APPUNTI PER UNA STORIA CRITICA DELLA SCUOLA IN ITALIA 3

PARTE TERZA: DALLA RIFORMA LIBERISTA DI BERLINGUER ALLA GESTIONE FALLIMENTARE DI BRICHETTO-MORATTI 

Roberto Renzetti

2005


AVVERTENZA

Questa parte del discorso sulla Storia della Scuola in Italia ha un difetto di fondo. Raccontando di episodi che mi hanno coinvolto emotivamente e mi hanno fatto più volte indignare non è distaccata come dovrebbe. Le notizie e la documentazione sono quelle che devono essere. I commenti scartateli, se volete.


PREMESSA

Occorre dare delle informazioni per collegare quanto dirò con cambiamenti internazionali estremamente rilevanti. Alla fine del secondo millennio nasce la WTO, la Word Trade Organization, che sta per Organizzazione mondiale del commercio come frutto di otto anni di negoziati in Uruguay (Round), dal 1986 al 1994 (anno della sua nascita), ed è di fatto erede dell’ex GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) nato nel 1948 e attivo fino al 1995. L’organizzazione si occupa del controllo delle regole del commercio mondiale, sostenendo una  totale abolizione di ogni tipo di dazio o tariffa alle frontiere. All’inzio della sua storia come Gatt, contava pochi Paesi membri (tanto da essere chiamato”il Club dei ricchi”); ora conta la quasi totalità dei Paesi del mondo.

Il WTO è un mostro onnivoro che ha nei suoi piani la privatizzazione di ogni servizio, istituzione, … che abbia un costo per il cittadino, anche minimo. In questo senso, la scuola è nel mirino nel WTO. La si vuole privatizzare per immettere sul mercato le migliaia di miliardi che occorrono per man tenerla come pubblica. La cosa non può essere liquidata con queste poche parole; mi servo quindi dell’articolo La scuola in trappola, dell’economista politico Riccardo Petrella, pubblicato su il Manifesto-Le Monde Diplomatique nell’Ottobre 2000, per illustrare meglio il tutto.


La scuola in trappola

La scuola, a cui viene ingiunto di affrontare da sola la sfida della promozione sociale, viene progressivamente screditata e sottoposta ai desiderata del mercato del lavoro. Nella «società della conoscenza» – dove la promozione delle nuove tecnologie ha sostituito il pensiero – la scuola ormai non è altro che lo strumento di legittimazione di una divisione sociale che favorisce le ineguaglianze. Questa visione riduttiva dimentica che la scuola è prima di tutto il luogo dove si costruiscono i legami sociali, in cui deve elaborarsi la «democrazia della vita».

di Riccardo Petrella *

Sono cinque le principali trappole che oggi minacciano la sfera dell’istruzione.
A costruirle sono stati i cambiamenti politici, sociali ed economici degli ultimi trent’anni, che hanno visto imporsi un modo di vita incentrato sull’iperconsumo e sulla mercificazione generalizzata di ogni bene e servizio, mentre esplodevano le nuove tecnologie e la globalizzazione liberista.
La prima trappola è rappresentata dalla crescente strumentalizzazione della scuola al servizio della formazione delle «risorse umane».
Questa funzione ha progressivamente la meglio sull’educazione per la persona e attraverso la persona. Trae origine dalla riduzione del lavoro a una «risorsa» organizzata, declassata, riciclata e, all’occorrenza, abbandonata in funzione della sua utilità per l’impresa.
Come qualsiasi altra risorsa materiale e immateriale, la risorsa umana viene considerata una merce economica che deve essere ovunque disponibile (1). Non conosce né diritti civili né di altro tipo, politici, sociali o culturali, dal momento che i soli limiti al suo sfruttamento sono di natura finanziaria (i costi). Il diritto all’esistenza e al reddito dipende dall’efficienza e dalla redditività. La «risorsa umana» deve dimostrare di essere «impiegabile», il che porta alla sostituzione del «diritto al lavoro» con un nuovo obbligo: dimostrare la propria «impiegabilità».
Alcuni dirigenti la chiamano «politica sociale attiva del lavoro», in base alla quale il ruolo centrale ancora riconosciuto alla scuola si misura in rapporto a questo obbligo di «impiegabilità». E per tutta la durata della vita, grazie alla formazione continua, «permanente», la cui funzione è di mantenere sempre utilizzabili e redditizie le risorse umane del paese. In questo modo il lavoro ha cessato di essere un soggetto sociale.
La seconda trappola è costituita dal passaggio della scuola dall’ambito non mercantile al mercato. Dal momento in cui il compito principale che le viene assegnato è quello di formare le risorse umane al servizio dell’impresa, non c’è da stupirsi se la logica mercantile e finanziaria del capitale privato intende imporle la definizione delle proprie finalità e priorità. La scuola è trattata sempre più come un mercato (2).
In America del nord, si parla in permanenza di «mercato dell’istruzione», di «business dell’istruzione», di «mercato dei prodotti e dei servizi pedagogici», di «imprese educative», di «mercato dei professori e degli allievi». Non è di poco conto che il primo Mercato mondiale dell’istruzione (World Educational Market) si sia svolto dal 23 al 27 maggio 2000 a Vancouver, in Canada. Per la grande maggioranza degli interessati, pubblici e privati, presenti sul posto,(3) la mercificazione dell’istruzione non solleva nessun dubbio, e la questione principale è di sapere chi venderà cosa sul mercato mondiale e secondo quali regole. Il «chi» comincia ad essere sempre più chiaro: si tratta degli editori dei prodotti multimediali, degli ideatori e fornitori di servizi on line o di teleinsegnamento, degli operatori delle telecomunicazioni, delle imprese informatiche. Tutti settori dove le fusioni, le acquisizioni e le alleanze si sono succedute a un ritmo frenetico negli ultimi anni. Queste imprese hanno già investito molto nel «cosa»: molte di esse possiedono un catalogo di programmi di formazione chiavi in mano da proporre on line. Le «università virtuali» si moltiplicano, crescono come funghi oltre le frontiere «nazionali». Secondo le previsioni della banca d’affari statunitense Merrill Lynch (4), il numero dei giovani che seguiranno studi superiori nel mondo salirà a circa 160 milioni verso il 2025. Attualmente sono 84 milioni, 40 dei quali già seguono un insegnamento on line. È facile immaginare cosa sarà diventato tra un quarto di secolo quest’ultimo mercato.
In tutti i paesi «sviluppati», la tendenza spinge verso un sistema di istruzione organizzata su base individuale, a distanza (via Internet), variabile nel tempo, lungo tutta la vita e personalizzato (5). Quanto alle regole, il fallimento dei negoziati del Millenium Round dell’organizzazione mondiale del commercio (Wto), a Seattle, nel dicembre 1999, ha impedito, per il momento, di applicare anche all’istruzione i principi del libero commercio: infatti, questo programma era nell’agenda dell’Accordo generale sul commercio dei servizi (Scga). Poiché i negoziati sui servizi sono ripresi al Wto a Ginevra, nulla garantisce che la liberalizzazione e la deregulation del settore educativo non siano messi di nuovo all’ordine del giorno.
Sempre più numerosi sono in effetti i politici dei paesi sviluppati pronti ad accettare che sia il mercato a decidere sulle finalità e l’organizzazione dell’istruzione. Le organizzazioni sindacali (in particolare l’Internazionale dell’istruzione), le organizzazioni (non) governative e i movimenti dei cittadini dovrebbero raddoppiare gli sforzi per contattaccare (6).
Terza trappola: l’istruzione viene presentata come lo strumento-chiave per garantire la sopravvivenza agli individui e ai paesi nell’era della competizione mondiale. In questo modo, la sfera educativa tende a trasformarsi in un «luogo» dove si impara una cultura di guerra (ognuno per sé, riesci meglio degli altri e al posto loro) piuttosto che una cultura di vita (vivere insieme agli altri, nell’interesse generale). Le università, i poteri pubblici, gli studenti, le famiglie e persino molti sindacati, hanno – in generale – accettato questa cultura della competizione. Malgrado gli sforzi di buona parte degli educatori, il sistema è stato così spinto a privilegiare la funzione di selezione dei migliori, piuttosto che la funzione di valorizzazione delle capacità specifiche di ogni allievo.
Il nuovo proletariato Quarta trappola: la subordinazione dell’istruzione alla tecnologia.
La classe dirigente, che fin dagli anni ’70 ritiene la tecnologia il principale motore dei cambiamenti della società, ha imposto la tesi del suo primato e dell’urgenza di adattarsi ad essa. Qualunque sia il campo di applicazione (l’energia, la comunicazione, la sanità, il lavoro) domina la tendenza a considerare inevitabile e irresistibile ogni cambiamento economico e sociale legato alle nuove tecnonologie, poiché le innovazioni da esse introdotte sono considerate un contributo al progresso dell’uomo e della società.
Per la grande maggioranza dei dirigenti, l’attuale globalizzazione è figlia del progresso tecnologico. Opporvisi è insensato. Il ruolo principale dell’istruzione sarebbe quindi quello di dare alle nuove generazioni la capacità di capire i cambiamenti in corso e gli strumenti per adattarvisi.
Quinta trappola: l’uso del sistema educativo come mezzo di legittimizzazione di nuove forme di divisione sociale. A credere ai discorsi dominanti, le economie e le società dei paesi sviluppati sarebbero passate dall’era industriale, fondata su risorse materiali e capitali fisici (la terra, l’energia, l’acciaio, il cemento, la ferrovia) all’era della conoscenza, fondata principalmente su risorse e capitali immateriali (i saperi, l’informazione, la comunicazione, la logistica).
La conoscenza sarebbe diventata la risorsa fondamentale della nuova economia nata dalla rivoluzione multimediale, dalle reti digitali, dai loro derivati: l’«e-commercio», l’«e-trasporto», la «e-istruzione», l’«e-lavoratore» (7). In quest’ottica, l’impresa è vista come il soggetto e il luogo principale della promozione, organizzazione, produzione, valorizzazione e diffusione della «conoscenza che conta».
Promuovere la diffusione di uno spirito imprenditoriale negli ambienti scientifici e negli istituti scolastici secondari e superiori e ri-dinamizzare il sistema educativo per trasformarlo in terreno privilegiato della formazione delle giovani generazioni alla costruzione della «società della conoscenza»; questo soprattutto prescrivono oggi le politiche pubbliche della ricerca e dell’insegnamento. Questa prescrizione viene introdotta nel momento in cui, dappertutto nel mondo, si sta instaurando una nuova divisione sociale tra i «qualificati» (coloro che hanno accesso alla «conoscenza che conta») e i «non qualificati» (gli esclusi da questo accesso o che non riescono a mantenerlo aperto).
Una divisione che aggrava quelle precedenti e, tra le altre, le disuguaglianze di accesso all’alfabetizzazione di base. La conoscenza diventa il principale materiale di costruzione di un nuovo muro (il «muro della conoscenza») tra le risorse umane nobili (organizzate nelle nuove corporazioni professionali planetarie) e le risorse umane del popolo, nuovo proletariato del capitale mondiale.
È difficile che gli europei, con scelte come quella fatta dai capi di stato e di governo dei Quindici al consiglio europeo di Lisbona nel marzo 2000, possano disinnescare queste cinque trappole. Tale scelta, tradotta poi in Piano di azione dal consiglio europeo di Feira nel giugno 2000, assicura come grande priorità dei prossimi quindici anni la costruzione della «e-Europa», perché diventi nel 2015 la «e-economia» più competitiva al mondo.
A questo scopo, l’obiettivo fondamentale è dare a tutti gli europei, fin dall’asilo e dalle elementari, l’accesso all’alfabetizzazione digitale, perché tutti diventino «risorse umane» in grado di competere con quelle dell’America del nord, che sarebbe in anticipo di una decina d’anni rispetto a noi (8).
Su questo, il consenso è grande tra i leader europei. Non hanno ancora capito, dopo vent’anni di politiche funzionali a una competitività alla mercè dei mercati, che in questa logica pochi sono i vincitori, in tutti i campi, compreso quello dell’istruzione? Come possono ignorare che gli Stati uniti, il paese più «sviluppato» al mondo nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nel multimediale, in Internet…
hanno un livello di istruzione particolamente deplorevole, come afferma anche uno studio dell’Organizzazione di cooperazione e di sviluppo economico (Ocse)? (9) Perché chiudono gli occhi di fronte allo stato pietoso dell’istruzione di base e alle crescenti disuguaglianze sociali che caratterizzano oggi l’accesso all’insegnamento superiore in Gran Bretagna? Come possono ignorare i risultati di anni di ricerche multidisciplinari sullo sviluppo dei bambini che mostrano come questi ultimi abbiano un fondamentale bisogno di legami personali profondi con gli adulti e che mettere l’accento sui computer a scuola fin dalla più tenera età può privarli di questi legami essenziali? (10) Proposte pertinenti e realiste per un’altra politica educativa non mancano. Ci sono, ad esempio, quelle avanzate da Oxfam International e dall’Internazionale dell’istruzione nel marzo 1999 per «Una istruzione pubblica di qualità per tutti» (11). Imparare a salutare il proprio vicino rappresenta un punto di partenza decisivo per un’«altra» scuola.
Questo significa che lo scopo primario del sistema educativo è che ogni cittadino apprenda a riconoscere l’esistenza dell’altro come base fondamentale della propria esistenza e del vivere insieme.
Dialogare direttamente da persona a persona vuol dire apprendere la centralità dell’alterità nella storia delle società umane, nate dalle tensioni creatrici e conflittuali tra l’unicità e la molteplicità, l’universalità e la specificità, il globale e il locale. Dialogare significa anche apprendere la democrazia e la vita, la solidarietà, la capacità di riconoscere il valore dei contributi al vivere insieme di tutti gli esseri umano – anche di quelli che i criteri di produttività e redditività considerano poco qualificati.
È partendo da questo principio generale che una politica dell’istruzione basata sullo sviluppo, la salvaguardia e la condivisione dei «beni comuni» (12) rappresentati dalle conoscenze e dai saperi, potrebbe condurre a uno sviluppo mondiale, solidale sul piano economico, efficace sul piano sociale e democratico sul piano politico. Applicata alla «e-Europa», darebbe priorità alla formazione di una generazione di cittadini con le competenze e le qualifiche richieste dalle nuove logiche: quelle dell’economia sociale, dell’economia solidale, dell’economia locale, dell’economia cooperativa.
Darebbe anche un’importanza fondamentale alla cooperazione con le altre comunità, regioni e popoli del mondo, in modo da indebolire la tendenza attuale di appropriazione privata delle conoscenze, per metterle invece al servizio della promozione di un welfare state mondiale che assicuri a tutti il diritto alla vita.

note:

*Consigliere alla Commissione europea, professore all’Università cattolica di Lovanio (Belgio).

(1) È ora di elaborare una critica severa del concetto e delle pratiche delle «risorse umane» e di abbandonare l’uso di questa espressione nelle società che si dicono fondate sui diritti umani.

(2) Per una critica di questa evoluzione, cfr. Gérard de Sélys, «Scuola, il grande affare del XXI secolo», Le Monde diplomatique/il manifesto, giugno 1998.

(3) Cfr. Le Monde del 26 e 30 maggio 2000.

(4) Merril Lynch, The Knowledge Web, 23 maggio 2000.

(5) Cfr. «Learning in cyberspace», Financial Times, Londra, 8 marzo 1998 e European Round Table of Industrialists (Tavola rotonda europea degli industriali), Investir dans la connaissance. L’intégration de la technologie dans l’éducation européenne, Bruxelles, febbraio 1997.

(6) A questo proposito, l’Internazionale dell’istruzione, (Bruxelles) e l’Internazionale dei servizi pubblici (Parigi) hanno pubblicato nel 1999 un eccellente documento: L’Omc et le cycle du millénaire: les enjeux pour l’éducation publique.

(7) Cfr. Il Libro bianco sulla competitività del governo britannico, Our Competitive Future. Building the Knowledge Driven Economy, ministero del commercio e dell’industria, Londra, dicembre 1998; Commissione europea, Enseigner et apprendre. Vers la société cognitive, Lussemburgo 1995; Lester C.Thurow, Building Wealth: the New Rules For Individuals, Companies and Nations in a Knowledge-Based Economy, Harper Collins, New York, 1999.

(8) Cfr. Consiglio dell’Unione europea e Commissione delle Comunità europee, e-Europe. Une société de l’information pour tous, Plan d’action, Bruxelles, giugno 2000.

(9) Ocse, Education in a Glance: Oecd Indicators 1998, Parigi, 1998.
10) Cfr. le analisi dell’Alliance for Childhood (www.allianceforchildhood.net).

(11) Cfr. il rapporto di Kevin Walkins, L’Education pour tous: brisons le cycle de la pauvreté, Oxfam International, Londra 1999.

(12) Cfr. Inge Kaul, «Beni pubblici globali, un concetto rivoluzionario», Le Monde diplomatique/il manifesto, giugno 2000.
(Traduzione di A.M.M.) .

Aggiungo che [39] riguardo all’istruzione (intesa come formazione primaria, formazione secondaria, formazione superiore, formazione para-universitaria e universitaria; l’istruzione per adulti che sarà sempre più intesa come formazione continua (Longlife Learning); la formazione in generale) sono vietati gli intralci alla concorrenza: i limiti nell’equiparazione dei titoli di studio, i limiti alla mobilità di studenti, insegnanti e altre figure professionali, ma anche le norme statali che “discriminano ” l’offerta di altri stati, per esempio finanziando la propria istruzione pubblica. Tali norme, infatti, sono in contrasto con alcuni dei principi più importanti della legislazione WTO.

Dietro a questo assalto commerciale alla scuola, che da diritto diventa oggi servizio commerciabile, è possibile risalire ad alcuni dati. In primo luogo a un sostegno pubblico decrescente, che rischia di trasformare in realtà la tanto sbandierata immagine di una scuola pubblica allo sfascio e che di fatto apre la porta a un massiccio intervento di privati; in secondo luogo un’idea di istruzione che punta sempre di più sull’acquisizione di competenze utili non allo sviluppo globale della persona, ma al suo inserimento nel mercato del lavoro e ad una riduzione del sapere a insieme di competenze spendibili sul mondo del lavoro, la preminenza dell’istruzione tecnica e specialistica su una formazione globale e ampia dell’individuo e la settorializzazione imposta fino dai primi anni di istruzione.
I segni di queste trasformazioni sono visibili già nelle politiche scolastiche italiane e comunitarie degli ultimi dieci anni, anche se, rispetto al presente, l’applicazione del GATS rappresenterà uno scarto in avanti: la vendita di curricoli a livello internazionale comporterà una standardizzazione ancora più efficace ed avanzata , realizzabile grazie al massiccio uso di tecnologie audiovisive e informatiche e di verifiche interne il più oggettive possibile.
I risultati saranno commerciali e ideologici: guadagno per le poche firme specializzate in educazione, formazione di dirigenti o tecnici specializzati, già addestrati a svolgere le mansioni richieste; aumento della competitività e dell’incidenza del momento della verifiche nel tempo scolastico; l’aumento dei costi per gli studenti e le loro famiglie, e la trasformazione della scuola di qualità in un lusso pagabile solo da pochi; riduzione dell’insegnamento a un addestramento, in cui anche la capacità di dare un senso e un’interpretazione critica delle cose diviene uno “skill”, verificabile oggettivamente, attuabile attraverso una procedura e certificabile.
Restano da determinare le ricadute dei diversi tipi di liberalizzazione del mercato della scuola: l’aumento degli scambio di ricercatori e di insegnanti oltre le frontiere potrebbe non avere le stesse ricadute di un’apertura indiscriminata a ogni forma di investimento, con la creazione di pochi poli specializzati in formazione e educazione che proporrebbero pezzi di programma commerciabili e standardizzati uniformando totalmente a l processo di apprendimento.Tuttavia gli andamenti espansivi di questi accordi e il prevalere della logica della libera concorrenza lasciano vedere l’apertura del settore come un rischio enorme: le giuste speranze in una nuova istruzione, più vicina alle nuove esigenze generate dai nuovi saperi, dalla globalizzazione e dagli scambi tra culture non vanno certo riposte nel WTO 
[39].

            Il WTO è solo una parte del problema. Poiché, come accennato, l’istruzione è un grande affare (indagine OCSE 1998: 2000 miliardi di dollari l’investimento per la scuola nel mondo; 1000 miliardi negli Stati membri con circa: 4 milioni di insegnanti, 80 milioni di studenti, 315 mila istituti e 5 mila università) sugli affari si affrettano ad intervenire gli imprenditori europei. Ma l’operazione sarebbe asfittica se dovesse marciare Stato per Stato. Ma negli anni di fine millennio va potenziandosi l’Unione Europea (1985-1995: presidenza J. Delors; 1992: Trattati di Maastricht con la UE che inizia ad avere competenze nell’istruzione; 1993: diventa operativo il mercato unico; 1995: UE a 15; 2000: Conferenza di Lisbona). [Per tutto ciò che segue fino alla fine del paragrafo e per i successivi paragrafi che trattano di Europa, anche per le referenze bibliografiche e d’altro tipo, si veda bibliografia 40].

            E sul governo della UE iniziano le pressioni degli imprenditori. Già nel 1989 l’European  Round Table of Industrialist, l’ERT, potente lobby di industriali europei, che ha grande influenza ed entratura presso la UE, aveva pubblicato un rapporto dal titolo: “Istruzione e competenza in Europa” in cui  si sosteneva che l’istruzione e la formazione (…) sono (…) investimenti strategici vitali per la competitività europea e per  il futuro successo dell’impresa“e che  “l’insegnamento e la formazione [sono purtroppo] sempre considerati dai governi e dagli organi decisionali come un affare interno (…). L’industria ha soltanto una modestissima influenza sui programmi didattici che devono essere rinnovati insieme ai sistemi d’insegnamento“. Si aggiungeva poi che gli insegnanti  “hanno una comprensione insufficiente dell’ambiente economico, degli affari, della nozione di profitto … e non capiscono i bisogni dell’industria“.

            E nel  1992 la  UE, con il trattato di Maastricht, inizia ad avere competenze in materia d’Istruzione. Nel 1993, il Libro Bianco della UE apre all’industria (“apertura dell’educazione al mondo del lavoro“) proponendo incentivi fiscali e legali al fine di far investire la stessa nell’Istruzione. La supposta sfida viene raccolta, in un gioco delle parti, dall’ERT che nel 1995  spinge gli industriali a “moltiplicare i partenariati tra scuole ed imprese” e sollecita il mondo politico in tal senso. L’ERT insiste nel denunciare che “nella gran parte d’Europa le scuole [sono] integrate in sistemi pubblici centralizzati, gestiti da una burocrazia che rallenta la loro evoluzione o le rende impermeabili alle domande di cambiamento provenienti dall’esterno“. E passa ad avanzare i suoi intendimenti: “la responsabilità della formazione deve, in definitiva, essere assunta dall’industria.  Sembra che nel mondo della scuola non si percepisca chiaramente quale sia il profilo dei collaboratori di cui l’industria ha bisogno. L’istruzione deve essere considerata come un servizio reso al mondo economico.  I governi nazionali dovrebbero vedere l’istruzione  come un processo esteso dalla culla fino alla tomba. Istruzione significa apprendere, non ricevere un insegnamento [ERT, 1995]“. “Non abbiamo tempo da perdere. (…) Ci appelliamo ai governi perché diano all’educazione un’alta priorità, perché invitino l’industria al tavolo di discussione sulle materie educative, e perché rivoluzionino i metodi d’insegnamento con la tecnologia [ERT, 1997]”.

   La cosa viene immediatamente ripresa, dal Libro Bianco della UE 1995 in cui si fa esplicito riferimento all’ERT: “Il rapporto della Tavola Rotonda Europea degli industriali ha insistito sulla necessità di una formazione continua polivalente (…) incitando ad imparare ad imparare nel corso di tutta la vita [long life learning] …[e quindi] una iniziazione generalizzata alle tecnologie dell’informazione è diventata una necessità“.

            In tempi rapidissimi i desiderata del mondo dell’impresa e della finanza trovano accoglienza in un lavoro dell’UNESCO del 1996. Una Commissione presieduta da Jacques Delors, che ha appena lasciato la Presidenza della UE, stila un rapporto che getta le basi per la scuola europea del futuro immediato. Anche la UE, crea una Commissione, presieduta da Edith Cresson, nientemeno che un ex Primo Ministro francese, che lavora nel senso delle richieste avanzate dall’ERT.

            Occorre aggiungere un altro dato, che sarà abbondantemente utilizzato come strumento di propaganda per giustificare la frenesia riformista. Verso la metà degli anni 90 circolavano ormai numerose statistiche che vedevano l’Italia agli ultimi posti in Europa per numero di diplomati a livello secondario (e per numero di laureati). Il problema 

doveva essere risolto per permettere un allineamento con i Paesi più evoluti. Per conseguire tale obiettivo condivisibile, si procederà con una serie di operazioni discutibilissime che, alla fine, porteranno ad una ulteriore dequalificazione della scuola nel suo insieme.

            Siamo a questo punto quando il centrosinistra vince le elezioni del 1966 e si appresta a governare l’Italia con Luigi Berlinguer alla Pubblica Istruzione e Bassanini alla Funzione Pubblica. Naturalmente nel mondo della scuola, sono molte le speranze nei riguardi di un primo governo progressista in Italia. Vediamo come è andata.

LE RIFORME BASSANINI

            La prima legge che interviene sulla scuola del governo di centrosinistra è quella che introduce l’Autonomia scolastica(Legge Bassanini o Legge 59/97 – della quale è rilevante l’articolo 21 – integrata successivamente con il D.P.R. 233/8 ed il D.I. 44/01). 

            Ma prima di entrare in un qualche dettaglio su tale legge, è utile ricordare che quanto in essa sostenuto, relativamente alla scuola, era stato avanzato per la prima volta dal Ministro della pubblica istruzione, Lombardi, di un governo tecnico (quello Dini) che seguì il primo governo Berlusconi e precedette il governo di centrosinistra. Di rilevante sulla scuola nel governo Berlusconi Uno vi è solo quanto già detto nella Parte Seconda: il Ministro D’Onofrio che abolisce, senza alcuna specificazione e normativa al riguardo, gli esami di riparazione. Per intenderci, sarebbe stato necessario prevedere una normativa che indicasse: con quante materie insufficienti si fosse promossi; come far riparare le insufficienze dei promossi; come realizzare i corsi di recupero; cosa accade a chi non supera il corso; fino a quante materie si debbono recuperare nei recuperi per essere promossi; … Ma la destra è come sempre disinvolta e non capisce mai la profondità dei problemi.

            Il Ministro Lombardi sembra interessato alla scuola. Prima di dedicarsi a fare il Ministro era il responsabile scuola della Confindustria ed egli sa bene cosa vogliono gli imprenditori. Comunque nel breve tempo del suo ministero, Lombardi invia alle scuole una sua direttiva,  la 133 del 3 aprile 1966, che viene introdotta dalle seguenti parole:

in tale direttiva vengono indicate finalità, modalità, organizzative e fonti di finanziamento a cui le singole scuole, nell’ambito della propria autonomia, possono far riferimento per promuovere iniziative complementari e integrative dell’iter formativo degli allievi, per creare occasioni e spazi di incontro da riservare loro, per favorire l’apertura della scuola alle domande di tipo educativo e culturale provenienti dal territorio, in coerenza con le finalità formative istituzionali.
Si tratta in sostanza di uno strumento giuridico che incentiva il processo di valorizzazione del ruolo delle scuole come centri di vita culturale e sociale aperti al territorio, in linea con il contenuto di recenti. intese generali, promosse dall’amministrazione con le associazioni rappresentative degli enti locali, volte a creare le condizioni più idonee per favorire la qualità dei processi educativi.

La cosa è abbastanza innocua perché si inserisce in uno Stato unitario con le competenze scolastiche al Ministero della Pubblica Istruzione e con le funzioni dei Direttori e dei Presidi limitate dalla normativa allora vigente. Subito dopo la direttiva Lombardi, viene approvata la Legge Bassanini di cui dicevo. In tale legge si introduce un concetto sostenuto da una parola: a u t o n o m i a. La parola usata è apparentemente affascinante ma, nel contesto scuola, è ambigua ed assume significati preoccupanti in quanto propedeutici alla paventata privatizzazione. Diciamolo pure: è un imbroglio.

L’articolo 21 di tale legge riguarda la scuola. In esso si inizia a parlare di scuola in termini di dimensione, e ciò vuol dire che occorrerà accorpare più istituti per ottenere i requisiti che permettono di acquisire una personalità giuridica, vuol dire che si prevede un dirigente non più per una scuola ma per un insieme di scuole; si dice che l’accesso ai finanziamenti è subordinato alle dimensioni; che esiste un qualche standard educativo (che non è dato conoscere, n.d.r.); che il passaggio al nuovo regime di autonomia sarà accompagnato da apposite iniziative di formazione del personale, da una analisi delle realtà territoriali, sociali ed economiche delle singole istituzioni scolastiche; che, e qui le cose diventano molto gravi, si deve estendere il regime di diritto privato del rapporto di lavoro anche ai dirigenti generali ed equiparati delle amministrazioni pubbliche. Questa cosa si chiarirà quando, al punto 16, si scoprirà che si aboliscono i Direttori ed i Presidi per la nuova figura del Dirigente Scolastico: ai capi d’istituto è conferita la qualifica dirigenziale contestualmente all’acquisto della personalità giuridica e dell’autonomia da parte delle singole istituzioni scolastiche. Come conseguenza del punto precedente, chiaro al legislatore ma non al cittadino, nella scuola i salari diventano variabili (mediante compensi di incentivazione o similari), si introducono criteri di flessibilità, sistemi di valutazione legati all’elaborazione di specifici indicatori di efficacia, efficienza ed economicità ed alla valutazione comparativa dei costi, rendimenti e risultati (e, nel contempo, si annunciano oltre 20 mila licenziamenti di insegnanti). Il tutto naturalmente è legato all’istituzione di sistemi per la valutazione. Solo se la valutazione della produttività scolastica di cui sopra darà esito positivo le scuole avranno dei soldi (collegare l’esito dell’attività di valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati alla allocazione annuale delle risorse), non essendo mai ben chiarito cosa questi concetti provenienti dal mondo dell’impresa c’entrino con il mondo della scuola. In modo più completo si definisce anche l’autonomia organizzativa: essa è finalizzata alla realizzazione della flessibilità, della diversificazione, dell’efficienza e dell’efficacia del servizio scolastico, alla integrazione ed al miglior utilizzo delle risorse e delle strutture, all’introduzione di tecnologie innovative …  

Inoltre, e sarà sempre più chiaro con il passare degli anni, l’ autonomia apre a rivendicazioni regionali del tipo: io mi faccio i miei programmi ed io mi assumo chi mi pare. Quest’ultimo aspetto è esaltato dagli altri provvedimenti che delegano alle regioni moltissime questioni di gestione della scuola (questo insieme di norme e leggi avanza in simultanea con la riforma del Titolo V della Costituzione, ed in particolare con la delega alle regioni degli affari scolastici).

Non lo si dice ancora ma emergerà presto quell’elemento di mercato assolutamente spurio tra scuola: la concorrenza. In tal senso verrà presto istituto il Piano d’Offerta Formativa d’Istituto (POF). L’istituzione del POF  è inserita nel regolamento sull’autonomia scolastica (DPR n.275, 8/3/1999), il quale, al primo comma dell’articolo 3, così recita:

“Ogni istituzione scolastica predispone, con la partecipazione di tutte le sue componenti, il Piano dell’offerta formativa: Il Piano è il documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche ed esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa ed organizzativa delle singole scuole”.

Per la completa realizzazione dell’autonomia sarà possibile superare i vincoli di unità oraria della lezione, dell’unitarietà della classe e delle modalità di impiego e di organizzazione dei docenti, secondo finalità di ottimizzazione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche, materiali e temporali (e questo porterà alla progressiva sparizione della continuità didattica). Più oltre fa capolino una frase, anch’essa chiara a chi sta preparando l’orrenda legge di parità scolastica ma non al cittadino: l’autonomia didattica è finalizzata al perseguimento degli obiettivi generali del sistema nazionale di istruzione, nel rispetto (…) della libertà di scelta educativa da parte delle famiglie (…). Quando si leggono frasi così si inizia a sentire puzza di bruciato per il fatto che si parla di libertà di scelta educativa solo quando è in vista un provvedimento che riguarda agevolazioni per la Chiesa. L’efficienza liberista, inoltre, non può prescindere dalla valutazione neopositivista, grande conquista degli ex comunisti relegati a Marx senza la conoscenza di Gramsci, e così si introduce l’obbligo di adottare procedure e strumenti di verifica e valutazione della produttività scolastica e del raggiungimento degli obiettivi. L’intero plesso scolastico autonomo sarà controllato da un dirigente che dovrà provvedere al coordinamento e valorizzazione delle risorse umane, di gestione di risorse finanziarie e strumentali, con connesse responsabilità in ordine ai risultati. Come si diventa Dirigente Scolastico ?  Con un corso di formazione farsa (per lo più autocertificato ed on line) a cui hanno avuto accesso solo quelli che erano presidi e direttori didattici. In definitiva si cambia la funzione che diventa molto più impegnativa e si scopre che per quella funzione vanno benissimo tutti quelli che ne facevano un’altra,  Dirigente Scolastico senza alcuna preparazione specifica dimostrata. L’intera vicenda della Dirigenza Scolastica (vedi) è stata gestita, in totale conflitto d’interessi, dal governo in sintonia con i sindacati tutti, i cui Dirigenti del comparto scuola sono diventati, nel tempo e senza colpo ferire, Dirigenti Scolastici.

Data questa legge, parte immediatamente la Sperimentazione in ambito nazionale dell’autonomia organizzativa e didattica delle istituzioni scolastiche con la C.M n.766 ed il D.M. n.765  del Ministro della Pubblica Istruzione, Berlinguer.

Sui problemi posti dall’autonomia e da ciò che segue, leggiamo il commento di Massimo Bontempelli:

L’autonomia scolastica predisposta dalla riforma ci fa retrocedere a prima dell’ inizio della moderna civiltà educativa, a prima delle conquiste spirituali della rivoluzione francese, a prima della grande cultura borghese. Essa si basa infatti sul presupposto che non esistano contenuti culturali nazionali la cui trasmissione da una generazione all’altra sia educativamente imprescindibile, e che singoli gruppi locali di eterogenea composizione possano elaborare altrettanti coerenti profili educativi quante sono le scuole.

Se ci fermassimo, però, a queste considerazioni, saremmo portati a ritenere che la cosiddetta autonomia scolastica non esprima altro che il vuoto mentale dei suoi promotori. Questo però non è vero. L’autonomia, come ho detto, ha un suo significato e tale significato è il perno strategico di una disarticolazione del sistema nazionale dell’istruzione pubblica che risponde a corposi interessi e precise tendenze della società.

Non che i promotori della riforma abbiano un qualsiasi spessore culturale: Berlinguer crede alla sua stessa propaganda, un po’ come Mussolini, quando si convinse di essere il grande stratega di un esercito possente, e che ha come immagine di se stesso quella del terzo riformatore organico della scuola italiana dopo Casati e Gentile, rimanendo completamente cieco di fronte al degrado che le sue innovazioni concretamente producono nelle scuole e al fatto che, a differenza di Casati e di Gentile, non ha riorganizzato l’educazione attorno ad alcun asse culturale. I pedagogisti di cui si serve per promuovere una nuova didattica nella scuola sono una corporazione di ignoranti che parlano di problemi educativi carichi di implicazioni filosofiche e storiche pur essendo orecchianti di storia e del tutto analfabeti di filosofia, e che si sono inventati la loro disciplina, cioè un tessuto di verbalismi farraginosi e vuoti presentato pomposamente e in modo ridicolo come nuovo sapere, essenzialmente per coprire la mancanza di qualsiasi conoscenza disciplinare specifica.

Il vuoto mentale di tutti costoro si è reso però funzionale ad una costellazione di interessi e progetti sociali che aveva bisogno proprio di ciò che la loro mente vuota ha partorito, ossia, appunto, l’autonomia scolastica. Essi , infatti, non essendo in grado di riformare sul serio il sistema nazionale dell’istruzione pubblica, individuandone reali obiettivi educativi, definendone precisi assi culturali, specificandone i saperi minimi essenziali per la trasmissione di una capacità di lettura del mondo, di una mentalità scientifica e di una cultura della cittadinanza, lo hanno frammentato in tanti centri di istruzione separati, e quindi anche se non formalmente privati, quanti sono gli istituti scolastici. Non essendo in grado di pensare in termini di contenuti culturali, hanno lasciato campo libero ad un vuoto didatticismo, che, incapace di confrontarsi con il valore qualitativo delle conoscenze, si risolve in una tecnica di misurazione quantitativa di abilità meccaniche. Non essendo in grado di ricostruire il ruolo della scuola come istituzione rispetto ai giovani, che li socializzi attraverso l’acquisizione di conoscenze e l’identificazione con modelli assiologici, la incoraggiano ad essere luogo di socializzazione attraverso l’intrattenimento, e ne concepiscono la vitalità come capacità di assorbire e restituire ai giovani ciò che è loro più contemporaneo e più prossimo. L’autonomia scolastica, svincolando le scuole da ogni obbligo di trasmissione di contenuti nazionalmente definiti, e i titoli di studio (di cui sarà prossimamente abolito il valore legale) da ogni corrispondenza a profili culturali determinati (sostituiti, in prospettiva, da certificazioni individuali di abilità specifiche) rende possibile tutto questo. Ma tutto questo non è solo frutto di stupidità politica, bensì risponde alle esigenze del totalitarismo di un’economia desocializzata ed autoreferenziale, di cui la stupidità politica ed il vuoto culturale sono gli strumenti.

L’economia totalitaria contemporanea esige infatti che sia prodotto soltanto ciò la cui produzione passi attraverso una convenienza aziendale, e che la spesa pubblica sia interamente devoluta alla promozione delle convenienze aziendali. Entro la prospettiva di questa economia postfordista, postkeynesiana e neoliberista, le spese statali per la scuola sono puramente dissipative nella misura in cui finanziano la trasmissione di profili culturali nazionali e non di particolari abilità individuali sulla cui base le aziende possano decidere le assunzioni, e nella misura in cui il loro impiego non faccia dello spazio scolastico un nuovo mercato per le industrie. Le scuole, quindi, devono insegnare attraverso i computer e attraverso altri strumenti che offre il mercato (la pressione ossessiva per la valutazione attraverso test ha come termine finale la computerizzazione), mentre deve risultare svalutata l’oralità dialogica, che non dà profitto economico a nessuno. Scuole e insegnanti devono operare nella competizione, in modo che si estingua la cultura disinteressata, inutile per gli affari, e si pensi in termini di abilità strumentali e di immagine. Non vi deve essere una selezione in base ai livelli di cultura e dunque va bene che tutti siano promossi anche senza aver acquisito cultura dalla scuola, perché in questo modo sarà il mercato, e saranno i poteri e le relazioni delle famiglie, dopo la scuola, a decidere la collocazione sociale degli individui. Nella scuola tutto deve essere attualità e sollecitazione mentale piacevole, senza fatica e organicità di studio, perché ne escano giovani senza spirito critico e quindi ben orientati al consumo.

L’autonomia scolastica garantisce tutto questo, perché, separando le scuole da contenuti culturali nazionalmente obbliganti, le mette in reciproca competizione per accaparrarsi utenza, quindi sul terreno dell’immagine e del consumo e le svuota di sapere disinteressato, quello cioè indispensabile allo spirito critico, all’atteggiamento scientifico ed alla cultura della cittadinanza. Essa è dunque il perno strategico della sottomissione della scuola (come già di altre istituzioni non economiche) agli imperativi dell’economia, dunque della sua fine come scuola.

LE RIFORME DEL CENTROSINISTRA (Berlinguer)

Seguiamo con ordine il susseguirsi delle leggi e decreti della frenesia liberista del centrosinistra aiutandoci con lo schema seguente:

RIFORME BERLINGUER FINO AL 9 MAGGIO 2000

RIFORMECONTENUTONORME DI RIFERIMENTO
AUTONOMIA
DIDATTICA E
ORGANIZ-
ZATIVA
(
Art.21)
Definizione delle regole e delle garanzie per la realizzazione della flessibilità, della diversificazione, dell’efficienza e dell’efficacia del
servizio scolastico, dell’integrazione e del miglior utilizzo delle risorse e delle strutture.
Art. 21 legge 59/97 (Autonomia delle istituzioni scolastiche)
DM 765/97 ( Sperimentazione dell’autonomia organizzativa e didattica delle istituzioni scolastiche)
CM 766/97 ( Sperimentazione dell’autonomia organizzativa e didattica delle istituzioni scolastiche)
CM 239/98 (Sperimentazione piani offerta formativa)
Dir.238/98 (Finanziamento piani offerta formativa)
DPR 275/99 (Regolamento sull’autonomia)
DM 179/99 (Sperimentazione dell’Autonomia Scolastica – A.S. 1999-2000)
Lett. Cir. 194/99 (Finanziamento realizzazione della sperimentazione del POF)
CEDE – BDP
(
Art.21)
Riordino e definizione delle competenze e delle responsabilità di CEDE,BDP con l’obiettivo di realizzare l’impiego ottimale delle risorse professionali a supporto dell’autonomia delle istituzioni scolastiche.D. L.vo 258/99 (Riordino del Centro Europeo dell’Educazione e della Biblioteca di Documentazione Pedagogica)
CICLI
ISTRUZIONE
Riorganizzazione complessiva del sistema di istruzione, con un percorso dai 5 ai 18 anni, articolato in due cicli: il primo fino ai 12 anni, il secondo dai 12 ai 18. Obbligo scolastico fino ai 15 anni, diritto formativo fino a 18.Legge n. 30 del 10/2/2000 (Legge-quadro sul riordino dei cicli scolastici)
DECENTRA-
MENTO
COMPETENZE STATO
AGLI ENTI LOCALI
(
Capo 1)
Per rendere più efficiente ed efficace la pubblica amministrazione, trasferimento di funzioni di carattere gestionale e amministrativo dall’amministrazione centrale dello Stato alle regioni e agli Enti Locali. Trasferisce anche le competenze relative alla rete scolastica.Dlgs 112/98 (Conferimento di funzione e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli Enti Locali)
DEFINIZIONE
DIRIGENZA SCOLASTICA
(
Art.21)
Definisce la specifica dirigenza scolastica da attribuire ai capi d’istituto, contestualmente all’acquisizione della personalità giuridica e dell’autonomia da parte delle singole istituzioni scolastiche.Dlgs 59/98 (Disciplina della qualifica dirigenziale dei Capi di Istituto sulle istituzioni scolastiche autonome)
CM 461/98 (Corsi di formazione per il conferimento della qualifica dirigenziale ai Capi di Istituto)
DIMENSIONA-
MENTO
UNITÀ SCOLASTICHE
(
Art.21)
Definizione delle dimensioni, per l’attribuzione della personalità giuridica e l’autonomia, alle istituzioni scolastiche e delle deroghe dimensionali in relazione a particolari situazioni territoriali o ambientali.DPR 233/98 (Regolamento recante norme per il dimensionamento ottimale delle istituzioni scolastiche)
FORMAZIONE UNIVERSI-
TARIA
DOCENTI
Istituzione dei corsi di formazione universitaria per docenti di scuola materna ed elementare e dei corsi di specializzazione per i docenti di scuola secondaria. I corsi sono iniziati dall’anno accademico 1998/99.Legge 341/90 (Riforma degli ordinamenti didattici universitari)
Legge 315/98 (Interventi finanziari per l’Università e la ricerca)
DPR 470/96 (Regolamento concernente l’ordinamento didattico nelle scuole di specializzazione)
DPR 471/96 (Regolamento concernente l’ordinamento didattico nel corso di laurea in scienze della formazione primaria)
DM 2/12/98 (Utilzzazione a tempo parziale presso le Università)
Indicazioni (Alle Università relative ai bandi) D. Murst 509/99 (Preiscrizioni universitarie – Modalità di effettuazione)
INNALZA-
MENTO
OBBLIGO
SCOLASTICO
Innalzamento della durata dell’obbligo scolastico da otto a 9 anni, fino a 15 anni di età.Legge 9/99 (Elevamento dell’obbligo di istruzione)
DM 323 del 9.8.99 (Regolamento attuativo dell’obbligo di istruzione)
CM 22/99 (Disposizioni urgenti per l’elevamento dell’obbligo di istruzione)
MINISTERO
PUBBLICA ISTRUZIONE
(
Artt.11 e 13)
Riordino del Ministero della PI e degli Uffici periferici dopo il trasferimento di compiti e funzioni alle scuole.D. L.gvo 300 del 30/7/99 (Riforma dell’organizzazione del Governo)
Regolamento approvato dal Consiglio dei Ministri il 17/3/2000 (Regolamento recante norme in materia di Autonomia delle istituzioni scolastiche ai sensi dell’art.21, della legge 15 marzo 1999, n.59)
D.M. 301/99 D.M. 302/99 D.M. 303/99 D.M. 304/99 D.M. 305/99 (Sperimentazioni della riforma dell’Ammi
nistrazione scolastica)
NORME PER IL DIRITTO DEI DISABILILe nuove norme modificano ed integrano le leggi esistentiLegge n. 17 del 28/1/99 (Integrazione legge 104/92)
Legge 104/92 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate)
NUOVA LEGGE PER IL SOSTEGNO ALLA MATERNITA’Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle cittàLegge n. 53 del 8/3/2000 (Nuova legge per il sostegno alla maternità e sulla formazione)
Legge 104/92 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate)
NUOVI ESAMI
DI STATO
Il nuovo esame di stato tiene conto del curriculum degli studi, contiene infatti una sostanziale modifica nei contenuti, rispetto al precedente. Prevede la valutazione conclusiva del corso di studi, considerando l’esito degli esami e i risultati degli ultimi tre anni del corso di studi. L’esame comprende tre prove scritte ed un colloquio su tutte le materie dell’ultimo anno scolastico.Legge 425/97 (Disposizioni per la riforma degli esami di Stato)
DPR n. 323/98 (Regolamento esami)
DM. 518/99 (Nomina e formazione delle commissioni)
DM. 519/99 (Modalità di svolgimento della prima e seconda prova scritta)
DM. 520/99 (Caratteristiche generali della terza prova scritta)
OM 31/00 (Istruzioni e modalità organizzative ed operative svolgimento esami)
CM 280/99 (Candidati esterni)
CM 158/99 (Commissari supplenti)
CM 157/99 (Le assenze dei commissari)
CM 1/2000 (Attività preparatoria per gli esami di stato)
CM 114/00 (Formazione a distanza)
DM 24/2/00 (Crediti formativi)
DM.295/99 DM. 295/99 (Materie esami)
OBBLIGO
FORMATIVO
I giovani fra i 15 e 18 anni
di età sono tenuti a
iscriversi e frequentare
percorsi e/o attività
formative
Art.68 della Legge 144/99 (Obbligo di frequenza di attività formative)
Testo Accordo Conferenza Stato-Regioni
Regolamento Governativo sull’obbligo di frequenza nella scuola secondaria superiore
Regolamento sull’obbligo di frequenza nel sistema regionale di Formazione Professionale e nell’apprendistato
ORGANI
COLLEGIALI
D’ISTITUTO
Testo coordinato predisposto dal comitato ristretto, finalizzato a definire gli organi interni alla scuola, le loro competenze e le prerogative delle diverse componenti scolastiche.Testo (Unificato del Comitato ristretto della VII Commissione Camera Deputati)
ORGANI COLLEGIALI
NAZIONALI, PROVINCIALI
E DISTRETTUALI
(
Art.21)
Riforma degli organi collegiali territoriali. Armonizzazione della composizione, dell’organizzazione e
delle funzioni dei nuovi organi collegiali con la competenza dell’amministrazione centrale e periferica, eliminando le duplica-
zioni organizzative e
funzionali.
DPR 233 del 30/6/98 (Regolamento recante norme per il dimensionamento ottimale delle istituzioni scolastiche)
PARITÀ
SCUOLA
PUBBLICA
PRIVATA
Legge riguardante “disposizioni per il diritto allo studio per l’espansione, la diversificazione e l’integrazione dell’offerta formativa del sistema pubblico dell’istruzione e della formazione”.Legge n. 62 del 10/3/2000 (Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione)
RECLUTA-
MENTO
PERSONALE
SCUOLA
Prevede la trasformazione delle graduatorie dei Concorsi a titoli in graduatorie permanenti, da cui si attinge sia per le nomine in ruolo (50%), sia per il conferimento delle supplenze annuali e per quellefino al termine delle attività scolastiche. La legge delega il Ministro a stabilire le modalità di formazione delle graduatorie permanenti (regolamento) e delle graduatorie d’istituto (regolamento suppl. brevi).Legge 124/99 (Disposizioni urgenti in materia di personale didattico)
OM 153/99 (Abilitazione riservata)
OM 247/99 (Abilitazione riservata Accademie e Conservatori)
OM 33/00 (Riapertura termini abil. Riserv.)
Materna (Bando di concorso abilitazione scuola materna)
Regolamento graduatoria permanente

Bozza di regolamento suppl. brevi
RIFORMA ACCADEMIE,
ISIA E CONSERVA-
TORI DI MUSICA
Collocazione in ambito universitario delle Accademie di Belle Arti, di Danza, di Arte Drammatica, dei Conservatori e degli ISIA.Legge n. 508 del 21/12/99 (Riforma degli istituti superiori di istruzione artistica)
RSU
SCUOLA
Prevede le nuove regole della rappresentanza sindacale e l’istituzione delle Rappresentanza sindacale unitaria di scuola (RSU). Da definire l’accordo integrativo ed il regolamento per le elezioni.Dlgs 396/97 (Modificazioni al decreto legislativo n. 29/93 in materia di contrattazione collettiva e di rappresentatività sindacale nel settore pubblico)
Legge 69 del 22.3.1999 (Disposizioni urgenti in materia di elezioni delle rappresentanze unitarie)
SAPERI
DI BASE
Ripensamento complessivo degli obiettivi del sistema di istruzione, partendo da una riflessione sui saperi essenziali per i giovani della nostra epoca, affidata ad una commissione tecnico-scientifica (Comm. dei Saggi).Sintesi commissione (I contenuti essenziali per la formazione di base)
Sintesi Maragliano (Sintesi dei lavori della Commissione)
DM 50/97 (Commissione Tecnico-Scientifica per le proposte di riforma della scuola)
DM 84/97 ( Modifiche ed integrazioni alla Commissione Tecnico-Scientifica)
SERVIZIO
NAZIONALE
QUALITÀ
ISTRUZIONE
Affidamento al CEDE del compito di ricerca valutativa e di predisposizione dei parametri per la valutazione degli standard del sistema di istruzione.Direttiva 307/97 (Comitato per valutare il prodotto educativo)
Relazione valutazione (Relazione conclusiva della Commissione tecnico-scientifica)
SISTEMA DI ISTRUZIONE E
FORMAZIONE TECNICA
SUPERIORE
Istituzione di corsi biennali/triennali di formazione post–secondaria, non universitaria, finalizzata all’acquisizione di competenze professionali specifiche.Art. 69 Legge 144/99 (Istituzione del sistema di istruzione e formazione tecnica superiore)
Regolamento attuativo (Schema di decreto interministeriale, approvato dalla Conferenza Unificata Stato-Regioni-Città del 4.4.2000)
Certificazione finale(Modello di certificazione finale dei percorsi IFTS e modalità di composizione delle Commissioni giudicatrici)
STATUTO
STUDENTI
Ridefinizione dei diritti, dei doveri e delle norme disciplinari delle studentesse e degli studenti.DPR 249 del 24.6.98 (Regolamento recante lo statuto delle studentesse e studenti nella scuola secondaria)
TRASFERI-
MENTO
CONTRO-
VERSIE
AL PRETORE
Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche. Dal 30 giugno ’98 le controversie del lavoro dei dipendenti pubblici passano dal T.A.R. al Pretore del lavoro.Dlgs 80/98 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro)

Non è possibile entrare in ogni dettaglio, in questa sede. Tenterò di riassumere l’insieme delle riforme più significative, anche ripetendo cose già dette. Avverto che non andrò in ordine cronologico poiché il piano riformista è un complesso che va letto nel suo insieme.

IL DISEGNO NEL SUO COMPLESSO

            Il processo riformatore inizia, come visto, con l’autonomia e l’istituzione del Dirigente come figura istituzionale con molti più poteri dei vecchi Presidi e Direttori Didattici. Ogni scuola deve preparare ogni anno un suo Piano dell’Offerta Formativa (POF) con lo scopo di informare  la clientela di ciò che tale istituto fa. Si adombra qui ciò che accadrà: i POF come messaggi pubblicitari per convincere i genitori ad iscrivere i loro figli; in essi si discuterà in modo fantasioso di tutto dando sempre l’idea di una scuola che non sappia di scuola (su questo concetto tornerò a proposito del pedagogista Maragliano). Infatti, come visto, i finanziamenti andranno in maggiore quantità alle scuole di maggior successo, successo che si misura anche con il numero degli iscritti. Naturalmente non si tiene conto del fatto che la gran maggioranza delle nostre scuole è diffusa nel territorio in modo che, anche se il POF è penoso, uno è costretto, per ragioni logistiche, ad iscriversi lì. Sembra una scimmiottatura delle leggi del commercio. La cosa continua con una vera e propria concorrenza che si dovrebbe instaurare tra scuole ed università. Quindi molte energie dei singoli istituti vanno su questioni di facciata, di metodo, con i contenuti sempre più lontani. Il Dirigente è figura chiave per convincere i lavoratori della scuola della bontà delle scelte del Ministero; ha poteri che vengono sottratti alla gestione collegiale della scuola (ad esempio, il vicepreside che prima era eletto dal collegio dei docenti, da ora viene scelto dal Dirigente a suo insindacabile giudizio). Egli diventa una controparte per il resto dei lavoratori e riesce a crearsi il consenso con una corte di postulanti, pagati sempre miseramente, che nella scuola non mancano mai. 

Naturalmente vi sono strumenti per rendere ubbidienti gli insegnanti. Si inventano funzioni (Funzioni Obiettivo) che sono retribuite (circa due milioni netti l’anno) e che vengono praticamente assegnate dal Dirigente. La corte dei postulanti è quella che gli dà sempre maggioranze nel Collegio Docenti. La democrazia nella scuola si allontana sempre più. Non è solo questo l’effetto di queste famigerate funzioni. E’ anche quello di iniziare la guerra tra i “poveri”. Ogni insegnante guarda il suo collega con il sospetto che stia manovrando per accaparrarsi egli stesso quella funzione! Qui occorre spiegare. Sembrerebbe logico che, in una scuola, si individuino prima le cose che ci sono da fare (esempio: biblioteca, laboratori, audiovisivi, vicepreside, programmatori didattici, aula informatica, rapporti con …,….), quindi si individuano gli insegnanti che sono più adatti a portare avanti tali funzioni, ed infine si procede alla loro nomina. Se una scuola ha individuato ad esempio 6 funzioni obiettivo, tante dovrebbero essere le persone pagate per quel compito che, detto en passant, vi è sempre stato. Ma non è così. E’ il Ministero che decide che quella data scuola ha diritto ad esempio a due funzioni obiettivo. Così il Collegio Docenti si scannerà per stabilire quale funzione tra tutte quelle che comunemente si svolgono, dovrà essere pagata. Gli altri, quelli che fanno del lavoro su funzioni non pagate, decidono subito di lasciar perdere. Perché quello è pagato ed io no? Bisogna dire che tali bestialità legislative potevano solo venire in mente a pedagogisti della levatura di Benedetto Vertecchi, capo dell’ex CEDE (oggi INVALSI), che ha trasformato la scuola con riforme di questo tipo ed una miriade di altre di tipo cartaceo. Cioè con il trasformare l’insegnante in un emanuense che deve passare ore al giorno a riempire moduli, cartuccelle in cui si dica: obiettivi, modalità di valutazione, relazione di…, griglie, test, verifiche, tipologie,… A parità di stipendio il lavoro (in massima parte inutile) è cresciuto a dismisura.

Il procedere di questi cambiamenti è sostenuto dall’enunciazione di una serie di principi, anche essi discutibili, per poi intervenire nel modo più prosaico e stupido, sulle uscite e non sugli ingressi. Si sostiene, ad esempio, che la concorrenza tra scuole eleva il livello di ciascuna e che, con la concorrenza tra scuola pubblica e privata si migliora ancora. E qui viene fuori la truffa a danno dei cittadini, truffa che avevo annunciato con quella puzza di bruciato di cui parlavo nei paragrafi precedenti. Poiché in Italia la scuola privata, essenzialmente confessionale, non ha alcuna tradizione di prestigio, e non ha diffusione se non nelle scuole materne ed elementari per la continua voglia dei politici cattolici di lasciare questo settore in mano loro, occorre potenziarla. Sembra paradossale ma il governo incentiva la scuola privata perché faccia concorrenza alla scuola pubblica. E questo avviene con una legge vergognosa che ci fa tornare indietro, prima di Porta Pia: la  Legge n. 62 del 10/3/2000 (Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione). Si riconosce il principio del sostegno economico alle famiglie che decidono di mandare i loro figli in scuole private (il buono scuola). Una nota su quest’ultimo provvedimento: poiché vi era l’articolo 33 della Costituzione che impedisce allo Stato il finanziamento di scuole private, nella  riforma della Costituzione è stato inserito un marchingegno del quale pochi si sono accorti.  Nel nuovo articolo 55 della “nuova” Costituzione (Riforma del Titolo V) si legge: “La Repubblica Italiana è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Regioni, dallo Stato“. Quindi lo Stato è uno tra i tre enti. In pratica se i soldi provengono dalle Regioni e non dallo Stato il finanziamento pubblico diventa lecito (la Regione Emilia Romagna ha iniziato seguita dalla Regione Lombardia e quindi …). Questo al fine di accreditare sempre più la sinistra come forza di governo (evidentemente presso la Curia). Questa è la legge sulla quale il nuovo governo si appoggerà per poter ampliare a dismisura il sostegno alla scuola privata. 

Il commento del grande studioso di scuola, Mario Alighiero manacorda, fotografa così la situazione:

Spogliata da ogni “ideologismo” e portata sul piano giuridico e politico, la questione si può esprimere così: può uno Stato sovrano dichiarare che sul proprio territorio la scuola di un altro potere, “indipendente e sovrano” (Costituzione, art. 7,1), è “pari” alla propria scuola? Può farlo, quando le due scuole sono così diverse che, mentre quella statale è fondata sulla libertà d’insegnamento (art. 33,1), l’altra è fondata su una canonica “dottrina”? Può farlo quando l’altro potere usa appellarsi all’infausto Concordato per impedire allo Stato ogni libertà di legiferare, come ad esempio sulla collocazione dell’ora facoltativa di religione fuori dell’orario curricolare obbligatorio, come invece aveva saputo legiferare l’Italietta liberale a opera del ministro cattolico Emanuele Orlando? Può consentire che quel potere violi i diritti costituzionali dei cittadini, come quando licenzia in tronco i suoi insegnanti, negando loro ogni garanzia sindacale, perché “non conformi” alla sua dottrina? Può, insomma, accettare che sul suo territorio vigano, a pari titolo, due legislazioni opposte? La sovranità dello Stato, la territorialità delle leggi, l’eguaglianza dei cittadini, le libertà personali, sono questioni ideologiche?  

Ma, nonostante queste miserie politiche, un’indagine della UIL del 2004 fornisce dei risultati di interesse:

“Cresce la fiducia nella scuola pubblica mentre è in calo il numero degli studenti che frequenta le scuole private: è questo il dato che emerge dall’analisi degli ultimi cinque anni in tutti gli ordini di scuole. A frequentare la scuola statale è infatti la quasi totalità (94%) degli studenti italiani.

Aumenta il numero di scuole paritarie, ma le frequentano sempre meno studenti: negli ultimi tre anni è rimasto stabile il numero di scuole non statali: sono soprattutto scuole materne (oltre11 mila), le elementari sono 1.670, le superiori 1.623, residuali le scuole medie (697).
In crescita (+ 40%) il numero di scuole che negli ultimi tre anni ha ottenuto la parità: sono passate da 8.710 nel 2000 alle attuali 12.226. In calo, invece, il numero di studenti che le frequenta. A far registrare la flessione maggiore (-31,8%) sono le scuole medie, a seguire le scuole elementari (-22,4%) e le scuole superiori (-20,94%).”

[Osservo io che, nonostante questa catastrofe paritaria, i soldi che il governo regala alle scuole private è in continua crescita, in disaccordo con i principi dell’autonomia].

Non bastando questa enorme regalia, si blandisce ancora il mondo cattolico con la messa in ruolo di professori di religione. Tali professori sono assunti per designazione dalla Curia Vescovile che può dare o togliere il proprio gradimento. Vengono immessi nei ruoli dello Stato senza passare nei meccanismi della selezione che vale per tutti gli insegnanti: un mostro giuridico.

Ma come si risolve quel problema del nostro ritardo nel numero dei diplomati rispetto ai Paesi evoluti ? Non si fanno indagini in Italia per capire da cosa dipende la disaffezione allo studio. Non si pensa minimamente al fatto che la scuola non è promotrice sociale, è stata dequalificata negli anni sia come immagine che come operatori in essa impegnati, che vi sono uscite che sembrano più gratificanti, … Si enunciano una serie di principi, anche essi discutibili, per poi intervenire nel modo più prosaico e miope, sulle uscite e non sugli ingressi. Si interviene sulle promozioni finali senza, naturalmente, avere neppure il coraggio di intervenire per modificare quel provvedimento nefasto di D’Onofrio (abolizione degli esami di riparazione). Poiché una media del 90% di promossi ad esami di qualunque scuola secondaria di secondo grado, sembra poca cosa, si pensa bene di facilitare gli esami di Stato, cambiando l’uscita senza aver definito gli obiettivi che si vogliono raggiungere. Poco importa se gli abbandoni sono di molto precedenti. Su quello nulla. Quali sono le novità dell’esame? Mentre l’esame sperimentale (poi durato 30 anni) varato nel 1969 prevedeva una commissione composta da 6 persone: 4 insegnanti esterni alla scuola, uno interno oltre ad un presidente di commissione anch’esso esterno alla scuola. Ora le commissioni saranno formate da 7 persone: tre insegnanti esterni alla scuola, tre interni oltre ad un presidente esterno (Brichetto cambierà ancora con una Commissione tutta interna con il solo Presidente esterno). Anche le norme con cui si accede agli esami cambiano. Si introduce il sistema commerciale dei debiti e dei crediti. Debito è una o più materie insufficienti in sede di scrutinio e non recuperate all’inizio dell’anno seguente. Durante gli ultimi anni di scuola secondaria si accumulano invece dei crediti a seconda delle medie conseguite, fino ad un 20% della votazione finale; attività fatte dai ragazzi esternamente alla scuola, opportunamente certificate ed in qualche modo attinenti al corso di studi (esempio: un diploma di conservatorio per un liceo classico), apportano crediti; aspetto più importante i ragazzi vengono all’esame con un ‘percorso’ che si sono preparati durante l’ultimo anno e praticamente sono loro che dirigono l’esame; novità di interesse è l’introduzione di una terza prova scritta da realizzarsi dalla stessa commissione con modalità essenzialmente a test. In complesso, se possibile, le percentuali dei promossi con questa nuova modalità di esame, sono cresciute (siamo intorno al 95% ed un qualche percento mancante è generalmente costituito da privatisti).

E la qualità ? Qui il discorso è dolente. La qualità è scesa vertiginosamente. Praticamente la scuola ha cambiato natura. Oggi si predilige il dibattito, il parlare senza sapere bene di cosa, lo scimmiottamento di quanto accade in TV. E’ un ricordo ormai quasi patetico il principio pedagogico di Gramsci, quello del serio impegno, e della fatica scolastica:

Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. … Occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato.”

L’intero sistema educativo è decaduto. Tutte le indagini che sono andate a studiare gli ingressi ai primi anni d’Università mostrano la necessità da parte dell’Università medesima di riprendere con concetti semplici ed addirittura con delle difficoltà a livello di comprensione di concetti (si parla della comprensione dell’italiano!).

Il fatto è che i pedagogisti a cui ci si è affidati (vedi oltre) hanno creduto di poter cambiare ispirandosi ai modelli anglosassoni. Proprio a quelli che stanno riflettendo e rimettendo in discussione tutto il loro sistema per il completo fallimento di esso. Ma i nostri leggono libri e si disinteressano della pratica sperimentale. 

Si potevano studiare vari sistemi, ad esempio di Paesi come la Spagna, la Germania, la Francia, … Il sistema delle scuole che sono basate su molte materie opzionali e molte materie elettive. Questo avrebbe permesso di mantenere il filone principale di non cedimento al disimpegno. Vi sono poi sistemi che danno titoli a 16 anni (negli USA si fa così, nella maggioranza degli Stati). Sistemi nei quali si fanno studi di carattere generale fino ai 14 anni, si fanno studi orientativi fino ai 16 anni e qui si fornisce un titolo, quindi è possibile proseguire con studi completamente d’indirizzo. Gli esami ai primi livelli di studio possono essere sostituiti da scrutini, mentre dovrebbero restare alla titolazione di livello superiore. Magari gestita dall’Università più che dalla scuola stessa per ciò che riguarda chi vuole proseguire gli studi. 

        La scuola di riferimento a cui si sono ispirati tutti i riformatori europei negli ultimi 30 anni è quella americana. L’operazione è stata acritica, senza tener presenti tutte le critiche anche pesanti che su di essa erano state mosse dagli stessi americani. Gli USA sono il Paese che ha oltre 60 milioni di semianalfabeti, un quarto della popolazione! Ed è il Paese più ricco e potente del mondo, è quello che si chiama il Paese egemone, la capitale dell’Impero. E questo gigantesco deposito di eccellenti consumatori discende dai piani di studio del tipo look and say.

        I nostri riformatori credevano di poter fare una scuola libera e democratica, ma facevano la scuola funzionale al sistema liberale, al sistema del mercato globalizzato. Solo più recentemente le riforme sono state mirate più ad un ambito europeo, ma sempre con lo spirito che si è abbondantemente discusso e questa volta ben chiaro. Si è così passati dalla ingenuità libertaria derivata dal 1968 al cinismo liberale al quale, in Italia, ha fortemente contribuito il prof. Benedetto Vertecchi dalla vertente delle pseudoscienze. E mentre vi sono forze che spingono per accelerare il processo descolarizzante, paradossalmente è la destra conservatrice cattolica quella che frena, volendo legare l’educazione ai valori tradizionali, eccetera, eccetera. E’ la destra che “venera il mercato  ma maledice la cultura che esso implica” (Russel Jacoby). La sinistra o ciò che resta di essa in Occidente, autodefinendosi progressista ha aperto le braccia al nuovo che avanza e che, in definitiva, è la cultura del mercato con la sua concezione della scuola. Questi progressisti hanno paura di “proibire” (accompagnati dalla gran parte delle famiglie, che la scelgono per questo e non in quanto propositiva di qualcosa), anche quando l’oggetto della proibizione è oggettivamente pericoloso o sbagliato. Si tratta solo di riflettere ancora una volta sul ruolo della “sinistra”, quella che ha il compito storico di far digerire ai ceti meno abbienti le riforme più antipopolari. Naturalmente il tutto sarà rivestito da aggettivi come “popolare”, egualitario”, “non selettivo”, “democratico”, … una serie di aggettivi che continuano a ipnotizzare i militanti più ottusi dei vari apparati, che non aiutano mai a ridiscutere i termini di fondo dei problemi.

La situazione viene aggravata dall’abolizione dell'”ammissione” agli esami finali. Neppure questo minimo filtro ha più un senso. Quando oggi si dice che le percentuali dei promossi sono le stesse che si avevano con il vecchio esame non si dice il vero. Nel caso del vecchio esame, non si teneva conto di quanti non erano stati ammessi all’esame!

Nota positiva riguarda il cambiamento dell’approccio ai programmi scolastici. Non più ‘alla Brocca’ (i ragazzi sono una scatola vuota da riempire con tutte le nozioni possibili) ma mediante l’individuazione di quelli che sono stati chiamati “saperi di base” o “contenuti minimi”. Qui vi è stata un cambiamento importante che, a mio giudizio, non è stato utilizzato nel senso giusto, anche perché non vi è chi comunichi alle scuole quali sarebbero questi sapere di base. In teoria avrebbe dovuto essere il Ministero  ad individuare  centralmente dei contenuti irrinunciabili alla formazione di base di tutti gli studenti; sarebbero state poi le scuole a livello locale a riempire i programmi a seconda delle esigenze che sarebbero emerse. E’ di interesse notare che per discutere di queste cose si sono sentiti i maggiori esperti italiani nelle varie discipline (tra cui un cardinale) e ai vari livelli di scuola (ad iniziare dalla Commissione dei 40) che hanno prodotto dei documenti d’interesse (si possono trovare tutti qui), mancavano i professionisti della scuola, ma la dimenticanza è nel conto di chi ritiene gli insegnanti sono in definitiva solo oggetti da statistiche, inessenziali in quanto non competenti.

Altra nota positiva è relativa all’individuazione di norme per il reclutamento degli insegnanti. Si enuncia il proposito di smetterla con le sanatorie e con i corsi di qualche giorno che abilitano con facilità. Si istituiscono le Scuole di Specializzazione all’Insegnamento Secondario (SSIS). Dopo una qualunque laurea, chi vuole affrontare il mestiere dell’insegnante, deve fare un biennio universitario di SSIS. Alla fine di esso, dopo aver superato gli esami previsti, quella persona è un insegnante abilitato che, durante i suoi studi, avrà anche fatto tirocinio in qualche scuola. Ciò originerà una graduatoria permanente dalla quale attingere indefinitamente (con l’eliminazione anche dei concorsi mostro). Ma anche qui vi sono contraddizioni esplose nei primi mesi del 2002. Con le abilitazioni a raffica ed i passaggi di cattedra realizzati a fine della passata legislatura, si è aperta ora una nuova guerra tra poveri infatti non si capisce bene come accordare coloro che escono dalle SSIS con i neoabilitati in un’unica graduatoria.

Tutto quanto fino ad ora detto era una cornice dentro cui sistemare la più importante delle riforme di Berlinguer, la Riforma dei cicli mai andata in porto per il cambio di governo che l’ha bloccata prima che diventasse operativa.

Questa riforma nasceva con due premesse importanti: si riduceva di un anno l’accesso all’Università degli studenti senza toccare il complesso degli anni che gli studenti passavano a scuola. Ciò si realizzava anticipando ai 5 anni la prima elementare; l’obbligo scolastico era spostato dai 15 anni precedenti ai 18 anni. Con la ricerca dell’accordo a tutti i costi con l’opposizione si sono raggiunti tre risultati negativi (che alla fine hanno affossato la riforma): i tempi si sono allungati in modo che la riforma non aveva ancora il decreto attuativo cosicché il nuovo ministro (Brichetto) l’ha potuta bloccare con facilità; non è stato portato a termine l’anticipo della prima elementare ai 5 anni, cosicché l’intero curriculum scolastico risultava ridotto di un anno proprio nel primo ciclo; l’obbligo è stato portato in modo incomprensibile (perché non corrispondente alla fine di nessun ciclo di studi) a 16 anni. In campagna elettorale la destra ha avuto buon gioco ad attaccare il governo proprio su quei punti che essa stessa aveva preteso e che, scioccamente, erano stati concessi. Gli stessi insegnanti hanno visto, soprattutto nella vicenda della riduzione di un anno all’inizio della vita scolastica dei ragazzi, un motivo di forte opposizione alla riforma legato a due motivi principali: la perdita di molti posti di lavoro; lo snaturamento della struttura elementare più media con una sorta di appiattimento verso il basso.

 La “riforma dei cicli” (legge 30/00) è molto articolata (sono 120 pagine) e ad essa sono allegati vari documenti. In estrema sintesi le attuali elementari e medie (8 anni) divengono un unico ciclo di 7 anni. Vi è poi un biennio di orientamento per scegliere il successivo triennio che avrà un carattere sempre più specialistico. Nell’ambito della riforma, gli sbocchi dopo il primo ciclo, che erano circa 300, venivano ridotti a 15 eliminando una pletora di scuole professionali ed indirizzi di istituti tecnici industriali ormai obsoleti. La filosofia che si fa strada è: per essere in grado di seguire i lavori che cambiano occorre non tanto una preparazione specialistica quanto una notevole agilità mentale che permetta a ciascuno di costruirsi il proprio sapere in tempi brevi (così come del resto è richiesto dal mondo del lavoro che però, ottusamente con Confindustria, insiste su corsi specialistici che non durano il tempo di chiudere un ciclo di studi).

            Sull’insieme dei provvedimenti Berlinguer merita di essere letto un giudizio di Mario Alighiero Manacorda:

In tutto il suo progetto c’è una rincorsa a una modernizzazione senza cultura, a una professionalizzazione localistica subalterna alle immediate esigenze produttive, a una liberalizzazione generatrice di squilibri, a una falsa licealizzazione di tutti gli istituti secondari con rinuncia a ogni rigoroso apprendimento in nome degli inevitabili “alleggerimenti”, della facilitazione e del computer. Tutte cose che sono la degenerazione di ipotesi buone, per fare della scuola, come chiediamo da un pezzo, il “luogo degli adolescenti”. Ma così il suo non è un progetto di innalzamento del livello culturale di tutta la popolazione in una scuola insieme rigorosa e “divertente”: è una rinuncia al rigore necessario per fare, come diceva Gramsci, di ogni cucciolo d’uomo un contemporaneo della sua epoca: è un progetto di rinuncia all’impegno della scuola in questa direzione.  

Ma, a margine di tutto questo, vi è ancora dell’altro.

All’andamento decrescente delle spese per l’istruzione che origina dal 1990, si aggiungono i provvedimenti Bassanini che prevedono per legge  riduzioni consistenti di docenti (circa 21mila nel 1998). Addirittura si cambia il nome del Ministero della Pubblica Istruzione (MPI) in Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), sempre al fine di pensare scuola pubblica e privata su uno stesso piano. La sparizione di pubblico (Legge 300/99) come aggettivo qualificante l’istruzione fa il paio con  il comitato per valutare il prodotto educativo (Direttiva 307/97),, …  I pedagogisti (con psicologi e docimologi), non si sa bene se come trainanti o al servizio, iniziano con la loro opera di spostamento dell’asse della scuola dai contenuti ai metodi che si avvitano su se stessi (una vera e propria deriva). La Sintesi Maragliano (fatta insieme a Clotilde Pontecorvo, Giovanni Reale, Luisa Ribolzi, Silvano Tagliagambe e Mario Vegetti  nel maggio 1997) che spinge su nuove tecnologie è emblematica del clima e merita attenzione [per tutto ciò che segue, vedi bibliografia 40].

“Le nuove tecnologie dell’informazione hanno in questo senso un valore paradigmatico, dal momento che coniugano in modo visibile la componente materiale costituita dall’hardware, fondamentale per svolgere le funzioni che loro competono, con la componente simbolica del software, che determina le operazioni che vengono effettuate e dà loro senso.” e nessuno spiega che non si studierà quell’hardware né tanto meno quel software. Per la Sintesi occorre togliere alla scuola tutto quello che sa di scuola e sostituirlo con giochi, con l’alleggerimento del carico culturale, con strumenti multimediali, con divulgazioni, con testi essenziali, con il sostituire la storia con la cronaca, andando sulla strada del saper fare e con il coinvolgimento delle famiglie nel processo educativo. 

E la destrutturazione colpisce tutto, anche la storia: “Per quanto riguarda la storia recente, va tenuto presente che il Novecento non si caratterizza solo per un insieme notevolmente complesso di avvenimenti ma anche per l’affermarsi di ottiche, teorie, linguaggi assai diversi da quelli tradizionalmente adottati dalla scuola …. Gli attuali strumenti di studio vanno dunque adeguatamente integrati, ad esempio, con l’impiego di repertori di dati, immagini, ricostruzioni visuali”.  Insomma cronaca e non storia, immagini per non fare fatica e taglio drastico sulla storia antica, sulle radici cosicché, quando ad esempio si studierà la questione palestinese, chi conoscerà la storia di quelle terre? E senza questo riferimento ogni disciplina umanistica e scientifica non ha più basi.  La Sintesi prosegue: “ Maggiore attenzione, nell’ambito della didattica, dovrebbe essere data alla utilizzazione di una pluralità di strumenti educativi, quali:
testi di buona divulgazione, per tutti gli ambiti disciplinari, scritti con abilità narrativa e capaci di attrarre l’interesse degli allievi;

…. pratiche di gioco, e non solo a livello elementare. Il vero gioco e’ vivace, lieve, ma anche appassionato, e quindi serio. L’esigenza di alleggerire il carico culturale e materiale della nostra scuola va inteso anche in questo senso: vale a dire come invito a proporre, tutte le volte che ciò sia possibile, contesti didattici all’interno dei quali apprendere sia esperienza piacevole e gratificante;
impiego delle macchine della conoscenza e dell’elaborazione di informazioni e problemi. In particolare, gli strumenti multimediali sono estremamente motivanti per bambini e ragazzi, perché non hanno affatto odore di scuola 
(sottolineatura mia), danno loro il senso di disporre di risorse per il saper fare e consentono di non disperdere, ma valorizzare, in un quadro intellettuale più strutturato, forme di intelligenza intuitiva, empirica, immaginativa, assai diffuse tra i giovani.”

Insomma: illustrazioni, foto, filmati, disegni, immagini, divulgazioni, libri con molta iconografia, gioco, tutto piacevole, dibattiti, gite, conferenze, uscite, … Walt Disney insomma. Tutto meno che scuola perché quest’ultima ha odore sgradevole. Al fine del saper fare! E di adagiarsi su capacità intuitive, empiriche, immaginative.

Anche le scienze, forti di intuizione, empirismo ed immaginazione degli studenti, hanno il privilegio della citazione:

La ricerca sulla matematica non scolastica indica la necessità di insegnare agli studenti ad usare idee e tecniche di tipo matematico nella soluzione di problemi diversi (sia di scienze fisico-naturali sia di scienze sociali). Sembra essenziale, a questo riguardo, che bambini e ragazzi non perdano il piacere del matematizzare, non siano demotivati da eccessi di formalismo e siano aiutati dagli insegnanti e dagli stessi compagni a pensare a percorsi alternativi di soluzione e ad utilizzare in positivo le dinamiche degli eventuali errori.”

Qui si sta dicendo che uno degli ultimi luoghi dove si conquistano le abilità astrattive, va demolito, con tutto ciò che segue. E si dice anche che il formalismo matematico è da buttare (era inevitabile che dopo il latino si attaccasse la matematica). La fisica, poi, fa un poco di paura ad un pedagogo. Parla di simulazioni al computer, riuscendo con un colpo di penna, a vanificare gli sforzi di chi, per anni, ha tentato di fare la prima rivoluzione scolastica, quella galileiana. Simulare un esperimento, al livello scolare di cui si discute, è fuorviante se non si conosce bene cosa è un trasduttore (un certo evento che diventa segnali elettromagnetici che poi traduciamo in dati di spazi e tempi) e se non si è ancora in grado di cogliere l’onestà dello strumento. Insomma: il fenomeno è prodotto dallo strumento o è simulato da esso? Riguardo poi al pedagogo che parla di scienza con “contrasti con altre forme del pensiero”, lasciamo perdere.

Occorre togliere alla scuola ciò che sa di scuola perché la scuola non interessa, soprattutto se pubblica:

“Bisogna intervenire sull’editoria scolastica, sollecitandola a (e fornendole le condizioni per) maturare nuove scelte produttive, a favore di testi essenziali (per gli studenti) e più ampi e documentati (per i docenti). ………

quindi i testi scolastici devono essere concisi e non disperdersi in cose, magari importanti, che fanno perdere tempo; sono i docenti che devono sapere di più e quindi, loro, debbono avere testi più ricchi su cui prepararsi;

si intende puntare seriamente sulla riqualificazione permanente dei docenti;
dalle opportunità offerte da un mercato interno e internazionale in cui si fa sempre più forte la domanda di prodotti di divulgazione di elevato profilo culturale e che utilizzino al meglio le risorse della tecnologia.

In definitiva i testi più ricchi per i docenti servivano a questo. Sono sempre possibili poi corsi a distanza per aggiornare chi non conosce il proprio mestiere e soprattutto chi non sa divulgare. Ma ciò a cui si tiene di più è al fatto che gli insegnanti sappiano usare le nuove tecnologie, cioè internet (perché immagino che la TV ed il video venga concesso loro come acquisito). Come poi ci si istruisca con internet, senza avere una importante preparazione di base, i pedagoghi non lo spiegano.

L’istruzione e la vita famigliare dovrebbero essere maggiormente connesse che nel passato. ……..

Dibattiti e discussioni, rigorosamente preparati, sono strumenti cruciali, anche all’interno del gruppo classe, per la creazione di quel “mettere in questione” e di quella autonomia intellettuale  che idealmente formano le basi di una moderna società civile.”

            Dibattere quindi, come già detto non casualmente e come in TV. E, dati i livelli di preparazione di base, questo dibattere scimmiotterà proprio la TV. Ma quale sarebbe questa società civile? Lo dicono, lo dicono; non sono reticenti:

“Far sì che la scuola metabolizzi progressivamente una nuova cultura del lavoro significa investire su due fronti: l’orientamento e la proposta formativa. Per il primo fronte, si tratta di introdurre nella didattica alcuni contenuti innovativi propri di questo nuovo approccio: il superamento della “cultura del posto” a vantaggio di una nuova visione delle opportunità e delle professioni; la cultura della flessibilità attraverso la conoscenza delle nuove forme di organizzazione dei processi lavorativi; le nuove forme del lavoro, da quello autonomo a quello artigianale, a quello atipico; la preparazione all’autoimprenditorialità. Per il secondo, considerata la maggiore velocità di trasformazione dei processi strutturali rispetto a quelli culturali, il problema più urgente è di por mano all’impianto metodologico della scuola: è in gioco non solo una questione di contenuti, ma anche e soprattutto una questione di metodo di studio e di impegno umano. Si tratta allora di utilizzare e valorizzare le forme dell’apprendere proprie del mondo esterno alla scuola, sviluppando il senso di responsabilità e di autonomia che richiede il lavoro, le capacità etiche ed intellettuali di collaborazione con gli altri, la pianificazione per la soluzione di problemi concreti e la realizzazione di progetti significativi (competenze di tipo trasversale da promuovere nella scuola e nell’educazione permanente). In questo quadro andrà particolarmente valorizzato il rapporto costruttivo fra scuola, comunità locali, mondo produttivo.”

            Le intenzioni sono chiarissime: la scuola deve preparare secondo i voleri dell’Impresa neoliberista educando anche alla sottomissione ed all’accettazione dell’esistente.

Non si può non concordare con uno dei più severi ed autorevoli critici di queste riforme: “Di recente sono ripartite – con più virulenza che mai – le fantasie sulla “privatizzazione”, ammantate di modernismo e celate dietro un inaccettabile disfattismo sul presunto sfascio della scuola pubblica. Si confonde autonomia con privato, quasi che il concetto autonomia non fosse un concetto anche e corposamente pubblicistico. Si rimette in discussione il patto costituzionale che cattolici e laici democratici hanno stipulato per impegnarsi nella qualificazione e nelle garanzie pluralistiche della scuola pubblica. Si diffonde l’insana illusione che la salvezza educativa del paese sia nelle mani dell’efficienza di novelli managers privati (che tutti sanno abilissimi nell’attingere continuamente ai fondi dello Stato). Ora poi si racconta che le università – sprecone e inconcludenti – devono procacciarsi da sé i mezzi per lavorare, stravolgendo così una grande tradizione e valori radicati nella storia d’Europa, che hanno fatto libera (e per questo grande) la nostra ricerca. Reaganismo e confessionalismo d’accatto”. Costuilucidamente descrive ciò che accade. E’ il futuro ministro Luigi Berlinguer, su La Repubblica del 28 settembre 1988.

Dice Mario Alighiero Manacorda, uno dei più lucidi pensatori dei nostri tempi,

In tutto il progetto Berlinguer c’è una rincorsa a una modernizzazione senza cultura, a una professionalizzazione localistica subalterna alle immediate esigenze produttive, a una liberalizzazione generatrice di squilibri, a una falsa licealizzazione di tutti gli istituti secondari con rinuncia a ogni rigoroso apprendimento in nome degli inevitabili “alleggerimenti”, della facilitazione e del computer. Tutte cose che sono la degenerazione di ipotesi buone, per fare della scuola, come chiediamo da un pezzo, il “luogo degli adolescenti”. Ma così il suo non è un progetto di innalzamento del livello culturale di tutta la popolazione in una scuola insieme rigorosa e “divertente”: è una rinuncia al rigore necessario per fare, come diceva Gramsci, di ogni cucciolo d’uomo un contemporaneo della sua epoca: è un progetto di rinuncia all’impegno della scuola in questa direzione.
Ma il peggio è che queste iniziative, piene di buone intenzioni e cattive attuazioni, sono inserite nel progetto, clerical-liberale, di un “sistema nazionale integrato” tra scuola pubblica e scuola privata, dove ogni valore ideale della tradizione risorgimentale, volta a promuovere la formazione di una coscienza nazionale moderna, anziché essere corretto e sviluppato, come si doveva, in senso democratico e scientifico, viene rinnegato. Non per niente Berlinguer occulta le origini di questa sua dubbia ispirazione: il “Documento dei 31”, del 13 luglio 1994, autodefinito “pidiessino, popolare e confindustriale” (cioè clerical-liberale accettato dai post-comunisti), che proponeva la “idea nuova” di un «sistema formativo pubblico, nazionale ed unitario, del quale partecipano scuole statali e non statali». L’ispirazione della riforma è tutta lì, in questo vecchio programma della Dc giulivamente accolto dai dirigenti del Pds contro le resistenze della loro base. Miracoli del nuovo centralismo democratico, inaugurato da Occhetto e perfezionato da D’Alema: due persone cui Berlinguer non lesina elogi, parlando della «grande rivoluzione di Occhetto» e della “delega implicita” ricevuta dal governo D’Alema, col quale si è avuto «l’anno d’oro» delle riforme.
Ogni riforma di Berlinguer mira a creare questo sistema integrato, destinato a sboccare in quella «straordinaria novità che è nel riconoscimento concreto del principio di parità tra scuole statali e non statali», coi relativi finanziamenti. E’ lui stesso, non io, a presentare tutte le sue leggi come grimaldelli per veicolare nei nuovi ordinamenti questa “svolta” della parità: soprattutto la legge sull’autonomia, «base dell’intero progetto formativo» e «anello da cui partire»: «Porre la parità nel contesto dell’autonomia e anzi in dipendenza da essa… Nel quadro dell’autonomia sembra logico riaffrontare in termini nuovi la stessa distinzione concettuale tra pubblico e privato», ecc.

Ma altre pesanti critiche sono venute da varie personalità della politica e della cultura.

[Per approfondire tutta questa parte si veda il mio articolo La scuola sotto attacco e per una discussione sul ruolo dei pedagogisti contemporanei vedi l’altro mio articolo A che servono i pedagogisti ?].

RUOLO DEL SINDACATO SCUOLA

Solo un cenno a questo triste capitolo che ha visto i Sindacati Confederali schierati acriticamente con Bassanini e Berlinguer. In particolare la CGIL Scuola ha anche dato una mano …

I lavoratori della scuola, con la vittoria elettorale del centrosinistra, avevano nutrito una qualche speranza di miglioramento economico e sociale. 

Purtroppo i sindacati confederali scuola, ed in particolare la Cgil Scuola, hanno iniziato un lavoro sinergico con il Ministero, sulla testa di tutti gli insegnanti, con politiche populiste (immissioni in ruolo e passaggi di cattedra sconsiderati), politiche punitive (concorsone) e politiche in conflitto d’interesse (dirigenza).

Già abbiamo accennato alla questione dirigenza.  Nella scuola viene creata questa figura con grande potere e controparte degli insegnanti. Anche dal punto di vista normativo, quando vi fosse una causa di fronte alla pretura del lavoro di un lavoratore della scuola, il Dirigente è difeso dall’Avvocatura dello Stato ed ha una assicurazione pagatagli dallo Stato per rischi derivanti da errori nell’esercizio della professione. Veramente un qualcosa di molto diverso rispetto ai vecchi presidi e direttori didattici. Se solo si pensa che in altri Paesi il Dirigente è elettivo (ed a tempo) tra gli insegnanti della scuola, ci si rende conto della scelta di potere che è stata fatta qui in Italia. Naturalmente dal punto di vista salariale i Dirigenti puntano alla prima fascia e ciò li porterà a decuplicare i salari degli insegnanti. Tutti coloro che lavorano nella scuola sanno che gran parte dei vecchi Presidi e Direttori erano stati incaricati a tale funzione con logiche per lo più spartitorie. Costoro sono stati d’un colpo trasferiti a Dirigenti con un corso-concorso ridicolo. A tale corso-concorso doveva seguire un colloquio per certificare la promozione. Ebbene, addirittura nel Contratto di Lavoro 1998-2001, sottoscritto dal MPI e dalle OO.SS, al punto 6 dell’articolo 41 (Valutazione dei Capi d’Istituto), in riferimento a quel famoso corso-concorso, si dice: Prima di procedere a formalizzare una valutazione non positiva, i nuclei [di valutazione] acquisiscono in contraddittorio le deduzioni del dirigente scolastico interessato, il quale potrà essere assistito da un rappresentante dell’organizzazione sindacale cui egli aderisce o comunque conferisce mandato e/o da un legale di sua fiducia (sottolineatura mia)”. Non sono in grado di commentare in modo disteso queste affermazioni e passo alle conclusioni della vicenda. Il corso-concorso si è effettuato su 300 ore teoriche (in pratica la metà erano autocertificate). Tutti i partecipanti sono stati promossi e diventati dirigenti scolastici, compresi coloro che avevano dirigenze sindacali e godevano di distacchi tali da aver ormai completamente perso ogni contatto con la realtà scolastica.

E tutto questo avveniva in contemporanea con quel concorsone (febbraio 2000), fino all’ultimo sostenuto dagli stessi sindacati scuola confederali che lavoravano in perfetta sintonia con la Pubblica Istruzione e non con gli iscritti, che avrebbe dovuto valutare gli insegnanti (una tantum e su un numero predeterminato) sulle crocette degli psicopedagoghi e non sulle competenze disciplinari. Anche qui l’articolo 29 del medesimo Contratto prevedeva quella cosa a cui accennavo prima: il salario dei docenti diventava variabile. Il sistema organizzato era vergognoso. Per avere un aumento di salario ridicolo, si trattava di fare un concorso di quello a test inventato dai succitati psicopedagogisti. Vi erano due problemi dietro tale concorso: l’aumento non era definitivo ma una tantum; esso non avrebbe riguardato tutti coloro che lo avessero superato ma solo il 20% degli insegnanti. Una vera vergogna: i sindacati degli insegnanti puniscono gli insegnanti in questo modo mentre promuovono i propri dirigenti che diventano Dirigenti Scolastici scappando letteralmente da un qualunque esame.

Il concorsone saltò perché vi fu una vera sollevazione di tutti i lavoratori della scuola. Non saltarono però i dirigenti sindacali che continuano imperterriti a gestire il loro perdurante conflitto d’interessi.

            Il salario degli insegnanti è restato il più basso tra tutti i Paesi della UE. Con una doppia aggravante sempre relativa alla denigrazione dell’insegnante medesimo. Si affermava e si afferma che in Italia vi è un rapporto più basso insegnante/alunni e che il numero delle ore lavorate sarebbe minore che nel resto dei Paesi UE. Il sindacato non spreca una parola per spiegare ed allora lo devono fare gli insegnanti che non hanno però i canali di audience adeguati. Se un Paese ha scelto di tenere il tempo pieno come qualificante per la sua crescita, tale Paese avrà necessariamente un numero maggiore di insegnanti per gli stessi alunni, laddove non si faccia il tempo pieno (il tempo pieno lo si fa nelle scuole dove la frequenza è maggiore). Sul numero delle ore lavorate l’Italia è l’unico Paese in cui tutte le operazioni di valutazione (scrutini, esami), e non solo, per la loro peculiarità non sono conteggiate come ore lavorative.

Anche Confindustria negli anni delle riforme Bassanini e Berlinguer, si mostra particolarmente attiva in prima persona. Inizia con un documento del 1998 (mentre si sta varando la Riforma Berlinguer), Verso la scuola del 2000 [40] , nel quale si denuncia ciò che è denunciato dagli industriali della UE (l’ERT di cui abbiamo parlato nella premessa): troppe nozioni, troppi insegnanti, troppe scuole, costo esagerato [con confronti assolutamente disomogenei, ndr], … e si reclamano  le conclusioni dei rapporti UE, Delors e Cresson[40].  Nessuna novità rispetto a quanto rivendicato dall’ERT e da altri gruppi imprenditoriali di pressione (in fondo è un gioco ad incastro: si tratta degli stessi che ritroviamo da più parti in più ruoli).  Ma vediamo qualche citazione d’interesse. Dopo essersi incensata (“Confindustria ha una storica attenzione ai problemi dell’education) afferma che occorre puntare sul capitale umano perché noi abbiamo scarse risorse naturali, che servono ponti tra scuola ed impresa, che serve mobilità e flessibilità, che i capi d’istituto possano scegliere gli insegnanti (io pensavo il viceversa! ndr.), che occorre che sia praticato l’orientamento, che gli studenti operano oggi come i loro bisnonni, che le scuole devono farsi concorrenza, che vi è un assemblearismo irresponsabile, che i capi d’istituto non hanno poteri, che le spese per la formazione delle imprese devono essere considerate come investimento ammortizzabile, che la scuola ha scarso appeal (si confronti con quanto sostengono i pedagogisti), che serve responsabilità sociale degli individui. Si passa al problema dei costi, subito dopo aver detto che in Italia il tempo pieno  è poco praticato e che da noi si fa un anno in più che nel resto di Europa. Si dice che qui il costo per alunno è superiore a quello della media UE. Naturalmente non tenendo conto del fatto che il grosso di questa spesa è per una scuola di eccellenza che noi abbiamo, la scuola elementare funzionante proprio a tempo pieno e con i moduli (3 insegnanti per due classi) in base alla legge istitutiva, la 148 del 1990. Ma le due cose non devono essere messe in relazione: si tratta di smontare un’altra delle grandi conquiste sociali degli anni passati. Se si confrontano questi dati con la simultanea richiesta di estendere il tempo pieno ci si rende conto che Confindustria ha in mente solo il fatto che la scuola deve essere pagata dai clienti, deve prevedere classi sovraffollate, deve ridurre il numero delle discipline, deve ridurre il numero delle ore, deve aumentare l’orario di servizio degli insegnanti, deve ridurre il numero delle scuole, deve  … . Confindustria passa poi all’operazione mai denunciata con forza dal nostro Ministero per la denigrazione reiterata che viene fatta sulla nostra scuola: va a confrontare i livelli di apprendimento nelle indagini internazionali (P.I.S.A.-OCDE; TIMMS-IEA) (48). Poiché i nostri studenti hanno valutazioni al di sotto della media OCDE, la colpa la si dà alla scuola. A nessuno dei tecnici di Confindustria (e dei vari ministri) è venuto in mente che le valutazioni che vengono effettuate sono disomogenee rispetto alla preparazione? Sanno gli esponenti dell’impresa che, ad esempio, chi sa lavorare con problemi da liceo scientifico e non ha mai lavorato con test, non ottiene buone valutazioni? Sanno che mentre è facile addestrare ad un test (appiattimento verso il basso della preparazione per garantire uniformità alle domande) non è facile insegnare a risolvere problemi con tutte le abilità che si devono mettere in campo?

Al momento del varo della Riforma Berlinguer la stessa Confindustria darà il suo parere molto favorevole. Certo si poteva fare di più …  e comunque facciamo presto. Per non perdere altro tempo Confindustria delega i piani organizzativi della scuola che gradisce in tutta la loro completa strutturazione, all’Associazione TreeLLLe (Per una società dell’apprendimento continuo). La TreeLLLe ha fino ad ora prodotto tre ponderosi documenti che, in molto maggiori dettagli, iniziano a definire la politica dell’impresa nei riguardi della scuola. Leggendoli ci si può rendere conto che, ora, l’impresa sembra andare avanti accompagnata da una marcia trionfale. E dico questo non per dire che tutto ciò che fa l’impresa è male, ma solo per auspicare che la politica sostenga quella parte di società che non è impresa e che dovrebbe rientrare in  un ambito di rapporti civili, quanto meno di welfare. Ma, anche qui, la politica si è dissolta ed i politici eletti da noi lavorano insensibili agli interessi dei loro elettori, con i sindacati confederali di categoria colpevolmente assenti.

L’organizzazione degli imprenditori italiana si coordina anche con altre 6 organizzazioni europee simili per varare un documento, Per una scuola di qualità (Londra 2000) che compendia tutto ciò che l’impresa vuole dalla scuola (ora si ha a che fare con 10 messaggi chiave, ricalcando proprio quelli della Commissione Cresson, mostrando come si lavori in stretta sinergia): ripensamento del sistema educativo, nuova organizzazione della scuola, autonomia organizzativa, didattica e gestionale [nella Riforma Berlinguer i pochi soldi arrivavano dall’ex MPI, sostenere l’autonomia gestionale vuol dire sostenere la privatizzazione della scuola pubblica, ndr]; standard nazionali di conoscenze e competenze; un ente indipendente per la valutazione di ogni singola scuola e del complesso; finanziamento pubblico guidato dalla domanda; competizione; tecnologie informatiche e multimediali;  saper fare; flessibilità del lavoro docente; docenti estremamente preparati ed in continua formazione; docenti non necessariamente titolati; docenti transitori; maggior ruolo per il dirigente; integrazione scuola impresa, con l’impresa che indirizza gli studenti, con stage aziendali e per studenti e per insegnanti. Naturalmente, per gli aderenti a Confindustria, non avvezzi storicamente a fare ricerca, la scuola dovrà essere bassamente professionalizzante

LE RIFORME DELLA DESTRA (Brichetto, detta Moratti) 

Brichetto, con l’altro suo nome Moratti, era già intervenuta nel dibattito sulla scuola, durante il governo di centrosinistra. Costei aveva firmato, insieme ad altri personaggi del mondo della cultura (?) e dell’Impresa, un documento nel quale si chiedeva di più alla scuola. Il documento del 1999, dal titolo accattivante Scuola libera! Appunti per la nascita di un movimento”, ha come firmatari: Ferdinando Adornato, Dario Antiseri, Antonio Augenti, Paolo Blasi, Carlo Bo, Dino Boffo, Pellegrino Capaldo, Innocenzo Cipolletta, Emma Marcegaglia, Antonio Martino, Letizia Moratti, Angelo Panebianco, Sergio Romano, Cesare Romiti, Giorgio Rumi, Paolo Savona, Lorenzo Strik Lievers, Marco Tronchetti Provera, Stefano Versari, Giorgio Vittadini, Sergio Zaninelli.  In tale documento si sostiene che la scuola non deve più essere un monopolio dello Stato ma una entità in cui gli istituti siano indotti a una emulazione per proporre la migliore offerta formativa possibile. Una nuova scuola italiana, libera, potrà affermarsi e realizzarsi solo grazie al concorso di passioni, intelligenze e culture laiche e cattoliche. Il documento immagina:

una nuova scuola nella quale:

1) lo Stato finanzi ma non gestisca l’istruzione di tutti i cittadini;

2) si affermi una pluralità di offerte e istituti formativi, statali e non, e una pluralità di opzioni possibili per il cittadino;

3) viga la pari dignità tra le diverse scuole e quindi l’assoluta irrilevanza del fattore economico nella scelta da parte dei cittadini ;

4) si giunga all’abolizione del valore legale del titolo di studio,necessaria conseguenza di tale nuovo assetto;

5) A tal fine lo Stato deve fissare quanto intende spendere annualmente per la formazione di ciascun cittadino;

6) deve disporsi poi a riconoscere quella somma, diversificata a seconda del grado di istruzione, alla famiglia di ciascun alunno, utilizzando appositi bonus o altri analoghi strumenti;

7) si può infine prevedere che gli alunni iscritti a scuole non statali gravino sulle casse dello Stato per un 10% in meno di quelli che scelgono la scuola statale. C’è infatti da calcolare una serie di spese fisse che lo Stato è comunque chiamato a sostenere, ad esempio nei piccoli centri a scarsa popolazione scolastica e dove però l’istruzione va comunque garantita. C’è per converso da pensare che altri sussidi, familiari, di enti privati e imprese possano giungere alla scuola non statale.” [40]

Si devono prevedere dei percorsi formativi individuali ed un rafforzamento della formazione professionale per legare il mondo della scuola a quello dell’impresa. Saranno i genitori a garantire le libertà di scelte educative (questi genitori sono sempre presi a pretesto per fare i propri comodi, ndr). Dove trovare le risorse? “L’impresa deve  trovare proficuo e vantaggioso investire nella scuola. Da questo punto di vista gli Stati Uniti possono insegnarci qualcosa. Particolarmente per le scuole professionali ..”.  Ed anche qui si arriva ad una medesima conclusione – l’impresa che deve fare affari con la scuola – con una possibile aggravante: che si richiami  il Paese in cui ogni tecnica privatistica è stata utilizzata può essere naturale, ma far finta di non sapere che proprio negli Usa si sta ripensando tutto, compresi i buoni scuola, si sono avute clamorose bocciature di Bush in Senato dove i  democratici e 13 repubblicani hanno creato un ampio fronte anti-vaucher,  dove sono state bocciate in Stati del calibro della California  e  del Michigan (per ora), leggi per il finanziamento pubblico di scuole private, dove si sta tornando dal decentrato al centralismo, … beh, sembra davvero esagerato.  

Anche la destra ha dei suoi fidi pedagogisti. Quello ora in oggetto è tal Bertagna, cattolico militante ed in definitiva in accordo con Maragliano in quello che sarà il progetto Buonsenso (vedi oltre). Il Documento Bertagna getta le basi ideologiche della scuola di destra ma, da cattolico, non sa ben cogliere il liberismo sfrenato per cui anche Bertagna andrà in soffitta molto presto.

 Si parte dalle seguenti raccomandazioni:

1)   ribadire il principio che il sistema di istruzione e di formazione del Paese è al servizio della società e del progresso economico se e solo se è primariamente al servizio della persona di ciascuno e mira al massimo sviluppo possibile delle capacità di tutti; in questa prospettiva va collocato l’obbligo di 12 anni di istruzione e/o di formazione per tutti;

2)      valorizzare ulteriormente il ruolo e la funzione educativi della scuola dell’infanzia valutando “se e in quale modo considerare la frequenza della scuola dell’infanzia triennale, che resta non obbligatoria e curricolarmente unitaria, come possibile credito ai fini del soddisfacimento di almeno un anno dei 12 di istruzione e/o formazione obbligatoria”; ciò anche allo scopo di non lasciare “minori” sul piano della qualità della formazione iniziale e della successiva carriera i docenti che insegnano in questo grado di scuola;

3)      ipotizzare un’articolazione unitaria della scuola dai 6 ai 14 anni che avvalori le specificità delle età evolutive della fanciullezza e della preadolescenza sul piano degli ordinamenti, del piano degli studi e dell’organizzazione del servizio; ciò significa promuovere, nella cornice ordinamentale della scuola primaria quinquennale e della scuola secondaria di I grado triennale, un piano degli studi unitario, continuo e progressivo organizzato in cicli biennali, dove si realizzi un più efficace raccordo tra l’ultimo anno della scuola primaria e il primo della secondaria di I grado e, nondimeno, tra l’ultimo biennio della scuola secondaria di I grado e gli studi liceali o professionali successivi, al fine di stimolare una spinta qualitativa verso l’alto dell’intero sistema di istruzione e di formazione;

4)      eliminare la cosiddetta “onda anomala” determinata dall’attuazione della legge 30 per i gravi problemi che essa solleva anzitutto sul piano educativo e metodologico, per gli alunni, le famiglie ed i docenti, e, in secondo luogo, a livello organizzativo, edilizio, finanziario, anche per lo Stato e gli Enti locali;

5)      progettare una scuola secondaria superiore di elevata qualità culturale ed educativa, prevedendo anche la possibilità di completarla con eventuali anni di specializzazione non universitaria;

6)      identificare la natura pedagogica, l’identità curricolare e la fisionomia istituzionale di un percorso graduale e continuo di Istruzione/Formazione secondaria e superiore parallelo a quello di Istruzione secondaria e superiore, dai 14 ai 21 anni, con esso integrato a livello di funzioni di sistema e ad esso pari in dignità culturale ed educativa, abilitato a rilasciare tre titoli di studio corrispondenti a standard nazionali concertati in sede nazionale (Qualifica, Diploma di formazione  secondario, Diploma professionale superiore);

7)      predisporre piani di studio/standard nazionali obbligatori che … consentano più di ora sia percorsi e completamenti personalizzati da parte delle famiglie e degli studenti, sia una maggiore verifica comparativa nazionale dei risultati;

8)      dar corso ai punti precedenti avvalorando l’autonomia degli istituti del sistema di istruzione e di formazione, facendo sempre prevalere, sia sul piano delle verifiche dell’apprendimento sia su quello del soddisfacimento dell’obbligo per tutti i giovani di 12 anni di istruzione/formazione, i vincoli  di risultato su quelli procedurali e di percorso;

9)      prevedere linee di formazione iniziale degli insegnanti in relazione ai cicli scolastici e di Formazione ipotizzati.

Bertagna, conoscendo i suoi datori di lavoro, deve subito precisare una cosa:

il tema della formazione in alternanza scuola/lavoro, va comunque tenuto concettualmente e di fatto distinto dall’ apprendistato.  Quest’ultimo, a differenza del primo, è infatti un contratto di lavoro a causa mista (che pone in capo all’imprenditore un obbligo di retribuzione e insieme di formazione) e come tale coinvolge direttamente la responsabilità della parti sociali.

 E’ certamente rassicurante leggere queste cose all’inizio di un documento che deve gettare le basi di una riforma della scuola.   Tale documento prosegue con un altro elenco di buone intenzioni:

In questa prospettiva ha segnalato come strategico per lo sviluppo del paese e per la maturazione dei singoli soggetti in età evolutiva il raggiungimento dei due seguenti obiettivi:

Ø           la disponibilità di un sistema educativo nel quale esistano e si intersechino percorsi di istruzione e percorsi di formazione, ambedue a livello secondario e superiore;

Ø           l’obbligo per tutti i cittadini italiani, come irrinunciabile conquista di civiltà, di seguire, all’interno di questo sistema, un itinerario formativo di 12 anni o almeno fino all’ottenimento di una qualifica. La costruzione di un sistema di questo genere va fatta tenendo fermo il principio che  essa deve essere il risultato di una collaborazione e di un interscambio tra sistemi ben definiti e non ibridi, ciascuno dei quali abbia cioè un profilo chiaro e una missione riconoscibile. Ora per quanto riguarda il sistema dell’istruzione questo, ovviamente, non è un problema, viste la sua storia e la sua tradizione e considerata la funzione che gli è stata sempre riconosciuta nell’ambito della società. Diverso è il discorso relativo al sistema della formazione, che è da costruire e da consolidare, in quanto in Italia  l’istruzione tecnica e professionale( e ancor più la formazione professionale) sono state sempre guardate con sufficienza (data anche la scarsa propensione della nostra cultura a riconoscere un qualsiasi valore formativo e teorico alle tecnologie e alle attività che presuppongono abilità e competenze di tipo manuale e operativo) e che non ha, di conseguenza, a tutt’oggi un’identità precisa. Il primo obiettivo che ci si deve proporre è dunque quello di dare senso specifico e dignità culturale propria a questo percorso di formazione, sottolineando non soltanto il suo valore intrinseco, ma anche il contributo che la sua presenza può dare all’innalzamento del livello e della qualità anche dell’istruzione scolastica. Quest’ultima in Italia risulta caratterizzata, e spesso compromessa nella sua efficacia, dalla scarsa attenzione all’esigenza di tener conto di una dimensione operativa del sapere, che occorre distinguere, sul piano concettuale e pratico, dalla terminalità del sapere medesimo, cioè dalla sua finalizzazione alla capacità di svolgere uno specifico lavoro o di esercitare una determinata professione. Operativizzare il sapere significa individuare una dimensione della formazione che tenga conto del nesso tra sapere e saper fare, tra le conoscenze acquisite e la capacità di affrontare e risolvere con successo problemi concreti in cui quelle conoscenze siano in qualche modo implicate, che riesca dunque a tradurre le nozioni e i concetti in schemi d’azione e comportamenti pratici. La presenza, all’interno di un unico sistema educativo di istruzione e di formazione caratterizzato da contatti, interscambi e da un sistema di passerelle che renda effettivamente possibile e agevole il passaggio tra le sue componenti,  di un percorso di formazione, potenziato e al quale sia riconosciuta la sua specifica funzione, può, in questo senso, contribuire a rendere più efficace l’istruzione scolastica, inclusa, ovviamente, quella liceale. Come pure, per converso, quest’ultima può aiutare il sistema della formazione a rafforzare, al proprio interno, quella dimensione di cultura generale e di pensiero critico, necessaria per mettere in condizione di affrontare gli imprevisti, le situazioni inedite e per stimolare la capacità di ricreare, almeno parzialmente e da nuovi punti di vista, i contesti in cui si vive e si opera. In una parola, per arricchire la formazione di tutte quelle abilità e competenze che oggi costituiscono un corredo indispensabile per poter operare con successo in un mondo del lavoro sempre più vario e diversificato e caratterizzato da mutamenti sempre più rapidi e intensi. Nell’epoca della globalizzazione, della complessità e dell’assunzione a norma costituzionale del principio di sussidiarietà, d’altra parte, risulterebbe eccentrico prevedere che le componenti nelle quali si articola il sistema educativo dell’istruzione e della formazione, solo perché governate e gestite da soggetti istituzionali diversi e con procedure normative differenti, si possano presentare come realtà isolate ed autoreferenziali, incapaci di lavorare in rete e di ottimizzare servizi e risorse reciproche nel tempo e nello spazio, ponendosi come obiettivo comune l’innalzamento del livello culturale complessivo dei cittadini. Proprio l’esigenza di mantenere, sia pure in questa logica di rete e di interconnessione, ben chiare la fisionomia e le funzioni specifiche delle due componenti, nelle quali si dovrebbe articolare il sistema educativo di istruzione e di formazione, pone però di fronte a un dilemma di grande incidenza e impatto sociale e di cui sarebbe sbagliato sottovalutare l’importanza: quello della localizzazione del momento della scelta tra l’istruzione scolastica e la formazione. Nell’ipotesi di sistema, elaborata dal Grl, questa scelta è collocata a 14 anni, e non più a 15, come prevede la legge n. 9 del 20/01/1999, che innalza da otto a dieci anni l’obbligo di istruzione, fissandolo, “fino all’approvazione di un generale riordino del sistema scolastico e formativo” in 9 anni. Nello spirito della proposta avanzata questo abbassamento di un anno del momento della “biforcazione” tra i due sistemi e dell’opzione tra l’uno e l’altro è strettamente e in modo imprescindibile connesso all’obiettivo di un effettivo e concomitante innalzamento della qualità dei due sistemi, in particolare di quello della formazione, in modo da porre coloro che decidono di entrare in quest’ultimo nella medesima condizione di effettuare scelte confacenti alla propria responsabilità e al proprio progetto di vita dei loro coetanei che optano per l’altro percorso, quello dell’istruzione. A ulteriore garanzia di questa condizione di pari opportunità stanno, in primo luogo, l’istituzione, all’interno di entrambi i sistemi, di servizi di sviluppo e recupero degli apprendimenti che rendano non solo possibile in linea di principio, ma concretamente realizzabile il passaggio dell’alunno dall’uno all’altro; e in secondo luogo la possibilità di accedere all’università, o al sistema della formazione superiore, da entrambi i percorsi. Un ulteriore aspetto che occorre tenere presente nel valutare il modello proposto dal Grl, e che ne ha condizionato le scelte, è l’impossibilità di comporre, all’interno di un unico quadro coerente, esigenze e istanze che, prese singolarmente, appaiono del tutto ragionevoli e condivisibili. Si prendano, in particolare, in considerazione i seguenti principi generali:

Ø     è saggio e prudente evitare una scolarizzazione precoce, dando rilievo all’importanza che il bambino, prima di accedere a un vero e proprio percorso di apprendimento di tipo cognitivo e alla logica già strutturata dei piani di studio pensati per il sistema di istruzione, “impari il difficile mestiere dell’alunno”, abituandosi a stare in gruppo, a seguire le indicazioni dei maestri, a sviluppare relazioni positive e non conflittuali con gli altri, a maturare sotto il profilo della capacità operativa e manuale e di quella che oggi viene chiamata “l’intelligenza emotiva” ecc. Ciò consiglia di mantenere e valorizzare, aggiornandola, la nostra peculiare tradizione sociale e pedagogica, espressa negli Orientamenti per l’attività educativa, ribadendo la funzione essenziale della scuola dell’infanzia e la sua partecipazione insostituibile alla funzione critica generale del sistema educativo. Sulla base di queste premesse il Grl ha riscontrato un compatto e deciso orientamento contrario all’ingresso a 5 anni nella scuola primaria, nell’ambito comunque di un comune riconoscimento della necessità di definire in modo più preciso ed avvertibile i “traguardi di sviluppo” da conseguire al termine della scuola dell’infanzia;

Ø      è inopportuno “compattare” e ridurre a un unico ciclo di 7 anni la scuola primaria e l’istruzione secondaria di I grado perché ciò, oltre agli inconvenienti determinati dall’ “onda anomala”, determinerebbe la mescolanza (che rischia di degenerare in confusione) tra approcci, metodologie di insegnamento ancora troppo diversi ed eterogenei. Su questo punto non solo le consultazioni sviluppate nei Gruppi Focus, ma anche il confronto critico con i consigli di classe e di istituto e l’indagine dell’Istat hanno fatto registrare una massiccia convergenza di opinioni;

Ø      è importante evitare qualsiasi forma di canalizzazione precoce, offrendo a tutti la possibilità non solo di acquisire una buona formazione di base, ma di “saggiare” anche il percorso didattico ed educativo dell’istruzione secondaria superiore, prima di decidere, eventualmente, di abbandonare la scuola;

Ø      è fortemente sconsigliabile, se non addirittura inaccettabile, ridurre il percorso dell’istruzione secondaria di II grado, perché ciò rischierebbe di “svendere” il prezioso patrimonio educativo e culturale della nostra tradizione liceale e di intaccarne la credibilità, il prestigio e, soprattutto, l’efficacia. Anche su questo punto forze politiche e sociali, opinion leader, accademici e rappresentanti dell’associazionismo culturale e professionale si sono espressi in modo netto e deciso;

Ø     è, al contrario, fortemente consigliabile fissare in 12 anni la durata complessiva del percorso della istruzione e/o formazione preuniversitaria (o, nell’ipotesi del Grl, che precede l’ingresso nel sistema della formazione superiore) consentendo così anche ai nostri giovani di accedere all’università (o a una formazione superiore che riprenda e consolidi l’esperienza degli IFTS, facendola evolvere verso assetti istituzionali più stabili) in coincidenza con il compimento della maggiore età. Anche questa ipotesi ha fatto registrare un grado di consenso molto elevato. Come detto il problema nasce quando, dai singoli segmenti così formulati, si cerca di passare a una logica e a un’architettura di sistema, che esige, per elementari ragioni di coerenza del quadro, di far cadere qualcuna di queste ipotesi. Quali? E’ sulla risposta a questa domanda che il grado di consenso si abbassa in modo drastico ed emergono problemi di varia natura. In questa situazione o ci si arrende e si sceglie di lasciare le cose come stanno, abbandonando ogni ipotesi di riforma, perlomeno per quel che concerne l’architettura generale del sistema, o si decide di imboccare una strada precisa, scommettendo sulla rilevanza e la riuscita di un fattore di cambiamento, capace di introdurre nel quadro delineato elementi di dinamismo e innovazione tali da smorzare le controindicazioni inizialmente associate all’opzione in suo favore. Questo fattore viene da taluni individuato nell’anticipo di un anno dell’ingresso nella scuola primaria, che avrebbe l’indubbio vantaggio di rendere compatibile l’ipotesi di un 8+5 con il diffuso desiderio di fissare a 18 anni l’iscrizione all’università o l’accesso alla formazione superiore. In questo caso, se non si ricorre ad annualità comuni, resta comunque fissata a 14 anni, sia pure alla conclusione di un percorso di nove anni di scolarità obbligatoria, come prevede la legge 9, la scelta tra i due canali del sistema educativo di istruzione e di formazione, sempre che non si ritenga di eliminare drasticamente il problema attraverso la trasformazione (di nome, ma anche di fatto?) in licei di tutti gli istituti tecnici e professionali. Questa ipotesi, come detto, viene fortemente avversata da tutti coloro che ritengono nocivo, per un equilibrato sviluppo del bambino, anticipare l’età della scolarizzazione. E’ forse però quella che renderebbe meno problematico trovare un punto di equilibrio e convergenza tra le esigenze contrapposte, in quanto non andrebbe a intaccare la durata della scuola secondaria di II grado, pur consentendo il mantenimento dell’opzione in favore di un ciclo complessivo della scuola primaria e della secondaria di I grado di 8 anni, e lascerebbe inalterato il principio cardine della legge 9 circa l’estensione del percorso di scolarità obbligatoria. La commissione ha scelto, come anticipato, una diversa opzione, basata sulla rilevanza e la potenzialità innovativa di un altro fattore, la creazione di un percorso, solido e innervato di contenuti culturali robusti e profondi, di formazione secondaria, parallelo a quello liceale e scommettendo sulla prospettiva di una solidarietà cooperativa e di una fattiva collaborazione tra tutte le esperienze e i luoghi formativi nei quali si possono raggiungere i livelli di maturazione educativa, culturale e professionale che dovrebbero contraddistinguere l’esercizio della cittadinanza per ogni singola persona. A favore di questa opzione sta, nella valutazione del Grl, il fatto che oggi nel mondo del lavoro è sempre più rara  la richiesta  della semplice applicazione di routines codificate e definite in ogni dettaglio, mentre cresce a dismisura la domanda di competenze e professionalità  capaci di misurarsi con procedure aperte (veri e propri frames, contenenti i soli dati indispensabili per identificarli ma “passibili” di letture e realizzazioni diverse) che non solo ammettono, ma presuppongono un intervento attivo da parte degli agenti interessati, che si traduce, concretamente, nell’attitudine a completarle e definirle, ricreandone gli aspetti mancanti  in funzione del tipo di problema da risolvere. Questi agenti si trovano così di fronte non solo alla possibilità, ma alla necessità di “pensare altrimenti”, rispetto alle routines e alla procedure codificate e formalizzate, ma non, ovviamente, in modo arbitrario e incondizionato e senza tenere conto, in concreto, del contesto e dei vincoli che la realtà dell’organizzazione in cui operano pone loro. Per rispondere a questa duplice esigenza (capacità di pensare altrimenti, da un lato, e di tenere nella debita considerazione questi vincoli)   essi debbono saper “leggere” e interpretare correttamente la situazione nella quale si trovano ad agire e, contestualmente, saper introdurre in essa gli elementi di variazione necessari per far fronte agli imprevisti che si affacciano con sempre maggiore frequenza. In una fase storica nella quale il lavoro è sempre meno caratterizzato da automatismi e da reazioni balistiche (quelle reazioni a uno stimolo o a un complesso di stimoli così immediate e veloci che il feedback sensoriale arriva troppo tardi per effettuare correzioni di sorta e nelle quali siamo in presenza di moduli e circuiti cablati, caratterizzati dall’interdizione del ricorso al feedback) il pensiero critico e la cultura, necessaria a farlo emergere e a svilupparlo, sono componenti imprescindibili di qualsiasi indirizzo di formazione. C’è un altro aspetto che va segnalato a questo proposito,  e cioè il fatto che lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione rende sempre più frequente ed efficace il ricorso alle simulazioni, cioè a processi e modalità di elaborazione nei quali i concetti, i meccanismi, i processi, i fattori postulati da una teoria non vengono descritti da parole o da simboli matematici, ma vengono incorporati in un programma di computer. Il programma gira nel computer e riproduce i fenomeni che la teoria intende spiegare. Mentre quindi le teorie scientifiche tradizionali spiegano i fatti tramite l’uso di simboli, le simulazioni riproducono i fatti ricreandoli nel computer, e così facendo li spiegano. La differenza rispetto a un linguaggio simbolico/formale è che mentre i simboli sono oggetti fisici che hanno – o producono nella mente di chi li interpreta – un significato, corrispondono cioè a qualcosa nell’esperienza o nella realtà esterna, i simboli di un linguaggio di programmazione hanno significato solo in virtù del loro corrispondere a operazioni eseguite dal computer. Cresce in tal modo l’importanza della dimensione operativa del sapere: le simulazioni  non procedono secondo il metodo dell’analisi, bensì secondo quello della sintesi, in quanto partono da specifiche componenti e  studiano cosa succede quando esse vengono poste in relazione reciproca e fatte interagire. Si tratta, però,-e questo è il punto- di una dimensione operativa non immediata e diretta, bensì altamente sofisticata, che richiede il possesso di linguaggi formalizzati  e di tecniche fortemente specializzate. Tant’è vero che si registra un’alleanza sempre più stretta tra calcolo e simulazione, come dimostra il crescente successo e la sempre maggiore efficacia della modellistica matematica, di quel processo, cioè, che si sviluppa attraverso l’interpretazione di un problema originato da discipline, quali, ad esempio, la fisica, la chimica, la biologia, le scienze dell’ingegneria, la medicina, l’economia, la rappresentazione dello stesso problema mediante il linguaggio e le equazioni della matematica, l’analisi di tali equazioni, nonché l’individuazione di metodi di simulazione numerica, appunto, idonei ad approssimarle, ed infine, l’implementazione di tali metodi su calcolatore tramite opportuni algoritmi”. Grazie a questo processo un problema del mondo reale viene trasferito dall’universo che gli è proprio in un altro habitat in cui può essere analizzato più convenientemente, risolto per via numerica, indi ricondotto al suo ambito originario previa visualizzazione ed interpretazione dei risultati ottenuti. E’ evidente che la corretta impostazione di un processo di questo genere richiede la capacità di identificare caratteristiche comuni in campi differenti, così che idee generali possano essere prima elaborate e poi applicate a situazioni fra loro assai diverse. Questa capacità è la concreta espressione  di ciò che comunemente si chiama astrazione, in quanto implica l’attitudine a fare emergere sottili divergenze e a portare alla luce analogie a priori impensabili; a sviluppare modelli per sistemi astratti e dimostrarne le proprietà fondamentali.  Un’ulteriore prova, questa, del fatto  che oggi è sempre più difficile separare la dimensione propriamente operativa del sapere, che fa riferimento, sul piano de processi di apprendimento, al “mostrare” più che al “dire”, da quella più specificamente riflessiva, astratta e critica. Una formazione che voglia essere efficace e avere successo non può quindi ignorare quest’ultima dimensione; anzi la deve valorizzare sempre più e porre in modo sempre più deciso alla base dei processi di insegnamento/apprendimento sviluppati all’interno di essa. Ecco perché il Grl non ritiene comunque penalizzante, o gravida di rischi di emarginazione o di intollerabili discriminazioni sociali, la scelta a 14 anni tra l’istruzione liceale e una formazione così intesa: e scommette non solo sulla possibilità, ma sulla necessità, oggi, anche per le esigenze poste dalla dinamica del mondo del lavoro e dallo sviluppo del sistema economico nel suo complesso, di porre le basi di un sistema di formazione di questo tipo. Si può in proposito rilevare che l’istituzione di un percorso di questa natura non risponde a una semplice logica adattiva di risposta alle richieste di professionalità che emergono dal mercato del lavoro, ma può assumere, proprio per la sua forte connotazione culturale, una funzione di stimolo e di innovazione, creando le condizioni per modificare forme e contenuti delle professionalità esistenti e anticipando bisogni e dinamiche economiche e sociali ancora in fase embrionale e non compiutamente emerse. 

Una lettura, anche superficiale di queste cose fa rendere conto del livello ciarlatano che la destra pone a base della sua scuola, salvo sbarazzarsene immediatamente per realizzare obiettivi concreti che non possono mai coniugarsi con una qualche epistemologia.   Bertagna cerca una base scientifica al suo progetto. Lo dice e lo ripete più volte. Egli stesso non ci crede. Comunque mette giù un elenco di obiettivi (vincoli) da conseguire:

Ø     Innalzamento della qualità e del livello complessivo del sistema scolastico da realizzarsi, in primo luogo, attraverso l’obbligo di istruzione e/o formazione per almeno 12 anni (o, nell’ipotesi minima, fino all’ottenimento di una qualifica), articolato in obbligo di istruzione dai 6 ai 14 anni con successiva possibilità di scelta, all’interno del sistema educativo di istruzione e di formazione, tra il percorso dell’istruzione secondaria di secondo grado e il percorso della formazione, senza nessuna canalizzazione, comunque intesa e definita, prima dei 14 anni;

Ø      Articolazione del ciclo dell’obbligo di istruzione in una scuola primaria, che resta ordinamentalmente quinquennale, e in una scuola secondaria di I grado, che rimane triennale, fortemente collegate tra loro in un percorso continuo e progressivo, sul modello degli istituti comprensivi, e in più suddiviso in cicli biennali. Questa soluzione consente un immediato ampliamento dello studio secondario rispetto a quello primario attraverso la saldatura tra la V elementare e la I media e quindi contiene in sé la possibilità di riorganizzare l’intero sistema di istruzione e formazione in articolazioni differenti da quelle del modello previsto dal Grl. Non è ad esempio azzardato ipotizzare che, qualora gli interventi proposti funzionino, si possa pervenire, in tempi ragionevoli, a due cicli di 6 anni ciascuno, frutto, appunto, della saldatura, da una parte, tra l’ultimo anno della scuola primaria e il primo della secondaria di I grado e, dall’altro, tra l’ultimo biennio di quest’ultima e il ciclo quadriennale della scuola secondaria di II grado. L’organizzazione in cicli biennali è fatta apposta per operare questa eventuale transizione da una soluzione immediata, che tenga conto degli attuali vincoli della realtà di fatto, a una che, via via che il sistema scolastico si assesta, si riorganizza, migliora la propria funzionalità ed efficacia, si riveli più conforme alle nuove esigenze. In questo senso, non è nemmeno escluso, in base ai risultati delle misure di riforma che si propongono, che il consolidato professionale dei docenti e dell’esperienza di apprendimento degli alunni possa portare anche verso una soluzione non di sei più sei, bensì di quattro, più quattro, più quattro, oppure alla conferma della scelta per ora proposta come più ragionevole. È buona regola d’azione, del resto, in qualsiasi riforma, essere attenti all’ evoluzione sostanziale delle cose, piuttosto che costringerle dentro schemi pregiudiziali formali. Ciò, è bene ribadirlo, sempre nel rispetto di due vincoli che il Ministro ha posto e che il Grl ha recepito volentieri: l’obbligo per tutti di acquisire almeno una Qualifica in 12 anni di istruzione e/o formazione o, comunque, entro il 18° anno di età, e l’esclusione di qualsiasi “canalizzazione” o scelta prima dei 14 anni di età, cioè prima che tutti abbiano compiuto un percorso formativo di 8 anni, comunque internamente articolato e organizzato. L’ultimo biennio della scuola secondaria di I grado, rigorosamente uguale per tutti, deve avere un forte carattere orientativo, in modo da consentire a ciascuno, attraverso moduli didattici specifici, incontri con docenti e allievi dell’istruzione secondaria di II grado e della formazione, di poter anche sperimentare forme e contenuti tipici dell’apprendimento e dell’esperienza formativa dei diversi indirizzi di studio successivi e di avere, di conseguenza, la possibilità di effettuare scelte consapevoli;

Ø     Potenziamento del percorso della formazione secondaria, sia essa a tempo pieno o in alternanza, e istituzione, accanto al sistema universitario, di un sistema di formazione superiore, che come detto generalizzi l’attuale sistema degli IFTS, ancora agli inizi, e lo faccia evolvere verso assetti istituzionali meglio definiti e più stabili, e preveda itinerari differenziati per durata e terminalità (da 1 a 6 semestri a tempo pieno o da 1 a 8/9 se posti in alternanza scuola-lavoro), in modo da rispondere alla richieste, da parte del mondo produttivo, in primo luogo di diversi livelli di professionalità, e in secondo luogo sia di figure polivalenti, in grado di inserirsi in organizzazioni più complesse, sia di figure più specialistiche, che rispondono al bisogno di competenze più marcate dal punto di vista operativo;

Ø      Organizzazione della didattica in cicli biennali, sia per favorire una maggiore flessibilità, con effettive possibilità di riarticolazioni interne sulla base dell’esperienza acquisita e delle esigenze che possono via via emergere, sia per assumere, nei confronti dei cosiddetti debiti formativi, un atteggiamento che permetta di combinare e contemperare, in modo coerente, rispetto delle differenze dei diversi ritmi di apprendimento e rigore. Il primo principio trova concreta applicazione nel considerare non preclusiva, ai fini del passaggio dalla prima alla seconda classe di ogni biennio, la presenza anche di più debiti; il rigore si esprime nell’obbligo di colmare, durante il secondo anno del biennio medesimo, per ottenere il passaggio al successivo, i debiti registrati l’anno precedente, con la tolleranza per uno. Nel caso in cui i debiti siano emersi nel corso del secondo anno del biennio, lo studente ha l’obbligo di recuperarli (sempre con la tolleranza per uno) l’anno successivo. Tra i debiti da prendere in considerazione vi è anche il mancato conseguimento degli obiettivi relativi a un comportamento del soggetto in classe, che attesti il raggiungimento del livello di maturità sociale e di responsabilità consono all’età;

Ø      Piena attuazione dell’art.6, c.1, del D.M. 509/99 che obbliga l’università a verificare se chi chiede l’immatricolazione possiede davvero la preparazione iniziale necessaria per frequentare il corso di laurea prescelto in maniera proficua. Nell’ipotesi del Grl, questo obbligo si estende anche ai corsi di formazione superiore, che debbono verificare l’effettivo possesso, da parte di chi desidera l’accesso, delle conoscenze, delle abilità  e delle competenze stabilite. All’uno e all’altro canale, università e formazione superiore, si può accedere indifferentemente sia dal percorso dei licei, sia da quello della formazione secondaria.  Viene altresì proposta l’attivazione di un servizio di attività formative propedeutiche, svolte in collaborazione con istituti della scuola superiore di II grado, da docenti di quest’ultima appositamente selezionati dai diversi corsi di laurea, che provveda a “riallineare”  la preparazione dello studente ai livelli qualitativi richiesti per l’accesso. Questi moduli avranno durata variabile, da un mese a un intero anno, e sono aggiuntivi alle normali attività previste nel piano degli studi universitario. La certificazione dell’avvenuto recupero dei debiti, e quindi l’ammissione ai corsi universitari che danno diritto ai crediti per il conseguimento della laurea, dovrà essere il risultato di una valutazione, se non comune, almeno condivisa, tra i docenti cui sono stati affidati i moduli di riallineamento e quelli universitari. Questo cardine è il risultato del tentativo di dare concreta espressione e attuazione a un principio generale, cui il Grl ha cercato di ispirare tutta la costruzione del proprio modello: la scelta di operare nella “zone di confine” tra i cicli in cui è attualmente articolata la scuola italiana, al fine di ridurre le eccessive “linee di demarcazione” che li separano, con conseguenti gravi difficoltà e disagi per gli studenti negli anni di passaggio dall’uno all’altro (dalla scuola elementare alla scuola media inferiore; da quest’ultima alla scuola superiore; e appunto, dai licei o dagli istituti tecnici e professionali all’università);

Ø     Affidamento al Servizio Nazionale per la Qualità del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione, all’inizio della 1°, 3° e 5° primaria, della 2° media, della 1° e della 3° secondaria, nonché alla fine della 3° media e dell’ultimo anno della  secondaria, il compito di predisporre verifiche sistematiche sulle conoscenze e sulle abilità degli allievi, richieste dai piani di studio nazionali. La scelta di operare le verifiche nazionali all’inizio del ciclo scolastico successivo, piuttosto che alla conclusione del precedente, è motivata dal desiderio di attribuire alle verifiche un carattere più promozionale che descrittivo e sommativo. Ciò non toglie che, con appuntamenti  di questa natura, le scuole possano contare su numerosi ed eloquenti stimoli per la pratica dell’autovalutazione e di una programmazione educativa e didattica autocorrettive;

Ø      Riorganizzazione dell’attività didattica sulla base di modalità capaci di assicurarle maggiore flessibilità ed efficacia. Si tratta, in particolare, di ridurre il numero delle discipline, mantenendolo entro una soglia che sia compatibile con la reale possibilità, da parte dello studente, di assimilare il linguaggio, la trama concettuale, i contenuti essenziali e lo statuto epistemologico di ciascuna di esse, e di assicurare, nel contempo, l’attivazione di uno spazio di lavoro interdisciplinare che permetta l’acquisizione concreta di tutte quelle conoscenze, abilità e competenze che non rientrano nei confini delle discipline prescelte e sono, tuttavia, da considerarsi irrinunciabili ai fini di una formazione completa degli studenti. La combinazione di questi due approcci deve essere tesa a favorire la costruzione della conoscenza secondo una forma duale, in virtù della quale essa,  da una parte,  rimanga ancorata al contesto utilizzato e da questo in genere attivata; dall’altra, ne risulti svincolata, in modo da poter essere proiettata su altri contesti, considerati, per qualche aspetto, analoghi al precedente. Ne escono in tal modo rafforzate l’attitudine al trasferimento analogico da un contesto a un altro, basata sulla capacità di “vedere” un materiale di apprendimento relativo a una particolare conoscenza in situazioni differenti da quella originaria e abituale, e l’ astrazione, cioè  la capacità di identificare caratteristiche comuni in campi differenti. Legare strettamente un concetto a un solo contesto rende più difficile lo sviluppo di queste capacità: ciò non significa, ovviamente, negare non solo l’utilità, ma anche la necessità di un lavoro di riflessione e di codificazione all’interno di un contesto specifico, al fine di cogliere gli elementi essenziali che ne caratterizzano gli apporti concettuali o metodologici. Si parla di forma duale proprio per sottolineare, da un lato, che la base di conoscenza da fornire allo studente deve essere codificata in termini precisi all’interno di uno specifico linguaggio e di un dominio teorico ben definito, in modo da offrire cardini di riferimento significativi e stabili: dall’altro, però, che questa stessa base deve essere sufficientemente flessibile da consentire l’allargamento dello sguardo ad altri contesti e da favorire la capacità di generalizzare quanto già costituito, prendendo in considerazione altre situazioni e altre problematiche;

Ø     Articolazione delle ore annuali di lezione in due sottoinsiemi: uno di 25 ore settimanali (825 annuali), a loro volta distinte in 20 ore settimanali (660 annuali) a quota nazionale e 5 settimanali (165 annual)i a quota locale, pensate non tanto come aggiuntive, bensì come intensive rispetto alle precedenti; e il secondo di 300 ore annuali. Il primo sottoinsieme è riservato alle discipline che caratterizzano i diversi piani di studio, ai contenuti che le istituzioni del sistema educativo sono tenuti ad insegnare e a far acquisire e alle attività che esse devono svolgere ed è utile soprattutto alla determinazione dell’organico funzionale di istituto con docenti dotati di determinate classi di abilitazione. Il secondo fa invece riferimento al percorso che, in mancanza di un termine più adatto, il Grl ha chiamato dei Laboratori (nelle scuole secondarie: Informatica, Attività motorie e sportive, Attività espressive, Lingue, Attività di progettazione di artefatti manuali o simbolici, di interventi di azione sociale, di soluzioni produttive e gestionali, del proprio progetto di vita, professionale e no, ecc.). L’ espressione “in mancanza di meglio” serve a dissipare un possibile equivoco, e cioè che il percorso obbligatorio possa o debba strutturarsi senza attività laboratoriali. Si tratta di un eventuale fraintendimento da dissipare, in quanto, al contrario, queste attività debbono costituire una costante di tutto l’insegnamento. I Laboratori nell’accezione del Grl sono uno spazio didattico che per gli istituti è comunque obbligatorio istituire, da soli o in collaborazione tra loro, mentre gli studenti e le famiglie decidono se, quando, come ed eventualmente in quale scuola ne vogliono usufruire, fatto salvo il dovere per le scuole, al termine del percorso formativo, di accertare il raggiungimento del livello previsto di conoscenze, abilità e competenze anche in relazione a questi contenuti, accertamento che entra, ovviamente, a far parte della valutazione complessiva finale. La scelta degli studenti e delle loro famiglie è da intendersi legata alla possibilità che queste abilità e competenze (linguistiche o informatiche, ad esempio) siano già state conseguite altrove e in altro modo a un livello tale da garantire una positiva valutazione finale. Tra questi Laboratori in ogni ordine e grado scolastico deve essere prevista anche l’attivazione di uno specifico dedicato al Recupero e sviluppo degli apprendimenti, la cui funzione risulta strategica alla scopo non solo di concretizzare il diritto, appunto, al recupero o allo sviluppo in discipline e attività previste nei rispettivi piani di studi , ma anche alla transizione reciproca tra il sistema educativo di formazione e quello di istruzione e viceversa. Esso dà quindi espressione e contenuto concreto alle cosiddette “passerelle”, intese come strumento utilizzato dalle scuole per facilitare il passaggio da un percorso di studi ad un altro. 

A questo punto seguono indicazioni di dettaglio per i cicli scolastici, per la formazione degli insegnanti eccetera. 

Ma per far vedere la sfrontatezza di questi personaggi, che copiano senza pudore, anche da documenti ufficiali, occorre riprendere alcune cose che erano state sostenute, in sede UE dal Libro Bianco Cresson del 1996 [40].

 Tale studio parte dal riconoscimento di una società in rapido cambiamento (mondializzazione, informazione, scienza e tecnica, impresa, … ) ed afferma che la scuola si deve adeguare. In particolare la crescita dell’informazione a livello mondiale potrebbe essere di aiuto al sistema formativo. Ma per far questo l’Europa deve avere come priorità l’investire in software multimediale, data la frammentazione del mercato multimediale europeo, al fine di sfruttare tutte le potenzialità dell’educazione permanente attraverso la TV e, quando si saranno diffusi i computer, attraverso internet. Ma una ‘scuola’ di questo tipo non può più certificare le conoscenze attraverso un diploma che è sempre più obsoleto. E’ quindi auspicabile quella “Tessera personale delle competenze” , il portfolio!, da spendere nella UE. Gli obiettivi principali che il sistema educativo deve conseguire sono: 1) l’avvicinamento della scuola all’impresa con l’educazione alla flessibilità ed alla mobilità; 2) il trattare allo stesso modo gli investimenti in affari e quelli in formazione; 3) la lotta all’emarginazione ed all’abbandono scolastico, che possono avere successo con l’introduzione di ogni tecnica multimediale e con i suggerimenti della Commissione: “sviluppare la concertazione ed il partenariato con il settore economico; si può ad esempio immaginare che ogni impresa sponsorizzi una scuola … Le famiglie sarebbero anch’esse coinvolte direttamente …“; 4) la conoscenza di tre lingue comunitarie; 5) l’auspicio che i Paesi della UE adottino “disposizioni a favore delle imprese che attribuiscono particolare attenzione alla formazione“.

      A questo occorre aggiungere quanto sostenuto dal Memorandum della UE del 30/10 del  2000  ripreso poi più volte in seguito) 

”Esistono tre tipi di educazione:

Si distinguono tre diverse categorie fondamentali di apprendimento finalizzato:

• l’apprendimento formale che si svolge negli istituti d’istruzione e di formazione e porta

all’ottenimento di diplomi e di qualifiche riconosciute;

• l’apprendimento non formale che si svolge al di fuori delle principali strutture

d’istruzione e di formazione e, di solito, non porta a certificati ufficiali. L’apprendimento

non formale è dispensato sul luogo di lavoro o nel quadro di attività di organizzazioni o

gruppi della società civile (associazioni giovanili, sindacati o partiti politici). Può essere

fornito anche da organizzazioni o servizi istituiti a complemento dei sistemi formali (quali corsi d’istruzione artistica, musicale e sportiva o corsi privati per la preparazione degli esami);

• l’apprendimento informale è il corollario naturale della vita quotidiana. Contrariamente all’apprendimento formale e non formale, esso non è necessariamente intenzionale e può pertanto non essere riconosciuto, a volte dallo stesso interessato, come apporto alle sue conoscenze e competenze.

Fino a questo momento, l’istruzione formale ha dominato la riflessione politica, influenzando l’impostazione dei modelli d’istruzione e formazione nonché la percezione generale di “apprendimento”. L’apprendimento permanente senza soluzioni di continuità consente l’inserimento dell’apprendimento non formale ed informale in un unico contesto. L’istruzione non formale, per definizione, è impartita al di fuori di scuole, istituti d’istruzione superiori, centri di formazione o università. Questo tipo d’istruzione è raramente percepita come una formazione “vera e propria” e i suoi risultati non hanno un valore riconosciuto sul mercato del lavoro. L’apprendimento non formale è pertanto in generale sottostimato.

Tuttavia, è l’apprendimento informale che rischia di essere completamente trascurato, benché costituisca la prima forma di apprendimento e il fondamento stesso dello sviluppo infantile. Il fatto che la tecnologia informatica sia entrata prima nelle famiglie che nelle scuole conferma l’importanza dell’apprendimento informale. L’ambiente informale rappresenta una riserva considerevole di sapere e potrebbe costituire un’importante fonte d’innovazione nei metodi d’insegnamento e di apprendimento … si tratta ora innanzitutto di valutare la complementarità dei sistemi di apprendimento formale, non formale e informale e, in secondo luogo, di costruire reti aperte di offerte di formazione e di riconoscimento delle qualifiche tra questi tre contesti dell’apprendimento”.

Questa disquisizione è fatta per sostenere che occorre puntare sull’educazione informale, riserva considerevole di sapere e possibile sorgente d’innovazione per metodi e contenuti (naturalmente per coloro che non hanno i mezzi per accedere ad altra istruzione). Ma dove si  può educare informalmente? Lo dice la stessa UE: “Per avvicinare l’offerta di formazione al livello locale bisognerà anche riorganizzare e ridistribuire le risorse esistenti al fine di creare dei centri appropriati di acquisizione delle conoscenze nei luoghi della vita quotidiana in cui si riuniscono i cittadini, non solo gli istituti scolastici, ma anche i centri municipali, i centri commerciali, le biblioteche i musei, i luoghi di culto, i parchi e le piazze pubbliche, le stazioni ferroviarie e autostradali, i centri medici e i luoghi di svago, le mense dei luoghi di lavoro“. Chissà cosa avranno in mente !

Sembrerebbero cose stravaganti. Evidentemente non lo sono se nel documento Bertagna, premessa alla Riforma Brichetto Moratti, si legge:

In genere, si distingue tra sistema educativo informale, non formale e formale. Il primo è rappresentato dalla vita sociale ordinaria che non esprime programmatiche potenzialità formative, pur determinandole di fatto, funzionalmente, in maniera anche irreversibile. Il secondo riguarda quell’insieme di istituzioni che, pur non essendo strutturate in maniera esplicita per promuovere, con gradualità e sistematicità, processi educativi di istruzione e formazione, tuttavia esprime intenzionalità in questa direzione in un territorio e lungo l’intero arco della vita dei soggetti. L’ultimo si riferisce specificatamente al sistema educativo di istruzione e di formazione istituito e strutturato dalla Repubblica (Stato, Regioni, Enti Locali [ci si sta qui riferendo alla modifica, fatta dal centrosinistra, del Titolo V della Costituzione – art. 55 – che permette il finanziamento delle scuole private]) per i minori e per le giovani generazioni. L’ipotesi di riforma che si presenta vuole essere attenta all’integrazione tra questi diversi sistemi (…). L’attenzione si sposta, dunque, dai luoghi di istruzione (scuola) e della formazione (centri, agenzie, servizi, imprese) alla certificazione delle competenze finali che si possono e si debbono maturare in un ambiente piuttosto che in un altro (…) certificazione delle competenze che proprio per la sua natura rifugge da ogni esclusività di percorso e, più che consentire, favorisce i passaggi tra un indirizzo e l’altro del sistema educativo di istruzione e formazione (…) Le tradizionali alternative tra scuola (statale) e centri della formazione professionale (regionali o non statali), tra scuola e impresa, tra scuola ed extra scuola perdono, perciò, la loro drammaticità (…) Si aprono, al contrario, le prospettive di una solidarietà cooperativa tra tutte le esperienze e i luoghi formativi nei quali si possono raggiungere livelli di maturazione educativa, culturale e professionale, (…) indipendentemente dal fatto che siano statali, regionali o di enti e privati (accreditati)“. 

E cose analoghe erano anche nella Riforma Berlinguer. Nel 1997, nel suo primo documento sulla “Riforma dei cicli“, si legge: “Gli obiettivi generalmente condivisi sono stati: (…) avvicinare i luoghi dell’istruzione alla realtà sociale, culturale, produttiva, occupazionale del territorio. Basta poi leggersi le stravaganze delle passerelle, che dovrebbero permettere il passaggio dalla  scuola statale ordinaria alla  formazione professionale, qualcosa che esiste solo nella mente di chi l’ha pensata se anche la bontà dello stesso Berlinguer  fa dire (a 4 anni di distanza dalla sua Riforma), che il percorso inverso è di là da venire soprattutto se non sostenuto da corsi ad hoc mai previsti dalle sue pretese riforme e tanto meno dei suoi esimi successori.  Non a caso i due pedagoghi di punta dei due schieramenti antagonisti, Bertagna e Maragliano (ma anche Luisa Ribolzi e Silvano Tagliagambe che avevano lavorato con Berlinguer), lavorano oggi insieme nel progetto “Buonsenso per la scuola” (vedi oltre) in cui si riaffermano tutti i desiderata dell’impresa. Nel loro documento, che vorrebbe dire l’ultima parola sulla scuola (in liquidazione, anche se lor signori non si rendono conto di ciò), nella sostanza si dice che la sinistra e la destra hanno le stesse idee sulla scuola, a parte alcune sfumature. La sinistra ha una possibilità di egemonia sul sindacato che la destra non ha. Poiché sembra fuori luogo fare riforme ad ogni cambio di legislatura, sarebbe opportuno convergere in un unico progetto che, non a caso, è quello della destra. Nel documento del Buonsenso, tra l’altro, si dice infatti:

“Di fronte all’irrompere del computer e di internet sulla scena dei processi di apprendimento qualcuno  prevede un futuro in cui la scuola sarà interamente soppiantata dalle nuove modalità di auto-apprendimento in rete, un apprendimento non più insegnato ma semmai tutorato e prevalentemente on line (…). In una logica di «integrazione» l’intreccio e l’alternanza di esperienze di aula, di laboratorio e di vera e propria attività lavorativa condotta in situazione di apprendistato o di tirocinio diventano requisiti fondamentali del curricolo scolastico, come lo diventa lo sforzo di non fermarsi alle conoscenze (…) Le scuole non statali devono essere considerate come una risorsa per la riqualificazione e il rilancio dell’intero sistema formativo pubblico (…) L’abolizione del valore legale del titolo di studio (…) un sistema di valutazione reale dei processi e dei prodotti”.

Mi pare sia chiaro che di elaborazioni autonome, a parte le sciocchezze perbeniste di sole chiacchiere dovute alla formazione cattolica, non vi sia nulla.

Passiamo ora a descrivere in breve gli aspetti salienti della riforma Brichetto sanzionata dalla legge finanziaria 2002 in alcuni aspetti fondamentali. Tale riforma, almeno ora, è sulla linea delle indicazioni del documento Bertagna.. 

– Innanzitutto sparisce la distinzione tra scuola pubblica e privata

– La scuola privata sarà finanziata in accordo con quanto fatto da Berlinguer ed in continua violazione della Costituzione.

– Consulente per la scuola di Letizia Brichetto Moratti è Muccioli, quello che ha metodi convincenti per “guarire” i tossicodipendenti. Il pedagogista Bertagna è altro consulente.

– Gli esami finali (art. 13 della finanziaria) saranno fatti da sole commissioni interne con un presidente esterno per un intero istituto e non per ogni classe (con festeggiamenti da parte degli esamifici confessionali e non). A margine va osservato che gli insegnanti degli ultimi anni dovranno scrutinare gli studenti 10 giorni prima degli esami. A che servono gli esami? Conseguenza di ciò è una cosa di estrema gravità già prevista dal Piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli: abolizione nei fatti del valore legale al titolo di studio.

– Si lasciano inalterati i cicli elementari e medie; si riduce di un anno la scuola secondaria.

– Si reintroduce tra i 12 ed i 13 anni l’odioso avviamento professionale (che, lo ricordo, era stato eliminato nel 1963).

– I salari degli insegnanti vengono ridotti (aumento mensile lordo di 9 mila lire, che è più basso dell’erosione salariale dovuta all’inflazione): art. 9 della finanziaria.

– Gli insegnanti che dovessero assentarsi per meno di 16 giorni non hanno diritto ad un supplente: dovranno essere sostituiti dai colleghi in servizio che saranno per questo pagati 27 000 lire nette l’ora (data la situazione disperata di molti insegnanti vi sarà la corsa a queste ore che potranno essere assegnate fino a che l’insegnante non arrivi alle 24 ore di insegnamento). Se nessuno fosse disponibile a sostituire il collega per una assenza breve la classe rimarrebbe scoperta (immaginate 4 o 5 classi scoperte in una scuola media). Ecco il modo per arrivare agli aumenti di stipendio! (art. 13 della finanziaria). Per ora la cosa è posta su un piano facoltativo. Ma, al momento in cui si andrà a regime, quando cioè non sarà più possibile avere supplenti e saranno abolite le cattedre orario, quelle ore in più diventeranno obbligatorie per gli insegnanti che lavorano nella scuola. La qualità della scuola pubblica continuerà ad abbassarsi.

– Il numero delle ore che dovranno essere fatte da qualsiasi ordine di scuola non potrà superare le 25 settimanali. Ciò comporta l’eliminazione di alcune materie ritenute non necessarie: musica ed educazione fisica dovrebbero sparire, la matematica dovrebbe sparire nel classico mentre il latino nello scientifico. Finisce il tempo pieno e quello prolungato. Finiscono i moduli nelle elementari. Chiunque volesse sviluppare le discipline eliminate può farlo a pagamento in ore extra.

– Le pulizie scolastiche dovranno essere fatte da imprese esterne alla scuola. Sparirebbero così i bidelli che svolgono una importante funzione ai piani. (articoli 15, 16, 17, 18, 23 della finanziaria)

– Analoga sorte per l’amministrazione della scuola che dovrebbe andare ad agenzie esterne (come sopra).

– Gli organi collegiali vengono eliminati e sostituiti da un “consiglio di amministrazione” della scuola in cui compare per la prima volta un politico, il rappresentante dell’Ente proprietario dell’edificio (Stato, Regione, Provincia o Comune): art. 13 della finanziaria. Anche qui siamo in accordo con il centrosinistra che aveva aperto la strada alla riforma degli organi collegiali.

– Vi è il divieto di assunzione di nuovo personale a qualsiasi titolo. Si prevede una riduzione di personale di 40 000 unità (ampiamente in grado di coprire l’obbligo per ciascuna amministrazione di ridurre il personale almeno dell’1%): articoli 12 e 13 della finanziaria.

– A margine, non si sa bene che fine faranno tutti coloro che, dopo la laurea, hanno già imboccato la strada delle SSIS. Tempo perso? Presi in giro?

– Viene istituita una agenzia, esterna alla scuola, che valuterà il lavoro della scuola stessa. Non è retorico chiedersi il senso di tale misura e forse vale la pena ricordare che, anche qui, Moratti si muove su una strada aperta da Berlinguer.

E’ utile a questo punto riportare un commento alle ultimissime proposte Moratti (18 gennaio 2002) da parte di Pino Patroncini, un esperto di questi problemi della CGIL Scuola:

“Un passo avanti o un passo indietro la nuova proposta di riforma della Moratti che dopo aver raccolto i dissensi dell’opposizione è stata impallinata dai suoi stessi compari di governo nella migliore delle tradizioni della cosiddetta prima repubblica?

        La proposta Bertagna non esiste più mentre quello che il Consiglio dei Ministri doveva varare è in realtà un disegno di legge che mantiene, peggiorandolo, l’attuale sistema, che si diceva di voler riformare.

        Il nodo, più spinoso, come sempre, è quello della secondaria superiore, ma i guasti si fanno a tutto campo:

1) La secondaria superiore sarà di cinque anni, ma il quinto anno non sarà il vecchio quinto, ma piuttosto un anno di raccordo con l’università ovvero se all’università non si va (tecnici) il corso sarà di 4 anni più uno di formazione tecnica superiore (eventuale)

2) Il problema dell’allineamento della fine degli studi secondari a 18 anni è rimosso. Si finirà a 19 a meno che non si iscrivano i figli a scuola a 5 anni e mezzo anziché a 6, oppure a meno che non si faccia leva sugli sconti a “geometria variabile” (?!) ottenuti frequentando la scuola materna (sconti spostati nel ciclo di base a differenza della proposta Bertagna che li prevedeva solo nel percorso professionale e quindi dopo l’assolvimento dell’obbligo).

3) La scelta tra i due percorsi del sistema duale (scuole/alternanza scuola lavoro) avverrà a 15 anni e non più a 14, ma a 14 comunque bisognerà scegliere l’indirizzo.

        Sorgono subito spontanee alcune obiezioni logiche:

1) La uniformazione al termine “europeo” degli studi secondari a 18 anni non è più un problema? Gli italiani finiranno dunque a 19 anni i loro studi? Oppure lo risolveranno solo i nati entro aprile dell’anno successivo, bambini che non si capisce se saranno fortunati o non piuttosto disprezzati nei loro diritti ai tempi dell’infanzia.

2) Se le cose stanno così allora perché differenziare gli studi tra licei (5 anni) e tecnici (4+1 eventuale)? Sicché chi ha la prospettiva di studiare di più perché va anche all’università continuerà studiare di più e chi ha la prospettiva di studiare di meno può terminare addirittura un anno prima? Non sarebbe più logico il contrario, anche in relazione a tempi e modi di una preparazione professionale?

        Ma dietro a questi pasticci, c’è l’idea di non mollare su alcuni principi di fondo:

1) Un sistema scolastico a fondamento segregazionista: da una parte chi studia per sapere, dall’altra chi studia per lavorare. Due sistemi diversi nei tempi, nei modi, nello spirito e soprattutto negli ambienti.

2) Una retrocessione de jure dell’obbligo scolastico da 15 a 14 anni che deriva automaticamente dalla necessità di affermare il principio segregazionista;

3) L’affermazione di una scelta precoce, soprattutto per chi deve uscire prima dalla scuola, nonostante tutte le controindicazioni per questa scelta.

4) Una definizione dei tempi della vita da dedicare agli studi lasciata al know how delle famiglie (mandare prima i figli a scuola, decidere se frequentare o no la scuola materna) invece che garantita dall’istituzione.

        Il nocciolo del modello c’è ancora tutto, anche se un po’ più spolpato di prima. Ed è un modello che non valorizza il ruolo della scuola pubblica né aumenta il numero di diplomati e laureati, né risolverà il problema della dispersione scolastica. In compenso ci allontana dall’Europa della cultura e del diritto all’istruzione e ci riporta ad un passato che pensavamo finito per sempre, nel quale l’istruzione era un privilegio per pochi e l’avviamento al lavoro una condanna per troppi”. (Pino Patroncini)

        Con tutta la stima che ho per Pino Patroncini, le vicende del Congresso CGIL che si svolge alla fine di gennaio, mostrano volontà di convergenza con la maggioranza di quel sindacato, maggioranza che non ha mai fatto un minimo di autocritica rispetto al suo essere stato sindacato che ha sostenuto il complesso delle riforme di Berlinguer. Oggi il gioco è facile: si richiamano tutti all’unità di Patria contro il nemico comune. E’ evidente che l’operazione è ancora di potere e non riguarda il merito delle questioni in gioco. Per essere chiari, dato per assurdo un ministro Berlinguer domani, questa CGIL sarebbe di nuovo cinghia di trasmissione del potere costituito.

        Insomma siamo in una vera e propria distruzione della Scuola così come la abbiamo sempre intesa. I livelli di quest’ultima non miglioreranno certamente dato che i criteri di assunzione del personale sono e resteranno non oggettivi e legati a scelte ideologiche precise. L’effetto unico possibile riguarderà l’aumento dei profitti. E basta. Nell’attesa dell’introduzione dei metal-detector nella scuola pubblica.

L’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri della versione definitiva della Riforma Moratti è del 01/02/02.

            Cosa è cambiato con questo abbozzo di riforma (sarà formalizzata in Parlamento) rispetto all’esistente e rispetto a Berlinguer? Si tratta di sciocchezze verbali nelle enunciazioni e delle mazzate violente nei fatti.

Per leggere questa riforma occorre rifarsi alla finanziaria che taglia i fondi dell’Istruzione di un 19% e che ha introdotto il fatto che tutti i servizi scolastici saranno effettuati da aziende esterne alla scuola.

Le due cose insieme vogliono dire ciò che già è stato detto da vari quotidiani:

1) riduzione da qui al 1° settembre 2004 (due anni scolastici) di 56.000 posti di insegnanti “di ruolo” nella scuola,

2) ciò va aggiunto al fatto che non sarà più possibile avere precari e supplenti (circa 60 000 persone)

3) occorre ancora pensare a 20 000 posti di bidelli e personale di segreteria che spariranno.

Come si realizzerà tutto ciò?

1) Il numero massimo di ore che i ragazzi faranno a scuola sarà di 25 a settimana

2) Le materie saranno ridotte, da quelle che sono, ad 8 (o massimo 10)

3) Spariranno (ciò che ora si sa) educazione tecnica, educazione musicale, educazione artistica, educazione fisica (chi vorrà fare di queste cose se le pagherà con corsi a pagamento)

4) Se una scuola parte, ad esempio, con 10 prime classi con 25 alunni ciascuna e l’anno successivo vi sono un totale di 200 alunni (50 sono stati bocciati o si sono ritirati), si rifanno le classi che non potranno essere più di 8 (minimo 25 alunni per classe con conseguente sparizione della continuità didattica). Questa operazione di accorpamento delle classi può avvenire ogni anno.

5) Non si potranno nominare supplenti per assenze fino ai 16 giorni. Saranno i professori della scuola che dovranno fare fronte all’assente (pagati 27.000 lire nette l’ora). Chi conosce la scuola sa cosa ciò vuol dire: è praticamente impossibile fare qualcosa di utile in una sarabanda di supplenze non continue con lo stesso insegnante.

6) Le lingue così come sono previste sono l’esatto identico della riforma Berlinguer, con una aggravante Moratti: saranno licenziati tutti quelli che davvero facevano imparare le lingue, gli 11 000 insegnanti di madrelingua che attuavano nei laboratori linguistici

7) La prima elementare che inizia a 5 anni è l’esatto identico di quanto previsto dalla prima versione della riforma Berlinguer, bocciato per il buonismo del centrosinistra, a seguito delle violente proteste del Polo (e della sua ala cattolica in combutta con i cattolici dell’Ulivo). Si tenga conto che questo cedimento del centrosinistra è quello che ha poi creato il maggior malcontento tra insegnanti ed utenti (i cicli che vedevano una riduzione di un anno tra elementari e medie)

8) Chi conosce la scuola sa quanto siano importanti i bidelli agli ingressi ed ai piani. Questa riforma li vede solo come addetti alle pulizie. Saranno aziende esterne alla scuola ad occuparsi di pulizie, con la sparizione di bidelli e la scuola lasciata in balia di se stessa con ogni nefandezza che può accadere nei corridoi

9) Anche le segreterie spariscono con il solito sistema delle agenzie esterne

10) Gli insegnanti non avranno nessun miglioramento economico ma, a seguito degli accorpamenti, dovranno certamente avere cattedre di 18 ore che possono arrivare fino alle 24. Con 24 ore si moltiplicano compiti in classe , lezioni da preparare, consigli di classe, ricevimenti genitori. La qualità scende. I rapporti con i singoli studenti pure. Andremo al trionfo dei quiz ed alla sparizione delle interrogazioni. La contropartita, quello che è considerato aumento di stipendio? Sono le 27.000 nette l’ora per i servizi accessori.

11) Fine di ogni programmazione didattica. La scuola è determinata dal consiglio di amministrazione che potrà farla virare su gli interessi di una fabbrichetta vicina che sponsorizza. Naturalmente anche la gestione democratica non esiste più

12) Sperimentazioni e simili decadono dall’inizio dell’anno prossimo per legge

13) La cosa più grave di tutte è la scelta a 12 anni (inizio della seconda media) tra licealizzazione e professionalizzazione. E’ detto che saranno possibili dei passaggi orizzontali. E’ una menzogna. Nessuno, dopo due anni di programmi così divaricati, potrà passare da una parte all’altra (è vero invece che si fornisce giovane manodopera alle fabbrichette del nord, poiché tale manodopera gratuita sarà poi un titolo di merito agli esami finali). Altro che abolizioni dei crediti e prosopopee varie sui giovani avviati al lavoro!

14) Tutti coloro che hanno affrontato tali questioni sanno che una preparazione professionale specialistica NON è vendibile su nessun mercato. Iniziando oggi una data specializzazione essa sarà terminata tra 5 anni. Che valenza avrà allora? Ciò che tutti chiedono non è questa sciocca operazione ma una preparazione più generale che permetta di acquisire le abilità mentali che permettono la tanto lodata flessibilità. Qui si gioca su persone che saranno magari usate qualche anno , ma poi saranno gettate perché non in grado di reinserirsi in un nuovo modo di produzione!

15) Gli esami finali affidati a commissioni interne sono un gravissimo attacco al valore legale del titolo di studio e la molla più potente per scardinare la qualificazione della scuola pubblica: i professori dell’ultimo anno che non volessero lavorare dovrebbero solo garantire la promozione a tutti. Si ottengono due perfidi risultati: tutti promossi con livelli indecenti di preparazione; degli insegnanti completamente nullafacenti.

16) Checché ne dica qualche buontempone gli insegnanti non hanno carriera e non l’avranno! La valutazione del merito era esattamente quanto aveva messo in piedi Berlinguer con l’Istituto della valutazione del lavoro degli insegnanti gestito dal CEDE di Frascati e dalla Biblioteca Pedagogica e Didattica di Firenze (BDP). Qui valgono le stesse obiezioni a Berlinguer: chi valuta chi? 

17) Il tutto è una regalia alle scuole private. Tutto il caos che ne conseguirà ed i vincoli che verranno indotti, riguarderanno le sole scuole pubbliche; le scuole private  non saranno toccate. I diplomifici potranno funzionare a pieno ritmo, infatti, essendo stata abolita l’ammissione agli esami finali, ed essendo possibile che una scuola di salesiani faccia gli esami ai suoi alunni, saranno possibili salti olimpici. In pochissimi anni tutta la borghesia ignorante del nostro Paese si addottorerà passando attraverso questi diplomifici e certe università di campioni del calcio. La moneta di scambio è oggi l’euro.

18) L’impianto è gentiliano e chiunque ha visto i servizi TV se ne sarà accorto. Si dice: “resta l’impianto umanistico letterario dei licei a cui si affianca la formazione professionale”. Quindi si continua a spacciare il liceo scientifico per un liceo umanistico (e se il tutto resta così lo è senza ombra di dubbio). Ma poi si parla del liceo tecnologico. Ma anch’esso non è scientifico. Insomma, ancora oggi, le scienze non hanno dignità. Sono, alla Gentile, mere tecniche che nulla danno all’uomo ed alla sua formazione.

        Chiunque plaude questa follia sta poco bene.  Un bene come questo bistrattato da molti anni da tutti, viene ora destrutturato e reso inutile con Letizia dalla Brichetto Moratti. E qui non valgono neppure richiami ideologici. Dietro questo governo vi è il nulla ideologico. Una riforma di bottega, ottenuta per sottrazione di beni e risorse a tutti noi.

      I miserabili (gli insegnanti) che lavorano dentro questa istituzione, non hanno né la forza, né la volontà di reggere questo impatto distruttore. O se ne fanno carico tutte le categorie o l’intera società perderà ogni residua speranza di crescita morale e civile.

       Riporto di seguito il susseguirsi delle riforme della Brichetto (sono tratte dal sito della CGIL Scuola):

LE RIFORME BRICHETTOBREVE DESCRIZIONE
Proposta BertagnaE’ la copertura del pedagogista che presto sarà messo da parte.
Proposta di revisione della Legge 10 febbraio 2000, n. 30 del 10.01.02Si forniscono generiche indicazioni sui vari tipi di scuola e si abroga la legge 30 di riforma Berlinguer.
Testo ddl delega per la scuola del 1.02.02Il governo si dà 24 mesi di tempo per riformare la scuola.
Testo ddl  Delega per la Scuola del 14.3.03 approvato dal Consiglio dei Ministri Stessa cosa di prima.
Controriforma dei cicliAlla Commissione Cultura si dibatte sulla abrogazione della legge 30 e sul progetto Brichetto.
Parere CNPI sul disegno di legge delegaIl CNPI Stronca i progetti Brichetto
I nuovi programmi della scuola elementare (bozza)Si abbozzano i nuovi programmi della scuola elementare, Uno degli innumerevoli tentativi.
Indicazioni Nazionali per i Piani Personalizzati delle Attività Educative nelle scuole dell’infanzia (Bozza)Altra bozza di quello di cui sopra.
Bozza Decreto “Progetto nazionale di sperimentazione”Si autorizza la sperimentazione nella scuola primaria.
Niente copertura economica per la riformaL’apposita Commissione parlamentare dice che non vi è copertura economica per la sperimentazione.
Lettera del Ministro Moratti sulla sperimentazioneMoratti scrive al CNPI per farsi autorizzare la sperimentazione
Parere del CNPI sulla sperimentazione … che il CNPI non concede.
Circolare Ministeriale sulla SperimentazioneMoratti autorizza la sperimentazione relativa alla scuola dell’infanzia ed alla prima elementare.
Decreto sulla SperimentazioneIl decreto di cui sopra.
Legge Delega al Governo per la riforma della scuolaLa delega al governo per la riforma della scuola  è approvata dal Senato (13 novembre 2002).
I nuovi piani di studio per la scuola mediaI nuovi piani di studio personalizzati per la scuola secondaria di 1° grado.
Stato giuridico degli insegnanti: o.d.g. alla CameraParlamentari della maggioranza chiedono l’impegno del governo a definire lo stato giuridico degli insegnanti.
Formazione a sostegno della sperimentazione nazionale TICSi pretende formare insegnanti per sperimentare le TIC (Technology Innovation Council) o nuove tecnologie.
 
Legge Delega al Governo per la riforma della scuolaLa delega al governo per la riforma della scuola è definitivamente approvata alla Camera (18 febbraio 2003).
Pubblicata in Gazzetta la Legge delega MorattiLa legge delega è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale.
Legge 53/03: pubblicato in Gazzetta Ufficiale il primo decreto attuativoFinalmente vi è una legge. E’ la 53/03 che idealmente sostituisce la abrogata 30/00. La G.U. pubblica il 1° decreto attuativo.
Il testo della bozza clandestina di decreto (16 dicembre 2004) Una prima versione del testo del decreto relativo alla scuola secondaria di secondo grado.
L’ottava bozza (2 maggio 2005)Una ulteriore versione del testo di cui sopra.
La decima bozza (5 maggio 2005)L’ennesima versione del testo di cui sopra.
Decreto Legislativo (27 maggio 2005)La versione provvisoria del testo di cui sopra..
Decreto Legislativo (14 ottobre 2005)Approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del Decreto attuativo del secondo ciclo di istruzione e formazione previsto dalla legge 53/03.
Decreto Legislativo (17 ottobre 2005)Approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del Decreto attuativo dell’articolo 5 della legge 53/03 relativo alla formazione iniziale degli insegnanti.

A quanto detto si possono aggiungere delle considerazioni più puntuali che nascono da una approfondita indagine di Legambiente, dalla quale traggo i passi salienti:

Finora l’azione del Governo si è mossa su due fronti complementari: riforme a costo zero e tagli per la scuola pubblica. Sul primo fronte rientra l’azzeramento delle riforme avviate dall’Ulivo e la proposta di una legge delega che non ha copertura finanziaria, tanto da sollevare il legittimo sospetto che si attueranno solo i decreti che non implicano spese.

Sul secondo fronte, come documentiamo in questo Dossier, si è proceduto con precisione a tagliare sul versante dell’organizzazione del sistema e su quello della qualità dell’offerta formativa della scuola pubblica.

I tagli sull’organizzazione del sistema si sono concentrati sull’organico, sulle sedi e sull’edilizia.

In merito all’organico, … si è intervenuto sul prolungamento dell’orario di lavoro degli insegnanti, sulle regole per le supplenze, sull’accorpamento di classi finali e intermedie, sull’insegnamento dell’inglese, limitato nella scuola elementare al secondo ciclo, sul blocco dell’organico funzionale che, fino ad oggi, era stato la principale risorsa per la realizzazione dell’autonomia scolastica.

La scuola più colpita è la secondaria superiore … Mentre nella scuola media i tagli hanno colpito soprattutto il tempo prolungato …, con evidenti danni per le famiglie, che hanno dovuto sopperire al mancato tempo scuola con attività presso privati.

A tutto ciò va aggiunto il taglio per il personale ATA: 20.000 posti, nel luglio 2001, e il 2% annuo, per i prossimi tre anni, disposto dalla finanziaria 2003.

Ma forse il dato più significativo (ed anche più doloroso) sul piano simbolico e su quello del funzionamento concreto della scuola di tutti i giorni riguarda l’handicap. Aumentano gli studenti portatori di handicap … che frequentano la scuola pubblica e diminuiscono gli insegnanti …, mentre la finanziaria 2003 dispone di rivedere i criteri per la certificazione dell’handicap. Non essendo passato il tentativo di rivedere i criteri per determinare l’organico per il sostegno, si cerca di diminuire il numero di studenti bisognosi “declassando” alcune tipologie.

Altrettanto “precisi” sono i tagli che incidono sulla qualità dell’offerta formativa della scuola pubblica. I tagli colpiscono tutte quelle voci su cui fino ad oggi si era investito per migliorare il successo formativo degli studenti, il diritto sociale all’istruzione e la qualità del sistema: il sostegno all’autonomia scolastica, l’integrazione degli immigrati, la formazione, l’handicap, l’innovazione tecnologica.

… Scompare il finanziamento, su base provinciale, dell’organico aggiuntivo a disposizione delle scuole autonome per le proprie attività educative, mentre fa per la prima volta la sua apparizione il finanziamento del Piano dell’offerta formativa delle scuole paritarie (circa 6 milioni di euro). Viene tagliato tutto ciò che può migliorare la qualità delle scuole pubbliche, viene tagliato tutto ciò che fino ad oggi (handicap, lingua, scuole ospedaliere) era andato incontro alle esigenze delle famiglie ed aveva consentito di cominciare a dare risposte avanzate al problema dell’integrazione degli immigrati (educazione degli adulti), mentre i finanziamenti a disposizione dell’amministrazione centrale sono stati utilizzati per la produzione e la diffusione di opuscoli per “comunicare” il processo di riforma.

Sull’integrazione degli immigrati non si investe, il finanziamento non viene decurtato ma aumentano gli studenti, così il calo per alunno è superiore al 18%.

… i finanziamenti per le nuove tecnologie calano infatti del 30%. Né va meglio alla formazione, altro cavallo di battaglia di ogni processo riformatore … 

… del tutto azzerati i finanziamenti per la scuola ospedaliera, per l’handicap, per l’educazione degli adulti e l’obbligo formativo (in aperta contraddizione con la rilevanza dell’intreccio tra scuola e formazione professionale che si dichiara nella legge delega).

Unica filiera di finanziamento in controtendenza è quella per le scuole paritarie. L’azione del Governo si articola in quattro mosse [che prendono tutte spunto dalla Legge 60/00 del centrosinistra, ndr].

… In sintesi diminuiscono i finanziamenti nella scuola pubblica e aumentano quelli nella scuola privata paritaria. Questo, nella scuola pubblica ha determinato quattro fenomeni: diminuiscono le classi, diminuiscono gli insegnanti, diminuisce il numero e la sicurezza delle sedi scolastiche, mentre aumentano gli studenti.

… Aumenta il numero di studenti per classe, aumenta il carico di lavoro per gli insegnanti, la cui attività si riduce alla lezione frontale, aumenta la discontinuità didattica, peggiora il diritto allo studio e la qualità dell’apprendimento, peggiora il servizio per i genitori, le sedi si allontanano dalla residenza, le persone in difficoltà non hanno la possibilità di trovare l’accoglienza di cui avrebbero bisogno. La vittima predestinata di queste azioni è la qualità della scuola pubblica, la qualità dell’apprendimento e la possibilità stessa di far funzionare l’autonomia scolastica.

L’attacco all’autonomia, riconosciuta dalla Costituzione, è particolarmente grave. Con l’autonomia alla scuola è stata affidata la responsabilità di decidere su molte questioni importanti e fondamentali, a cominciare dal curricolo di scuola e dal POF. Ogni istituto ha la possibilità di darsi un modello organizzativo, di individuare e progettare le attività formative più idonee alle esigenze dei propri alunni. Tutto questo ha bisogno di tempi e spazi riconosciuti, di risorse economiche per consentire ai docenti di organizzare la riflessione, prendere decisioni condivise, entrare in relazione con le altre scuole del territorio e con i soggetti della comunità locale. Oggi le caratteristiche innovative acquisite rischiano di essere cancellate, la “voglia di fare” degli insegnanti annullata, la scuola di qualità che faticosamente stava emergendo può affogare in un rituale stanco, ripetitivo, “deresponsabilizzato”[tutto ciò mostra l’irresponsabilità del governo di centrosinistra che ha costruito un’autonomia che la destra si può gestire al fine di distruggere la scuola medesima, ndr].

Portando tutte le cattedre a 18 ore settimanali spariscono quelle ore a disposizione per attività di sostegno o recupero, per le attività alternative alla religione cattolica, per l’accoglienza. Si allunga l’orario e si impediscono le attività di ricerca e sperimentazione, si eliminano gli spazi di progettazione collegiale.

Meno insegnanti di sostegno vogliono dire rallentare o impedire l’integrazione e il recupero sociale degli “alunni diversamente abili”.

Il taglio di un numero così consistente di collaboratori scolastici (36.000 in quattro anni) non è insignificante per il destino della scuola. Questo comporta dover sacrificare le attività extracurricolari, annullare attività di recupero, sostegno, approfondimento o arricchimento dell’offerta formativa. Sarà garantito solo l’ordinario, la lezione “nel solo mattino”, regalando il pomeriggio dei ragazzi ad un variegato mondo della formazione extrascolastica (a pagamento) o alla solitudine domestica e televisiva.

Il governo della destra ha cominciato ad abbozzare una scuola molto vicina alle richieste di una parte del mondo imprenditoriale: una scuola con meno ore di insegnamento obbligatorio per tutti, con meno insegnanti, che costi meno. L’indicazione, infatti, di una parte del mondo confindustriale era chiara: prima di parlare di livello europeo degli stipendi occorre adeguarsi al livello europeo di rapporto alunni / insegnanti. … C’è un disegno strategico che mira a trasformare la natura del sistema scolastico italiano. Si punta a far funzionare sempre peggio la scuola pubblica così che il Paese si convinca che la scuola pubblica non va, per aprire lo spazio alla privatizzazione promossa e voluta dal WTO tramite i GATS, gli accordi internazionali che rispondono alle pressioni di alcune multinazionali per trasformare una parte dell’istruzione (e gli altri servizi) in una merce appetibile per il mercato (percorso che si concluderà a Cancun in Messico il prossimo settembre). In una parola si smonta la scuola pubblica per aprire spazi alla privatizzazione. Ma attenzione è la privatizzazione di “seconda generazione” quella che interessa il mercato, non è la scuola di tendenza, non è lo spazio per le scuole private cattoliche.

Per raggiungere questo obiettivo, nei Paesi del primo mondo, c’è bisogno che si consumino alcuni passaggi. Bisogna che si delineino i settori dove l’istruzione possa essere più facilmente standardizzabile in modo che la tecnologia possa impossessarsene per produrre pacchetti vendibili (è il caso delle lingue straniere, dell’informatica, della valutazione, ecc.). Bisogna che la scuola pubblica si ritiri o si dimostri del tutto incapace a coprire questi settori dell’istruzione. Bisogna che il lavoro dell’insegnante venga trasformato in un’attività trasmissiva, sempre più assimilabile alla funzione di una macchina, piuttosto che in un conduttore di contesti di apprendimento e ricerca mai standardizzabili.

A questo mira la metodica opera di “smontaggio” della scuola pubblica avviata dal Governo. Quello che si vuole smontare è la scuola pubblica come luogo collettivo in cui si apprende insieme agli altri e trasformare il servizio scolastico in un servizio a domanda individuale.

Anche se chi ha condiviso le riforme Berlinguer, come Legambiente, non lo dice o non sa o non vuole riconoscerlo, se si legge la legge 30/00 a confronto con la 53/00 ci si rende conto che l’impianto della Brichetto, a parte alcune cose che dirò, è berlingueriano. Tutto si ispira all’autonomia, all’efficienza, all’efficacia, alla managerialità, ai risparmi, alle valutazioni docenti, all’esternalizzazione dei servizi [ci si può rendere materialmente conto della cosa andando a leggersi il testo della  riforma Brichetto nel quale ho evidenziato in rosso le parti quasi letteralmente prese da Berlinguer]. Questo è tanto più vero quanto solo si pensi che manca completamente alla destra la cultura anche solo per fare danni.

            Da Retescuole vengono poi delle schede informative di grande utilità. Vediamone gli aspetti salienti.

Orari settimanali del tutor e degli insegnanti di laboratorio nella scuola Primaria.

La proposta di organizzazione della scuola Primaria è contenuta negli allegati al DM 100 del 18 settembre del 2002 che avvia la sperimentazione, in particolare nelle Indicazioni nazionali per i Piani di Studio Personalizzati nella scuola Primaria.

Dalle ipotesi di modelli organizzativi della scuola primaria, allegati alle Indicazioni, sono stati tratti gli specchietti orari che ridisegnano completamente l’assetto della scuola elementare.

Figure professionali

• Ritorna il maestro/a unico/a che insegnerà tutte le materie

• Per la prima volta si distinguono in modo netto figure docenti diverse. Finora le figure professionali nuove introdotte dalla riforma Berlinguer, svolgevano ruoli diversi che non riguardavano la docenza, ma attività accessorie, di coordinamento, ecc: (figure obiettivo ad esempio)

• Ordini del giorno già presentate durante la discussione della riforma Moratti prevedono riconoscimenti economici diversi tra docenti con ruoli diversi. Il coordinatore tutor verrà pagato di più?

Ruoli

Ogni insegnate, sia essa/o coordinatore tutor, docente di laboratorio, specialista di lingua straniera o di religione cattolica non lavora più in compresenza con altre/i docenti.

Coordinatore tutor

• Ritorna il maestro/a unico/a che insegnerà tutte le materie. Negli ultimi anni le insegnanti elementari hanno lavorato sull’approfondimento di un ambito disciplinare ( insegnanti che si occupavano dell’ambito matematico e scientifico e insegnanti che hanno approfondito l’ambito linguistico ed espressivo). Ciò aveva permesso di acquisire più sicurezza disciplinare e di affinare le competenze didattiche.

• Questo insegnante assume un ruolo centrale e gerarchico rispetto alle colleghe/i che lavorano per poche ore nella “sua” classe.

Docente di laboratorio

• Questi docenti lavoreranno con un numero considerevole di alunni/e per poche ore la settimana.

• Dagli specchietti orari presenti nel modelli organizzativi degli allegati al Decreto, risulta che questo insegnante lavorerebbe soprattutto di pomeriggio, mai in compresenza, come del resto io tutor, lavorando in modo laboratoriale con tutto il gruppo classe, che nelle città come Milano significa ad esempio lavorare con 25/26 alunni/e. E’ evidente che il numero non permette alcun lavoro laboratoriale serio.

• C’è il rischio che questo insegnante, che è una figura marginale, svolga un lavoro non coordinato con l’attività svolta dal coordinatore tutor.

Cosa sono i laboratori

• C’è una forte accentuazione all’utilizzo del “laboratorio” inteso non tanto come luogo fisico, ma come modalità di lavoro. Questo è l’unico aspetto positivo della riforma. Per essere realmente praticabile ha però bisogno

— di compresenze per permettere di lavorare con un piccolo gruppo di alunni/e (max 12)

— di investimenti in tecnologia (vedi laboratori di informatica) e in materiali di vario genere (strumentazioni musicali, materiali di tipo scientifico, espressivo, …).

• Questa netta distinzione tra didattica del docente tutor e didattica di laboratorio porta con sé il rischio di una scuola di tipo tradizionale: la maestra parla, gli alunni ascoltano ed eseguono il mattino, il pomeriggio c’è pratica laboratoriale.

Ipotesi organizzative

• Nell’ipotesi A1 (organizzazione a 27 ore antimeridiane comprensive del sabato) è evidente che il coordinatore tutor non è il docente prevalente, ma è il docente unico; si dice infatti che nei primi anni deve svolgere tra le 18 e le 20 ore di lezione nella classe. L’insegnante di laboratorio svolge in questa classe solo due ore di lavoro la settimana.

• Nell’ipotesi D (organizzazione a 40 ore con 2 ore di mensa giornaliere)

— spariscono le due insegnanti sulla classe; un’insegnante coordinatore turor è presente a scuola tutte le mattine e tutti i pomeriggi con ore “buche” tutti i giorni: da due a quattro ore buche. E’ evidente il pesante carico di lavoro.

— L’insegnante di laboratorio (insegnante L) svolge in questa classe quattro ore. Il restante orario in quante classi verrà suddiviso.

— non c’è più nemmeno un’ora di compresenza (nemmeno con LS e RC),

— la mensa non è coperta dalle insegnanti della classe.

• Cosa accade quando è assente l’insegnante; visto che non si chiamano o non si trovano supplenti quando manca qualcuno, in assenza anche delle compresenze tra insegnante di classe e specialista, che si fa con il problema delle sostituzioni? Verranno divise le classi? I bambini saranno distribuiti tra i tutor presenti o tra gli insegnanti di laboratorio? Richiederanno l’intervento degli insegnanti di sostegno, ultimi specialisti rimasti in compresenza, per coprire in caso di “emergenza” le classi come accade già in alcune situazioni?

La questione della delega

La legge delega è un meccanismo attraverso il quale il Parlamento, eccezionalmente, delega al Governo il compito di completare una legge. Pertanto i decreti e i regolamenti che daranno sostanza alla legge stessa, verranno emanati entro due anni senza interferenze parlamentari e dibattito alcuno. La possibilità di controllare l’impianto complessivo della riforma verrà inoltre diminuita dalla diluizione nel tempo dell’emanazione dei decreti stessi, essendo più difficile mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica e la capacità di opposizione per un periodo di tempo così protratto. Il fatto però che la legge delega, ad esclusione dell’abbassamento dell’obbligo, non è immediatamente operativa senza decreti e regolamenti attuativi, non chiude la vicenda “riforma” e dà la possibilità a chi vi si oppone di proseguire la mobilitazione nella prospettiva di ostacolarne o dilatarne l’applicazione.

La questione dell’obbligo scolastico

Con la riforma Brichetto Moratti cade il concetto di obbligo scolastico. Attualmente la legge 20 gennaio 1999, n.9 prevedeva l’obbligo scolastico fino ai 15 anni (da estendersi fino ai 16 nel momento dell’approvazione definitiva della precedente riforma). Tale legge risulta abrogata, pertanto l’unico riferimento è l’art. 34 della Costituzione che afferma che “l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.” La prima cosa grave è che non si parla più di obbligo ma di diritto-dovere, relativizzando pertanto l’impegno dello Stato ad assicurare la tutela di tale diritto. La seconda è che si afferma che “è assicurato a tutti il diritto all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni”. Quindi tale “obbligo” si considera assolto anche attraverso la formazione (questo dai 14 anni in poi) che non prevede necessariamente la frequenza a una scuola che garantisca una base culturale sempre più ampia per un sempre maggior numero di persone, ma un’alternanza scuola-lavoro o anche l’accertamento da parte della scuola di percorsi privati. (Si noti che i livelli essenziali di prestazione della formazione non sono ancora specificati ma verranno definiti per decreto). Quindi il diritto all’istruzione diminuisce di un anno, contro ogni ragionevole tendenza di elevare i livelli culturali delle persone in qualsiasi parte del mondo.

La netta separazione dell’istruzione superiore (vedi anche oltre)

Da una parte il sistema dei licei, dall’altro quello dell’istruzione professionale, nel quale la formazione avviene in alternanza scuola-lavoro. Si tratta di due sistemi radicalmente differenti senza alcuna possibilità reale, benché formalmente concessa, di passare dal primo al secondo. (Ovviamente il problema è il passaggio dalla formazione professionale ai licei, il viceversa è talvolta auspicato e favorito dalla stessa scuola. Anche oggi vi è la possibilità teorica di passare dai professionali direttamente ai licei, ma sono ben pochi quelli che la percorrono).

La scelta, sicuramente precoce, tra i due sistemi avviene “ufficialmente” a 14 anni, ma in realtà molto prima perché tutta la riforma è percorsa da questa tendenza ad orientare il prima possibile le scelte dei bambini, separando fin da piccoli i “predisposti allo studio” dai “predisposti al lavoro” e, fatto ancor più grave, facendo passare questa separazione come un assecondare le naturali inclinazioni, attitudini e doti degli individui. In realtà ciò che decide il futuro scolastico e non solo, è, come ampiamente documentato, per la maggior parte dei casi la condizione sociale e culturale di provenienza. L’attenzione alla persona risulta una dichiarazione di principio priva di corrispondenza alla realtà dei fatti se non si rimuovono le cause del divario, ma si tende al contrario ad approfondirle.

Tra l’altro non sono specificati i criteri che stanno alla base della possibilità di bocciare, lasciando però intendere nelle indicazioni che il Governo si è impegnato a recepire, che si tenderà a rendere la bocciatura un automatismo, e non una decisione che scaturisce da una valutazione globale sulle singole situazioni.

Resta inoltre il problema del passaggio alle Regioni dell’istruzione professionale (e di gran parte di quella tecnica attuale)

I contenuti

I contenuti verranno definiti in parte su base nazionale e in parte su base regionale. Non è specificata l’entità della quota riservata alle regioni. Inoltre l’esasperazione della dimensione nazionale (ed “europea”) ci sembra culturalmente incapace di reggere il confronto con una realtà sempre più complessa e ci sembra negare il riconoscimento della ricchezza portata nella scuola da un numero sempre crescente di bambini di differenti provenienze e culture.

Si fa riferimento da una parte alla necessità di impartire una formazione spirituale e morale e dall’altra la formazione degli insegnanti si pone finalità preminenti di approfondimento disciplinare, mentre è evidente nell’esperienza di ogni docente quanta importanza abbia in misura sempre crescente l’aspetto didattico.

        Tornando alla scansione in cicli, occorre osservare che essi in sé dicono comunque  poco. Non è una scansione o un’altra che fanno la scuola. Si tratterà di vedere cosa c’è dentro. Dal punto di vista del denaro che si vuole investire è inutile far finta di aspettare chissà cosa: è detto chiaramente nella finanziaria che non accadrà nulla se non il disastro al quale si vuole dare una qualche dignità espositiva.

        Diciamoci una verità che non ho udito da nessun pensatore di sinistra: Brichetto Moratti ignora completamente i problemi della scuola. La madame viaggia su binari sospesi in aria e neppure ha la percezione di scuola. Il suo riferimento è San Patrignano e, probabilmente, con macelleria annessa. Poiché le nostre istituzioni (MIUR, MAE, ecc….) sono piene di yesman e yeswoman, la Brichetto Moratti farfuglia qualcosa e trova sempre qualcuno che glielo mette in bell’ordine. Vi è poi da saccheggiare una montagna di leggi e decreti prodotti dal centrosinistra e non serve quindi fare grossi voli. Inoltre sua signoria dispone dell’incondizionato appoggio del clero avido e reazionario già indirizzato sulla strada del furto allo Stato (in violazione costituzionale) dal centrosinistra.

        Le tare che discendono dall’autonomia  di queste dichiarazioni di intenti, arrivate in porto definitivamente il 14 ottobre 2005 con l’approvazione del Consiglio dei Ministri, sono 

– i riferimenti ai crediti formativi nell’alternanza scuola-lavoro

– l’affermazione di una congrua permanenza dei docenti nella sede di titolarità

– la competenza regionale in materia di formazione ed istruzione professionale

– l’apprendistato

– l’articolazione in indirizzi dei diversi fabbisogni formativi

– l’alfabetizzazione nelle nuove tecnologie e nell’informatica.

Più in dettaglio:

– Intanto l’anticipo dell’inizio della scuola elementare.  Già il centrosinistra aveva parlato nel suo primo progetto di prima elementare da doversi iniziare a 5 anni. Anche qui la Brichetto ha precedenti illustri.

– Quindi la nefandezza peggiore che è quella della separazione ai 13÷14 anni degli indirizzi: da una parte i licei che in teoria sono 8 ma nella pratica possono diventare una pletora (si rilegga la possibilità per certi licei di moltiplicarsi). Si tratta del ritorno all’avviamento professionale. Il Presidente di Confindustria, D’Amato, che non solo non sa cosa è scuola, ma neppure cosa è flessibilità, ha avuto da esultare. Egli già vedeva forza lavoro gratuita in giro per le fabbrichette ad arricchire gratis  i padroncini fregandosene dell’aspetto sociale profondo della vicenda. Anche supponendo che questo sistema apra più facilmente la strada del lavoro ai giovani (io non lo credo nel modo più assoluto), neppure ci si degna di studiarsi esperienze di altri Paesi a noi vicini, come ad esempio la Germania. Intanto osservo che sia Germania che Francia stavano muovendosi modificando le loro scuole sul modello italiano pre Berlinguer. Quindi i tedeschi hanno provato a fare scuole direttamente finalizzate allo sbocco professionale (soprattutto nei land del Sud). Da quel parti (Baviera) si producono occhiali. A lato si sono realizzate scuole che preparavano per quello. I poveri ragazzi cavie, resistevano due anni in quel posto di lavoro e poi ne erano espulsi perché cambiavano i modi di produzione. Non vi erano abilità di riciclaggio che sono alla base della flessibilità. Per questo le scuole migliori del mondo erano quelle del tipo licei alla Gentile, proprio perché non ti facevano esperto in niente ma erano una palestra eccellente per mettere in moto il cervello in tutte le condizioni e circostanze. Non capire questo non è costoso per chi ha il potere: “morto” un ragazzo ne entra un altro. Ma è veramente mortifero per generazioni intere di giovani. Su questo occorrerebbe una vera rivolta sociale per l’interesse stesso della comunità fosse anche della produzione e liberistica. Sarà interessante vedere come si valuteranno le esperienze in stage o in semplici lavori da facchino in fabbrichette.

– Vi è poi l’insipida insistenza sulle alfabetizzazioni informatiche. Qui davvero c’è da dire che l’Italia produce una grande quantità di zerbini, tra questi quelli di marca Brichetto Moratti. Questa sciocchezza non verrebbe in mente a nessuno. Nessuno 80 anni fa avrebbe (ed ha) mai fatto corsi scolastici per usare la macchina da scrivere. Oggi tutti mitizzano il nulla. L’uso del computer è cosa da forzaitalioti, da leghisti, da fascisti. Loro possono innamorarsi delle macchine e di notte perfino giacere con esse. Ma quella macchina non fornisce soddisfazioni se non agli scemi che passano il tempo con MP3 o Nasdaq o su ogni altro sito distruggicervelli. Vi è certamente una necessità di avere dei tecnici informatici ben preparati. Ma questi si “fabbricano” all’interno o di licei tecnologici o di scuole professionali con corsi specifici, con insegnanti specifici (ed anche pagati perché altrimenti vanno a fare assistenze casa per casa guadagnando per 10). In ogni caso per questa vicenda non si caverà una sola mosca morta dal buco del ragno se non si fornisce un computer per ogni studente con tutti i softwhare necessari. Quindi soldi che, a priori, non vi sono e, quindi: di cosa parliamo?

– Tentando di toccare le altre due “i” che stanno a cuore alla destra, sull’inglese c’è solo da dire che occorre piantarla con la letteratura e fare lingua possibilmente con insegnanti di madre lingua e con gite scolastiche che si dirigano in Gran Bretagna o Irlanda. Inoltre non si incrementa lo studio delle lingue dimezzando le ore del loro insegnamento. L’altra “i” , quella che dovrebbe significare impresa dovrebbe diventare la p di pubblicità. Uno dei licei si occupa di impresa e tanto basta. Il resto si studia ad Economia all”Università. Ma anche in questo caso non si è garantiti sul posto di lavoro, sempre rubato da avvocati. 

– I riferimenti alla morale, allo spirituale, al religioso che sono nella legge riportano al Ministero Fascista dell’Educazione. Non a caso i governi del dopo Liberazione sostituirono Educazione con Istruzione. E non è certo compito dell’istruzione navigare sul morale, sullo spirituale, sul religioso. Senza dubbio sull’educazione civica, e sul modo di comportarsi civilmente, ma qui si tratta di ben altro.

– L’altra vicenda sulla quale si è data enfasi nei commenti è quella relativa all’obbligo ora sostituito con diritto-dovere. E’ certamente vero ma in un passo si sottolinea la necessità di questo obbligo (si usa proprio questa parola) fino ai 18 anni. 

– La competenza regionale sulla scuola è stata fissata dal centrosinistra in due momenti. Quando si assegna alla scuola dell’autonomia un 15% dei tempi scuola da gestire dalla scuola medesima e quando si è riformato il Titolo V della Costituzione in senso federalista.

– A me preoccupa l’affermazione dei docenti che garantiscono la continuità didattica per un congruo periodo di tempo. Sarà che il congruo è un aggettivo da azzeccagarbugli italiani ma quella parola spaventa. Che vuol dire in pratica? Si sottintende che si cercherà di mantenere al massimo la continuità didattica come la conosciamo oggi, o si intende che, a seguito di sfasciamento classi e corsi si perderà facilmente posto e ci si dovrà adattare a continui trasferimenti? Io credo che il tutto vada nel senso della seconda eventualità.

– Adesso dico che, a parte l’accento sul morale e religioso e alla nefandezza della ricreazione dell’avviamento, come insegnante sarei preoccupato del fatto che si mantiene la scuola dell’autonomia, con la dirigenza, col lo spoyl sistem, con i salari variabili, con l’esternalizzazione dei servizi, i finanziamenti alle scuole private … Di tutti questi frutti avvelenati, eredità del centrosinistra, non veniamo liberati. Ed i sindacati dei lavoratori della scuola non si occupano di questo.

            Riporto ora una immagine ed alcune note che illustrano la riforma Brichetto (legge 53/03), relativa alle scuole superiori, come approvata dal Consiglio dei Ministri del 14 ottobre 2005 (tratto da la Repubblica del 15 ottobre 2005).

La Brichetto presenta la sua riforma del secondo ciclo nel modo seguente:

“Filosofia delle scelte (sic! n.d.r.)

Tra i punti maggiormente qualificanti si segnalano:

– Investimento sull’istruzione e formazione dei giovani
– Articolazione unitaria del sistema
– Potenziamento della libertà di scelta degli studenti e delle famiglie
– Flessibilità strutturale e personalizzazione educativa, metodologica e didattica dei percorsi
– Valorizzazione della professionalità docente
– Potenziamento della competenza nella lingua inglese ed in una seconda lingua europea
– Integrazione tra teoria e pratica
– Sviluppo delle conoscenze relative all’uso delle nuove tecnologie
– Valutazione nazionale degli apprendimenti e valutazione di sistema
– Razionalizzazione dei percorsi sperimentali in atto nella scuola secondaria di secondo grado

Caratteristiche del sistema liceale

-I licei hanno una durata di 5 anni, si articolano in 2 + 2 + 1, si concludono con l’esame di Stato.
– L’ammissione al 5° anno dà accesso all’istruzione e formazione tecnica superiore.
– È specificato l’asse culturale proprio di ciascun liceo (artistico, classico, economico, linguistico, musicale e coreutico, scientifico, tecnologico, delle scienze umane).
– La determinazione dei livelli di flessibilità è rimessa all’autonomia delle scuole, alla scelta degli studenti e delle famiglie ed al raccordo con il territorio.
– È obbligatoria da parte dello studente la frequenza di ¾ dell’orario annuale ai fini della validità dell’anno scolastico.
– L’esame di Stato si attua con prove sia nazionali sia di istituto, coerenti con il Profilo educativo culturale e professionale e agli obiettivi specifici di apprendimento del corso.
 

Caratteristiche del sistema dell’Istruzione e formazione professionale

Vengono indicati i livelli essenziali di prestazioni; quelli maggiormente qualificanti riguardano che riguardano:

– l’offerta formativa

– l’orario minimo annuale e l’articolazione dei percorsi formativi

– gli obiettivi generali e il profilo educativo, culturale e professionale comune al sistema dei licei;

– gli standard minimi dei percorsi formativi

– la prosecuzione degli studi e della formazione a livello terziario

– i requisiti dei docenti

– il certificato di qualifica professionale e il diploma professionale

Processo di attuazione

L’attivazione delle prime classi dei percorsi liceali e del primo anno dei percorsi di istruzione e formazione professionale avverrà dall’anno scolastico e formativo 2007-2008.

– Circa i percorsi liceali, per la definizione di alcuni aspetti specifici, è necessario procedere mediante provvedimenti del Ministro dell’Istruzione, sentita la Conferenza Unificata Stato-Regioni.

– Circa i percorsi dell’Istruzione e Formazione Professionale ciascuna Regione adotterà una specifica disciplina nel rispetto dei livelli essenziali e previa definizione di taluni aspetti con accordi in Conferenza Unificata.

Come previsto dalla legge di delegazione, sul decreto è stato acquisito il parere della Conferenza unificata e delle Commissioni parlamentari;

Fonte: MIUR”

Senza spendermi in ulteriori analisi critiche, è del tutto evidente quanto siano bugiarde le dichiarazioni della Brichetto (‘alla Berlusconi’). Si è creata una istruzione separata dalla formazione (che in modo farisaico viene chiamata integrazione tra teoria e pratica) e la si è furbescamente chiamata unitaria. Si sono realizzate le peggiori forme di apprendistato non pagato che risulterà come formazione. Si è andati sulla peggiore strada chiamata della scelta delle famiglie che, come ormai sappiamo, vuol dire che le famiglie indirizzeranno i loro figli alla scuola privata e cioè agli affari, esenti da ICI, della Chiesa. Si blatera sulla preparazione ad hoc degli insegnanti come si fa da sempre senza mai fare assolutamente nulla (soprattutto poi sul fronte dei salari che restano i più bassi in Europa). Sull’insegnamento delle lingue stendiamo un velo pietoso perché, a partire dalle elementari si sono dimezzate le ore di tale insegnamento (ed anche sull’informatica si mente spudoratamente: quando si parla infatti del numero dei computer che è cresciuto ciò avviene per ragioni di non scarico dei vecchi computer giacenti anche se non utilizzati nei magazzini. Per cui nelle scuole esistono computer comprati 15 anni fa che dovrebbero coesistere con quelli comprati 5 anni fa, con i softwhare che girano negli uni ma non negli altri, con chi dovrebbe spiegare qualcosa impossibilitato a farlo dalla completa disomogeneità delle aule di informatica). Infine, la valutazione della scuola e del sistema fa parte di quella carne da cannone introdotta da Berlinguer per far felici i pedagogisti e trasformare la scuola in un supermercato.

            Più in dettaglio, si ha a che fare, come già ripetuto, con due percorsi paralleli (serie A e serie B), di “pari dignità” con competenze di base comuni: licei e istruzione e formazione professionale; 8 licei di cui tre articolati in diversi indirizzi; possibilità di stage e tirocini per tutti gli studenti delle superiori, indipendentemente dal percorso scelto; “passerelle” (il termine era stato introdotto dai cicli di Berlinguer) per chi cambia idea  e vuol passare dall’uno all’altro sistema; personalizzazione dei piani di studio; introduzione della figura del tutor. In dettaglio:

– Il secondo ciclo di istruzione è costituito dai licei e dall’istruzione e formazione professionale. Hanno pari dignità e sono dotati di autonomia didattica, organizzativa, finanziaria e di ricerca e sviluppo. Rispondono all’esigenza di garantire 12 anni di istruzione o di istruzione e formazione professionale fino al compimento del 18mo anno di età.

–  Gli studenti di entrambi i percorsi avranno la possibilità di effettuare stage e tirocini in modo da confrontarsi con il mondo del lavoro. Non solo. Se strada facendo si accorgeranno di aver fatto una scelta sbagliata potranno rimediare: è “assicurata e assistita” (dagli insegnanti), infatti, la possibilità di cambiare percorso tra i licei, all’interno dei licei e anche passando dai licei all’istruzione e formazione professionale e viceversa. Si potrà fare grazie a un sistema di crediti e certificazioni per qualsiasi segmento del secondo ciclo frequentato con esito positivo. Anche gli studenti del percorso di formazione professionale (quadriennale) potranno accedere all’università previa frequenza di un corso annuale.

– Cinque (classico, linguistico, musicale e coreutico, scientifico) sono senza specializzazioni e tre con indirizzi specialistici: artistico (arti figurative; architettura, design, ambiente; audiovisivo, multimedia, scenografia), economico (economico-aziendale; economico-istituzionale), tecnologico (meccanico, elettrico ed elettronico, informatico, grafico e della comunicazione, chimico e biochimico, sistema moda, agrario, costruzioni e territorio, trasporti). I licei durano 5 anni e sono articolati in un sistema 2+2+1 con un esame di Stato conclusivo il cui superamento è necessario per accedere all’università. È prevista una valutazione, periodica e annuale, che riguarderà profitto e condotta. Ai fini della validità dell’anno è richiesta la frequenza di almeno tre quarti dell’orario annuale personalizzato complessivo. Quanto all’orario sono previsti insegnamenti obbligatori, opzionali obbligatori e opzionali facoltativi. È prevista la figura di insegnante tutor, la possibilità di stipulare contratti ad hoc con esperti e la permanenza dei docenti nella sede di titolarità almeno per il tempo corrispondente a un periodo didattico. Altra cosa di una gravità assoluta è che i Dirigenti Scolastici potranno scegliersi liberamente gli insegnanti, fuori da graduatorie, purché abilitati all’insegnamento. I percorsi liceali sono attivati gradualmente dall’anno scolastico 2006-2007 (l’accordo con le Regioni era 2007-2008).

– Dall’anno scolastico 2006-2007 le competenze relative a questo tipo di percorso sono gradualmente trasferite alle Regioni. I ragazzi potranno scegliere tra percorsi triennali, che si concludono con il conseguimento di una qualifica professionale (saranno individuati specifici profili professionali sulla base dei fabbisogni del territorio), e percorsi quadriennali, che consentono di ottenere un diploma professionale. È previsto un orario complessivo annuale obbligatorio dei percorsi formativi di almeno 990 ore annue, di cui tre quarti a frequenza obbligatoria, destinando almeno il 25% all’apprendimento in contesti di lavoro. Le Regioni assicureranno, infine, che le istituzioni formative abbiano alcuni requisiti: rispetto dei contratti di lavoro del personale dipendente, accettazione di controlli pubblici, completezza dell’offerta formativa, disponibilità di laboratori, capacità di progettazione e realizzazione di stage e tirocini.

– In contemporanea si è appreso che una parte dell’orario di lezione alla scuola elementare non è più obbligatoria, ma facoltativa. Le ore obbligatorie sono 27. A queste possono aggiungersi altre 3 ore settimanali, se le famiglie scelgono di farle frequentare ai propri figli. E ciò vale sia per il tempo normale (senza rientri pomeridiani) sia per il tempo pieno (con i rientri pomeridiani).
Prima della riforma, invece, le ore di lezione erano tutte obbligatorie: 30 ore settimanali nel tempo normale e 35 ore nel tempo pieno. Ciò vuol dire che una parte molto consistente dell’organico sopravviverà solo se le famiglie degli alunni opteranno per le attività facoltative. In caso contrario le relative cattedre verranno cancellate. E con esse anche i posti di lavoro.

 Il governo ha dato il via libera a questi provvedimenti (ultima parte della legge 53/03) rimangiandosi l’accordo con le Regioni di due settimane fa per un percorso di attuazione realizzato insieme e che procrastinava l’applicazione al 2007 (ma poi ci ha ripensato ulteriormente). E, come al solito, le cose sono assolutamente poco chiare. Primo: a cosa serviranno una parte dei diplomi? Oggi gli studenti e le famiglia sanno che a un diploma corrisponde una professione, nel decreto tutto è molto ambiguo fatto salvo il liceo classico. Secondo: le iscrizioni si aprono a gennaio del 2006 (sembra ora che saranno a gennaio 2007), chi si iscrive a ragioneria farà il liceo economico? Il decreto non lo dice. Terzo: non si parla di risorse finanziarie, chi pagherà la riforma? Quarto: nessuna chiarezza su programmi didattici e orari, sulle competenze statali e regionali in materia. Ultimo problema: la modifica del titolo V della Costituzione affida alle Regioni le competenze sull’organizzazione scolastica, il decreto sorvola sull’argomento.

Infine vi è il decreto sulla formazione iniziale dei docenti. Con esso si cancellano le SSIS di Berlinguer. Il nuovo decreto prevede: dopo la laurea triennale e al termine di biennio “specialistico” l’aspirante docente fa domanda di frequenza ai “Centri di ateneo”, a numero chiuso, dove, dopo due anni potrà ottenere l’abilitazione all’insegnamento. Chi passa la selezione viene inserito in un albo regionale gestito dall’Ufficio scolastico regionale che avrà il compito di segnalare alle scuole che fanno richiesta gli abilitati disponibili per ogni materia d’insegnamento. L’istituto sceglie il candidato e lo assume con un contratto di formazione-lavoro della durata di un anno. Al termine nuova valutazione e conferma dell’abilitazione alla professione o la bocciatura. 

Peggio che andare di notte e, nel frattempo e per offendere le migliaia di precari storici, si continuano ad immettere in ruolo i professori di religione al di fuori di ogni graduatoria.

BERLINGUER E DE MAURO OGGI

             Berlinguer, dopo la sua triste esperienza alla ex Pubblica Istruzione, è passato a fare il giudice costituzionale. E’ d’interesse leggere cosa pensa dopo le sue riforme.       

            In un articolo su l’Unità del 20 settembre 2004 (Un’altra strada), che ne seguiva un altro del 6 agosto 2004,  invita a leggere il libro di De Mauro, La cultura degli italiani (Laterza 2004), perché afferma di lasciar perdere le recriminazioni sul  passato, essendo molto più utile guardare al futuro. E qual è questo futuro  ? Per la prima volta Berlinguer lo dice esplicitamente, il futuro si chiama Europa, si chiama Lisbona 2000“. Ciò vuol dire che Berlinguer si era mosso sulle indicazioni del Consiglio d’Europa che erano poi quelle della Tavola Rotonda degli Industriali Europei (ERT) mutuate dagli industriali USA del diamo pane e circo ai disgraziati per accrescere i nostri profitti e rendere la scuola merce secondo i desiderata del WTO. Di ciò avevo discusso in breve nella premessa. Quindi Berlinguer non smentisce il suo frenetico neoliberismo che, anzi, riafferma con  forza in tutto l’articolo dandoci anche coordinate imprevedibili ai non addetti ai lavori. Al solito le parole roboanti sugli obiettivi: “gli obiettivi sono intanto tre: migliorare la qualità, agevolare l’accesso a tutti, aprirsi al mondo“, alle quali con semplicità si può rispondere: Berlinguer avrebbe migliorato la qualità ? Berlinguer avrebbe agevolato l’accesso ? Berlinguer si sarebbe aperto al mondo ?  Naturalmente Berlinguer mente. L’astioso Berlinguer ci dice che abbiamo sfide culturali importanti e che dobbiamo far fronte ad esse con i quiz ed i  concorsoni ? Il riformista che ha distrutto la scuola agli ordini di chi l’ha sempre odiata, per quella cosa che si chiama vorrei ma non posso, D’Alema ci dice che occorre scolarizzare più persone ed elevare l’obbligo scolastico. Nel far questo se la prende debolmente con la destra che, come tutti sanno è sempre stata un faro culturale per il Paese, ma con  “gli illuminati del pensiero nostalgico nostrano di sinistra che continuano ad esortare tanti giovani a «fare i falegnami, che la cultura non è per loro…»“. Io sarei tra quelli.  Ma continua il nostro:

“C’è un rischio costante nell’allargamento a tutti dei benefici dell’istruzione ed è l’abbassamento della qualità e la mortificazione delle eccellenze. Ma non è un rischio ineluttabile. Guai a soggiacere e rassegnarsi di fronte all’apparentemente automatica antitesi qualità-equità o qualità-grandi numeri. Guai ad accettarla fatalisticamente perché l’antitesi si può spezzare. Anche in Europa c’è chi ci sta provando (in questi giorni Treellle ci ha offerto un confronto con l’eccellente sistema della Finlandia). L’importante è porsi correttamente l’obiettivo di coniugare insieme qualità ed equità, e sconfiggere i lamenti nostalgici di tanti nostri maitres à penser“.

Interessantissimo scoprire che Berlinguer sa delle cose. Ma soprattutto della sua sinergia con De Mauro e con la Confindustria in Treellle. Ormai lo si dice che si lavora per chi ha altri interessi rispetto alla scuola pubblica. Ma poi è divertente il riferimento alla Finlandia, il Paese numero uno nella lista di quelli più scolarizzati, che dedicano più fondi alla ricerca, che hanno meno conflitti d’interessi, … Dopo di noi c’è solo la Grecia ed il trend è iniziato con Berlinguer! Una noterella a margine. Vari ministri della (allora) pubblica istruzione hanno esordito con … i miseri salari degli insegnanti. Ricordo Lombardi, De Mauro, Berlinguer. Non ne ricordo uno che si sia fatto carico del problema da dopo la sua nomina a ministro. Ma poi di cosa parla il Berlinguer ? Quello che ha distratto i soldi dalla scuola pubblica per indirizzarli alla privata e principalmente alla confessionale ? La legge di parità (fatto osceno in Italia) è sua.  Assicuro che non si trova nel suo testo di riferimento, Lisbona 2000, perché i liberisti veri sono seri. Libera concorrenza ma senza concessioni pubbliche al privato (è una delle norme fondanti della UE che Monti ha fino ad ora sanzionato). Andando oltre si affinano le cose che dice l’ex ministro:

“Occorre  motivare studenti e docenti. Offrendo ai primi innanzitutto un ampio spettro di tipologie educative, nei contenuti e nei metodi. Facendoli sentire a a casa, stimolandoli con il rigore e l’attrattività dell’esperienza di studio, dell’avventura intellettuale e professionale. Centralità dell’apprendimento e differenziazione fra istituti e, al loro interno, percorsi individualizzati per sollecitare attitudini e vocazioni, per gratificare i successi. Ieri abbiamo chiamato tutto questo con un vocabolo che non è piaciuto e che potremmo anche non riprendere. Ma, per intenderci, alludo all’autonomia, la più grande delle riforme fatte – anche se oggi un po’ malconcia – che va difesa, sostenuta ed attuata soprattutto in sede curricolare, come Andrea Ranieri anche di recente ha ricordato su Italianieuropei”.

Ed è inutile ricordare Gramsci a Berlinguer. Si tratta di due pensieri radicalmente diversi se Berlinguer ci parla di attrattività, pensando al suo profeta Maragliano che teorizza di fare a scuola  tutto ciò che non sa di scuola con buona pratica di videogiochi.

Ed aggiunge, il Berlinguer,  che occorre pensare ai percorsi sempre più individualizzati pensando evidentemente alla fuga da quella fatica formativa di cui parlava Gramsci, e ad una fatica all’americana verso l’ignoranza. La cosa è ribadita con l’esaltazione della truffa autonomia, concetto di estrazione USA che ha manifestato tutte le sue potenzialità distruttive proprio con l’avvento di un altro governo che all’autonomia ha fatto fare ciò che voleva. Berlinguer fa poi precisi riferimenti ad ItalianiEuropei, quell’organizzazione politica liberista che fa capo a D’Alema e Amato e che ha come quotidiano Il Riformista che elogia Letizia Moratti

            Berlinguer conclude al solito di ogni ministro o ex imbroglione:

“Un ultimo obiettivo: i docenti. Che però non è l’ultimo, anzi, è il primo. Sono giunto troppo in fondo per parlarne adeguatamente e spero che ci si possa ritornare… “

al solito, degli insegnanti si parla dopo, dopo, … 

LISBONA 2000. BOLKSTEIN

            Berlinguer, si era precedentemente riferito alla Conferenza dei Ministri dell’Istruzione di Lisbona del 2000 . In essa la UE ha deciso di occuparsi in prima persona delle scuole nazionali, con il solito slogan di scuola per tutta la vita, affermando

La sorte dell’insegnamento non è oggetto di un intendimento unanime. Deve anch’esso essere oggetto di una privatizzazione? In quale misura? Secondo quali modalità? Non si tratta pertanto di stabilire se la concorrenza tra gli stabilimenti scolari sia auspicabile o pericolosa, ma di analizzare se essa è concretamente realizzabile, sapendo che in certi paesi essa è stata chiaramente inscritta nelle politiche educative. (…) I sistemi di insegnamento primario e secondario inferiore sono organizzati secondo la logica dell’economia di mercato? Concretamente, si tratta di esaminare se le condizioni di messa in opera di una concorrenza perfetta tra stabilimenti scolari sono presenti nei paesi toccati dallo studio“.

La cosa che preoccupa non è che si sostengano determinate cose ma che da Lisbona 2000, vista la poca attenzione dei cittadini alla politica europea che sembra andare per suoi sentieri, senza controlli da parte di chi è dedito a beghe quotidiane di piccolo cabotaggio, c’è da preoccuparsi se, dalla “Conferenza dei Ministri dell’Istruzione” a Lisbona nell’anno 2000, arriva una delega quasi totale dell’istruzione dai governi nazionali alla Commissione UE. Con il rischio aggiunto che si passi immediatamente dal Commissario che si occupa di Educazione a quello che si occupa di Commercio. Nelle enunciazioni di Lisbona risulterebbe che tutti i 15 sono d’accordo su una politica comune europea per l’educazione. Se così fosse resterebbe il dubbio del sapere perché si è spinto tanto per una delega completa alla Commissione. In definitiva, a tutt’oggi, sono indispensabili due cose: piena trasparenza preventiva di ogni atto della Commissione UE ed invito a tutti alla massima attenzione all’operato di essa. In particolare Pascal Lamy è persona preoccupante, insieme ai suoi consiglieri (Madelin, Servoz, Defraigne, …), eredi del tatcheriano Leon Brittan (predecessore di Lamy come Commissario UE al commercio).

L’ultimo documento della Commissione UE è comunque dell’ 11 novembre 2003 ed è un progetto a medio termine dal nome Istruzione & Formazione 2010 , l’urgenza delle riforme per la riuscita della strategia di Lisbona.  Si tratta di un documento che cerca la verifica di quanto si era accordato nel documento di Barcellona del marzo 2002. Dopo aver ricordato tutti i passi successivi a Lisbona 2000, agli obiettivi che dovevano rappresentare “una svolta epocale risultante dalla globalizzazione e dalle sfide presentate da una nuova economia basata sulla conoscenza“, la Commissione si chiede a che punto si è arrivati nel conseguimento di tali obiettivi ambiziosi ma realistici? La cosa non sembra andare bene se si afferma: “in tutti i paesi europei si compiono sforzi per adattare i sistemi d’istruzione e formazione alla società e all’economia della conoscenza, ma le riforme avviate non sono all’altezza delle sfide e il loro ritmo attuale non consentirà all’Unione di raggiungere gli obiettivi che si è fissata”.

Occorre darsi da fare subito. I governi nazionali devono investire di più e, soprattutto, incentivare di più i privati perché intervengano. Serve poi una cooperazione strutturata e continua a livello comunitario per la migliore utilizzazione delle risorse umane e degli investimenti (ed anche per far confluire al più presto le legislazioni nazionali in una legislazione europea). Ciò al fine di avere  “un quadro di riferimento europeo per le qualifiche dell’istruzione superiore e della formazione professionale; tale quadro è indispensabile per creare un vero e proprio mercato europeo del lavoro e facilitare la mobilità”.  Insomma non si può dire che gli obiettivi non siano chiari. Del resto si erano andati esplicitando a partire proprio da Lisbona, dove si era affermato di voler costruire: “un’economia e una società fondate sulla conoscenza … strategia che si fonda su un’ampia gamma di azioni coerenti e complementari (come ad esempio le riforme dei mercati dei beni, dei servizi e dei capitali, l’adattamento delle politiche dell’occupazione e del mercato del lavoro e la riforma dei sistemi di previdenza sociale)”.

            Molti ritardi nell’attuazione dei piani nascono perché i singoli Paesi si preoccupano troppo degli sbocchi professionali e di far fronte alla dispersione  scolastica. Inoltre gli insegnanti delle scuole professionali non rendono affascinanti le loro lezioni e pochissimi sono disponibili alla mobilità.  Viene poi un discorso ricorrente (che male si coniuga intanto con quanto sostiene Confindustria): il basso numero di diplomati. L’organizzazione degli imprenditori afferma che in Italia si è puntato sulla quantità piuttosto che sulla qualità. Come mettere d’accordo questo con il basso numero di diplomati denunciato da tutti? Credo si debba fare uno sforzo di comprensione del perché i giovani se ne vanno dalla scuola. Essa dovrebbe portare (dopo anni di parcheggio improduttivo ai fini economici) ad un mondo del lavoro flessibile, incerto e mal pagato, quando l’immagine che i giovani hanno dalla società dello spettacolo è bellezza, denaro e successo subito. E’ una contraddizione dello stesso sistema che porta ad abbandonare per guadagnare, come si può al più presto. L’idea dell’investimento in cultura sta sparendo perché i modelli sociali hanno operato in tal senso. Ma la Commissione dice:

“Per essere competitiva nell’economia della conoscenza l’Unione ha anche bisogno di un sufficiente numero di diplomati dell’istruzione superiore che dispongano di una preparazione adattata al mercato del lavoro europeo. Il ritardo a livello dell’istruzione secondaria si ripercuote a livello dell’istruzione superiore. Nell’Unione, mediamente 23% degli uomini e 20% delle donne tra i 25 e i 64 anni hanno un diploma d’istruzione superiore. Tale cifra è nettamente inferiore a quella del Giappone (36% degli uomini e 32% delle donne) e degli Stati Uniti (37% per l’insieme della popolazione).”

  Una possibilità potrebbe proprio essere il modello USA, quello che fornisce diplomati con piani di studio in gran parte opzionali (musica, teatro, sport, giornalismo, fotografia, ecologia, …) e con il solo obbligo per storia americana (unica disciplina con un ferreo controllo federale), matematica ed educazione civica. Ma questo rappresenta qualità? E dove sarebbero occupati questi diplomati USA? Ma poi, proprio le attuali disposizioni sull’equipollenza reciproca dovrebbero fa riflettere: mentre un diplomato italiano viene ammesso anche al secondo anno di università in Usa, un diplomato USA (high school) viene ammesso in Italia al penultimo anno di scuola superiore e deve aver fatto almeno due anni di College (Associate Degree) con l’idoneità al terzo anno, con almeno 60 credits, in Usa per essere ammesso all’Università italiana. In ogni caso, nella nostra scuola si promuove il 97% di coloro che arrivano agli esami. Gli altri abbandonano, la gran parte non perché vengano selezionati.

Il documento prosegue dicendo che l’Unione deve essere capace di attirare studenti che dal resto del mondo vengano in Europa a studiare. Il proposito è di grande interesse solo che si scontra con il fatto che alla fine saranno qui ben preparati per poi, di nuovo andarsene dove gli viene offerto un lavoro dimensionato alla loro preparazione e questo in Europa avviene sempre meno. Del resto la stessa Commissione ammette questo quando dice:

“L’Unione « produce » un maggior numero di diplomi e di dottori in scienze e tecnologia degli Stati Uniti o del Giappone (25,7% del totale di diplomati dell’istruzione superiore per l’Unione rispetto a 21,9% e a 17,2% rispettivamente per il Giappone e gli Stati Uniti). Contemporaneamente, la quota dei ricercatori nella popolazione attiva è molto più debole nell’Unione (5,4 ricercatori su 1000 nel 1999) che negli Stati Uniti (8,7) o nel Giappone (9,7) e in particolare nelle imprese private. Il mercato del lavoro europeo è molto più stretto per i ricercatori che lasciano spesso l’Unione per continuare altrove le loro carriere (essenzialmente negli Stati Uniti in cui godono di migliori condizioni di lavoro) o decidono di cambiare professione”.

E questa affermazione fornisce anche una spiegazione al problema posto precedentemente (basso numero di diplomati): alcuni studenti ce la mettono tutta anche in diplomi duri. Ma se l’esempio per gli altri studenti è il rifiuto anche di questi dal mercato del lavoro, allora il fallimento è garantito. Il problema può essere posto altrimenti proprio soffermandosi sull’altro aspetto che la Commissione denuncia: la mancanza di ricerca soprattutto nelle imprese private. Se tali imprese continuano a non fare ricerca o a trasferire la produzione all’estero, chi dovrebbe assumere i diplomati in discipline dure e, successivamente, i laureati o i dottorati nelle medesime? A tutt’oggi, in gran parte, si tratta di sottoccupazione. La Commissione dovrebbe convincersi che i buoni propositi sociali non possono convivere con il neoliberismo e la massimizzazione del profitto. 

Quanto diciamo è relativo alla Commissione Educazione. Ma in parallelo lavora la Commissione Commercio ed alcuni fatti recentissimi vanno ricordati. Il commissario europeo al Commercio nella Commissione Prodi (2000 – 2004) era Pascal Lamy (non a caso passato a settembre 2005 dalla UE alla direzione generale del WTO). Questi tenne un discorso all’International Council for International Business di New York nel quale sostenne: “Se vogliamo migliorare il nostro accesso ai mercati esteri , allora non possiamo mettere al riparo i nostri settori protetti. Dobbiamo essere pronti a farne materia di negoziato se vogliamo conseguire un accordo globale (big deal, ndr) Per gli Stati Uniti, come per l’UE, questo significherà dare un qualche dolore a qualche settore, ma realizzare guadagni in molti altri, e credo che noi sappiamo, da una parte e dall’altra, che bisognerà acconsentire a dei sacrifici” e cioè cedere sui pubblici servizi (tra cui la scuola). Lamy parlava dopo Seattle  e dopo che l’OCSE aveva resistito ad iniziative liberiste selvagge (AMI) ed avvertiva che si dovevano trarre degli insegnamenti da quelle sconfitte. Tali insegnamenti erano solo relativi alla maggiore discrezione se non al segreto quando si trattavano certi argomenti. Come aggirare le normative nazionali nel caso vi fosse resistenza? Ricatalogando le voci. Così che, ad esempio, i dati dei pazienti o degli studenti non rientrerà più alla voce sanità o scuola ma a quella di dati informatici; la gestione delle scuole, degli ospedali, delle pensioni sotto la voce management.  Recentemente però, a precise richieste, Lamy ha sempre fornito risposte che negavano l’inserimento della scuola nell’elenco delle merci, anche se l’argomento è già arrivato alla discussione  in seno alla Commissione UE (era segretamente all’ordine del giorno) ed è recentissimo l’argomento capzioso che porterebbe al colpo definitivo sulla scuola pubblica: poiché essa è un servizio per il quale i cittadini pagano allora, secondo le ferree regole del WTO, non può ricevere aiuti dallo Stato. E’ elementare comprendere che ciò significherebbe la fine della scuola pubblica. E, sgomberato il campo da questo ultimo orpello (l’aggettivo pubblico), si potrebbe dispiegare in ogni sua forma l’ingresso dei privati in una entità ormai solo privata.

Sto parlando della Direttiva Bolkestein, quella jattura, ancora non operativa ma che se passasse significherebbe una catastrofe per la scuola europea. Vediamo di cosa si tratta.

            Nel gennaio del 2004, nella Commissione Prodi, fu votata all’unanimità la Direttiva Bolkestein, dal nome di  Frits Bolkestein, olandese, liberale, fino al 2004 Commissario Europeo per il Mercato Interno, la Tassazione e l’Unione Doganale.  La direttiva Bolkestein è stata elaborata con la consultazione di 10.000 imprese europee, senza però mai aver consultato alcuna organizzazione sindacale, ambientale o impegnata nel sociale. Il punto di vista che emerge è chiaramente di parte e la direttiva Bolkestein mira ad applicare all’Europa intera i principi del Wto e del Gats, con alcune importanti estensioni in senso ancora più liberista e competitivo. Si tratta di un ciclone che sta per abbattersi sullo statuto sociale europeo, sulla sua costituzione materiale, sulle condizioni di lavoro di milioni di persone. 

            La Direttiva stabilisce «un quadro giuridico generale per eliminare gli ostacoli alla libertà di insediamento dei fornitori di servizi e alla libera circolazione dei servizi in seno agli Stati membri»; la Direttiva definisce (art. 4) i servizi come segue: «Ogni attività economica che, secondo l’art. 50 del Trattato istitutivo, si occupa della fornitura di una prestazione oggetto di contropartita economica». Chiaramente sono presi in considerazione tutti i servizi eccetto quelli erogati direttamente e gratuitamente dai poteri pubblici; la nuova definizione dei servizi è molto ampia e apre la strada alla privatizzazione e alla messa in concorrenza di quasi tutte le attività di servizio, compresa la quasi totalità dell’insegnamento, la totalità della sanità e delle attività culturali; le legislazioni ed i regolamenti nazionali sono considerati dalla Commissione europea «arcaici, obsoleti e in contraddizione con la legislazione europea». Gli “ostacoli” presi di mira dalla Commissione europea sono dunque decisioni che i poteri pubblici hanno preso per evitare che il settore dei servizi diventi una giungla. La Commissione europea intende dunque rimettere in causa «il potere discrezionale delle autorità locali»; allo scopo di eliminare gli ostacoli alla libera circolazione dei servizi, il progetto rinuncia a una pratica consolidata nella costruzione europea, quella dell’armonizzazione. L’armonizzazione viene sostituita dal “principio del Paese d’origine”. Secondo questo principio, un fornitore di servizi è sottoposto alla legge del Paese in cui ha sede l’impresa, e non a quella del Paese dove fornisce il servizio. Ci si trova di fronte a un vero e proprio incitamento legale a spostarsi verso i Paesi dove le normative fiscali, sociali e ambientali sono più permissive. Con il “principio del Paese d’origine”, la Direttiva viola l’art. 50 del Trattato istitutivo della Comunità europea, secondo cui «il fornitore di servizi può esercitare a titolo temporaneo la sua attività nel Paese in cui fornisce la prestazione alle stesse condizioni che questo Paese pratica alle imprese nazionali»; il “principio del Paese d’origine” permette di deregolamentare e privatizzare totalmente i servizi che non sono forniti direttamente e gratuitamente dai poteri pubblici consentendo di destrutturare e smantellare il mercato del lavoro nei Paesi in cui è organizzato e protetto. Ciò significa che viene altresì legalizzata l’esportazione di contratti di lavoro peggiori laddove vi sono condizioni contrattuali migliori per i lavoratori e le lavoratrici; per facilitare la libertà di insediamento, gli Stati dovranno limitare le condizioni poste all’autorizzazione di insediamento di un’attività di servizio. Questo progetto sottrae ai poteri pubblici qualsiasi diritto di indirizzare l’organizzazione dell’attività economica del proprio Paese; la Direttiva non prevede norme particolari per nessun settore dei servizi, tranne che per le cure sanitarie. Un fornitore di cure che si stabilisca in un Paese, non è tenuto a rispettare il sistema di sicurezza sociale del Paese ospite. Ci si trova in presenza della volontà deliberata da parte della Commissione europea di togliere agli Stati il potere di decidere della loro politica sanitaria; la scomparsa delle restrizioni nazionali all’insediamento apre la strada allo “Stato minimo”, e cioè a uno Stato che ha perso il diritto di fare le scelte fondamentali nella politica dell’istruzione, della sanità, della cultura e dell’accesso di tutti ai servizi essenziali. La direttiva in questione abbasserebbe notevolmente i livelli di tutela dei diritti di lavoratori e lavoratrici ed aprirebbe la strada alla privatizzazione selvaggia di tutti i servizi (tratto da www.cobas.it).

Questa è solo la premessa che però è il seguito di quanto in Europa si fa da molti anni: si vuole privatizzare la scuola e la sanità. Solo gli sciocchi, tra cui Legambiente e la dirigenza CGIL Scuola (che mentre firmano appelli contro la Bolkestein, sostengono Lisbona 2000 e la scuola di Bassanini e Berlinguer che erano le necessarie premesse della Bolkestein), non si sono accorti di cosa viaggia da anni. La cosa gravissima è che questo avviene  senza che nessuno dei nostri politici si opponga minimamente (ignoranza o malafede?). L’unanimità con cui è stata approvata questa direttiva mostra che siamo in mano a dei politici  che sono mercenari delle multinazionali che da anni premono per entrare selvaggiamente nei servizi pubblici distruggendo lo stato sociale

Noi siamo a discutere delle cose più futili, degli pseudoproblemi,  quando abbiamo una minaccia gigante che incombe. Insisto, nessun politico parla di questo. Nessuno che si mobiliti con tutte le energie. Valgono anche qui i silenzi incrociati ed omertosi.

ITALIANIEUROPEI E BUONSENSO

            Le cose dette da Berlinguer nel penultimo paragrafo, si riferivano ad un documento del 16 ottobre 2003, nato nel pensatoio neoliberista ItalianiEuropei di D’Alema ed Amato, redatto da Andrea Ranieri, responsabile scuola berlingueriano dei DS. Ranieri fa il resoconto di una riunione informale con: Annamaria Ajello, Emanuele Barbieri, Giuseppe Bertagna, Luigi Bobba, Franca Bimbi, Vittorio Campione (della ex segreteria di Berlinguer), Daniele Checchi, Domenico Chiesa, Massimo D’Alema, Michele De Beni, Fiorella Farinelli, Claudio Gentili, Jacopo Greco, Roberto Maragliano, Mauro Palma, Roberto Persico, Mario Pirani, Andrea Ranieri, Bruno Roscani, Flaminia Saccà, Giorgio Sciotto, Albertina Soliani, Antonio Zucaro. 

            Vediamo cosa dice il documento riassuntivo dei lavori. Dopo le solite chiacchierate inutili sui valori e gli obiettivi si arriva al nocciolo che è solo questo: occorre che destra e sinistra si mettano insieme per un processo condiviso sulla scuola. Per ulteriori approfondimenti si rimanda all’ineffabile progetto Buonsenso per la scuola . Sarà pure ineffabile ma io qualcosa dico lo stesso su questa vergogna che i sinistri aspiranti DC sostengono. Intanto vediamo quali sono i buonsensisti: Sergio Belardinelli, Luciano Benadusi, Giuseppe Bertagna, Luigi Bobba, Vittorio Campione, Lorenzo Caselli, Alessandro Cavalli, Nicola D’Amico, Fiorella Farinelli, Paolo Ferratini, Claudio Gagliardi, Claudio Gentili, Claudia Mancina, Roberto Maragliano, Franco Nembrini, Luisa Ribolzi, Silvano Tagliagambe, Elena Ugolini. E’ d’interesse scoprire le punte di diamante pedagogiche di Berlinguer e di Moratti. Dopo aver contribuito alla distruzione della scuola lor signori invocano il buonsenso! Più in generale vi è un discorso circolare che parte da De Mauro attraverso la Confindustria. Passa da Berlinguer attraverso Confindustria, ItalianiEuropei, Ranieri, D’Alema. Arriva alla destinazione di accettare la scuola della Moratti che, i folli, si crede sia un tutt’uno con quella di Berlinguer. Io che sono un eretico dico che è proprio così. L’importante è che lo sappiano gli elettori.

            I buonsensisti che nascono da Vittorio Campione, sinistro della ex segreteria del ministro Berlinguer, e dalla sociologa di destra Luisa Ribolzi (1), teorizzano una collaborazione stretta perché il Paese non si può permettere riforme ad ogni cambio di governo. E perché, dico io, ad ogni cambio di governo vi sarebbero pedagogisti di una parte disoccupati, certamente un Maragliano o un Bertagna (2). Sta di fatto che ambedue gli schieramenti non presentano divisioni di fondo: ambedue si ispirano ad una scuola liberista con qualche accento confessionale in più per i morattiani. Sta di fatto che, tra l’appoggio incondizionato a questi personaggi da operetta da parte della Moratti, la scuola che passa non è quella progressista o comunque laica e pubblica ma quella che finanzia il privato, quella confessionale, quella che censura i testi scolastici, che non permette l’accesso al darwinismo, … quella di una destra oscurantista e non certamente liberale. La CGIL Scuola non dice nulla in omaggio al sindacato pesce in barile, detto CISL, che cattolicheggia. Noi tutti quindi ci accingiamo a sostenere una coalizione di governo che non ci dice tutto su cosa farà della scuola (ipotesi migliore) o che sa già che con qualche aggiustamento manterrà questa scuola classista, dequalificata, per i ricchi (ipotesi più realista).

            Chiedo solo che ogni elettore di sinistra (anche se a tutt’oggi non so proprio dire cosa ciò significhi: Cacciari è di sinistra? e Fassino? Su D’Alema, Amato, Rutelli, … sono tranquillo: con la sinistra non hanno nulla a che fare) chieda a chi vuole eleggere cosa pensa sulla scuola. Non si accettano se e ma. La domanda va fatta alla coalizione per sapere se votarla o no al maggioritario e va fatta ai singoli partiti per sapere se votarli o no nel proporzionale.

            Cosa richiedere ? Di fronte alla completa ignoranza del problema e di fronte a progetti fumosi ed a fregatura di un centrosinistra che ci presenta come massimo conoscitore dei problemi un cialtrone come Ranieri, noi preferiamo conservare (alla Cofferati) ciò che c’è. Non vogliamo in alcun modo trasformare l’istruzione in merce (perché questo vogliono fare lor signori e neppure nascostamente (i riferimenti di Berlinguer sono chiari).        

            La scuola è il fondamento non contrattabile di ogni società civile. Non cederemo mai ai progetti di cancellazione dei diritti acquisiti da parte di beceri novelli stregoni arrivati al potere per uno scherzo del caso (ilo massimo disordine in fisica, la selezione alla rovescia in antropologia). E questo non è un saggio con valenze culturali di qualche tipo ma la chiamata a difesa della scuola pubblica che gli irresponsabili stanno smantellando.

VENIAMO A COSA DICONO GLI ECONOMISTI

            Il gruppo di economisti che si raccoglie in www.lavoce.info dedicano le news del 12 ottobre proprio alla scuola, analizzando alcuni dati dal loro punto di vista. Il riferimento è il continuo lamento  di Berlinguer e De Mauro sul basso numero di studenti che in Italia arriva al diploma (75% contro una media europea del 90%) e sul basso numero di laureati sempre in riferimento alle medie europee. Sembrerebbe, secondo i nostri ex ministri che, di per sé, l’aumento di diplomati e laureati debba comportare un ingresso più semplice, più orientato e più qualificato nel mondo del lavoro. Questi signori usi alle cifre acritiche non hanno tenuto conto della realtà italiana e di quale, in definitiva, è la molla che porta ad un 30% di dispersione scolastica. Berlinguer e De Mauro individuavano le difficoltà tutte dentro il sistema scolastico. In realtà, come già denunciato da varie parti oltre che da me, tali difficoltà sono tutte esterne.

Daniele Checchi e Tullio Jappelli, ne La laurea inutile, sostengono che: 

“Oltre un terzo dei laureati italiani dichiara di essere occupato in un lavoro per il quale la laurea non è necessaria … la durata della transizione dalla scuola al lavoro è di undici anni, quattro anni più della media dei Paesi OCSE.”  

Da una estesa indagine dell’Unioncamere risulta poi che 

“A fronte di una domanda di 54mila laureati, il nostro sistema universitario ne “produce” 225mila, creando un potenziale di disoccupazione intellettuale pari a 171mila persone per anno … Non stupisce  che in queste condizioni molti laureati accettino impieghi per cui non è necessaria la laurea e che si dichiarino insoddisfatti del lavoro che svolgono. Dal lato della domanda di lavoro da parte delle imprese, i dati segnalano che la struttura produttiva del paese è in gran parte arretrata. Fatti assai noti, e spesso ricordati sulla base delle cifre modeste impegnate per investimenti in ricerca e sviluppo. Le competenze qualificate sono dunque poco richieste dalle imprese: delle 673mila nuove assunzioni previste nel 2004, il 41 per cento prevede il livello della scuola dell’obbligo, il 21 per cento quello delle scuole professionali, il 29 per cento gli istituti tecnici e solo l’8 per cento la laurea”.

Giorgio Brunello ed Adriana Topo, in Apprendisti nel tempo, sostengono che: 

“In Italia si fa poca formazione. Secondo l’ultima indagine Eurostat, le imprese che hanno investito in formazione nel 1999 erano il 62 per cento nei quindici paesi della Comunità europea e il 24 per cento in Italia”. 

Dal pacchetto Treu in poi (Biagi e la flessibilità del lavoro estremizzata) in Italia è iniziato uno sfruttamento selvaggio del lavoro scambiando i contratti di formazione lavoro come momenti formativi. Ma 

“più apprendistato non significa necessariamente più formazione. Da più parti si è osservato infatti come l’incremento dell’utilizzo dei contratti di apprendistato sia da attribuire principalmente alla possibilità di assumere personale a costo ridotto, godendo di forti sgravi contributivi, piuttosto che all’esigenza di fare effettivamente formazione. Pensiamo che ciò avvenga perché le regole nel nostro paese non forniscono alle parti incentivi adeguati a svolgere un investimento formativo di tipo sostanziale”.

Il riassunto del problema è che: 

“Nel rapporto tra sistema formativo e mercato del lavoro colpiscono sia lo squilibrio tra domanda e offerta, sia lo scostamento tra le competenze di chi cerca lavoro e quelle richieste dalle imprese.  Solo per l’8% dei nuovi assunti del 2004 sara’ richiesta la laurea. E’ l’universita’ a produrre troppi laureati, o sono le imprese a chiederne troppo pochi? Probabilmente entrambe le cose. Quindi non basta cercare di razionalizzare l’offerta formativa come sta facendo il Governo. Meglio non imporre una scelta troppo precoce delle competenze, come avviene nella scuola secondaria prima e dopo la riforma Moratti. C’e’ anche un problema di informazione e di trasparenza del mercato: spesso non mancano i lavori ma e’ difficile trovare quelli “giusti”. E il collocamento continua a non funzionare.  Utile anche incoraggiare le imprese a svolgere formazione.  Molti i dubbi sulla nuova disciplina dell’apprendistato.  Permette di avere manodopera a basso costo e puo’ scoraggiare le imprese che vogliono fare vera formazione”.

            Poche considerazioni, da parte mia, su queste cose che mi sembrano molto chiare. Sottolineo il problema principale del Paese: l’arretratezza produttiva e culturale delle imprese. Da sempre cialtrone hanno, negli ultimi decenni, accentuato il loro voler guadagnare molto e subito senza preoccuparsi del futuro del Paese e degli occupati. Solo poche imprese si sono mosse a livello di eccellenza creando nicchie di ricerca e sviluppo, comunque troppo piccole. In questa situazione niente ricerca ma furbesco copiare in giro. Di conseguenza tutto è demandato allo Stato e quindi all’Università che però non ha più fondi. Il Paese decade mentre i nostri governanti neppure si rendono conto, non tanto del disastro in sé, quanto dell’irreversibilità di esso. D’altra parte c’è poco da pretendere da un potere in mano a chansonnier, valligiani, integralisti ed (ex ?) picchiatori. Manca una cultura di base che possa permettere il salto verso la comprensione integrata dei problemi. Per altri versi si aggiunge il problema della formazione scolastica. Sembra di capire che una rigida formazione non fa al caso di un mercato del lavoro estremamente flessibile. Occorrerebbe una scuola altrettanto flessibile. Con sommo dispiacere degli ex ministri occorre dire che le scuole professionali salesiane o no e gli istituti tecnici industriali, brillano per la loro rigidità. Una volta obsolete le abilità per cui i giovani sono stati preparati, da quella parte sembra impossibile riacquistare la flessibilità che pur si richiede. Ma la flessibilità che si richiede non è quella che si ottiene con piani di studio flessibili ma quella che si ottiene con studi molto seri che forniscono agilità mentale. Capisco che si parla di cose difficili ma con un piccolo sforzo anche gli ex ministri possono capire cosa dico.

            A fronte di queste cose resta, sullo sfondo, una situazione drammatica: secondo dati ISTAT (2003) su circa 57 milioni di Italiani poco più di 3.500.000 sono forniti di laurea, 14.000.000 di titolo medio superiore, 16.500.000 di scuola media e ben 22.500.000 sono privi di titoli di studio o possiedono, al massimo, la licenza elementare. In percentuale 39,2% dei nostri concittadini sono fuori della Costituzione che, come si sa, prevede l’obbligo del possesso di almeno otto anni di scolarità. Siamo assolutamente in linea con il Paese più avanzato del mondo, gli USA.

            Inoltre, come vanno le cose, otto anni dopo l’indagine OCSE che ci vedeva molto indietro per numero di diplomati ? Confrontando la tabella fornita nel primo paragrafo di questa terza parte con quella relativa al 2004, si scopre che le cose sono ulteriormente peggiorate

Tratta da la Repubblica del 15 ottobre 2005

infatti, oggi (2004) anche la Spagna ci sopravanza ed in questo Paese il Preside è elettivo e non esiste l’autonomia ma il lavoro è meno flessibile (al massimo due anni e poi occorre essere assunti) e vi è certezza di diritto. In Italia non vi è lotta la lavoro minorile che è strettamente legato alla fuga dalla scuola: il 74 per cento dei piccoli lavoratori fa molte assenze, il 56 ripete, il 77 fa i compiti a casa da solo, senza alcun aiuto dalla famiglia. Ancora il 77 per cento pensa di fermarsi alla scuola media. Metà dei padri ha la sola licenza elementare, nel 16 per cento dei casi nessun titolo di studio, nel 31 per cento la media inferiore. La stragrande maggioranza lavorava già a 15 anni. E questa  corsa al lavoro precoce si dirige verso il nulla.  E nessuno, tanto meno i pedagogisti, pensa a questo come ad un Paese che sta inseguendo il peggio offerto dai Paesi anglosassoni con i ceti più deboli sempre più indifesi. Ci risolleveremo, dice Maragliano, la punta di diamante del pensiero di Berlinguer, con i videogiochi.

            Uno degli snodi  alla base della crisi profonda del nostro Paese era stato individuato con lucidità da Sergio Cofferati (che ultimamente, ottobre 2005, sta impazzendo). E’ impossibile una crescita basata sulla competitività in termini salariali con i Paesi emergenti. Occorre puntare alla qualità, alla ricerca ed ai prodotti con grande valore aggiunto. Cosa ha recepito la nostra industria ? Niente ed ora chiude trascinando con sé i risparmi ed il lavoro di migliaia di persone. Cosa ha recepito il mondo politico di attuale opposizione ? Niente, anzi ha esiliato Cofferati ad amministratore locale, per maggior gloria delle mezze calzette che fanno da presunti leader di quell’opposizione.

ULTIME

Siamo alla fine della storia. In questi anni di centrodestra abbiamo sentito di tutto. E non parlo di quello che dicevano a destra, generalmente scolasticamente sgrammaticato, ma di quello che dicevano nella cosiddetta sinistra. Nel caso si vincessero le elezioni del 2006, i centrosinistri, ad opera di DS e Margherita, sono via via passati da un iniziale rifiuto di ogni proposta Brichetto,  alla cancellazione di solo ciò che non va (senza che noi si possa sapere cosa è che non va). Coloro che si sono presentati a Bologna nella fabbrica di Prodi per chiedere la cancellazione di ogni provvedimento Brichetto sono stati trattati da estremisti.

Lo stesso Prodi ha assunto un atteggiamento conseguente alla sua presidenza del Commissario Bolkestein. Non si esprime con chiarezza, tanto che il Forum degli Insegnanti (web community di docenti), in proposito di un suo intervento in diretta chat nel sito de l’Unità on line, gli ha scritto la lettera seguente:

Caro Prof. Prodi,
siamo rimasti a dir poco sconcertati e delusi nel leggere la chat che lei ha tenuto sull’Unità rispondendo alle più disparate domande. Abbiamo trovato il suo atteggiamento supponente, un po’ arrogante e, su diverse questioni, ambiguo.
E non ci pare corretto soprattutto da parte di chi, come lei, dice di volersi opporre all’illusionismo berlusconiano.
Può darsi che non siamo stati capaci di rilevare le sottili ironie, crediamo però che molte delle sue siano state delle non-risposte.
E pensiamo che si abbia bisogno di chiarezza, possibile che per un politico sia così difficile dire si o no?
Siamo stanchi di leggi e leggine calate dall’alto con l’atteggiamento di chi “sa cosa occorre al paese”, e se il paese desidera altro gli si fa capire (ancora a colpi di maggioranza?) che quello che fa chi governa è cosa giusta.
Presumiamo che l’Unione si senta la vittoria già in tasca, sarebbe auspicabile che evitasse di ragionare secondo questa prospettiva, che già alle ultime politiche ha causato un bel disastro.
Molte persone sono stanche di dover votare per il meno peggio tra due e di riconoscersi parzialmente o molto poco negli intenti e nei programmi. In particolare ci riferiamo alla risposta che lei ha dato alla laureanda in fisica invitandola ad andare pure all’estero per una parentesi ( sappiamo tutti che in Italia niente è più definitivo del provvisorio) e a chi le
chiedeva che cosa intendesse fare a proposito della riforma Moratti. Continuiamo a favorire l’esodo di cervelli all’estero? La scuola come istituzione viene smantellata e ci vogliamo limitare a delle aggiustatine?
Il popolo della scuola, fatto non solo dagli insegnanti, ma anche dagli studenti e dalle loro famiglie ( quanti voti saranno?) non è disposto a farsi massacrare come è stato in questi ultimi anni.
Faccia una passeggiata per i siti web che si occupano di scuola e sono scontenti dell’attuale stato di cose, e se ne renderà conto. Siamo arrivati a un punto tale per cui “non esistono governi amici”, e tutto quanto andrà a danno della scuola sarà contestato.
Auspichiamo che i sindacati non vogliano commettere l’errore del periodo in cui era Berlinguer ministro dell’istruzione, avvallando spudoratamente, come fece allora la cgil, ipotesi come quella del concorsone ed ignorando le contestazioni.
Occorrerebbe convocare gli stati generali della scuola per venire a capo di questioni spinose.
Ma forse il suo atteggiamento si spiega anche alla luce dell’intervista fatta a Ranieri (DS) e pubblicata su un quotidiano. Veramente ai confini della realtà.

Foruminsegnanti.it

Ed il forum parlava dei sindacati oltreché dei buonsensisti DS. Che fanno i sindacati ? Niente, al di là di partecipazioni schizofreniche a manifestazioni contro la Bolkestein, quando condividono i principi ispiratori della legislazione che porta a Bolkestein. La CGIL Scuola in particolare, dopo anni di silenzio e dopo che per anni non è riuscita a proclamare un solo sciopero contro le riforme Brichetto, oggi vede il suo segretario, Panini, scrivere contro la sinistra che non si occuperebbe del problema. Il fatto è che l’opportunismo è ormai endemico, anche a sinistra. Panini sa che si avvicinano due scadenze: il congresso CGIL scuola (che sarà unitario, con tutti d’accordo per l’opportunismo e per i distacchi); e le lezioni politiche. Panini deve vendere la pelle. Ormai è in scadenza alla CGIL Scuola.


NOTE

(1) I due fondatori del Buonsenso descrivono così la loro impresa su Il Corriere della Sera:

“Basta «noi» e «loro», i ragazzi hanno diritto a essere al primo posto

La prima proposta di una riforma globale dei cicli scolastici risale al 1996. In questi sei anni si contano sulle dita di una mano le occasioni in cui se ne è discusso pacatamente in termini di efficacia dei modelli pedagogici, utilità per il Paese o per le singole persone, tempi e modalità di attuazione, costi e benefici. Di fronte ad una trasformazione che — anche se pochi se ne sono accorti — tocca le vite dei cittadini in modo ben più profondo e duraturo di una riduzione delle tasse o del ponte sullo stretto di Messina è francamente troppo poco! Il comportamento prevalente è stato quello di chiedersi se la proposta venisse da uno dei «nostri» o dei «loro»: nel primo caso andava aprioristicamente bene, nel secondo era altrettanto aprioristicamente da condannare. Questo è certamente l’atteggiamento meno educativo che esista, e applicarlo al sistema formativo è il peggiore dei paradossi. E’ quindi urgente trovare un accordo sul modo di trasformare una scuola sulla cui inadeguatezza tutti sono d’accordo. Ma non è possibile proporre solo provvedimenti «contro» effettuando riforme a colpi di maggioranza.

Nessuno ha detto con chiarezza che per riformare il sistema formativo saranno necessari tempi lunghi, certamente più lunghi di una legislatura, ed è quindi necessario trovare l’accordo delle forze politiche su alcuni punti di comune interesse del Paese e dei cittadini, da mantenere anche nel caso di un’alternanza politica perché, nel caso in cui la maggioranza cambiasse, almeno sui punti essenziali non si torni a cominciare tutto da capo. Abbiamo parlato di punti essenziali e del resto i progetti di questi anni (non parliamo più, per favore, di riforma Berlinguer o Moratti: la personalizzazione è diventata un pretesto per una lettura ideologica del cambiamento) li avevano correttamente individuati: la riqualificazione della formazione di base; la valorizzazione della formazione professionale a tutti i livelli; il riconoscimento alle scuole non statali che svolgono un ruolo pubblico di essere parte, con le statali, di un unico sistema scolastico nazionale; la riqualificazione degli insegnanti; il potenziamento di competenze come l’inglese e l’informatica.

Ma di accordo non si è mai parlato, e si fronteggiano l’incapacità della maggioranza a formulare proposte analitiche e a realizzarle, e l’incapacità speculare dell’opposizione a contrapporre proposte alternative, o quantomeno a supportare quelle proposte che essa stessa aveva formulato in precedenza. Se pensiamo ad esempio all’obiettivo di sviluppare l’integrazione fra istruzione generale e formazione professionale, con il passaggio dal solo obbligo scolastico all’obbligo formativo e il riconoscimento del più ampio concetto di «diritto all’istruzione», che sulla carta è un obiettivo comune della legge precedente come di quella in discussione, nessuno ha ragionato sulla base di dati certi, di sperimentazioni in atto, di collaborazione con gli enti locali e i soggetti economici, ma se ne è data una lettura ideologica.

Occorre realizzare un sistema formativo integrato, con l’obiettivo esplicito di formare cittadini in grado di inserirsi in modo attivo e flessibile in un mercato del lavoro che richiede più conoscenza, una maggiore capacità di imparare ad apprendere e soprattutto che si aggiungano massicce dosi di saper fare dove prevaleva il sapere (e viceversa). Un’impostazione realista, volta ad accogliere le proposte valide da qualsiasi parte vengano, suscita resistenze che non sono, stranamente, «di destra» o «di sinistra», ma si riconoscono innanzitutto in un sostanziale rifiuto dell’innovazione, nella fatica ad uscire da una logica centralistica, nella difficoltà a costruire una diversa organizzazione degli apprendimenti.

Non serve a nulla opporre una presunta «cultura utile» alla «cultura classica»: piuttosto, accanto alla doverosa trasmissione dei saperi consolidati dalla tradizione, la scuola deve saper offrire ai ragazzi delle esperienze significative, che rispondano alle loro domanda di senso e di costruzione dell’identità, stimolando il desiderio di apprendere ed organizzando il curricolo intorno a centri di interesse. La scuola autonoma è la risposta giusta a questa esigenza.

Infine la «questione insegnanti». Non si va da nessuna parte senza una consapevole partecipazione di chi nella scuola lavora tutti i giorni, cioè i dirigenti scolastici e gli insegnanti. E’ necessario riqualificare la professione docente attraverso un serio programma di formazione iniziale e in servizio, un contratto di lavoro che consenta le diversificazioni di funzione e le progressioni di carriera, e premi il maggior impegno o i migliori risultati, e infine è indispensabile fare una programmazione delle entrate in servizio che tenga conto delle esigenze delle scuole e di quelle dei singoli docenti, consentendo vie d’uscita che valorizzino le competenze dei docenti anche in altri ambiti. Sull’educazione, si dice, ci giochiamo il futuro come singoli e come Paese: vorremmo davvero sbagliarci ed essere clamorosamente smentiti, ma temiamo che la scuola e la formazione non costituiscano una vera priorità, né per il governo, né per un’opinione pubblica preoccupata da altre e più clamorose emergenze.

Vittorio Campione
Luisa Ribolzi

21 ottobre 2002″

(2) Articoli scritti a 4 mani dai nostri eroi, Bertagna e Maragliano, che descrivono molto bene la situazione si trovano in http://www.fisicamente.net/index-489.htmhttp://www.fisicamente.net/index-490.htm.


BIBLIOGRAFIA

1 – Ludovico Geymonat (ed altri) – Storia del pensiero filosofico e scientifico – Garzanti 1971.

2 – Giovanni Genovesi – Storia della scuola in Italia dal Settecento ad oggi – Laterza 2000.

3 – Maria Giuseppina Damiani e 3ª B – Scuola e società a Monterubbiano – Istituto Comprensivo di Monterubbiano 2005.

4 – Stefano Pivato – Pane e Grammatica Istruzione elementare in Romagna alla fine dell’ ‘800 – Franco Angeli 1979.

5 – Dina Bertoni Jovine – Storia dell’educazione popolare in Italia – Laterza 1965.

6 – G. Natale, F.P. Colucci, A. Natoli – La scuola in Italia – Mazzotta 1975.

7 – Carlo G. Lacaita – Istruzione e sviluppo industriale in Italia 1859-1914 – Giunti 1973.

8 – Broccoli, Porcheddu, Menzinger – Ruolo, status e formazione dell’insegnante italiano dall’unità ad oggi – ISEDI 1978.

9 – Luigi Besana – Il concetto e l’ufficio della scienza nella scuola in Storia d’Italia. Annali 3, Scienza e tecnica – Einaudi 1980.

10 – Mario Alighiero Manacorda – La scuola degli adolescenti– Editori Riuniti 1979.

11- Mario Alighiero Manacorda – Scuola pubblica o privata ? – Editori Riuniti 1999.

12 – Mario Alighiero Manacorda – Il principio educativo in Gramsci – Armando 1970.

13 – Mauro Laeng – L’educazione nella civiltà tecnologica – Armando 1970.

14 – P.N.F. – Manuale di educazione fascista – Savelli 1977.

15 – P.N.F. – La carta della scuola – Gran Consiglio 1939.

16 – Luigi Volpicelli – Contro la scuola unica – Armando 1960.

17 – Roberto Renzetti – Scienza, Tecnica, Scuola e Sviluppo industriale in Italia dall’Unità alla Seconda Guerra Mondiale – Quale Energia n° 26, 1988 e Quale Energia nn. 31 e 32, 1990. Che si trovano in: http://www.fisicamente.net/index-54.htm .

18 – L. Geymonat, R. Tisato – Filosofia e pedagogia nella storia della civiltà – Garzanti 1965.

19 – Aldo Agazzi – Pedagogia d’oggi – La scuola 1960.

20 – M. Mencarelli – Il discorso pedagogico del nostro secolo – La scuola 1968.

21 – M. Agosti e V. Chizzolini (a cura di) – L’educatore contemporaneo – La scuola 1953.

22 – G. Catalfamo – I programmi della scuola primaria – Armando 1963.

23 – Docenti Universitari Cristiani (Atti del Convegno) – L’Educazione sociale – La scuola 1962.

24 – Luigi Volpicelli – L’educazione contemporanea – Armando 1966.

25 – Francesco Iesu – L’educazione popolare e la sua organizzazione – O.C.E.A.N. Napoli 1966.

26 – G. Kerschensteiner – Il concetto della scuola di lavoro – Marzocco 1954.

27 – Ministero della Pubblica Istruzione – La scuola in Italia (Rapporto degli anni 1973-75) – I.P.S. 1976. 

28 – AA.VV.  – Giovanni Gentile (1° Convegno di studi) – Editoriale BM italiana 1994.

29 – Cesare Paperini – Analisi estetiche e letterarie – SEI 1935.

30 – G. Gabrielli – Commento ai nuovi programmi didattici per la scuola elementare – Paravia 1946.

31 – Giuseppe Vettori (a cura di) – Duce e ducetti: citazioni dall’Italia fascista – Newton Compton 1975.

32 – Giuseppe Ricuperati – La scuola nell’Italia unita  in Storia d’Italia. Documenti 5**  – Einaudi 1973.

33 – Valerio Marchi – L’Italia e la missione civilizzatrice di Roma – Studi Storici 2, anno 36, aprile – giugno 1995.

34 – http://www.edscuola.it/archivio/norme/leggi/index.html . Su questo sito si trovano moltissime leggi relative alla scuola.

35 – AA.VV – Scuola: Riforma o controriforma ? – Savelli 1976.

36 – Francesco de Bartolomeis – Scuola a tempo pieno – Feltrinelli 1972.

37 – Marcello Dei – La scuola in Italia – Il Mulino 2000.

38 – Giulio Ferroni – La scuola sospesa – Einaudi 1997.

39) Valentina Fulginiti – Gats –  Cesp di Bologna: http://www.cespbo.it/testi/controlessico/gats.htm 

40) Roberto Renzetti – La scuola sotto attacco – Giornale di Storia Contemporanea, Anno VII n. 2, Dicembre 2004. http://www.fisicamente.net/index-668.htm

41) Giulio Ferroni – La scuola sospesa – Einaudi 1997.

42) Fondazione Agnelli – A lavorare si impara – SEI 1981.

43) G. Gozzer – Il capitale invisibile. L’epoca dei ripensamenti 1977-1980 – Armando 1980.

44) Roberto Mazzetti – Quale scuola secondaria ? – Armando 1977.

45) Roberto Renzetti – La scuola pubblica ovvero “la scuola dell’ignoranza” – http://www.fisicamente.net/index-94.htm 

46) L. Russo – Segmenti e bastoncini – Feltrinelli 1997.

47) M. Bontempelli – L’agonia della scuola italiana – CRT Pistoia 2000.



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