
Da l’Unità del 04.11.2003
di Carlo Bernardini
Anni fa, verso il 1980, molti di noi avevano un peso sul cuore che induceva a uscire dalla propria nicchia di benessere professionale e a mettere il naso negli affari del mondo. Era l’incubo della guerra nucleare. Secondo gli strateghi dell’epoca, il rischio che un conflitto nucleare tra Usa e Urss avesse inizio, aveva una probabilità piccola ma non nulla; poteva partire per errore o per follia umana. In ogni caso, l’umanità così come la conosciamo sarebbe stata annientata: il numero di ordigni che avrebbe preso il volo per colpire indisturbati l’avversario (rispettivamente, il mondo «non comunista» e il mondo «non capitalista») sarebbe stato più che sufficiente a incenerire il pianeta.
Fu in quella occasione che molti di noi, militanti nelle associazioni di scienziati per il controllo sugli armamenti (Uspid, per l’Italia: la gloriosa Unione Scienziati Per Il Disarmo, tuttora attiva) si preoccuparono di spiegare che tutto il mondo sarebbe stato ridotto all’inabitabilità, se non altro, dallo sconvolgimento climatico prodotto dalle enormi esplosioni. La gente pensava però ancora che il conflitto avrebbe colpito solo i contendenti, i detentori di bombe nucleari, come nelle guerre storiche. Sicché ci toccò descrivere che cosa sarebbe stato, invece, quello che, concordemente, chiamammo «l’inverno nucleare», la morte di ogni forma di vita sul Pianeta, piante e animali; e, soprattutto la miseria e la decadenza dell’uomo. Perciò, gli ordigni nucleari vennero classificati come ordigni di «distruzione di massa». La descrizione ebbe qualche successo: la gente incominciò a capire.
Ecco, il concetto di «distruzione di massa» descrive una caratteristica degli effetti dell’impiego di certi strumenti. Non è semplicemente sinonimo di genocidio, perché perfino il genocidio è, a suo modo, mirato e quindi parziale; cioè, colpisce una parte della popolazione mondiale che appartiene a un particolare gruppo umano. Ebrei, curdi, armeni, cambogiani e centinaia di altri nei varii continenti sono esempi agghiaccianti, ma non totali. In ogni caso, sia la distruzione di massa che il genocidio hanno una proprietà in comune: l’irreversibilità. Ciò che è distrutto lo è per sempre: lo ha spiegato egregiamente Alan Cromer nel suo libro Uncommon sense, quando ha mostrato come la scienza greca sia sopravvissuta a stento ai colpi dell’autorità politica monocratica, laica o teocratica che fosse. Naturalmente, l’irreversibilità riguarda soprattutto l’eventualità che la popolazione regredisca a condizioni generali di vita più disagevoli e primitive; ma, in misura non minore, può riguardare la scomparsa dei beni che l’umanità possiede e del loro stesso ricordo, fino a quel «bene immateriale» che va sotto il nome di conoscenza o know-how. La conoscenza è il punto di saldatura tra la popolazione e il suo livello di evoluzione culturale: è la popolazione stessa a essere portatrice di conoscenza e di cultura. La distruzione di massa può avvenire perciò proprio attraverso l’annientamento dell’idea stessa di cultura; il genocidio equivarrebbe invece, per esempio, alla soppressione della sola matematica o della storia.
Un conflitto scatenato con missili intercontinentali non avrebbe risparmiato nulla e nessuno: tutta la Terra sarebbe diventata inabitabile, buia e radioattiva a causa delle immense quantità di polveri contaminate, sollevate ad alta quota, che avrebbero oscurato il Sole. L’inverno nucleare colpì dunque la pubblica opinione, i giornali ne parlarono, la televisione fabbricò immagini, la parola Apocalisse divenne rapidamente familiare e frequente, si scomodò Nostradamus e ogni tipo di profezia; gli scrittori e i registi di fantascienza si eccitarono e raccontarono la minaccia spargendo dosi robuste di paura. Qualcuno se ne ricorderà: la Terra del «dopo» era sempre descritta come un deserto pieno di pericoli, coperto di rifiuti radioattivi e popolato di orribili mutanti, esseri diversi da quelli che c’erano prima.
Ed ecco che, per una analogia forse non azzardata, mi è venuto in mente che c’è un’altra possibilità di produrre la distruzione di una civiltà, che sinora non è stata molto praticata. Mi è venuto fatto di pensarla quando ho visto che la signora Moratti si era affrettata a togliere la P di Pubblica dal Mpi (Ministero della Pubblica Istruzione), trasformandolo in Miur con inclusione di U (Università) e R (Ricerca): sembrava un atto di pulizia ideologica come quelli che si fanno nei cambiamenti di regime: giù le insegne! Fu allora che mi accadde di capire, per banale che sia, che si può benissimo mantenere in vita gli esseri umani che costituiscono una popolazione ma distruggere la loro tradizione culturale. Per questo, è sufficiente governare con «provvedimenti di distruzione di massa» di tutto ciò che alla tradizione culturale è indispensabile. L’ambiente culturale, una volta eliminato ogni elemento che ne protegga la qualità collettiva, si contamina in fretta: il linguaggio si inaridisce e perde i suoi rami alti, aggredito dalle parole-erbacce dei messaggi pubblicitari. La verità non conta più nulla rispetto alla bugia fantasiosa che fa vendere. I poeti, i pittori, i compositori classici, i matematici, i filosofi, non sono più in catalogo, in commercio: non sono richiesti. Improvvisamente, si va verso l’inverno culturale: si elimina la scuola pubblica, si premia chi sa fare affari, si valutano i risultati con parametri aziendali, si ossequia il manager, si licenziano i professori passando per la precarizzazione, si vende il patrimonio artistico.
Non si dà più un soldo alla cosmologia, alla filosofia del diritto, alla topologia astratta, allo studio della letteratura persiana; si finanziano lautamente i campionati di calcio, gli spettacoli televisivi, gli esperti di marketing. Le persone che contano hanno ville, yacht, servitori, potere, emittenti televisive e immunità; gli altri, o sono utili a quelli che contano o sono poveri, perciò colpevoli: chi è povero lo è perché è incapace e indisponibile (la mentalità dei governanti americani sembra già a questo punto). Ecco, quando traspare il disegno di ridurre una popolazione in questo stato, è ormai evidente che chi la governa sta usando «provvedimenti di distruzione di massa della tradizione culturale». Il problema è: come capire se si è già raggiunto il punto di irreversibilità, o no?
In Italia, dopo i provvedimenti di indebolimento della scuola pubblica, anche le «prove di privatizzazione» degli enti pubblici di formazione e ricerca sono già molte: il commissariamento del Cnr è un ottimo esempio di «privatizzazione surrettizia». Di fatto, il commissario si comporta come un padrone governativo che licenzia, chiude o accorpa secondo criteri suoi insindacabili che non è tenuto a discutere. La creazione di una università voluta da un ministro che ne costituisce l’organico pescando tra i «suoi» funzionari è un bell’esempio: già realizzato; Tremonti è un instancabile ideatore di siffatte istituzioni. Così, il riconoscimento come «ente di ricerca» dell’università privata San Pio V, per sbalorditivo che sia (che cosa vi si ricerchi, non è chiaro). E l’invenzione dell’Iit, Istituto Italiano di Tecnologia che, nato commissariato già nella culla, più che scimmiottare il Mit darà soldi agli «amichetti loro»? E l’invenzione del «Collegio Italiano» per fare ombra alle antiche Accademie? Eccetera.
Questa volta, lo scontro riguarda il modo di concepire la vita. Per imporre un modo nuovo bisogna sradicare il modo vecchio: perciò, «distruzione di massa». Altri pur deprecabili modi erano più circoscritti. L’attacco agli intellettuali c’è sempre stato, dappertutto: il McCartismo; le purghe in Urss; il processo Ippolito: ma, ecco, erano attacchi mirati, «assassinii su commissione», con nome e cognome, ordinati dal potere politico ai danni di una o più persone che davano fastidio ; di fronte ai condannati ci sono di solito i filogovernativi, i delatori. Teller, Lyssenko; potrei facilmente fare nomi per l’Italia. Ma è un fenomeno più piccolo, uno scontro di fazioni politicamente opposte, una estensione della lotta politica dura. Non è un tentativo di distruzione di massa. E però, il fenomeno denuncia la costante presenza di «traditori della tradizione», che si possono schierare con il potere persino quando il potere impiega provvedimenti di distruzione di massa. È quello che sta accadendo in Italia. Mi si dirà: ma l’Italia non è il mondo! Verissimo. Tuttavia, possiamo considerarci come il poligono di prova dove si fa il test dei provvedimenti di distruzione di massa: se avessero successo (secondo parametri aziendali, beninteso) si espanderebbero al mondo sviluppato, quindi al mondo intero, ricchi e poveri diverrebbero ugualmente ignoranti, avidi, disonesti. Scomparirebbe ogni opposizione, ogni resistenza: uno potrebbe essere insultato (ammesso che sia un insulto) con l’epiteto «comunista» perché tanto nessuno si ricorderebbe che cosa vuol dire. La storia non si studierebbe più: i traditori si autoqualificherebbero (come già fanno) come scienziati più importanti del mondo appoggiati dall’autorità della tv, i pregiudicati eccellenti nominerebbero i giudici adatti a giudicare chi non fa profitti, un portavoce del premier darebbe le notizie a reti riunite, il premier incarnerebbe ogni valore accettato e così via.
Come si scongiura allora la distruzione? C’è una sola possibilità (ammesso che siamo in tempo): riconosciuto che le attività culturali sono un bene dell’umanità e che il carattere attuale della cultura è intrinsecamente sovranazionale, la sola possibilità è quella di costituire una Onu della cultura che garantisca agli uomini di cultura la capacità e possibilità di autogoverno. Naturalmente tra le attività culturali che sono un bene dell’umanità vi sono la creatività dell’artigiano, la perizia del meccanico, la saggezza e la pazienza del contadino, le mille risorse – insomma – di quella grande parte di uomini che non lavorano per il profitto e l’attività dei quali è alla base della crescita armoniosa di una civiltà a misura d’uomo. Costituiamo un centro di riferimento sovranazionale di persone il cui interesse primario sia quello di promuovere e mantenere le attività culturali e chiediamo, come unica prova di internazionalismo e impegno sociale (ma che sia già troppo per gente come quella al governo, oggi?) che, a fronte della qualità dell’ambiente culturale pubblico di cui ci occuperemmo, ci venga corrisposta una quota fissa – in verità assai modesta – dei proventi realizzati nel mondo complementare. Non saremmo «mantenuti», saremmo pagati per un servizio che rendiamo all’umanità intera. Qualche percento basterebbe, anche per prevedere dei canali di informazione per offrire ciò che ci compete ed attirare giovani nel nostro giro. Ci sarebbero così un mondo degli affari e un mondo degli uomini di cultura, complementari e possibilmente in buoni rapporti tra loro.
Propongo, quindi, di studiare la possibilità di un mondo bipolare inedito: un mondo della cultura e un mondo degli affari, «quasi» completamente separati, che si autogovernano e si autovalutano. Naturalmente, sono completamente permeabili: ci si può spostare dall’uno all’altro, accettando le regole di ciascuno. Quello che non si può fare è imporre al mondo A di essere gestito con le regole del mondo B e viceversa. È terribilmente difficile. Ma non c’è scelta: o così, o la sorte dell’umanità è segnata: non resteranno che soldi, bugie e desolazione.
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