(Ionici e Pitagorici)
Roberto Renzetti
1 – ALCUNE AVVERTENZE
Il quadro storico che segue, secondo lo schema di Pichot, servirà da sfondo necessario a quanto dirò sulla nascita della scienza in Grecia.
A questo proposito devo dire che esistono eccellenti lavori sull’argomento. Il tema è di una vastità incredibile e semmai l’unico problema nasce nel capire dove fermarsi e cosa trascurare. Per quel che ho potuto studiare alcune opere si avvicinano di più al mio modo di intendere la storia. Io ho alcune convinzioni che in breve sono: non esiste una storia lineare che va avanti per accumulo di conoscenze, una sorta di progresso indefinito; non si può fare storia solo interna, rifacendosi cioè ai soli fatti interni ad una disciplina senza andare a vedere quali erano i rapporti politici, sociali ed economici esistenti.In tal senso ritengo eccellenti i lavori di Lucio Russo (La rivoluzione dimenticata – Feltrinelli, 2001), di U. Forti (Storia della scienza I. Dalle origini al periodo alessandrino – Dall’Oglio 1968), di Benjamin Farrington (Scienza e politica nel mondo antico. Lavoro intellettuale e lavoro manuale nell’antica Grecia – Feltrinelli 1976) e di Ludovico Geymonat (Storia del pensiero filosofico e scientifico – Garzanti 1970). In questi libri vi sono trattazioni di altissimo livello degli argomenti che affronterò e particolarmente il primo (Lucio Russo) è quello che nel modo più esaustivo racconta le vicende della nascita della scienza in Grecia (con argomentate motivazioni del perché egli situa tale nascita al III secolo a.C., contrariamente a quanto io farò).
Per quel che mi riguarda, tenterò di essere il più esauriente possibile nei limiti di una trattazione elettronica che è faticoso leggere e che è costoso stamparsi. Si potrà intendere ciò che scrivo come una utile guida per chi volesse approfondire questi temi, visto che vi è ancora grande necessità di loro studio.
L’approccio è quello di chi ha avuto una formazione scientifica e storica. La parte filosofica non è di mia competenza se non in modo del tutto marginale.
Da ultimo avverto che seguirò, tra i possibili approcci, quello per tematiche. Naturalmente i personaggi avranno la loro parte ma all’interno di una visione complessiva delle problematiche al centro dell’interesse in un determinato periodo. Mi è sembrato più rispondente all’evolvere della situazione riferirmi anche alle differenti scuole di pensiero che avranno poi inevitabili relazioni tra loro, trascurando a volte la mera cronologia.
2 – I LUOGHI E LA STORIA.
Le cose che racconterò avranno sviluppo in quella parte del Mediterraneo, nota come Mondo Egeo. Riporto una carta della zona in modo da poter aver sempre presenti le località che menzionerò.

Si può facilmente apprezzare che parlare di Grecia, come farò, è limitativo geograficamente, ma non lo è culturalmente. Il mondo greco dell’antichità classica (ellenismo classico), interessato agli sviluppi culturali di cui mi occuperò, era costituito dalla Grecia continentale, dalle isole dell’Egeo tra cui Creta, dal Sud d’Italia (Magna Grecia) e dalla costa dell’Asia Minore (Ionia).
Con Pichot, c’è da notare che tutte queste zone sono a clima mediterraneo, prevalentemente montuose e con poche pianure, tutte sul mare. E proprio attraverso il mare, gli scambi di vario tipo, che si genera una sorta di uniformità culturale. La Grecia non esiste ancora (gli indigeni, forse i Pelasgi, sono una popolazione di cui si sa molto poco). Intorno al 2° millennio si registrano migrazioni di Indoeuropei che si mescoleranno con i locali del Peloponneso. Il predominio nella zona egea è dell’isola di Creta. Questa ed anche le altre isole non sono toccate da tali migrazioni. Creta, una potenza economica e commerciale, si era consolidata fin da tempi remoti come una civiltà molto progredita con contatti stretti sia con l’Egitto che con la Mesopotamia. Essa intratteneva intensi rapporti commerciali con tutti i popoli rivieraschi fino alla Sicilia ma soprattutto con l’Egitto. Di fatto, con la sua flotta, esercitava il suo dominio su gran parte delle isole dell’Egeo ed il suo livello culturale era elevatissimo e noto fin dal 2° millennio a.C.. Intorno al 1400 Creta passa a dipendere da Micene (Grecia continentale). Intorno al 1250 re di Micene è Agamennone, il condottiero della guerra di Troia cantata da Omero. Intorno al 1200, con l’avvento dell’età del ferro (importato dai Dori di origine balcanica) e con la scomparsa della civiltà creto-micenea, inizia un lungo periodo di oblio per la Grecia che, a parte l’economia del ferro, regredisce in tutti i campi (scrittura, architettura in pietra, organizzazione sociale ed economica). Con la decadenza vi sono svariate migrazioni, i centri abitati si autoamministrano costituendosi in piccoli regni che debbono gestire le campagne circostanti. Fino all’VIII secolo a.C. alla decadenza si va accompagnando la povertà.
E’ solo intorno alla metà del VII secolo a.C. che inizia una ripresa in svariati campi (architettura, navigazione, ceramica, lavorazione del ferro) e viene via via reintrodotta la scrittura derivata da quella consonantica fenicia.
Questo processo di ripresa, cui si accompagna anche quella culturale, inizia a maturare nelle piccole città-stato a cui abbiamo accennato. Il re di queste piccole entità aristocratiche è anche autorità religiosa. Ma pian piano il potere deve allargare la sua base per la necessità di difesa del territorio. Per far fronte alla difesa organizzata della città occorre il contributo della popolazione, almeno di quella con maggiori disponibilità economiche che ha la possibilità di equipaggiarsi con le nuove armi messe a disposizione dal ferro. Ma partecipare alla difesa della città significa avere in cambio il potere di decidere insieme agli altri sulla gestione medesima della città. Saranno istituite delle Assemblee, guidate da un consiglio in cui parte di rilievo avranno i magistrati. Tali assemblee saranno formate da tutti coloro che possono partecipare alla difesa della città e via via anche da altre categorie di cittadini (nel 594, ad Atene, Solone aprirà l’Assemblea a tutti i cittadini).
Probabilmente la crescita demografica unita alla scarsezza di risorse e di territorio spinse ad emigrazioni massicce da tali città (tra l’VIII ed il VII secolo). Ciò comportò la nascita di svariate altre città in territori inizialmente gravitanti intorno al Mar Egeo, quindi sempre più lontane. Tali città erano fondate vicino ad un porto naturale, spesso su isole o penisole, in vicinanza di un fiume che è una strada naturale di penetrazione. Le nuove città erano indipendenti ma erano culturalmente legate al luogo d’origine. Tra di esse iniziò una fitta trama di scambi commerciali che sarà alla base del corpo culturale del mondo greco che definiamo ellenismo classico (rilevante, alla fine del VII secolo, è l’invenzione della moneta, sembra in Lidia, che si diffuse rapidamente in tutta la Grecia). Cicerone ebbe a dire: “Il Mediterraneo non era più che un orlo greco ricamato su terre barbare“, concetto che era già stato di Platone il quale, definiva le città fondate dai greci: “ranocchi attorno ad una palude“. Ma queste espressioni potrebbero ben essere utilizzate per le colonie fenicie. Al contrario le colonie greche seppero integrarsi e fondersi molto bene con le popolazioni indigene apportando benessere, arte e cultura.
Eventi esterni incombono su questo mondo in intensa attività. I persiani, prima con Dario e poi con Ciro, invadono l’Asia Minore occupando le città che si affacciano sull’Egeo (la Ionia) ed imponendo loro tiranni a capo di esse. Vi è una ribellione aiutata e fomentata da Atene. I persiani operano una dura rappresaglia arrivando a radere al suolo Mileto nel 494. Passano quindi ad attaccare città nella Grecia continentale. Dario sarà sconfitto a Maratona nel 490 da una alleanza tra le varie città guidate da Atene (Temistocle era alla guida della città di Atene e Milziade era il capo dell’esercito greco). Dopo questa vittoria riprese la rivalità tra le varie città e solo Atene continuò a rinforzarsi. I persiani continuarono nel tentativo di conquista della Grecia con Serse I che, dopo la tragica battaglia delle Termopili, arrivò ad occupare e saccheggiare Atene. Ma successivamente subirono pesanti e definitive sconfitte con la flotta a Salamina (Temistocle dirigeva le operazioni) nel 480, a terra a Platea nel 479 (condottiero era il re di Sparta, Pausania) ed ancora in mare a Capo Micale sempre nel 479 (flotta al comando dell’ateniese Santippo).
Dopo questa sconfitta del possente esercito persiano è Atene che esce rafforzata e si pone a capo di un certo numero di città (Lega di Delo, 478). Ma qui inizieranno forti rivalità e ribellioni che porteranno alla fine della Lega ed ad un vero e proprio impero di Atene su tutte le isole dell’Egeo, sulla Ionia e parte della Tracia ma con il mantenimento dell’autonomia delle singole città. Tale impero durò 50 anni nei quali Atene accrebbe potenza, prestigio e splendore. La democrazia nacque in questa città all’epoca di Pericle (dal 450 al 431) ed Atene si preoccupò di esportarla nelle città del suo impero. L’affermarsi della democrazia, una migliore ripartizione delle terre, l’estensione dei diritti politici ad un numero sempre maggiore di persone, rallentò la corrente di emigrazione.
La crisi inizia con le rivalità e le guerre tra Atene e Sparta che indeboliranno successivamente l’impero fino a farlo cadere definitivamente nel 404. La democrazia ateniese entra in una profonda crisi che sarà anche quella delle altre città del suo impero (a quest’epoca, nel 399, si colloca il processo e la condanna a morte di Socrate che rappresenta una sorta di spartiacque tra cosiddetti presocratici e postsocratici). Per oltre cinquant’anni si vivranno crisi sempre più acute con successive egemonie di differenti città (è l’epoca in cui opera Platone). A questa crisi corrisponde l’emergere della potenza della Macedonia che, con Filippo II, sfrutterà le debolezze e sottometterà la Grecia nel 338. Il successore e figlio di Filippo, Alessandro il Grande (che era stato allievo di Aristotele), in soli 13 anni conquisterà l’Asia Minore, Babilonia, l’Iran fino al fiume Indo, l’Egitto.
Alla morte di Alessandro (Babilonia, 323) questo grande impero si dissolve con lotte tra i vari pezzi di esso. Sarà Roma a trarne i maggiori vantaggi incorporando progressivamente l’impero macedone e con esso la Grecia, fino alla completa sottomissione nel 146 a.C..
3 – LA SCRITTURA ALFABETICA E LA NUMERAZIONE
Dicevo più su che è solo intorno alla metà del VII secolo a.C. che viene via via reintrodotta la scrittura derivata da quella consonantica fenicia(1). La principale differenza sta nell’introduzione di vocali con simboli presi da consonanti fenicie deboli (Alef, Heh, Het, Yod, ‘ayin)(2) non possedute dalla lingua greca. Si tratta di una scrittura alfabetica, basata sul primo vero alfabeto della storia. Esso sarà utilizzato, con poche differenze e varianti, da varie città dell’Egeo e sarà adottato ufficialmente come alfabeto greco classico per tutta la Grecia da Atene nell’anno 403, solo 4 anni prima della morte di Socrate(3).

Da Pichot
L’utilizzo della scrittura (che come supporto aveva tavolette di legno, tavolette di cera, pelli e papiri), e di quella alfabetica in particolare, istituisce una nuova mentalità volta a modificare per sempre le pratiche degli uomini ad essa educati. Entro questo orizzonte, e non altrove, s’instaura lo sguardo logico e razionale con i suoi prodotti: la filosofia e successivamente la scienza.
Con la scrittura alfabetica è possibile mettere in moto i processi di astrazione che sono tipici di conoscenze evolute e non ingenue. Le parole non sono più legate ad oggetti, a cose, ma via via diventano concetti, cioè oggetto autonomo di riflessione, del tutto separato dalle parole e dal linguaggio. E’ ora possibile non solo pensare ma pensare su ciò che è stato pensato instaurando un processo virtuoso di crescita intellettuale che non potrà essere fermato(4).
A lato della scrittura occorre parlare del sistema di numerazione che fin dai primordi era decimale. Si deve tener conto di due tipi di numerazione, quella più antica, l’attica o l’acrofonica (i suoi simboli sono le iniziali dei nomi dei numeri), utilizzante delle lettere e quella ionica o alfabetica derivata dai fenici ed utilizzante anch’essa delle lettere, numerazioni che sono coesistite per lungo tempo(5).
Nella numerazione attica hanno una notazione solo i numeri cardinali. I suoi simboli si ottengono in modo fantasioso combinando graficamente le notazioni precedenti. E’ un


Da Pichot
Per quel che riguarda la numerazione ionica, per disporre di più simboli, si utilizzò un alfabeto antico che comprendeva le lettere arcaiche stigma, coppa e sampi. Dopo l’introduzione delle lettere minuscole in Grecia, l’associazione di lettere e numeri si presentava come nella tabella seguente:

Da Pichot
Per i primi nove multipli di mille, il sistema ionico ricorreva alle prime nove lettere dell’alfabeto. Ma per maggior chiarezza queste lettere erano fatte precedere da un apice in basso, per esempio , a. A partire da 10000 (miriade), la notazione ionica seguiva un principio moltiplicativo: il simbolo di un numero intero qualsiasi da 1 a 9999, se collocato al di sopra della lettera M, o dopo di essa, separato dal resto del numero mediante un puntino, indicava il prodotto dell’intero per il numero 10000. Qualora si volessero rappresentare numeri ancora più grandi, si poteva applicare lo stesso principio alla miriade doppia.
Le antiche notazioni greche per indicare i numeri interi non erano eccessivamente ingombranti e servivano efficacemente al loro scopo. Nell’uso delle frazioni, però, si rivelavano inadeguate. I greci, come gli egiziani, tendevano a usare frazioni con numeratore unitario. La notazione era molto semplice: scrivevano il denominatore e lo facevano seguire da un accento per distinguerlo dal numero intero corrispondente. Così aveva la forma l d ¢. Questa espressione, però, poteva essere confusa con quella del numero 30
: solo il contesto poteva chiarire il significato. Se poi si aveva una qualche frazione con numeratore maggiore di uno la scrittura prevedeva l’opposto di ciò che facciamo noi: si scriveva il denominatore sovrapposto al numeratore. Per arrivare all’uso di frazioni comuni e di frazioni sessagesimali bisognerà attendere l’influsso caldeo, arrivato tramite le tavole astronomiche, che fece conoscere il sistema sessagesimale. Con tale sistema si poterono scrivere frazioni in modo più semplice combinando il sistema sessagesimale di posizione con la numerazione alfabetica.
Come si vede si aveva a che fare con qualcosa che non era all’altezza di quanto d’altro hanno realizzato i greci: si trattava di una numerazione mal definita, confusa, equivoca e poco versatile a conti complessi. Le cose migliorarono solo con l’opera di Diofanto ed Archimede.
Per ciò che riguarda il calcolo erano molto diffuse in Grecia tavole di calcolo, abachi e pallottolieri. La novità, rispetto a ciò che sappiamo di Mesopotamia ed Egitto, è che in Grecia si era in grado di scrivere le operazioni che si effettuavano ed esse si realizzavano in modo analogo a ciò che facciamo ancora noi con le complicazioni dovute al non uso di un sistema posizionale. In pratica era relativamente semplice realizzare addizioni e sottrazioni, più complesso fare le moltiplicazioni (si realizzavano, come facciamo noi, dei prodotti parziali che dovevano poi essere addizionati), quasi impossibile fare la divisione. In ogni caso degli specialisti preparavano delle tavole da utilizzare proprio per fare conti complessi.
Ciò che è difficile capire è come sia stato possibile con questo povero apparato aritmetico fare le cose superbe che i greci hanno fatto in geometria.
4 – LE FONTI
Prima di iniziare è utile fornire un quadro di riferimento temporale e cronologico. Si è soliti suddividere la storia della Grecia in quattro periodi, ciascuno dei quali lungo circa 3 secoli:
– il periodo ellenico che va dal 600 fino al 300 a.C. (da Talete alla morte di Alessandro Magno, con i primi discepoli di Aristotele). Esso è caratterizzato dallo sviluppo libero ed in autonomia delle città greche;
– il periodo ellenistico o alessandrino comprendente i tre secoli successivi (fino alla conquista romana dell’Egitto nel 30 a.C.), periodo in cui si ellenizza tutto il mondo orientale a seguito della conquista macedone; il centro culturale diventa Alessandria (fondata da Alessandro Magno nel 331 a.C.) sulle foci del Nilo governata dalla dinastia dei Tolomei; tale centro si manterrà fino al 145-144 a.C., quando Tolomeo VIII fece sterminare tutti gli studiosi di origine greca (sembra in accordo con la politica di espansione di Roma);
– il periodo greco-romano che occupa i primi tre secoli dell’Era volgare e che vede gli ultimi scienziati e filosofi di alto livello (Lucrezio, Galeno, Strabone, Pappo, Diofanto) a seguito dell’evidente disinteresse di Roma per la scienza e la filosofia;
– il periodo dei commentatori o della decadenza che va dal 300 al 600 d.C. (fino al 529 quando l’imperatore Giustiniano decretò la chiusura della scuola di Atene confiscandone i beni con la conseguenza che gli ultimi filosofi che lì insegnavano si trasferirono in Persia) in cui finisce ogni tradizione scientifica e non si produce più niente di originale ma solo racconto delle cose precedentemente fatte in commentari contenenti notizie via via più lacunose.
A questa suddivisione temporale si può aggiunge la cronologia dei maggiori filosofi greci. Ad essi si dovranno affiancare scienziati puri come Archimede, Aristarco, Apollonio, Erone, Eratostene e vari altri (anche se, nell’economia del lavoro, non potrò occuparmi di tutti). Ed a proposito dei lavori

Da Pichot
di tutti questi grandi, vi è una fondamentale osservazione da fare ed è relativa alle fonti documentali a cui attingere per delineare le elaborazioni di determinati filosofi. Per lo studio della filosofia antica, agli albori della scienza, il problema delle fonti sulle quali si basa la nostra conoscenza è fondamentale. Lo storico della filosofia antica e quello della scienza si trova di fronte a problemi peculiari, in primo luogo dovuti alla carenza di materiale. Disponiamo qui di molti meno documenti di quanti se ne hanno per studiare la civiltà mesopotamica e quella egizia. Il periodo presocratico, definito come quello di tutti i pensatori antecedenti a Socrate fino a Democrito (nonostante sia un contemporaneo di Socrate), è un periodo di piccole città povere tecnicamente e con molti meno mezzi degli imperi a cui accennavo. Non ci si potevano permettere, ad esempio, gli scribi che documentassero la vita civile. Così i più antichi testi greci originali risalgono alla dinastia Tolemaica dell’Egitto (a partire dal III secolo a.C.) mentre le opere fondamentali della civiltà greca di cui disponiamo ci sono giunte (quando i cristiani non hanno pensato di distruggerle) tramite copie successive che spesso travisavano il testo. Riguardo ai testi dei primi filosofi e scienziati, secondo Pichot, vi devono essere anche motivi diversi da quelli suddetti. Uno potrebbe essere il superamento delle dottrine precedenti da parte di nuovi filosofi, come Platone ed Aristotele, che rendevano inutile conservare cose obsolete e quindi non le facevano ulteriormente copiare. Questa eventualità potrà dispiacere lo storico ma introduce l’aspetto evolutivo delle conoscenze tipico di una società dinamica e diverso dalle culture mesopotamiche ed egizie. Vi è poi l’aspetto non istituzionale dei pensatori presocratici che operavano in situazioni non paragonabili all’Accademia di Platone o al Liceo di Aristotele. Ma un altro motivo della perdita di opere importanti può risiedere in quanto racconta Forti: fu Platone, per motivi politici, ad incitare alla distruzione delle opere di Democrito. Si può immaginare che chi era ai confini della conoscenza dell’epoca potesse dispiacere a qualche tiranno e quindi essere cancellato attraverso la distruzione delle sue opere. Un ultimo motivo di perdita di opere è richiamato da Russo. Ho già accennato in altro lavoro, al fatto che alcune opere ci sono state tramandate dagli arabi che le avevano conservate mentre i cristiani le bruciavamo. Quel conservare, sia nel caso degli arabi che di chiunque altro lo abbia fatto, non deve intendersi come conservare tutto. La selezione che è stata fatta dai posteri ha privilegiato le compilazioni, le cose comprensibili a coloro che le dovevano curare e conservare, comprensibili cioè a persone di altre epoche con preparazione culturale generalmente povera. Si sono preferite le opere divulgative, a volte le introduzioni ad opere complesse, poi trascurate proprio perché difficili. Per ciò che riguarda la scienza si devono registrare le maggiori perdite proprio per il carattere generalmente più ostico dei libri che ne trattano. Così, mentre disponiamo di bellissime ed importantissime raccolte di opere letterarie, di nulla di simile possiamo disporre in campo scientifico: non disponiamo dell’opera completa di Archimede (pur essendo relativamente recente), neppure di quella di Apollonio, abbiamo l’opera di Filone di Bisanzio sugli esperimenti dimostrativi di pneumatica ma non il suo lavoro teorico a monte, la bella opera di Lucrezio ma non quella di Stratone di Lampsaco che sembra trattasse della natura delle cose, e così via.
In ogni caso nella filosofia antica vi sono importanti autori dei quali non abbiamo più le opere o disponiamo solo di pochi frammenti. L’importanza di certi filosofi potrebbe apparire spropositata rispetto al poco che si è conservato del loro pensiero o addirittura per chi non ha scritto nulla, come Pitagora o Socrate, e ha comunque acquisito una posizione di primo piano nella storia del pensiero. Si tratta dunque in primo luogo di avere ben presente di quali autori ci sono rimaste opere intere, di quali no e quali problemi sono legati alle opere così come oggi le leggiamo. Ad esempio molti filosofi li conosciamo per testimonianze indirette spesso poco attendibili, da loro scritti riportati da altri filosofi o da dossografi (studiosi che raccoglievano le dottrine dei vari filosofi classici) o da biografi. Non conosciamo spesso il contesto ed è quindi lecito porsi qualche dubbio. E’ il caso delle molteplici citazioni che sia Platone che Aristotele fanno e che è una delle fonti a cui generalmente si attinge. Ma anche dei vari commentatori del periodo della decadenza che non disponendo dei testi originali, fornivano notizie di seconda mano per tutti gli autori antecedenti ad Euclide. Tra questi commentatori è importante Proclo (410-485 d.C.) che ci fornisce una breve storia della matematica, indicata come Riassunto storico, da Talete ad Euclide. Qui abbiamo anche probabili notizie delle fonti di Proclo. Sembra che questi abbia attinto in parte a tal Gemino (I secolo a.C.), che scrisse una importante Storia delle matematiche (andata perduta), ed in parte al neoplatonico Porfirio (III secolo d.C.) che aveva iniziato a scrivere un commento all’opera di Euclide. Questi due commentatori avrebbero attinto, a loro volta, ad Eudemo (fine IV secolo a.C.), allievo di Aristotele, che scrisse una Storia della Geometria e dell’astronomia della quale ci resta titolo e qualche frammento. Altri commentatori che forniscono varie notizie, sempre di seconda mano ed oltre, sono Pappo (tra il III ed il IV secolo d.C.); Eutocio d’Ascalona (tra il V ed il VI secolo d.C.) che scrisse i Commentari ad Archimede; Simplicio (VI secolo d.C.) che scrisse i Commentari ad Aristotele ed il Commento ad Euclide (perduto).
Vi sono poi altri problemi di carattere più generale ed interno alle cose che discuterò. La qualifica di filosofo o scienziato, che ho già assegnato e continuerò a distribuire, è puramente accessoria e risponde solo ad una sorta di economia di pensiero all’alba di un mondo di conoscenze. Ogni studioso si occupa di tutto lo scibile ed è proprio dal crescere del cumulo e della varietà di conoscenze che si sente l’esigenza di suddividere e specializzarsi, esigenza che emergerà nel periodo ellenistico quando vi saranno scienziati che faranno solo gli scienziati. La filosofia è, alla sue origini, un tema multidisciplinare che rappresenta la voglia di conoscere e di capire il mondo in tutti i suoi risvolti, dalla sua essenza materiale fino al problema dell’essere che sarà presto affrontato.
E’ notevole, in Grecia, l’acquisizione di un nuovo spirito religioso che si potrebbe definire laico. Quel Paese ha ereditato molto materiale dalle culture mesopotamiche ed egiziane ma tale materiale è ora visto sotto una luce del tutto differente(6). Il greco non è più meramente succube del determinismo magico e delle causalità apparenti di divinità irraggiungibili e statiche. Egli inizia a resistere agli dei e ad opporre ad essi la propria volontà, innanzitutto di capire. In poche parole, come già accennato, non vi è più rassegnazione rispetto al mondo naturale ma, attraverso la novità del pensiero, la voglia di razionalizzarlo.
L’opera di Omero già ci presenta delle figure divine antropomorfe, più umane e più dialoganti di quelle distanti, malvagie, imprevedibili e oscuramente magiche delle culture precedenti. Gli stessi miti primitivi vengono riportati a catene causali (cielo, terra, notte, mare) che hanno il fine di giustificare l’origine naturale e la successiva evoluzione dal caos. Il dinamismo di quella società comporta la repressione di elementi magici e la ricerca di sistematicità. Ci si rese conto che ponendosi domande sul presente, ricercando la spiegazione di ciò che accade, si potevano porre domande anche sul passato andando ad indagare sempre più indietro fino all’origine ed alla natura delle cose. Nascono da qui le ipotesi sul primo generatore, sul principio primo che ha innescato il mondo che conosciamo e che non era come è. Anche la spiegazione quindi prevede cambiamento ed evoluzione a partire da un principio, da una arché (αρχή). Non più un mondo dato, statico e sul quale, oltre al non essere lecito, è addirittura inutile porsi domande. Inoltre non ci si accontenta più di acquisire un qualche sapere ma di coordinare i dati acquisiti, di rendere ragione delle apparenze e di ridurre i fatti ad un piccolo numero di principi. Ora si va ben al di là dell’uso pratico perché, oltre all’utilizzazione ed alla pur importante previsione, c’è ora la volontà di comprendere i fatti, di spiegarli, di ridurli a pochi principi, di giungere all’essenza delle cose. E’ il passaggio dal mito alla scienza. Per essere più chiari è pur vero che, ad esempio, a Mileto molte concezioni sviluppate avevano reminiscenze di miti antichi ma è altrettanto vero che esse prescindevano da forze soprannaturali. E scienza è anche il saper distinguere il naturale dal soprannaturale, il riconoscere che i fenomeni naturali non nascono dal caso o dal volere capriccioso di una qualche divinità ma da una successione di cause ed effetti che è possibile accertare. E’ inoltre vero che la gran maggioranza dei pensatori ellenici erano devoti anche a molte divinità ma è altrettanto vero che tali divinità non erano mai reclamate in modo esplicativo(7). Una scienza che si presenta sotto la forma di ragionamenti fondati su principi generali piuttosto che un insieme di esempi desunti da determinati problemi tecnici. E’ la fondazione di un metodo che sarà fecondo di risultati anche perché inaugurerà il dibattito, il contraddittorio, tra gli scienziati-filosofi. E la cosa non è secondaria. Nell’antico Egitto, come ricorda Lloyd, vi erano diverse teorie sul come era sostenuto il cielo. Ma il raccontarne una non implicava il confutare l’altra. Nessuno, che si sappia, si era mai occupato del fatto che alcune teorie potessero essere incompatibili tra loro. Non si cercavano cioè argomenti o prove per sostenere una teoria piuttosto che un’altra. Ciò comportava una staticità delle affermazioni che si potevano accumulare a piacere senza che nessuno le discutesse per tentare di falsificarle. Passando alla Grecia, il sostenere una teoria diventa alternativo ed in diretta competizione con il sostenerne un’altra che si occupasse della stessa problematica. Ciò implica la necessità di trovare sempre migliori argomentazioni, di mettere d’accordo la teoria con i principi invocati a suo sostegno, di sviluppare logica e ragionamento, in una espressione: di articolare il pensiero, pratica che è propria della scienza. Ed a questo punto occorre introdurre un elemento ben chiarito da Russo, ed è quello del perché la scienza in senso stretto si sviluppi ed affermi soprattutto in periodo alessandrino, sul perché i caratteri del periodo ellenico sono scientifici in senso lato. Abbiamo discusso della base di conoscenze provenienti da Egitto e Mesopotamia ma occorre specificare di più. Mentre nel periodo ellenico si viene a contatto con le nuove culture indirettamente, attraverso conoscenze trasferite da viaggiatori, da commercianti e comunque non coesistenti nei luoghi in cui venivano importate, è la conquista di Alessandro Magno di quei territori che porta a diretto contatto di quelle culture i greci già formatisi con le prime elaborazioni in epoca ellenica. Lo stretto contatto, la diretta sovrapposizione tra le due culture, quelle millenarie e stratificate e ricche di dati empirici di Egitto e Mesopotamia con quella razionale recentemente costruitasi nel Mondo Egeo, sarà uno dei fattori fondanti l’esplosione della scienza. I greci, con il loro bagaglio di razionalità si trasferiscono nei nuovi territori al seguito di Alessandro per gestire e controllare economie e tecnologie più avanzate ed in gran parte note solo per sentito dire, questa intersezione deve essere stata la molla per il passaggio dalle intuizioni elleniche alla grande scienza ellenistica in cui assistiamo all’esplosione del metodo scientifico, consistente nell’elaborazione di molte diverse “teorie scientifiche”, intese come modelli del mondo reale basati su sistemi di assunzioni esplicitamente individuate. […] Sembra suggestiva la congettura [che l’applicazione del metodo scientifico] sia stata favorita nei territori appartenuti all’impero di Alessandro, dalla contemporanea presenza di due culture e dall’abilità sviluppata dai Greci immigrati di usarle entrambe ai propri scopi, in particolare inquadrando nei propri schemi concettuali il gran numero di conoscenze empiriche trasmesse nelle culture egiziana e mesopotamica. [Russo]
E’ quindi in Grecia che nasce la scienza come sapere autonomo da religione e magia che si innalza sopra le tecniche.
5 – LA SCUOLA DI MILETO
Mileto è una città ionica a più intimo contatto con le antiche civiltà e certamente grandi furono le influenze in questa città di Egitto e Babilonia. Era una importante e ricca città, manifatturiera nel settore tessile e commerciale, del Mediterraneo ed al suo porto arrivavano navi commerciali sia dalla Grecia continentale che dalla Fenicia e dall’Egitto. Mentre i rapporti con Babilonia nascevano tramite le rotte delle carovane commerciali dirette all’Est. In questa città, come nelle altre sotto del mondo ellenico, era vivo il dibattito sulle forme di governo da dover adottare e qui più che nelle città mesopotamiche o egizie ogni cittadino si sentiva o era in qualche modo partecipe alle sorti del governo medesimo. Questa dialettica e libero scambio di opinioni fu anche delle teorie in campo scientifico ed il contributo più importante dei filosofi-scienziati di Mileto alla nascita della scienza fu proprio l’introduzione nella discussione delle cose naturali di un forte e fecondo spirito critico unito alla comune repulsione di ogni spiegazione soprannaturale dei fenomeni naturali. Si inizia a creare l’immagine di un uomo che agisce in modo razionale di fronte ai fenomeni naturali, che non ha soggezione nell’indagarla, che ha fiducia di scoprirne le leggi, che si libera pian piano dalla superstizione dll’animismo.
Purtroppo dei filosofi-scienziati di tale scuola (chiamati anche fisiologi perché studiosi della phýsis (jusiV), della natura), come del resto di tutti i presocratici, non conserviamo documenti e scritti di sorta. Conosciamo poco di questi personaggi e solo attraverso le citazioni di altri filosofi e compilatori posteriori con tutte le difficoltà che ciò comporta ed alle quali ho accennato. Ritengo inutile fare grandi discussioni ipotetiche su cosa avrebbe voluto dire tale personaggio. Preferisco riportare le cose che sembrano accertate, anche attraverso le citazioni di cui disponiamo.
5.1 – L’ORIGINE DELLE COSE. COSMOGONIA E COSMOLOGIA
Si suole indicare come primo naturalista dell’antichità classica Talete (circa 625 a.C.-550 a.C.) che sembra fosse di Mileto, fiorente città della Ionia, nella quale venne messo a punto quell’alfabeto di cui ho detto. Sembra da vari racconti, che egli fosse un uomo d’affari, che faceva viaggi avendo contatti con egizi e caldei, e che si dedicava anche ad osservare il mondo naturale circostante. Fu il primo che cercò spiegazioni naturali per i fatti naturali. I fenomeni che più sembra interessassero erano quelli relativi alla materia ed alle sue trasformazioni. Vi sono osservazioni empiriche elementari che mostrano un mondo materiale in continua trasformazione con alterazioni dei corpi, con alcuni che sembrano andare distrutti ad esempio nel fuoco, con altri che sembrano trasmutare. I dati empirici fanno vedere acqua che esce da una pietra, terra che affonda nell’acqua, acqua che diventa vapore, vapore che diventa nuvole, nuvole che rilasciano acqua, acqua che diventa “pietra” (cioè: ghiaccio), acqua che spegne il fuoco, fuoco spento dall’acqua che diventa terra, fuoco che s’innalza nell’aria, aria che affiora dall’acqua in bollicine … Ma anche acqua che vivifica i campi, che li rende fertili, che è necessaria alla germinazione, … A quanto ci risulta fu Talete il primo che tentò di trovare una qualche entità che fosse all’origine di tutte le cose proprio a partire da questi dati elementari. I dati a disposizione erano molti e Talete li intersecò con uno dei miti dell’antichità: l’acqua. Il mito era quello del diluvio che fu elaborato in Mesopotamia fin dal 2000 a.C. nell’Epopea di Gilgamesh(8), quello della “a” che nella lingua sumera significa acqua ma anche generazione, quello di Nun che per gli Egizi è la dea del mare, l’oceano primordiale che ricopriva tutto prima che nascesse il mondo e quindi sorgente di tutte le forme di vita. D’altra parte l’acqua è il mito più evidente per le due civiltà fluviali, Egitto e Mesopotamia, è la fonte della vita per quelle popolazioni. Ma il mito non interviene nelle spiegazioni, è solo lì, nello sfondo, un ricordo di una cultura antica che serve solo da confronto con i fatti concreti. Ed è l’acqua il principio cosmogonico che richiama Talete, come ci dice Aristotele nella Metafisica A (983 b 6 sgg.)(9):
La maggior parte di coloro che primi filosofarono pensarono che princípi di tutte le cose fossero solo quelli materiali. Infatti essi affermano che ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento ed è principio degli esseri, in quanto è una realtà che permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni. E, per questa ragione, essi credono che nulla si generi e che nulla si distrugga, dal momento che una tale realtà si conserva sempre […] infatti deve esserci qualche realtà naturale (o una sola o piú di una) dalla quale derivano tutte le altre cose, mentre essa continua ad esistere immutata […] Talete, iniziatore di questo tipo di filosofia, dice che quel principio è l’acqua (per questo afferma anche che la Terra galleggia sull’acqua), desumendo indubbiamente questa sua convinzione dalla constatazione che il nutrimento di tutte le cose è umido, e che perfino il caldo si genera dall’umido e vive nell’umido. Ora, ciò da cui tutte le cose si generano è, appunto, il principio di tutto. Egli desunse dunque questa convinzione da questo fatto e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno una natura umida e l’acqua è il principio della natura delle cose umide [ … ]. Ci sono alcuni secondo i quali anche gli antichissimi [ … ] cantarono che Oceano e Tetide sono gli autori della generazione [delle cose] e che il giuramento degli dèi è sull’acqua.
L’acqua, come abbiamo letto, è anche sostegno della Terra ed anche qui in accordo con le cosmologie sia egizie che mesopotamiche. E la cosa è confermata da Seneca che, a proposito della teoria dei terremoti di Talete, dice (nat. quaest. III 14):
Talete [ … ] ammette che la terra è sostenuta dall’acqua, che è trascinata come un’imbarcazione e che, quando si dice che trema [per il terremoto], allora essa fluttua per il movimento dell’acqua.
Le questioni astronomiche trattate da Talete e che conosciamo, si ricollegano alla sua cosmogonia e cosmologia. Questo mondo, come abbiamo letto, doveva essere piatto e galleggiante sull’acqua; doveva inoltre essere contenuto in una sorta di bolla semisferica. Gli astri che si trovano nella parte superiore di questa semisfera sono intesi non più come dèi ma come gli altri fenomeni naturali che appartengono al cielo (fulmini, nuvole, arcobaleno, …) di modo che astronomia e meteorologia sono la medesima cosa. Gli astri, che non sono più dèi, hanno la stessa natura della terra ma sono infuocati
Talete, Pitagora e i suoi discepoli hanno diviso la sfera dell’intero cielo in cinque parti che chiamano zone. Una di queste è chiamata artica ed è sempre visibile: un’altra è quella del tropico estivo: la terza è l’equinoziale: la quarta quella del tropico d’inverno e l’ultima è l’antartica, mai visibile [queste zone non corrispondono a quelle che noi oggi così definiamo, specialmente per i circoli artico e antartico, ndr]. Obliquo alle tre centrali si stende il cosiddetto zodiaco, che le tocca tutt’e tre. (Aezio, n 12,1 – Dox.340)
Talete credeva che gli astri fossero pietrosi ma infocati. (Ibid., II 13,1 – Dox. 341)
A questo punto abbiamo attribuzioni di scoperte che molto verosimilmente non sono di Talete. Il fatto che la Luna non ha luce propria ma la riceve dal Sole e che le eclissi di sole sono provocate dalla Luna che si interpone tra Terra e Sole, sono attribuibili ad Anassagora che affermerà tali cose un secolo dopo Talete. Riguardo infine alla predizione dell’eclissi (non si sa bene quale con eventuali retrodatazioni della nascita di Talete) o del 610 o del 585 vi sono seri dubbi e probabilmente l’informazione sarebbe potuta provenire dai caldei:
Talete per primo disse che il sole si eclissa quando la Luna, di natura terrosa, gli passa sotto perpendicolarmente. Allora la sua immagine, stando sotto il disco solare, si vede riflessa. (lbid. II 24,1 – Dox. 353)
Talete per primo disse che la luna è illuminata dal sole (Ibid., II 27,5 – Dox. 358)
Eudemo nella Storia dell’astronomia [ … ] dice che Talete predisse l’eclissi di sole che avvenne quando si scontrarono in battaglia tra loro i Medi e Lidi, essendo re dei Medi Ciassare, padre di Astiage, e dei Lidi Aliatte padre di Creso: si era intorno alla 50a olimpiade (580-577 a.c.). (Clemente Alessandrino, strom. I 65 [Il 41])
E’ certamente poco per costruirvi sopra commenti elaborati. Si può certamente dire che, di fronte alla possibilità fino allora praticata di attribuire tutte le cose al capriccio di un qualche dio ad una qualche eventualità magica, per la prima volta assistiamo alla ricerca di un’origine naturale, di una arché che deriva da semplici osservazioni empiriche. E’ una importante operazione intellettuale quella di sfidare la consuetudine con la ragione. Le spiegazioni sono certamente ingenue ma, questa come quelle che seguono, vanno lette non tanto per quello che dicono, quanto per ciò che, affermando, escludono e cioè le spiegazioni soprannaturali, metafisiche e magiche.
Si tratta di una prima teoria che si mette in campo pronta per essere negata, falsificata, sostituita. E’ il primo passo fondamentale di un lungo cammino.
Questa ricerca di un qualche principio ordinatore di tutti i fenomeni che ci circondano era la ricerca (ancor oggi perseguita) di un qualche invariante in mezzo a qualcosa che ha l’apparenza del caos. Sulla strada aperta da Talete, la ricerca dell’arché, si mossero subito anche altri.
Anassimandro (circa 610 a.C.-545 a.C.) era d’altra opinione. Anch’egli di Mileto e contemporaneo di Talete (e probabilmente interlocutore del primo), era anch’egli sostenitore di un principio unico all’origine di tutte le cose, ma sosteneva che tale principio fosse l’àpeiron (άπειρον), quella condizione primordiale della realtà in cui tutti gli elementi non sono ancora distinti e condividono uno stesso stato indefinito e imprecisato, un qualcosa di intermedio tra infinito ed illimitato, un indefinito quantitativo e qualitativo, che comprende in sé sia l’acqua sia qualunque altro elemento, dal quale i cieli ed i mondi in esso esistenti provengono (il caos ?). Contrariamente a Talete, che aveva indicato un elemento naturale, e quindi attuale e definibile, ad origine del mondo, Anassimandro teorizza un’origine da un qualcosa che tutto comprende in sé ma con caratteristiche di indeterminatezza che lo differenzino dagli elementi attuali. Non sembri questo un ritorno al passato perché non vi sono qui creazioni successive realizzate da un’entità superiore ma una natura (phýsis), che si autogenera, cresce e diviene perché la natura è in sé un qualcosa che simultaneamente è e diviene. Leggiamo di seguito la dossografia che riguarda il nostro fisiologo:
Anassimandro, figlio di Prassiade, milesio, successore e discepolo di Talete, ha detto che principio ed elemento degli esseri è l’apeiron, avendo introdotto per primo questo nome del principio. E dice che il principio non è né l’acqua né un altro dei cosiddetti elementi, ma un’altra natura infinita dalla quale tutti i cieli provengono e i mondi che in essi esistono: da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’origine del tempo, e l’ha espresso con vocaboli poetici. È chiaro che avendo osservato il reciproco mutamento dei quattro elementi (terra, aria, acqua, fuoco, ndr) ritenne giusto di non porne nessuno come sostrato, ma qualcos’altro oltre questi. Secondo lui, quindi, la nascita delle cose avviene non in seguito ad alterazione dell’elemento, ma distacco dei contrari a causa dell’eterno movimento (Simplicio – Phys. 24,13)
Anche in Anassimandro, dunque, come in Talete, vi è la ricerca dell’arché (ed abbiamo ora letto che sarebbe stato Anassimandro il primo a ricercare tal cosa), di un qualcosa che sia all’origine delle trasformazioni, delle modificazioni, dell’ essere e del divenire. Tale origine, come si può leggere alla fine del brano di Simplicio, sembra risiedere non tanto in una materia che si modifica, perché tutti gli elementi preesistono nell’apeiron in opposizione cioè nel disordine, quanto nella separazione di tali opposizioni(10) e quindi nell’organizzazione di un ordine(11). Ed anche in Anassimandro vi è il tentativo di organizzare il mondo in una cosmologia che per quanto ingenua, si sgancia dalle cosmologie metafisiche. L’apeiron originale genera il mondo a partire dalla separazione del caldo e del freddo; il caldo divenne una sfera di fuoco che circondò l’aria che circonda la Terra; a sua volta la sfera di fuoco si ruppe in modo tale da originare gli astri che consistono in anelli di fuoco disposti intorno all’aria, dappertutto occultati da un involucro opaco che li contiene meno che nei punti da dove vediamo provenire luce (fori nell’involucro opaco che, quando si chiudono, originano le eclissi); il freddo rimase invece in basso dove risiedono la terra, l’acqua e l’aria.
[Anassimandro] diceva che principio delle cose era una certa natura dell’Illimitato, dalla quale si producono i cieli e l’ordinamento che v’è in essi. Essa è eterna e insenescente e abbraccia tutti i mondi. […] (Costui) ha per primo indicato il nome del principio: che inoltre è eterno e per esso di conseguenza si formano i cieli. Secondo lui la terra è librata in alto, non è sostenuta da niente e rimane sospesa perché ha uguale distanza da ogni cosa. La sua forma è rotonda, sferica, simile a una colonna di pietra: delle sue superfici [di base, ndr] l’una è quella sulla quale noi ci muoviamo, l’altra sta dalla parte opposta. Le stelle sono sfere di fuoco staccatesi dal fuoco del cosmo avvolte nell’aria: hanno degli sfiatatoi, una sorta di nubi a forma di aula, da cui appaiono le stelle. Di conseguenza, quando tali sfiatatoi sono otturati, si hanno le eclissi. Così la luna talvolta appare piena, talvolta scema, in rapporto alla chiusura o apertura di tali tubi. Il cerchio del Sole è ventisette volte più lungo di quello della Luna, e 19 volte quello della Luna. Nella zona più alta è il sole, in quella più bassa le sfere delle stelle fisse. (Ippolito ref. I 6,1-7 – Dox. 559)
Dice che la terra ha forma cilindrica e altezza corrispondente a un terzo della larghezza. Dice che che l’elemento il quale, a partire dall’eternità, produce caldo e freddo si separò alla nascita di questo mondo e che da esso una sfera di fuoco si distese intorno all’aria che avvolgeva la terra, come corteccia intorno all’albero: spaccatasi poi questa sfera e separatasi in taluni cerchi, si formarono il sole, la luna e gli astri. (Pseudo-Plutarco, strom. 2 – Dox. 579)
[Gli astri sono] involucri spessi d’aria a forma di ruota, pieni di fuoco, che in una parte dalle aperture spirano fiamme. (Aezio, II 13,7 – Dox. 342)
Anassimandro dice che [il sole] è una sfera ventotto volte la terra, molto simile alla ruota di un carro, col cerchio incavato e pieno di fuoco, che in una parte attraverso l’apertura mostra il fuoco, come attraverso la canna di un aulo. (lbid., II 20,1 – Dox. 348)
Anassimandro dice che il sole ha le stesse dimensioni della terra, ma che il cerchio dal quale ha la sua espirazione e dal quale è trascinato è ventisette volte la terra. (lbid., II 21,1 – Dox. 348)
Anassimandro dice che [la luna] è una sfera 19 volte la terra, simile a (ruota) di carro, che ha il cerchio incavato e pieno di fuoco come quello del sole, è posta in posizione obliqua al pari di quello, ed è munita di uno sfiatatoio, simile alla canna di un aulo. (lbid., II 25,1 – Dox. 355)
In definitiva la Terra, nel suo insieme cilindrica, è al centro dell’universo e non è equilibrata proprio dal suo essere equidistante da tutte le cose. Intorno ad essa vi sono vari anelli di fuoco (dei quali noi riusciamo a vedere solo il punto in cui è forata la cappa opaca che circonda la Terra). L’anello degli astri fissi è il più vicino alla Terra, poi viene l’anello della Luna, poi quello del Sole. Il diametro degli anelli è valutato in 9 volte quello della Terra per gli astri fissi, 18 (o 19) volte quello della Terra per l’anello della Luna, 27 (o 28) volte quello della Terra per il Sole (sembrerebbe qui di intravedere niente altro che multipli di 3). Così che il Sole

Il cosmo di Anassimandro
risulta essere l’anello più distante dalla Terra. Si osservi che, per quanto si inizi a ipotizzare un centro intorno a cui ruota qualcosa in cerchio, sembra manchino le conoscenze dei pianeti distinti dalle stelle fisse.

Probabile mappa della Terra come concepita da Anassimandro
A questo punto resta solo da vedere(12) come è concepita la meteorologia che si inizia a differenziare dall’astronomia in quanto la prima offre fenomeni casuali mentre la seconda inizia ad essere pensata come ciclica. Le spiegazioni, ancora ingenue e fantasiose, dei vari fenomeni sono quelle delle dossografie e non meritano commenti di sorta:
[ … ] dapprima tutta la zona intorno alla terra era umida, ma poi fu seccata dal sole e la parte evaporata [ … ] produsse i venti, le rivoluzioni del sole e della luna, mentre quella che rimase fu il mare; perciò [ … ] il mare [diventa] sempre più piccolo e alla fine sarà tutto secco. (Aristot., meteor. 8 1.355 b 6)
Riguardo ai tuoni, alle folgori, ai lampi, ai turbini, ai tifoni. Per Anassimandro tutti questi fenomeni sono prodotti dal vento: infatti quand’esso, racchiuso in una nuvola spessa, riesce, per sottigliezza e leggerezza delle sue parti, a fuoriuscire con violenza, allora la rottura della nuvola produce il fragore, mentre la dilatazione della massa nera il chiarore. (Aezio, II 3,1 – Dox. 367)
Anassimandro dice che il vento è una corrente d’aria provocata dalle particelle più leggere ed umide in essa contenute, che, sotto l’azione del sole, si mettono in movimento o evaporano. (lbid. III 7,1 – Dox. 374)
Le piogge [sono provocate] dal vapore che sotto l’azione del sole s’innalza dalla terra; i fulmini poi quando il vento, piombando sulle nuvole, le squarcia. (Ippolito, ref I 6,7 – Dox. 559)
Altra ulteriore origine del mondo è quella individuata dall’altro milesio, Anassimene (circa 588 a.C.-527 a.C.). Il nome che le dà il nostro fisiologo è apeiron e sembrerebbe la stessa entità individuata da Anassimandro. In realtà, leggendo quel poco di cui disponiamo, ci accorgiamo che con apeiron Anassimene torna ad una sostanza più vicina ai nostri sensi e più in linea con Talete. Il principio universale è, per il nostro, l’aria. Egli sostiene la sua teoria con osservazioni empiriche: l’aria raffreddandosi si condensa e diventa prima acqua e poi terra (condensazione), riscaldandosi invece si dirada e diventa fuoco (rarefazione). Leggiamo cosa scrivono i dossografi:
Anassimene anch’egli di Mileto, figlio di Euristrato, disse che il principio è l’aria infinita e che da essa vengono le cose che si producono, quelle che sono prodotte e quelle che si produrranno, gli dèi e le cose divine, mentre le altre cose vengono da ciò che è suo prodotto. L’aspetto dell’aria è questo: quand’è tutta uniforme, sfugge alla vista, mentre si mostra col freddo e col caldo, con l’umido e il movimento. E si muove sempre perché, se non si muovesse, tutto quel che si trasforma non si trasformerebbe. Condensata e rarefatta appare in forme differenti: quando si dilata fino ad essere molto leggera diventa fuoco, mentre poi condensandosi diviene vento; dall’aria si producono le nuvole per condensazione e se la condensazione cresce, l’acqua, se cresce ancora, la terra e all’ultimo grado le pietre. Sicché i contrari fondamentali per la generazione sono il caldo e il freddo. (Ippolito, ref I l 7 – Dox. 560)
Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, sostenne che l’aria è il principio delle cose: dall’aria tutto deriva e in essa poi tutto si risolve. Come l’anima nostra – egli dice – che è aria, ci tiene insieme, così il soffio e l’aria abbracciano tutto il mondo. (Aezio, I 3,4 – Dox. 278)
E l’aria, impercettibile ed indefinita quando è immobile, diventa materiale e sensibile solo quando è soggetta ad un qualunque cambiamento e genera la terra per solidificazione. La terra poi, essendo piatta, è mantenuta sospesa dall’aria stessa. Lo stesso accade per tutti gli astri. Gli astri, tra cui Sole e Luna, sono della stessa natura della Terra; il Sole è infuocato a causa del suo rapido movimento.

Il cosmo di Anassimene
Tale movimento non è poi tale da occultare gli astri sotto la terra; gli astri ruotano nel cielo con un moto che noi diremmo svolgersi in un piano parallelo al piano della terra e si occultano dietro le parti più elevate di terra:
[ … ] il movimento esiste dall’eternità. Egli sostiene che, solidificatasi l’aria, per prima si forma la terra la quale è molto piatta – e pertanto a ragione si mantiene sospesa nell’aria -: il sole, la luna, le altre stelle hanno il principio della nascita dalla terra. Afferma infatti che il sole è terra, la quale per la rapidità del movimento si è molto infocata ed è diventata incandescente. (Pseuudo Plutarco; strom. 3 – Dox. 579)
La terra è piatta e si sostiene nell’aria: così pure il sole e la luna e le altre stelle tutte, che sono di natura ignea, vengono sostenute dall’aria per la loro forma piatta. Le stelle hanno origine dalla terra, a causa dell’umidità che da essa si leva e che, fattasi leggera, diventa fuoco e dal fuoco sollevato in alto si formano le stelle. Nella zona delle stelle ci sono anche corpi di natura terrosa trasportati insieme ad esse. Dice pure che le stelle non si muovono sotto la terra, come altri ha supposto, ma intorno alla terra, al modo che il berretto si avvolge intorno al nostro capo. Il sole si cela ai nostri occhi non perché sta sotto la terra, ma perché è riparato dai luoghi della terra molto alti e perché la sua distanza da noi è molto grande. Le stelle non riscaldano a causa della grande distanza. (Ippolito, ref 1 7 – Dox. 560)
Dall’aria nascono anche fenomeni meteorologici come nuvole, pioggia, neve, grandine, per compressione, condensazione e raffreddamento. Dal raffreddamento e riscaldamento violenti della terra derivano anche i terremoti, mentre l’arcobaleno è effetto dei raggi del sole che attraversano aria condensata. Fantasiosa è la teoria del fulmine che nascerebbe da nubi strappate.
I venti si producono quando l’aria condensata è spinta in movimento: quando si comprime e si condensa ancor più si formano le nuvole e così si trasforma in acqua. Si produce la grandine quando l’acqua, scendendo giù dalle nuvole, si gela, la neve, invece, quando questa stessa acqua che si gela contiene una forte dose di umidità. La folgore, quando le nuvole sono squarciate dalla violenza dei venti; squarciate queste, si forma un bagliore luminoso e infocato. L’arcobaleno, quando i raggi del sole cadono sull’aria condensata; il terremoto, quando la terra subisce una violenta alterazione in seguito a riscaldamento e raffreddamento. (Ippolito, ref 1 7 – Dox. 560)
5.2 – IL DIVENIRE
Eraclito di Efeso (535 a.C.– 475 a.C.), città un poco più a nord di Mileto, è un deciso oppositore delle teorie sviluppate dai milesi(13) pur muovendosi, anch’egli, nell’individuazione di un principio primo da cui derivano tute le cose. Per Eraclito l’attenzione comunque deve puntarsi non tanto sul primo elemento, che comunque egli ritiene essere il fuoco, quanto sull’incessante cambiamento, sul continuo divenire del mondo, a seguito di conflitti tra opposti (Anassimandro) che però non possono fare a meno l’uno dell’altro, fino al punto di diventare l’essenza di esso. E’ in quel conflitto ed interdipendenza tra gli opposti ma anche nell’armonia tra di essi che risiede l’ordine della natura, il logos (λόγος). Come arrivare a comprendere fino in fondo questo logos universale ? Utilizzando quella piccola parte di cui ciascuno di noi dispone, la ragione (tentativo di fornire una spiegazione della conoscenza stessa). Questo logos risulta un’entità troppo astratta e, per arrivare ad essa, Eraclito passa attraverso il fuoco che è elemento fluido e mobile che ben si presta al cambiamento e quindi al divenire. Passando ad osservazioni empiriche (un poco zoppicanti): il fuoco produce il vapore; questo quando si condensa, dà acqua; questa, quando solidifica, diventa terra (ghiaccio); la terra in liquefazione produce acqua; e l’acqua fornisce di nuovo vapore che dà di nuovo il fuoco. Questo è il ciclo che ha presente Eraclito, inteso come un ruotare continuo degli elementi: quelli leggeri salgono e quelli pesanti scendono. Ma questo ciclo fa intendere che il fuoco che egli ha in mente non è un mero fuoco materiale ma un qualcosa d’intelligente che, oltre ad essere principio è anche regolatore delle trasformazioni (il logos reso sensibile). E, a ben guardare, questa rotazione è una continua sostituzione di entità con il loro contrario; riusciamo quindi ad intravedere la lotta tra contrari(10) come una continua sostituzione dell’uno con l’altro; ed in realtà uno, come accennato, non può esistere senza l’altro come dimostra il fatto che il secco diventa umido e l’umido diventa secco. Inoltre il fuoco riassume in sé le caratteristiche della lotta tra gli opposti. Esso ora c’è, ora svanisce. Come il sole che ora brilla ed ora non c’è più, nel continua e regolare ritmo che ci offre. Ed è questo che interessa Eraclito: affermare il divenire ed il cambiamento ma in un ordine regolato da ritmi ciclici e non casuale. Il fuoco è esemplificativo di questo costante divenire, di dinamicità, di trasformazione, di identità degli opposti e di regolatore di tempo: dove c’è il fuoco c’è la vita ma anche il suo opposto, la morte(14). Ed anche l’anima, imprigionata nel corpo, è ignea ed è quella parte di logos di cui dicevo più su, è cioè ragione. Come già detto vi è un continuo alternarsi di una entità con il suo opposto (notte/giorno, veglia/sonno, estate/inverno, …); l’esistenza di questi cicli fa immaginare ad Eraclito l’esistenza di un ciclo universale che li comprende tutti; tale ciclo è da lui chiamato il grande anno (numericamente formato da anni discordanti tra vari frammenti ma con la caratteristica comune di essere multipli di 60 fatto che dimostra una influenza mesopotamica); conclusosi il grande anno sarà il fuoco a riprendere in mano il tutto con un grande incendio. Da questo momento tutto riprenderà in un nuovo ciclo di grande anno. Leggiamo ora queste cose in alcune dossografie:
[Anche] Ippaso di Metaponto ed Eraclito di Efeso sostengono che unico è il principio, in moto e limitato, ma questo principio lo identificano con il fuoco; dal fuoco fanno derivare, per condensazione e rarefazione, tutte le cose che sono e nel fuoco tutte le risolvono, poiché questa è l’unica natura che costituisce il sostrato. Tutte le cose, dice Eraclito, sono trasformazioni del fuoco e introduce anche un certo ordine e un tempo definito del mutamento del cosmo, secondo una necessità fatale. (Simplicio, phys. 23,33)
Eraclito e Ippaso da Metaponto sostengono che principio di tutte le cose è il fuoco ed affermano che dal fuoco nascono tutte le cose e che nel fuoco tutte hanno fine. Man mano che il fuoco si viene estinguendo si forma l’intero cosmo: dapprima, infatti, la parte più densa del fuoco si raccoglie in se stessa e nasce la terra; in seguito, la terra si scioglie ad opera del fuoco e naturalmente si produce l’acqua, che evaporando dà luogo all’aria. Di nuovo, alla fine, il cosmo e tutti i corpi sono dissolti dal fuoco nell’incendio universale. (Aezio, strom. I 3,11 – Dox. 283)
Eraclito identifica il fuoco periodico con il dio eterno, il destino con il logos che produce tutte le cose dall’opposizione dei contrari (Ibid., I 7, 22 – Dox. 303)
Secondo Eraclito tutto avviene secondo il destino e questo è la stessa cosa che la necessità. (Ibid., I 27,22 – Dox. 322)
Eraclito mostrò che l’essenza del destino è il logos diffuso nella sostanza dell’universo. Ed essa è un corpo etereo, seme della generazione universale e del ciclo ordinato secondo misura. (Ibid., I 28,1 – Dox. 323)
[ … ] il fuoco è l’elemento di tutte le cose e tutte le cose sono mutazioni del fuoco [ … ] producentisi per rarefazione e condensazione [ … ]. Tutto accade secondo l’opposizione e tutto scorre come un fiume; l’universo è limitato ed esiste un unico cosmo. Esso nasce dal fuoco e di nuovo sarà arso dal fuoco secondo periodi determinati e vicendevoli per tutta l’eternità: è il destino che determina questo accadere. E dei contrari, quello che spinge alla nascita è chiamato guerra e contesa, mentre quello che spinge alla distruzione ad opera del fuoco è chiamato accordo e pace e il mutamento, secondo cui viene a nascere il cosmo, prende il nome di via all’in su e all’in giù. (Diogene Laerzio, IX, 1-17)
Esplicitamente Eraclito afferma che l’uomo non è razionale e che solo l’involucro celeste possiede intelligenza. (Sesto Empirico, adv. math. VIII 286)
Poiché, secondo Eraclito, assorbiamo con la respirazione questa ragione divina, noi diventiamo intelligenti, e mentre nel sonno ne diventiamo dimentichi, al risveglio ne abbiamo di nuovo coscienza; nel sonno infatti i pori della sensibilità si restringono e l’intelletto che è in noi si trova separato dalla comunità che noi intratteniamo con l’involucro celeste (resta solo, attraverso la respirazione, una congiunzione, come una radice), ed essendo separata, perde quella capacità di ricordare che aveva prima; al risveglio, di nuovo sporgendosi avanti attraverso i pori sensibili, quasi fossero piccole finestre, e rientrando in comunicazione con il cielo, riacquista la facoltà razionale. Allo stesso modo, infatti, che i carboni, accostati al fuoco, diventano per mutazione incandescenti e, separati, si spengono, così anche quella parte (d’intelletto) che proviene dall’involucro celeste e che è colta nei nostri corpi diventa, a causa della separazione [dal fuoco celeste] quasi del tutto incapace di ragionare, mentre, in virtù del contatto naturale attraverso la moltitudine dei pori, diviene omogenea al tutto. Questa ragione, dunque, comune, divina, e per la quale diventiamo razionali, Eraclito dice che è il criterio della verità (Ibid., VII 126-34 [129-31])
Il passaggio all’astronomia è piuttosto deludente e non ci fornisce nozioni originali. Gli astri sarebbero assimilati a bracieri pieni di fuoco che camminano lungo il cielo (reminiscenza egizia); essi sono più lontani da noi dal sole e per questo sono meno luminosi e caldi. La luna, pur essendo l’astro più vicino a noi, non risplende e scalda come il sole perché non è fatto di una sostanza pura. Nella loro circolazione questi catini oscillano e, nel farlo, a volte rivolgono verso di noi meno o nessun fuoco: è perciò che osserviamo le eclissi.
La meteorologia è anch’essa poca cosa ed ha una sola dossografia.
Le esalazioni avvengono dalla terra e dal mare, e le une sono chiare e pure, le altre oscure: mentre il fuoco [degli astri] si accresce per quelle luminose, l’umido si accresce per le altre. Di che natura sia ciò che circonda la terra egli non chiarisce: asserisce tuttavia che in esso si trovano [cavità a forma di] catini, che volgono verso di noi le parti concave, nelle quali si raccolgono le esalazioni luminose, che s’infiammano: e queste fiamme sono gli astri. La fiamma del sole è la più luminosa e la più calda. E mentre gli astri sono molto distanti dalla terra e per questo sono meno luminosi e meno caldi, la luna invece, che pure è la più vicina, è meno luminosa e meno calda perché non si muove nella regione pura; [ … ] Le eclissi del sole e della luna sono prodotte dalla rotazione verso l’alto dei rispettivi catini, mentre le fasi mensili della luna avvengono per il graduale ruota re su se stesso del suo catino. I giorni, le notti, le stagioni, le piogge annuali, i venti e tutti gli altri fenomeni dello stesso genere si producono secondo le differenti esalazioni. L’evaporazione luminosa, infatti, incendiandosi nel cerchio del sole, produce il giorno; quella contraria, invece, quando prevale, produce la notte. E il caldo, accrescendosi per l’evaporazione luminosa, porta l’estate; mentre l’umido, facendosi più intenso per l’evaporazione oscura, porta l’inverno. (Diogene Laerzio, IX 1-17 [9-11])
Eraclito sostiene che il sole è una massa infuocata intelligente che sorge dal mare. (Aezio, strom. n 20,16 – Dox. 351)
Secondo Eraclito [il grande anno] risulta di 10800 anni solari. (Ibid., n 32,3 – Dox. 364)
Eraclito ritiene che il tuono è prodotto dai vortici di vento e di nuvole e dagli urti dei soffi contro le nuvole; le folgori sono dovute alla combustione delle esalazioni, i lampi [e gli uragani] all’accendersi e allo spegnersi delle nuvole. (Ibid., In 3,9 – Dox. 369)
5.3 – LA MATEMATICA DI TALETE
Tra i pensatori scientifici che abbiamo discusso, l’unico noto per essersi occupato di matematica è Talete. Egli viene ricordato per aver dato importanti contributi alla geometria, a quella parte che finalmente passa da applicazione pratica a enunciazione di teorema (Talete non fa dimostrazioni), ma varie cose a lui attribuite non hanno riscontri storici. I teoremi che risultano essere suoi, e sui quali vi è accordo, gli sono attribuiti da Proclo (V secolo d.C.)che attinse ad Euclide (III secolo a.C.) il quale si riferiva a Talete (VI secolo a.C.)
“Il cerchio è dimezzato da un suo diametro qualsiasi”
“Se due rette si intersecano, gli angoli opposti tra loro sono uguali”
“Gli angoli alla base di un triangolo isoscele sono uguali”
“Un triangolo è determinato se è data la sua base ed i due angoli relativi a questa base”
“Primo e secondo criterio di uguaglianza tra triangoli”
“L’angolo inscritto in una semicirconferenza è retto”
“La somma degli angoli interni di un triangolo è di 180° “
Si tratta di enunciati di carattere generale, di proposizioni forse dimostrate, anche se la cosa non ha alcun riscontro, ma certamente affermate per ragioni di simmetria o piuttosto di pratica consuetudine. Il passaggio a proposizioni generali rappresenta in sé un grande passo in avanti rispetto a quanto si era fatto in Egitto e Mesopotamia. Da questi enunciati nascerà presto l’esigenza della dimostrazione che comporterà la nascita del metodo deduttivo ed il completo rivolgimento che i matematici greci apporteranno alla scienza geometrica.
I problemi che avrebbe risolto sono:
“Determinazione della distanza di una nave dalla costa”
“Determinazione dell’altezza di un obelisco od una piramide dalla misura delle loro ombre” (proporzionalità tra ombra di obelisco/piramide con ombra uomo rapportata ad altezza incognita di obelisco/piramide ed altezza nota uomo).
Per contro, il Teorema di Talete non sembra esser suo. Sembra che egli disponesse dei risultati di matematici babilonesi: “la parallela al lato di un triangolo divide gli altri due in parti proporzionali“.
Come utile digressione presento ora il modo con cui Talete avrebbe risolto i due problemi suddetti. Egli piantò un bastone nel suolo e misurò la sua altezza (A’B) e la lunghezza della sua ombra (A’B’).

Misurò poi la lunghezza (OA’) dell’ombra della piramide (per farlo basta misurare la metà del lato di base della piramide ed aggiungerlo alla lunghezza della parte di ombra che fuoriesce dalla piramide medesima) e, con una semplice proporzione fornì con precisione l’altezza della piramide (OA):
A’B : A’B’ = AO : OA’ =>
AO = (A’B . OA’)/A’B’.
Su questo problema riporto tre dossografie:
Ieronimo [ … ] dice che [Talete] misurò anche l’altezza delle piramidi dall’ombra, avendo osservato quando la nostra ombra ha la stessa altezza del corpo. (Diogene Laerzio, Vite, L 22-44)
Talete di Mileto riuscì a determinare la misura dell’altezza delle piramidi, misurandone l’ombra nel momento in cui suole essere pari al corpo che proietta. (Plinio, Storia Naturale, XXXVI, 82)
Piantata un’asta al limite dell’ombra che la piramide proiettava, poiché i raggi del sole investendole formano due triangoli, tu [Nilosseno si rivolge a Talete] dimostrasti che piramide e asta stanno tra loro nella stessa proporzione in cui stanno le loro ombre. (Plutarco, conv. VII sap., 2, p.147 A)
Per quel che riguarda la misura della distanza di una nave dalla costa, vi sono vari procedimenti possibili, tre riportati da Pichot che si possono leggere nella figura seguente, ed uno che racconto io.

Da Pichot
L’altro procedimento, illustrato nella figura seguente, prevede che l’osservazione della nave si faccia dall’alto di una torre d’avvistamento e consiste sempre nella similitudine tra triangoli.

L’osservatore si trova su una torre: in O vi sono i suoi occhi ed in H il punto in corrispondenza del quale egli sostiene un’asta parallela al livello del mare. L’osservatore traguarderà la nave attraverso un punto in cui la direzione del suo sguardo interseca l’asta e ciò fornirà la lunghezza di HP. Osservando la figura si vede che disponiamo di due triangoli OHP ed OBN che, come si può facilmente apprezzare, sono simili. Si ricava allora
BN : HP = OB : OH => BN = (HP.OB)/OH.
6 – LA SCUOLA PITAGORICA
Sulla stessa strada della ricerca di un principio unificatore si mossero, una cinquantina d’anni dopo, Pitagora (571- 497 a.C.) e la sua scuola. Questa volta il principio unificatore discendeva direttamente dalla matematica e, particolarmente, dall’armonia di certi numeri e certe proporzioni.
Di Pitagora si sa poco. Alcuni mettono in dubbio addirittura che sia esistito. E tutto nasce dal fatto che egli riteneva più utile la tradizione orale che non quella scritta, con il risultato che sembra non abbia lasciato scritti. Alcune cose, raccontateci da altri filosofi e dai dossografi, sono state riprese da scritti dai suoi discepoli. Ma ciò confonde ancora il tutto perché non sappiamo in realtà quale siano i suoi contributi originali e quali dei discepoli. Io mi riferirò a Pitagora ma resta inteso che il vero soggetto è la scuola pitagorica.
Nacque a Samo, un’isola greca dell’Egeo, figlio di un ricco artigiano e commerciante (e di una donna fenicia) che gli procurò i migliori maestri del tempo (tra gli altri, si dice Talete, ma con la cosa non va d’accordo con le età, ed Anassimandro). Viaggiò lungo l’Asia Minore, in Egitto ed in Mesopotamia; visitò le isole dell’Egeo fino ai suoi 40 anni quando, per sottrarsi al tiranno Policrate, si trasferì a Crotone (Calabria) nella Magna Grecia, dove fondò la sua scuola, una specie di setta, che assunse presto i caratteri di una religione con l’importante caratteristica che ammetteva anche le donne e di praticare con la consegna del segreto. La setta, una comunità esoterica per iniziati(15), era dedita alla contemplazione, alla ginnastica e ad un insieme di attività non disgiungibili: musica, aritmetica, geometria, astronomia. Era legata al partito aristocratico ed aveva un gran peso nelle vicende della città. Il simbolo di riconoscimento di appartenenza alla setta era il ‘pentagramma’ una stella a cinque punte inscritta in un cerchio (vedi oltre).
Verso la fine del secolo, i pitagorici, che erano diventati molti(16) ed avevano accresciuto notevolmente il loro potere, furono cacciati dalla città da una sommossa democratica con annessi massacri dei suoi membri. La scuola fu dispersa e Pitagora trovò rifugio a Metaponto, una città nel Golfo di Taranto, dove insegnò per qualche anno fino alla sua morte. Alcuni discepoli fuggirono in Sicilia, altri tornarono in Grecia, dove seguirono nei loro insegnamenti.
Leggiamo ora le cose che alcuni dossografi hanno scritto:
Pitagora di Mnesarco era, secondo Ippoboto, di Samo; secondo Aristosseno, nella Vita di Pitagora [ … ] e Aristarco [ … ] e Teopompo [ … ] tirreno; secondo Neante [ … ] o sirio o tirio. Per la maggior parte degli scrittori Pitagora era dunque di stirpe barbara. (Clemente Alesssandrino, strom. I 62)
[ … ] Eraclide Pontico tramanda che [Pitagora] diceva questo di sé, che una volta era stato Etalide e considerato figlio di Ermes, e che Ermes gli aveva promesso di domandargli qualunque cosa volesse, tranne l’immortalità. Egli aveva allora domandato di poter serbare ricordo degli avvenimenti durante il ciclo delle nascite e delle morti.
Così ricordava tutto durante la vita, e anche dopo la morte serbava il ricordo. In seguito era tornato in vita nel corpo di Euforbo, ed era stato ferito da Menelao. Ed Euforbo raccontava d’essere stato una volta Etalide, e d’aver avuto quel dono [della metempsicosi] da Ermes, e diceva quali erano state le peregrinazioni della sua anima, e in quante piante e in quanti animali era venuta, e che cosa aveva sofferto nell’Ade, e che cosa sopportavano le altre anime.
Poi, dopo la morte di Euforbo l’anima era passata in Ermotimo […]. Morto Ermotimo, era rinato come Pirro di Delo, pescatore [ … ]. Morto Pirro, era rinato come Pitagora, e ricordava tutta la storia ora raccontata. (Diogene Laerzio, VIII 4-5)
[ … ] il pitagorico Androcide, autore del libro Sui simboli e il pitagorico Eubulide, e Aristosseno [ … ], e Ippoboto e Neante [ … ] che ci tramandarono notizie su di lui, dissero che le sue incarnazioni avvennero ad intervalli di 216 anni; Pitagora rinacque dunque e rivisse, secondo che tramandano costoro, dopo il primo sviluppo e il ritorno del cubo del 6 (63=216, ndr), numero generatore di vita e insieme ricorrente per la sua sfericità: e ancora rinacque dopo altrettanti anni (Pseudo Giamblico, Theol. Arithm. p. 52, 8 de Falco)
Aristosseno [ … ] dice che [Pitagora] a quarant’anni, vedendo che la tirannide di Policrate era troppo dura perché un uomo libero potesse sopportarne l’autorità e la signoria, lasciò Samo e andò in Italia. (Porfirio, v. Pyth., 9)
Dicearco [ … ] racconta che, come Pitagora giunse in Italia e si stabilì a Crotone, tanto i Crotoniani furono attirati da lui (ch’era un uomo notevolissimo, e aveva molto viaggiato, [ … ]), che, dopo che egli si fu cattivato il senato con molti e bei discorsi, i magistrati lo incaricarono di fare ai giovani dei discorsi suasori adatti alla loro età. Parlò anche ai fanciulli, raccoltiglisi intorno appena tornati da scuola; e quindi alle donne. Istituì anche un’assemblea delle donne. Per tal modo s’accrebbe la sua fama … (Ibid., 18: 19)
Quello ch’egli diceva ai suoi compagni, nessuno può dire con certezza, perché serbavano su questo grande segreto. Ma le sue opinioni più conosciute sono queste. Diceva che l’anima è immortale, poi ch’essa passa anche in esseri animati d’altra specie. (Ibid., 19)
Quanto all’oggetto del suo insegnamento, i più dicono ch’egli apprese le scienze matematiche dagli Egizi e dai Caldei e dai Fenici: ché già nei tempi antichi gli Egizi si dedicarono allo studio della geometria, i Fenici allo studio dell’aritmetica e della logistica, i Caldei all’osservazione degli astri. I riti intorno agli dèi e quanto riguarda i costumi dicono che invece li apprese dai Magi. (Ibid., 6)
Nella stessa epoca di costoro [Anassagora, Empedocle e gli atomisti], anzi ancora prima di loro, i cosiddetti pitagorici si dedicarono per primi alle scienze matematiche, facendole progredire; e poiché trovarono in esse il proprio nutrimento, furono del parere che i principi di queste si identificassero con i principi di tutte le cose. I numeri occupano naturalmente il primo posto tra tali principi, e i pitagorici credevano di scorgere in quelli, più che nel fuoco o nella terra o nell’acqua, un gran numero di somiglianze con le cose che esistono e sono generate […] e individuavano, inoltre, nei numeri le proprietà e i rapporti delle armonie musicali e, insomma, pareva loro evidente che tutte le altre cose modellassero sui numeri la loro intera natura e che i numeri fossero l’essenza primordiale di tutto l’universo fisico; e, per tutte queste ragioni essi concepirono gli elementi dei numeri come elementi di tutta la realtà, e l’intero cielo come armonia e numero (Aristotele, Metafisica, 985b 23 sgg. Tratto da Lloyd)
I pitagorici si dedicarono alla matematica. Essi pensavano che i suoi principi fossero il fondamento di tutte le cose. Scorgevano nei numeri molte rassomiglianze con le cose che esistono e che vengono all’essere – una modificazione del numero essendo la Giustizia, un’altra la Ragione, un’altra l’Opportunità – quasi tutte le cose essendo esprimibili numericamente. Essi considerarono pure gli attributi e i rapporti della scala musicale come esprimibili in numeri. Posero dunque i numeri come gli elementi di tutte le cose e l’intero universo come una scala musicale e numerica. Lo stesso accordo dei cieli lo riassunsero e lo inserirono nel loro schema. Cosi, poiché il 10 era ritenuto essere perfetto e comprendere in sé la natura del numero, dissero che i corpi che si muovono nell’universo sono in numero di dieci; ma poiché i corpi celesti visibili sono soltanto nove, inventarono una antiterra (cfr. Filolao, p. 35. Tratto da Simger).
6.1 – I NUMERI ALL’ORIGINE DEL MONDO
Per i pitagorici i numeri sono il principio di tutte le cose: della musica, della geometria (anche se in questo campo incontrò difficoltà), della materia e addirittura degli stati d’animo. L’unità fondamentale – l’atomo – dei pitagorici è il numero inteso come un’entità con dimensioni, una monade. Per ‘numeri’ si intendono solo i ‘numeri interi’ intesi come collezioni di unità tutte uguali tra loro. Probabilmente queste unità erano pensate come punti forniti di realtà, di dimensioni e circondati da uno spazio vuoto (sono delle “monadi“). Mettendo insieme più punti-unità si raggiungeva, per i pitagorici, la sintesi tra numero e figura. Da qui il carattere simultaneamente aritmetico e geometrico delle elaborazioni pitagoriche.
Partendo dal principio che tutti gli esseri sono composti di punti-unità segue che le leggi di formazione dei numeri costituiscono, in ultima analisi, le leggi di formazione del mondo che ci circonda. Nelle proprietà dei numeri vanno poi ricercate le ragioni del mondo fisico e spirituale. Vediamo un poco il senso di quest’ultima frase. Tutto ciò che ci circonda è formato da punti materiali (le monadi) disposti in un dato ordine geometrico. La sistemazione spaziale di questi punti nell’ordine in cui si presentava era per i pitagorici il numero. Esso quindi era, più che un’entità matematica, un’entità fisica. Se ad esempio si avevano 10 punti disposti a triangolo (figura 3), il 10 rappresentava un numero triangolare; se si

avevano 16 punti sistemati su tre file di tre (figura 1), il 16 rappresentava un numero quadrato; se si avevano 4 punti sistemati ai vertici di un tetraedro, (figura 6), il 4 rappresentava un numero tetraedrico. Ogni punto monade è uguale a ogni altro; sono solo l’ordine e il numero dei vari punti monade che ci rendono conto della diversità degli oggetti che la natura ci offre.
S’intravede quindi lo scopo della fisica: studiare le proporzioni, le relazioni, il numero delle entità che costituiscono i vari corpi. Solo se si riesce a scoprire una relazione matematica che renda conto di come sono sistemate le monadi l’una rispetto alle altre si è in grado di conoscere la natura. Ma, oltre al numero, vi è un altro elemento alla base della costituzione dell’universo, l’armonia. Si tratta di un insieme ordinato che, allo stesso modo della musica, è armonico: solo certe proporzioni tra numeri, solo certe figure geometriche possono esistere; ed esistono solo quelle che sono armoniche e belle.
Al di là di ogni facile ironia, è la prima volta nella storia del pensiero che, alla base del mondo, viene posta un’entità “astratta”, un qualcosa che non è immediatamente riconoscibile da una ricognizione empirica del mondo circostante.
È il primo passo sulla strada dell’interpretazione non ingenua del mondo, della speculazione teorica. Certo le cose andarono oltre rispetto a un segno che potremmo oggi proporci: in questa visione del mondo il primato lo avevano l’intuizione e la creazione speculativa; nessuno spazio era concesso alla scienza empirica.
Questa visione, germe della teoria atomica di Leucippo e Democrito, prevedeva che le linee fossero catene di punti [··········], in numero enorme ma finito, mentre le superfici fossero un insieme di linee [:::::::::].
Conseguenza di ciò è che tutte le grandezze devono risultare tra loro commensurabili. Se si dispone, ad esempio, di due segmenti si può sempre trovare un loro sottomultiplo comune che poi è il punto di cui entrambi sono costituiti. Se il primo segmento contiene m punti ed il secondo n, il rapporto m/n è un numero razionale, una coppia ordinata cioè di numeri naturali esprimenti rispettivamente quante volte quel sottomultiplo comune è contenuto nel primo e nel secondo segmento. Ma fu proprio la (ri)scoperta del Teorema di Pitagora (vedi più avanti) che mostrò qualcosa di ‘scandaloso‘: l’esistenza di grandezze incommensurabili (ad esempio se un quadrato ha lato d, la sua diagonale misurerà d.√2. Ciò vuol dire che il rapporto tra diagonale e lato del quadrato è √2, e cioè un numero non razionale ma irrazionale, che per la prima volta si presenta. Quindi il lato e la diagonale di un quadrato stanno tra loro secondo un numero che non è razionale nel senso prima detto: non si può trovare nessun sottomultiplo comune alle due grandezze).
È oggi chiaro che questa difficoltà può essere superata solo con l’ammissione che sarà fatta da Euclide (323-283 a.C.) di “punto privo di dimensioni”. Ma, con questa scoperta, i fondamenti dell’intera scuola crollarono e la leggenda tramanda che questo segreto (la scoperta degli incommensurabili) fosse gelosamente custodito dai pitagorici. Si racconta che chi lo divulgò – Ippaso – fu punito dagli dei con la morte in un naufragio (altri dicono che, fuggendo dai condiscepoli che lo inseguivano, attraversò un campo di fave e lì morì perché affetto da favismo. Altri ancora che, sempre fuggendo, cadde da una scogliera e lì fu tramutato in uno scoglio, per l’eternità schiaffeggiato dalle onde). Ippaso, in altri racconti, rivelò anche il segreto della costruzione del quinto solido regolare, il dodecaedro.
6.2 – GLI INCOMMENSURABILI
Che tipo di ragionamento dovevano aver fatto, all’epoca, i pitagorici per rendersi conto che esistevano grandezze incommensurabili in relazione al teorema di Pitagora ? Si tratta di una dimostrazione riportata da Aristotele (Analytica Priora, I, 29) e da Euclide (Elementi, libro X). Sia ℓ il lato del quadrato e d la sua diagonale. Facciamo in modo di considerare d ed ℓ come primi tra loro (si noti che questa è un’operazione che viene fatta a priori!). Applicando il teorema di Pitagora si ha: (1) che il quadrato costruito su d è 2 volte il quadrato costruito su ℓ. Ora d deve essere un numero pari poiché è divisibile per 2. Il numero ℓ, primo con d, deve conseguentemente risultare dispari. Osserviamo ora che se d è pari si dovrà avere d = 2 c e cioè: (2) che il quadrato costruito su d è 4 volte il quadrato costruito su c. Confrontando la (1) e la (2) si deduce che il quadrato costruito su ℓè 2 volte il quadrato costruito su c; da dove si conclude che ℓ deve essere pari. Quindi ℓ deve essere contemporaneamente pari e dispari. Segue allora il teorema: “Fissato il numero intero d spettante alla diagonale, non esiste alcun intero che esprima il lato del quadrato e cioè i due segmenti sono incommensurabili”.
6.3 – RISULTATI DELLA SCUOLA PITAGORICA
Proclo (V secolo a.C.) assegna a Pitagora scoperte che, come accennato, sono della sua scuola e probabilmente è un insieme di conoscenze che furono sistematizzate a partire dalla scuola di Pitagora. La loro derivazione è in gran parte da Talete, dai caldei e dagli egiziani.
– Nuova dimostrazione della somma degli angoli interni di un triangolo mediante la parallela tracciata da un vertice al lato opposto.
– Terzo criterio di similitudine tra triangoli.
– Ad angoli uguali sono opposti lati in proporzione.
– Dimostrazione del teorema omonimo.
– Studio dei quattro poliedri regolari e scoperta del quinto, il dodecaedro (che viene dato con origine celtica o indiana o etrusca).
– Scoperta della sezione aurea e della costruzione del pentagono e del decagono regolari inscritti in una circonferenza.
– Conoscenza delle medie ‘aritmetica’, ‘geometrica’ ed ‘armonica’. Molte conoscenze sulla teoria delle proporzioni.
– Problemi di ‘applicazione delle aree’ che portano alla risoluzione geometrica delle equazioni di 2º grado.
– Scoperta dell’incommensurabilità tra lato e diagonale del quadrato a cui seguirà come conseguenza quella delle quantità irrazionali (alogon).
6.4 – TEOREMA DI PITAGORA
Anche qui non fu Pitagora a scoprire il teorema che porta il suo nome. Abbiamo visto, quando ci siamo occupati della matematica in Mesopotamia, che tale teorema era noto in applicazioni pratiche. Pitagora però, come per altre cose rielaborate in Grecia, riuscì a darne una enunciazione generale. Egli, prese le mosse dal triangolo particolare di lati 3, 4 e 5 noto già ai babilonesi (con solo quattro terne pitagoriche, senza riferimento a triangoli, note anche agli egizi come riportato nel papiro di Kahun della XII dinastia – 1800 a.C.), congiuntamente ad altre proprietà note come ricette da agrimensore o da architetto. Nella terna pitagorica si osservano coincidenze di “interesse”: il quadrato dell’ipotenusa è pari al numero delle ‘lettere’ dell’alfabeto egizio ed al numero di anni di vita del bue Api. Era, per altri versi, la prima terna pitagorica, cioè l’uguaglianza: 32 + 42 = 52, considerata come simbolo di perfezione. Si sottolineava che l’area di tale triangolo è 6, numero che segue il 5. Si osservava che il cubo dell’area risulta pari alla somma dei cubi dei lati: 63 = 33 + 43 + 53. Da queste considerazioni ‘esoteriche’ partì Pitagora per la sua dimostrazione più generale. Prima di Pitagora: un triangolo è rettangolo ogni volta che i lati stanno tra loro in quella certa proporzione. Da Pitagora: in ogni triangolo rettangolo (sono infiniti) i lati si comportano in modo che la somma dei quadrati costruiti sui cateti è uguale al quadrato costruito sull’ipotenusa.

Il teorema di Pitagora negli Elementi di Euclide, Libro I, proposizione 47 (manoscritto greco del XII secolo)
6.5 – LA MISTICA DEI NUMERI
Già abbiamo visto che ad alcune proprietà dei numeri venivano assegnate virtù speciali. Questo aspetto era in realtà dominante in tutte le scuole di matematica dell’antichità. Vediamo qualche proprietà assegnata a tali numeri.
– I numeri interi possono essere o pari o dispari.
– Il numero 1 (l’unità) che genera sia i numeri pari che i dispari non è né pari né dispari ma parimpari. L’uno rappresenta l’intelletto, semplice, immobile in se stesso. Ma l’uno è anche molte cose in potenza: è un triangolo, un quadrato, un cubo,
– Il numero 2 è il primo numero pari. Rappresenta l’opinione, sempre oscillante.
– Il numero 3 è il primo numero dispari. È il primo numero completo: ha principio, mezzo e fine. Non gli manca nulla. Era perciò considerato un numero perfetto con proprietà magiche e mistiche (si usava dire, ed abbiamo reminiscenze nella lingua francese, “sono tre volte felice”)
– Il numero 4 è con il 9 simbolo della giustizia (ancora oggi si parla di persona quadrata) per quanto dirò al numero 9. Mentre con il tre si individua un piano, il quattro è il primo numero che individua la terza dimensione (figura 6) e quindi lo spazio e cioè il mondo (qui vi è forse l’allusione ai quattro elementi che saranno di Empedocle: terra, acqua, aria, fuoco; e forse questa considerazione influirà su Empedocle). Il 4 ha poi altri significati (vedi Gorman). Con Pitagora se ne trovarono 10 (includendo quelli musicali); fu Teone di Smirne che, non rendendosi conto della bestemmia, aggiunse l’undicesimo.
– Il numero 5 rappresenta il matrimonio poiché si ottiene come somma del 2 (primo numero pari che rappresenta la donna) con il 3 (primo numero dispari che rappresenta l’uomo). E’ importante perché è la metà del 10; perché è il numero dei 5 solidi regolari (tetraedro, cubo, ottaedro, icosaedro, dodecaedro) associate rispettivamente a fuoco, terra, aria, acqua, etere (sostanza che costituisce lo zodiaco); perché è il numero dei pianeti (allora) conosciuti; perché è il numero delle zone in cui Pitagora aveva diviso la Terra (artica, antartica, estiva, invernale ed equatoriale). Questo numero è anche il primo numero automorfico: moltiplicato per se stesso finisce sempre per Cinque (5.5=25; 25.5=125; 125.5=625; …). Tra le figure piane, è il pentagono: la prima figura che riproduca se stessa al proprio interno mediante le sue diagonali (che può rappresentare anche una stilizzazione del corpo umano come mostrato nella seconda delle figure che seguono) e per questo il pentagramma (o pentacolo o pentalpha) è assunto come simbolo dalla scuola pitagorica (proveniente da antiche mitologie egizie ed utilizzato da ogni esoterismo successivo, come cabala, massoneria, magia, alchimia, …).


– Il numero 6 era anche legato al matrimonio perché prodotto di maschio (3) e femmina (2). Era poi originato dal prodotto dei primi tre numeri. Le potenze di 6 danno sempre numeri che terminano in 6.
– Il numero 7 rappresenta l’opportunità e la saggezza (questo numero ha visto cambiare il suo significato dalla Mesopotamia alla Grecia. In Mesopotamia era un numero nefasto e da lì nacque la credenza di non lavorare il giorno 7 della settimana, per evitare di incorrere in ogni cattiva sorte). Tale numero è anche vergine perché non può essere generato da altro numero e generare altro numero tra i primi 10 (non vi è una coppia di numeri tra i primi 10 che moltiplicati tra loro generino il 7 e non può generare altro numero diverso da se stesso tra i primi 10 mediante moltiplicazione perché 7.2 = 14, al di fuori dei primi 10 numeri. Il 5, ad esempio, non è generato ma può generare dentro al 10 perché 5.2 = 10). Poiché il 7 è numero vergine, fu associato alla dea Atena che nacque senza generazione dalla testa di Zeus. E’ così che al 7 si associa anche la mente. Inoltre 7 erano i corpi celesti.
– Il numero 8 era significativo perché era il primo cubo propriamente detto. Dovuto all’armonia tra le sue parti (23 = 8 e 2 + 2 + 2 + 2 = 8) fu appunto chiamato Armonia (che era la moglie di un eroe leggendario, Kadmos, fenicio come la madre di Pitagora). Essendo armonico, tale numero divenne simbolo dell’amicizia e per questo fu chiamato Eros.
– Il numero 9 ebbe due nomi. Da un lato fu chiamato Okeanos con riferimento al grande mare che circondava la terra, in quanto nove è il limite dei numeri perché dopo di esso viene il 10; dall’altro Prometeo per la sua forza che gli permetteva di controllare gli altri 8 numeri della decada. Era il simbolo della giustizia perché la sua radice quadrata è 3 e perché i suoi fattori (3 e 3) all’essere uguali, sono l’immagine adeguata della rappresaglia (la giustizia era di questo tipo).
– Il numero 10 è particolarmente venerato (fu chiamato panteleia o il tutto perfetto). Esso si ottiene dalla somma di 1, 2, 3, 4, quindi contiene l’unità, il primo numero pari, il primo numero dispari, il primo quadrato. Inoltre, poiché è la somma dei primi quattro numeri, simboleggia l’insieme dei quattro elementi primi (terra, acqua, aria, fuoco) che formavano la potente tetraktis, su cui si giurava (la formula del giuramento era: No, io lo giuro per colui che ha trasmesso alla nostra anima la tetractis nella quale si trovano la sorgente e la radice dell’eterna natura). Dieci è poi la base della numerazione utilizzata. Dieci è anche il numero delle antitesi che sono alla base del mondo: pari-dispari; limitato-illimitato; uno-molti; destra-sinistra; luce-tenebre; maschio-femmina; buono-cattivo; immobile-in moto; diritto-curvo; quadrato-rettangolare. Il numero 10 era poi rappresentabile mediante un triangolo equilatero (figura 3 vista prima). Infine il 10 aveva anche importanti relazioni con il mondo dei suoni.
– I numeri hanno poi altre importanti proprietà figurative di interesse. Tali proprietà, che li fanno essere geometrici, servono per dimostrarne alcune caratteristiche che discendono anche dalla loro medesima rappresentazione. Essi possono essere
- lineari come 1, 2, 3, 4, …; si tratta dei numeri primi, quelli divisibili solo per se stessi e per l’unità (tutti gli altri numeri sono detti secondi), rappresentabili solo con una linea (e non da una supeficie o volume) in quanto non hanno misure, a parte se stessi e l’unità;
- triangolari come il 3, il 6, il 10 ora visto, il 15, il 21, … e sono triangolari tutti i numeri dati dalla somma di numeri successivi pari e dispari N dati da: N = 1 + 2 + 3 + …. + n = n(n + 1)/2;
- quadrati, originati dal prodotto di due fattori uguali, come il 4, il 9, il 16 (figura 1), e sono quadrati tutti i numeri dati dalla somma dei numeri dispari successivi dati dalla formula N = 1 + 3 + 5 + 7 + …. + (2n – 1) = n2.
- pentagonali (figura 4) e tutti i numeri pentagonali sono dati dalla formula N = 1 + 4 + 7 + … + (3n – 2) = n(3n – 1)/2; …
- oblunghi, originati dal prodotto di due fattori diversi, come il 6 o il 12 (vedi figura 2) e sono oblunghi tutti i numeri dati dalla somma dei numeri pari successivi che si ricavano dalla sequenza dei numeri pari N = 2 + 4 + 6 + … + 2n = n(n – 1); un numero oblungo si ottiene poi come somma di due numeri triangolari uguali:

- possono essere quindi, in genere, poligonali (come tutti i precedenti); ed i poligoni sono generati dalle figure seguenti:

Come generare successivamente (da sinistra) triangoli, quadrati, pentagoni (se si vogliono aumentare i lati basta aggiungere semirette e punti)
- cubici, originati dal prodotto di tre fattori uguali, come il 27, come l’8 (vedi figura 5).

Il numero cubico 27
- tetraedrici come 1, 4, 10, 20, 35, 56, …
- conici
– Vi sono poi i numeri perfetti, ciascuno dei quali è somma dei propri divisori (esempi: 28 = 1+2+4+7+14; 6 = 1+2+3).
– Vi sono i numeri amici, ciascuno dei quali è somma dei divisori dell’altro (esempio: il 220 ed il 284; il primo ha per divisori 1,2,4,5,10.11,20,22,44,55,110 e la somma di questi numeri fa 284; il secondo ha per divisori 1,2,4,71,142 e la somma di questi numeri fa 220).
– Vi sono i numeri primi (o rettilinei), divisibili per l’unità e per se stessi (ad esempio il 7, l’11, · · · · · · ·).
– Vi sono i numeri composti (o rettangolari), …
– I numeri dispari sono anche detti gnomoni, aventi cioè la forma di una squadra da falegname o come l’orologio solare, (come il 3, il 5, il 7, … rappresentati da punti disposti su due linee perpendicolari tra loro e formanti un angolo retto). Da questa ultima proprietà si ricava anche la regola che ogni numero dispari è la differenza tra due quadrati e cioè che: (2n + 1) = (n + 1)2 – n2. Consideriamo ad esempio un quadrato formato da quattro linee di quattro punti ciascuna. Lo gnomone esterno 7 è dato dalla differenza del quadrato di lato 4 con il quadrato di lato 3.

– I numeri quadrati si possono ottenere con il metodo della crescita o decrescita gnominica, aggiungendo o sottraendo cioè uno gnomone squadra che non ne alteri la forma:

– Lo stesso vale per i numeri oblunghi:

– I numeri triangolari permettono di ricavare la nota formula che fornisce la somma dei primi n numeri naturali. Consideriamo ad esempio un triangolo formato da cinque linee: nella prima un punto, nella seconda due punti, nella terza tre punti, nella quarta quattro punti e nella quinta cinque punti. Tenendo a mente un tale triangolo si ricava subito che se l’ultima riga è n + 1 e la penultima n, si ha: 1+2+3+ … + n = 1/2 [n(n+1)].
– Il numero è abbondante se la somma dei suoi divisori è più grande del numero dato (esempio: il 12 che ha per divisori 1,2,3,4,6 che danno 1+2+3+4+6>12).
– Il numero è deficiente se la somma dei suoi divisori è più piccola del numero dato (esempio: il 14 che ha per divisori 1,2,7 che danno 1+2+7 < 14).
– I quadrati si ottengono sommando i numeri dispari a partire dall’unità: 1 = 1 al quadrato; 1+3 = 2 al quadrato; 1+3+5 = 3 al quadrato; 1+3+5+7 = 4 al quadrato; ….
– I numeri si distinguono in numeri che non sono prodotti di altri numeri ossia in numeri primi od asintetici, ed in numeri che sono prodotti o numeri composti o sintetici. Tenendo conto dei soli numeri entro la decade, i numeri si suddivi-dono in quattro classi: la classe dei numeri primi entro la decade che sono fattori di numeri della decade: e sono il due (che veramente non è un numero) ma compare come fattore del 4, del 6, dell’8 e del 10, il tre che è fattore del 6 e del 9; ed il 5 che è fattore del 10. La seconda classe è costitui-ta dai numeri primi minori del 10 che non sono fattori di numeri minori del 10, ed è costituita dal solo numero sette. La terza classe è costituita dai numeri composti, inferiori al dieci, e che sono fat-tori di numeri minori del dieci, ed è costituita dal solo numero quattro, che è in pari tempo quadrato del due e fattore dell’8; la quarta classe è costituita dai numeri composti minori del dieci che sono prodotti di altri numeri senza essere fattori di numeri entro la decade, essa è costituita dal sei, dall’otto e dal nove, poiché 2 . 3 = 6, 2 . 2 . 2 = 2 . 4 = 8 e 3 . 3 = 9. Non tenendo conto del 10 e tenen-do conto del due si hanno quattro numeri primi: 2, 3, 5, 7 di cui uno solo non produce altri numeri, e quattro numeri composti: 4, 6, 8, 9 di cui uno solo è anche fattore.
– I quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco), come abbiamo accennato, oltreché ai numeri, erano associati ai poliedri regolari: lo stabile cubo alla terra; il pungente tetraedro al fuoco; il rotolante icosaedro all’acqua; l’ottaedro all’aria. Il dodecaedro rappresentava invece l’intero universo.

I cinque solidi regolari
Non vado oltre ma le proprietà e le caratteristiche dei numeri sono una quantità infinita. Credo però si sia capito che per la prima volta si tratta l’aritmetica (l’aritmetica pitagorica è stata anche chiamata aritmo-geometria) in modo astratto, indipendentemente dalle applicazioni; che si interseca aritmetica e geometria in un modo sorprendente che permette poi di trovare molte proprietà geometriche ed anche di arrivare a scoprire l’esistenza di quei numeri irrazionali (almeno la √2) tanto aborriti. Non vi fu, se non molto marginalmente, un’applicazione dei numeri al mondo naturale (posizione opposta a quelle che abbiamo incontrato in Egitto e Mesopotamia) ma l’intero mondo fu definito come retto dai numeri e la cosa aprirà presto strade di grande interesse, ma ora imprevedibili, con Platone. I numeri si costituiscono in una unità che tutto regge e, nel contempo, che necessita di essere organizzata con dimostrazioni realizzate con il metodo deduttivo ma anche unificata nelle proposizioni e nei teoremi. Ciò è reso possibile proprio dal riconoscimento della separatezza dei numeri dalla natura e dal loro governo della medesima. Si può certamente parlare di nascente razionalità mescolata però con una mistica dei numeri che è ciò che ho tentato di mostrare.
In definitiva, per la scuola pitagorica, che avrà suoi influssi fino agli inizi dell’era cristiana, oggetto ultimo della scienza fisica è quello di riprodurre la natura per mezzo di un sistema di entità matematiche e delle loro relazioni. Qualunque cosa l’uomo possa conoscere circa la natura può venire espresso con il suddetto sistema di entità e relazioni matematiche. Il cosmos (in greco: decoro, ornamento) è una struttura ordinata e per questo, come la musica è “armonico” (l’armonia dell’universo è “sentita” dall’occhio della mente). Si noti che il cosmos greco diventa il mundus (ornamenti femminili) latino. Naturalmente, quanto detto prevede una stretta connessione tra “natura (fisica) e matematica. Tutto è affidato all’intuizione ed alla creazione speculativa: nessuno spazio è concesso alla scienza empirica.
6.6 – LE PROPORZIONI
Non poteva essere estraneo alla scuola pitagorica l’interesse per le proporzioni e sembra che Pitagora abbia appreso i primi rudimenti del problema in Mesopotamia. Doveva conoscere: la media aritmetica, la media geometrica, la media subcontraria(17) (successivamente detta armonica o musicale) e la proporzione aurea (il primo di due numeri sta alla loro media aritmetica come la loro media armonica sta al secondo di essi) su cui si basavano i babilonesi per estrarre la radice quadrata. A queste tre medie (la proporzione aurea utilizzava due medie già esistenti) i pitagorici ne aggiunsero altre 7 per arrivare al famoso 10. L’elenco è nella tabella che segue, dove le prime tre sono le medie aritmetica, geometrica ed armonica. Essi affermarono (secondo Nicomaco e Pappo) che se b è la media di a e c, con a < c, allora le tre quantità sono legate da una delle seguenti dieci relazioni:

6.7 – LA MUSICA
I pitagorici svilupparono anche molte ricerche sperimentali in campo musicale. Con corde tese di uguale lunghezza e con un cuneo che le fissava in un dato punto situato tra le estremità, si conseguirono risultati che gettarono le basi della musica. Furono scoperti i tre accordi fondamentali di ottava, di quinta e di quarta e, di seguito, tutti gli altri. I rapporti, tra le lunghezze delle parti di corda a destra ed a sinistra del cuneo, trovati nei tre casi erano rispettivamente: 1:2 ; 2:3 ; 3:4, cioè i numeri della tetraktis. Allorché si studiarono altri intervalli musicali si scoprirono altre relazioni che toccavano questioni correlate con le medie, molto care ai pitagorici. Se si fanno vibrare tre corde con lunghezze proporzionali ai numeri 1 ; 4/5 ; 2/3 non solo si ha l’accordo perfetto maggiore (do, mi, sol) ma si riconosce subito che quei tre numeri (riducibili agli interi15; 12; 10) formano una successione nota in aritmetica e detta da Filolao terna armonica poiché il termine centrale è medio armonico tra gli altri due: media armonica b = 2ac/(a+c). Sorprendentemente la stessa media armonica appare nel cubo, dato che questo solido ha sei facce, 8 angoloidi, e 12 spigoli e “8 è medio armonico tra 6 e 12”. Analogamente le lunghezze delle corde dell’accordo perfetto minore risultano essere 4; 5; e 6; formano cioè una progressione aritmetica con il 5 medio aritmetico tra gli altri due numeri: media aritmetica b = (a+c)/2.
6.8 – COSMOLOGIA
La musica ebbe una grande importanza nella scuola pitagorica. Essa era intesa come il veicolo che univa uomo a cosmo. I pitagorici estesero la musica e quindi i numeri alla volta celeste (questa operazione intellettuale avrà conseguenze profonde in futuro) ritenendo che questa fosse appunto una scala musicale ed un numero e che i movimenti degli astri dessero vita a suoni armoniosi anche se l’uomo non li percepisce perché è immerso da sempre in essi e l’armonia è continua con la conseguenza che non si riesce a percepire il silenzio (questa concezione sarà ripresa, in questi precisi termini, 2000 anni dopo da Kepler). Il silenzio assoluto regna oltre il cosmo, dove regnano i numeri e l’Uno (che, per questo motivo, è indicato dai pitagorici anche come silenzio). Queste analogie ed immagini furono estese alle distanze delle sfere celesti ed alle loro velocità con lunghezze di corde e loro vibrazioni ricavando da qui le musiche celesti. Da qui una concezione del mondo che merita un cenno.
I pitagorici consideravano l’universo diviso in tre parti sistemate in ordine gerarchico di nobiltà e perfezione decrescente: l’Urano, ossia la Terra e la sfera sublunare; il Cosmo, ossia i cieli mobili delimitati dalla sfera delle stelle fisse; e l’Olimpo, ossia la dimora degli dei. L’intero universo, la Terra, il cielo, dovevano essere sferici perché la sfera era il più perfetto dei solidi geometrici. Ogni corpo all’interno dell’universo si muoveva circolarmente in modo uniforme, anche qui perché il cerchio era la figura geometrica perfetta, e il suo moto era tale che esso si muoveva tanto più velocemente quanto più in basso si trovava nella scala gerarchica. Quindi i corpi più vicini alla Terra si sarebbero dovuti muovere più velocemente dei più lontani. L’assioma secondo cui i movimenti dei corpi celesti dovevano essere uniformi e circolari, principio questo che doveva dominare la scienza astronomica fino all’età moderna. Vediamo in proposito cosa dice un astronomo greco di epoca più recente, Gemino di Rodi (ca. 70 a.C.):
Furono i Pitagorici, i primi che affrontarono queste questioni, a stabilire l’ipotesi di un movimento circolare e uniforme per il Sole, la Luna e i pianeti. Era loro opinione che, per quanto riguardava le cose divine ed eterne, supporre un tale disordine per cui questi corpi dovessero muoversi ora più velocemente e ora pili lentamente, o addirittura dovessero fermarsi in quelle che sono chiamate le stazioni dei pianeti, fosse inammissibile. Persino nella sfera umana una simile irregolarità è incompatibile con il comportamento ordinato di una persona bene educata. E anche se le crude necessità della vita spesso costringono l’uomo ad affrettarsi o a perder tempo, non si deve supporre che in tali circostanze possa venire a trovarsi la natura incorruttibile delle stelle. Per questa ragione essi definirono come loro problema quello di dare una spiegazione dei fenomeni sulla base dell’ipotesi del movimento circolare e uniforme.
Spiega Mason che
“I pitagorici non potevano però accettare il fatto che la Luna, il Sole e i pianeti dovessero ruotare in senso contrario una volta ogni ventiquattro ore. Per superare questa difficoltà e per dare soddisfazione al principio secondo cui i corpi ignobili si muovevano più rapidamente di quelli nobili, Filolao avanzò !’ipotesi che la Terra si muovesse una volta al giorno da occidente verso oriente intorno a un fuoco situato nel centro dell’universo. I suoi movimenti erano tali che la stessa faccia della Terra era sempre rivolta verso il fuoco centrale, allo stesso modo che la stessa faccia della Luna era costantemente rivolta verso la Terra. La Grecia si trovava su quella parte della Terra che si trovava all’opposto del fuoco centrale, ma neppure sull’altra parte della Terra si poteva vedere il fuoco, giacché fra la Terra e il fuoco si frapponeva un altro corpo, l’anti-terra, che si muoveva di pari passo con la Terra e oscurava permanentemente il fuoco.
Il movimento diurno della Terra attorno al fuoco centrale, postulato dai Pitagorici, spiegava l’apparente rotazione diurna del cielo intorno alla Terra, e suggeriva che tutti i corpi in movimento nell’universo si muovevano attorno al fuoco centrale nella medesima direzione da occidente verso oriente, e che i loro periodi di rivoluzione erano tanto più lunghi quanto più erano nobili. La Terra, il corpo meno nobile nell’universo, si muoveva attorno al fuoco centrale una volta al giorno; la Luna impiegava un mese, il Sole un anno, e i pianeti periodi ancor più lunghi, mentre la sfera delle stelle fisse era immobile. Una simile concezione implicava che, siccome la Terra percorreva giornalmente un percorso finito, le stelle fisse dovessero mutare le loro apparenti posizioni relative le une alle altre dal tramonto all’alba, a meno che non si trovassero a una distanza infinita dalla Terra. I Pitagorici sostenevano che le distanze fra i diversi corpi celesti e il fuoco centrale avevano tra loro gli stessi rapporti numerici che esistevano fra gli intervalli della scala musicale, proporzione questa che collocava le stelle a una distanza finita dalla Terra. La parallasse stellare, però, ossia uno spostamento delle apparenti posizioni relative delle stelle, non era ancora stata osservata, e pertanto l’originario sistema pitagorico del mondo dovette essere modificato. L’assenza della parallasse stellare implicava che l’orbita tracciata dal movimento diurno della Terra attorno al fuoco centrale fosse molto più piccola di quanto si era supposto precedentemente”.
Si possono cogliere da questa presentazione le enormi novità a cui ci troviamo di fronte. Da qui risulta che furono i pitagorici ad immetterci nella comprensione del sistema astronomico così come lo conosciamo. Entriamo in un mondo in cui iniziano sfere ed orbite circolari. La stessa Terra, da osservazioni della sua ombra sulla Luna durante le eclissi, fu riconosciuta sferica (vi sono dubbi relativi a questa teoria: c’è chi la attribuisce a Parmenide). Inizia il moto che, in un mondo pitagorico, non può che essere regolare. E se il moto è regolare vi è da stabilire a che velocità ed a che distanza da cosa. E quante devono essere le velocità per i diversi corpi celesti e per le stelle, da allora chiamate, erranti. Poiché tali velocità vennero riconosciute diverse si ipotizzarono distanze diverse per i diversi astri. Iniziò allora l’organizzazione del cielo a seconda dei periodi annuali dei diversi corpi celesti intorno al centro del moto. Si partiva dal corpo che ruotava più lentamente intorno a questo centro, Saturno e si avevano via via Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio, Luna (18)(in alcuni testi viene fornito un ordine differente; il Sole risulta sistemato tra Mercurio e la Luna. Probabilmente ciò discende dalle diverse epoche in cui sono stati scritti i resoconti dei dossografi: in epoche diverse sono variate le conoscenze sulle posizioni del Sole, risultato più lontano di quanto si credesse, attraverso lo studio delle fasi della Luna). Poiché poi erano impensabili dei pianeti appesi in cielo a distanze diverse tra loro, occorreva un sostegno. Furono pensate delle sfere che mantenevano incastonati i pianeti e poiché tali sfere non si vedevano, dovevano essere trasparenti e quindi cristalline. E qui, dalle misure delle velocità di questi corpi, venne fuori quell’inaccetabilità estetica di cui parlava Mason. Tutti gli astri mostravano di ruotare da ovest ad est mentre il cielo delle stelle ruotava con maggiore velocità da est ad ovest. Come far ruotare tutto allo stesso modo ? E’ un pregiudizio che avrà importanti conseguenze (ed i pregiudizi hanno sempre giocato ruoli importanti nell’osservazione della natura). Fu il pitagorico Filolao di Taranto (o Crotone), intorno al 450 a.C., che risolse il problema con un’ipotesi tanto audace quanto risolutiva. Doveva essere la Terra a ruotare da ovest ad est intorno ad un dato punto (Fuoco Centrale o divina Hestia) e noi, osservando dalla Terra, abbiamo la

Sistema astronomico di Filolao
sensazione di un moto della volta celeste da est ad ovest. Non è questo che un moto apparente ! Davvero audace ed incredibile ! E’ difficile riuscire a pensare un volo della mente di questo livello. Solo in un mondo che esplodeva con le sue capacità astrattive è concepibile una tale immensa idea. Ora poteva venir pensato un cielo immobile dentro il quale gli altri astri si muovevano, con le loro sfere di sostegno, tutti con lo stesso ordine(19)e con velocità che erano più elevate vicino al centro di rotazione e sempre minori procedendo verso l’esterno fino ad arrivare alla quasi immobilità della volta delle stelle perché, come fa dire Aristotele al pitagorico Alcmeone, tutte le cose divine si muovono). E questo paradossalmente era possibile perché ancora non vi erano le complicazioni della dinamica a rendere difficile immaginare il moto della Terra. Naturalmente gli serviva un qualche indizio empirico, qualche analogia, e questa gli fu suggerita dalla Luna che gira intorno ad un punto volgendo sempre la stessa faccia verso l’esterno (con il che, chi si trovasse da quella parte non saprebbe che gira intorno alla Terra). Filolao aggiunse anche un altro pianeta ruotante intorno a quel punto comune per tutti i pianeti, ma più in basso della Terra: si tratta della famosa Antiterra della quale sappiamo pochissimo solo da un cenno di Aristotele che parla dell’invenzione dell’Antiterra per portare i corpi celesti ruotanti intorno a quel punto centrale al famoso numero 10. Vi era naturalmente il problema del perché questo pianeta ed il Fuoco Centrale non si vedessero. Filolao inventò una combinazione di moti (vedi figure seguenti) che ne rendevano conto. L’emisfero terrestre abitato è quello rivolto verso il Sole e la Terra fa un giro in 24 ore intorno al Fuoco centrale. In tal modo, dalla Terra, l’Antiterra ed Il Fuoco Centrale non potevano essere mai visti. Ma c’è di più. La funzione dell’Antiterra è quella di impedire la vista del Fuoco Centrale a chi si fosse affacciato ai confini del lato abitato (oltre l’India) e, addirittura, a chi si fosse recato agli antipodi della Terra abitata. Inoltre, l’intero sistema, rendeva ben conto del giorno e della notte regolando opportunamente le velocità di Sole e Terra fino a dar anche conto della diversa durata del giorno e della notte (mentre l’inclinazione dell’ orbita del Sole, rispetto alla Terra, rendeva conto delle stagioni). Se si riflette un istante, non si parla esplicitamente di rotazione della Terra su se stessa ma, l’ammettere che la Terra (come l’Antiterra) faccia la sua orbita (molto piccola) intorno al Fuoco Centrale in 24 ore in simultanea con il fatto che la Terra mostra sempre la stessa faccia al fuoco centrale, corrisponde ad ammettere che la Terra fa un giro su se stessa in 24 ore. D’altra parte se il suo riferimento era la Luna, le cose stanno allo stesso modo con periodi differenti.

Terra ed Antiterra in opposizione in caso di notte e giorno

Terra ed Antiterra in congiunzione in caso di notte e giorno
Ho detto poco più su il motivo che, per Aristotele, avrebbe spinto Filolao ad inventare l’Antiterra. Forse vi fu una componente del genere ma vi erano anche dei veri motivi astronomici come quello di avere un pianeta che rendesse conto delle eclissi di Luna e di Sole in un universo in cui le distanze tra corpi celesti era considerata molto grande(20) (poiché si riscontrano circa il doppio di eclissi lunari rispetto alle solari, al fenomeno, oltre la Terra, dava il suo contributo anche l’Antiterra). Come vedremo, Anassagora aveva già ipotizzato l’esistenza di corpi scuri che provocavano le eclissi, e sembra che Filolao pensasse l’Antiterra come uno di tali corpi oscuri. Secondo Filolao sia la Luna che il Sole ricevevano luce dal Fuoco Centrale. Le eclissi di Sole potrebbero trovare giustificazione nell’interposizione tra Sole e Fuoco Centrale di Luna, Terra o Antiterra. Vi era poi il problema già detto del non far vedere dal lato abitato della Terra, in ogni condizione, il Fuoco Centrale. E forse altri motivi ma noi non conosciamo né i motivi né le spiegazioni fornite da Filolao. Una cosa però va detta. Filolao fa un’altra operazione, più di natura filosofica che non fisica, che avrà importanti conseguenze a partire da Aristotele. Egli pensa che la sfera dell’universo sia racchiusa da una sfera di fuoco, l’Olimpo, sede degli dei. Ragioni geometriche di tipo pitagorico, imponevano che il centro avesse la stessa natura della sfera esterna. E così al centro dell’universo pose il Fuoco che era della stessa natura del fuoco dell’Olimpo che tutto racchiudeva (al di là di questo fuoco era pensato l’apeiron, l’aria infinita da cui il mondo trae il suo respiro). Quel Fuoco Centrale, la Hestia, era anche chiamato Focolare del tutto, torre di guardia di Zeus, altare, vincolo e misura della natura. In questo modo il principio, l’Arché, era sistemato al centro del mondo e questa cosa sarà ripresa alla lettera da Copernico per giustificare il suo aver messo il Sole al centro dell’universo (e Aristotele ci dice che la Terra non era considerata ad un livello di nobiltà tale da occupare il centro dell’universo).
E’ una cosmologia fantasiosa che serve a rispondere a ragioni estetiche e di simmetria. Ma dentro vi sono moltissimi germi che faranno progredire di molto la concezione dell’universo: sfere planetarie che circondano la Terra; moto delle sfere intorno alla Terra; Terra in moto intorno ad un fuoco centrale; … Sono dei passi avanti giganteschi che si tratterà di razionalizzare ulteriormente per metterli a buon frutto.
Vedremo nel prossimo articolo come seguiranno le elaborazioni dei greci, attraverso altre scuole di pensiero: la eleatica, l’atomista, quella di Platone, di Aristotele … Occorrerà un ulteriore articolo per occuparci dell’esplosione della scienza del III secolo a.C., quando si avrà a che fare con una scienza molto vicina nei metodi a quella che oggi conosciamo.
NOTE
(1) Esisteva già una scrittura a Creta ed era, analogamente all’Egitto, sia di tipo geroglifico (che non ha nessun rapporto con quella egizia) che di tipo corsivo detto “lineare”(di derivazione da quella geroglifica per semplificazione e schematizzazione). Con la scomparsa della civiltà creto-micenea, andò dimenticata.
La scrittura fenicia (semitica), risalente al XII secolo a.C. e sviluppata dai trafficanti fenici per le necessità dei loro traffici, sembra derivi da quella corsiva (ieratica) egizia. Da tale scrittura derivarono, oltre a quella greca, quella aramaica, ebraica e probabilmente araba. La grande novità di tale scrittura è il non essere più patrimonio di una qualche casta di scribi ma di tutti. Deve essere fonetica, facile da apprendere, semplice, flessibile e pratica per facilitare al massimo la comunicazione. Essa era consonantico-sillabica, cioè priva della notazione delle vocali. La notazione sillabica fenicia aveva operato una drastica riduzione di sillabe perché raggruppava le sillabe accomunate dalla medesima consonante iniziale (in precedenza infatti si disponeva di segni dotati di valori fonetici corrispondenti alle sillabe, unità fonetiche pronunciabili ed empiricamente identificabili. I “sillabari” però, dato l’elevato numero di sillabe, erano ancora difficilmente memorizzabili e poco maneggevoli perché vi erano tante sillabe quanti oggetti da indicare con la conseguenza che le stesse sillabe si ripetevano). Era una grande semplificazione che si pagava con l’ambiguità (il caso di parole differenti ma con consonanti uguali è tutt’altro che raro) perché era il lettore che doveva capire quale vocale inserire subito dopo la data consonante. [Il corsivo è in gran parte tratto da: http://www.thanx.it/Web/Web-Writing/03-Avvento-alfabeto-greco.pdf].
La Fenicia (1100 a.C. – 500 a.C.) era una stretta striscia di terra, larga al massimo 60 Km e lunga 300 Km, situata lungo la costa della Siria, tra le montagne del Libano, della Galilea ed i monti Ansariyya (a Est), il Mare Mediterraneo (a Ovest), la città di Ra’s Nakura ed il Monte Carmelo (a Sud) e la foce del fiume Oronte e la città di Nahr el-Kelb (a Nord). Suoi centri più importanti furono: Arad, Ugarit, Biblio, Berito (odierna Beirut), Sidone e Tiro. Ricca di boschi di cedro il cui legno è particolarmente adatto alla costruzione di navi, disponeva di metalli, coltivava cereali, lino, frutta e vite ma, soprattutto, era un Paese marittimo, un centro e crocevia di scambi fra Mesopotamia, Anatolia (penisola che separa il Mar Egeo dal Mar Nero), isole dell’Egeo ed Egitto. La Fenicia, invasa e caduta varie volte sotto il dominio dei grandi imperi che lo circondavano (egiziani, ittiti, popoli del mare, assiri, babilonesi, persiani), non fu mai uno Stato ma un insieme di città Stato spesso in lotta tra loro. L’essere troppo commercianti, impedirà ai fenici di sviluppare una cultura originale; si preferirà riprodurre i modelli stranieri e ricercare ciò che più era richiesto sui mercati.

I territori approssimativi (di una certa epoca) della Fenicia sovrapposti a quelli degli Stati attualmente esistenti
(2) Le vocali greche upsilon e omega non hanno corrispettivi fenici.
(3) Furono i primi coloni greci giunti in Occidente, gli Euboici, a diffondere l’alfabeto presso gli Etruschi, che lo adattarono alla loro lingua. Attraverso gli Etruschi o le colonie greche dell’Italia meridionale l’alfabeto fu adottato a Roma e usato per esprimere la lingua latina. Con la diffusione di questa lingua sulla scia delle conquiste di Roma, l’alfabeto latino soppiantò ogni altro tipo di scrittura: infatti è questo l’alfabeto in uso per tutte le lingue moderne dell’Europa occidentale.
(4) Enrico Redaelli [http://garito.it/areastud/Ricerche/sandracolazingari_ascsrittura.htm] dice:
Soltanto con la pratica della scrittura s’instaurerà quella distanza a noi familiare tra il nome e ciò che esso nomina.
Affinché le cose appaiano come enti “oggettivi” e “in sé”, quindi separate dalle parole che le nominano, è necessario che esse acquisiscano i caratteri della permanenza e della stabilità, cioè che esse siano fruibili e riconoscibili universalmente e in maniera sempre identica.
Allo stesso modo, affinché le parole acquisiscano una propria indipendenza rispetto alle cose, è necessario che si oggettivino e si rendano visibili come tali. Ma la parola-evento del dire originario non ha queste caratteristiche: essa non può infatti essere percepita come presenza stabile, in quanto la sua natura sonora la rende deperibile ed evanescente. Finché restiamo nel campo dell’oralità, dei puri suoni, le parole non hanno una propria corporeità.
Questa corporeità è invece data in dotazione alla parola dalla scrittura. E’ la scrittura a far apparire letteralmente le parole, rendendole visibili ed esperibili come se si trattasse di oggetti. La scrittura infatti oggettiva la parola orale nella materialità del testo scritto e, iscrivendola su un supporto stabile, le dà un corpo e un’identità indipendente.
Nello stesso tempo la scrittura, come ha notato Husserl nell’Origine della geometria, rende pienamente “oggettive” le cose nominate che, attraverso la permanenza e la stabilità del testo scritto, diventano fruibili in modo sempre identico non solo dalla comunità di uomini che le nominano e che le scrivono ma, idealmente, da tutte le comunità a venire. Solo così le cose diventano propriamente “universali”, dotate di un’esistenza oggettiva e indiscutibile. […]
Un tale salto di astrazione sarà reso possibile soltanto dalla pratica di scrittura alfabetica. […]
Con l’introduzione delle vocali, l’alfabeto greco diventa, per così dire, del tutto “indipendente” (scrittura delle cose “in sé”, cioè svincolate dai contesti pratici di mondo): non solo il lettore non deve “aggiungere” o “dedurre” alcunché, ma può anche leggere senza comprendere (può ad esempio leggere parole il cui significato gli è sconosciuto). La partecipazione del lettore non è più richiesta, il testo ormai autosussiste indipendentemente dai contesti empirici e dalle pratiche di vita in cui è fruito. Prima, negli altri sistemi di scrittura, l’uomo non aveva mai di fronte a sé un testo autonomo (“in sé”), bensì un testo che prendeva senso se rianimato dal lettore e inscritto nel rapporto vivente, cosmologico e sacrale Dio-Uomo, quindi un testo irriducibile ad unità astratte. Gli Ebrei, ad esempio, per inserire le vocali giuste in una parola, dovevano dedurre il senso di quella parola dal senso complessivo del testo, dal discorso che in esso fluiva unidirezionalmente senza possibilità di analisi e scomposizione (possibilità che solo la scrittura fonetica permette, riproducendo i suoni a prescindere dal contenuto – in questo senso, potremmo dire, essa è la prima scrittura profana). […]
I Greci, col loro alfabeto, fanno allora esperienza di un mondo (il mondo trascritto in puri fonemi slegati da un più ampio contesto di senso) che si compone di singole unità astratte. Ciò permette al lettore greco una serie di operazioni “analitiche” e di “astrazioni” letteralmente “inaudite” (cioè mai udite dalla voce del mythos, quella voce che, prima della scrittura, raccontava il mondo). Non è un caso che la filosofia (quel pensiero che utilizza i “concetti” e procede per “astrazioni”) nasca proprio in Grecia, dopo l’introduzione dell’alfabeto.
(5) Le due numerazioni apparvero intorno al 450 a.C.. Quella acrofonica smise di essere utilizzata intorno al 100 a.C. mentre quella alfabetica, che si sviluppò in periodo alessandrino, venne utilizzata in Oriente fino al Medio Evo.
(6) Leggiamo in Geymonat:
L’opinione di una tradizione orientale del pensiero greco si diffuse ampiamente nel periodo ellenistico, in un’epoca cioè in cui la filosofia greca era diventata assai meno creativa ed aveva spostato il suo centro in Egitto (ad Alessandria), dove era interesse della classe sacerdotale locale trovare nella propria sapienza tradizionale l’origine della cultura greca. E si può intendere facilmente come un’interpretazione mistico-religiosa di tutta la filosofia e la cultura greche non dispiacesse agli intellettuali ebrei e cristiani, che cercavano di accordarla con la rivelazione divina. Al contrario, uno dei motivi principali del rapido fiorire della filosofia greca fu proprio la sua indipendenza dalla religione e dalla mitologia. Infatti, mentre la sapienza orientale, patrimonio della classe sacerdotale conservatrice, risiedeva soprattutto nel rispetto della tradizione, fu appunto contro la tradizione e l’opinione corrente che la più antica filosofia greca condusse la sua polemica.
Su questa vicenda, su ciò che si è trasferito dalle civiltà mesopotamiche ed egizie alla Grecia, vi è un dibattito acceso che è ben lungi da essere esaurito. Si passa da chi sostiene che in definitiva è ininfluente ciò che proveniva dalle civiltà precedenti a chi parla di una continuità senza cesure. Per quel che mi riguarda, al di là di ciò che dico nel testo, posso aggiungere che per certo le acquisizioni tecniche di base (agricoltura, tessitura, metallurgia, ceramica) passarono per intero dalle culture precedenti, con eventuali influssi da altri popoli e con interventi autoctoni, alla Grecia. Altre cose che senza difficoltà si possono supporre trasferite sono ancora gli strumenti osservativi dell’astronomia e la mole dei medesimi dati osservativi. Si può infine supporre che anche alcune proprietà geometriche arrivarono in Grecia dai Paesi circostanti. Ma, e qui tutti concordano, saranno i greci ad inventare la dimostrazione geometrica.
(7) In proposito vi è un’esemplificazione di Lloyd sulla teoria dei terremoti attribuita a Talete:
Com’è noto, questi s’immaginava che la terra poggiasse sull’ acqua e che i terremoti si verificassero quando la terra veniva scossa dai sussulti ondulatori dell’acqua su cui galleggiava. L’idea che la terra galleggiasse sull’acqua ricorre in molti miti babilonesi ed egiziani, ma non occorre allontanarsi dalla Grecia per trovare un mitico precursore della teoria taletiana, poiché ivi era credenza diffusa che Poseidone, dio del mare, fosse responsabile dei maremoti. Benché semplice, la teoria taletiana dei terremoti era una spiegazione naturalistica, priva di riferimenti a Poseidone o a qualsiasi altra divinità. Innanzi tutto, per dirla con Farrington, i milesi «lascian fuori gli dei »: mentre un terremoto o un lampo descritto da Omero o da Esiodo è quasi sempre attribuito alla collera di Zeus o di Poseidone, i filosofi escludono qualsiasi riferimento alla volontà, agli amori, agli odi, alle passioni e ad altri moventi semiumani di personaggi divini. Secondariamente, mentre Omero ci parla sempre di questo terremoto o di quel lampo, i milesi concentravano la loro attenzione non su un fenomeno particolare, ma sui terremoti o sui lampi in generale. Le loro ricerche, rivolte a classi di fenomeni naturali, evidenziano quell’aspetto peculiare della scienza, per cui si indaga sull’universale e l’essenziale e non sul fenomeno singolo o accidentale.
(8) L’Epopea di Gilgamesh è uno dei più antichi (forse il primo) poemi epici conosciuti e narra le gesta di un antichissimo (forse intorno al 2600 a.C.) e leggendario re sumerico, Gilgamesh re di Uruk, alle prese con il problema della morte e del suo impossibile superamento. Il poema ci è giunto in varie versioni e lingue risalenti ad un epoca compresa tra il III-II millennio a.C. (oltre alle versioni in cuneiforme, anche in documenti ittiti, scoperti ad Hattusa in Anatolia, e palestinesi, trovati a Megiddo). Nella sua versione più lunga, fu ritrovato in 11 tavolette nella Biblioteca di Assurbanipal (questa redazione è del VII secolo a.C.). E’ da notare che nell’Epopea vi è la prima redazione nota del diluvio universale, fatto a cui faccio riferimento nel testo.
(9) Le citazioni che farò, salvo avviso contrario, sono tratte dalle dossografie di Pichot.
(10) Gli opposti a cui si riferisce Anassimandro, saranno poi gli opposti di Aristotele. Tali coppie di opposti sono:
caldo-freddo;
secco-umido;
pesante -leggero;
denso-raro;
ruvido-liscio;
duro-soffice;
resistente-fragile.
(11) Il concetto che ho espresso è raccontato da Pichot nel modo seguente:
È da questo apeiron, indeterminato qualitativo e quantitativo, che tutte le cose traggono il loro essere ed è in esso che tutte tornano a distruggersi. Come già accadeva con l’acqua di Talete. Nondimeno, la modalità di trasformazione dell’apeiron (sempre che si possa qui parlare di trasformazioni) è completamente diversa da quella dell’acqua. Per Anassimandro, l’esistenza delle cose (ossia, la loro determinazione qualitativa e quantitativa, la loro differenziazione) si comprende soltanto con lo sconfinamento di un elemento sul suo contrario. Questo eccesso dell’uno in rapporto all’altro rompe il loro equilibrio in seno all’indifferenziazione e provoca la determinazione qualitativa e quantitativa, dunque l’esistenza di una cosa determinata. L’apeiron, indeterminato qualitativo e quantitativo, si comprenderebbe allora come la mescolanza di tutte le coppie di contrari, ciascuno di questi contrari venendo «neutralizzato» all’interno della propria coppia dal suo opposto. La determinazione delle cose risulterebbe dalla rottura dell’equilibrio, dall’eccesso di questi o quegli elementi sconfinanti sui loro opposti. Questo eccesso d’un elemento sul suo contrario è concepito da Anassimandro come un’ingiustizia dell’uno in rapporto all’altro, dunque secondo una modalità morale. La differenziazione di cose determinate a partire dall’apeiron è allora il risultato d’una ingiustizia, se non è anzi un’ingiustizia in sé; l’equilibrio perfetto tra i contrari è di conseguenza ritenuto come l’espressione della giustizia – ma esso è altresì l’indeterminazione. Questa ingiustizia dovrà essere pagata con il ritorno all’indifferenziazione, dunque con l’avanzata del contrario deficitario che ristabilisce l’equilibrio, e il ritorno delle cose determinate in seno all’apeiron.
In Eraclito, ritroveremo questo gioco dei contrari nella determinazione delle cose, ma sarà allora completamente diverso. Per Anassimandro, si dovrà, da un canto, sottolineare il carattere pessimista d’una tale concezione (che riconduce ogni particolare esistenza ad una ingiustizia) e, d’altro canto, rilevare questo impiego d’una nozione d’ingiustizia nella spiegazione pressoché fisica del mondo. Il miglior modo di spiegarsi un simile impiego è certamente il parallelismo che si è già istituito qui con i fattori sociopolitici: la giustizia come equilibrio tra i contrari non manca di ricordare il principio democratico della legittimità come equilibrio tra i diversi membri dell’assemblea (ognuno essendo l’uguale di tutti gli altri – la legittimità risulta dall’equilibrio che preserva i diritti e gli interessi di ognuno, più ancora che quelli della maggioranza); lo squilibrio a vantaggio di taluni è allora un’ingiustizia. Un tale principio di equilibrio tra i diversi elementi (e specialmente tra i contrari) nella scienza greca è una costante, soprattutto nella medicina (da Alcmeone di Crotone sino a Ippocrate di Cos, passando per Empedocle, quanto al periodo che qui ci interessa) dove la salute è sempre definita come l’equilibrio tra le differenti componenti del corpo, mentre la malattia è lo squilibrio a favore di una di esse. È in Anassimandro che lo rinveniamo per la prima volta. L’adozione di questa nozione d’ingiustizia si spiega,. da un canto, con il fatto che la concezione di Anassimandro non è quella d’una scienza della natura quale oggi la conosciamo, ma una filosofia (pessimista) includente uno studio della natura; e, d’altro canto, con il fatto che la spiegazione del mondo traspone nella natura principi che sono quelli dell’organizzazione politica greca dell’epoca.
(12) Completo il quadro di Anassimandro almeno citando le sue concezioni evolutive che sembra gli siano derivate dalla prolungata osservazione di bambini che crescevano.
Anassimandro sostiene che i primi viventi furono generati dall’umidità, avvolti in membrane spinose e che col passare del tempo approdarono all’asciutto e, spezzatasi la membrana, poco dopo mutarono genere di vita (Aezio, V 19,4 – Dox. 430)
Anassimandro di Mileto afferma che, a suo parere, dall’acqua e dalla terra riscaldata, nacquero o dei pesci o degli animali simili a pesci; in questi concrebbero gli uomini, e i feti vi rimasero rinchiusi fino alla pubertà. Quando questi si spezzarono, allora finalmente ne uscirono uomini e donne che potevano già nutrirsi. (Censorino, de d. nat. 4,7)
(13) Come già detto in generale, mi interesso di tale pensatore solo dal punto di vista del pensiero scientifico, tralasciando completamente la parte filosofica, anche perché di difficile decifrazione, come confermato anche da Aristotele che lo definì l’Oscuro.
Osservo però che Eraclito era un aristocratico che disprezzava il popolo, o meglio, le sue capacità di comprendere. Per il suo essere fautore entusiasta della guerra fu apprezzato da Hegel e da Nietzsche.
(14) Eraclito gioca qui con un accento sulla parola bios (bioV). Se scriviamo bíos abbiamo il significato di vita ma se scriviamo biòs passiamo al significato di arco, strumento che dà morte.
(15) I contenuti avevano importanti affinità e le pratiche coincidevano con la setta degli Orfici che si sviluppò in Grecia sul finire del VII secolo (in proposito si veda la pagina di Diego Fusaro in http://www.geocities.com/diego_fusaro_2000/orfismo.html ).
La setta credeva nella metempsicosi, nella reincarnazione dopo morti in animali. Per questo motivo era anche vegetariana, il rischio di mangiare la nonna non lo volevano correre. E la cosa non è una boutade se pure Shakespeare ci spese un passo (Dodicesima notte, citato da Russel):
Buffone: Qual è l’opinione di Pitagora intorno alla cacciagione?
Malvolio: Che l’anima di mia nonna potrebbe per avventura abitare dentro un uccello.
Buffone: E qual è il tuo avviso su questa teoria?
Malvolio: lo ho un troppo alto concetto dell’anima per potere comunque seguire tale opinione.
Buffone: E allora, stammi allegro: e rimaniti nella tua oscurità, che io non ti riconoscerò guarito finché non sarai convinto della teoria di Pitagora, e, per conseguenza, non ti farai scrupolo di uccidere una beccaccia per il timore di sfrattar di casa l’anima di tua nonna.
Altre regole della setta di Pitagora (citate da Russel) derivavano dalle primitive concezioni dei tabù:
l) Astieniti dalle fave.
2) Non raccogliere ciò che è caduto.
3) Non toccare un gallo bianco.
4) Non spezzare il pane.
5) Non scavalcare le travi.
6) Non attizzare il fuoco con il ferro.
7) Non addentare una pagnotta intera.
8) Non strappare le ghirlande.
9) Non sederti su di un boccale.
10) Non mangiare il cuore.
11) Non camminare sulle strade maestre.
12) Non permettere alle rondini di dividersi il tuo tetto.
13) Quando togli dal fuoco la pignatta non lasciare la sua traccia nelle ceneri, ma rimescolale.
14) Non guardare in uno specchio accanto ad un lume.
15) Quando ti sfili dalle coperte, arrotolale e spiana l’impronta del corpo.
(16) Giamblico (III-IV secolo d.C.) fa un elenco di 218 pitagorici. Tra di essi vanno ricordati: (tra i primi) Alcmeone di Crotone, Ippaso di Metaponto, Aristeo di Crotone;(più recenti) Filolao ed Archita di Taranto. Quest’ultimo sarebbe stato un amico di Platone mentre Filolao gli avrebbe venduto tre libri con lavori pitagorici dai quali lo stesso Platone avrebbe preso le mosse per scrivere il Timeo.
(17) Il termine subcontrario, che discende da problemi musicali, sembra derivi dal fatto che i tre termini di una media armonica danno sempre, se invertiti, una media aritmetica.
(18) I nomi dei pianeti erano i seguenti: Saturno era chiamato Phainon (apparente, paino); Giove era chiamato Phaeton; Pyroeis era Marte (l’infocato); Phosphoros era Venere (lucifero); Stilbon era Mercurio (scintillante). Vedremo tra poco l’Antiterra che si chiamerà Antichton.
(19) Secondo alcune fonti, Filolao avrebbe provato ad inscrivere dentro ciascuna sfera un poliedro regolare. La cosa sarà ripresa completamente da Kepler.
(20) Secondo attendibili valutazioni la grandezza dell’universo era più o meno quella che prevedeva: l’orbita dell’Antiterra pari a tre raggi terrestri; l’orbita della Terra pari a 9 raggi terrestri; quella della Luna a 27; quella di Mercurio ad 81; quella di Venere a 243; quella del Sole a 729 (questo numero è sia il quadrato di 27 che il cubo di 9: per questo motivo il Sole si chiamava quadrato-cubo); e così di seguito in progressione geometrica fino a quella delle stelle pari a 59049 raggi terrestri. Per ciò che riguarda la circonferenza terrestre abbiamo una valutazione di Aristotele che dice: i matematici stimano il circolo della Terra pari a 400 mila stadi (circa 63000 Km, di più dei 40000 che oggi sappiamo essere).
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