Quarantatré secondi.
di Roberto Arduini

In quarantatré secondi, neanche un minuto, è praticamente scomparsa una città, con i suoi abitanti, le loro vite, gli edifici, gli animali, i documenti, la storia dei secoli passati. Centocinquantamila persone sono letteralmente svanite, vaporizzate, liquefatte. La causa è stata una bomba atomica costruita dall’uomo. Che, non contento, ha ripetuto l’apocalisse tre giorni dopo. Sono queste le due bombe atomiche, lanciate dagli americani sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto 1945.
Hiroshima
Il 6 agosto 1945 era una giornata molto calda. Erano le 8.15 di mattina quando dal cielo cadde la prima bomba atomica nella storia dell’umanità. La grande bomba color arancio-nera esplose 580 metri sopra la città. Hiroshima era una città di 240.000 abitanti, molti dei quali stavano cominciando la loro giornata lavorativa. Un lampo di luce purpurea avvolse tutto il centro cittadino, seguito da una assordante esplosione e una potente onda che riscaldava l’aria mentre si espandeva.
La temperatura dell’aria al punto di esplosione raggiunse subito molti milioni di gradi Celsius (la temperatura massima delle bombe convenzionali è approssimativamente 5.000 gradi Celsius). Alcuni milionesimi di secondo dopo l’esplosione una palla infuocata apparve in cielo, mentre si amplificava il colore bianco tutt’intorno. L’incandescente palla infuocata, dopo 1/10.000 di secondo, raggiunse un diametro di 28 metri e una temperatura di 300.000 gradi Celsius; la radiazione fu rilasciata in tutte le direzioni. Il colpo di vento liberò un’onda d’urto di incredibile pressione. La temperatura al terreno raggiunse quella della superficie del sole, e una nuvola con la forma di un fungo gigante si alzò dalla città.
L’“onda d’urto” generata si propagò a una velocità di 1300 chilometri orari, 3 chilometri al secondo, e rase al suolo 70.000 dei 76.000 edifici cittadini. Nel raggio di tre chilometri dall’ipocentro, tutte le forme di vita furono distrutte e tutte le proprietà abbattute e bruciate. Il calore seguì l’andamento della pressione incendiando macerie e superstiti. Scuole, ospedali, uffici pubblici, mercati, tutto distrutto. In pochi attimi Hiroshima era stata distrutta e quasi il 70% della sua popolazione era morta o in fin di vita. Morirono subito oltre 140mila persone e altre decine di migliaia erano sfigurate e malate a causa delle radiazioni. Le radiazioni gamma della bomba avevano danneggiato i tessuti di tutto il corpo di chi vi era stato esposto direttamente.
Nagasaki
Esattamente due minuti dopo mezzogiorno di giovedì 9 agosto 1945, tre giorni e tre ore dopo la distruzione di Hiroshima, un’altra bomba fu lanciata su Nagasaki. Quarantasette secondi più tardi la bomba esplose sulla vallata industriale di Urakami, nei sobborghi settentrionali, con la forza di ventiduemila tonnellate di tritolo, quasi una volta e mezza più potente della bomba su Hiroshima. Il bersaglio originale avrebbe dovuto essere Kokura, centosettanta chilometri a nordest, ma la città era coperta da una spessa coltre di nubi. L’ipocentro dell’esplosione era quasi direttamente sopra la fabbrica d’armi Mitsubishi. La bomba distrusse la fabbrica e uccise circa 74.000 persone. Com’era accaduto a Hiroshima, non vi fu alcun allarme. Le sirene cominciarono a suonare sette minuti dopo l’esplosione. Le colline intorno la città confinarono l’esplosione che, sebbene più forte di quella di Hiroshima, causò meno morti e meno danni.
Il Giappone si arrese il 10 Agosto 1945, quattro giorni dopo Hiroshima. La seconda guerra mondiale era finita, ma l’“Era atomica” era appena cominciata. Sebbene le vittime del bombardamento atomico ricevettero poca attenzione nel primo dopoguerra, in parte a causa della censura americana durante il periodo di occupazione, un nuovo genere di letteratura a arte cominciò ad emergere nel momento in cui finì l’occupazione.
Sessant’anni dopo
Sessant’anni dopo, la bomba continua a fare le sue vittime e, nonostante i proclami, l’era atomica non è ancora finita. Rimangono in tutto il pianeta più di 30.000 testate nucleari, sufficienti a distruggere il pianeta tutto intero 25 volte. Il numero totale delle vittime è, ad oggi, di 226.870 persone, con perdite annue di poco inferiori a 5.000 persone. Dopo 60 anni, si stima che siano ancora 285.000 gli hibakusha (i colpiti dalle radiazioni gamma del “maledetto fungo”, come i superstiti chiamano la bomba).
Nagasaki, il reportage censurato da McArthur
Quattro articoli del primo giornalista straniero a entrare a Nagasaki dopo l’esplosione atomica sono riemersi 60 anni dopo a Roma con un drammatico racconto della città «resa un deserto dalla guerra» e dei suoi abitanti colpiti dalle radiazioni.
Con le impressionanti descrizioni delle vittime della misteriosa malattia “X”, i servizi di George Weller del defunto Chicago Daily News avrebbero potuto influenzare l’opinione pubblica americana sul futuro dell’atomica ma non raggiunsero mai i suoi lettori: furono infatti inghiottiti dalla censura militare del generale Douglas MacArthur a Tokyo. MacArthur in persona ordinò di intercettare gli articoli e di non restituire al loro autore gli originali.
Le loro copie in carta carbone sono però state ritrovate dal figlio di Weller, Anthony, nell’appartamento romano del padre: per anni dopo la guerra il giornalista americano era stato, con base a Roma, il corrispondente dal Medio Oriente e dai Balcani del giornale di Chicago. Premio Pulitzer nel 1943, nel dopoguerra trasmetteva i suoi dispacci dall’ufficio romano dell’agenzia Upi, Weller è morto due anni fa a San Felice Circeo alla veneranda età di 95 anni. In questi giorni il quotidiano giapponese Mainichi Shinbun ha cominciato a pubblicare a puntate il suo scoop da Nagasaki: uno scoop rimasto inedito per sei decenni.
Inizialmente elogia la bomba
George Weller aveva ottenuto in maniera rocambolesca lo scoop che non vide mai la luce: arrivato in Giappone con la prima ondata di soldati e reporter all’inizio di settembre, aveva deciso di rompere subito le regole della censura a cui obbedivano i suoi colleghi “conformisti” e, senza permesso, si era recato nell’isola di Kyushu per visitare un’ ex base di kamikaze. Di li, fingendosi un ufficiale Usa era riuscito a entrare a Nagasaki tre giorni prima dei suoi altri colleghi.
Gli articoli mostrano un radicale e impressionante cambiamento di opinione di Weller una volta arrivato nella città rasa al suolo dall’atomica, un voltafaccia che anticipa il successivo malessere di gran parte dell’opinione pubblica negli Usa e nel mondo durante l’era nucleare.
In un primo servizio datato Nagasaki 8 settembre 1945, due giorni dopo esser arrivato clandestinamente nella città dichiarata da MacArthur “off limits” ai reporter, il giornalista inneggia all’”efficacia della bomba come strumento militare”, ne loda l’uso “selettivo e giustificato” a Nagasaki e non parla affatto delle conseguenze delle radiazioni sulla popolazione. Ma solo poche ore dopo, visitando due ospedali, Weller resta sconvolto da quel che si presenta davanti ai suoi occhi: la misteriosa malattia “X” che continua a uccidere uomini, donne e bambini apparentemente in buone condizioni fisiche un mese dopo l’inferno atomico, alcuni con le braccia e le gambe coperte da piccoli puntini rossi a macchie.
Il mistero della malattia “X”
«La malattia della bomba atomica, incurabile perché non curata e non curata perché non diagnosticata, continua a rubare vite. Uomini, donne e bambini senza sintomi esterni di ferite muoiono ogni giorno negli ospedali, alcuni dopo aver girato illesi per tre o quattro settimane pensando di essere scampati”, si legge nel secondo articolo della serie. Scrivendo a un mese dalla devastazione provocata dalla bomba “Fat Man”, Weller descrive una donna in un ospedale «che giace lamentandosi con la bocca annerita e rigida come se si fosse slogata la mandibola, e dunque incapace di pronunciare chiaramente le parole”, con le gambe e le braccia coperte dalle tipiche macchie.
«Tutti i sintomi sono simili», dice un medico giapponese al reporter: «Riduzione dei globuli bianchi, costrizione della gola, vomito, piccole emorragie sotto la pelle. Tutto questo accade quando vengono date grosse dosi di raggi Roentgen. Ai bambini cadono i capelli. Ma ci vogliono parecchi giorni».
Macarthur voleva il merito della vittoria
Anthony Weller, il figlio del giornalista e romanziere che vive in Massachusetts, ha rivelato che fu uno delle grandi delusioni di suo padre che queste storie, “un vero scoop”, non vennero mai pubblicate: «MacArthur voleva tutto il merito per aver vinto la guerra, non voleva che il merito andasse a qualche scienziato del New Mexico», ha detto Anthony alla rivista online Editor and Publisher. Il generale rimase intoccabile anche dieci anni, quando propose al presidente Truman, che rifiuterà, di sganciare altre bombe A sulla Corea del Nord e la Cina comunista.
Secondo il figlio di Weller un’altro motivo della censura si può trovare nel desiderio di non far trapelare al mondo gli effetti delle radiazioni: «Gli articoli avrebbero offerto il resoconto di un testimone oculare in un momento in cui il popolo americano ne aveva acutamente bisogno». Così il mondo e l’America persero l’occasione di ascoltare da questo straordinario reporter quanto letale fossero state le due bombe, che provocarono 250mila morti a Hiroshima, 170mila a Nakagaski e «spettri vaganti senza capelli», «bambini con le labbra nere» che camminavano da soli in mezzo al «fetore dei cadaveri», con addosso un ineluttabile destino di morte lenta e dolorosa.
Le lettere inedite sui dubbi di Einstein
A sessant’anni dal quel tragico agosto del 1945, quando Hiroshima e Nagasaki furono devastate dall’esplosione delle prime due bombe nucleari della storia, vengono rese note due lettere di Albert Einstein, in cui emerge il suo enorme rammarico per non aver potuto evitare che una tale tragedia fosse compiuta.
Il padre della teoria della relatività, alla base della fabbricazione della bomba atomica, ebbe una corrispondenza con Seiei Shinohara, un amico filosofo giapponese, conosciuto in Germania e morto nel 2001. È stata la vedova Shinora ad aver voluto rendere pubbliche le lettere per portare avanti la causa antinucleare, dondole all’Hiroshima Peace Memorial Museum.
«Condanno totalmente il ricorso alla bomba atomica contro il Giappone, ma non ho potuto fare niente per impedirlo», scrive il premio Nobel della fisica, due anni prima della sua morte,
avvenuta nel 1955.
Le lettere, scritte fra il 1953 e il 1954, quasi dieci anni dopo il tragico evento, dimostrano come Einstein sentisse ancora il bisogno di giustificarsi. E dell’anno successivo il celebre Il Manifesto Russell-Einstein. In effetti, fin dal 1905 i lavori del grande fisico ebreo, che dovette poi fuggire dalla Germania nazista, permisero di avviare lo sviluppo dell’industria dell’atomo. Tra gli studiosi che si impegnarono in questo campo c’era anche l’italiano Enrico Fermi, emigrato negli Stati Uniti dopo la promulgazione delle leggi raziali. Nel 1939 Einstein scrisse al presidente statunitense Franklin D.Roosevelt, preoccupato che la Germania potesse dotarsi della terribile arma. Tuttavia più volte cercò di esortare il presidente americano affinché abbandonasse il cosiddetto Progetto Manhattan, ma invano. Nel giugno del ’45 l’impero di Hitler era ormai sconfitto. Alcuni di coloro che a Los Alamos avevano lavorato al progetto, tormentati dai dubbi circa l’impiego futuro della loro scoperta, consegnarono al ministro della Guerra Henry Stimson un rapporto nel quale sconsigliavano l’uso della bomba atomica e suggerirono una dimostrazione incruenta dell’arma. Roosvelt, che proveniva dai raffinati ambienti bostoniani, era morto da poco, il 12 aprile, e gli era succeduto il suo vice, il democratico Hatty Truman, figlio di un contadino del Missouri che, più schematico nelle proprie convinzioni, non ascolto le loro parole. Poco più tardi sulle due città giapponesi furono lanciate le due bombe atomiche.
Scioccato per l’orrore provocato, il filosofo giapponese Shinohara decise di inviare una lettera di critiche al fisico: «Credo che Einstein abbia reagito con una certa irritazione alle parole di mio marito», ha spiegato la vedova. Il premio Nobel rispose infatti sulla difensiva, sostenendo che in alcune circostanze, ovvero quando si è costretti da un nemico che minaccia te e il tuo popolo, l’uso della forza è necessario.
Fu in una successiva lettera all’amico giapponese che il fisico ammise che la sola consolazione per la fabbricazione delle bombe nucleare fu che il loro effetto dissuasivo avrebbe avuto valore con il tempo, e che la sicurezza internazionale si sarebbe trovata rafforzata.
L’Enola Gay vola ancora
di Manlio Dinucci
«La superfortezza volante B-29 della Boeing era il più sofisticato bombardiere della Seconda guerra mondiale. Il 6 agosto 1945 essa sganciò su Hiroshima, in Giappone, la prima arma atomica usata in combattimento»: così si legge sulla targa davanti all’Enola Gay esposto al Museo aerospaziale Smithsonian a Washington. Non tutti i visitatori, però, si sono limitati ad ammirare il bombardiere che, splendidamente restaurato, costituisce il fiore all’occhiello del museo. Il «Comitato per una discussione nazionale sulla storia nucleare e la politica attuale» ha lanciato una petizione, firmata da centinaia di esponenti del mondo universitario, in cui chiede che, insieme all’Enola Gay, vengano «esposte foto e materiali che mostrino i danni inflitti dalla bomba atomica sganciata da questo aereo». La proposta è stata però bocciata dalla direzione del Museo con la motivazione che la descrizione dell’Enola Gay deve essere semplicemente tecnica.
Non è però un fatto tecnico, obietta il Comitato, che la bomba sganciata dal più sofisticato bombardiere della Seconda guerra mondiale abbia provocato la morte, solo nel primo anno, di 140mila persone, per il 65% donne, bambini e anziani che non avevano alcuna connessione con la guerra. In realtà Truman ordinò l’impiego della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki non solo per salvare vite americane, come recita la storia ufficiale, ma per conseguire due obiettivi strategici: costringere il Giappone ad arrendersi agli Usa prima che l’Urss partecipasse alla sua invasione penetrando nel Pacifico; acquisire una netta superiorità militare sull’Urss e tutti gli altri paesi. Iniziò così la corsa agli armamenti nucleari.
La polveriera nucleare
Tra il 1945 e il 1991 (l’anno in cui la disgregazione dell’Urss segna la fine della guerra fredda), vennero fabbricate nel mondo oltre 128mila testate nucleari: di queste, 70mila dagli Stati uniti, 55mila dall’Unione sovietica. La corsa non si limitò alle due superpotenze: con l’aiuto diretto e indiretto degli Stati uniti, prima la Gran Bretagna, poi Francia, Israele e Sudafrica si dotarono di armi nucleari. Entrarono nel «club nucleare», in tempi e modi diversi, anche Cina, India e Pakistan. Si accumulò così nel mondo un arsenale nucleare che, negli anni Ottanta, raggiunse i 15mila megaton.
Per avere un’idea della sua potenza basti pensare che gli effetti distruttivi della irradiazione termica e dell’onda d’urto di una bomba nucleare da 1 megaton (un’arma di media potenza, pari a quella di 1 milione di tonnellate di tritolo) si estendono circolarmente fino a 14 km. Se a esplodere è una bomba da 20 megaton, l’area di distruzione si estende circolarmente fino a oltre 60 km. A questi si aggiungono gli effetti delle radiazioni. Il maggior numero di vittime viene provocato dal fallout, ossia dalla ricaduta radioattiva. Dopo lo scoppio di una bomba da 1 megaton, le persone sono sottoposte a dosi mortali di radiazioni in un’area di circa 2.000 km2 e a dosi pericolose in un’area di circa 10.000 km2.
Si è creata in tal modo, per la prima volta nella storia, una forza distruttiva che può cancellare dalla faccia della Terra, non una ma più volte, la specie umana e quasi ogni altra forma di vita.
L’occasione perduta
Con la fine della guerra fredda, il mondo si è trovato a un bivio. La decisione di quale delle due vie imboccare era principalmente nelle mani di Washington: da un lato c’era la possibilità di avviare un reale processo di disarmo, cominciando con lo stabilire, sulla falsariga della proposta di Gorbaciov, un programma finalizzato alla completa eliminazione delle armi nucleari; dall’altro, c’era la possibilità di approfittare della scomparsa della superpotenza rivale per accrescere la superiorità strategica, compresa quella nucleare, degli Stati uniti d’America, rimasti l’unica superpotenza sulla scena mondiale. Senza un attimo di esitazione a Washington hanno imboccato la seconda via.
Man mano che gli Stati uniti hanno accresciuto il loro vantaggio strategico sulla Russia e gli altri paesi, i trattati sono stati sempre più svuotati di reale contenuto. Emblematico è il Trattato firmato a Mosca nel maggio 2002 dai presidenti Bush e Putin: esso non stabilisce alcun meccanismo di verifica, né specifica che cosa debba essere fatto delle testate nucleari tolte dalle piattaforme di lancio, lasciando ciascuna delle due parti libera di conservare le armi disattivate. Gli Stati uniti potranno così mantenere un arsenale di 15.000 armi nucleari (equivalente come quantità a quello precedente) e continuare ad ammodernarlo con armi di nuovo tipo, fidando che la Russia non sia in grado di fare altrettanto e sia costretta, per risparmiare, a smantellare effettivamente le testate nucleari tolte dalle rampe di lancio.
Quali interessi girino attorno a questa industria dell’Apocalisse lo dimostra un calcolo effettuato negli Stati uniti: solo in armamenti nucleari, gli Usa hanno speso, tra il 1940 e il 1996, 5.821 miliardi di dollari (al valore costante del dollaro 1996). Se tale somma fosse costituita da banconote da un dollaro e le banconote fossero legate in mazzette e queste fossero usate come mattoni, ci si potrebbe costruire un muro di dollari alto 2,7 metri che circonda la Terra all’altezza dell’ equatore per 105 volte. Aggiungendo la spesa per gli armamenti nucleari dell ‘Unione sovietica / Federazione russa e degli altri paesi, si potrebbe come minimo raddoppiare l’altezza del muro di dollari attorno alla Terra.
Il rilancio della corsa agli armamenti nucleari
Una serie di decisioni prese dall’amministrazione Bush hanno innescato una nuova e non meno pericolosa corsa agli armamenti nucleari.
Il primo passo è rappresentato dalla decisione, ufficializzata nel dicembre 2001, di rilanciare il progetto reaganiano dello «scudo spaziale». E’ un sistema non di difesa ma di offesa (per questo proibito dal Trattato Abm, affossato da Washington): se un giorno gli Stati uniti riuscissero a realizzarlo, sarebbero in grado di lanciare contro qualsiasi paese (anche dotato di armi nucleari) un first strike, un primo colpo nucleare, fidando sulla capacità dello «scudo» di neutralizzare o attenuare gli effetti di una eventuale rappresaglia.
Il secondo passo è stato compiuto quando, il 1° ottobre 2002, il Comando strategico, responsabile delle forze nucleari, ha assorbito il Comando spaziale, responsabile delle operazioni militari nello spazio e nella rete computeristica. I preparativi di guerra nucleare si sono così estesi dalla terra allo spazio.
Il terzo passo è costituito dalla decisione del Pentagono di sviluppare armi nucleari penetranti di «bassa potenza». Nella mente degli strateghi, esse sono armi «spendibili» anche in conflitti regionali: potrebbero essere usate per «decapitare» il paese nemico, distruggendo i bunker dei centri di comando e le basi missilistiche. In tal modo, si integrano le armi nucleari nella dottrina dell’«attacco preventivo» e si cancella la linea di demarcazione tra armi nucleari e non-nucleari, accrescendo la possibilità che la guerra diventi nucleare.
La proliferazione
Le altre potenze nucleari non stanno con le mani in mano. La Russia sta spremendo le sue magre risorse per dotare le proprie forze nucleari di «una nuova generazione di armi strategiche» (secondo quanto annunciato da Putin nel maggio 2003). Lo stesso stanno facendo la Cina e le altre potenze nucleari. Quella avvenuta dopo la fine della guerra fredda non è stata dunque una riduzione delle forze nucleari finalizzata al disarmo, ossia alla loro completa eliminazione, ma una ristrutturazione finalizzata al loro mantenimento e ammodernamento.
Gli Stati uniti dispongono di oltre 7200 testate nucleari strategiche operative, ossia installate su missili e aerei con raggio d’azione tale da colpire qualsiasi obiettivo in qualsiasi parte del mondo, e pronte al lancio ventiquattr’ore su ventiquattro. La Russia ne ha circa 5900. La Francia possiede oltre 460 testate nucleari operative; la Cina, circa 400; Israele, 200-400; la Gran Bretagna, circa 200; l’India, 30-50; il Pakistan, 24-48. La loro potenza complessiva viene stimata in circa 5000 megaton, minore di quella della guerra fredda, ma in grado sempre di cancellare dalla faccia della Terra la specie umana e quasi ogni altra forma di vita.
In tale situazione, in cui un piccolo gruppo di stati pretende di mantenere l’oligopolio delle armi nucleari, in cui il possesso di armi nucleari conferisce lo status di potenza, è sempre più probabile che altri cerchino di procurarsele e prima o poi ci riescano. Oltre agli otto paesi che già posseggono armi nucleari, ve ne sono almeno altri 37 che si ritiene siano in grado di costruirle. Tra questi la Corea del nord, che probabilmente ha già acquisito tale capacità, e l’Iran che potrebbe acquisirla.
L’unico modo per impedire una ulteriore proliferazione delle armi nucleari è l’applicazione integrale del Trattato di non-proliferazione. Esso obbliga gli stati dotati di armi nucleari a non trasferirle ad altri (Art.1), e gli stati non in possesso di armi nucleari a non riceverle o costruirle (Art. 2), sottoponendosi alle ispezioni della Agenzia internazionale per l’energia atomica, incaricata di verificare che gli impianti nucleari vengano usati a scopi pacifici e non per la costruzione di armi nucleari (Art. 3).
Il Trattato obbliga, allo stesso tempo, gli stati dotati di armi nucleari a «perseguire negoziati in buona fede su effettive misure per la cessazione della corsa agli armamenti nucleari e il disarmo nucleare, e su un Trattato che stabilisca il disarmo generale e completo sotto stretto ed effettivo controllo internazionale» (Art. 6). Li obbliga anche a «rinunciare, nelle loro relazioni internazionali, all’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi stato» (Preambolo).
Le armi nucleari statunitensi in Europa e Italia
Secondo un rapporto (U.S. Nuclear Weapons in Europe) pubblicato agli inizi di quest’anno dal Natural Resources Defense Council, gli Stati uniti mantengono in Europa un numero di bombe nucleari tre volte superiore a quello che finora si conosceva. Da documenti ufficiali declassificati, risulta che il numero effettivo è di 480.
Le 480 bombe nucleari sono dislocate in otto basi aeree in sei paesi europei della Nato: 150 in tre basi tedesche; 110 in una base inglese; 90 in due basi italiane e altrettante in una turca; 20 rispettivamente in una base belga e in una olandese. Delle 90 bombe nucleari schierate in Italia, 50 si trovano ad Aviano (Pordenone) e 40 a Ghedi Torre (Brescia). Tutte quelle dislocate in Europa sono bombe tattiche B-61 in tre versioni, la cui potenza va da 45 a 170 kiloton (una potenza equivalente a 170 mila tonnellate di tritolo, 13 volte maggiore di quella della bomba di Hiroshima).
Le bombe sono tenute in speciali hangar insieme ai caccia pronti per l’ attacco nucleare: F-15 e F-16 statunitensi, che dispongono complessivamente di 300 bombe (ciascun aereo ne può portare da 2 a 5); F-16 e Tornado dei paesi europei della Nato, che hanno a disposizione complessivamente 180 bombe. Tra questi, i Tornado italiani che sono armati con 40 bombe nucleari (quelle tenute a Ghedi Torre).
Lo spiegamento delle armi nucleari statunitensi in Europa è regolato da una serie di accordi segreti, che i governi europei non hanno mai sottoposto ai rispettivi parlamenti. Quello che regola lo schieramento delle armi nucleari Usa in Italia è lo «Stone Ax», il piano segreto di cui parla William Arkin nel suo libro Code Names. Esso non solo dà agli Usa la possibilità di schierare armi nucleari sul nostro territorio, ma stabilisce il principio della «doppia chiave», ossia prevede che una parte di queste armi possa essere usata dalle forze armate italiane una volta che gli Usa ne abbiano deciso l’impiego. A tal fine, rivela il rapporto, piloti italiani vengono addestrati all’uso delle bombe nucleari nei poligoni di Capo Frasca (Oristano) e Maniago II (Pordenone). In tal modo l’Italia, facente parte con gli Usa del «Gruppo di pianificazione nucleare» della Nato, viola il Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari che, all’articolo 2, stabilisce: «Ciascuno degli stati militarmente non-nucleari, si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari o altri congegni nucleari esplosivi, né il controllo su tali armi e congegni esplosivi, direttamente o indirettamente». Abbiamo dunque sul nostro territorio 90 bombe nucleari, cui si aggiungono quelle della Sesta Flotta, soprattutto le testate dei missili a bordo dei sottomarini da attacco con base a La Maddalena.
La necessità di rilanciare il movimento per l’abolizione delle armi nucleari
L’idea che, con la fine della guerra fredda, sia finita anche la minaccia nucleare è penetrata negli stessi movimenti per la pace. Essi concentrano generalmente la loro azione sugli aspetti visibili della guerra, su quelli che suscitano immediate reazioni emotive. Non si reagisce invece nello stesso modo, o non si reagisce affatto, di fronte ad atti di ben più grave portata – come la decisione di militarizzare lo spazio o quella di sviluppare nuove generazioni di armamenti – che preparano il terreno alla guerra nucleare.
Non si coglie così, o si sottovaluta, il fatto che, di conflitto in conflitto, di generazione in generazione di armamenti, aumenta la possibilità che la guerra diventi nucleare e che, per tale ragione, siamo tutti in pericolo. Da qui la necessità di rilanciare un movimento di massa per l’abolizione delle armi nucleari, quale asse portante di una iniziativa permanente contro la guerra. Il primo passo in questa direzione va compiuto sul terreno dell’informazione, indispensabile a un rilancio dell’attenzione su questo tema di vitale importanza.
Manlio Dinucci: saggista, collaboratore di vari giornali, è stato direttore esecutivo della sezione italiana della International Physicians for the Prevention of Nuclear War, associazione vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 1985. Tra i suoi ultimi libri: Il potere nucleare, Fazi Editore, 2003; Il sistema globale (seconda edizione), testo di geografia per le scuole medie superiori (Zanichelli, 2004) in cui vi è anche un capitolo sulle armi nucleari.
E’ ora di finire questa storia
La bomba ha 60 anni
La corsa agli armamenti, proseguita dopo la fine dell’Urss, ha riempito tutto il mondo di ordigni nucleari sempre più potenti, piccoli e «usabili». Se non saranno messi presto e definitivamente al bando, il rischio per tutta l’umanità diventerà insostenibile
ANGELO BARACCA
Questo anniversario delle bombe sul Giappone non può essere la sessantesima rituale celebrazione. Dire «Sessant’anni bastano!» deve tradursi in una volontà e in una strategia nuove: il disarmo nucleare non solo è necessario, ma è possibile e può diventare il fulcro per sbloccare il quadro geopolitico. Il fallimento della VII Conferenza di revisione del trattato di non proliferazione (Tnp) ha creato una situazione di stallo irta di pericoli senza precedenti. Se verranno realizzate armi nucleari completamente nuove (anche se è difficile dire quando), la distinzione tra guerra convenzionale e guerra nucleare verrà cancellata, e l’intero regime di non proliferazione crollerà, dal momento che tutti i trattati considerano solo testate basate sulla reazione a catena nell’uranio e nel plutonio. A fronte di questi rischi l’Iran e la Corea del Nord sono ragazzi… alle prime armi (che tra l’altro, non giustificano un arsenale di 9.000 testate nucleari!); del resto, il Pakistan nucleare è fedele alleato di Washington, che con l’India ha appena stabilito accordi di cooperazione nucleare, ancorché civile (quel «civile» con cui entrambi i paesi hanno fatto la bomba). Senza contare le capacità e le ambizioni nucleari di paesi come la Germania e il Giappone.
Oggi non dobbiamo solo informare la gente del pericolo senza precedenti (che potrebbe indurre una rimozione), ma convincerla che insieme abbiamo la possibilità di eliminare queste armi per sempre: domani potrebbe essere troppo tardi. Per nessun altro sistema d’arma esistono norme così precise del diritto internazionale che ne impongono l’eliminazione (l’art. VI del Tnp) e un’agenzia (la Iaea) con procedure internazionalmente riconosciute per controllarne il rispetto. Il parere della Corte internazionale di giustizia del 1996 ha riconosciuto l’obbligo del disarmo nucleare, disatteso da 35 anni. Se non riusciremo ad imporre l’eliminazione delle armi nucleari, non riusciremo ad eliminare nessun altro sistema d’arma.
Ma vi è un ulteriore argomento di grande forza. I rapporti internazionali sono oggi ingessati dalla delirante strategia guerrafondaia di Washington, che punta a creare divisioni tra i vari paesi e al loro interno per imporre il proprio volere, ad esasperare conflitti e a creare crociate culturali, religiose e razziali. Sembra difficile trovare un punto di forza per spezzare questo cerchio infernale. L’obiettivo dell’eliminazione della armi nucleari può fornirlo: chi potrebbe essere infatti contrario, se informato in modo sufficiente e corretto? Si presenta così un’opportunità unica per unificare su un obiettivo popoli, movimenti, associazioni, sindacati, partiti e governi volonterosi al di sopra di contrasti, divergenze e differenze (perfino quelle sulla legittimità del ricorso alla guerra, perché nessuno onestamente può accettare la guerra nucleare). Una forte pressione sui governi di tutto il mondo potrebbe modificare gli equilibri più di quanto i movimenti siano riusciti a fare in questi anni.
L’obiettivo di denuclearizzare il Mediterraneo e il Medio Oriente può unificare popoli e governi (il manifesto, 21 luglio), superando le crociate alimentate dai nostri meschini governi. L’Europa dovrebbe affrontare un problema spinoso, ma la pur tardiva messa in discussione dell’inutile arsenale nucleare britannico e della velleitaria force de frappe di Parigi è un passo irrinunciabile, mai affrontato, che costituirebbe una forte scelta politica unitaria, rilancerebbe il processo politico in un momento di stallo, ridarebbe vigore alle istanze democratiche, ed allontanerebbe inevitabilmente dalla stretta degli Usa e della Nato.
La messa in discussione dell’arsenale di Israele indebolirebbe la rete di omertà e di collusioni, contribuendo a decantare anche l’incancrenito conflitto israelo-palestinese. Le eventuali aspirazioni nucleari di Tehran sarebbero depotenziate (come quelle meno esplicite di Tokyo). L’offerta alla Russia di liberarsi di un oneroso e decadente arsenale, che svolge ormai solo una funzione estrema di deterrenza, può offrire la base per sviluppare un rapporto politico diverso. Anche la Cina, malgrado battagliere dichiarazioni recenti, potrebbe avere interesse ad eliminare la minaccia nucleare, se questo le desse la prospettiva di spezzare l’accerchiamento di Washington e di impostare in modo nuovo i rapporti politici e commerciali mondiali.
L’eliminazione delle armi nucleari ridarebbe autorità anche ad un’Assemblea dell’Onu mortificata dal Consiglio di Sicurezza. Vi sono iniziative politiche alle quali è possibile collegarsi, potenziandole, quali quella dei Mayors for Peace, la New Agenda Coalition, la Middle Power Iniziative promossa da Jimmy Carter, i parlamentari e i parlamenti (come quello belga) che chiedono l’eliminazione della 480 arcaiche testate americane in Europa.
Noi dobbiamo partire dalle 50 testate nella base Nato di Aviano, e le 40 in quella italiana di Ghedi Torre: l’Italia è un paese nucleare! Si tenga presente che queste testate implicano la presenza di materiale nucleare che dovrebbe essere rigorosamente conosciuto dalle autorità civili, e quindi anche trasporti o transiti segreti di tali materiali. Ma non basta: sommergibili nucleari scorazzano nel Mediterraneo con il loro carico micidiale di missili, e sostano nei nostri porti (e nella base de La Maddalena).
A parte questa ulteriore presenza, incontrollabile, di armi nucleari sul nostro territorio (che sicuramente è per questo tra i principali obiettivi di un’eventuale rappresaglia nucleare, magari per errore!), la sosta dei sommergibili viola la legislazione che vieta la localizzazione di reattori nucleari vicino a zone popolate, e vanifica qualsiasi piano di emergenza, che si basa sulla conoscenza precisa di tutti gli aspetti di un eventuale incidente (tipo e localizzazione dell’incidente, modello e dettagli del reattore: il manifesto, 2 luglio), che sono invece coperti dal segreto. Non dobbiamo solo pretendere il rispetto del Tnp, ma delle nostre stesse leggi nazionali. Il parlamento si muova!
In definitiva, si può scavare il terreno sotto i piedi di Washington, togliendole uno dei maggiori strumenti di ricatto e di minaccia di cui dispone: quale modo migliore per commemorare le vittime del 1945, perché il loro sacrificio non sia stato inutile?
Iran e Corea del Nord, le incontrollabili «minacce nucleari» da sfatare
Né Teheran né Pyonyang dispongono di vere capacità nucleari militari, certo meno di Israele o del Giappone. Ma furono comunque gli Usa a favorire per decenni la proliferazione nucleare ovunque
A. B.
L’anniversario di Hiroshima non può essere inquinato da falsi problemi, come le presunte minacce dell’Iran e della Corea del Nord.Il problema della Corea è sorto a seguito della politica minacciosa e delle promesse non mantenute di Washington: Pyongyang sta usando il ricatto nucleare come arma politica. Ma qualcuno pensa che i suoi dirigenti siano così pazzi da farne realmente uso? Per venire poi cancellati dalla carta geografica! È stato chiarito che la Corea non è in grado di colpire il territorio statunitense. Questa minaccia nucleare, vera o presunta, è unicamente un problema politico, che scomparirebbe se solo la protervia di Washington si ammorbidisse. Del resto, dopo l’allarme per i test di India e Pakistan del 1998, chi si preoccupa più per il loro centinaio di testate?Venendo all’Iran, è chiaro che il vero problema nell’area è il poderoso arsenale di Israele. Ma le ambizioni nucleari di Tehran furono alimentate proprio dagli Usa. Il programma dell’«Atomo per la Pace», lanciato nel 1953, aprì un vero supermercato della proliferazione, in cui la Casa bianca, aggirando anche le leggi federali e la volontà del Congresso (con triangolazioni attraverso altri stati), esportò programmi nucleari ed illuse una serie di paesi che li avrebbe dotati di armi nucleari, per attirarli nella propria orbita. Come scrive una studiosa francese: «Così, la logica infernale della dissuasione nucleare conduceva gli americani a dotare l’India della bomba atomica perché non fosse minacciata dalla Cina; a fornire un’arma nucleare al Pakistan perché si proteggesse dall’Afghanistan; a rafforzare il potenziale nucleare della Cina perché non fosse aggredita dai sovietici; a fornire la bomba atomica a Taiwan per bilanciare la potenza della Cina; a fornirla al Giappone per proteggerlo dalla Cina, dalla Corea del Sud e dalla Corea del Nord; a fornirla alla Corea del Sud per metterla al riparo dalla Corea del Nord» (D. Lorentz, Affaires Nucleaires, Parigi, Les Arénes, 2001, pp. 169-70).
Washington promise allo Scià un faraonico programma nucleare. Quando questi divenne un personaggio scomodo, furono gli Usa e la Francia a prepararne il rovesciamento: ma Khomeiny non si rivelò più malleabile. Si aprì così uno dei decenni più convulsi ed intricati del dopoguerra, in cui la questione nucleare giocò un ruolo centrale: dagli ostaggi americani del 1979 come pressione di Tehran per la ripresa delle forniture militari e del programma nucleare, alla disastrosa operazione per liberarli che segnò la fine di Carter, all’Irangate, alla guerra Iraq-Iran voluta da Washington, alla terribile serie di attentati della Jihad dal 1984 al 1990.
Va ricordato che l’Iran aderisce al Tnp ed accetta i controlli della Iaea, la quale ha dichiarato che per ora il paese non porta avanti programmi militari: certo, la tecnologia di arricchimento dell’uranio è dual use, ma nessuno si è scandalizzato quando il Brasile di recente l’ha realizzata, né quando si è saputo che la Corea del Sud ha eseguito esperimenti in tal senso in gran segreto.
È opportuno aggiungere che il recente accordo nucleare dell’Iran con la Russia non comporta nessun rischio, poiché l’uranio arricchito sarà rigorosamente conteggiato, e il combustibile esaurito restituito. Semmai l’Iran potrebbe avere realizzato la bomba partecipando al programma pachistano: ma anche la Germania la realizzò collaborando con il Sudafrica, il cui arsenale fu poi smantellato da Mandela. Chi si preoccupa che paesi come la Germania e il Giappone possiedano i materiali e le capacità per realizzare la bomba in un periodo brevissimo?
Il pericolo sott’acqua e nei nostri porti
Tra tutti gli armamenti nucleari i sommergibili sono il residuo più arcaico: inutile quanto pericoloso. Un solo sommergibile è dotato di un carico di testate nucleari capace da solo di cancellare una nazione, o una buona porzione di un continente. I missili lanciati in prossimità delle coste possono impiegare pochi minuti per raggiungere i bersagli: e in caso di emergenza nucleare questa esaltante decisione potrebbe essere riservata al comandante, rendendo se possibile ancor più antidemocratica la prerogativa riservata di solito al Presidente, in barba al Congresso. Il numero di reattori nucleari militari supera quello dei reattori civili. Ma i reattori dei sommergibili sono particolarmente insicuri, ed hanno registrato una quantità di incidenti allarmante (nel Mediterraneo 61 per la flotta americana, 16 per quella britannica e 12 per quella francese). Nei fondi marini giacciono molte vere bombe ad orologeria, sommergibili affondati (2 americani e 4 russi, per quanto si sa: sembra fortunatamente con i reattori spenti, o almeno si spera).Un aspetto particolare riguarda i gravi problemi che pongono i sommergibili americani che possono attraccare in 11 porti italiani, più quelli nella base de La Maddalena. In caso di incidente le nome di segretezza rendono inapplicabili i piani di emergenza, che richiedono l’esatta conoscenza del tipo e della localizzazione dell’incidente, delle caratteristiche del reattore, ecc: solo così è possibile effettuare un’analisi incidentale credibile, che sta alla base della stima del rischio e di qualsiasi disposizione d’emergenza. La presenza di navi a propulsione nucleare nei nostri porti è incompatibile con la normativa civile italiana sulla radioprotezione. Vi è da supporre che, in caso di incidente nucleare, i sindaci ed altre autorità possano essere giuridicamente perseguibili per l’impossibilità stessa di applicare i piani di emergenza. (a. b.)
I rischi del terrorismo nucleare «individuale»
Più di un mese fa fece una fugace comparsa sui mezzi di informazione la notizia di una valigetta in viaggio tra l’Italia e San Marino con un carico di 10 chili di uranio arricchito, proveniente presumibilmente dalla Russia, in mano a mafie non meglio definite, e di cui si sarebbero poi perdute le tracce. La disponibilità di uranio arricchito è il problema maggiore che devono superare i paesi che hanno ambizioni nucleari, e questo quantitativo potrebbe bastare per realizzare una bomba: sembra che le procedure per farlo siano oggi meno complesse di molti anni fa, anche se un gruppo terroristico potrebbe incontrare ostacoli di ogni genere, forse insormontabili. Una bomba rudimentale, inoltre, non sarebbe presumibilmente molto miniaturizzata: il suo trasporto, o ancor più il suo lancio a distanza potrebbe presentare problemi ancor più difficili. A meno che… vi sono ancora migliaia di testate nucleari «tattiche» (di potenza e gittata minore: chi ricorda gli euromissili?) che furono semplicemente rimosse dal trattato Inf (Intermediate Nuclear Forces) del 1987: da allora non vi è stato nessun controllo, nessuno sa quante siano e in quale stato. Quelle russe, in particolare, potrebbero venire sottratte. Fantascienza? Più pericolosa, e facile da realizzare, potrebbe essere una cosiddetta «bomba sporca», consistente nel fare esplodere una massa di materiale radioattivo, che contamini così un territorio in modo grave: il suo trasporto potrebbe essere più agevole, ma non poi banale. Non è facile valutare questi aspetti: è presumibile che il rischio terroristico nucleare sia inferiore a quelli di altri tipi. Ma una cosa è certa, e deve essere sottolineata con decisione: l’esistenza di questo rischio è dovuta unicamente e totalmente ai paesi nucleari. E’ vero che mentre può essere relativamente più facile procurarsi o produrre aggressivi chimici o biologici, le normative e i controlli del materiale nucleare sono estremamente rigide; ma la corsa agli armamenti nucleari, tutt’altro che arrestata, ha prodotto colossali quantitativi di materiali nucleari di interesse militare. La Russia non ha neppure i mezzi economici per controllarli, e gli aiuti che ha ricevuto dagli Usa per questo sono insufficienti. Ha poi migliaia di scienziati nucleari sul lastrico e pronti probabilmente a vendersi al migliore offerente. Se i terroristi dovessero malauguratamente dotarsi di una capacità nucleare, ancora una volta dovremmo ringraziare Washington, Londra e Mosca. (a.b.)
LE TESTATE NUCLEARI NEL MONDO
Fonte Scientists for Global Responsibility:
USA-strategiche…………………………9.170
USA-nonstrategiche …………………..1.225
RUSSIA-strategiche……………………7.622
RUSSIA-nonstrategiche……………….5.100
Gran Bretagna ………………………………260
Francia …………………………………………450
Cina………………………………………………400
Israele…………………………………….100-150 (?)
India ………………………………………..50-100
Pakistan……………………………………25 – 50
______________________________________
TOTALE……………………….. 24.402 (24.527)
Più circa 15.000 testate intatte non attive in USA e Russia: TOTALE quasi 40.000.
Fonte Sipri-Yearbook 2004:
Nel 2003 più di 16.000 operative, con quelle in riserva un TOTALE di 36.500
Anche la pace ha i suoi Samurai
«Prima di morire, vorrei raccontare la mia esperienza e trasmettere le mie idee direttamente ai giovani. Della stampa non mi fido più» (H. Motoshima)
PIO D’EMILIA
«Guarda qui. Notizia di oggi. Non solo i nostri ragazzi non sanno perché siamo entrati in guerra, cosa abbiamo fatto, quali crimini abbiano commesso e quali abbiamo subito. Non solo questo è l’unico paese dove la fine della guerra, lungi dall’essere equiparata ad una liberazione, non è festa nazionale. Non solo stiamo per modificare una Costituzione aliena ma bellissima, non solo abbiamo abbandonato il nostro pacifismo assoluto per abbracciare quello vostro, all’occidentale, come tutti i vostri principi un po’ ipocrita e opportunista. Non basta. Siamo diventati una potenza nucleare. Noi, i superstiti di Hiroshima e Nagasaki… Leggi qui. Che ce ne facciamo di 45mila chili di plutonio? La bomba che distrusse la mia città, sessant’anni fa, ne aveva cinque. Fossi al vostro posto, mi preoccuperei più della direzione che sta prendendo di nuovo questo paese, irresponsabilmente sospinto dalla cosiddetta comunità internazionale, cioè dagli Stati uniti, piuttosto che del fatto che la Corea del Nord ha un paio di bombe atomiche artigianali e che l’Iran potrebbe produrne entro dieci anni. Al Giappone, bastano due giorni. Ammesso che non ce ne siano già, di belle e pronte».
L’ultima denuncia di Greenpeace
Hitoshi Motoshima, 83 anni, ex sindaco «maledetto» di Nagasaki, agita il quotidiano Asahi, che riporta l’ultima denuncia di Greenpeace. Alla vigilia dell’anniversario di Hiroshima e Nagasaki, il Giappone conferma che il suo impianto nucleare per il riprocessamento del plutonio ad Aomori, nel nord dell’arcipelago, inizierà le sue operazioni come previsto, la prossima primavera. E’ l’unica potenza non nucleare a fabbricare plutonio. Che se ne farà mai?
Motoshima è un uomo solo, abbandonato da tutti, compresi la maggior parte dei media. Anche se, ancora oggi, riceve decine di lettere al giorno da cittadini che gli esprimono rispetto e solidarietà, e che lui, ogni anno, raccoglie in un volumetto: Lettere ad un sindaco. Da anni lotta contro un cancro, ma non c’entra niente con la bomba. «Quel giorno – spiega – fortunatamente ero in campagna, a qualche chilometro di distanza. Sono altre le ferite che ci ha lasciato l’esplosione. E non so quali siano le più incurabili. Il cancro si combatte e si può sconfiggere. La perdita della memoria produce invece effetti irreversibili. E’ come perdere i dati sul computer. Mi è successo, una volta. Non li recuperi più. E la ricostruzione è sempre arbitraria. Se non sai da dove vieni, puoi finire dappertutto. E trascinare all’inferno milioni di persone».
Lo conosciamo da anni, Motoshima. L’ultima volta l’avevamo incontrato tre anni fa, in occasione dei mondiali di calcio. Lo intervistammo per questo giornale: Nagasaki era stata l’unica grande città giapponese ad aver rinunciato ad ospitare una partita del mundial, rifiutandosi di «buttar soldi per uno stadio». Al suo posto, vennero costruiti un nuovo ospedale, una casa di riposo per gli hibakusha («sopravvissuti della bomba») e raddoppiato il sussidio, che a Nagasaki – a differenza di Hiroshima, dove sono ancora in atto odiose pratiche discrimanotorie – viene da sempre esteso anche alle vittime «straniere» della bomba (oltre a coreani e cinesi, ci sono anche dei sopravvissuti occidentali, tra i quali alcuni americani).
Ma il primo incontro risale a oltre quindici anni fa. Eravamo andati a trovarlo, assieme ad un paio di colleghi della Stampa estera di Tokyo, in ospedale. Un giovane fanatico nazionalista gli aveva appena sparato, a bruciapelo: non gli garbavano le sue accuse, da molti condivise ma da nessuno espresse pubblicamente, alle responsabilità dell’imperatore, «graziato» dagli Stati uniti. Che riuscirono a trasformare un lucido, pignolo e per certi versi perverso comandante in capo (come risulta da un’oramai copiosa documentazione, anche indigena) in un povero fantoccio ostaggio dei militari. Un imperatore che stava morendo, in odore di santità, senza prendere in considerazione l’idea di scusarsi, oltre che con i popoli che aveva aggredito e umiliato, con i suoi stessi sudditi: tre milioni dei quali erano morti in suo nome, mezzo milione negli ultimi sei mesi di una guerra oramai decisa ma non finita, tra bombardamenti di Tokyo, battaglia di Okinawa, e le due bombe atomiche.
Per 17 anni, e non senza critiche, Motoshima ha governato la «città dimenticata» di Nagasaki: «neanche il privilegio del prime time: gli americani scelsero con cura l’orario, per Hiroshima, le 8 di mattina, in tempo per i notiziari… Della nostra bomba, ancor più potente, devastante e inutile della prima, caduta alle 11, nessuno diede nota…».
Il l7 dicembre 1988, come si diceva, Motoshima «impazzisce». Nel corso di una seduta del consiglio comunale, nella quale si deve discutere se istituire o meno un registro per raccogliere le firme dei cittadini che augurano pronta guarigione all’oramai morente imperatore Showa (i giapponesi non lo chiamano mai Hirohito, ma «pace illuminata», nome ufficiale della sua era) Motoshima pronuncia la famosa mondai hatsugen (letteralmente, la «dichiarazione controversa»). Talmente controversa che perfino i media evitano di citarla per esteso, «Con tutto il rispetto per il simbolo del nostro popolo, ritengo che l’imperatore debba assumersi le sue responsabilità…». Niente di che, parrebbe. Ma scoppia un putiferio. Motoshima diventa di colpo famoso in tutto il mondo, ma in patria deve nascondersi dalla furia isterica dei media locali e dalle minacce degli ultrà nazionalisti. Fino a quando, due anni dopo, uno scapestrato gli spara a bruciapelo. Motoshima si salva per un pelo, abbandona la carriera politica e cambia casa. Resta solo. Ma vivo.
E pieno di energia. Se in occasione del 50 anniversario scrisse un toccante discorso (che l’allora sindaco, Iccho Itoh, rifiutò di leggere e persino di distribuire durante la cerimonia ufficiale), quest’anno Motoshima ha deciso di raccogliere tutte le sue forze e, su invito di alcune università, tra le quali la Waseda, prestigiosa culla del pensiero (e, negli anni `60, della contestazione) di Tokyo, portare il suo messaggio direttamente agli studenti: «della stampa, e purtroppo della scuola, non c’è più da fidarsi: siamo diventati un popolo di ignoranti qualunquisti». Nel corso del suo viaggio, ha accettato di partecipare ad un dibattito presso la Stampa estera, a Tokyo, nel corso sono stati proiettati, per la prima volta, alcuni documentari di Fumio Kamei, soprannominato l’«Eisenstein giapponese», ripetutamente censurato e arrestato prima, durante e dopo la guerra. Dopo aver passato tre anni in carcere durante il conflitto, per un suo scarsamente apologetico documentario sull’Armata imperiale («Tatakau Heitai», «L’esercito combattente», nel quale anziché vedere soldati che combattono eroicamente il nemico si vedono dei poveracci affamati, malvestiti che solidarizzano con i cinesi e sognano un pronto ritorno in patria), Kamei non fa a tempo a godersi la libertà che viene rimesso in carcere dagli americani occupanti, preoccupati che il suo nuovo film «Nihon Higeki» («Una tragedia giapponese), nel quale una giovane sindacalista comunista insulta l’imperatore, chiedendogli di assumersi le sue responsabilità, potesse inviare un messaggio sbagliato al popolo. Che in quel periodo, anche se nessuno, oggi, in Giappone lo ricorda, era «pericolosamente» attratto dalla propaganda comunista.
«Ecco, questo è un punto importante – spiega Motoshima – tutti i libri di storia, sia i nostri che quelli stranieri, hanno accreditato l’immagine di un paese distrutto, dove un’occupazione paternalista ha consentito al popolo, attraverso la ritenzione del suo presunto ‘simbolo’, di rimettersi in piedi ed affrontare la difficile ricostruzione». Non è così? «No. E’ vero il contrario. Gli americani ci hanno umiliato due volte, prima utilizzando, per ben due volte e senza mai scusarsi, un’arma micidiale, giustificandone la razionalità e commettendo quello che ritengo il secondo grande crimine contro l’umanità, dopo l’olocausto. Se davvero esistesse una giustizia internazionale, Truman e alcuni suoi generali avrebbero dovuto essere stati processati e condannati come criminali di guerra. Ma gli Stati uniti ci hanno umiliato e offeso anche dopo la fine della guerra, quando solo ed esclusivamente a loro beneficio, hanno impedito una vera e autentica democratizzazione del Giappone. Non è vero che i giapponesi adoravano l’imperatore. Ci sono fior di inchieste, e testimonianze, dell’epoca, che provano il contrario. Mai pubblicate. Io non so se il Giappone sarebbe diventato un paese comunista se l’imperatore, come molti suggerivano, avesse almeno abdicato. Forse no. Ma certamente, sarebbe diventato un paese più democratico. Ed il suo popolo sarebbe cresciuto, anziché restare bambino, e dunque, per definizione, non punibile».
MacArthur e l’Imperatore
Che è poi quello che dichiarò, subito dopo la sua destituzione del 1951, quando aveva proposto l’uso della bomba atomica in Corea, il comandante in capo dello Scap (Comando alleato per l’occupazione), il generale MacArthur, l’uomo che convinse Truman (ma non Churchill e Stalin) a non incriminare Hirohito. Disse: «L’imperatore è un galantuomo. Che osserva dall’alto un popolo di ragazzini dodicenni. Togliete loro una guida, e avrete il caos…».
«Proprio così – commenta Motoshima – quella definizione ci offende ancora, anche se in parte era giustificata. Non possiamo negare che il nostro popolo non ha mai avuto il coraggio di essere protagonista, di lottare per i propri diritti. Io invidio da sempre voi italiani. In Giappone siete ancora considerati dei traditori, dei vigliacchi. Io invece, che ritengo la resa un valore e la cieca obbedienza un difetto, e che ho studiato la vostra storia, ho grande rispetto per la Resistenza, per l’arresto e l’esecuzione di Mussolini, e anche per Piazzale Loreto. Eventi tragici, ma che vi hanno consentito di rialzare la testa, maturare e superare il passato. A noi non è stato concesso. Per colpa dell’ipocrita magnanimità degli Stati uniti, continuiamo a portarci addosso il peso di una responsabilità collettiva che invece era e resta tutta dell’imperatore e dei suoi generali. Senza pensare al devastante, perverso effetto delle bombe atomiche: avete trasformato gli aggressori in vittime, impedendo, di fatto, un’equa assunzione di responsabilità. Siamo rimasti fermi, inchiodati a quell’esplosione. Un popolo di vittime, ma colpevoli. Se non ci fosse stata l’annessione della Corea, l’invasione della Manciuria, l’attacco di Pearl Harbour, non ci sarebbe stata la guerra. E dunque Hiroshima e Nagasaki. Sapete quale è stato l’unico commento ufficiale dell’imperatore, a proposito della bomba? `Eravamo in guerra, non c’era nulla da fare’».
«Di peggio c’è solo quella di Yoneuchi Mitsumasa, l’ultimo ministro della guerra, secondo il quale il bombardamento atomico fu un dono della provvidenza, che salvò il Giappone dalla guerra civile e dall’occupazione sovietica! Una bomba sacrosanta? Nulla da fare? C’era da fare, eccome! C’era da non provocare la guerra, o quanto meno di fermarla sei mesi prima, quando era oramai ovvio il suo esito finale, senza aspettare il massacro di Okinawa e le bombe atomiche. Se un popolo consente ad un imperatore vile e superbo di morire nel suo letto senza chiedere scusa per le sofferenze inflitte ai suoi `figli’ – e a decine di ex criminali di guerra di sedere tuttora in Parlamento – non può pretendere che gli americani si scusino con loro per uno dei più gravi crimini contro l’umanità. Lo so, è un passaggio difficile. Ma sto cercando di farlo capire ai nostri giovani, che sono stati troppo tempo rinchiusi in asilo. E’ ora di crescere».
Sessanta anni dopo, per chi suona la campana di Hiroshima e Nagasaki?
Gli Usa hanno stracciato il trattato Abm, rilanciano lo «scudo spaziale», centralizzano i comandi, sviluppano nuove «bombe penetranti». Le altre potenze nucleari si allertano. E i pacifisti?
MANLIO DINUCCI
I rintocchi della campana della pace, che risuoneranno oggi a Hiroshima per il sessantesimo anniversario del bombardamento atomico, dovrebbero non solo far ricordare le vittime ma far riflettere sul fatto che ancora una volta ascoltiamo questi rintocchi mentre prosegue la folle corsa agli armamenti nucleari che può portare il mondo alla catastrofe. Truman ordinò l’impiego della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki non solo per salvare vite americane, come recita la storia ufficiale, ma per conseguire due obiettivi strategici: costringere il Giappone ad arrendersi agli Usa prima che l’Urss partecipasse alla sua invasione penetrando nel Pacifico; acquisire una netta superiorità militare sull’Urss e gli altri paesi. Iniziò così la corsa agli armamenti nucleari.
Tra il 1945 e il 1991 vennero fabbricate oltre 128mila testate nucleari: di queste, 70mila dagli Usa, 55mila dall’Urss. Con l’aiuto diretto e indiretto degli Stati uniti, prima la Gran Bretagna, poi Francia, Israele e Sudafrica si dotarono di armi nucleari. Entrarono nel «club nucleare», in tempi e modi diversi, anche Cina, India e Pakistan. Si creò così, per la prima volta nella storia, una forza distruttiva tale da cancellare dalla faccia della Terra, non una ma più volte, la specie umana e quasi ogni altra forma di vita.
Con la fine della guerra fredda, il mondo si è trovato a un bivio. La decisione di quale delle due vie imboccare era principalmente nelle mani di Washington: da un lato la possibilità di avviare, secondo la proposta di Gorbaciov, un programma per la completa eliminazione delle armi nucleari; dall’altro, la possibilità di approfittare della scomparsa della superpotenza rivale per accrescere la superiorità strategica statunitense. Senza un attimo di esitazione a Washington hanno imboccato la seconda via.
I passi più pericolosi sono quelli compiuti dall’attuale amministrazione: il rilancio del progetto reaganiano dello «scudo spaziale», un sistema non di difesa ma di offesa (per questo proibito dal Trattato Abm, affossato da Washington); l’assorbimento del Comando spaziale da parte del Comando strategico, responsabile delle forze nucleari (chiara indicazione che i preparativi di guerra nucleare si estendono dalla terra allo spazio); la decisione di sviluppare armi nucleari penetranti da usare in un «attacco preventivo» per «decapitare» il paese nemico distruggendo i bunker dei centri di comando.
Le altre potenze nucleari non stanno però con le mani in mano. La Russia sta spremendo le sue magre risorse per dotarsi di «una nuova generazione di armi strategiche» (come annunciato da Putin nel 2003). La Cina sta facendo altrettanto. In tale situazione, in cui un piccolo gruppo di stati pretende di mantenere l’oligopolio delle armi nucleari, in cui il possesso di armi nucleari conferisce lo status di potenza, è sempre più probabile che altri cerchino di procurarsele e ci riescano. Oltre agli otto paesi che già le possiedono (solo il Sudafrica vi ha rinunciato), ve ne sono almeno altri 37 che sono in grado di costruirle. Tra questi la Corea del nord, che probabilmente lo ha già fatto.
Tale situazione, che sta divenendo sempre più pericolosa, non suscita reazioni nelle sedi parlamentari e politiche, negli ambienti scientifici e culturali, e, in generale, nell’opinione pubblica. Ma non basta. Negli stessi movimenti per la pace si è allentata l’attenzione su tale minaccia, proprio mentre essa raggiunge livelli critici. L’anniversario di Hiroshima rischia così di essere un puro rituale.
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