dalla Thatcher, è stato un disastro per bambini e famiglie, dice. Il modello europeo, in contrasto, ha migliorato le loro condizioni in maniera considerevole, a partire da un livello iniziale già considerevolmente più alto, nonostante il fatto che le società europee non hanno i vantaggi immensi di quelle angloamericane. Gli USA possiedono una ricchezza e vantaggi senza precedenti, e mentre la Gran Bretagna ha subito un netto declino, in particolare sotto la Thatcher, gode almeno del vantaggio di essere un buon cliente degli USA oltre che uno dei maggiori esportatori di petrolio negli anni della Thatcher. Ciò fa apparire il fallimento economico del thatcherismo finanche più drammatico, come hanno mostrato alcuni autentici conservatori britannici, tra cui Lord Ian Gilmour.
Hewlett descrive il disastro angloamericano per i bambini e le famiglie come attribuibili “alla preferenza ideologica per i liberi mercati”. In questo ha solo mezza ragione, secondo me. Il conservatorismo reaganiano si opponeva ai liberi mercati. Li propugnava per i poveri ma andò ben oltre il suo predecessore nel domandare ed ottenere un livello altissimo di sussidio pubblico e protezione statale per i ricchi. Comunque si decida di chiamare questa ideologia, è ingiusto macchiare il buon nome del conservatorismo attribuendogli questa forma particolare di statalismo violento, senza legge e reazionario. Chiamatelo come volete, ma non è conservatorismo. Non è il libero mercato.
Comunque, Hewlett ha del tutto ragione nell’identificare nel mercato per i poveri la ragione dei disastro per le famiglie ed i loro bambini. E non c’è molto dubbio degli effetti di ciò che Hewlett chiama “lo spirito anti-bambini ed anti-famiglie che scorazza in queste terre”, nelle terre angloamericane, più drammaticamente negli USA, ma anche in Gran Bretagna. Questo “modello angloamericano pieno di negligenza che si basa sulla disciplina di mercato per i poveri ha privatizzato in gran parte l’allevamento dei figli rendendo allo stesso tempo impossibile per la gran parte della popolazione allevare i propri figli”. Questo è stato l’obiettivo combinato e la politica del conservatorismo reaganiano e del suo omologo thatcheriano. Il risultato è, chiaramente, un disastro per bambini e famiglie.
Proseguendo, Hewlett sottolinea: “nel modello europeo, molto più di sostegno, la politica sociale ha rafforzato invece che indebolito i sistemi di sostegno per le famiglie ed i bambini”. Non è un mistero, eccezion fatta come sempre per i lettori della stampa. Per quanto ne so, questo studio del 1993, piuttosto rilevante per i nostri interessi presenti, deve ancora ottenere una recensione. Non è stato considerato, per esempio, nel New York Times, nonostante il fatto che la rubrica di recensioni di domenica scorsa fosse dedicata in gran parte a questo tema, con grevi vaticini di cadute del quoziente intellettivo, diminuizione dei punteggi per l’ammissione all’università e così via e di quello che potrebbe esserne la causa. Prendiamo la città di New York, dove le politiche che sono state perseguite con il sostegno del Times hanno condotto circa il 40% della popolazione infantile al di sotto della soglia di povertà, cosicché stanno soffrendo di malnutrizione, malattie e via dicendo. Risulta che è irrilevante per il declino del quoziente intellettivo, come qualunque cosa di cui la Hewlett discute del modello angloamericano. Ciò che è rilevante, risulta, sono geni cattivi. Per qualche ragione le persone stanno prendendo geni cattivi, e vi sono varie spiegazioni di ciò. Per esempio, forse è perché le madri di colore non svezzano i loro piccoli e la ragione può essere legata al fatto che in Africa, il contesto della loro evoluzione, il clima era ostile. Così queste sono le ragioni, forse, e questa è davvero una scienza seria ed una società democratica lo ignorerà a suo rischio e pericolo, dice il recensore. I commissari ben disciplinati sanno abbastanza bene come allontanarsi dai fattori ovvi, quelli radicati nelle politiche sociali. Sono del tutto evidenti a chiunque abbia la testa attaccata al collo e per caso sono discussi in notevole dettaglio da una nota economista in uno studio dell’UNICEF che non vedrà probabilmente la luce del sole qui da noi.
I fatti non sono un segreto. Una commissione di comitati statali per l’istruzione e l’Associazione Medica Americana hanno riferito che “mai prima una generazione di bambini è stata meno in salute, meno oggetto di attenzioni e meno preparata alla vita di quanto lo fossero i loro genitori alla stessa età”. È una grande cambiamento in una società industriale. È solo nelle società angloamericane che questo spirito anti-bambini, anti-famiglia ha regnato per quindici anni sotto le spoglie del conservatorismo e dei valori della famiglia. È un vero trionfo per la propaganda, che avrebbe sorpreso finanche il “generalissimo” Woodrow Wilson, o probabilmente Stalin o Hitler.
Una manifestazione simbolica di questo disastro è il fatto che quando Hewlett scrisse il libro un anno fa, 146 paesi avevano ratificato la convenzione internazionale sui diritti dei bambini, ma non gli USA. È una cosa normale per quanto riguarda le convenzioni internazionali sui diritti umani. Comunque, solo per onestà, occorre aggiungere che il conservatorismo reaganiano è cattolico nel suo spirito anti-bambini ed anti-famiglia, così l’Organizzazione Mondiale per la Sanità votò di condannare la Nestlé per il suo marketing aggressivo di latte in polvere, che uccide moltissimi bambini. Il voto fu di 118 contro 1 – indovinate pure chi fu l’uno. Comunque, questa è una cosa da niente rispetto a ciò che l’Organizzazione Mondiale della Sanità chiama un “genocidio silenzioso” che sta uccidendo milioni di bambini ogni anno come risultato delle politiche del libero mercato per i poveri e del rifiuto dei ricchi di concedere un qualunque aiuto. Ancora, gli USA hanno una delle storie peggiori e di maggior miseria tra le società ricche.
Un’altra espressione simbolica di questo disastro è una vuota linea di cartoline di saluti della Hallmark Corporation. Una di esse dice: “buona giornata a scuola”. È fatta per essere messa sotto la scatola dei cereali la mattina, così che quando i bambini escono per andare a scuola dica: “buona giornata a scuola”. Un’altra dice: “mi sarebbe piaciuto avere più tempo da passare assieme a te”. Questa è fatta per essere attaccata sotto al cuscino la notte quando i bambini vanno a letto da soli. [risate] Questi sono alcuni esempi.
Questo disastro per bambini e famiglie è in parte il risultato della diminuizione dei salari. Le politiche statali sono state pensate negli ultimi anni, soprattutto sotto i reganiani e la Thatcher, per arricchire settori limitati ed impoverire la maggioranza, e ci sono riuscite. Hanno avuto esattamente l’effetto voluto. Ciò significa che le persone devono lavorare molto più a lungo per sopravvivere. Per molta parte della popolazione, entrambi i genitori devono lavorare forse 50 o 60 ore alla settimana soltanto per soddisfare i bisogni. Nel frattempo, incidentalmente, i profitti aziendali vanno in orbita. Il magazine Fortune parla di profitti “folgoranti” che raggiungono nuove vette anche se le vendite stagnano.
Un altro fattore è l’insicurezza del lavoro, ciò che gli economisti chiamano “flessibilità dei mercati del lavoro”, che è una cosa buona secondo la teologia accademica regnante, ma una cosa piuttosto nefasta per gli esseri umani, il suo destino non rientra tra le preoccupazioni del pensiero serio. Flessibilità significa che fai meglio a lavorare di più. Non ci sono contratti né diritti. Questa è la flessibilità. Dobbiamo liberarci delle rigidità del mercato. Gli economisti possono spiegarcelo. Quando entrambi i genitori fanno lo straordinario, ed entrambi guadagnano sempre meno, non ci vuole un genio per predire il risultato. Lo mostrano le statistiche, lo si può leggere nello studio UNICEF di Hewlett, se volete. È del tutto ovvio ciò che succede. Il tempo di contatto, cioè il tempo effettivamente speso dai genitori con i figli, è diminuito del 40% negli ultimi 25 anni nelle società angloamericana, soprattutto in anni recenti. Ciò significa esattamente tra le dieci e le dodici ore alla settimana di contatto eliminato e di ciò che chiamano “tempo di alta qualità”, quello in cui non stai semplicemente facendo qualcosaltro, sta praticamente sparendo. Chiaramente ciò porta alla distruzione dell’identità e dei valori della famiglia. Conduce all’affidarsi nettamente di più alla televisione per quanto concerne la supervisione dei bambini. Conduce a bambini lasciati soli, un fattore significativo nell’aumento dell’alcolismo e nella tossicodipendenza infantile e nella violenza di bambini contro altri bambini ed altri effetti ovvi a livello di salute, istruzione, capacità di partecipare alla vita di una società democratica, finanche della capacità di sopravvivere, del declino dei quozienti intellettivi e dei risultati degli esami di ammissione all’università, ma si suppone che nessuno ci faccia caso. È colpa dei geni, ricordatelo.
Nessuna di queste è una legge di natura, ma politiche sociali scelte in maniera cosciente a scopi ben precisi, precisamente arricchire le aziende di Fortune 500REFNNOTE<(**)> ed impoverire gli altri. In Europa, dove le condizioni sono più stringenti ma le politiche non guidate dallo stesso spirito anti-famiglia ed anti-bambini, le tendenze sono contrarie e gli standard per bambini e famiglie molto più elevati.
Vale la pena di menzionare, e mi si permetta di sottolinearlo, che ciò non è vero solo nelle società anglo-americane. Siamo uno stato grande e potente; abbiamo influenza. È sorprendente osservare ciò che accade quando altri paesi entro il raggio della nostra influenza cercano di intraprendere politiche a vantaggio di famiglie e bambini. Ci sono due esempi sorprendenti.
La regione che controlliamo nella maniera più completa sono quella caraibica e l’America Centrale. Due paesi della regione hanno intrapreso siffatte politiche: Cuba ed il Nicaragua, e con considerevole successo, in realtà. Una cosa che non dovrebbe sorprendere nessuno è che questi due paesi sono stati obiettivi primari degli attacchi USA, e con successo. Così in Nicaragua, i crescenti standard sanitari e il miglioramento dell’alfabetizzazione e la riduzione della malnutrizione infantile sono stati invertiti grazie alla guerra terroristica che vi abbiamo combattuto, ed ora il Nicaragua è a livello di Haiti. Nel caso di Cuba, chiaramente, la guerra terroristica ha avuto un corso molto più lungo. Fu iniziata da John F. Kennedy e non aveva niente a che vedere con il comunismo. Non c’erano i russi in questione. Aveva a che vedere con cose come il fatto che si stessero devolvendo risorse al settore sbagliato della popolazione. Si miglioravano gli standard della sanità pubblica, ci si preoccupava dei bambini, della malnutrizione. Perciò fu lanciata una gigantesca guerra terroristica. Un malloppo di documenti della CIA reso accessibile di recente riempie alcuni vuoti relativi al periodo di Kennedy. In realtà c’è stato un altro attacco solo pochi giorni fa. Oltre a tutto ciò c’è un embargo che ha lo scopo di garantire che soffrano davvero. Per anni il pretesto è stato che tutto ciò avesse a che fare con la Russia, cosa completamente fraudolenta, come si può vedere da ciò che stava accadendo quando quelle politiche furono istituite e come è definitivamente dimostrato da ciò che è accaduto dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica. Ecco un vero lavoro per i clerici venduti, che non dovevano far caso che dopo la fine dell’Unione Sovietica il nostro attacco contro Cuba si è intensificato. Piuttosto strano se la ragione dell’attacco era il loro essere un avamposto del comunismo e dell’impero sovietico. Ma possiamo starci.
Così, dopo la scomparsa dei sovietici dalla scena e quando divenne davvero possibile strangolarli, le condizioni si fecero più dure. Una proposta fu sottoposta al Congresso da un democratico liberale, Torricelli, che invocava il blocco di ogni scambio con Cuba da parte di una qualunque filiale di qualunque corporation americana o straniera che usasse parti prodotte negli USA. Ciò costituisce una tale violazione del diritto internazionale che George Bush pose il suo veto. Però fu costretto ad accettare quando fu superato a destra dai clintoniani nelle ultime elezioni, perciò permise alla proposta di passare. Il tutto finì direttamente alle Nazioni Unite, dove la posizione USA fu denunciata praticamente da tutti. Nel voto finale, gli USA riuscirono ad ottenere l’appoggio del solo Israele, una cosa automatica, e per qualche ragione della Romania. Tutti votarono contro e la posizione USA non ottenne la difesa di nessuno. È una evidente violazione del diritto internazionale, come sottolinearono Gran Bretagna ed altri. Ma non fa niente. È estremamente importante dare realizzazione al nostro spirito anti-bambini ed anti-famiglia e alla nostra preferenza per società altamente polarizzate ovunque andiamo. Se un qualunque paese straniero sotto il nostro controllo cerca di andare in quella direzione, ce ne prenderemo cura. È una cosa che va avanti tuttora. È il tipo di cose contro cui si può agire, se si vuole. A Chicago ci sono i Pastori per la pace e la coalizione Chicago-Cuba ha organizzato un’altra carovana verso Cuba per cercare di colpire l’embargo e portare aiuto umanitario, medicine, libri medici, latte in polvere e altra assistenza. Si trova sull’elenco del telefono sotto Chicago-Cuba Coalition. Li potete cercare. Chiunque sia interessato a contrastare lo spirito anti-bambini ed anti-famiglia che regna qui e che stiamo esportando altrove con la violenza può farlo, tra le tante cose che possono fare a casa.
Dovrei dire che gli effetti di questa recentissima proposta dei democratici per strangolare Cuba sono stati esaminati nei numeri di questo mese di due dei maggiori giornali americani di medicina, Neurology e il Florida Journal of Medicine, che hanno semplicemente preso in esame gli effetti e sottolineano cose evidenti. Risulta che circa il 90% degli scambi tagliati dalla legge Clinton-Torricelli consistevano in cibo ed aiuti umanitari, medicine e cose simili. Per esempio, un’azienda svedese che stava cercando di esportare un dispositivo per il filtraggio dell’acqua per creare vaccini è stata bloccata dagli USA perché contiene alcune parti di manifattura americana. Dobbiamo davvero strangolarli di brutto. Dobbiamo assicurarci che tantissimi bambini muoiano. Un effetto è un aumento notevole della mortalità infantile e della malnutrizione. Un altro è una rara malattia neurologica che si è diffusa in tutta Cuba e tutti facecano finta di non conoscere la causa. Ma ovviamente la conoscevano, ed ora è una cosa riconosciuta. È la malnutrizione, una malattia che non si registrava dai campi di prigionia dei giapponesi nella seconda guerra mondiale. E così ci stiamo riuscendo. Lo spirito anti-bambini ed anti-famiglia non è solo diretto contro i bambini di New York ma va molto più in là.
Sottolineo ancora la differenza con l’Europa – lì è diverso e per svariate ragioni. Una delle differenze è l’esistenza di un forte movimento sindacale e questo è un aspetto di una differenza più fondamentale, cioè il fatto che gli USA sono una società guidata dagli affari ad un livello senza precedenti, e come risultato la vile massima dei padroni prevale in una misura che non ha precedenti, proprio come c’è da aspettarsi. Questi sono tra i meccanismi che consentono alla democrazia di funzionare formalmente, benché allo stato attuale gran parte della popolazione sia consumata da ciò che la stampa chiama “anti-politica”, intendendo l’odio per il governo, lo sdegno per i partiti politici e l’intero processo democratico. Anche questo è una grande vittoria per gli aristocratici nel senso jeffersoniano, cioè coloro che temono e non hanno fiducia nella popolazione e desiderano sottrarle tutto il potere e porlo nelle mani delle classi superiori. Oggi ciò significa nelle mani delle corporations transnazionali e degli stati e delle istituzioni quasi-governative che servono i loro interessi.
Un’altra vittoria è il fatto che la disillusione rampante è anti-politica. Un titolo del New York Times su questo tema suona così: “la rabbia ed il cinismo riempiono gli elettori e la speranza se ne va. L’umore diventa nero mentre sempre più persone perdono le loro illusioni nella politica”. L’edizione del magazine di domenica scorsa era dedicata all’anti-politica. Nota bene: non dedicata all’opposizione al potere ed all’autorità, alle forze facilmente identificabili che hanno le mani sulle leve del potere decisionale e che proiettano la loro ombra sulla società e sulla politica, come diceva Dewey. Il Times ha un articolo oggi riguardo questo tema in cui citano una qualche persona non istruita che non capisce il vero punto in questione. Dice: “sì, il congresso è marcio, ma questo accade perchè è nelle mani dei grandi affari, per forza è marcio”. Questa è la verità che si suppone non si conosca, perché, qualunque cosa si pensi dei governi, è questa l’unica parte del sistema istituzionale cui si può prendere parte e che si può modificare o influenzare. Per legge ed in principio, non si può fare niente con le aziende di investimento o le multinazionali. Perciò è meglio che nessuno se ne renda conto. Bisogna essere anti-politici. Questa è un’altra vittoria.
L’osservazione di Dewey secondo cui la politica è l’ombra proiettata sulla società dai grandi interessi economici, ciò che incidentalmente era una tautologia anche per Adam Smith, è diventata oggi invisibile. La forza che proietta l’ombra è stata interamente rimossa dalle istituzioni ideologiche ed è tanto remota dalla coscienza che quello che ci resta è l’anti-politica. Questo è un altro colpo pesante inferto alla democrazia ed un regalo generoso a sistemi di potere assolutistici e non trasparenti che hanno raggiunto livelli che un Thomas Jefferson o John Dewey potevano a malapena immaginare.
Le scelte che ci restano sono le solite. Possiamo decidere di essere democratici nel senso di Thomas Jefferson, oppure possiamo scegliere di essere aristocratici. La seconda strada è quella semplice, quella che le istituzioni sono pensate per remunerare e può portare ricche ricompense data la concentrazione della ricchezza e del privilegio e del potere ed i fini che ricercano per loro natura. L’altra strada, quella dei democratici jeffersoniani, è fatta di lotte, spesso sconfitte, ma anche di ricompense di un genere che non può essere neppure sognato da coloro che soccombono al nuovo spirito del tempo, accumula ricchezze, dimenticandosi di tutto tranne che di sé. È lo stesso ora come 150 anni fa. Il mondo d’oggi è molto lontano da quello di Thomas Jefferson. Le scelte che abbiamo, comunque, non sono cambiate significativamente.
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(*) Si riferisce ad un villaggio che si sviluppò industrialmente tra il 1832 ed il 1848 attraendo prevalentemente la manodopera di ragazze dei dintorni che venivano vendute agli stabilimenti da “caporali”. [ndt] (torna al testo)
(**) Classifica delle 500 maggiori aziende degli USA. (torna al testo)
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