Roberto Renzetti
ABSTRACT
The idea that light produces pressure evolved through a series of adoptions and rejections, from the hypothesis of Newton to the experiment of Lebedev, depending on the theory used to describe the nature of light. This article reviews the history of this development.
È ormai generalmente noto che due teorie della luce furono sviluppate sul finire del 1600 e gli inizi del 1700: la teoria corpuscolare, dovuta essenzialmente a Newton (1), e la teoria ondulatoria, dovuta principalmente ad Huygens (2). Da un lato il programma newtoniano prevedeva, almeno in via ipotetica, la riduzione dell’ottica ad un capitolo della meccanica: particelle dotate di massa, traiettorie, forze attrattive e repulsive e, perché no?, anche impulsi e quantità di moto. Una tal concezione doveva quindi prevedere che i corpuscoli costituenti la luce, una volta venuti a contatto con una data superficie, scambiassero con essa la loro quantità di moto, esercitassero cioè su di essa una pressione.
È risaputo che la teoria corpuscolare, poiché sembrava spiegare un maggior numero di fenomeni e, soprattutto, perché era inserita all’interno di un programma complessivo ben più vasto (l’intera fisica newtoniana), ebbe la meglio, almeno fino agli inizi dell’800. D’altro canto Huygens concepiva la luce come un fenomeno vibratorio, come delle onde di pressione, e quindi longitudinali, sostenute da un etere perfettamente elastico ed estremamente sottile.
La scoperta dell’interferenza (Young -1802), gli svariati falliti tentativi dei massimi fisici dell’epoca (Biot, Poisson, Laplace, Arago,…) di ricondurre il fenomeno alla teoria corpuscolare, la semplice e spontanea spiegazione di esso mediante la teoria ondulatoria (fatta dallo stesso Young) andavano a corroborare sempre di più quest’ultima teoria.
Per la sua completa affermazione restavano ancora da spiegare i fenomeni di polarizzazione ma, per farlo, occorreva ammettere che le onde luminose fossero trasversali. Questa ipotesi fu avanzata da Young in una lettera ad Arago del 1817. Arago passò l’informazione a Fresnel perché la indagasse. E, tra il 1821 ed il 1823, Fresnel, tra lo scandalo generale, riuscì a dimostrare che una teoria ondulatoria che si servisse di onde trasversali era in grado di rendere conto di tutti i fenomeni ottici fino ad allora conosciuti. Era il trionfo della teoria ondulatoria.
Ma che dire di impulsi e quantità di moto delle supposte onde di luce? In questa ipotesi ondulatoria la luce deve o no esercitare una pressione su di una superficie? La cosa non è ben chiara. Tutta la letteratura dell’epoca non fa cenno alla questione se non indirettamente. Il fatto che vari esperimenti tentati per mettere in evidenza la pressione della luce (e particolarmente quello di Bennet del 1792 (3)) avevano dato un risultato negativo fanno sostenere a vari fisici (Young, Lloyd, Stewart,… (4)) che il non essere riusciti ad individuare una tal pressione era una prova a sostegno della teoria ondulatoria.
A questo proposito c’è anche un intervento di Fresnel del 1825 (5). In un suo articolo in cui faceva il resoconto di alcune sue esperienze sull’azione repulsiva che i corpi riscaldati esercitano cui corpi vicini, egli dice che:
“Per verificare certe ipotesi, già da molto tempo e senza successo vado cercando lo spostamento nel vuoto di un piccolo disco argentato fissato alla fine di un’asta molto leggera sospesa ad un filo di seta, mediante l’azione dei raggi del sole focalizzati da una lente.” (6).
Anche qui, Fresnel non fornisce ulteriori particolari, non dicendoci, tra l’altro, che tipo di ipotesi voleva verificare. Sembra si possa dire che la pressione di radiazione non era prevista dalla ordinaria teoria ondulatoria della luce. Ricordando che invece la teoria corpuscolare prevedeva una tal pressione, si può ben capire come, anche qui, vi fosse l’opportunità di una esperienza cruciale per decidere quale tra le due teorie faceva delle previsioni più corrette.
La teoria elettromagnetica della luce
Proprio quando Fresnel portava la teoria ondulatoria della luce al suo trionfo, l’elettromagnetismo faceva i suoi primi passi. L’esperienza di Oersted è del 1820; i lavori di Faraday iniziano nel 1821 per concludersi nel 1862. Si susseguono i contributi di vari scienziati tra i quali vanno ricordati W. Thomson (Lord Kelvin) ed Helmholtz. Il primo lavoro di Maxwell è del 1855. Ecco, proprio quest’ultimo scienziato è colui che porterà ad una sintesi di eccezionale portata tutti i lavori precedenti. A Maxwell, sulle orme di Faraday, si deve l’unificazione di elettricità e magnetismo nella teoria del campo elettromagnetico e nelle famose equazioni che lo descrivono. Ma non basta; un’altra fondamentale unificazione è operata dal nostro: la riduzione dell’ottica ad un capitolo dell’elettromagnetismo. Sembra incredibile ma tre branche delle fisica che apparivano così distinte, elettricità, magnetismo, ottica, non sono altro che aspetti diversi della teoria dinamica del campo elettromagnetico. Di questa sintesi cerchiamo di cogliere gli aspetti che più interessano ai fini del nostro lavoro.
È ormai noto che quando si ha a che fare con un campo elettrico statico ad esso non è associato nessun campo magnetico; quando si ha un campo magnetico statico ad esso non è associato alcun campo elettrico. Ma il variare nel tempo di uno dei due realizza l’esistenza dell’altro, realizza cioè un ente costituito da un campo elettrico e da un campo magnetico inseparabili: il campo elettromagnetico. E quando, in una certa regione dello spazio viene generato, ad esempio, un campo elettrico variabile nello spazio e nel tempo, esso genera intorno a sé un campo magnetico, anch’esso variabile. A sua volta questo campo magnetico genera nello spazio circostante un nuovo campo elettrico variabile. E così via. Questa oscillazione di campi elettrici e magnetici concatenati si propaga attraverso lo spazio sotto forma di un’onda elettromagnetica.
Le onde elettromagnetiche, che hanno la proprietà di essere trasversali, viaggiano in questo spazio (etere) con una velocità molto grande ma finita. Dal confronto di questa velocità di propagazione delle onde elettromagnetiche (7) con quella della luce (8), Maxwell ne trasse la seguente conclusione (1862) (9):
“La velocità delle ondulazioni trasversali nel nostro mezzo ipotetico [l’etere], calcolata a partire dagli esperimenti elettromagnetici di Kohlraush e Weber, si accorda in modo tanto esatto con la velocità della luce calcolata a partire dagli esperimenti di Fizeau, che noi non possiamo quasi fare a meno di inferire che la luce consiste nelle ondulazioni trasversali del medesimo mezzo che è causa dei fenomeni elettrici e magnetici.”
Ecco quindi che la luce diventa un fenomeno elettromagnetico. Ciò che differenzia la luce da un’altra qualunque onda elettromagnetica è solo la sua frequenza; per il resto si tratta esattamente dello stesso fenomeno. Ma Maxwell aggiunge ancora qualcosa, questa volta a proposito dell’energia che deve essere associata ad un campo o ad un’onda elettromagnetica (1864) (1O):
“Tutta l’energia è identica all’energia meccanica, sia che esista in forma di moto, o in quella di elasticità, o in qualsiasi altra forma. L’energia dei fenomeni elettromagnetici è meccanica… essa risiede nel campo elettromagnetico, nello spazio circostante i corpi elettrizzati e magnetizzati, così come in quei corpi stessi.”
In definitiva, l’energia elettromagnetica risiede in tutto lo spazio e si può propagare, in particolari condizioni, sotto forma di onde elettromagnetiche e quindi anche sotto forma di luce. E qui veniamo ad una prima conclusione di grande interesse per noi: la luce trasporta energia di tipo meccanico, essa deve quindi trasmettere degli impulsi alle superfici che colpisce. Maxwell introduce questo elemento non qui ma nella sua opera fondamentale, il Trattato di elettricità e magnetismo (1873) (11), dedicandovi due brevi paragrafi, il 792 ed il 793. Dice Maxwell:
“In un mezzo in cui si propagano delle onde c’è una pressione in direziono normale alle onde, numericamente uguale all’energia dell’unità di volume” (12).
Passando ad un’esemplificazione, si calcola la pressione esercitata dalla luce solare (cielo sereno a mezzogiorno) che risulta essere di 2,5.10-6 N/m2, cioè di 2,5.10-6 Pa (un quarto di milligrammo peso su ogni metro quadrato; possiamo così renderci conto del perché un tal piccolo effetto non era stato evidenziato né da Bennet né da Fresnel tra gli altri).
A questo punto occorre osservare che questa stupenda sintesi di Maxwell era solo una teoria: occorreva mostrare l’esistenza delle onde elettromagnetiche, l’identità della luce con esse e, per quel che ci riguarda, l’esistenza di una pressione di radiazione. L’esperienza ora non sarebbe più servita per discriminare tra teoria ondulatoria e corpuscolare ma per verificare uno degli aspetti della teoria di Maxwell. E non solo. Ora ci troviamo nello strano caso in cui i citati esperimenti di Bennet per molto tempo considerati come un indizio a favore della teoria ondulatoria, ora diventano un indizio contro di essa (13)!
La pressione di radiazione a partire dalla termodinamica
Nel 1876, indipendentemente da Maxwell (del quale sembra non conoscesse il lavoro sulla pressione di radiazione) ed a partire da problematiche del tutto differenti, arrivò allo stesso risultato di Maxwell anche il fisico bolognese Adolfo Bartoli. Il punto di partenza è qui la termodinamica ed in particolare il secondo principio della termodinamica nella sua formulazione che vuole il calore trasferirsi sempre, spontaneamente, dai corpi caldi a quelli freddi (nel caso si volesse ottenere un trasferimento contrario, sarebbe necessario del lavoro da compiere dall’esterno).
Il lavoro di Bartoli, Sopra i movimenti prodotti dalla luce e dal calore e sopra il radiometro di Crookes (Le Monnier, 1876), è uno studio teorico di grande rilievo in cui si hanno ben presenti tutte le problematiche della termodinamica dell’epoca, a partire da quella del corpo nero (14). Bartoli elabora la sua teoria servendosi di una esperienza ideale (15). Egli suppone di avere un corpo nero sferico C contenuto in una superficie sferica concentrica b, anch’essa nera. Tra b e C sono interposti due involucri sferici concentrici B ed A (con B più grande di A), sottilissimi e perfettamente riflettenti sia sulle loro superfìci interne che esterne (Fig. 1). Il corpo C viene supposto trovarsi inizialmente in

equilibrio termico. Se ad un dato istante va distrutto il riflettore B, allora la superficie b irraggerà calore in tutto lo spazio compreso tra b ed A. In un istante successivo, quando b ha raggiunto l’equilibrio termico, si ricostituisca B e venga distrutto A. Infine diminuisca il raggio di B fino a divenire uguale a quello che era di A. Con questo ciclo di operazioni, da ripetersi quante volte si vuole, si preleva del calore dal corpo b per trasferirlo a C. Se aggiungiamo ora l’ipotesi che la temperatura di b sia inferiore a quella di C, ci troveremo nella condizione di far passare del calore da un corpo più freddo ad uno più caldo. Questo fatto violerebbe il secondo principio della termodinamica se non si ammettesse che è necessario del lavoro per deformare l’involucro B fino a renderlo uguale ad A. Poiché sappiamo che si fa del lavoro quando si vince l’azione di una forza antagonista, per salvare il secondo principio della termodinamica, bisogna ammettere l’esistenza di una tale forza. Questa forza, per Bartoli, non può essere altro che la pressione esercitata dalla radiazione emessa del corpo nero C che si trova al centro dell’intero apparato.
Radiometro e pressione di radiazione
Nel 1874 viene pubblicato un interessante lavoro di W. Crookes, Attrazione e repulsione risultanti dalla radiazione (16), a cui seguiranno svariati altri. Crookes afferma di essere riuscito a mostrare l’esistenza della pressione di radiazione con un apparato, il radiometro, da lui costruito (17) (Fig. 2). Si tratta si questo: delle palette molto leggere, una faccia delle quali è stata annerita mentre

l’altra è argentata, sono fissate ad un piccolo cono di vetro. Quest’ultimo è sospeso su una punta sottile, in modo che il sistema possa ruotare liberamente. Il tutto è chiuso in un recipiente di vetro in cui è stato fatto il vuoto. Quando della luce è diretta verso le palette, esse si mettono a ruotare.
Crookes, nonostante da un anno sia apparso il Trattato di Maxwell, ne trae subito la conseguenza che la teoria ondulatoria della luce si trova ora, definitivamente, di fronte ad una grossa difficoltà poiché il suo apparato dimostrerebbe, in modo inconfutabile, la pressione della radiazione. Egli aggiunge delle osservazioni sul moto delle palette: il movimento è molto veloce nelle condizioni iniziali di vuoto realizzate; man mano che si aumenta la pressione del gas contenuto nel recipiente in cui si trovano le palette, il movimento rallenta, fino a che non cessa del tutto. Questo fatto convince Crookes che l’effetto non è dovuto alle molecole d’aria residue nel recipiente in cui era stato fatto il vuoto: secondo il nostro, se l’effetto fosse dovuto alle molecole d’aria, mettendone di più sarebbe dovuto aumentare.
Il radiometro fu presentato nel 1873 alla Royal Society in una seduta nella quale era presente Maxwell. Quest’ultimo rimase profondamente colpito dal fenomeno. Pur non dubitando, inizialmente, del fatto che l’effetto fosse dovuto alla pressione di radiazione, egli rimase sconcertato (così si confessa in una lettera a Kelvin) poiché l’effetto era di gran lunga più grande di quanto egli aveva previsto nei suoi lavori.
Fu O. Reynolds il primo scienziato che, nel 1875, mise in dubbio le conclusioni di Crookes, alle quali sembravano aderire tutti i maggiori studiosi dell’epoca. Secondo Reynolds il movimento delle palette del radiometro era dovuto al diverso effetto del riscaldamento sulle molecole di gas che si trovano vicine alle facce argentate ed annerite delle palette. Il fenomeno si realizzava solo quando c’era un piccolo numero di molecole residue nel contenitore. Egli discusse della cosa con Schuster il quale pensò di sottoporre la questione ad una esperienza “cruciale”. Sarebbe stata la Meccanica, ed in particolare il Principio di azione e reazione, a decidere quale interpretazione del fenomeno fosse corretta (18).
Shuster sospese l’intero radiometro ad un filo sottile, in modo che l’intero apparato fosse libero di ruotare. Se l’effetto era originato dall’interazione tra le palette ed il gas, per il terzo principio della dinamica le molecole di gas dovevano muoversi in direzione opposta a quella delle palette; conseguentemente l’intero radiometro doveva ruotare in direziono opposta a quella delle palette. Viceversa, se l’effetto era dovuto alla pressione di radiazione, la reazione si sarebbe dovuta esercitare sulla radiazione uscente dal radiometro; conseguentemente l’intero radiometro doveva ruotare nella stessa direzione delle palette.
L’esperienza mostrò una debole rotazione del sistema in direzione opposta a quella delle palette: l’effetto non era dovuto alla pressione di radiazione! Della cosa si convinsero tutti, compreso Crookes. E fu proprio Maxwell che, poco prima di morire, pubblicò un lavoro nel quale iniziava a risolvere il problema (molto complesso) del radiometro e, più in generale, dei fenomeni che avvengono nei gas rarefatti (19).
Anche Bartoli, nello stesso tempo, aveva mostrato con un’altra esperienza l’impossibilità di attribuire il fenomeno del radiometro alla pressione di radiazione. Nel titolo del lavoro di Bartoli, precedentemente citato, si fa infatti riferimento al radiometro di Crookes; anche qui, occorre notare, nessuno fa neppure riferimento a questa esperienza di Bartoli (20).
Le esperienze definitive
Nel 1887 H. Hertz mostra sperimentalmente l’esistenza delle onde elettromagnetiche predette da Maxwell. Mostra inoltre, insieme ai lavori di A. Righi, che esse si comportano come la luce nell’ottica ordinaria. Sembra che ormai non ci siano più dubbi sulle teorie di Maxwell. In questo momento si fanno più intensi i tentativi di cercare quella pressione di radiazione che è ulteriore conseguenza della teoria di Maxwell.
Dopo un lavoro durato ben tre anni fu il fisico russo Lebedev che riuscì a fornire una esperienza che mostrava inequivocabilmente l’esistenza di una pressione di radiazione. Il fatto è che dai tentativi di Bartoli, che pure aveva tentato di evidenziare la cosa, erano passati più di 20 anni. Le tecniche sperimentali si erano sempre più affinate, si disponeva di sorgenti luminose sempre più potenti, era stata realizzata la pompa da vuoto al mercurio che spingeva a vuoti precedentemente impensabili… Sta di fatto che Lebedev riuscì nell’impresa della quale comunicò i risultati nel 1899 e pubblicò il resoconto nel 1901 sulla prestigiosa Annalen der Physik (21).
L’esperienza di Lebedev può essere descritta molto in breve nel modo seguente. Dentro un contenitore di vetro a forma sferica era sospesa, ad un sottile filo di vetro, un’asticciola orizzontale alla cui estremità era fissato un disco (diametro 5 mm) di un dato materiale (platino, alluminio, nickel,…). Nel contenitore veniva fatto un vuoto molto spinto e la luce di una lampada ad arco era inviata, dopo opportuna focalizzazione, sul piccolo disco. In queste condizioni, il disco risultava spinto, di un poco, indietro. L’effetto era visualizzabile e misurabile attraverso la deformazione del filo di vetro che sosteneva il disco. Una volta spostato, il disco, almeno finché su di esso continuava a cadere la luce, rimaneva in quella posizione; una volta eliminata la sorgente di radiazione, esso tornava al suo posto iniziale. La misura di questo spostamento permise a Lebedev di risalire alla pressione di radiazione che, nei limiti degli errori sperimentali, risultava in perfetto accordo con i dati teorici di Maxwell e Bartoli.
Un’altra esperienza di questo tipo fu realizzata dai fisici statunitensi Nichols ed Hull nel 1901. Per accertarsi di aver eliminato completamente gli effetti radiometrici, i nostri pensarono di fare l’esperienza ad una pressione relativamente elevata (16 mm di mercurio), pressione alla quale gli effetti radiometrici tendono a scomparire. La loro esperienza sembrava avesse dato dei risultati in accordo con le previsioni teoriche, ma un’attenta analisi di M. Beli e S.E. Green (e, successivamente, dello stesso Hull) mostrò che i risultati erano inattendibili (a quella pressione sorgevano dei moti convettivi nel gas, alcuni dati erano errati, …) (22).
Altri lavori sulla pressione di radiazione furono in seguito realizzati da Poynting (23), da Rayleigh, da Kapzov, da Altberg, da Arrhenius e da Dubaye. Alcuni di questi lavori furono teorici, altri sperimentali, alcuni andarono a ricercare la pressione di radiazione nelle comete (così come era stato previsto da Kepler), altri nei gas, … insomma la sperimentazione si fece sempre più variegata e completa. In chiusura di questo articolo è interessante però riferirsi ai famosi lavori di Einstein del 1905, dopo aver fatto cenno al ruolo che assegnava Poincaré alla pressione di radiazione.
Poincaré, non ancora a conoscenza dell’esperienza di Lebedev, nel 1909 sosteneva ancora che se non si fosse risolto il problema della pressione di radiazione, sarebbe stato necessario rivedere uno dei principi basilari della fisica: quello di azione e reazione (24). Per quel che riguarda Einstein c’è solo da osservare, con Holton, che l’insieme dei lavori di Einstein del 1905 (sul moto browniano, sui quanti di luce, sulla relatività) prendevano le mosse da un problema di carattere molto più generale che era proprio l’esistenza di fluttuazioni nella radiazione.
Dove finisce la nostra storia ne inizia un’altra, anzi, molte altre (25).
Note
(1) I principali contributi di Newton all’ottica si trovano nelle seguenti tre opere:
Newton, Nuova teoria intorno alla luce ed ai colori, 1672
Newton, Principi matematici della filosofia naturale, 1687 (tradotto in UTET, Classici della Scienza, 1965)
Newton, Optics, 1704 (ristampato in Enciclopedia Britannica, 1952).
Per uno studio approfondito delle teorie della luce si può vedere V. Ronchi, Storia della luce, Zanichelli, 1952. Per uno studio dei fenomeni ottici in discussione si può vedere: E. Persico, Ottica, Zanichelli, 1979. Per uno studio storico-critico dei lavori ottici di Newton si può vedere : S. D’Agostino. Il contributo di Newton allo sviluppo dell’ottica, su Il giornale di Fisica 6, n. 3, 1965.
(2) C. Huygens, Treatise on light, 1691 (ristampato in Enc. Britannica, 1952). Si noti che questo scritto fu elaborato da Huygens intorno al 1676.
(3) Bennet descrive in modo molto conciso un suo esperimento in un articolo pubblicato nel 1792 su Phil. Trans. Roy. Soc. 82, 1792. pag. 87. Questo è ciò che scrive Bennet (citato in J. Worrall, The pressure of light: the strange case of the vacillating “crucial experiment”, Stud. Hist. Phil. Sci., Vol. 13, 2, 1982, pag. 133):
“All’estremità di un sottile filo d’oro, lungo tre pollici, e sospeso mediante un filo di ragno in un recipiente cilindrico di vetro, era attaccato un piccolo pezzettino circolare di carta da scrivere: la luce era fatta entrare attraverso un piccolo foro ed era focalizzata sul pezzettino di carta mediante una grande lente, con l’intenzione di osservare se si muoveva a causa dell’impulso della luce: ma, benché questi esperimenti siano stati ripetuti più volte… non sono stato in grado di apprezzare alcun movimento distinguibile dagli effetti del calore“.
Bennet conclude dicendo che probabilmente occorrerà abbandonare la teoria corpuscolare della luce. Si noti a parte quanto è insoddisfacente il resoconto che fornisce Bennet della sua esperienza.
(4) Young, Phil. Trans. Roy. Soc., 92, 1802, pag. 12 e pag. 387.
Lloyd, Brit. Ass. Adv. Sci. Rep., 4, 1833, pag. 300.
Lloyd, Elementary Treatise on the Wave-Theory of Light, Longmans, 1857.
Stewart, Elementary Treatise on Heat, London, 1866.
(5) Fresnel, Note sur la répulsion que les corps échauffés exercent les uns sur les autres a des distances sensibles, Annales de chimie et de physique, 1825.
(6) Citato da Worrall, vedi nota 3.
(7) Weber e Kohlrausch erano impegnati (1855) ad eseguire una complessa serie di misure per trovare la determinazione assoluta delle varie grandezze che comparivano nelle formule riguardanti i fenomeni elettrici e magnetici. Tra queste grandezze si trovava un parametro c, il celebre rapporto elettromagnetico o coefficiente di ragguaglio fra unità dinamiche e statiche, la cui misura fornì il valore 3,11.1O10 cm/sec, coincidente con quello che, negli stessi anni, era stato trovato da Fizeau e da Foucault per la velocità della luce in esperienze di natura completamente diversa. La coincidenza di valori fa notata da Weber il quale non credette di dover assegnare particolare rilievo alla circostanza. Maxwell dette ben altra importanza alla cosa tanto da chiamare quel parametro c, velocità della luce.
(8) Le misure all’epoca più attendibili della velocità della luce erano quelle di Fizeau (1849) e di Foucault (1850).
(9) Maxwell, Sulle linee di forza fisiche, Phil. Mag. 21-22, 1862.
(10) Maxwell, Teoria dinamica del campo elettromagnetico, Roy. Soc. Trans. 155, 1864.
(11) In edizione italiana: UTET, Classici della Scienza, 1973.
(12) II valore che fornisce Maxwell per la pressione di radiazione su di una superfìcie completamente assorbente (corpo nero), per incidenza normale, è:
P = E/c
se la superficie è completamente riflettente, la pressione di radiazione diventa:
P = 2E/c.
Una formula che riunisce ambedue i risultati precedenti ed in più comprende tutti gli altri possibili, è la seguente:
P = (1 + r).E/c
dove r è il potere riflettente di una data superficie (per un corpo nero, e cioè completamente assorbente, risulta r = 0; per un corpo completamente riflettente risulta: r = 1). Nelle formule scritte: E rappresenta la quantità di energia che in un secondo cade sulla superficie considerate; c la velocità della luce.
Un facile calcolo di pressione di radiazione lo si può trovare in: Alonso, Finn – Elementi di fisica per l’Università (Edizione bilingue) – Addison-Wesley, 1969 (Vol. II, pagg. 722, 726).
(13) A questo proposito Poynting nel 1905 osserverà che se si avessero avuti a disposizione esperimenti probanti la pressione della luce, il compito di Young e Fresnel al fine dell’affermazione della teoria ondulatoria della luce sarebbe stato ben più difficile. Poynting, Radiation Pressure, Phil. Mag. 52, 1905, pag. 393. Occorre qui far riferimento ad una questione di carattere più generale in relazione ad una affermazione diWhittaker nel suo classico Aether and Electricity (Nelson and Sons, 1951, pag. 274, Vol. I). Secondo Whittaker la teoria ondulatoria della luce doveva prevedere una pressione di radiazione poiché una tal cosa era stata sostenuta da Euler nel 1748. Va detto che Euler fa solo un cenno alla cosa al di fuori di ogni contesto e, in ogni caso, che la teoria di Young e Fresnel non era la teoria di Euler. Una interessante discussione in proposito la si può trovare in Worrall (citato in nota 3).
(14) Per ciò che seguirà mi riferirò all’altro lavoro di Bartoli, che praticamente riassume quello citato nel testo: Il calorico raggiante ed il secondo principio della termodinamica, Nuovo Cimento 15, 1884, pag. 16. Bartoli, che fu oggetto di attenzione da parte di Boltzmann, Poincaré ed altri eminenti fisici dell’epoca, è oggi praticamente trascurato da ogni moderno testo di fisica. Sarebbe interessante approfondire lo studio su questo fisico, tenendo conto del fatto che, insieme a Mossotti, è, oltreché un valente sperimentatore, l’unico teorico italiano del secolo scorso.
(15) L’esperienza ideale, alla quale spesso si ricorre in fisica, risultando un potentissimo strumento di indagine, è una esperienza solo pensata ma non realizzata. I motivi che ne impediscono la realizzazione sono di vario tipo (tecnologici, di strumentazione non realizzata, …) ma tra di essi non ve ne può essere nessuno che contraddica i principi fondamentali della fisica.
(16) Phil. Trans. Roy. Soc. 164, 1874, pag. 501. Ibidem, 165,1875, pag. 519. Ibidem, 165,1875, pag. 547. Ibidem, 166, 1876, pag. 350. Crookes era stato in parte spinto a lavorare sulla pressione di radiazione dal lavoro di Fresnel del 1825 cui abbiamo accennato.
(17) Contemporaneamente a Crookes (Gran Bretagna), anche in Germania era stato realizzato il radiometro ad opera di Geissler (1876). Lo strumento riportato in figura è appunto quello di Geissler poiché è il più noto nella sua forma. Quello di Crookes differisce di molto poco.
(18) Phil. Trans. Roy. Soc. 166, 1876, pag. 715. Chi volesse seguire questa vicenda con maggiori dettagli può vedere, oltre al citato Worrall (nota 3), Brush and Everitt, Maxwell, Osborne, Reynolds, and the Radiometer, Historical Studies in the Physical Sciences 1, 1969, pag. 105.
(19) Maxwell, Azioni nei gas rarefatti che si originano da differenze di temperatura, Phil. Trans. Roy. Soc. 170, 1879, pag. 231.
(20) L’esperienza di Bartoli (descritta nel lavoro citato, in nota 21, alle pagg. 199, 200) consisteva nel far incidere della radiazione solare, concentrata opportunamente con delle lenti, su un dischetto di alluminio che si trovava ad una delle estremità di un asse (all’altra estremità del quale un grosso pallino da caccia equilibrava il sistema “a leva”) sospeso ad un sottile filo legato al baricentro dell’intero sistema. Il tutto era racchiuso in una sfera di vetro nella quale veniva fatto il vuoto. L’angolo di incidenza della radiazione era di 30° o 40° rispetto alla normale al dischetto. L’esperienza era ripetuta anche con luce polarizzata e con radiazioni calorifiche di differenti intensità. Le sollecitazioni erano tali che il dischetto avrebbe dovuto ruotare velocissimamente intorno ai delicati sistemi di sospensione realizzati da Bartoli. Nessun effetto fu osservato.
(21) II lavoro di Lebedev si può trovare tradotto in inglese su Astrophysical Journal 14, 1902. Un sunto della sua esperienza Lebedev lo pubblicò sulla rivista italiana Scientia (7, 1909, pag. 12).
(22) II primo lavoro di Nichols ed Hull fu pubblicato in Phys. Rew. 13, 1901, pag. 293. Il lavoro di Bell e Green è pubblicato su Proceedings of the Physical Society 45, 1933, pag. 320. Il lavoro di Bell, Green ed Hull è pubblicato in ibidem, 46, 1934, pag. 589. A proposito di questi lavori c’è da notare che la loro vicenda non piace a Worrall (citato in nota 3). Questo storico si fa prendere dalle solite smanie campanilistiche (che pensavamo appartenessero solo ai francesi). Alla fine del suo lavoro, dopo aver solo ricordato il fatto che Lebedev aveva realizzato una esperienza in proposito, visto che Bell e Green demoliscono i lavori di Nichols ed Hull, questo storico sembra indugiare sul fatto che forse la pressione di radiazione è ancora da dimostrare.
(23) Tra i lavori di Poynting sull’argomento, merita di essere letto: Radiation Pressure, Phil. Mag. 52, 1905, pag. 393.
(24) I passi di Poincaré cui mi riferisco furono comunicati dallo stesso scienziato nel Congresso Intemazionale di Fisica che si tenne a Parigi nel 1900 (in seguito l’intervento di Poincaré fu pubblicato ne La scienza e l’ipotesi (1902). Ciò che stupisce è che in Scienza e metodo del 1909, il nostro ancora sostiene le stesse cose, non facendo alcun cenno a Lebedev.
(25) Quanto detto è riportato in J. Worrall, The pressure of light… (citato nella nota 3) alla pagina 154. La comune origine dei tre lavori citati di Einstein ed il ruolo che in essi svolgono le fluttuazioni sono studiati da M. Klein nei suoi lavori Einstein ‘s FirstPaper on Quanta e Einstein and the Wave-Particle Duality pubblicati su The Natural Philosopher, 2 (1963) e 3 (1964) rispettivamente. Sull’argomento si può anche vedere A. Pais, “Sottile è il Signore… “, Boringhieri, 1986 (alle pagine 32/33, 70 e, soprattutto, 83/85).
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