SUGGERIMENTI PER LA SALDATURA ALL’ULTIMO ANNO
Carlo Bernardini
Università degli Studi di Roma La Sapienza
http://www.quipo.it/netpaper/bernardini1994.htm
Mi sono chiesto tante volte come mai il materiale divulgativo di cui oggi disponiamo – specie, ma non solo, per le scienze – non circola sistematicamente nelle scuole come «alimento integrativo» delle attività didattiche più tradizionali. Non credo di avere una risposta convincente; ma ho, forse, una descrizione fenomenologica della vita scolastica, da cui si può concludere con certezza che, se ciò che oggi occupa il tempo della scuola fosse veramente indispensabile, non ci sarebbe posto per altro; ma non si può concludere che sia veramente indispensabile. Nonostante le ribellioni più o meno esplicite contro le metodologie didattiche in uso corrente, è inevitabile che una parte cospicua del tempo scolastico sia dedicata all’apprendimento di «nozioni». Le già famigerate e vituperate nozioni non costituiscono mai, da sole, un «sapere»; tuttavia, non c’è sapere che ne possa fare a meno. Sono state coniate, in passato, innumerevoli metafore in proposito: dai mucchi di mattoni che sono ben diversi da una casa, alla differenza tra le libertà di chi sa pescare e quelle di chi può solo comprare i pesci. Ma bisogna pure riconoscere che senza una adeguata quantità di nozioni si costruisce assai poco. Tuttavia, è lecito dubitare che la scuola ecceda nell’impartire nozioni, trascurando altre forme che riguardano lo sviluppo guidato dell’intuizione, la capacità di studiare (intesa come capacità di reperire autonomamente le nozioni necessarie sapendo soltanto che esistono già) e, infine, la capacità di risolvere veri problemi e non soltanto esercizi di addestramento all’uso di nozioni appena apprese. Quando dico che la scuola eccede (forse) con le nozioni, affermo (senza condividere l’affermazione) che le ritiene indispensabili nella misura oggi praticata, cosi che non ci sarebbe posto per «altro» (la lamentela dei docenti sull’impossibilità di completare i programmi e piuttosto frequente. A questi problemi, di non facile soluzione, se ne aggiungono altri che a me appaiono meno «nobili» : per esempio, quello della valutazione, dell’apprendimento, che è assai più facile quando l’allievo deve (dimostrare il solo possesso di nozioni concordate (il che si manifesta in modo particolarmente acuto quando si tratta di valutazioni in sede di esame terminale) ; un altro esempio riguarda la ritrosia di molti docenti a seguire linee di insegnamento non guidate dal binario di una programmazione che passa una successione prestabilita di «nozioni fondamentali». Infine, vorrei sottolineare – anche se mi ci vorrebbe un po’ di spazio in più per essere chiaro sino in fondo – che la strutturazione della didattica per nozioni favorisce il modo di pensare detto comunemente deduttivo e sfavorisce quello induttivo che, pure, presiede alle manifestazioni della «creatività»: e, perciò, perfino sostenibile che non si possa chiedere agli studenti di allenare il loro genio creativo ma che si debba, invece, limitarsi a pretendere da essi una buona cultura di base, identificata con il possesso di un certo repertorio di cognizioni («nozioni », appunto, più qualche esempio di applicazione). Il passaggio università fa, in un certo senso, scoppiare il bubbone. Non che 1’università abbia, sin dai corsi iniziali, pretese di creatività; tuttavia gli studenti che, per la loro buona motivazione disciplinare, impegnassero la propria testa nella comprensione profonda degli aspetti rilevanti di ciò che hanno scelto di conoscere, troverebbero forse più facilmente all’università forme di attenzione al loro sforzo, se non altro perché il rapporto con i docenti è più direttamente specialistico e la preoccupazione di una valutazione negativa nei rapporti formali (la dove ci sono, se non altro in occasione delle lezioni dei corsi) è meno sentita. Ebbene, il materiale a carattere divulgativo «alto», di cui oggi è molto ricca 1’editoria di tutti i paesi sviluppati, ha ormai in buona misura la caratteristica di fornire strumenti di raccordo per il passaggio da una cultura delle nozioni ad una cultura dei problemi aperti. Nel campo scientifico, periodici come «Le Scienze» o «Sapere» (per 1’Italia), o la stupenda rivista francese «La Recherche» si adoperano al meglio per svolgere un ruolo di informazione sui problemi di frontiera delle varie discipline che non è certo meno importante dell’informazione (dominante) sui problemi politici e sociali. A mio parere. la collocazione ideale di questo materiale è proprio quella nelle classi terminali della scuola secondaria superiore perché, per quanto ho cercato di dire sopra, è la che è opportuno che si formino quelle rappresentazioni mentali che, puntellandosi su nozioni ben amalgamate,, permettono di riconoscere, ed eventualmente affrontare i problemi che li occuperanno nelle successive scelte culturali oltreché professionali. Mi sento, perciò, di raccomandare 1’uso agli insegnanti di buona volontà, anche perché 1’identificazione degli elementi delle problematiche aperte è un elemento insostituibile di orientamento inventati ex-novo quando esiste già materiale di facile uso su cui richiamare 1’attenzione. Ma il punto è la «buona volontà», un elemento chiave della professione docente; né sarebbe lecito e corretto – tanto meno utile – imporre questa buona volontà, se non fosse già seria come elemento qualificante del proprio impegno. Questa che vado sostenendo è la mia opinione e come tale può essere più o meno apprezzata, ma è un’opinione forte, che si accompagna ad una esperienza personale cheforse non è disdicevole riassumere perché aggiunge qualcosa a ciò che ho già detto, ed è qualcosa a cui tengo. Il mio mestiere è quello del fisico, sia come ricercatore che come docente, dunque un mestiere specialistico che richiede attenzione e studio continuo per ciò che avviene nel campo della fisica: è quello che ho cercato, ovviamente, di fare, sin dai primi anni della mia scelta e non mette conto, perciò, che ne parli qui, sia pure sotto 1″aspetto dei miei consulti giovanili e preuniversitari, di materiale divulgativo e dei loro benefici influssi sulla mia evoluzione culturale. Ma, se è vero che si può fare il fisico cancellando ogni altro interesse (il che costituisce anche una sgradevole diceria comune, quasi sempre falsa), è anche vero che non ho mai suggerito ai miei studenti di cancellare ogni loro interesse per diventare migliori fisici. Al contrario. Però, siccome bisogna fare i conti con il tempo, non posso spingerli a studiare filosofia come la studierebbero i filosofi, storia come gli storici, letteratura come i letterati, biologia come i biologi. Sono perciò diventato un attento osservatore della produzione divulgativa in campi d’interesse diverso dal mio, memore di avere imparato molto, sin dagli anni del liceo, sul «Manuale di critica scientifica e filosofica» di Richard von Mises, sulla «Storia delle idee del secolo XIX» di Beitrand Russell e, più tardi, sui saggi critici di Pier Paolo Pasolini e su «Vittoria sui microbi» di Daniel Bovet. Naturalmente leggo anche molto di ciò che viene pubblicato come divulgazione della fisica, e lo suggerisco vivamente a tutte le persone giovani che mostrano interesse per questa «specialità» : sono convinto infatti, che la divulgazione specialistica sia utilissima a quella saldatura che, in gergo spaziale, si potrebbe chiamare un «attracco morbido» tra scuola e università; ma tengo ad aggiungere che non meno indispensabile mi sembra la divulgazione non specialistica, che ha la virtù di ravvivare quelle nozioni di base, assorbite a caro prezzo negli anni scolastici, che senza un’alimentazione appropriata, finirebbero rapidamente in una nebbia confusa e sempre più sottile. Insomma, la divulgazione è comunque uno strumento contro gli sprechi culturali: chi non la apprezza a dovere o non la ritiene un’arte nobile (e difficile) va guardato con sospetto.
- dalla introduzione al catalogo della Settimana della Cultura Scientifica Anno 1994
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