IL GIOVANE GALILEO 2

PARTE II: Gli anni padovani

Roberto Renzetti

(2009)

PREMESSA: UN’INVISIBILE STORIA PARALLELA

         Abbiamo visto che Galileo, nell’agosto del 1592, si recò a Venezia per gestire da vicino la sua nomina a lettore a Padova. E’ suggestivo andare a vedere alcune altre date che si sovrappongono a questo periodo di attività di Galileo. L’estate dell’anno precedente, durante la Fiera del libro di Francoforte, due librai che operavano a Venezia, Ciotti e Brittano, conobbero Giordano Bruno che si trovava lì per propagandare i suoi libri. Nella libreria veneziana di Ciotti, un commerciante arricchito, Giovanni Mocenigo, aveva acquistato un libro di Bruno, il De minimo. Saputo che Ciotti conosceva Bruno, lo incaricò di consegnare al filosofo nolano una sua lettera con la quale gli offriva un lavoro presso la sua casa con il fine principale di insegnargli «li secreti della memoria e li altri che egli professa, come si vede in questo suo libro», poiché Bruno era, tra l’altro, famoso per avere sviluppato l’arte della memoria. Bruno accettò e, dopo un breve passaggio a Venezia nell’agosto del 1591, si recò a Padova da un suo amico di Helmsted, che era stato suo segretario e copista, per tenere alcune lezioni agli studenti tedeschi che frequentavano lo Studio della città e per tentare di ottenere il lettorato di matematica vacante dal 1588 (quello che sarà occupato l’anno successivo da Galileo). Le lezioni erano di argomento matematico e saranno pubblicate solo nel 1964 sotto il titolo di De vinculis,  De sigillis Hermetis et Ptolomaei et aliorum (opera perduta), Praelectiones geometricae e Ars deformationum.

        A novembre Besler tornò in Germania e Bruno a Venezia dove solo nel marzo del 1592 si recò a casa di Mocenigo. Evidentemente Bruno non gradì quel personaggio ed il 21 maggio gli chiese di poter tornare a Francoforte per curare alcuni suoi interessi. Mocenigo immaginò volesse andarsene definitivamente ed il 23 maggio lo denunciò per iscritto al Tribunale veneziano dell’Inquisizione con una montagna di accuse riassumibili in eresia. Durante la notte tra il 23 ed il 24 maggio Bruno fu arrestato ed imprigionato nelle carceri di San Domenico di Castello dove, il 26 maggio 1592, subì il primo di sei interrogatori, l’ultimo dei quali il 30 luglio. Nel processo veneziano le cose sembrano mettersi bene per il nostro che è disposto ad abiurare tutto ciò che gli viene imputato. Ma Roma era vigilante ed immediatamente, nell’agosto, chiese l’estradizione. All’inizio la Repubblica resistette ma poi dovette cedere ed il 7 gennaio 1593 il Senato veneziano approvò l’estradizione di Bruno a Roma che divenne esecutiva il 19 febbraio. Bruno arrivò a Roma il 27 febbraio e fu subito rinchiuso nel Palazzo Pucci, sede del S. Uffizio. E qui iniziarono le tragiche e criminali vicende del processo e della condanna al rogo per quella grande intelligenza italiana. Non mi occuperò qui della vicenda di Bruno perché l’ho ampiamente fatto altrove, ma ho voluto solo ricordare questa sua parentesi tra Venezia e Padova che coincide quasi con gli spostamenti di Galileo. Il fine a me pare evidente: quella vicenda non doveva essere ignota a nessuno in quell’epoca e tanto meno ai nobili e dotti che frequentava e frequenterà Galileo, tra i quali vi era anche il cardinale Roberto Bellarmino che sarà l’accusatore principale di Bruno dal 1597 al rogo. Eppure, non vi è traccia di Giordano Bruno nelle corrispondenze, nei documenti, in qualcosa che possa far capire almeno il disprezzo che si aveva per lui. Solo silenzio. Le ipotesi sono due. O la paura era grandissima tanto da far sì che nessuno azzardasse nominare quel nome, o sono stati fatti sparire tutti i documenti che riguardavano quella vicenda. In definitiva si dovrà tener conto che, dietro a quanto ora racconterò, tornando a Galileo, ha come telone di fondo questa tragica ed intimidatoria storia. Per completezza devo dire che il libro di James Reston, pieno però di invenzioni ad uso romanzo per il grande pubblico statunitense, fa l’ipotesi che l’amico Pinelli di Galileo, avesse conosciuto e fors’anche frequentato non solo Giordano Bruno ma altri due eretici: Tommaso Campanella e Marcantonio de Dominis.

PROFESSORE DI MATEMATICA A PADOVA

          Come abbiamo visto nella Prima Parte di questo lavoro, il 26 settembre del 1592, quando aveva 28 anni, Galileo fu assunto come lettore di matematica presso lo Studio di Padova.

        Nel precedente articolo avevamo fatto cenno all’ambiente culturale di Pisa, vediamo ora cosa trovava Galileo a Padova. Il suo anfitrione era quel Giovanni Vincenzo Pinelli (1535-1601), di origine napoletana, umanista, botanico, bibliofilo e collezionista di strumenti scientifici, che aveva conosciuto tramite Guidobaldo del Monte. Pinelli era un riferimento culturale importante nell’intero Veneto e la casa che abitava a Padova, di proprietà del vescovo Leonardo Mocenigo e restaurata dal Palladio, era un vero e proprio cenacolo per le persone colte non solo italiane ma dell’intera Europa. Tra i frequentatori di casa Pinelli vi erano: il cardinale Cesare Baronio (1538-1607) noto come storico, al quale, in occasione del primo processo a Galileo, è attribuita la frase La Bibbia ci dice come andare al cielo non come va il cielo; il cardinale gesuita e teologo Roberto Bellarmino (1542-1621), che era stato studente del Collegio Romano, condiscepolo di Cristoforo Clavio ed accusatore di Giordano Bruno [e futuro inquisitore dello stesso Galileo nel processo del 1616]; lo scrittore Torquato Tasso (1544-1595) che Galileo considerava squallido, povero e miserabile; il filosofo e filologo fiammingo Giusto Lipsio (1547-1606); il poeta scozzese Thomas Seghet che era stato allievo di Lipsio a Lovanio; l’umanista e filologo Erycius Puteanus (1574-1646) anch’egli proveniente dall’Università di Lovanio; l’astronomo francese Nicolas-Claude Fabri de Peiresc (1580-1637) personaggio di grandi aperture culturali, scientifiche e politiche; il matematico ed uomo di scienza croato Marino Ghetaldi (1558-1626) che fu anche allievo di Clavio; Mark Welser (1558-1614) politico e banchiere tedesco vicino alle posizioni dei gesuiti, particolarmente di Clavio, che sarà un personaggio di rilievo nella disputa sulle macchie solari. Ed oltre ai frequentatori, Pinelli aveva molti amici nella Padova colta che fece conoscere a Galileo. Tra di essi: il parroco  ed editore Martino Sandelli (circa 1560 – 1631); il parroco ed appassionato antiquario di cose egizie Lorenzo Pignoria (1571-1631); l’arciprete della cattedrale e vicario della diocesi Paolo Gualdo (1553-1621); il poeta umanista e molto addentro nel mondo delle gerarchie vaticane Antonio Querenghi (1546-1633), la casa del quale, dopo la morte di Pinelli del 1601, divenne il nuovo luogo degli incontri dei dotti amici e conoscenti di Galileo. Oltre a questi influenti e dotti personaggi padovani vi erano quelli veneziani che influirono molto di più su Galileo: il religioso servita, teologo consultore della Serenissima Paolo Sarpi (1552-1623) che, a Venezia, nella casa di Andrea Morosini (1558-1618), conobbe Giordano Bruno, che passò sotto accuse di eresia per essersi opposto alle invadenze vaticane di Paolo V su Venezia reato per il quale subì un tentativo di omicidio: «circa le 23 ore, ritornando il padre al suo convento di San Marco a Santa Fosca, nel calare la parte del ponte verso le fondamenta, fu assaltato da cinque assassini, parte facendo scorta e parte l’essecuzione, e restò l’innocente padre ferito di tre stilettate, due nel collo et una nella faccia, ch’entrava all’orecchia destra et usciva per apunto a quella vallicella ch’è tra il naso e la destra guancia, non avendo potuto l’assassino cavar fuori lo stillo per aver passato l’osso, il quale restò piantato e molto storto»; l’altro servita, che successe come teologo e canonista della Serenissima dopo la morte di Sarpi,  e suo biografo, Fulgenzio Micanzio (1570 – 1654) che aiutò Galileo nei momenti avversi ed in particolare a far uscire il manoscritto dei Discorsi e dimostrazioni matematiche verso l’Olanda; l’umanista, politico, militare, diplomatico e uno dei Riformatori dello Studio di Padova e Procuratore della basilica di San Marco Sebastiano Venier (1572-1640);  lo studente privato di Galileo, poi appassionato di scienza che praticò Giovan Francesco Sagredo (1571-1620) che sarà legato da profonda amicizia con Galileo che lo farà personaggio centrale del suo Dialogo. Oltre a tutti questi personaggi, Galileo ebbe a che fare con i suoi colleghi d’università, alcuni dei quali vanno ricordati: il peripatetico Cesare Cremonini (1551-1631) che insegnava filosofia e che sarà uno di quelli che rifiuterà di guardare nel telescopio; il gesuita aristotelico e concordista (conciliare Platone con Aristotele) Francesco Piccolomini (1582-1651) che si dilettava a scrivere con diversi pseudonimi operette platoniche per i suoi studenti progressisti, anch’esso docente di filosofia; il mediocre logico aristotelico e concordista seguace di Piccolomini, Bernardino Petrella. Anche in questo Studio, quindi, il clima era di completa chiusura verso qualunque novità, anche se lo Studio medesimo vantava una sua laicità ed indipendenza dalla Chiesa di Roma. Tanto è vera quest’ultima proposizione che in quella città, contrariamente ad altre in Italia, poterono studiare dei protestanti tedeschi senza alcuna discriminazione. Il tutto nasceva per l’invadenza dei gesuiti che avevano fondato un loro Collegio per l’insegnamento secondario fin dal 1542 con docenti di alto livello (anche Maurolico). Fin qui tutto andò senza problemi ma piano piano i gesuiti estesero i loro insegnamenti a discipline che erano universitarie sottraendo studenti allo Studio, il quale il Senato della Repubblica aveva assicurato il monopolio degli insegnamenti universitari. L’episodio che fece infuriare lo Studio fu la proibizione agli studenti del Collegio di frequentare i loro colleghi dello Studio. I docenti di quest’ultimo si rivolsero al Senato perché risolvesse la questione ed il Senato il 23 dicembre 1591 decretò la proibizione degli insegnamenti universitari ai gesuiti del Collegio.

        A parte quindi l’ambiente universitario, le prospettive di dialogo in Padova e Venezia erano di gran lunga più eccitanti che non a Pisa. Inoltre vi era l’elevata frequenza di studenti di ogni parte all’Università che era una importantissima motivazione per un  giovane docente come Galileo. Sta di fatto che, in una lettera del 1640 al medico e filosofo aristotelico Fortunio Liceti (1577-1657), Galileo dirà che gli anni padovani saranno li diciotto anni migliori di tutta la mia età.

        Dopo la prolusione inaugurale del 7 dicembre alla presenza di un folto pubblico entusiasta, i corsi ordinari di Galileo iniziarono il 13 dicembre del 1592 e gli argomenti in programma, non dissimili da quelli insegnati a Pisa, erano: gli Elementi di Euclide,le Meccaniche di Aristotele, il Tractatus de sphaera (circa 1230)dell’astronomo ed astrologo Giovanni Sacrobosco (o John of Holywood, 1195-1256) e da ultimo quello della Theoria Planetarum (verosimilmente quella attribuita al matematico ed astronomo Campano da Novara, 1220-1296) che, come osserva Garin, diventa fondamentale fino a prendere il posto della filosofia. I corsi di Galileo risultarono molto frequentati e l’amico Guidobaldo che vegliava su Galileo lo venne a sapere ed il 10 gennaio 1593 se ne felicitò con Galileo.

        Oltre agli studenti dello Studio, Galileo ne curò moltissimi in privato e la pratica era normalissima e diffusissima. Le lezioni private, per pura voglia di apprendere e migliorare la propria formazione, furono dapprima a domicilio dello studente ma, quando Galileo si fu sistemato, divennero presso il suo domicilio che accettava anche dei pensionati, molti dei quali stranieri.

        La sua posizione di tecnico all’Università lo mise in contatto con autorità venete per la risoluzione di vari problemi. Uno di questi gli fu proposto dal Provveditore dell’Arsenale di Venezia, Giacomo Contarini (1536-1596) che gli pose il problema della migliore sistemazione su una galera degli scalmi (dove appoggiano i remi). Se era più conveniente che fossero sul bordo della nave o sporgenti verso l’esterno. Il problema era affrontato nel testo più diffuso all’epoca, le Quaestiones Mechanicae all’epoca attribuite ad Aristotele, nel quale, rispondendo al perché i rematori al centro della nave danno un maggior contributo al suo spostamento, si sosteneva che ciò discendeva dallo scalmo che era il fulcro del sistema. In conseguenza veniva a Galileo la domanda di Contarini. Ad essa Galileo rispondeva in modo articolato in un punto che lo vedeva grande esperto, la leva. La lettera a Contarini è del 22 marzo 1593 ed in essa si diceva(1):

[…] Quanto al far maggiore o minor forza, nel pingere avanti il vassello, 1’essere il remo posato sul vivo o fuori, non fa differenza, sendo tutte 1’altre circostanze le medesime: et la ragione è, che sendo il remo quasi una leva, tutta volta che la forza, il sostegno et la resistenza la divideranno nella medesima proporzione, opererà col medesimo vigore; et questa è propositione universale et invariabile. Et io non credo che dal far le ale alla galera si cavi altra comodità, che l’ haver piazza più capace per i soldati et per i forzati, i quali forzati non si potrebbono accomodare 4 o 5 per remo, et massime verso la poppa et la prua, se non vi fossero le ale: ma che quando e si potessero accomodare a vogare tanto nell’un modo quanto nell’ altro, il posar lo schermo sul vivo o fuori faccesse differenza alcuna, io non lo credo a patto alcuno, stando però il remo sempre diviso nella medesima proporzione; nè io veggo che la voga si possa impedire o agevolare da altro che dal porre lo schermo più lontano dal girone o più vicino: et quanto più sarà vicino tanto maggior forza si potrà fare: et la ragione è questa, la quale forse non è stata tocca da altri. Il remo non è una semplice leva come le altre, anzi ci è gran differenza in questo: che la leva ordinariamente deve havere mobili la forza et la resistentia, et ìl sostegno fermo; ma nella galera tanto si muove il sostegno, quanto la resistenza et la forza: dal che ne séguita che il medesimo sia sostegno et resistenza, per ciò che in quanto la pala del remo si appunta nell’aqqua, viene l’aqqua ad esser sostegno, et la resistenza lo schermo; ma quanto 1’aqqua vien ancor essa mossa dal remo, in tal caso essa è resistenza, et lo schermo è sostegno. Et perchè quando il sostegno è immobile, tutta la forza si applica a muover la resistenza, se si accomoderà il remo tanto che 1’aqqua venga quasi che immobile, all’ hora la forza si impiegherà quasi tutta a muovere il vassello; et per il contrario, se il remo sarà talmente situato che l’aqqua venga facilmente mossa dalla palmula, all’ hora non si potrà far forza in muovere la barca: et perchè quanto più la parte della lieva verso la forza è lunga, tanto più facilmente si muove la resistenza, quando la parte del girone sarà assai lunga, tanto più facilmente l’aqqua verrà mossa, et per ciò il suo sostegno sarà più debole, et il vassello meno si spingerà; per l’opposito, quando la medesima parte tra lo schermo et la forza sarà più corta, all’ hora l’aqqua più difficilmente potrà dalla palmula esseI’ mossa, et per conseguenza, in quanto la mi serve per sostegno, sarà più salda, et il vassello si potrà con più forza spingere. Però si conclude, che quanto lo schermo è più vicino al girone, tanto più forza si può fare in spingere il vassello, non potendo l’aqqua così facilmente esser mossa con la palmula molto lontana dallo schermo dalla forza vicina. al medesimo schermo; et però in tal caso l’aqqua fa più l’ offizio del sostegno, che della resistenza: et tutto questo è manifestissimo per l’esperienza. Non sendo dunque altra cosa che possa arrecar comodo o incomodo alla voga che l’essere lo schermo più lontano o più vicino alla forza, io non dubito punto che in questo il porre lo schermo sul vivo o fuori non faccia differenza alcuna. […]

Galileo spiegava in questo modo che non c’entra nulla la posizione dello scalmo, a parte il dar maggiore o minore spazio e far stare più o meno comodi i forzati, il problema principale è a che distanza lo scalmo è posto rispetto alla forza agente ed a quella resistente. Quindi, affinché la leva agisse al meglio era necessario che lo scalmo si trovasse il più vicino possibile alla forza agente (rematore).

        Contarini, con una lunga lettera(2), si mostrò molto soddisfatto e, vista la competenza di Galileo, gli propose molte osservazioni che erano in realtà nuove domande o richieste di pareri. Ed il tutto dovette avere un seguito come si ricava da alcune lettere di Galileo a Giovanni Campoli del 1924-1925, in cui si parla di uno scritto di Galileo sul timone che era un remo. Ma gli scritti ed i documenti sono andati perduti.

        Altro consulto che ebbe Galileo è del tutto differente riguardando la ricostruzione di una lampada ad olio della quale si aveva notizia dallo Spiritalium Liber di Erone d’Alessandria, dal 1575 tradotto dal greco al latino da Federico Commandino. La notizia era vaga ed era stato chiesto a Galileo di interpretare il passo. L’11 gennaio del 1594 Galileo rispondeva(3) al comandante della fortezza di Palmanova in Friuli, Alvise Mocenigo, che era interessato a tale lampada per l’illuminazione della fortezza, fornendogli la spiegazione del brano confuso di Erone ed allegando anche un disegno della lampada.

        Come accennato, quindi, in questo periodo Galileo si occupava, perché richiesto, di varie questioni tecniche. Nel 1594 ottenne anche il riconoscimento degli uffici deputati della Repubblica (una sorta di brevetto ventennale) di una sua macchina per sollevare acqua, macchina che sarà successivamente installata nei giardini della famiglia Contarini. Ed una serie di altre  realizzazioni che gli chiedeva il suo amico Sagredo: il 17 gennaio 1602 la richiesta è di «due stromenti da far viti» e di «una macchinetta, con una ruota d’avorio, con la vite perpetua incavata» (E.N. X, pag. 86); l’8 agosto 1602 chiedeva come realizzare l’armatura di calamite «onde haverò bisogno della presenza di V.S. Ecc.ma» (E.N. X, pag. 89); il 28 agosto il discorso va su una specie di trapano che serve per incavare «li denti delle ruote per le viti perpetue» (E.N. X, pag. 90). Vi erano poi le esigenze delle sue lezioni private che in gran parte vertevano su problemi pratici e spesso militari in quanto frequentate da nobili che avrebbero avuto nella carriera militare il loro futuro. Vi sono due trattati di Galileo su tali argomenti, il Trattato di fortificazione(4) e la Breve Istruzione all’architettura militare(5) (non certamente con carattere di originalità). Ambedue sono pervenuti in copia manoscritta non originale di Galileo. Ciò è dovuto al fatto che si trattava di dispense da consegnare ai suoi studenti privati, dispense redatte da un emanuense al servizio di Galileo. Il primo tra i due potrebbe anche essere la trascrizione del contenuto di alcune lezioni che Galileo tenne pubblicamente il suo primo anno di insegnamento allo Studio. Altre richieste degli studenti privati riguardavano le arti meccaniche, anch’esse importanti per la carriera militare ed anche su questo argomento, come vedremo, Galileo scrisse. A tal proposito scriveva il Viviani che Galileo, durante la sua permanenza a Padova:

inventò varie macchine in servizio della medesima Republica, con suo grandissimo onore et utile insieme, come dimostrano gl’amplissimi privilegi ottenuti da quella; et a contemplazione de’ suoi scolari scrisse allora vari trattati, tra’ quali uno di fortifìcazione, secondo l’uso di quei tempi, uno di gnomonica e prospettiva pratica, un compendio di sfera, et un trattato di meccaniche, che va attorno manuscritto, e che poi nel 1634, tradotto in lingua franzese, fu stampato in Parigi dal Padre Marino Mersennio, e ultimamente nel 1649 publicato in Ravenna dal Cav.r Luca Danesi: trovandosi di tutti questi trattati, e di molti altri, più copie sparse per l’Italia, Germania, Francia, Inghilterra et altrove, trasportatevi da’ suoi medesimi discepoli, la maggior parte senza l’inscrizione del suo nome, come fatiche delle quali ei non faceva gran conto, essendo di esse tanto liberale donatore quanto fecondo compositore.

        Ancora in quest’ambito di scritti tecnici va annoverata la sua invenzione, che vedremo più in dettaglio, di uno strumento per calcolare. Ma scrisse anche Diversi modi per misurar con la vista ed inventò strumenti per l’artiglieria basati sulla “squadra” di Tartaglia (1596). Più in generale per tutta la sua vita Galileo prestò attenzione alla tecnica e ciò gli proveniva dalle sue umili origini che lo avevano portato a vagare per le strade delle città in cui aveva vissuto ed osservare l’attività degli artigiani che erano i veri e nuovi motori del cambiamento nella concezione del mondo che si ebbe tra Rinascimento e Barocco. A riprova di ciò, Galileo arrivato a Venezia, rimase molto colpito dall’Arsenale e dalla mole di lavori e macchine (torni, verricelli, piani inclinati, rulli, carrucole, … ) che lì poté osservare e seguire. Questo luogo, come scrisse nei Discorsi, sapeva offrire largo campo di filosofare a gl’intelletti specolativi (E.N. VIII, pag. 49). Non è un caso che nel 1599 egli sentì il bisogno di annettere, vicina alla sua casa di Padova, una officinetta meccanica, curata da un artigiano-meccanico stabilmente al suo servizio, Marcantonio Mazzoleni ( ? – 1632), al fine di realizzare sia gli strumenti per le sue ricerche sia quelli da vendere per arrotondare il sempre magro bilancio famigliare. Il volume VIII dell’Edizione Nazionale della sua opera, a partire da pagina 571, riporta una serie di scritti di Galileo di data incerta tutti chiaramente di carattere tecnico: Intorno agli effetti degl’istrumenti meccanici, A proposito di una macchina per pestare, Di alcuni effetti del contatto e della confricazione, Sopra le scoperte de i dadi, Intorno la cagione del rappresentarsi al sennso fredda o calda la medesima acqua a chi vi entra asciutto o bagnato, cui seguono dodici Problemi e vari frammenti.

        E’ utile soffermarsi su due scritti di Galileo di contenuto tecnico, quelli annunciati sulla Meccanica e sullo strumento per calcolare.

LE MECANICHE

          Tra il 1593 ed il 1594 Galileo scrisse delle dispense di meccanica, Le mecaniche(6), anch’esse come accennato ad uso sia militare che civile dei suoi studenti privati. L’opera ebbe successive redazioni e l’opera più matura è probabilmente quella redatta tra il 1598 ed il 1602, anni in cui egli trattò le Quaestiones Mechanicae,all’epoca attribuite ad Aristotele (oggi di Pseudo Aristotele), nei suoi corsi presso lo Studio (le questioni pratiche come l’astronomia a fini astrologici e la meccanica venivano scaricate sui matematici perché i filosofi aristotelici non si degnavano di sporcarsi le mani con tali sciocchezze). L’opera manoscritta in più copie circolava come le altre e, come raccontava Viviani, dopo la sua pubblicazione  nel 1634 in traduzione in francese da parte di Padre Marsenne, fu pubblicata solo nel 1649. Nasceva certamente per scrivere qualcosa di diverso dalle Quaestiones Mechanicae con ispirazione ed argomenti archimedei. L’opera tratta quegli argomenti che vanno oggi sotto il nome di macchine semplici e, nella loro trattazione, Galileo estese il principio delle velocità virtuali, già utilizzato da Guidobaldo del Monte nel suo Mechanicorum liber del 1577 (tradotto in volgare nel 1581), allo studio delle leve e delle pulegge, alle indagini sui piani inclinati e su tutte le altre macchine collegate. L’indice dell’opera è il seguente:

  • Delle utilità che si traggono dalla scienza mecanica e dai suoi instrumenti
  • Diffinizioni
  • Alcuni avvertimenti circa le cose dette
  • Della stadera e della leva
  • Dell’asse nella ruota e dell’argano
  • Delle taglie
  • Della vite
  • Della coclea d’Archimede per levar l’acqua
  • Della forza della percossa

Ci si può chiedere qual è la novità dell’approccio galileiano rispetto ai precedenti. Non vi è dubbio che ne Le mecaniche ci troviamo di fronte all’inizio di un’indagine scientifica che si va a sostituire all’osservazione empirica. Il ragionamento sostituisce  le conclusioni intuitive basate sull’osservazione non sottomessa a trattamento teorico. Per fare una sola esemplificazione, mentre nello Pseudo Aristotele leggiamo che un corpo si arresta quando la forza che lo spinge cessa la sua azione, in Galileo troviamo che un corpo libero nello spazio sul quale non agisca alcuna forza continua a muoversi a velocità costante in linea retta. Siamo cioè di fronte al superamento completo del dato empirico con l’introduzione di astrazioni che rendono conto del dato sperimentale in modo più completo e generale.

        L’opera inizia con un concetto tanto famoso quanto fondamentale:

DELLE UTILITÀ CHE SI TRAGGONO DALLA SCIENZA MECANICA E DAI SUOI INSTRUMENTI.

Degno di grandissima considerazione mi è parso, avanti che discendiamo alla speculazione delli strumenti mecanici, il considerare in universale, e di mettere quasi inanzi agli occhi, quali siano i commodi, che dai medesimi strumenti si ritraggono: e ciò ho giudicato tanto più doversi fare, quanto (se non m’inganno) più ho visto ingannarsi l’ universale dei mecanici, nel volere a molte operazioni, di sua natura impossibili, applicare machine, dalla riuscita delle quali, ed essi sono restati ingannati, ed altri parimente sono rimasti defraudati della speranza, che sopra le promesse di quelli avevano conceputa. Dei quali inganni parmi di avere compreso essere principalmente cagione la credenza, che i detti artefici hanno avuta ed hanno continuamente, di potere con poca forza muovere ed alzare grandissimi pesi, ingannando, in un certo modo, con le loro machine la natura; instinto della quale, anzi fermissima constituzione, è che niuna resistenza possa essere superata da forza, che di quella non sia più potente. La quale credenza quanto sia falsa, spero con le dimostrazioni vere e necessarie, che averemo nel progresso, di fare manifestissimo.

        Ancora oggi occorre avvertire delle persone, anche presumibilmente colte, sul fatto che la natura non si fa ingannare e non regala nulla. Che nessuna macchina è in grado di produrre forze e naturalmente non le può moltiplicare. La macchina può solo trasformare tali forze e noi dobbiamo sapere che tutto ciò che si guadagna in forza è solo un guadagno apparente perché lo paghiamo in velocità e tempo (con qual proporzione si diminuisce la fatica del movente, se gli accresce all’incontro lunghezza nel viaggio(7)). Una forza cioè non può mai vincere una resistenza superiore; si può invece con l’ausilio di una macchina suddividere una resistenza (come un peso) in parti più piccole ed agire successivamente su ciascuna di esse con una forza più piccola dell’intera resistenza in grado però di vincere quella parte di essa. Ripetendo più volte il processo si riesce a vincere quella grande resistenza che prima non riuscivamo(8)

Tra tanto, poichè si è accennato, la utilità, che dalle machine si trae, non essere di potere con piccola forza muovere, col mezzo della machina, quei pesi, che senza essa non potriano dalla medesima forza esser mossi, non sarà fuori di proposito dichiarare, quali siano le commodità, che da tale facoltà ci sono apportate: perchè, quando niuno utile fusse da sperarne, vana saria ogni fatica che nell’ acquisto suo s’impiegasse.
Facendo dunque principio a tale considerazione, prima ci si fanno avanti quattro cose da considerarsi: la prima è il peso da trasferirsi di luogo a luogo; la seconda è la forza o potenza, che deve muoverlo; la terza è la distanza tra l’uno e l’altro termine del moto; quarta è il tempo, nel quale tal mutazione deve esser fatta; il qual tempo torna nell’ istessa cosa con la prestezza e velocità del moto, determinandosi, quel moto essere di un altro più veloce, che in minor tempo passa eguale distanza. Ora, assegnata qual si voglia resistenza determinata, e limitata qualunque forza, e notata qual si voglia distanza, non è dubbio alcuno, che sia per condurre la data forza il dato peso alla determinata distanza; perciò che, quando bene la forza fusse picciolissima, dividendosi il peso in molte particelle, ciascheduna delle quali non resti superiore alla forza, e transferendosene una per volta, arà finalmente condotto tutto il peso allo statuito termine: nè però nella fine dell’operazione si potrà con ragione dire, quel gran peso esser stato mosso e traslato da forza minore di sè, ma sì bene da forza la quale più volte averà reiterato quel moto e spazio, che una sol volta sarà stato da tutto il peso misurato. Dal che appare, la velocità della forza essere stata tante volte superiore alla resistenza del peso quante esso peso è superiore alla forza; poichè in quel tempo nel quale la forza movente ha molte volte misurato l’intervallo tra i termini del moto, esso mobile lo viene ad avere passato una sol volta; nè per ciò si deve dire, essersi superata gran resistenza con piccola forza, fuori della constituzione della natura. Allora solamente si patria dire, essersi superato il naturale instituto, quando la minor forza trasferisse la maggiore resistenza con pari velocità di moto, secondo quale essa camina; il che assolutamente affermiamo essere impossibile a farsi con qual si voglia machina, immaginata o che immaginar si possa.

        Galileo sta dicendo che se vi sono 1000 kg da spostare da un luogo ad un altro, nessuno può farlo con la sua forza; ma se portiamo 10 kg per volta, facendo 100 viaggi, riusciamo nell’operazione. Con la nostra forza abbiamo vinto una resistenza più grande ma a spese del maggior tempo impiegato e del maggiore spazio percorso. Naturalmente Galileo ha ben presente che spesso quei 1000 kg non sono ripartibili in pesi più piccoli e dice che questa operazione di riduzione fittizia del dato peso è fatta da opportune macchine. Galileo aggiunge poi il fatto che alcune volte possiamo servirci di forze che ci offre la natura, come l’energia degli animali o la corrente dei fiumi. E’ una importante anticipazione dell’impossibilità del moto perpetuo, di quel tormento che infligeranno per secoli i cercatori dei moti perpetui. Ciò era sommamente importante in un’epoca in cui pullulavano ciarlatani, imbonitori, imbroglioni, avventurieri, alchimisti, maghi, falsari, profeti, … che vivevano ingannando il prossimo offrendo invenzioni mirabolanti e sostituendosi a bravi artigiani, meccanici ed architetti che realizzavano macchine eccellenti, comode, utili ed anche economicamente vantaggiose, ma senza la pretesa dell’inganno alla natura. Prima di passare oltre, Galileo trovò qualche parola per attaccare i poco intendenti ingegneri mentre si vogliono applicare a imprese impossibili. Il riferimento è a quel Giovani de’ Medici con le sue sciagurate opere di sistemazione della darsena di Livorno, all’origine tra l’altro della sua necessità di andarsene da Pisa.

        Fin qui siamo alle premesse del lavoro, alle quali seguono subito tre Definizioni che saranno propedeutiche alla seguente elaborazione di Galileo: quella di gravità, quella di momento, quella di centro di gravità(9).

        Quello che in tutte le scienze demostrative è necessario di osservarsi, doviamo noi ancora in questo trattato seguitare: che è di proporre le diffinizioni dei termini proprii di questa facilità, e le prime supposizioni, delle quali, come da fecondissimi semi, pullulano e scaturiscono consequentemente le cause e le vere demonstrazioni delle o proprietà di tutti gl’instrumenti mecanici. I quali servono per lo più intorno ai moti delle cose gravi; però determineremo primamente quello che sia gravità.
Adimandiamo adunque gravità quella propensione di muoversi naturalmente al basso, la quale, nei corpi solidi, si ritrova cagionata dalla maggiore o minore copia di materia, dalla quale vengono constituiti.
Momento è la propensione di andare al basso, cagionata non tanto dalla gravità del mobile, quanto dalla disposizione che abbino tra di loro diversi corpi gravi; mediante il qual momento si vedrà molte volte un corpo men grave contrapesare un altro di maggior gravità: come nella stadera si vede un picciolo contrapeso alzare un altro peso grandissimo, non per eccesso di gravità, ma sì bene per la lontananza dal punto donde viene sostenuta la stadera; la quale, congiunta con la gravità dei minor peso, gli accresce momento ed impeto di andare al basso, col quale può eccedere il momento dell’altro maggior grave. È dunque il momento quell’impeto di andare al basso, composto di gravità, posizione e di altro, dal che possa essere tal propensione cagionata.
Centro della gravità si diffinisce essere in ogni corpo grave quel punto, intorno al quale consistono parti di eguali momenti: sì che. imaginandoci tale grave essere dal detto punto sospeso e sostenuto, le parti destre equilibreranno le sinistre, le anteriori le posteriori, e quelle di sopra quelle di sotto; sì che il detto grave, così sostenuto, non inclinerà da parte alcuna, ma, collocato in qual si voglia sito e disposizione, purché sospeso dal detto centro, rimarràsaldo. E questo è quel punto, il quale anderebbe ad unirsi col centrouniversale delle cose gravi, ciò è con quello della terra, quando in qualche mezzo libero potesse descendervi.

Premesso che per Galileo la gravità non ha il significato di forza che oggi gli diamo ma solo quello di tendenza, la vera novità qui, come tutti gli storici sottolineano, è l’introduzione del concetto di momento legato al concetto di centro di gravità che Galileo aveva acquisito da Federico Commandino che aveva definito il centro di gravità utilizzando il momento nel modo seguente:

Il centro di gravità è quel punto di un solido  attorno al quale sono disposte parti di momento uguale.

Ed il momento in Galileo diventava qualcosa con un significato più grande o, almeno, meglio definito (una definizione più articolata e completa di momento la si troverà nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua del 1612) (10). Lo diceva egli stesso nella sua esemplificazione: è quella proprietà per cui vedremo molte volte un corpo men grave pesare come uno grave, come accade in una stadera dove un piccolo peso ne equilibra uno grande. Galileo aveva in mente la leva che ruota intorno ad un fulcro e che, intorno a questo fulcro, si ha equilibrio non solo tra pesi uguali ma anche tra pesi diversi a distanze diverse dal fulcro medesimo. E per andare oltre introduceva un’ipotesi che egli poneva come facilmente accettabile: due pesi uguali sospesi in distanze eguali hanno il punto dell’equilibrio nel comune conginungimento di esse uguali distanze che equivale a dire che il centro della gravità di due corpi egualmente gravi è nel mezzo di quella linea retta, la quale li detti due centri congiunge. Dopo queste premesse Galileo riprendeva il concetto di momento per utilizzarlo in un comunissimo e principalissimo principio di buona parte degli strumenti meccanici. Scriveva Galileo che pesi diseguali pendenti da distanze diseguali peseranno egualmente, ogni volta che dette distanze abbino contraria proporzione di quella che hanno i pesi. Come osserva Drake, a noi verrebbe di uguagliare il prodotto di un peso per una distanza con un altro peso per un’altra distanza ma ciò non si usava all’epoca quando funzionavano solo rapporti e proporzioni (e non quantità assolute o algebriche) e ci si guardava dall’operare con grandezze non omogenee. Stabilito il principio, Galileo lo utilizzava in molte esemplificazioni di macchine, a partire da leve e bilance, passando poi all’asse della ruota, all’argano e a varie combinazioni di carrucole, arrivando a stabilire e ad applicare ad ognuna di queste macchine quello che oggi sappiamo essere il principio d’equilibrio di leve e bilance: i momenti di pesi diseguali vengono pareggiati dall’essere sospesi contrariamente in distanze che abbiano la medesima proporzione che vuol dire che esiste equilibrio quando vi è proporzionalità inversa tra il momento della potenza e quello della resistenza. Per ognuna delle macchine elencate Galileo mostrava che la legge cui obbedisce è la medesima, quella enunciata qualche riga più su (se si osserva con attenzione si vede che anche il disegno di tali macchine diventava unificante per Galileo).

        Diamo un’occhiata a qualche considerazione di Galileo. Iniziamo dalla bilancia a bracci disuguali. Egli scriveva(11):

Però che, considerisi la libra AB divisa in parti diseguali nel punto C, ed i pesi, della medesima proporzione che hanno le distanze BC, CA. alternatamente sospesi dalli punti A,B : è già manifesto come l’uno contrapeserà l’altro, e, per consequenza, come, se a uno di essi fusse aggiunto un minimo momento di gravità, si moverebbe al basso inalzando l’altro; sì che, aggiunto insensibile peso al grave B, si moveria la libra, discendendo il punto B verso E, ed ascendendo l’altra estremità A in D.

Bilancia a bracci disuguali

Considerando tali moti si può apprezzare che un ruolo importante lo gioca la velocità:

Ora, considerisi il moto che fa il grave B, discendendo in E, e quello che fa, l’altro A, ascendendo in D; e troveremo senza alcun dubbio, tanto esser maggiore lo spazio BE dello spazio AD, quanto la distanza BC è maggiore della C A; formandosi nel centro C due angoli, DCA ed E GB, eguali per essere alla cima, e, per conseguenza, due circonferenze, BE, AD, simili, e aventi tra di sé F istessa proporzione delli semidiametri B C, C A, dai quali vengono 10 descritte. Viene adunque ad essere la velocità del moto del grave B, discendente, tanto superiore alla velocità dell’altro mobile A, ascendente, quanto la gravita di questo eccede la gravita di quello; né potendo essere alzato il peso A in D, benché lentamente, se l’altro grave B non si muove in E velocemente, non sarà maraviglia, né alieno dalla costituzione naturale, che la velocità del moto del grave B compensi la maggior resistenza del peso A, mentre egli in D pigramente si muove e l’altro in E velocemente descende. E così, ali’ incontro, posto il grave A nel punto D e l’altro nel punto E, non sarà fuor di ragione che quello possa, calando tardamente in A, alzare velocemente l’altro in B, ristorando, con la sua gravita, quello che per la tardità del moto viene a perdere. E da questo discorso possiamo venire in cognizione, come la velocità del moto sia potente ad accrescere momento nel mobile, secondo quella medesima proporzione con la quale essa velocità di moto viene augumentata.

Queste considerazioni si possono estendere, come anticipato, ad ogni macchina. E così Galileo introduceva la stadera:

Stadera

la stadera, stromento usitatissimo, col quale si pesano diverse mercanzie, sostenendole, benché gravissime, col peso d’un picciolo contrapeso, il quale volgarmente adimandano romano, proveremo, in tale operazione nient’altro farsi, che ridurre in atto pratico quel tanto che di sopra abbiamo speculato. Imperò che, se intenderemo la stadera AB, il cui sostegno, altrimenti detto trutina, sia nel punto C, fuori del quale dalla piccola distanza CA penda il grave peso D, e nell’ altra maggiore CB, che ago della stadera si adomanda, discorra inanzi ed indietro il romano E, ancorché di piccol peso in comparazione del grave D, si potrà nulla di meno discostar tanto dalla trutina C, che qual proporzione si trova tra li due, gravi D, E, tale sia tra le distanze FC, CA; ed allora si farà l’equilibrio, trovandosi pesi ineguali alternamente pendenti da distanze ad essi proporzionali.

La stadera è un primo esempio del significato che Galileo dava ai momenti e, vista la sua larga applicazione nella vita quotidiana, non indugiava troppo in spiegazioni che vengono rimandate allo strumento che egli tragttava subito dopo legandolo strettamente al precedente, la leva:

Né questo instrumento [la stadera] è differente da quell’altro, che vette e, volgarmente, lieva si adimanda; col quale sì muovono grandissime pietre ed altri pesi con poca forza. L’applicazione del quale è secondo la figura posta qui appresso: dove la lieva sarà notata per la stanga, di legno o altra salda materia, BCD; il grave peso da alzarsi sia A; ed un fermo appoggio o sostegno, sopra il quale calchi e si muova la lieva, sia notato E.

La leva (vette o lieva)

E sottoponendo al peso A una estremità della lieva, come si vede nel punto B, gravando la forza nell’altra estremità D, potrà, ancorché poca, sollevare il peso A, tutta volta che qual proporzione ha la distanza BC alla distanza CD, tale abbia la forza posta in D alla resistenza che fa il grave A sopra il punto B. Per lo che si fa chiaro, che quanto più il sostegno E si avvicinerà ali’ estremità B, crescendo la proporzione della distanza D C alla distanza GB, tanto si potrà diminuire la forza in D per levare il peso A.
E qui si deve notare (il che anco a suo luogo si ‘anderà avvertendo intorno a tutti gli altri strumenti mecanici), che la utilità, che si trae da tale strumento, non è quella che i volgari mecanici si persuadono, ciò è che si venga a superare, ed in un certo modo ingannare, la natura, vincendo con piccola forza una resistenza grandissima con l’intervento del vette;

La schematizzazione della leva

perché dimostreremo, che senza l’aiuto della lunghezza della lieva si saria, con la medesima forza, dentro al medesimo tempo, fatto il medesimo effetto. Imperò che, ripigliando la medesima lieva BCD, della quale sia C il sostegno, e la distanza C D pongasi, per essempio, quintupla alla distanza GB, e mossa la lieva I sin che pervenga al sito ICG, quando la forza avrà passato lo spazio DI, il peso sarà stato mosso dal B in G; e perché la distanza DC si è posta esser quintupla dell’ altra C B, è manifesto, dalle cose dimostrate, potere essere il peso, posto in B, cinque volte maggiore della forza movente, posta in D.

Galileo ribatteva sempre sullo stesso concetto e mostrava che ogni macchina funziona sempre non solo confrontando potenze con resistenze ma resistenze con momenti che cambiano a seconda di leve inserite:

Ed insomma il commodo, che si acquista dal benefizio della lunghezza della lieva CD, non è altro che il potere muovere tutto insieme quel corpo grave, il quale dalla medesima forza, dentro al medesimo tempo, con moto eguale, non saria, se non in pezzi, senza il benefizio del vette, potuto condursi.

E sempre sul principio della leva funzionano sia l’asse della ruota che l’argano le quali macchine, nelle parole di Galileo, sono una leva perpetua:

Gli due strumenti, la natura dei quali siamo per dichiarare al presente, dependono immediatamente dalla lieva, anzi non sono altro che un vette perpetuo. Imperò che se intenderemo la lieva BAC sostenuta nel punto A, ed il peso G pendente da punto B, essendo la forza posta in C, è manifesto che, trasferendo la lieva nel sito DAE, il peso G si alzerà secondo la distanza BD, ma non molto più si potria seguitare di elevarlo : sì che volendo pure alzarlo ancora, saria necessario, fermandolo con qualch’ altro sostegno in questo sito, rimettere la lieva nel pristino sito B A C, ed, apprendendo di nuovo il peso, rialzarlo un’ altra volta in simile altezza B D ; ed in questa guisa, reiterando l’istesso molte volte, si verna con moto interrotto a fare l’elevazione del peso ; il che torneria per diversi rispetti non molto commodo.

Asse della ruota

Onde si è sovvenuto a questa difficoltà col trovar modo di unir insieme quasi che infinite lieve, perpetuando l’operazione senza interrompimento veruno: e ciò si è fatto col formare una ruota intorno al centro A, secondo il semidiametro AC, ed un asse intorno al medesimo centro, del quale sia semidiametro la linea B A, e tutto questo di legno forte o di altra materia ferma e salda ; sostenendo poi tutta la machina con un perno piantato nel centro A, che passi dall’una all’altra parte, dove sia da due fermi sostegni ritenuto. E circondata intorno all’asse la corda DBG, da cui penda il peso G, ed applicando un’altra corda intorno alla maggior ruota, alla quale sia appeso l’altro grave I, è manifesto che, avendo la lunghezza C A all’altra AB quella proporzione medesima che il peso G al peso I, potrà esso I sostenere il grave G, e con ogni piccolo momento di più lo moverà. E perché, volgendosi l’asse insieme con la ruota, le corde, che sostengono pesi, si troveranno sempre pendenti e contingenti l’estreme circonferenze di essa ruota ed asse, sì che sempre manterranno un simile sito e disposizione alle distanze BA, A C, si verrà a perpetuare il moto, discendendo il peso I, e costringendo a montare l’altro G.

Per ciò che riguarda l’argano esso si deve servire di una ruota con un dato diametro, quindi di un asse come nella macchina precedente, e di leve che la fanno girare.

Argano

Dallo stromento esplicato non molto è differente, in quanto alla forma, l’altro stromento, il quale adimanderemo argano; anzi non in altro differisce che nel modo dell’ applicarlo, essendo che l’asse nella ruota va mosso e costituito eretto all’orizonte, e l’argano lavora col suo movente paralello al medesimo orizonte. Imperò che, se intenderemo sopra il cerchio DAE essere posto un asse di figura colonnare, volubile intorno al centro B, e circa ad esso avvolta la corda DH, legata al peso da trainarsi, se in detto asse si inserirà la stanga FEBD, e che nella sua estremità F venga applicata la forza di un uomo, o vero di un cavallo, o di altro animale atto nato a tirare, il quale, movendosi in giro, camini sopra la circonferenza del cerchio FGC, si viene ad aver formato e fabricato l’argano.

Qual è l’utilità di tali macchine ? Così ancora una volta rispondeva Galileo:

l’utilità che da queste machine si trae non esser quella che comunemente, ingannandosi, crede il volgo dei mecanici, ciò è che, defraudando la natura, si possa con machine superare la sua resistenza, ancorché grande, con piccola forza; essendo che noi faremo manifesto come la medesima forza posta in F, nel medesimo tempo, facendo il medesimo moto, condurrà il medesimo peso nella medesima distanza senza machina alcuna. Essendo che, posto, per essempio, che la resistenza del grave H sia dieci volte maggiore della forza posta in F, farà di bisogno, per muovere detta resistenza, che la linea FB sia decupla della BD, e, per consequenza, che la circonferenza del cerchio FGC sia altresì decupla alla circonferenza EAD.

A questo punto, per introdurre varie combinazioni di carrucole, Galileo partiva dal prendere in considerazione una leva d’altro tipo, nella quale il fulcro non si trova tra la potenza e la resistenza ma ad una estremità della macchina che ha la resistenza tra potenza e fulcro (uno schiaccianoci):

Leva di secondo genere

L’uso della lieva di sopra dichiarato poneva in una delle sue estremità il peso, e nell’altra la forza; ed il sostegno veniva collocato in qualche luogo tra le estremità. Ma possiamo servirci della lieva in un altro modo ancora, ponendo, come si vede nella presente figura, il sostegno nella estremità A, la forza nell’ altra estremità C, ed il peso D pendente da qualche punto di mezzo, come si vede nel punto B. Nel qual modo è chiara cosa, che se il peso pendesse da un punto egualmente distante dalli due estremi A, C, come dal punto F. la fatica di sostenerlo saria egualmente divisa tra li due punti A, C, sì che la metà del peso saria sentito dalla forza C, sendo l’altra metà sostenuta dal sostegno A; ma se il grave sarà appeso in altro luogo, come dal B, mostreremo la forza in C esser bastante a sostener il peso posto in B, tutta volta che ad esso abbia quella proporzione, che ha la distanza AB alla distanza AG.

Dichiarati questi principi, Galieo passava a discutere le trochlee o taglie, a cominciare dalla semplice carrucola.

E prima intendasi la girella [carrucola] ABC, fatta di metallo o legno duro, volubile intorno al suo assetto, che passi per il suo centro D, ed intorno a questa girella posta la corda EABCF, da un capo della quale penda il peso E, e dall’altro intendasi la forza F: dico, il peso essere sostenuto da forza eguale a sé medesimo, né la girella superiore ABC apportare benefizio alcuno circa il muovere o sostenere il detto peso con la forza posta in F. Imperò che se intenderemo dal centro D, che è in luogo di sostegno, esser tirate due linee sino alla circonferenza della girella ai punti A, C, nei quali le corde pendenti toccano la circonferenza, averemo una libra di braccia eguali, essendo li semidiametri DA, DC eguali, li quali determinano le distanze delle due suspensioni dal centro e sostegno D; onde è manifesto, il peso pendente da A non poter essere sostenuto da peso minore pendente da C, ma sì bene da eguale, perché tale è la natura dei pesi eguali, pendenti da distanze eguali: ed ancorché nel muoversi a basso la forza F si venga a girare intorno la girella ABC, non però si muta 1′ abitudine e rispetto, che il peso e la forza hanno alle due distanze AD, D C ; anzi la girella circondotta doventa una libra simile alla AG, ma perpetuata.

Carrucola con cui si eleva il peso con pari forza

Le argomentazioni che seguono tendono a spiegare a cosa serve una macchina di questo tipo passando attraverso non solo critica ma scherno ad Aristotele (colui che era creduto l’autore de Le mecaniche):

Dal che possiamo comprendere quanto puerilmente s’ingannasse Aristotile, il quale stimò che, col far maggiore la girella ABC, si potesse con manco fatica levare il peso, considerando come all’accrescimento di tale girella si accresceva la distanza DC; ma non considerò che altrettanto si cresceva l’altra distanza del peso, ciò è l’altro semidiametro DA. Il benefizio, dunque, che da tale stromento si possa trarre, è nullo in quanto alla diminuzione della fatica. E se alcuno dimandasse, onde avvenga che in molte occasioni di levar pesi si serva l’arte di questo mezzo, come, per essempio, si vede nell’attinger l’acqua dei pozzi, si deve rispondere, ciò farsi perché in questa maniera il modo dell’essercitar ed applicar la forza ci torna più commodo; perché, dovendo tirare all’in giù, la propria gravità delle nostre braccia e delli altri membri ci aiuta; dove che bisognandoci tirare all’in su con una semplice corda il medesimo peso, col solo vigore dei membri e dei muscoli, e come si dice, per forza di braccia, oltre al peso esterno doviamo sollevare il peso delle proprie braccia, nel che si ricerca fatica maggiore. Concludasi dunque, questa girella superiore non apportare facilità alcuna alla forza semplicemente considerata, ma solamente al modo di applicarla.

La carrucola era introdotta per far vedere come, cambiando in modo opportuno alcuni parametri, si possano anche qui avere dei vantaggi:

Ma se ci serviremo di una simile machina in altra maniera, come al presente siamo per dichiarare, potremo levare il peso con diminuzione di forza. Imperò che sia la girella BDC volubile intorno al centro E, collocata nella sua cassa o armatura B L C, dalla quale sia sospeso il grave G; e passi intorno alla girella la corda ABDCF, della quale il capo A sia fermato a qualche ritegno stabile, e nell’altro F sia posta la forza, la quale, movendosi verso H, alzerà la machina B L C, e, consequentemente, il peso G: ed in questa operazione, dico la forza in F esser la metà del peso da lei sostenuto. Imperò che, venendo detto peso retto dalle due corde AB, FC, è manifesta cosa, la fatica essere egualmente compartita tra la forza F ed il sostegno A.

Carrucola che fa levare il peso con diminuzione di forza

Taglia o trochlea che duplica gli effetti della carrucola precedente

            Da questo punto inizia una lunga discussione su ogni possibile combinazioni di carrucole in trochlee che possiamo tralasciare.

         A continuazione Galileo passava a trattare la vite e la vite di Archimede, la coclea, quella macchina che serve per sollevare acqua. In questa parte dell’opera vi sono aspetti molto interessanti da discutere perché rappresentano novità importanti. Come avevo detto in apertura di questo paragrafo, mentre nello Pseudo Aristotele leggiamo che un corpo si arresta quando la forza che lo spinge cessa la sua azione, in Galileo troviamo che un corpo libero nello spazio sul quale non agisca alcuna forza continua a muoversi a velocità costante in linea retta. Siamo cioè di fronte al superamento completo del dato empirico con l’introduzione di astrazioni che rendono conto del dato sperimentale in modo più completo e generale. Vediamo ciò con maggiori dettagli. Galileo iniziava con il magnificare la vite come lo strumento meccanico inventato dall’uomo che si trova al primo posto per utilità. Esso è in grado di fermare e stringere con forza grandissima occupando pochissimo luogo. Ebbene questo strumento non è altra cosa che un piano inclinato che si dipana non in linea retta ma in una spirale. E’ quindi dalla discussione di piani inclinati che Galileo prendeva le mosse per parlare della vite.

avendo noi una superficie molto ben tersa e polita, quale saria quella di uno specchio, ed una palla perfettamente rotonda e liscia, o di marmo, o di vetro, o di simile materia atta a pulirsi, questa, collocata, sopra la detta superficie, anderà movendosi, purché quella abbia un poco d’inclinazione, ancorché minima, e solamente si fermerà sopra quella superficie, la quale sia esattissimamente livellata, ed equidistante al piano dell’ orizonte ; quale, per essempio, saria la superficie di un lago o stagno agghiacciato, sopra la quale il detto corpo sferico staria fermo, ma con disposizione di essere da ogni picciolissima forza mosso. Perché avendo noi inteso come, se tale piano inclinasse solamente quanto è un capello, la detta palla vi si moverebbe spontaneamente verso la parte declive, e, per l’opposito, averebbe resistenza, né si potria movere senza qualche violenza, verso la parte acclive o ascendente; resta per necessità cosa chiara, che nella superficie esattamente equilibrata detta palla resti come indifferente e dubbia tra il moto e la quiete, sì che ogni minima forza sia bastante a muoverla, siccome, all’incontro, ogni pochissima resistenza, e quale è quella sola dell’ aria che la circonda, potente a tenerla ferma.

Galileo, e siamo nel 1594, stava introducendo il principio d’inerzia, una delle massime scoperte della fisica moderna. Nonostante gli sciovinisti francesi e qualche parvenue che vorrebbe fare lo storico del mondo anglosassone (per non dire dei nostri ripetitori acritici che nulla sanno di fisica, molti dei quali comunque mossi da motivi di fede religiosa) la formulazione galileiana del principio è completa ed esaustiva. Il nostro prosegue:

Dal che possiamo prendere, come per assioma indubitato, questa conclusione: che i corpi gravi, rimossi tutti l’impedimenti esterni ed adventizii, possono esser mossi nel piano dell’ orizonte da qualunque minima forza. Ma quando il medesimo grave dovrà essere spinto sopra un piano ascendente, già cominciando egli a contrastare a tale salita (avendo inclinazione al moto contrario), si ricercherà maggiore violenza, e maggiore ancora quanto più il detto piano averà di elevazione.

E’ da notare che queste cose Galileo le aveva già sostenute nel De motu, dove si era soffermato a darne delle esemplificazioni. Qui troviamo il principio d’inerzia dato come un assioma, come del resto facciamo oggi. E per Galileo siamo alla premessa della trattazione dei piani inclinati che poi gli serviranno per spiegare il funzionamento della vite. Egli si riferiva alla figura che segue per far capire quali forze sono in gioco in un piano inclinato:

Come, per essempio, essendo il mobile G costituito sopra la linea AB, paralella all’orizonte, starà, come si è detto, in essa indifferente al moto o alla quiete, sì che da minima forza possa esser mosso: ma se averemo li piani elevati AG, AD, AE, sopra di essi non sarà spinto se non per violenza, la quale maggiore si ricercherà per muoverlo sopra la linea AD che sopra la linea AG, e maggiore ancora sopra la AE che sopra la AD; il che procede per aver lui maggior impeto di andare a basso per la linea EA che per la DA, e per la DA che per la CA.

La forza necessaria spingere un oggetto verso l’alto (piano acclive) è misurata dall’impeto con cui l’oggetto scende dallo stesso piano, in tal caso declive.

Sì che potremo parimente concludere, i corpi gravi aver maggiore resistenza ad esser mossi sopra piani elevati diversamente, secondo che l’uno sarà più o meno dell’ altro elevato; e, finalmente, grandissima essere la renitenza del medesimo grave all’essere alzato nella perpendicolare AF. Ma quale sia la proporzione che deve avere la forza al peso per tirarlo sopra diversi piani elevati, sarà necessario che si dichiari esattamente, avanti che procediamo più oltre, acciò perfettissimamente possiamo intendere tutto quello che ne resta a dire. Fatte dunque cascare le perpendicolari dalli punti C, D, E sopra la linea orizontale AB, che siano CH, DI, EK, si dimostrerà, il medesimo peso esser sopra il piano elevato AG mosso da minor forza che nella perpendicolare AF (dove viene alzato da forza a sé stesso eguale), secondo la proporzione che la perpendicolare CH è minore della AG; e sopra il piano AD avere la forza al peso l’istessa proporzione, che la linea perpendicolare ID alla DA; e finalmente nel piano A E osservare la forza al peso la proporzione della KE alla E A.

E ciò che Galileo stava dicendo è più o meno quanto oggi conosciamo come il teorema della circuitazione in un campo gravitazionale: il lavoro fatto per andare da un punto A ad un punto B nel campo in oggetto, non dipende dal cammino che si fa per andare da A a B ma solo dalle posizioni di A e B. Quanto aveva qui detto Galileo lo dimostrava impeccabilmente in modo geometrico per arrivare a trarne qualche conclusione, a partire dalla figura seguente:

Sì che, passando a più distinta figura, quale è la presente, il momento di venire al basso che ha il mobile sopra il piano inclinato FH, al suo totale momento, con lo qual gravità nella perpendicolare all’orizonte FK, ha la medesima proporzione che essa linea KF alla FH. E se così è, resta manifesto che, sì come la forza che sostiene il peso nella perpendicolare FK deve essere ad esso eguale, così per sostenerlo nel piano inclinato FH basterà che sia tanto minore, quanto essa perpendicolare FK manca dalla linea FH. E perché, come altre volte s’è avvertito, la forza per muover il peso basta che insensibilmente superi quella che lo sostiene, però concluderemo questa universale proposizione: sopra il piano elevato la forza al peso avere la medesima proporzione, che la perpendicolare dal termine del piano tirata all’orizonte, alla lunghezza d’esso piano.

A questo punto Galileo era pronto a tornare alla spiegazione del funzionamento della vite che è un piano inclinato che avanza infilandosi sotto il grave da sollevare:

Ora finalmente la forma ed essenza primaria della vite non è altro che un simil triangolo ACB, il quale spinto inanzi, sottentra al grave da alzarsi, e se lo leva (come si dice) in capo.

E tale fu la sua prima origine: che considerando, qual si fosse il suo primo inventore, come il triangolo ABC, venendo inanzi, solleva il peso D, si poteva fabricare uno instrumento simile al detto triangolo, di qualche materia ben salda, il quale, spinto inanzi, elevasse il proposto peso: ma considerando poi meglio come una tal machina si poteva ridurre in forma assai più picciola e comoda, preso il medesimo triangolo, lo circondò ed avvolse intorno al cilindro ABCD; in maniera che l’altezza del detto triangolo, cioè, la linea GB, faceva F altezza del cilindro, ed il piano ascendente generava sopra il detto cilindro la linea elica disegnata per la linea AEFGH, che volgarmente addomandiamo il verme della vite: ed in questa varietà si genera l’instrumento da’ Greci detto coclea, e da noi vite, il quale volgendosi a torno viene co’l suo verme subintrando al peso, e con facilità lo solleva.

Ed avendo noi già dimostrato, come, sopra il piano elevato, la forza al peso ha la medesima proporzione, che l’altezza perpendicolare del detto piano alla sua lunghezza, così intenderemo la forza nella vite ABCD multiplicarsi secondo la proporzione che la lunghezza di tutto il verme AEFGH eccede l’altezza CB; dal che venghiamo in cognizione, come formandosi la vite con le sue elici più spesse, riesce tanto più gagliarda, come quella che viene generata da un piano manco elevato, e la cui lunghezza risguarda con maggior proporzione la propria altezza perpendicolare.

Il paragrafo si chiude con un ritorno a quanto Galileo aveva sostenuto in apertura dell’opera. Egli voleva di nuovo mostrare che la natura non può essere ingannata e che se si guadagna in forza si perde in tempo e velocità. Leggiamo:

Finalmente non è da passare sotto silenzio quella considerazione, la quale da principio si disse esser necessaria d’avere in tutti gì’instrumenti mecanici: cioè, che quanto si guadagna di forza per mezo loro, altrettanto si scapita nel tempo e nella velocità. Il che per avventura non potria parere ad alcuno così vero e manifesto nella presente speculazione; anzi pare che qui si multiplichi la forza senza che il motore si muova per più lungo viaggio che il mobile.

Essendo che se intenderemo, nel triangolo ABC la linea AB essere il piano dell’orizonte, AC piano elevato, la cui altezza sia misurata dalla perpendicolare CB, un mobile posto sopra il piano AC, e ad esso legata la corda EDF, e posta in F una forza o un peso, il quale alla gravità del peso E abbia la medesima proporzione che la linea BC alla CA; per quello che s’è dimostrato, il peso F calerà al basso tirando sopra il piano elevato il mobile E, né maggior spazio misurerà detto grave F nel calare al basso, di quello che si misuri il mobile E sopra la linea AC. Ma qui però si deve avvertire che, se bene il mobile E averà passata tutta la linea AC nel tempo medesimo che l’altro grave F si sarà per eguale intervallo abbassato, niente di meno il grave E non si sarà discostato dal centro comune delle cose gravi più di quello che sia la perpendicolare GB; ma però il grave F, discendendo a perpendicolo, si sarà abbassato per spazio eguale a tutta la linea AC. E perché i corpi gravi non fanno resistenza a i moti transversali, se non in quanto in essi vengono a discostarsi dal centro della terra, però, non s’essendo il mobile E in tutto il moto AC alzato più che sia la linea CB, ma l’altro F abbassato a perpendicolo quanto è tutta la lunghezza AC, però potremo meritamente dire, il viaggio della forza F al viaggio della forza E mantenere quella istessa proporzione, che ha la linea AC alla CB, cioè il peso E al peso F. Molto adunque importa il considerare per quali linee si facciano i moti, e massime ne i gravi inanimati: dei quali i momenti hanno il loro total vigore e la intiera resistenza nella linea perpendicolare all’orizonte; e nell’altre, transversalmente elevate o inchinate, servono solamente quel più o meno vigore, impeto, o resistenza, secondo che più o meno le dette inclinazioni s’avvicinano alla perpendicolar elevazione.

Come aveva iniziato vi è anche qui l’uso del momento come esplicativo di ogni questione relativa alle macchine. Più in generale abbiamo in queste formulazioni, come ho già accennato, un riconoscimento di una sorta di principio di conservazione che Camerota, con ragione, preferisce chiamare di compensazione per evitare equivoci e fraintendimenti. Non vi è dubbio che si tratti di ragionamenti almeno preliminari alla conservazione che, tralasciando le sciocchezze di Duhem (che ad esempio affermava che, tra gli altri, Leonardo avrebbe preceduto Galileo dimenticando che Leonardo non pubblicava e scriveva in sommo segreto di queste cose), possiamo invece ritrovare in uno studioso che era molto legato a Galileo, Guidobaldo del Monte. Qui la conoscenza di Galileo è chiara e non vi è dubbio che molte ispirazioni di Galileo provengano dal Mechanicorum Liber di Guidobaldo, ma occorre dire per completezza che, quanto meno, siamo di fronte a contesti differenti. A proposito scrive Camerota:

bisogna ricordare che Guidobaldo del Monte aveva chiaramente esposto il concetto in alcuni luoghi del suo trattato di meccanica. Cosi, nella traduzione italiana dell’opera, si legge che «è manifesto etiandio che quanto più facimente si move il peso, tanto maggiore essere etiandio il tempo: ma quanto più difficilmente, tanto minore essere: e cosi per lo contrario». Ora, se è assolutamente probabile, considerati gli stretti rapporti tra i due, che Galileo possa essersi ispirato al testo di Guidobaldo, occorre però rilevare che ben diversa è la funzione del principio all’interno dell’opera galileiana rispetto al ruolo limitato e contingente rivestito nel contesto delle speculazioni del nobile marchigiano. Mentre, infatti, nel Mechanicorum liber di Guidobaldo l’assunto appare sempre quale corollario all’esposizione dei singoli strumenti meccanici, ne Le mecaniche Galileo riconosce alla regola “compensativa” una assoluta generalità, facendone il cuore della stessa scienza meccanica e il fondamento della funzionalità di ogni macchina semplice.

        L’opera di Galileo Le mecaniche si conclude con altri due argomenti. Il primo riguarda la vite di Archimede, lo strumento ideato da Archimede per sollevare l’acqua ed una breve discussione sulla forza della percossa seguita da un’Appendice, che riporta il medesimo ultimo argomento trattato da Evangelista Torricelli (1608-1647) nella sua Seconda Lezione Accademica(12).

        La vite di Archimede o coclea veniva così illustrata da Galileo:

Non mi pare che in questo luogo sia da passar con silenzio 1’invenzione di Archimede d’alzar l’acqua con la vite: la quale non solo è maravigliosa, ma è miracolosa; poichè troveremo che l’acqua ascende nella vite discendendo continuatamente. Ma prima che ad altro venghiamo, dichiareremo 1’uso della vite nel far salir 1’acqua.

E considerisi nella seguente figura intorno alla colonna MIKH esser avvolta la linea ILOPQRSH, la quale sia un canale, per lo quale possa scorrer l’acqua: se metteremo 1’estremità I nell’ acqua, facendo stare la vite pendente, come dimostra il disegno, e la volgeremo  in giro intorno alli due perni T, V, l’acqua per lo canale anderà seorrendo, fin che finalmente verserà fuori della bocca H. Ora  dico che 1’acqua nel condursi dal punto I al punto H, è venuta sempre discendendo, ancorchè il punto H sia più alto del punto I.

Riporto di seguito una illustrazione della vite di Archimede non tratta da questo testo di Galileo:

        Diciamo ora qualche parola su Della forza della percossa. Galileo era colpito dal fenomeno che vedeva conficcarsi un qualcosa, chiodo o trave, in un legno o terreno colpendo questi ultimi oggetti in modo opportuno. Aveva anche qui modo di prendersela con Aristotele (al solito era lo pseudo Aristotele), non a ragione però, perché

ad Aristotile o ad altri che volessero la cagione di questo mirabile effetto ridurre alla lunghezza del manubrio o manico del martello, parmi che, senza altro lungo discorso, si possa scoprire l’infermità delli loro pensieri dall’ effetto di quei stromenti, che, non avendo manico, percotono o col cadere da alto a basso, o coll’ esser spinti con velocità per traverso. Dunque ad altro principio bisogna che ricorriamo, volendo ritrovare la verità di questo fatto. Del quale benchè la cagione sia alquanto di sua natura obstrusa e difficile a esplicazione, tuttavia anderemo tentando, con quella maggior lucidezza che potremo, di render chiara e sensibile; mostrando finalmente, il principio ed origine di questo effetto non derivar da altro fonte, che da quello stesso onde scaturiscono le ragioni d’altri effetti meccanici.

        Quindi, per Galileo, la causa di tal maraviglioso fenomeno deve ricercarsi non nella lunghezza del manico del martello ma in altro. Come spiegava oltre si tratta della distanza da cui parte il colpo e dalla velocità con cui si arriva a colpire.

la forza, la resistenza ed il spazio, per lo quale si fa il moto, si vanno alternamente con tal proporzione seguendo, e con legge tale rispondendo, che resistenza eguale alla forza sarà da essa forza mossa per egual spazio e con egual velocità di quella che essa si muova. Parimente, forza che sia la metà meno di una resistenza potrà muoverla, purchè si muova essa con doppia velocità, o, vogliam dire, per distanza il doppio maggiore di quella. che passerà la resistenza mossa. Ed in somma s’è veduto in tutti gli altri stromenti, potersi muovere qualunque gran resistenza da ogni data picciola forza, purchè lo spazio, per il quale essa forza si muove, abbia quella proporzione medesima allo spazio, per il quale si moverà la resistenza, che tra essa gran resistenza e la picciola forza si ritrova, e ciò esser secondo la necessaria constituzione della natura.

        Anche un concetto apparentemente semplice come quello di pressione, risulta creare grandissimi problemi. Si stava cominciando proprio dalle origini.

        Come accennato segue un brano di un lavoro di Torricelli relativo alla percossa con cui si chiudono Le mecaniche di Galileo.

        Questo lavoro era stato concepito in anni pieni di attività per Galileo ed a questa opera se ne aggiungevano delle altre che, solo per necessità accademiche, egli era inizialmente costretto ad elaborare, come la Cosmografia legata al suo insegnamento di questioni astronomiche che, come ripetuto, serviva ai medici dello Studio per sapere di astrologia. Prima però di passare a capire qual è l’approccio di Galileo all’astronomia e come da lì si passi ad altre considerazione, debbo andare a discutere di vicende estremamente tristi che riguardavano la vita privata di Galileo, sempre legate alle questioni economiche. Mi soffermo su questo e riporterò varie lettere in proposito perché qualche sciocco prete accusava ed accusa Galileo di essere stato un  presuntuoso a voler pretendere per lui il passaggio da matematico a filosofo, quando da lettore di matematica a Padova passerà al lettorato di filosofia a Firenze (serve dire che quel filosofia è filosofia naturale, cioè fisica ? Evidentemente si).

NOTE DI VITA FAMILIARE

        Un primo squarcio di vita familiare, non esaltante per quanto si legge dietro, lo troviamo in una lettera che Livia, sorella di Galileo, gli inviava nel 1593. Dopo la morte del padre due anni prima tutti i familiari pendevano da Galileo e chiedevano continuamente per ogni necessità si presentasse. Leggiamo la lettera di Livia (nella quale figura un cenno a Lena, cenno dal quale si è pensato che questa Lena sia l’altra sorella di Galileo che viene data come possibile)(13):

Alla molto Magnifico et Ecellentisimo Signiore Dotore Galileo Galilei, frate[llo cha]risimo e onorado, in Padova.

Amantisimo fratello,             Addì pimo di maggo 1593.

Venedo chostì la nostra Lena, non mi sarei mai tenuta che io non v’avessi scricto questi quatro verssi, dandovi nuove di me: e se bene la Signoria Vostra non si cura di sapere di me, io mi curo di sapere di voi, che non ò altro bene che Vosignioria; e però la prego a volermi fare gratia di volermi rispondere, acò che io abia questo pocho di chonteto: e se bene Vosignioria scrive a nostra madre, lei non me le porta mai; mi dice bene: El vostro fratello vi si rachomanda: e per lei ò initeso come la Signioria Vostra manda Michelagnolo iniPolonia. Io n’ò auto grandisimo dispiacere; poi mi conforto e dico così: Se fusi lato pericoloso, voi non ve lo manderesti, perchè so che li avete affetione. E più ò inteso come ell vostro ritorno sarà presto, che mi pare mile anni; e di gratia richodatevi di recharmi da fare una vesta, che n’ò bisognio pure asai.
E con questo farò fine, restando sempe al comando di Vostra Signioria. Nostra madre e la Verginia vi si racomanda, e’l simile fa S.a Clarice e S.a Contessa; e io senza mai fine mi vi ofero e rachomado. Adio.
Vostra chara sorella Livia
in S.o Guliano.

Scrive Livia ed in poche parole comunica al fratello che le poche notizie che arrivano, giungono tutte alla madre che poi le smista. Veniamo a sapere che il fratello musicista Michelangelo è andato a lavorare in Polonia per interessamento di Galileo e che ha lasciato un vuoto in casa(14). Infine che Livia ha bisogno urgente di una veste …

        A questa lettera ne segue un’altra, questa volta della madre di Galileo, Giulia Ammannati(15):

Al molto Mag.co e mio Fideliss.o Signore
Galileo Galilei, mio sempre Oss.mo, in Padova.

Car.mo figliuolo .s.

Ho intenso come avete auto male, la qual cosa ne ò auto gran dispiacere; ma dopo, il contento, se ora, per Iddio gratia, state tutti beme: di tanto me ne godo ancor io. Hora non posso mancare di dirvi le cose come le vanno giornalmente: perchè, al quel che io intendo, volete venir qua quest’altro mese, harò caro e mi sarà contento grandissimo; ma venite provisto, perchè, a quel io vedo, Benedetto vole il suo, ciò quel che gli avete promisso, e minaccia fortemente di farvi pigliare subito che arriverete qua. Per quel che io intendo, esendo di patti e così obbligato, debbe potere; però sarà persona per farlo: però vi fo avisato, perchè a me non sarà altro che dispiacere.
Ho auto una lettera da Michelagniolo, cola qual mi pregava che io andassi a trovare il Monsù, e che lo pregassi che gli mandassi parechie sonate; però vi sono ita molte altre volte, e ànno fatto dire di non vi essere. Hora i’ò inteso da Benedetto, che vi è stato più volte, come lui ha detto che voi havete dato certe sonate in costà a non so che signori, i quali ànno mandato qua tutti i principii col chiedergline di altre sorte che quelle havevano, per il che l’à’uto per male. non ne vol più dare a nessuno. In però se vi paressi di scrivere 4 versi al Sig. Cosimo Ridolfi, e vedere se per suo mezzo ne potessi aver qualcuna, sott’ombra di volere inparare lui; se no, aspettar di venir qua voi.
Detti la lettera al Saleolino: ni rispose che vi manderebe quanto li domandi. Sono andata veder la Livia: lei sta bene, vi si raccomanda, et la Verginia ancora, e io il simile; e vi prego, per quanto posso, che di grati a mi avi siate il vostro stare, se sarete guariti, o come starete di mano a mano. Non altro: a voi mi raccomando et Michelagniolo; e alla Lena dite che attenda a ingrassare, ma non faccia crepare il suo banbino. Non altro: a rivederci alla tornata con sanità.

Da luogo solito, il dì 29 di Maggio 1593.

Vostra aff.ma madre G.G.

       I problemi crescevano perché qui vi sono minacce gravi a Galileo da parte di Benedetto Landucci, lo sposo della sorella Virginia, che pretendeva il rispetto del contratto, con impegno dello stesso Galileo, che assegnava loro una determinata dote. Vi sono poi altre vicende di Michelangelo che, tra l’altro, aveva firmato il contratto per la dote con Galileo, il tutto per rendere assillante per il ventinovenne Galileo il pensiero della famiglia (Galileo prese un prestito di 200 scudi nell’agosto del 1593 da Jacopo e Bardo Corsi, probabilmente per pagare il debito con Landucci).

        Intanto i redditi di Galileo erano cresciuti. Nel 1599 il suo salario, dai 180 iniziali, era salito a 320 fiorini (nel 1606 divenne di 520 fiorini). Vi erano poi le lezioni private e la vendita di alcuni strumenti di precisione realizzati nell’officina curata da Mazzoleni. Ma le esigenze familiari lo rendevano sempre privo di ogni disponibilità e, ad un certo punto, per far fronte a dei prestiti che non riusciva a saldare, dovette ricorrere agli amici Sagredo e Venier e chiedere ai suoi datori di lavoro, i Riformatori dello Studio di Padova, di anticipargli due anni di salario poi diventati tre. Quando il solito prete parla di avidità di Galileo non si capisce bene se è ignorante o fa l’ignorante.

        Comunque Galileo aveva anche una sua personale vita privata ed aveva intrecciato una relazione con l’orfana veneziana (definita popolana) Marina Gamba con la quale ebbero una figlia, Virginia (che diventerà poi Suor Maria Celeste), il 13 agosto del 1600. Ed a Virginia ne seguirono altre due, Livia (che diventerà poi Suor Arcangela) il 18 agosto 1601 e Vincenzo il 21 agosto 1606. Con la Gamba Galileo non fece regolari nozze e Favaro ipotizza che ciò sia avvenuto proprio per quell’aggettivo popolana che ho usato poc’anzi. Non sembrava conveniente che un professore universitario con frequentazioni nobili ed importanti avesse un rapporto ufficiale con una donna del popolo. Non importa che tutti sapessero l’importante era, come è, che l’ipocrisia trionfasse.

        Per le necessità del suo lavoro Galileo ebbe delle domestiche, un segretario e, dal 1602, un copista per le dispense che egli elaborava, tal Silvestro Pagnoni. Il rapporto con quest’ultimo si chiuse drasticamente nel 1604 quando il personaggio denunciò Galileo al Tribunale dell’Inquisizione (21 aprile 1604) perché, a suo dire, Galileo praticava l’astrologia (non la giudiziaria che era quella che faceva parte dei programmi d’insegnamento, ma la divinatoria che era proibita essendo considerata arte magica) e non andava regolarmente a messa. Una simile denuncia da altra persona era arrivata anche al collega Cremonini perché quest’ultimo, secondo il denunciante, credeva che l’anima morisse con il corpo. Le cose non ebbero seguito ma erano estremamente pericolose a pochi anni dal rogo di Giordano Bruno.

VERSO COPERNICO

        Viviani nella sua Vita di Galileo raccontava del nostro che, nei suoi anni padovani (intorno al 1594), a contemplazione de’ suoi scolari scrisse varii trattati, tra’ quali […] un compendio di sfera. Di tale argomento, che tra poco vedremo dalle parole dello stesso Galileo in cosa consistesse, Galileo si doveva occupare anche nelle lezioni che teneva presso lo Studio infatti, come detto all’inizio di questo lavoro, il suo insegnamento riguardava anche il Tractatus de sphaera (risalente a circa il 1230)dell’astronomo ed astrologo Giovanni Sacrobosco  e la Theoria Planetarum (verosimilmente quella attribuita al matematico ed astronomo Campano da Novara, dello stesso periodo). E’ ragionevole pensare che Galileo preparasse sue dispense su questo argomento che furono chiamate Trattato della Sfera o Cosmografia(16). Esse andarono in stampa solo dopo la morte dello scienziato nel 1656. L’argomento delle lezioni riportate nelle dispense erano, nelle parole dello stesso Galileo:

Nel Trattato della Sfera, che più propriamente chiameremo Cosmografia, prima, sì come in tutte l’altre scienze, si deve avvertire il suo suggetto, ed in oltre toccare qualche cosa dell’ ordine e metodo da osservarsi in esso.
Diciamo dunque, il suggetto della cosmografia essere il mondo, o vogliamo dire 1’universo, come dalla voce stessa, che altro non importa che descrizione del mondo, ci viene disegnato. Avvertendo però, che delle cose, che intorno ad esso mondo possono esser considerate, una parte solamente appartiene al cosmografo; e questa è la speculazione intorno al numero e distribuzione delle parti d’esso mondo: intorno alla figura, grandezza e distanza d’esse, e, più che nel resto, intorno a i moti loro; lasciando la considerazione della sostanza e delle qualità delle medesime parti al filosofo naturale.
Quanto al metodo, costuma il cosmografo procedere nelle sue speculazioni con quattro mezzi: il primo de’ quali contiene l’ apparenze, dette altrimenti fenomeni: e queste altro non sono che 1’osservazioni sensate, le quali tutto ‘l giorno vediamo, come, per essempio, nascere e tramontar le stelle, oscurarsi ora il sole or la luna, e questa medesima dimostrarcisi ora con corna, ora mezza, or tonda, ed or del tutto stare ascosa, moversi i pianeti di moti tra loro diversi, e molte altre tali apparenze. Sono nel secondo loco l’ ippotesi: e queste altro non sono che alcune supposizioni appartenenti alla struttura de gli orbi celesti, e tali che rispondino all’ apparenze; come sarà quando, scorti da quello che ci apparisce, supporremo il cielo essere sferico, muoversi circolarmente, participare di moti diversi, la terra essere stabile, situata nel centro. Seguono poi, nel terzo luogo, le dimostrazioni geometriche; con le quali, per le proprietà de’ cerchi e delle linee rette, si dimostrano i particolari accidenti, che all’ ippotesi conseguiscono. E finalmente, quello che per le linee s’è dimostrato, con operazioni aritmetiche calculando, si riduce e distribuisce in tavole, dalle quali senza fatica possiamo poi ad ogni nostro beneplacito ritrovare la disposizione de’ corpi celesti ad ogni momento di tempo. E perchè siamo nei primi principii di questa scienza, lasciando da parte ora i calcoli e le dimostrazioni più difficili, ci occuperemo solamente circa l’ ippotesi, ingegnandoci di confermarle e stabilirle con l’ apparenze.

Si tratta di quella materia che oggi potremmo chiamare Geografia fisica ed astronomica. Poiché gli appunti risalgono ad epoca immediatamente precedente alla conversione di Galileo al copernicanesimo e poiché su questi argomenti sono nati alcuni suoi dubbi sulla struttura del mondo, è utile leggere qualche considerazione del nostro scienziato che appare essere totalmente aristotelico-tolemaico. Senza citare tutto è utile ricordare che Galileo afferma qui che il mondo è diviso in due parti tra loro molto diverse: quella, con parole mie, al di sopra e quella al di sotto del cielo della Luna. La prima è chiamata da Galileo parte celeste, la seconda parte elementare. Nella parte celeste sono possibili eterni moti circolari e tutto è eterno ed incorruttibile, nella parte elementare vi sono moti rettilinei di breve durata e tutto è soggetto a continue mutazioni, generazione e corruzione. La parte elementare è suddivisa ulteriormente in 4 parti, due delle quali si muoveranno verso il centro e due verso l’alto. E’ la teoria dei 4 elementi con terra ed acqua che cadono ed aria e fuoco che salgono. Dopo aver illustrato la teoria con dettagli, Galileo passava a descrivere la parte celeste con io cielo delle stelle fisse ed i pianeti con il loro numero, ordine e moto.

        Dopo questa prima disamina delle cose da studiare con maggiore dettaglio, Galileo iniziava a discutere del moto circolare e della forma sferica del cielo con ogni riferimento possibile alla perfezione della sfera e del cerchio. Passava quindi a descrivere la perfezione del globo terracqueo in quanto sferico, la sua posizione al centro della sfera celeste e la sua immobilità aggiungendo anche considerazioni sulla sua piccolissima grandezza in confronto al cielo. Qui è utile riportare le argomentazioni che Galileo porta a sostegno del geocentrismo che non sono evidentemente sue ma dell’intera tradizione aristotelico-tolemaica.

CHE LA TERRA SIA CONSTITUITA NEL CENTRO DELLA SFERA CELESTE.

Molte ed efficaci ragioni si potriano addurre per confirmazione di questa conclusione; delle quali n’addurremo quelle, che più facilmente si potranno in questi principii comprendere.
E prima diremo, che se la terra non fusse constituita nel centro, adunque, o vero saria più vicina al nostro oriente che all’ occidente, o per l’ apposito; o vero s’inalzeria avvicinandosi verso la parte del cielo che ci è sopr’ il capo, o, per lo contrario, si sbasserebbe verso la parte opposta; o vero saria posta più verso settentrione, o vero ar mezo dì: ma niuna di queste costituzioni si può imaginare senza qualche repugnanza: adunque il centro solamente può esser suo sito aecommodato.

Tutte argomentazioni peripatetiche che vengono spiegate in quei modi pedanti delle disquisizioni medioevali che nulla aggiungono alla premessa da cui partono.

Quanto alla prima posizione, che si accosti più verso 1’oriente o verso l’occidente, contraria 1’apparirci il sole, la luna e 1’altre stelle della medesima grandezza nel nascere e nel tramontare; il che non avverria, se 1’orto più che 1’occaso, o questo più di quello, a noi fusse vicino. In oltre, se la terra non fussi in pari distanza fra 1’oriente e l’ occidente, l’ intervalli del nascere d’una stella all’ arrivare al mezo dì, e di qui all’occidente, non sariano eguali; ma in tempo più breve passeria 1’arco tra ‘l meridiano e l’altro termine più vicino interposto.

Queste cose vengono dette appena prima che Galileo discuta dell’insensibil grandezza della Terra in comparazione del cielo. Quindi la Terra è piccola ma dietro il ragionamento di Galileo vi è il pregiudizio che era stato anche di Tycho Brahe, di Universo molto piccolo perché solo in questa circostanza avverrebbe quanto egli afferma. Stessa obiezione che può farsi alle successive argomentazioni con in più una certa confusione relativa alla combinazione dei moti eventuali di rotazione e rivoluzione della Terra:

La seconda posizione viene distrutta, perchè, se la terra s’inalzasse più verso la parte del cielo a noi sopraposta, non potremmo vedere se non meno che la metà del cielo, e maggior parte ne vedremmo, quando, per l’apposito, la terra si sbassasse; il che repugna totalmente all’esperienza, essendo che la metà del cielo è da noi continuamente veduta. Di che ci possiamo certificare osservando due stelle diametralmente opposte, delle quali una nasca nell’ istesso momento che 1’altra tramonta. Per ciò che, se 1’arco del cielo apparente, traposto tra 1’orientale stella e 1’occidentale, fusse minore o maggiore di mezo cerchio, quando essa orientale fusse nell’ occaso, 1’altra, o non saria ancora ritornata nell’ oriente, o vero ci saria pervenuta inanzi; il che repugna all’osservazioni, le quali ci dimostrano, come di tali stelle diametralmente opposte, gli orti e gli occasi si fanno alternamente nell’ istesso momento di tempo: certo argomento, 1’arco sopra terra tra le dette stelle intermedio, essere uguale all’ arco sotto terra.

Alla terza posizione repugna un’ apparenza presa dalle ombre di tutti i corpi perpendicolarmente eretti sopra ‘l piano della terra. Perciò che, quando la terra fusse più verso 1’uno che 1’altro polo, nel tempo dell’ equinozio, quando il sole si trova egualmente distante da i poli, 1’ombre de i detti corpi matutine, prodotte nello spuntar del sole, non anderiano per linea dritta verso quel punto, dove la sera il sole tramonta: di modo che nè l’ombra vespertina risguarderia il nascere matutino, nè esse due ombre constituirebbono una linea dritta, ma formeriano angolo nella base dello stile o altra cosa piantata in terra,

L’ultima prova a sostegno della Terra al centro dell’universo riguardava le eclissi lunari che non sarebbero come sono con la Terra in moto:

Si confermerà il medesimo con un’ altra molto bella osservazione presa dalle ecclissi lunari. Perciò che se si osserverà il tempo dell’ ecclisse lunare, ed il sito di essa luna in tal tempo, si troverà lei esser sempre per diametro opposta al sole; ed essendo di tale oscurazione cagione 1’interposizione della terra, adunque in tutti gli ecclissi lunari, fatti in qualsivoglia parte del cielo, la terra si troverà linealmente interposta tra ‘l sole e la luna; ed occorrendo, come si è detto, tali ecclissi in diversi parti del cielo, bisogna per necessità che confessiamo, la terra ritrovarsi in diversi diametri, ma diversi diametri non hanno di commune altro ch’il centro, nè altro punto che il centro è in diversi diametri; adunque la terra in esso centro è situata.

Con questa argomentazione si chiude il paragrafo che lascia molto amaro in bocca perché non sembra di leggere la prosa di Galileo che rimanda invece a testi di tutt’altro tenore e cultura. Credo si possa dire che questo lavoro di Galileo è il suo primo avvicinarsi a questioni cosmologiche, lavoro che deve fare per necessità di contratto con lo Studio e per guadagnare dei soldi con gli studenti privati. Egli non può fare altro a questo punto della sua preparazione e conoscenza che trascrivere nel modo che ritiene migliore tutte le argomentazioni storiche sostenute dalla scuola peripatetica a sostegno dell’immobilità della Terra.

        Vediamo invece quali argomentazioni vengono portate a sostegno dell’immobilità della Terra:

CHE LA TERRA STIA IMM0BILE.

La presente questione è degna di considerazione, essendo che non sono mancati grandissimi filosofi e matematici, i quali, stimando la terra essere una stella, l’ hanno fatta mobile. Nulladimeno, seguitando noi il parere d’Aristotele e di Tolomeo, addurremo quelle ragioni, per le quali si possa credere, lei essere totalmente stabile.
E prima, essendo che d’un corpo semplice non può esser naturale altro che un moto semplice, essendo tale la terra, bisognerà che per necessità (se deve muoversi) si muova di moto semplice: ed essendo ch’ i moti semplici sono solamente il retto ed il circolare, adunque, se la terra si moverà, o vero anderà intorno, o vero per linea retta. Ma rettamente non si può movere: perciò che, non essendo i moti retti semplici altri che due, ciò è uno verso il centro e 1’altro verso la circonferenza, ed avendo noi di sopra provato la terra esser di già constituita nel centro, adunque verso esso non si può muovere; e maggior assurdo saria di chi dicesse, lei muoversi verso la circonferenza, vedendo noi per esperienza, il moto in alto esser delle cose leggieri, e non delle gravissime, quale è la terra. Adunque, da quanto s’è detto vien esclusa la terra da i moti retti; e ciò si deve ammettere tanto più facilmente, quanto che niuno ha mai detto in contrario.

Argomenti peripatetici, con la prosa peripatetica. Sembra un altro mondo quello del De motu e de Le mecaniche. Galileo ci fornisce uno spaccato di cosa era il mondo peripatetico di quale prosa si serviva, di quale logica. Se si riesce a comprendere bene si comprende benissimo quali erano le difficoltà per superare questa mentalità a sostegno della quale non vi era altro che l’autorità del Filosofo che neppure ammetteva dimostrazioni e/o esperienze. E Galileo continuava così:

Ma che lei [la terra] possa muoversi circolarmente, ha più del verisimile, e perciò da alcuni è stato creduto; mossi principalmente dal parer loro cosa quasi impossibile, che tutto 1’universo, eccetto la terra, dia una rivoluzione da oriente in occidente, tornando in oriente, dentro allo spazio di 24 ore: e però hanno creduto, che più presto la terra, dentro a tal tempo, dia una volta da ponente verso levante. Considerando Tolomeo questa oppinione, per distruggerla argomenta in questa guisa.

Si noti quanto sia straordinario che Galileo non citi mai, neppure per dire che sbagliava, Copernico (che era il più noto tra gli alcuni che hanno creduto) che tutti già conoscevano nello studio che era luogo molto aperto su queste questioni, soprattutto in epoca in cui la Chiesa non aveva lanciato strali evidenti contro il suo sistema. Comunque il seguito del passo è il seguente:

 Se noi, insieme con la terra, ci movessimo verso oriente con tanta velocità, ne seguiteria, che tutte l’altre cose, dalla terra disgiunte e separate, apparissero muoversi con altrettanta velocità verso occidente; e così gli uccelli e le nubi pendenti in aria, non potendo seguitare il moto della terra, resteriano verso la parte occidentale. Le cose parimente, le quali da luoghi eminenti si lasciassero cascar al basso, come, verbi gratia, una pietra dalla sommità d’una torre, non cascheria mai alla radice d’essa torre; perchè nel tempo ch’ il sasso, venendo al basso perpendicolarmente, fosse in aria, la terra, sottraendosegli e movendosi verso l’oriente, lo riceverebbe in parte dal piede della torre molto lontano: in quella guisa che, caminando velocemente la nave, il sasso cadente dalla sommità dell’ albero, non casca al piede, ma più verso la poppe. E ciò anco più manifestamente si vederebbe nelle cose gettate all’ insù perpendicolarmente, le quali, nel tornare al basso, cascheriano molto lontane da quello che le gettò: e così la freccia tirata con 1’arco drittamente verso il cielo, non riicascheria presso all’ arciero, il quale tra tanto, sportato. dal moto della terra, si saria per grande spazio discostato verso l’oriente. E finalmente, essendo il moto circolare e veloce accommodato non all’unione, ma più tosto alla divisione e dissipazione, quando la terra così precipitosamente andasse a torno, le pietre, gli animali e 1’altre cose, che nella superficie si ritrovano, verriano da tal vertigine dissipati, sparsi e verso il cielo tirati; così le città e gli altri edificii sariano messi in ruina.

E queste ultime sono le classiche argomentazioni contro il moto della Terra che erano state mosse dallo stesso Tolomeo nel suo Almagestum. Vi è il cenno del sasso lanciato dalla torre, lo scappare della Terra sotto a chi spiccasse un salto, non si dice ma vi è anche l’uccello che da un albero andasse verso un verme che non troverebbe né verme né albero al ritorno. Insomma tutto il repertorio geocentrico senza nulla concedere nemmeno in termini di dubbio a qualcos’altro. E la cosa è molto strana in un Galileo noto e famoso per criticare tutto e per discutere sempre con tutti. Evidentemente siamo alle difficoltà accennate del primo approccio.

        Il lavoro segue con altri argomenti il cui indice cito solo per completezza:

  • i due moti celesti tra loro contrari
  • proprietà della sfera celeste e dei suoi cerchi
  • l’orizzonte
  • il cerchio meridiano
  • il cerchio equinoziale
  • lo zodiaco
  • i cerchi massimi dei solstizi e degli equinozi
  • i tropici
  • i cerchi polari
  • le ascensioni zodiacali
  • la diversità dei giorni naturali
  • la diversità dei giorni civili
  • caratteristiche degli abitanti di parti diverse della Terra
  • latitudini e longitudini
  • suddivisione dei climi
  • eclissi di luna e di sole
  • l’illuminazione della Luna
  • modi diversi di presentarsi della Luna
  • moti dell’ottava sfera

Come si può osservare l’insieme del Cosmografia è un testo scolastico dell’epoca. Galileo vi si dedica in modo disciplinatissimo ed utilizza tutti gli argomenti noti degli aristotelico tolemaici, gli stessi che dovrà faticare a confutare qualche anno dopo.

        Seguendo le argomentazioni di Drake, che le trae da alcuni scritti di Paolo Sarpi in stretta corrispondenza con Galileo negli anni di Padova, fu il tentativo di spiegare le marre che nel 1595 avvicinò Galileo a questioni astronomiche trattate in prima persona e non più come ripetizione di cose stantie. Per la spiegazione di quel fenomeno, particolarmente importante a Venezia, egli ricorse o dovette ricorrere ai moti copernicani della Terra e sarebbe stata questa la via che lo avvicinò al copernicanesimo, almeno, in astronomia. Si deve tener conto che, come accennato, a quell’epoca non vi era alcuna prova minimamente convincente del sistema copernicano. Da una parte vi erano i dati empirici portati daTolomeo che sembravano incontrovertibili e dall’altra vi era la santa Bibbia, molto più pericolosa e preoccupante perché dietro vi era il sostegno di una Chiesa crudele a sostegno del suo potere che doveva essere indiscutibile. Copernico aveva fatto un lavoro degno che era in definitiva una sorta di sistema diverso da quello di Copernico in cui tutto rimaneva aristotelico. Tutto, ripeto rimaneva come ra meno una Terra che in modo incomprensibile doveva ruotare infilandosi in mezzo a sfere cristalline creando sconquassi. Copernico aveva preso le mosse da criteri di semplicità che non erano però riusciti. Aveva mosso le acque muovendosi sul terreno dell’ipotesi matematica portata avanti dal traditore Osiander. Insomma le cose non erano modificate ai fini del mantenimento dello status quo. Tycho aveva capito l’importanza di quanto fatto da Copernico ma, per motivi essenzialmente religiosi (la Bibbia !), aveva optato per quel suo sistema ibrido che vedeva la Terra ferma con tutti gli altri pianeti ruotanti intorno al Sole (e, fatto non trascurabile, aveva mostrato la non esistenza delle sfere cristalline). Poi nulla. Anche perché, insisto, il sistema aristotelico-tolemaico era molto più ragionevole perché ubbidiente al senso comune. Ma c’era anche un altro ostacolo tra il sistema di Tolomeo e la Bibbia, la recente riconciliazione di Aristotele con la Chiesa fatta da Tommaso d’Aquino che era stato fatto Dottore della Chiesa nel 1568.

    Cosa accadde allora di tanto convincente per Galileo ? Tanto dirimente da portarlo su un cammino così impopolare, se si osserva che le osservazioni del telescopio erano ancora molto lontane nel tempo ? Occorre analizzare i documenti a nostra disposizione che sono due lettere, una al filosofo Jacopo Mazzoni(17) del 30 maggio 1597 ed un’altra a Johannes Kepler (1571-1630)(18) del 4 agosto 1597.

CONFESSIONI DI COPERNICANESIMO

        Il filosofo, collega a Pisa ed amico di Galileo, Jacopo Mazzoni, nei primi mesi del 1597 aveva pubblicato a Venezia il suo In universam Platonis et Aristotelis philosophiam praeludia, nel quale si faceva una sorta di comparazione tra Platone ed Aristotele e dove, vi era, ad un certo punto, un argomento contro il sistema del mondo di Copernico. Dopo un’intera pagina di complimenti all’autore del libro in cui si parla delle posizioni di Platone a confronto con quelle di Aristotele, Galileo iniziava a porre il vero problema che sta alla base della lettera::

per dir la verità, quanto nelle altre conclusioni restai baldanzoso, tanto rimasi, nel primo affronto, confuso e timido, vedendo V.S. Eccellentissima tanto resoluta e francamente impugnare la opinione de i Pitagorici e del Copernico circa il moto e sito della terra; la quale sendo da me stata tenuta per assai più probabile dell’ altra di Aristotile e di Tolomeo, mi fece molto aprire 1’orecchie alla ragione di V.S., come quello che circa questo capo, ed altri che da questo dependono, ho qualche umore. Però, credendo per la sua infinita amorevolezza di poterli, senza gravarla, dire quello che per difesa del mio pensiero mi è venuto in mente, lo accennerò a V. S., acciò che, o, conosciuto il mio errore, possa emendarmi e mutar pensiero, o, satisfacendo alla ragion di V.S. Eccellentissima, non resti ancora desolata la opinion di quei grand’ uomini e mia credenza.

Dopo questa premessa assai prudente, Galileo passava ad illustrare cosa aveva capito dell’argomento di Mazzoni contro Copernico:

Parmi dunque che la dimostrazione di V.S. proceda così: che se fusse vero, che il Sole fusse nel centro della sfera stellata, e non la terra, ma da esso lontana quanto è dal Sole, doveremmo nella mezza notte vedere assai meno della metà di detta sfera, sendo segata dal nostro orizonte non per il centro, e, per conseguenza, in parti disegnali, delle quali la minore in quel tempo sarebbe da noi veduta, rimanendo la maggiore, nella quale è il centro, sotto l’ orizonte; ed il contrario avverria nel mezzo giorno: ma sendo la verità, che noi sempre veggiamo la metà di detta sfera, resta cosa impossibile esser la terra così dal centro lontana. Soggiunge poi, non esser di alcuno momento il dire col Copernico in sua difesa, tanta esser la vastità del firmamento, che in sua proporzione l’intervallo tra il Sole e la terra sia incomprensibile, ed insufficiente a cagionare disegualità notabile nella divisione degli emisferii: il che conseguentemente dimostra V. S. Eccellentissima con l’esempio della illuminazione del monte Caucaso; poichè, per quanto ci accerta il testimonio di Aristotile, sendo la sua sommità per grande spazio di tempo prima percossa da i raggi del Sole che la radice, necessario argumento prendiamo, da detta sommità scoprirsi molti gradi oltre all’ orizonte terminatore della metà della sfera; di maniera che, se la sola altezza del monte Caucaso può esser causa che l’ orizonte divida la sfera in parti sensibilissimamente diseguali, molto più lo doveria fare, se per tanto intervallo, quanto è tra la terra ed il Sole, dal centro ci allontanassimo.

E’ evidente che l’argomento di Mazzoni contro Copernico è identico a quello che Galileo aveva utilizzato nella Cosmografia (prime posizioni sostenute per affermare che la Terra fosse al centro dell’universo), che era, come spiegato, un libro di testo in cui non potevano comparire argomenti non sostenuti da qualcosa di molto sostanzioso. Galileo stava per offrire la sua spiegazione del fenomeno che si muoveva invece in ambito copernicano. Lo faceva introducendo di nuovo il tutto con molta accortezza e cortesia:

Questa, se bene l’ho compresa, è la dimostrazione di V. S. Eccellentissima: la quale non negherò che, quando prima fu da me vista, non mi movesse assaissimo, sì per esser sottilissima e bellissima, sì ancora per esser di V.S. E perchè, come di sopra le ho detto, mi toccava (come diciamo) nel vivo, mi voltai a considerarla con grandissima attenzione: e, dopo un lungo discorso, cominciò a venirmi in pensiero, come potesse essere che, non essendo tutta la lontananza dal centro alla superficie della terra (posta l’opinione di Tolomeo) bastante a far che l’ orizonte dividesse la sfera in parti sensibilmente diseguali, potesse poi la sola altezza del monte Caucaso, aggiunta al semidiametro della terra, fare che l’ orizonte la sfera segasse in parti così notabilmente disguali. Il che m’indusse a pensare che, non la lontananza del vertice del monte dal centro della terra, ma più presto l’altezza di detto vertice sopra la superficie della terra, potesse esser della detta disgualità cagione: e questo perchè, quando abbiamo 1’occhio nella superficie della terra, viene l’ orizonte ad esser difinito per quella superficie piana che tocca il globo terrestre nel punto dove è l’occhio; ma se l’occhio sarà dalla superficie della terra elevato, come se sia nella sommità del monte Caucaso, allora 1’orizonte non resta più una superficie piana, ma più tosto una superficie conica, il cui angolo o vertice è nell’ occhio. Come più apertamente si scorge dalla seguente figura, dove per il globo terrestre intendiamo il cerchio AI:

quando l’occhio sarà nel punto A, sarà l’ orizonte piano, secondo la linea BAC; ma quando metteremo l’occhio nel punto D, elevato dalla superficie della terra, sarà determinato 1’orizonte secondo le due linee contingenti DEG, DFH, e sarà la superficie conica. Dalla qual figura possiamo comprender, come 1’altezza del monte AD, per esser elevata sopra la superficie della terra, fa assai maggior diversità circa il dividere il cielo disegualmente, che non fa tutto il semidiametro AM; importando questo l’arco BK, e quella il BG.
Il che avendo io considerato, cominciai ad avvertire che gran differenza era tra il far discostare l’occhio, posto nella superficie della terra, con tutta la terra, del centro del cielo, e tra il fare alzare l’occhio sopra .la superficie della terra; e che, per conseguenza, forse minor diversità, circa la disegualità delle più volte dette divisioni orizontali, potria cagionare la grandissima lontananza che è tra il Sole e la terra, che la piccola altezza del monte Caucaso. Il che avendo poi più particolarmente ricercato, parmi (s’io non m’inganno) aver dimostrato, che il discostar l’occhio, con tutta la terra, dal centro del mondo, quanto è la distanza tra la terra ed il Sole, non faccia maggior diversità che il costituire l’occhio (lasciando la terra nel centro) sopra un monte alto non più di un miglio ed 1/7.

E qui segue un altra dimostrazione geometrica che serve a provare quanto Galileo ha or ora detto. Con tale dimostrazione Galileo dà per dimostrato il suo assunto e negato quello di Mazzoni. Concludeva quindi così:

Parmi, dunque, che da questo si concluda, che il porre la terra lontana dal centro del firmamento quanto è la distanza tra essa e il Sole, non possa far maggior differenza, circa il segar l’orizonte la sfera stellata disegualmente, di quello che farebbe l’inalzarsi (costituita la terra nel centro) dalla sua superficie un miglio ed 1/7. E se vorremo vedere quanto faccia scoprir più dell’ emisferio 1’alzarsi dalla superficie della terra miglia 1 e 1/7, troveremo con facile dimostrazione, ciò non passare g[radi] 1.32′ dall’una e dall’altra parte. E questa sarà la diversità, che in questo caso nasceria dal por la terra nel centro del firmamento, o il Sole; che nasceria, dico, quando 1’ampiezza del firmamento fusse quanta si è supposto: ma essendo, come suppone il Copernico, grandemente maggiore, che maraviglia o sarà se il nostro orizonte, tanto lontano dal centro quanto dal Sole, segherà il firmamento in parti eguali al senso? Ed aggiunge si a questo, che la diversità, che si è dimostrata nascere dall’alzarsi dalla superficie della terra miglia 1 e 1/7, e che è eguale a quella che fa il discostare la terra dal centro quanto dal Sole, e che si è dimostrata posto che la terra fusse nel centro, se la terra si metterà nel luogo del Sole, ci verrà data dall’un monte alto solamente un miglio: onde ne seguirà poi, la differenza  de  gli  emisferii  esser  assai minore della già dimostrata di g[radi] 1.32. 
Ma, per non infastidire più lungamente V.S. Eccellentissima, non voglio darli più lunga briga, ma solamente pregarla a o dirmi liberamente, se li pare che in questa maniera si possa salvare il Copernico. Io sono stracco dallo scrivere, e lei dal leggere: però, tagliando tutte le lunghezze di cerimonie, farò fine col baciarli le mani e pregarla ad amarmi, come ha fatto sempre, ed a comandarmi. N. S. gli conceda felicità.

Di Padova, li 30 maggio 1597.
Di V. S. M.to Ill.re ed Ecc.ma
Ser.or obligatiss.o

GALILEO GALILEI.

E fin qui la lettera a Mazzoni nella quale Galileo va a toccare un punto della trattazione del suo ex collega che rappresentava l’opinione comune a quell’epoca. Sembra un punto marginale ma ho più volte detto che le concezioni aristotelico tolemaiche sono estremamente coordinate tra loro con la conseguenza che se si crea una breccia da qualche parte il rischio di crollo è molto grande. Vediamo cosa diceva invece Galileo a Kepler introducendo questa lettera con alcune vicende che avevano iniziato a legare i due personaggi.

        Nel 1596 Kepler aveva dato alle stampe il suo Mysterium Cosmographicum. Ne consegnò due copie al suo amico Paul Hamberger che nell’estate del 1597 tornava a studiare a Padova dove da due anni era iscritto alla facoltà delle Arti. Il fine era di regalare le due copie a qualcuno che fosse interessato al tema trattato. Hamberger consegnò le due copie a Galileo senza stare a cercare una seconda persona interessata. Galileo si sentì in obbligo di scrivere a Kepler per ringraziarlo e lo fece il 4 agosto con una lettera in cui si dichiara apertamente sostenitore di Copernico. Leggiamo questa lettera(19):

A Giovanni Keplero, in Graz.

Illustrissimo Signore,

non da pochi giorni, ma soltanto da poche ore ho ricevuta il Suo libro che mi è stato inviata da Paolo Hamberger. Poiché il signor Paolo mi ha fatto cenno del Suo ritorno, in Germania, ho pensato che avrei dato prova di animo ingrato se non avessi ringraziato la Signoria Vostra con questa lettera. La ringrazio e ancora vivamente La ringrazio per essersi Ella degnata, di offrirmi in questa occasione la Sua amicizia. Del Suo libra ho visto soltanto la prefazione, ma da essa mi son reso canto della sua intenzione.
Sono veramente felice di avere un compagno casi illustre e così amante del vero, nella ricerca della verità. È certo una cosa tristissima che gli uomini amanti della verità e che non perseguono un metodo perverso di filosofare siano tanto pochi. Ma poiché non è questo il luogo per deplorare le miserie del nostro secolo, ma piuttosto di rallegrarmi per le bellissime scoperte nella conferma della verità, aggiungerò e prometterò questo soltanto: che leggerò il Suo libro con cura, e con animo sereno, nella certezza di trovare in essa cose bellissime. Questo farò tanto più volentieri, perché già da molti anni ho aderito alla dottrina di Copernico e perché, muovendo da tale posizione, ho scoperto le cause di molti effetti naturali che sono, senza dubbio alcuno, inesplicabili in base alla ipotesi corrente [vi sono degli storici che ipotizzano si tratti di studi sulle maree, ndr]. Ho già scritto molte argomentazioni e molte confutazioni degli argomenti avversi, ma finora non ho osato pubblicarle, spaventato dal destino dello stessa Copernico, nostro maestro. Egli, anche se ha conseguito presso alcuni una fama immortale, è apparso invece a infiniti altri (così grande è il numero degli stolti) ridicolo e da respingersi. Troverei certo il coraggio di rendere pubbliche le mie considerazioni, se ci fossero molte persone come la Signoria Vostra. Poiché non se ne trovano, soprassiederò al mio negozio.
Sono pressato dall’angustia del tempo e dal desiderio di leggere il Suo libro. Ponendo qui termine a questa mia, mi dichiaro suo amico devotissimo e a Sua disposizione per qualunque circostanza. La saluto e spero di avere presto Sue liete notizie.

Padova, 4 agosto 1597

Galileo Galilei Matematico dell’Università di Padova.

La lettera non entra in dettagli ma in essa Galileo si schierava in modo netto e deciso con le teorie copernicane. In modo altrettanto netto affermava che vi era una gran folla di stupidi che sono schierati con Aristotele e Tolomeo e che egli non si azzardava a pubblicare nulla perché non aveva prove dirimenti. Ma l’affermazione di fede copernicana è talmente netta che deve risalire a vari anni indietro, agli anni di Pisa, dopo la lettura dell’opera del 1585 di Giovan Battista Benedetti (1530-1590): Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber(17). G.B. Benedetti era stato uno dei primi e decisi critici di Aristotele al quale principalmente rimproverava il non aver compreso la fondamentale importanza dell’uso della matematica nella trattazione di questioni fisiche. Si doveva ridiscutere tutto partendo da Archimede ed ispirandosi a Platone, in modo da sbarazzarsi della fisica di Aristotele al fine di costruirne una migliore fondata su verità che l’intelletto umano conosce di per sé. E Benedetti, che accetta la teoria dell’impetus ma contrariamente a Galileo non riesce a sbarazzarsene, inizia una critica serrata ad Aristotele che, a suo giudizio, ha sbagliato tutto a proposito del movimento naturale e di quello violento, oltre ad aver fatto il suo più grande errore nel negare il vuoto. Egli sostituisce a quella di Aristotele la sua concezione di movimento che prefigura anche il principio d’inerzia, concezione alla quale si ispirerà il Galileo del De motu(20).

        Galileo è quindi un copernicano ma non può far altro che continuare come se nulla fosse. Il successivo lavoro di Galileo è di carattere tecnico e non riguarda in alcun modo questioni copernicane.

LE OPERAZIONI DEL COMPASSO GEOMETRICO ET MILITARE



          Sappiamo già delle precarie condizioni economiche di Galileo e come egli arrotondasse lo stipendio dello Studio con lezioni private e con la costruzione di strumenti scientifici di precisioni, operazione per la quale contrattò successivamente l’abile artigiano Mazzoleni. Ebbene il primo strumento di gran precisione ed utilità fu realizzato da Galileo nel 1597 (ed il lavoro a stampa che ne spiegava il funzionamento del 1606). Si trattava di un apparecchio che permetteva svariatissimi calcoli ed operazioni meccaniche per uso sia civile che militare il cui nome era Compasso geometrico militare(21). Di compassi che permettevano delle operazioni se ne erano già realizzati. Lo scienziato pratico inglese Thomas Hood ( 1556 – 1620) aveva stampato nel 1598 un manuale d’istruzione, Making and Use of the Sector,  per un compasso di proporzione, che chiamava Sector, e tale strumento doveva essere già in uso anni prima in applicazioni di agrimensura. Il compasso di Hood disponeva di tre scale identiche su ciascuno dei due bracci del compasso. 

Il compasso di Hood ed accessori

Nello stesso 1598 comparve a Venezia un libro in cui figurava il disegno del compasso realizzato da Guidobaldo del Monte che era una riproposizione migliorata di altri due tipi di compassi del 1560 che Drake descrive nel modo seguente:

Uno era il comune compasso di proporzione, che è in uso ancor oggi; esso ha una punta all’estremità di ogni asta e ha una cerniera mobile. L’altro era il compasso di riduzione, con una cerniera fissa, due punte fisse e due punte scorrevoli perpendicolari alle aste. Modelli successivi furono costruiti in modo tale che tutte le quattro punte toccassero la carta ortogonalmente. Tutti questi strumenti erano costosi e richiedevano una frequente regolazione delle parti mobili. Guidobaldo fece di una semplice cerniera l’unica parte mobile del suo compasso e fornì scale permanenti le quali davano letture dirette per il numero di parti di un cerchio o di un segmento.    

Compasso di Fabrizio Mordente (1532-1608) del 1572, descritto nel 1582.

Lo riporto perché è uno dei primi compassi e per dare un esempio di come potevano essere gli appoggi di altri compassi.

Evidentemente Galileo dovette prendere le mosse da questi antecedenti e particolarmente dal compasso di Guidobaldo che, a sua volta discendeva da uno strumento descritto da Tartaglia nel 1537. Su questo dice Drake:

Le origini del «compasso geometrico e militare» di Galileo sono state correlate congetturalmente in vario modo al compasso di proporzione, al compasso di riduzione e al compasso di Guidobaldo. Si è sempre supposto che Galileo adottasse un dispositivo per il calcolo già in uso e aggiungesse a esso scale più complesse. Un punto debole di questa supposizione era il fatto che non era mai stato rinvenuto alcun compasso per il calcolo usato in Italia prima che Galileo inventasse il suo «compasso militare» nel 1597. Ora è possibile aggiungere un’altra obiezione: il compasso galileiano aveva già una struttura complessa prima ancora che venisse registrata su di esso la scala più semplice di tutte. Ma cominciamo raccontando la «preistoria» dello strumento.
Gli antecedenti del compasso galileiano erano due strumenti di tipo del tutto diverso entrambi inventati una sessantina di anni prima per applicazioni militari da Nicolò Tartaglia, un matematico. Essi furono combinati in uno da Galileo,  che vi aggiunse perfezionamenti, prima ancora che gli venisse l’idea del calcolo meccanico.
Nel 1537 Tartaglia pubblicò a Venezia un libro, la Nova scientia, in cui la matematica era applicata all’artiglieria. Il libro introduceva un archipendolo per il puntamento in elevazione delle artiglierie consistente in una sorta di squadra da falegname avente un’asta lunga che veniva collocata nella bocca del pezzo e un arco di quadrante fisso diviso in 12 parti uguali chiamate punti (si veda la figura seguente). Un filo a piombo pendente dal vertice indicava l’elevazione della canna, cosicché un tiro orizzontale veniva detto «di punto in bianco» e un tiro a 45 gradi veniva detto «di sei punti». Il dispositivo fu adottato rapidamente in tutta Europa.

Tartaglia si occupò anche della determinazione dell’altezza e della distanza di bersagli per mezzo di rilevamenti visuali e di triangolazioni. A tal fine egli inventò un secondo strumento, fondato anch’esso sul quadrato. Fra questa epoca e il tempo di Galileo vari uomini proposero strumenti più appropriati e più comodi per la determinazione trigonometrica delle distanze.

Molti fra gli studenti di Galileo a Padova, dov’egli insegnò dal 1592 in avanti, erano giovani nobili destinati alla carriera militare. Egli insegnò loro privatamente architettura militare e fortificazioni e questo insegnamento lo condusse a perfezionare e a unire in uno i due strumenti di Tartaglia. Innanzitutto egli osservò che disporsi davanti al cannone, esposti al fuoco nemico, per determinare l’elevazione del pezzo era impresa piuttosto pericolosa. Per questa e altre ragioni sarebbe stato preferibile misurare l’elevazione del pezzo rimanendo nei pressi della culatta, cosa che si poteva fare ponendo gli estremi delle aste dello strumento sopra la canna e leggendo i punti di elevazione dal centro del quadrante anziché da un estremo. Galileo rese le aste dello strumento di uguale lunghezza. Poiché la canna di un pezzo d’artiglieria presenta uno spessore maggiore verso la culatta, era necessario provvedere a una compensazione allungando in qualche misura l’asta anteriore dello strumento. A tal fine Galileo fornì al suo strumento un piede mobile montato su un cursore e fissato con una vite.
Galileo aggiunse poi graduazioni al quadrante, in modo da fargli indicare in gradi le elevazioni comprese fra 0 e 90 gradi. Questo mutamento rese lo strumento idoneo anche a rilevamenti astronomici nel corso di lunghe marce. Galileo vi aggiunse anche una scala clinometrica in unità di centesimi di inclinazione; essa consentiva agli architetti militari di determinare la pendenza di scarpate. Tale scala, dando le unità di dislivello verticale per unità di distanza orizzontale, suggeriva a sua volta una semplificazione nella determinazione dell’altezza e della distanza mediante la vista. Galileo divise il suo quadrante in 200 parti uguali e le letture andavano da zero a ciascuna estremità a 100 in centro, in corrispondenza cioè di 45 gradi. Poiché tali unità esprimevano in termini moderni centesimi di pendenza, la scala consentiva di evitare taluni calcoli comuni e di fare di altri una questione di semplice aritmetica mentale. Lo strumento risultante non soltanto eliminava il bisogno di due strumenti separati per gli artiglieri, ma era prezioso anche per topografi e agrimensori.
Fu probabilmente nel 1595 che Galileo scrisse un breve trattato senza titolo sugli usi dello strumento.

Il compasso di Galileo aveva 7 scale graduate uguali su ciascun braccio (delle quali solo  una, quella per la costruzione di poligoni, era presente nel compasso di Hood). Camerota lo descrive così:

Non diversamente dagli altri, anche il compasso escogitato da Galileo constava di un quadrante fissabile con viti a due bracci (di ottone) uniti a cerniera, su cui erano incise diverse linee graduate. Una faccia del compasso (che chiameremo recto) recava quattro coppie di linee (si veda la figura di seguito riprodotta, tratta dal saggio di Stillman Drake, Tartaglia’s Square and Galileo’s Compass), divise in gradi a partire dal centro della cerniera (punto di congiunzione dei due regoli).

La prima coppia di linee (numerata fino a 250) è quella delle linee “aritmetiche”, mediante le quali si possono compiere operazioni quali addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni, nonché quei calcoli che hanno il loro fondamento nella teoria delle proporzioni (come la divisione di una retta in parti uguali, la riduzione della scala di una figura, ecc.). Seguono, quindi, le linee “geometriche”, destinate ai calcoli su figure superficiali e a quelli di radici quadrate, e, in terzo luogo, le linee “stereometriche”, per le operazioni sui solidi e per le estrazioni di radici cubiche. Infine, l’ultima coppia di linee segnate su questa faccia del compasso concerne le linee “metalliche”, intese a consentire la determinazione delle proporzioni dei pesi specifici di alcune materie di uso comune.
Sull’altra faccia (il verso) del compasso, trovano invece posto tre coppie di linee: le linee “poligrafiche”, che consentono di descrivere, sopra una data linea, figure regolari di quanti angoli e lati uguali si voglia; le linee “tetragoniche”, adoperabili allo scopo di trovare l’area di poligoni regolari; e, ancora, le linee “aggiunte”, così denominate perché «aggiungono alle Linee Tetragoniche quello che in esse potria desiderarsi, cioè il modo di riquadrare le porzioni del cerchio e le altre figure [contenute da parti di circonferenze o da linee rette e curve insieme]».
Il quadrante del compasso, un pezzo separato e smontabile che veniva innestato sui bracci, consentiva, inoltre, l’utilizzazione dello strumento da parte dei “bombardieri” (per determinare l’elevazione del cannone), nonché l’applicazione dello stesso all’astronomia, al fine di stabilire l’altezza di un astro sull’orizzonte, e, in generale, rendeva il congegno adatto a misurare attraverso la traguardazione a vista.

Più in dettaglio, così come leggiamo nel manuale pubblicato nel 1606, Le operazioni del compasso geometrico militare, permetteva le seguenti operazioni:

– divisione della linea

– come di una linea proposta possiamo prendere
qualunque parti ci verranno ordinate.

– come le medesime linee ci prestano due, anzi infinite, scale
per trasportar una pianta in un’altra maggiore o minore,
secondo il nostro arbitrio.

– regola del tre risoluta col mezo del compasso
e delle medesime linee aritmetiche.

– regola del tre inversa, risoluta col mezo delle medesime linee.

– regola per trasmutar le monete.

– regola de gl’interessi sopra interessi,
che altrimenti si dice de i meriti a capo d’anno

– delle linee geometriche, che seguono appresso, e loro usi ;
e prima, come col mezo di esse possiamo crescere o diminuire
in qualunque data proporzione tutte le figure superficiali.

– come con l’istesse linee possiamo trovare la proporzione
tra due figure superficiali tra di loro simili.

– come si possa costituire una figura superficiale
simile ed eguale a molte altre simili proposteci.

– proposte due figure simili e diseguali, trovar la terza
simile ed eguale alla differenza delle due proposte

– estrazione della radice quadrata con l’aiuto delle medesime linee.

– regola per le ordinanze de gli esserciti di fronte e fianco diseguali.

– invenzione della media proporzionale per via delle medesime linee

– delle linee stereometriche;
e prima come col mezo di esse si possin crescere o diminuire
tutti li corpi solidi simili secondo la data proporzione.

– proposti due solidi simili, trovare qual proporzione abbino fra di loro.

– proposti solidi simili quanti ne piacerà,
trovarne un solo eguale a tutti quelli.

– estrazione della radice cuba.

 – invenzione delle due medie proporzionali

– come ogni solido parallelepipedo si possa col mezo delle linee stereometriche ridurre in cubo.

– esplicazione delle linee metalliche
notate appresso le stereometriche.

– con le linee predette potremo ritrovar la proporzione che hanno in peso tra di loro tutti li metalli ed altre materie nelle linee metalliche notate

– congiugnendo gli usi delle linee metalliche e stereometriche,
dati due lati di due solidi simili e di diverse materie,
trovare qual proporzione abbino fra di loro detti solidi in peso.

– come queste linee ci servono per calibro da bombardieri
accomodato universalmente a tutte le palle
di qual si voglia materia ed a tutti li pesi.

– come, proposto un corpo di qual si voglia materia, possiamo ritrovare tutte le misure particolari di uno di altra materia, e che pesi un dato peso.

– delle linee poligrafiche,
e come con esse possiamo descrivere i poligoni regolari,
cioè le figure di molti lati ed angoli eguali.

– divisione della circonferenza del cerchio in quante parti ci piacerà.

– esplicazione delle linee tetragoniche,
e come col mezo d’esse si quadri il cerchio ed ogni altra figura regolare, e più come si trasmutino tutte l’una nell’altra.

– come proposte diverse figure regolari, ben che tra di loro dissimili, se ne possa costituire una sola eguale a tutte quelle.

– come si possa costituire qual si voglia figura regolare eguale ad ogn’altra irregolare, ma rettilinea, figura proposta.

– lemma per le cose dette di sopra

– delle linee aggiunte per la quadratura delle parti del cerchio e delle figure contenute da parti di circunferenze o da linee rette e curve insieme.

Il compasso geometrico militare di Galileo

         La pubblicazione del lavoro di Galileo nel 1606 dette origine ad una sfacciata operazione di plagio da parte del milanese Baldassar Capra che, nella primavera del 1607, fece stampare un opuscolo in latino, Usus et fabrica circini cuiusdam proportionis(22), una mal fatta traduzione piena di errori (e di latino e tecnici) del lavoro di Galileo di un anno prima. Inoltre, nell’opuscolo si rivendiva l’invenzione del compasso geometrico militare. Quando Galileo ne fu informato prima notificò ai Riformatori dello Studio il plagio subito (7 aprile 1607) e quindi presentò una denuncia per plagio al Tribunale di Venezia (9 aprile 1607). La vicenda, oltre che sgradevole, era per Galileo molto delicata perché il suo lavoro era stato dedicato a Cosimo de’ Medici, Principe di Toscana, in un momento in cui lo scienziato tentava di ricreare buoni rapporti con il Gran Ducato al fine di un futuro Ritorno a Firenze. Il processo si concluse subito, dopo aver sentito il medesimo Capra convocato a Venezia. Il perito che dovette confrontare le due opere fu Paolo Sarpi. Il 4 maggio si ebbe una sentenza completamente favorevole a Galileo che comportò la distruzione di tutte le opere di Capra oggetto del dibattimento. Ma poiché una trentina di esse erano state fatte arrivare all’estero, Galileo scrisse e pubblicò nell’agosto 1607 una memoria dal titolo Difesa di Galileo Galilei contro alle calunnie et imposture di Baldassar Capra Milanese(23), proprio per far conoscere ogni particolare di quella triste vicenda. Una di tale copie fu immediatamente inviata a Cosimo de’ Medici.

IL TERMOSCOPIO

        Oltre al Compasso, Galileo realizzò altri strumenti di rilevante interesse e tra questi il Termoscopio. Viviani scriveva che, negli anni di Padova, Galileo:

ritrovò i termometri, cioè quelli strumenti di vetro, con acqua et aria, per distinguer le mutazioni di caldo e freddo e la varietà de’ temperamenti de’ luoghi […]

        Quindi, secondo Viviani, il termoscopio (non termometro) di Galileo fu realizzato tra il 1592 ed il 1597 a Padova. Abbiamo testimonianze epistolari che risalgono a vari anni dopo tale invenzione. L’amico e corrispondente di Galileo, Gio. Francesco Sagredo, gli scriveva il 30 giugno del 1612(24) affermando:

Il S.r Mula fu al Santo [alla festa di Sant’Antonio, il 13 giugno], et mi riferì haver veduto uno stromento dal S.r Santorio [Santorre Santorio, un medico istriano chiamato ad insegnare a Padova], col quale se misurava il fredo et il caldo col compasso, et finalmente mi communicò questo essere una gran bozza di vetro con un colo lungo, onde subito me sono dato a fabricarne de molto esquisiti et belli.

        Alle rimostranze di Galileo che rivendicava per sé l’invenzione [anche qui vi erano problemi di plagio],  seguiva un’altra lettera di Sagredo (9 maggio 1613)(25):

L’istromento per misurar il caldo, inventato da V. S. Ecc.ma [Galileo], è stato da me ridotto in diverse forme assai commode et esquisite, in tanto che la differenza della temperie di una stanza all’altra si vede fin 100 gradi. Ho con questi speculate diverse cose meravigliose, come, per essempio, che l’inverno sia più freda l’aria, che pochissima acqua sia più freda che molta, et simili sottigliezze, alle quali i nostri Peripatetici non sanno dar nessuna rissolutione […]

        In questa lettera si assegnava l’invenzione del termoscopio a Galileo. Abbiamo infine una lunga testimonianza dell’amico di Galileo, Benedetto Castelli, in una lettera a Fernando Cesarini del 20 settembre 1638(26), nella quale, discutendo del come curare alcune ferite, si diceva:

In questo mi sovvenne un’esperienza fattami vedere già più di trentacinque anni sono dal nostro Sig.r Galileo, la quale fu, che presa una caraffella di vetro di grandezza di un piccol uovo di gallina, col collo lungo due palmi in circa, e sottile quanto un gambo di pianta di grano, e riscaldata bene colle palme delle mani la detta caraffella, e poi rivoltando la bocca di essa in vaso sottoposto, nel quale era un poco di acqua, lasciando libera dal calor delle mani la caraffella, subito l’acqua cominciò a salire nel collo, e sormontò sopra il livello dell’acqua del vaso più d’un palmo; del quale effetto poi il medesimo il livello dell’acqua del vaso più d’un palmo; del quale effetto poi il medesimo Sig.r Galileo si era servito per fabbricare un istrumento da esaminare i gradi del caldo e del freddo. Intorno al quale strumento sarebbe che dire assai; ma per quanto fa al proposito nostro, basta che in sostanza si osserva che l’acqua, quanto più l’aria circonfusa intorno alla caraffella si trova più e più fredda, tanto più alto sale l’acqua sopra il livello della sottoposta, e quanto lo strumento vien portato in aria meno fredda, tanto più l’acqua si va abbassando nel collo della caraffella.

        Castelli parlava quindi di una invenzione di Galileo che dovrebbe risalire ai primissimi anni del Seicento.

        Vi è poi una lettera di Galileo del 1626 nella quale egli accennava ad un suo strumento per misurare variazioni termiche realizzato 20 anni prima(27). Infine vi è un brano di Galileo di epoca incerta in cui si parla del termoscopio(28):

Appresso le scuole de’ filosofi è approvato per vero principio, che del freddo sia proprietà il ristringere, e del caldo il rarefare. Ora, stante questo, intendasi che l’aria contenuta nello strumento sia della medesima temperie che l’altra aria della stanza dove si pone; e casi, per ritrovarsi questi due corpi egualmente gravi in specie, ne segue che l’uno non scaccia l’altro, come a quello che, per non acquistar niente, è meglio restar quivi. Ma se l’aria circunfusa alla palla si raffredderà, con l’imporvi qualche corpo più freddo, i calidi contenuti nell’aria compresa nella palla, come quelli che per esser in un mezo men leggieri di loro, se ne saliranno in alto, e tal aria diverrà più fredda di prima; e casi, per l’antidetto principio, si ristringerà e terrà men luogo: onde (ne detur vacuum) il vino salirà su ad occupar il luogo lasciato voto dall’aria; e di poi, riscaldata tal aria, rarefacendosi e tenendo maggior luogo, verrà a scacciare e mandar giù il vino, il quale, come grave, volentieri gli cederà quel luogo; onde ne segue che il freddo non sia altro che privazione di caldo. [… ] L’aria freddissima per tramontano è più fredda del diaccio e della neve: in confermazione di che, se si approssimerà allo strumento in tal tempo della neve o del diaccio, il vino calerà notabilmente.

        Secondo altre testimonianze l’invenzione del termoscopio si situerebbe tra il 1603 ed il 1606 ed altri rivendicherebbero la sua invenzione(29). In ogni caso la questione è simile a quella dell’invenzione del telescopio perché lo strumento in sé ha una valenza mentre l’uso che se ne fa un’altra. E, con Galileo e Torricelli, il termoscopio acquista il ruolo dell’indagine della natura per contrastare la fisica di Aristotele. Galileo sosterrà infatti, contrariamente alle teorie aristoteliche che prevedevano il caldo ed il freddo come due proprietà distinte ed intrinseche alla materia, che il freddo non sia altro che privazione di caldo e tale fondamentale concetto verrà ripreso nel Saggiatore del 1623 dove Galileo sosterrà che il freddo non è una qualità positiva come nella fisica di Aristotele, ma una privazione di caldo; che esso non è insito nella materia ma risiede nel corpo sensitivo. Siamo anche qui a smontare la fisica aristotelica ma con maggiori difficoltà per una gran quantità di problemi che si accavallano, non ultima la teoria degli ignicoli di Democrito secondo la quale i corpi caldi emetterebbero piccole particelle che andrebbero a scaldare i corpi che le ricevono.
        Ma torniamo al termoscopio di Galileo, riportando una figura che ci fornisce Castelli nella sua lettera a Cesarini del 1638 citata che ci servirà per spiegarne il principio di funzionamento. Il termoscopio è costituito da una sfera A di vetro della grandezza di un uovo contenente aria.

La sfera è direttamente connessa con un lungo tubicino anch’esso di vetro e contenente acqua (lunghezza del tubicino circa 50 cm). La sfera e quindi l’aria che
contiene viene rovesciata e messa in contatto, attraverso il tubicino e l’acqua che contiene, con un recipiente sottostante contenente del liquido. Il calore che viene fornito alla sfera si trasferisce, attraverso la dilatazione dell’aria che contiene, nel tubicino contenente acqua. Quest’ultima viene sospinta verso il basso, a quote inferiori quanto maggiore è il calore che passa alla sfera (vale naturalmente il fenomeno inverso: se la sfera superiore perde calore, l’aria condensa e diminuisce di volume con la conseguenza che il liquido nel tubicino sale). Quindi, a differenti gradi di calore, corrispondono differenti altezze in cui troviamo l’acqua nel tubicino. C’è qui da osservare che, anche se disponessimo una scala graduata nel tubicino (che sarà introdotta da Santorre Santorio nel 1612)(30), le misure di temperatura, fatte attraverso misure di variazione di densità dell’aria, che ne deriverebbero sarebbero grossolane e non assolute poiché il livello dell’acqua nel tubicino non dipende solo dalla temperatura (e dal tubicino che deve essere costruito con una sezione costante) ma anche dalla pressione dell’aria (concetto ancora non noto), come bene studierà Torricelli.

PENDOLI E PIANI INCLINATI: IL MOTO ACCELERATO
 

       Nel maggio del 1600 arrivò a Galileo una lettera da parte di Tycho Brahe(31), il più grande astronomo del tempo che in Italia era chiamato Ticone. Il famoso astronomo danese chiedeva a Galileo la sua opinione sul sistema astronomico da lui elaborato e gli proponeva una collaborazione. Come con Kepler, con cui vi era stato un solo scambio epistolare, anche qui Galileo non rispose. Probabilmente ancora siamo di fronte a Galileo che è copernicano ma è sempre più imbarazzato perché, in astronomia, non riesce a trovare prove dirimenti da offrire a critici feroci su questo argomento. In ogni caso c’è da sottolineare che se quel grande e noto personaggio scriveva ad un ignoto professore di matematica, una qualche notizia doveva essere giunta su qualche elaborazione di Galileo. Il fatto poi che Galileo uscisse da normali canoni di cortesia, ai quali non aveva mai mancato, può solo essere oggetto di speculazioni. Una possibilità risiede proprio in quanto accennavo, al fatto cioè che Galileo riconosceva la grande superiorità di Tycho come osservatore del cielo ma non quella di teorico. Il suo sistema doveva sembrargli un ibrido indigeribile utile solo per mettere in pace la coscienza, visto che il Sole al centro dell’Universo avrebbe risolto molti più problemi che non correre dietro alla Bibbia. Insomma Galileo era in difficoltà perché privo ancora dell’autorità di obiettare ad uno come Ticone. Passare a lavorare con Tycho in tali condizioni avrebbe significato restare un collaboratore eternamente subalterno ad un personaggio che in complesso non stimava. Né poteva spiegare questo preferendo stare zitto. In questo stesso periodo Galileo iniziava a scrivere il suo De sistemate mundi che terminerà l’anno successivo quando, a partire dal 1602, inizierà, a partire da un trattato0 di meccanica, ad affrontare con determinazione e per vie differenti il problema del moto accelerato con studi che lo tennero occupato fino al 1609 e che si proponeva di pubblicare non appena li avesse conclusi (in linea di massima nel 1602 cominciò a studiare il pendolo ed il moto sul piano inclinato; nel 1603 scoprì due teoremi sul moto sul piano inclinato; e, nello studio del moto, si accorse della continua accelerazione dei moti naturali, del paradosso delle velocità nei moti accelerati. Lavorò per mettere ordine cercando una regola dell’aumento di velocità nei moti naturali. Nel 1604 scoprì la legge del pendolo in base ad accurate misurazioni dei tempi. Da questa passò alla legge della caduta dei gravi implicata dalla legge del pendolo e tentò di ricavare la legge della caduta dei gravi). Sappiamo tutto ciò da una lettera del 1610 che lo stesso Galileo scrisse a Belisario Vinta(32), il segretario del Gran Duca di Toscana che già abbiamo incontrato. Nella lettera Galileo, già famoso per il suo Sidereus Nuncius (e qui fa cenno ai satelliti di Giove), scriveva:

Le opere che ho da condurre a fine sono principalmente 2 libri De sistemate seu constitutione universi, concetto immenso et pieno di filoosofia, astronomia et geometria: tre libri De motu locali, scienza interamente nuova, non havendo alcun altro, nè antico nè moderno, scoperto alcuno de i moltissimi sintomi ammirandi che io dimostro essere ne i movimenti naturali et ne i violenti, onde io la posso ragionevolissimamente chiamare scienza nuova et ritrovata da me sin da·i suoi primi principii: tre libri delle mecaniche, due attenenti alle demostrazioni de i principii et fondamenti, et uno de i problemi; et benchè altri habbino scritto questa medesima materia, tutta via quello che ne è stato scritto sin qui, nè in quantità nè in altro è il quarto di quello che ne scrivo io. Ho anco diversi opuscoli di soggetti naaturali, come De sono et voce, De visu et coloribus, De maris estu, De compositione continui, De anirnalium motibus, et altri ancora. Ho anco in pensiero di scrivere alcuni libri attenenti al soldato, formandolo non solamente in idea, ma insegnando con regole molto esquisite tutto quello che si appartiene di sapere et che depende dalle matematiche come la cognizione delle castrametazioni, ordinanze, fortificazioni, espugnazioni, levar piante, misurar con la vista, cognizioni attenenti alle artiglierie, usi di varii strumenti, etc. Mi bisogna di più ristampare l’Uso del mio Compasso Geometrico, dedicato a S. A., non se ne trovando più copie; il quale strumento è stato talmente abbracciato dal mondo, che veramente adesso non si fanno altri strumenti di questo genere, et io so che sin hora ne sono stati fabricati alcune migliaia. Io non dirò a V.S. Ill.ma quale occupazione mi sia per apportare il seguir di osservare et investigare i periodi esquisiti de i quattro nuovi pianeti; materia, quanto più vi penso, tanto più laboriosa, per il non si disseparar mai, se non per brevi intervalli, 1’uno dall’ altro, et per esser loro et di colore et di grandezza molto simili.

        Una parte dolorosa da conoscere riguarda il trattato De sistemate mundi che doveva essere non sotto forma di dialogo ma come un vero e proprio testo copernicano. E’ andato perduto probabilmente distrutto dallo stesso Galileo nel 1632 quando fu convocato dall’Inquisizione romana per evitare di avere e dover rispondere di un testo chiaramente copernicano. Molto è stato ricostruito con un lavoro meritorio da vari storici tra cui Drake che ci informa che l’ultimo capitolo dell’opera in oggetto doveva riguardare la conseguenza del sistema copernicano nella fisica e quindi una Nuova dottrina del moto(33). E su tale argomento abbiamo vari altri scritti di Galileo che permettono di capire ed anche di avere con ottima approssimazione il contenuto quanto meno di quest’ultimo capitolo che poi finirà, con gli opportuni aggiustamenti, nelle Giornate Terza e Quarta dei Discorsi e Dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze pubblicato nel 1638 in Olanda.

        La prima scoperta importante, della quale Galileo informava con una lettera Guidobaldo del Monte, è del 1602. Lo scienziato aveva scoperto che se si facevano scivolare dei gravi lungo una guida costituita dalla quarta parte di un cerchio (la quarta di cerchio) sistemato perpendicolarmente rispetto al suolo, non importa da quale punto della quarta partissero, sarebbero arrivati tutti  nel punto più basso del cerchio nel medesimo tempo.

Una quadra di cerchio

        Guidobaldo aveva fatto delle prove utilizzando il cerchio di legno che sosteneva un grande contenitore per cereali e le cose non gli tornavano. Scrisse di queste sue insoddisfazioni a Galileo che il 29 novembre del 1602(34) replicò affermando che probabilmente l’esperienza non era riuscita a seguito dell’attrito su un legno non ben levigato. A questo punto riproponeva la stessa esperienza sbarazzandosi del grande attrito di una guida di legno attraverso l’uso di pendoli che hanno solo la resistenza dell’aria. E questo brano è quello in cui è riportata la scoperta dell’isocronismo del pendolo, anche se non ancora in modo contundente (ed anche e l’isocronismo, come si dimostrerà con esperienze più sofisticate riguarda solo piccole ampiezze, al massimo di 10°):

Piglio dunque due fili sottili, lunghi ugualmente due o tre braccia l’uno, e siano AB, EF, e gli appicco a due chiodetti A, E, e nell’ altre estremità B, F lego due palle di piombo uguali (se ben niente importa se fussero disuguali), rimuovendo poi ciascuno de’ detti fili dal suo perpendicolo, ma uno assai, come saria per l’arco CB, e l’altro pochissimo, come saria secondo l’arco IF; gli lascio poi nell’ istesso momento di tempo andar liberamente, e l’uno comincia a descrivere archi grandi, simili al BCD, e l’altro ne descrive de’ piccoli, simili all’ FIG; ma non però consuma più tempo il mobile B a passare tutto l’arco BCD, che si faccia l’altro mobile F a passare l’arco FIG.

In questa stessa lettera e su un argomento simile, Galileo annunciava al suo amico un’altra scoperta di rilievo, questa volta riguardante piani inclinati idealmente inscritti in un cerchio:

Sia del cerchio BDA il diametro BA eretto all’ orizzonte, e dal punto A sino alla circonferenza tirate linee utcumque AF, AE, AD, AC: dimostro, mobili uguali cadere in tempi uguali e per la perpendicolare BA e per piani inclinati secondo le linee CA, DA, EA, FA; sicchè, partendosi nell’ istesso momento dalli punti B, C, D, E, F, arriveranno in uno stesso momento al termine A, e sia la linea FA piccola quant’esser si voglia.
E forse anco più inopinabile parerà questo, pur da me dimostrato, che essendo la linea SA non maggiore della corda d’una quarta, e le linee SI, IA utcumque, più presto fa il medesimo mobile il viaggio SIA, partendosi da S, che il viaggio solo IA, partendosi da I.

Galileo diceva di aver dimostrato ciò ma per trovare la dimostrazione occorre andare al Theorema VI dei Discorsi pubblicati nel 1638. Egli aveva trovato che il tempo impiegato a cadere lungo la verticale e quello per scendere lungo il tragitto inclinato erano gli stessi e la giustificazione la si ritrovava al solito nel rapporto dei momenti con le lunghezze che è lo stesso. Sembra che Galileo ipotizzi una proporzionalità della velocità degli oggetti in moto con il momento della gravità. Ancora non è chiaro il concetto di accelerazione che avrebbe tolto di mezzo ogni difficoltà. Come osserva Camerota riportando il parere di Enrico Giusti, la comprensione del concetto di accelerazione, che andava maturando negli anni padovani, deve essere nata in Galileo attraverso i pendoli dove è più chiaro il passaggio dalla quiete alla massima velocità e quindi di nuovo alla quiete attraverso un rallentamento.  E Galileo lavorerà su questo problema per molto tempo studiando la caduta dei gravi e tentando di mostrare che questo moto è lo stesso del lancio di un proiettile. E’ in una lettera a Paolo Sarpi del 16 ottobre 1604(35) che Galileo comunicava una sua presunta scoperta della legge di caduta, nello studio dei gravi:

Ripensando circa le cose del moto, nelle quali, per dimostrare li accidenti da me osservati, mi mancava principio totalmente indubitabile da poter porlo per assioma, mi son ridotto ad una proposizione la quale ha molto del naturale et dell’ evidente; et questa supposta, dimostro poi il resto, cioè gli spazzii passati dal moto naturale esser in proporzione doppia dei tempi, et per conseguenza gli spazii passati in tempi eguali esser come i numeri impari ab unitate, et le altre cose.

Et il principio è questo: che il mobile naturale vadia crescendo di velocità con quella proportione che si discosta dal principio del suo moto; come, v.g., cadendo il grave dal termine a per la linea abcd, suppongo che il grado di velocità che ha in c al grado di velocità che hebbe in b esser come la distanza ca alla distanza ba, et così conseguentemente in d haver grado di velocità maggiore che in c secondo che la distanza da è maggiore della ca.

A Galileo serve essere certo di quanto ha detto per mostrare che la caduta di un grave ed il lancio di un proiettile sono ambedue moti che ubbidiscono alle stesse leggi:

Haverò caro che V. S. molto R.da lo consideri un poco, et me ne dica il suo parere. Et se accettiamo questo principio, non pur dimostriamo, come ho detto, le altre conclusioni, ma credo che haviamo anco assai in mano per mostrare che il cadente naturale et il proietto violento passino per le medesime proporzioni di velocità.

Naturalmente siamo ancora ad una conclusione errata, del tipo di quella che egli aveva sviluppato nel De motu perché la velocità non aumenta proporzionalmente allo spazio percorso da quando il mobile era in quiete ma proporzionalmente al tempo trascorso da quel momento. Serviva a Galileo altro lavoro, tentare altre strade con ulteriori errori, enunciati poco chiari e, soprattutto, ricorrere ad esperienze in cui si potessero misurare agilmente, con estrema precisione ed in modo non controverso, le variabili in gioco. Richiamo l’attenzione del lettore sul fatto che, fino a Galileo, nessuno si era mai preso la briga di definire la velocità. Tutti, compresi i medioevali dell’impetus, riposavano nelle definizioni aristoteliche di velocità maggiore e di velocità uguale. Il problema era di grande rilievo se, come nel moto di caduta o accelerato, si doveva considerare una variazione continua di velocità. Archimede aveva discusso la velocità uniforme. Alcuni medioevali avevano parlato di cambiamento uniforme di velocità ma il cambio continuo, matematicamente inteso nessuno lo aveva affrontato. Tanto più che Galileo si confrontava con un problema non discorsivo ma che doveva rispondere a misure reali. Come avrebbe potuto rispondere a questo quesito chi solo disquisiva ? Se poi dall’esperienza si passava alla matematica il problema non era per nulla semplice (anzi !) perché la velocità istantanea in matematica è una sorta di rompicapo che, senza le dovute attenzioni, può portare a speculazioni sull’infinito. Galileo ci riuscì anche se dovette pagare il prezzo dello scontro continuo con i suoi contemporanei e ci riuscì utilizzando la teoria delle proporzioni che ra stata descritta da Euclide nel Libro V degli Elementi che non era conosciuto ancora ai tempi dell’alto Medioevo.

        Risale al 1604 un sistema ideato da Galileo per misurare le velocità in un moto accelerato di caduta. Si costruì un piano inclinato molto ben levigato e con una minima pendenza (inferiore a due gradi), e fece rotolare su di esso una sfera di bronzo. Le diverse posizioni che occupava la sfera a determinate distanze erano segnalate da un campanello fatto suonare  dalla stessa sfera in discesa. Due successivi scampanellii segnavano il tempo impiegato dalla sfera a percorrere quella distanza.

Il piano inclinato di Galileo. Gli archetti metallici e spostabili a piacere, erano i sostegni per i campanelli che la sfera in discesa faceva suonare.

Seguiamo la descrizione del tipo di esperienze di Galileo nelle parole di Drake:

Fu non molto dopo la lettera a Guidobaldo che Galileo si rese conto che, nella caduta dei gravi, l’accelerazione non è temporanea, ma duratura, ragionando in base alle sue osservazioni di lunghi pendoli e all’analogia fra le loro oscillazioni e le discese lungo piani inclinati. Egli annotò la propria perplessità per il fatto che teoremi derivati quando ignorava l’accelerazione risultassero ciononostante confermati da prove sperimentali. Verso la metà del 1603 Galileo fu gravemente ammalato e scrisse poco, ma derivò due proposizioni sul tempo minimo dal suo teorema delle corde e cambiò la parola velocitas in velocitates nella sua analisi della caduta e della discesa lungo piani inclinati. Verso la fine del 1603 o all’inizio del 1604 si rese conto che, per andare avanti, aveva bisogno di una regola per l’aumento di velocità durante la discesa naturale  partendo  dallo  stato  di quiete. Ciò fu l’origine del foglio 107v(36).
Quando iniziò il foglio 107v, Galileo ovviamente non aveva modo di misurare brevi intervalli di tempo, né poteva legittimamente misurare la velocità come una specie di “rapporto” fra distanza e tempo. Teoricamente, queste non avevano nessun rapporto, propriamente parlando, perché nella matematica di Euclide il “rapporto” è definito come una relazione tra grandezze omogenee e due distanze, o due tempi, o simili. Per esprimere una relazione fra distanze e tempi era necessario stabilire una proporzionalità, cioè un’identità di rapporti per due distanze e due tempi. Nei moti uniformemente accelerati, esiste una proporzionalità fra le distanze e i quadrati dei tempi, come Galileo avrebbe scoperto in seguito ma non sul foglio 107v […] e soltanto collegando i fenomeni del pendolo con quelli della caduta libera.
Lo scopo immediato del lavoro dietro il foglio 107v era trovare, se possibile, una regola per i successivi aumenti di velocità durante un moto naturale rettilineo partendo dallo stato di quiete. Per rallentare la discesa, come Galileo dice nel passo autobiografico de Le nuove scienze, egli usò un piano inclinato di molto poco rispetto all’orizzontale. La sfera rotolava a 1,7°, aveva un diametro di 20 “punti”, e la scanalatura lungo la quale rotolava era larga circa 9 “punti”, secondo i miei calcoli in base a vari dati registrati da Galileo quando stava usando lo stesso dispositivo in esperimenti che verranno descritti in seguito. Per il lavoro del 1604, a un’inclinazione di circa 1,7°, la sfera impiegava circa 4 secondi a percorrere la lunghezza del piano, che era di 2.100 “punti” (circa 180 cm). Galileo segnò e misurò gli spazi percorsi a partire dallo stato di quiete alla fine di ciascuno di otto intervalli uguali di tempo successivi, tabulando queste misurazioni in “punti” sul foglio 107v.
Poiché i tempi erano uguali, le distanze tra un segno e quello successivo misuravano la velocità complessiva della sfera da un segno all’altro. La chiamo “velocità complessiva” perché quella che Galileo poteva trovare non era una velocità media del tipo postulato dagli autori medievali sul moto uniformemente accelerato. […]
Ne risultava così che le distanze registrate da Galileo erano automaticamente misure delle velocità complessive durante la discesa lungo il suo piano inclinato. Prese successivamente da segno a segno, esse risultarono formare la successione dei numeri dispari 1,3,5,7 … Poiché stava usando le distanze per misurare le velocità, Galileo non si limitò a considerarle come semplici distanze, ma le sommò, ottenendo la serie dei numeri quadrati e riconoscendo subito la legge dei quadrati dei tempi della discesa naturale rettilinea.

        Queste esperienze furono descritte poi da Galileo nei Discorsi, con le seguenti parole(37):

In un regolo, o vogliàn dir corrente, di legno, lungo circa 12 braccia, e largo per un verso mezo bracio e per l’altro 3 dita, si era in questa minor larghezza incavato un canaletto, poco più largo d’un dito; tiratolo drittissimo, e, per averlo ben pulito e liscio, incollatovi dentro una carta pecora zannata e lustrata al possibile, si faceva in esso scendere una palla di bronzo durissimo, ben rotondata e pulita; costituito che si era il detto regolo pendente, elevando sopra il piano orizontale una delle sue estremità un braccio o due ad arbitrio, si lasciava (come dico) scendere per il detto canale la palla, notando, nel modo che appresso dirò, il tempo che consumava nello scorrerlo tutto, replicando il medesimo atto molte volte per assicurarsi bene della quantità del tempo, nel quale non si trovava mai differenza né anco della decima parte d’una battuta di polso. Fatta e stabilita precisamente tale operazione, facemmo scender la medesima palla solamente per la quarta parte della lunghezza di esso canale; e misurato il tempo della sua scesa, si trovava sempre puntualissimamente esser la metà dell’altro: e facendo poi l’esperienze di altre parti, esaminando ora il tempo di tutta la lunghezza col tempo della metà, o con quello delli duo terzi o de i 3/4, o in conclusione con qualunque altra divisione, per esperienze ben cento volte replicate sempre s’incontrava, gli spazii passati esser tra di loro come i quadrati e i tempi, e questo in tutte le inclinazioni del piano, cioè del canale nel quale si faceva scender la palla.

C’è solo da aggiungere che Galileo misurava il tempo pesando con una bilancia di grande precisione l’acqua che cadeva da un recipiente con un piccolo foro ad un altro posto in basso. Naturalmente ciò fu contestato dal francese (di origini russe) Koyré che dà per oro colato ogni sciocchezza metafisica di Descartes ma pone sempre in dubbio le affermazioni di Galileo. Fortuna che lo storico Thomas B. Settle ha ripetuto tali esperienze ricostruendo con somma cura gli strumenti descritti da Galileo, con la strumentazione artigiana di quell’epoca. I risultati coincidono con quelli forniti da Galileo(38).

        Per arrivare comunque alla conclusione dei Discorsi, appena riportata, Galileo ebbe bisogno di altri anni di estenuante lavoro e studio rispetto alla data della lettera a Sarpi. Nel suo De motu locali, opera che Galileo annunciava a Belisario Vinta nel 1610 come da completare e probabilmente redatto tra il 1604 ed il 1609(39), Galileo forniva una definizione di moto accelerato in cui vi era una chiara dipendenza degli spazi dai tempi (e non degli spazi). Nel secondo dei tre libri in cui era suddivisa l’opera (De motu accelerato), Galileo scriveva(40):

Chiamo moto uniformemente o equabilmente accelerato, quel moto i cui momenti o gradi di velocità aumentano, dall’abbandono della quiete, secondo l’incremento del tempo a partire dal primo istante del movimento.

Galileo quindi dovette superare grandi difficoltà per arrivare a questa fondamentale conclusione sull’accelerazione che dipende dai tempi di caduta. Tra queste difficoltà vi era anche la sua posizione che lo vedeva tra coloro che avevano geometrizzato lo spazio, l’oggetto più facilmente geometrizzabile, contrariamente al tempo che certamente sfugge a collocazioni geometriche. Il moto quindi doveva passare nella mente di Galileo da una spazializzazione ad una concettualizzazione (Camerota).

        Non ci si rende ben conto oggi di cosa era accaduto negli anni padovani. Per capire si tenga a mente cosa era in quegli anni la scienza e la ricerca, fatta di disquisizioni, di dispute tra saggi che avevano come riferimento Aristotele, con qualche triangolazione biblica. Una delle dispute era ad esempio questa: il cioccolato è un cibo o una bevanda ? E nel campo della medicina si discuteva sull’utilità per l’uomo di avere un dito più o uno meno. Ebbene gli anni di Padova furono molto travagliati proprio perché, a lato delle scoperte, Galileo stava facendo la grande rivoluzione dell’introduzione del dato sperimentale accompagnato dalla matematica nella ricerca scientifica. Come faceva a comunicare che quanto affermava era trovato attraverso piani inclinati e pendoli, con elaborazioni matematiche, ai suoi dottissimi peripatetici ? Gradualmente veniva sostituita alla ricerca delle cause quella delle leggi fisiche sempre accompagnate da accuratissime misure. Era proprio un altro mondo che risultava anche così codificato. Non a caso la matematica e l’astronomia erano tecniche non degne di filosofi che invece si occupavano d’altro, proprio di quelle dispute di cui sopra e della cosmologia del De coelo dove, contrariamente all’astronomia, non comparivano calcoli. I lavori importanti perché più noti della maturità di Galileo hanno per acquisito questo metodo ed il nostro scienziato non comunica sempre i dettagli delle sue scoperte perché avrebbe dovuto raccontare cose squalificanti per quel mondo di dotti. Lo scienziato, e la cosa riguarderà molti scienziati che lavoreranno nel futuro, resta particolarmente colpito e soddisfatto dall’aver conseguito un risultato che rientra negli ambiti della sua ricerca, delle sue ipotesi teoriche. Non si rende spesso conto dell’enorme importanza dei metodi che egli stesso ha utilizzati. Essi emergono in seguito e solo in seguito come importanti ed a volte decisivi. Paradossalmente Galileo, da tecnico quale era considerato, poteva utilizzare la matematica e servirsi di strumenti tecnici riuscendo ad applicare i medesimi metodi sia nel campo della meccanica (non considerata come fisica anch’essa) e del moto, sia in quello dell’astronomia e tutto ciò segnò la differenza rispetto alla tradizione della scolastica. La meccanica in particolare segnò una cesura netta con il passato quando da questioni statiche si passò a questioni dinamiche. Il tecnico, uno come Galileo, che si occupava di meccanica iniziava ad aver di fronte il moto che non è più un qualcosa che si misura con una bilancia ma molto più complesso perché richiede l’indagine delle cause che non stanno più nei processi di misura. In tal modo, ricercando le cause dei fenomeni per ricavarne attraverso la misura delle leggi fisiche, il tecnico divenne filosofo naturale che gradualmente soppiantò i filosofi aristotelici. E qui viene fuori una profonda differenza tra Galileo e la tradizione con cui si doveva confrontare. Il dato matematico non poteva mai essere rappresentato da una misura che ha la sua precisione legata agli strumenti in uso. In tal modo si capì che lo scienziato deve ricercare un accordo ragionevole con i dati dell’osservazione e della descrizione della natura e non certo fornire verità definitive che devono appunto confrontarsi con ideali inaccessibili all’esperienza (la matematica, l’Iperuranio, la Bibbia, il Filosofo).
 

LA NOVA DEL 1604

        Il 9 ottobre del 1604 si verificò un fenomeno naturale abbastanza raro, l’apparizione nel cielo di una nuova stella, una nova, una supernova come diremmo oggi(41). Esso fu visto da molti astronomi perché per quella notte era attesa una congiunzione tra Marte e Giove e tutti erano in attesa di questo fenomeno di grande rilevanza per l’astrologia. E la nuova stella apparve a lato dei due pianeti in congiunzione. Il fenomeno, con tutte le sue variazioni di luminosità, si mantenne nel cielo per 18 mesi e Galileo osservò la nova il 28 di ottobre. La comparsa di un astro nel cielo non era in sé prova della teoria copernicana ma certamente era una messa in discussione, se non la distruzione, della teoria cosmologica (separazione del mondo in due zone, con quella superiore eterna, immutabile ed incorruttibile rispetto a quella inferiore, sottostante il cielo della Luna, in cui vi era generazione e corruzione,m cioè cambiamento) e fisica (teoria dei luoghi naturali) di Aristotele. Di fenomeni del genere certamente ve ne furono molti ma a noi risulta registrato quello del 1572.

        Il fenomeno suscitò grande interesse ed arrivarono in proposito a Galileo molti quesiti dall’Italia e dall’estero, dei quali però non disponiamo delle risposte. Galileo, nel suo opuscolo citato contro il milanese Baldassar Capra per il plagio del suo compasso, aveva modo di dire di aver tenuto tre lezioni sulla stella frequentate da oltre mille uditori(42) (riferendosi al Capra che già in occasione della nova aveva fatto incursioni inopportune, come ora vedremo). Di tali lezioni conserviamo solo alcuni frammenti, subito dopo le quali nell’Edizione Nazionale vi è anche lo scritto del suddetto Capra in proposito, con  note indignate ed irriverenti di Galileo(43). Si può comunque riassumere tutto il dibattito sulla posizione della stella. E’ evidente che il tentativo dei filosofi aristotelici era di localizzarla sotto il cielo della Luna con origini legate ad esalazioni di fuoco che, partendo dalla terra ed arrivate molto in alto si congiungevano tra loro originando quel fenomeno molto luminoso. Galileo ed altri sostenevano invece che il fenomeno aveva luogo oltre il cielo della Luna e ciò voleva dire che l’incorruttibile diventava corrotto e la filosofia di Aristotele con la sua cosmologia era da buttar via. A proposito di quest’ultima tesi uscì un opuscolo anonimo che la sosteneva, si tratta del Dialogo de Cecco de’ Runchitti da Bruzente in perpuosito de la stella nuova (1605). Il libretto era uscito anonimo ma si sapeva che ad averlo scritto erano stati due frati benedettini seguaci di Galileo, Girolamo Spinelli e Benedetto Castelli, dietro i quali si vede con chiarezza la mano dello stesso Galileo. Il Dialogo de’ Ronchitti era una risposta al Discorso intorno alla nuova stella (1605) di Antonio Lorenzini che, anche qui, aveva dietro la mano di Cesare Cremonini. I due libretti riportavano le due visioni che ho appena accennato ma con due dettagli d’interesse per il Dialogo de’ Ronchitti, innanzitutto qui Galileo sperimentava il dileggio che utilizzerà nel suo Dialogo dei Massimi Sistemi, rendendo un contadino molto più evoluto di Cremonini,  quindi che si offriva all’avversario una misura della parallasse della nova che risultava assente, fatto che denotava trovarsi quella stella molto lontana e certamente al di là del cielo della Luna (vi era anche un errore nella trattazione dei due benedettini ma certamente inevitabile: si diceva che la diminuzione di luminosità della stella dipendeva dal suo allontanarsi in linea retta dalla sua posizione iniziale e, come è evidente, le questioni sono tutt’altre). Intervenne qui quello zotico di Capra, non ancora plagiatore di Galileo, che si schierò con Galileo affermando che quella stella doveva essere tra quelle fisse. Ma, affermato questo, passò a dire delle bestialità su Galileo (come un qualunque prete odierno) e cioè che non era stato accurato nelle sue misure della posizione della stella poiché, come per li suoi scritti si vede, non troppo cura le cose matematiche.  Galileo risponderà con tutta la veemenza di cui era capace da buon toscano proprio nella prima parte della sua Difesa contro il plagio di Capra del compasso.

        Nell’estate del 1609 Galileo venne a sapere da Paolo Sarpi a Venezia di uno strumento olandese, il cannocchiale. Sarpi lo aveva saputo da un suo ex alunno, Jacques Badovere, che si trovava a Parigi. Tornato a Padova, Galileo apprese che uno straniero era passato per lo Studio con un cannocchiale che sperava di vendere al governo di Venezia. Il nostro scienziato si procurò in tempi brevissimi un tale strumento al quale fece delle modifiche. Anni più tardi, nel Saggiatore (1623) Galileo raccontava i primi momenti con il cannocchiale(44):

… la prima notte dopo il mio ritorno lo ritrovai [il problema], ed il giorno seguente fabbricai lo strumento, e ne diedi conto a Vinezia a i medesimi amici co’ quali il giorno precedente ero stato a ragionamento sopra questa materia […]
Fu dunque tale il mio discorso “Questo artificio o costa d’un vetro solo, o di più d’uno”. D’un solo non può essere. perché la sua figura o è convessa […] o è concava […] o è compresa tra superficie parallele: ma questa non altera punto gli oggetti visibili col crescergli o diminuirgli; e la convessa gli accresce bene, ma gli mostra assai indistinti ed abbagliati; adunque un vetro solo non basta per produr l’effetto. Passando poi a due, e sapendo che ‘l vetro di superficie parallele non altera niente […] conclusi che 1’effetto non poteva né anca seguir dall’accoppiamento di questo con alcuno degli altri due. Onde mi ristrinsi a volere esperimentare quello che facesse la composizion [ … ] del convesso e del concavo.

Iniziò così la grande avventura di Galileo del Sidereus Nuncius che lo porterà alla fama mondiale ed all’ottusa e criminale condanna della Chiesa.

Roberto Renzetti


NOTE

(1) E.N. X, pagg. 55-57.

(2) E.N. X, pagg. 57-60.

(3) E.N. X, pagg. 64-65.

(4) E.N. II, pagg. 79-146.

(5) E.N. II, pagg. 17-75.

(6) E.N. II, pagg. 155-191. Vi sono dei dubbi sulla datazione di questa opera che comunque sarà scritta di nuovo ed aggiornata negli anni seguenti. Drake, ad esempio, la situa nel 1601. Ma il suo lavoro è del 1990 precedente alla scoperta che egli stesso fece nel 1955 di un manoscritto databile 1594. Questo manoscritto mostrerebbe la correttezza della data fornita da Viviani che è il 1593.

(7) E.N. II, pag. 176.

(8) E.N. II, pag. 156.

(9) E.N. II, pag. 159-160.

(10) E.N. IV, pag. 68.

(11) Da questo punto fino alla fine delle citazioni relative a Le mecaniche, si veda E.N. II, a partire dalla pag. 163 fino alla pag. 189.

(12) L’Appendice è stata senza dubbio aggiunta successivamente, dopo che Torricelli si era presentato a Galileo con una lettera del 1632 (E.N.XIV, pag. 387):

Molto Ill.re et Ecc.mo Sig.r mio Col.mo

Nella absenza del Rev.mo Padre Matematico di N. Sig.re, sono restato io; humilissimo suo discepolo e servitore, con l’honor di suo secretario; fra le lettere del quale ha­vendo io letta quella di V. S. molto Ill.re et Ecc.ma, a lei ne accuso, conforme l’ordine datomi, la ricevuta, e a lui Rev.mo ne do parte in compendio. Potrei nondimeno io me­desimo assicurar V. S. che il Padre Abbate in ogni occa­sione, e con il Maestro di Sacro Palazzo e con i compagni di quello e con altri prelati ancora, ha sempre procurato di sostenere in piedi li Dialoghi di lei Ecc.ma, e credo che sia stato causa che non si è fatta precipitosa resolutione.

Io sono pienissimamente informato d’ogni cosa. Sono di professione matematico, ben che giovane, scolaro del Padre R.mo di 6 anni, e duoi altri havevo prima studiato da me solo sotto la disciplina delli Padri Gesuiti. Son stato il primo che in casa del Padre Abbate, et anco in Roma, ho studiato minutissimamente e continuamente sino al presente giorno il libro di V. S., con quel gusto che ella si puol imaginare che habbia havuto uno che, già havendo assai bene praticata tutta la geometria, Apollonio, Archimede, Teodosio, et che havendo studiato Tolomeo et visto quasi ogni cosa del Ticone, del Keplero e del Longomontano, finalmente adheriva, sforzato dalle molte congruenze, al Copernico, et era di professione e di setta galileista.

Il Padre Grienbergiero, che è molto mio, confessa che il libro di V. S. gli ha dato gusto grandissimo e che ci sono molte belle cose, ma che l’opinione non la loda, e se ben pare che sia, non la tien per vera. Il Padre Scheiner, quando gliene ho parlato, l’ha lodato, crollando la testa; dice anco che si stracca nel leggerlo per le molte disgressioni. Io gli ricordavo le medesme scuse e diffese che V. S. in più lochi va intessendo. Finalmente dice che V. S. si è portato male con lui, e non ne vol parlare.

Del resto io mi stimo fortunatissimo in questo, d’esser nato in un secolo nel quale ho potuto conoscere et riverir con lettere un Galileo, cioè un oracolo della natura, et honorarmi della padronanza et disciplina d’un Ciampoli, mio amorevolissimo signore, eccesso di meraviglia, o se adopri la penna o la lingua o l’ingegno. Haverà quanto prima il Padre R.mo la carissima di V. S., e le risponderà. Intanto V. S. Ecc.ma mi farà degno, ben che inetto, d’esser nel numero de’ servi suoi e de’ seguaci del vero; che già so che il Padre R.mo, o a bocca o per lettere me gli haverà altre volte offerito per tale. E per fine a V. S. faccio con ogni maggior affetto riverenza.

Roma, 11 settembre 1632. Di V. S. molto Ill.re et Ecc.ma Sig.r Gall. Gal. 

Da questo momento Torricelli si professava allievo e seguace di Galileo. E sarà proprio Torricelli a spiegare il concetto di pressione che sarebbe stato di grande utilità per comprendere a fondo la percossa. L’argomento della percossa (lo si può trovare nel testo di Torricelli indicato in bibliografia), molto più esteso di quanto non pubblicato ne Le mecaniche di Galileo, è la Seconda delle 12 Lezioni Accademiche che Torricelli tenne all’Accademia della Crusca, il contenuto delle quali (vari argomenti scientifici) verrà pubblicato solo nel 1715.

(13) E.N. X, pag. 60.

(14) Il vuoto lasciato in famiglia si riempirà di nuovo quando, nel 1599, Michelangelo, al quale non andava di lavorare apprezzando di più il divertimento e lo spreco, tornerà a casa di nuovo disoccupato ed ancora sulle spalle di Gal Viste le difficoltà economiche della famiglia si decise a ritornare in Polonia nel 1601facendo spendere a Galileo altri 200 scudi per il viaggio. Poco dopo dalla Polonia si trasferì a Vilnius in Lituania. Intanto Galileo, insieme allo stesso Michelangelo avevano firmato un ulteriore impegno per la dote alla sorella Livia per 1800 ducati da dare a suo marito Taddeo Galletti. Ma fu praticamente Galileo a liquidare l’intera dote perché il fratello non solo non se ne occupò ma inviava a Galileo vari conti da saldare contratti qua e là. Nel 1606 tornò dall’estero in Italia e si stabilì a Padova a casa di Galileo. Nel 1608 ripartì per la Germania dove si sposò e dove fece sapere a Galileo (4 marzo 1608) che non poteva più pensare alla famiglia che da questo momento ricadde tutta su Galileo.

(15) E.N. X, pag. 61.

(16) E.N. II, pagg. 211-255.

(17) E.N. II, pagg. 197-202. Jacopo Mazzoni (1548-1598) era stato professore a Pisa dove insegnava matematica il giovanissimo Galileo. Era rimasta stima e simpatia anche quando i due cammini si divisero con Mazzoni che passò alla Sapienza di Roma proprio nel 1597 anche per servizi che gli erano richiesti dal Cardinale Aldobrandini. Tutti gli storici concordano sul fatto che Galileo si avvicinò a Copernico già negli anni pisani. Scrive, ad esempio, Banfi:

La conoscenza del sistema copernicano da parte dI Galileo, se noi eliminiamo le notizie leggendarie o incontrollabili, risale al tempo degli studi pisani, giacché, come risulta da un fascicolo di lezioni conservato, nell’esposizione delle teorie astronomiche si soleva far cenno anche dell’ipotesi eliocentrica e delle obbiezioni antiche e nuove alla teoria dei due movimenti terrestri. Si può ritenere anche che, sin dal primo tempo dell’insegnamento in Pisa, la lettura dell’opera del Benedetti: Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber (1585) avesse convinto GaliIeo della povertà scientifica di tali obbiezioni, se nell’opera incompiuta De motu, in accordo con alcuni accenni del Benedetti stesso, quegli combatte indirettamente, da un punto di vista meccanico, la dimostrazione aristotelica contro il movimento annuale della terra, basata sull’essenziale centralità di questa nell’universo e quindi sull’accidentalità e temporaneità d’ogni movimento che non potrebbe esserle impresso se non dall’esterno.

(18) E.N. X, pagg. 67-68.

(19) La lettera è in latino. Utilizzo la traduzione che fornisce Paolo Rossi.

(20) Scrive Koyré in proposito:

Nel suo Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber (1585), Benedetti respingerà le nozioni aristoteliche di gravità e di leggerezza assolute, e sostituirà loro quella di gravità e leggerezza relative: i corpi saranno dichiarati tutti pesanti, in proporzione alla loro densità e solamente più o meno pesanti (densi) rispetto al mezzo in cui si troveranno. La scala quantitativa di Archimede sostituirà allora l’opposizione qualitativa di Aristotele.
L’opera di Benedetti, nella sua parte fisica, contiene un attacco in piena regola alla fisica di Aristotele, ed una eccellente esposizione della fisica dell’impetus, di cui egli si proclama partigiano risoluto. Come tutti i suoi predecessori, egli dirige all’inizio la sua critica contro la teoria aristotelica del lancio, e più radicale che la maggior parte di quelli, pensa che tale teoria non val niente: il mezzo non è mai un motore, ma sempre un ostacolo che si oppone al movimento.
La concezione dell’impetus, causa interna del movimento dei corpi, è stata studiata precedentemente (si veda qui). Benedetti la modifica respingendo l’impetus circolare, e insistendo sul carattere lineare di questo: è una tendenza al movimento in linea retta, quella che la mano o la fionda imprimono al proiettile, e non quella di un movimento in circolo. Accade lo stesso per quanto concerne il movimento di rotazione di un disco o di una mola da mulino; ciascuna delle particelle che compongono tale corpo tende a muoversi in linea retta ed è con la violenza (in seguito a forze di legamento) che viene indotta a descrivere un cerchio.
[…]
[Benedetti si applica a gettare le basi della critica alla teoria del moto di Aristotele]. Infatti Aristotele non ha capito niente del movimento: né del movimento naturale, poiché pensa che un corpo in caduta libera acceleri nella misura in cui si avvicina alla meta e non, come fa realmente, in quella in cui si allontana dal punto di partenza, e perché non ha neppure visto che «il movimento rettilineo dei corpi naturali verso l’alto e verso il basso, non è naturale in primo luogo e per sé», ma è una risultanza di una violenza precedente e dell’azione del mezzo nel quale i corpi sono stati posti (così il movimento verso l’alto è del tutto naturale, ma è quello di una espulsione del più disperso da parte del più denso). Né del movimento violento, poiché egli non ha veduto né che il movimento rettilineo di andata e ritorno è continuo e si realizza senza soste, né che il movimento su una retta può essere infinito nel tempo, benché finito nello spazio.
Ma il più grave errore fisico di Aristotile è la negazione del vuoto e del movimento nel vuoto. L’impossibilità del vuoto, si sa, è dimostrata da Aristotile per assurdo: nel vuoto, cioè nell’assenza di ogni resistenza, il movimento si effettuerebbe a velocità infinita. Ora, niente è più falso, crede Benedetti. Essendo dato che la velocità è proporzionale al peso relativo del corpo, cioè al suo peso assoluto, diminuito di (e non diviso da) la resistenza del mezzo, ne segue immediatamente che la velocità non aumenta in misura indefinita e che, annullandosi la resistenza, non diviene affatto infinita. Sarà al contrario, per corpi diversi, cioè corpi composti di materie diverse, proporzionale al loro peso specifico assoluto, cioè alla loro densità. Quanto ai corpi composti della medesima materia, avranno nel vuoto la medesima velocità naturale.
[…]
Il movimento nel vuoto, la caduta simultanea dei gravi omogenei: siamo già assai lontani dalla fisica di Aristotele. Ma i «fondamenti indistruttibili» della filosofia matematica, il modello sempre presente allo spirito di Benedetti, della scienza archimediana, non gli permettono di fermarsi a questo punto. Aristotele infatti si è forgiato un’immagine falsa del mondo, immagine alla quale egli ha adattato la sua fisica. La sua falsa cosmologia, fondata sul finitismo che è alla base della teoria del «luogo naturale», è il fondamento della sua dinamica. Infatti «non c’è alcun corpo che sia nel mondo o fuori del mondo (paco importa ciò che ne dice Aristotele) che non abbia il suo luogo». Luoghi extramondani ? Perché no? ci sarebbe «un inconveniente qualsiasi al fatto che fuori del cielo si trovi un corpo infinito» ? Senza dubbio Aristotele lo nega, ma le sue ragioni non sana affatto evidenti; non più di quelle che egli ci fornisce, della impossibilità di una pluralità di mandi, dell’inalterabilità del cielo e di molte altre cose ancora. Tutto ciò perché Aristotele non ha capito nulla di matematica. Prava ne sia che ha negato la realtà dell’infinito.
Rivoltandosi contro la negazione da parte di Aristotele del carattere attuale dell’infinito, Benedetti divide un segmento in due parti uguali, divide in due una di queste due metà ottenute, e prende in considerazione l’ipotesi della ripetizione all’infinito di tale operazione. Il che lo conduce ad affermare che la molteplicità infinita non è meno reale della finita.
Siamo, lo si vede bene, malto vicini a Galileo e a Cartesio. Molto vicini, e tuttavia molto ancora lontani. Infatti, tra gli errori commessi da Aristotele in tema di movimento, Benedetti non ha notato il più grave: egli anzi la ha condiviso, e tale errore, e cioè il fatto di vedere nel movimento un cambiamento e non una stato, pone la «filosofia matematica» di Benedetti al di qua della linea di divisione che separa la scienza del Rinascimento dalla scienza moderna.

(21) E.N. II, pagg. 365-424.

(22) E.N. II, pagg. 427-511.

(23) E.N. II, pagg. 515-601. Baldassar Capra  ebbe altri processi per plagio come documenta Camerota (pag. 129).

(24) E.N. XI, pagg. 349-351.

(25) E.N. XI, pagg. 505-506.

(26) E.N. XVII, pagg. 377-380.

(27) E.N. XIII, pagg. 320.

(28) E.N. VIII, pagg. 634-635.

(29) La parola Termoscopio appare in letteratura per la prima volta nel saggio Sphaera mundi, seu dimostrativi Cosmographia di Giuseppe Biancani (1566-1624) e pubblicato nel 1620 a Bologna. Il termine Termometro è stato proposto da Padre Leurechons nelle sue Récréation mathématique del 1624. Osservo a margine che l’invenzione del termometro è attribuita anche a Santorre Santorio, Cornelius Drebbel (1572-1633) e Robert Fludd (1574-1637).

(30) Il termoscopio sarà utilizzato in medicina, per misurare le traspirazioni del corpo e quindi la sua temperatura, dal medico istriano e professore a Padova Santorre Santorio (1561-1636) che ebbe il merito di applicare allo strumento una scala graduata (1612) avendo avuto l’intuizione della necessitò di due punti fissi nella scala, quello di neve e di una fiamma di candela messe a contatto successivamente con la sostanza che acquistava o perdeva calore. Santorio, noto per essere stato il primo ad introdurre misure quantitative in medicina, ebbe anche una corrispondenza con Galileo al quale presentava alcuni suoi ritrovati. Uno di questi serviva per una misura diretta del metabolismo, come illustra bene la figura.


Da: De Statica Medicina (1614) di Santorre Santorio

Un tubicino, collegato ad un recipiente contenente un liquido colorato, che sente il  calore trasmesso dalla bocca.

(31) E.N. X, pagg. 79-80.

(32) E.N. X, pagg. 348-353. Questa lettera è molto importante perché con essa Galileo faceva domanda per il posto di filosofo naturale e matematico presso lo Studio di Firenze. La lettera infatti conclude con le richieste di Galileo:

Intanto non voglio restar di dirgli, come circa lo stipendio mi contenterò di quello che lei mi accennò in Pisa, essendo honorato per un servitore di tanto Principe; et sì come io non soggiungo niente sopra la quantità, così son sicuro che, dovendo io levarmi di qua, la benignità di S. A. non mi mancherebbe di alcuna di quelle comodità che si sono usate con altri, bisognosi anco meno di me, et però non ne parlo adesso. Finalmente, quanto al titolo et pretesto del mio servizio, io desidererei, oltre al nome di Matematico, che S.A. ci aggiugnesse quello di Filosofo, professando io di havere studiato più anni in filosofia, che mesi in matematica pura: nella quale qual profitto io habbia fatto, et se io possa et deva meritar questo titolo, potrò far vedere a loro Alt.e, qual volta sia di loro piacimento il concedermi campo di poterne trattare alla presenza loro con i più stimati in tal facoltà.
Ho scritto lungamente per non haver più a ritornare sopra tal materia con suo nuovo tedio: mi scusi V. S. Ill.ma, perchè, se bene questo a lei, che è consueta a maneggiar negozii gravissimi, parerà frivolissimo et leggiero, a me però è egli il più grave che io possa incontrare, concernendo o la mutazione o’ la confirmazion di tutto lo stato et l’esser mio. Aspetterò sua risposta; et in tanto, supplicandola ad inchinarsi hùmilmente in mio nome a loro A. Ser.e, bacio a V. S. Ill.ma con ogni reverenza le mani, et dal Signore Dio gli prego somma felicità.
 

Di Pad.a, li 7 di Maggio 1610.

Di V. S. Ill.ma

Ser.re Oblig.mo Galileo Galilei.

(33) Scrive Drake:

Abbiamo la sua revisione di II-4 nelle Mecaniche del 1601, scritta immediatamente dopo De sistemate mundi. Non è difficile indovinare come sia stato riveduto II-7, “A quo moveantur proiecta”, dopo che Galileo aveva adottato come principio la conservazione del moto. Il vecchio II-6, sulla rotazione delle sfere materiali, non aveva bisogno di molte correzioni ed era probabilmente posto alla fine, come naturale introduzione al secondo libro di De sistemate mundi – l’esposizione dell’astronomia copernicana da parte di Galileo, che replicava alle tradizionali obiezioni contro di essa. Quel tanto di filosofia naturale che veniva prima della nuova dottrina del moto era probabilmente preso dalle lezioni aristoteliche del 1584 e 1588, ridotte e rivedute conformemente ai fini della nuova opera. Nel 1601-1602, Galileo aveva certamente davanti a sé questi manoscritti, che gli servivano come guida nel mettere in ordine la sua filosofia naturale e assicurare che nulla di essenziale fosse stato omesso.
È abbastanza certo che Galileo non abbia inserito in De sistemate mundi la sua teoria sulle maree. perché il suo trattato del 1595 su questo argomento era elencato separatamente come una delle cinque opere minori in preparazione nel 1610. La sua esposizione del sistema copernicano avrebbe inoltre eliminato come superfluo il “terzo moto” copernicano – in quanto non moto ma una specie di quiete, come in seguito Galileo lo definì. È infine probabile che Galileo dimostrasse l’improprietà dell’argomentazione anticopernicana che i gravi posati sulla Terra sarebbero scagliati via dalla velocità della sua rotazione. Copernico attribuiva erroneamente questa argomentazione a Tolomeo (che non aveva detto nulla del genere) e dava solo la debole risposta che qualsiasi rotazione naturale per la Terra sarebbe stata naturale anche per le parti separate di essa. La risposta di Galileo nel Dialogo del 1632 implicava la legge della caduta dei gravi, che nel 1600-1601 non aveva ancora formulato, ma potrebbe allora aver risposto sulla base delle implicazioni della sua analisi della rotazione delle sfere materiali in II-6 della sua nuova dottrina del moto, assieme alla sua spiegazione della caduta verticale osservata su una Terra che ruota.
L’idea che, se la Terra ruota, un grave non cadrebbe, come osservato, radendo un’alta torre perpendicolare fino alla sua base, ma cadrebbe al suolo a occidente di questa, non era forse un’argomentazione anticopernicana insolita al tempo di Galileo; ma Aristotele non ne era responsabile, sebbene essa gli fosse attribuita, e né Tolomeo né Keplero ne fecero menzione. Galileo la sollevò nel suo Dialogo perché gli consentiva di introdurre simultaneamente tutti e tre i principi fondamentali della sua fisica matura: la relatività del moto, la conservazione del moto e la composizione indipendente dei movimenti. Io penso che in De sistemate mundi egli abbia trattato questo ridicola argomentazione molto più semplicemente. nel modo seguente.
Un grave cade sempre lungo una retta perpendicolare verso il centro della Terra. Lo garantiva Aristotele, sebbene dicesse che la caduta era verso il centro dell’universo, nel quale egli situava la Terra, ma questo non era essenziale. Il lato di una torre giace lungo una retta perpendicolare. Quindi questa è la linea lungo la quale un grave deve cadere, radendo la torre; che la Terra ruoti oppure no non fa alcuna differenza.
De sistemate mundi era un’efficace opera copernicana, anche se Galileo aveva ancora molto da imparare sul moto.

(34) E.N. X, pagg. 97-100.

(35) E.N. X, pagg.115-116.

(36) Gli appunti di Galileo sul moto dal 1602 al 1637 sono ora rilegati nel volume 72 dei manoscritti galileiani di Firenze. Sul foglio 107v di questo volume si trovano le prime misurazioni di distanze da lui registrate giunte fino a noi.

(37) E.N. VIII, pagg. 212-213.

(38) T.B. Settle, An Experiment in the History of Science, Science, 133, 1961,  pag. 19-23.

(39) La data del 1609 è stata avanzata da Koyré in Studi Galileiani. Camerota invece richiama l’attenzione su una lettera che un ex alunno di Galileo a Padova, Antonello Antonini, inviò a Galileo, ormai a Firenze, da Bruxelles. In questa lettera, del 9 aprile 1611 (E.N. XI, pagg.84-86), Antonini ricorda a Galileo che anni addietro egli (Galileo) aveva sostenuto la contraddittorietà della prospettiva che legava accelerazione e distanza. Antonini ricorda ciò con le seguenti parole:

Ho pensato alcuna volta a quella sua propositione: Mobile secundum proporrtionem distantie, a termino a quo movetur velocitatem acquirens, in instanti moovetur [riportata in E.N. VIII, pag. 208, a partire dalla riga 29, ndr]: la quale essendomi parsa sempre più vera et dimostrabile, son andato considerando se potesse farsi un moto almeno simile a questo; et mi pare così hora, che questo, che le dirò, sia non solo simile, ma l’istesso: et se bene non fit in instanti, può poi venire dalla imperfettion della materia et dal’aria. V.S. s’immagini un canaletto, del quale stando fermo un termine, l’altro si mova in giro equivelociter, sicome fa la linea d’Archimede, che nel destricar la spirale mostra; et vicino al centro di questo mobil canaletto mettassi una ballina: questa sicuramente si moverà sopra quel canale, come nella linea detta il punto che descrive la spirale, ma non equivelociter; anzi par a me che acquistarà vellocità secondo la proportione della distanza dal centro: perchè il moto circolare del canale eccita questo retto sopra il detto canale: ma ciascuna. parte di quel canale si move secondo la proportion della distanza dal centro; dunque pare che quella ballina ancora, alla quale dal moto di quelle parti è dato il moto, debba moversi secondo quella proportione.

Si sta qui dicendo che Galileo trattava la fallacia della teoria che voleva, nella caduta, la velocità dipendente dagli spazi percorsi, sostenendo invece che tale velocità dipendeva dal tempo. Il 1609, data che vede ancora Galileo a Padova, è una data massima perché Galileo avesse abbandonato la posizione errata sull’accelerazione nel moto di caduta.

(40) E.N. II, pag. 266.

(41) Il fenomeno fu descritto da Kepler nel suo De stella nova (1607).

(42) E.N. II, pag. 520.

(43) I frammenti di lezioni e di studi sulla nuova stella dell’ottobre 1604 si trovano in E.N. II, pagg. 277-284. L’opuscolo del Capra, Consideratione astronomica circa la nova e portentosa stella, annotato da Galileo (che arriva a  dare del coglione a Capra) si trova subito dopo, pagg. 287-305.

(44) E.N. VI, pagg. 258-259.


BIBLIOGRAFIA

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(17) Antonio Beltrán – Galileo – Barcanova 1983

(18) A. Carugo (a cura di) – Galileo – ISEDI 1977

(19) Fabio Minazzi – Galileo “filosofo geometra” – Rusconi 1994

(20) Enrico Bellone – La stella nuova – Einaudi 2003

(21) Enrico Bellone – Galileo – Le Scienze 1998

(22) Klaus Fischer – Galileo Galilei – Herder 1986

(23) Egidio Festa – Galileo – Laterza 2007

(24) Stillman Drake – Galileo Galilei pioniere della scienza – F. Muzzio 1992

(25) James Reston – Galileo – Piemme 2001

(26) Michele Camerota – Galileo Galilei – Salerno 2004

(27) Dava Sobel – La figlia di Galileo – Rizzoli 1999

(28) U. Dotti – Galilei – Sansoni 1971

(29) Johannes Hemleben – Galileo – Salvat, Barcelona 1985

(30) Antonio Banfi – Vita di Galileo Galilei – Feltrinelli 1962

(31) L. Figuier – Galileo (in La  ciencia y sus hombres) – J. Seix, Barcelona 1879

(32) Stillman Drake – Galileo – Oxford University Press 1980

(33) I. Del Lungo, A. Favaro – La prosa di Galileo – Sansoni 1911

(34) Archimede – Opere – UTET 1974

(35) Eugenio Garin – Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano – Laterza 1965

(35) Enrico Giusti – CENTROBARYCA. Equilibrio dei gravi e centri di gravità dall’Antichità al Cinquecento – Dipartimento di Matematica Università di Firenze.

(36) A. Carugo, A. C. Crombie – The Jesuit and Galileo’s Ideas of Science – Annali dell’Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze, VIII, 2, 1983, pagg. 3-67.

(37) William A. Wallace – Galileo e i professori del Collegio Romano alla fine del secolo XVI – In Galileo Galilei 350 anni di storia, PIEMME, 1984.

(38) Aristotele – Fisica. Del cielo – Laterza 1983

(39) Stillman Drake – Galileo e la legge della caduta libera – Le Scienze 59, Luglio 1973.

(40) Stillman Drake – Galileo e il primo dispositivo meccanico per il calcolo – Le Scienze 96, Agosto 1976.

(41) Evangelista Torricelli – Della percossa – In Scienziati del Seicento – Rizzoli 1969.

(42) A. Koyré – Le scienze esatte nel Rinascimento – In Storia generale delle scienze, Vol. 2 – Casini 1965.



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