ATOMI E MOLECOLE 10

1 – Legame idrogeno

       Un particolare e ben noto tipo di forze di Van der Waals intense e direzionali è quello che va sotto il nome di legame idrogeno il quale può essere considerato, come vedremo, un caso particolare delle forze di induzione studiate, come abbiamo visto, da Debye.

       Ancora negli ultimi anni dell’800 si credeva comunemente che l’idro geno avesse valenza1, si riteneva cioè, che l’idrogeno potesse chimica mente legarsi solo con un altro atomo (ricordo che la valenza è il numero intero che esprime la capacità dell’atomo di un elemento di combinarsi con un certo numero di atomi di idrogeno o di sostituirsi ad essi). Questa convinzione veniva, però, sempre più messa in discussione man mano che, nei primi anni di questo secolo, una serie di fatti sperimentali facevano pensare che l’idrogeno, in qualche caso, fosse bivalente (avesse, cioè, valenza 2).  

       La necessità di postulare una specie di bivalenza dell’idrogeno fu per la prima volta espressa nel 1912 da Werner e Pfeiffer (1) per spiegare molte inaspettate proprietà fisiche di alcuni composti contenenti idrogeno. Queste anomalie sono mostrate in modo evidente dall’acqua (H2O). Questa sostanza ha (tra l’altro) un alto punto di ebollizione, una grande tensione superficiale e una alta costante dielettrica; ebbene, se l’acqua esistesse semplicemente in singole molecole H2O questi fatti non dovrebbero verificarsi. Per spie gare gli strani  fenomeni (rispetto alle conoscenze dell’epoca) succitati bisogna pensare che l’acqua esista, anziché in molecole singole, in gruppi associati di due (H2O)2  o tre  (H2O)3  molecole.  

       Altre sostanze, tra cui l’acido fluoridrico (HF), presentano analoghe anomalie (densità di vapore, punto di ebollizione, etc. non sono in accordo con i calcoli fatti considerando l’acido fluoridrico esistente in molecole singole HF). Anche qui, per far tornare le cose, si deve pensare che l’HF debba esistere in gruppi associati di due (HF)2 o più molecole [fino a 6: (HF)6] .

       Cerchiamo di vedere, in termini di formule di struttura,(2) come si possono rappresentare gruppi del tipo (H2O)2  e del tipo (HF)2.

        La formula di struttura di una singola molecola d’acqua (H2O) è:

e questa formula è in accordo con le conoscenze elementari che noi abbiamo della chimica: l’idrogeno lo conosciamo come monovalente e da questo elemento si diparte una sola linea ad indicare questa valenza 1; l’ossigeno lo conosciamo come bivalente e da esso si dipartono due line che ci danno appunto questa valenza 2 (un’unica osservazione deve essere fatta relativamente all’angolo che i due legami H formano tra di loro. Si potrebbero infatti pensare formule di struttura costruite nel modo seguente:

in cui gli angoli tra i legami dei due idrogeni sono rispettivamente di 180° e di 90° gradi. Un accurato studio, mediante diffrazione dei raggi X, ha però permesso di stabilire che la corretta formula di struttura per l’acqua è proprio quella data ed in cui l’angolo tra i legami dei due idrogeni risulta essere di circa 105°, come vedremo meglio più oltre). Tutte le valenze risultano quindi saturate. Come si può pensare allora di legare a questa un’altra molecola?

       Il solo modo verosimile di rappresentare un gruppo del tipo (H2O)2 è il seguente:

       In questa struttura si hanno due atomi di ossigeno che risultano legati attraverso un solo atomo di idrogeno. Il legame dell’idrogeno con un solo atomo di ossigeno può essere considerato come covalente (vedi  parte prima di questo lavoro) e, in accordo con le nostre cognizioni elementari di chimica, può essere rappresentato con un tratto continuo (————) come nella penultima figura. Riguardo l’altro legame che l’idrogeno ha con il secondo atomo di ossigeno, niente siamo ora in grado di dire relativamente alle eventuali forze in gioco: questo legame lo abbiamo indicato con una linea tratteggiata (- – – – -).

       In accordo con quanto abbiamo detto fino ad ora, nel caso si avesse un gruppo di più molecole d’acqua, lo indicheremo nel modo seguente:

Delle cose analoghe si possono dire per i gruppi (HF)n , con n=l, 2, …, 6; per questi infatti si hanno delle formule di struttura del tipo riportato in figura:

I due esempi che abbiamo fatto , relativi ai gruppi H20 ed HF, prendevano in esame i due più elettronegativi(3) elementi: l’ossigeno ed il fluoro.

       Quanto abbiamo detto può essere generalizzato: due elementi (X ed Y), sufficientemente elettronegativi, possono, in determinate circostanze, essere legati nel modo seguente:

 X—————H- – – – – – – -Y

Questo particolare tipo di legame è quello che si chiama legame idrogeno. Questo tipo di legame, può, quindi, formarsi solo mediante un atomo di idrogeno che è già legato ad un elemento molto elettronegativo (come ad esempio: fluoro, ossigeno e azoto). Inoltre, il legame idrogeno si stabilisce tra un atomo di idrogeno ed un atomo di un altro elemento di una mo lecola adiacente e questo fatto origina una reciproca attrazione tra molecole.

       Nel 1920 W. M. Latimer e W. H. Rodebush (e, indipendentemente, M. L. Huggins in un lavoro non pubblicato) per primi rappresentarono il legame idrogeno in termini elettronici. I tre fisici pensarono che questo particolare legame fosse originato dalla formazione di due legami covalenti da parte dell’atomo di idrogeno. Questa idea fu adottata per qualche anno, fino a quando, cioè, con l’introduzione del principio di Pauli (1925), si riconobbe che su una orbita elettronica vi possono essere al massimo due elettroni (e ve ne sono due se questi ultimi hanno spin opposti).

       Vediamo come entra nelle nostre considerazioni il principio di Pauli. Supponiamo vera l’ipotesi di Latimer – Rodebush (e Huggins) e riportiamo in un disegno schematico l’atomo di idrogeno impegnato in un doppio legame covalente tra due ossigeni:  

Osservando la figura  sembrerebbe esservi un solo legame covalente, quello originato da un elettrone dell’ultima orbita dell’ossigeno di sinistra con l’unico elettrone (segnato in figura come un segno meno a fianco) dell’idrogeno. Ma quella di figura  è una situazione statica. In realtà l’elettrone dell’idrogeno (come del resto tutti gli altri) si muove molto rapidamente passando alternativamente a formare il legame covalente con l’ossigeno di sinistra e con quello di destra.

       A parte lo strato L degli ossigeni che per comodità è stato disegnato con tutti gli elettroni su di un unico livello anche se questi si trovano su vari sottolivelli (ma la cosa è concettualmente possibile purché sullo strato L vi siano al massimo otto elettroni sempre pensati suddivisi in vari sottolivelli estremamente vicini tra di loro e quindi praticamente impossibili da disegnare), la cosa che più colpisce della figura è l’esistenza sull’unico strato K (livello 1 s) dell’idrogeno di tre elettroni. Questo fatto è contrario al principio di Pauli e non risulta quindi possibile (come Pauling mostrò nel 1928).

       Si è allora pensato che l’idrogeno formasse uno dei due legami covalenti usando uno dei suoi orbitali appartenenti allo strato L (2s, 2px , 2py  , 2pz ), ma questa ipotesi risulta estremamente improbabile per ragioni energetiche; infatti gli elettroni che andassero da un orbitale K in un orbitale L acquisterebbero delle energie molto più alte e questa situazione risulta sfavorevole alla formazione di legami.

        Nel 1926, studiando con i nuovi metodi della Meccanica quantistica gli stati quantici dell’atomo di elio, Heisenberg introdusse il concetto (estremamente importante) di risonanza con il quale si tentò una nuova spiegazione, ad opera soprattutto di Sidgwick (1927), del legame idrogeno.

        Cerchiamo di capire, molto in breve e senza entrare in alcun dettaglio, cos’è la risonanza.

        Quando si vuol determinare la formula di struttura di una certa so stanza, lo si vuole fare univocamente, cioè, senza equivoci.

        Quando non è possibile determinare questa formula di struttura, in modo preciso e univoco, da dati sperimentali, allora ci si affida alle nostre conoscenze teoriche per cercare di dare la formula più probabile. Procedendo però in questo modo, in genere, non si individua una sola formula di struttura, ma se ne individua più di una.

       Facciamo il semplice esempio dell’ozono O3  (che è la molecola triatomica dell’ossigeno).(4)

       Per questa molecola si possono pensare le due seguenti formule di struttura (i puntini neri riportati nelle formule rappresentano gli elettroni dell’ultimo strato non impegnati in legami, mentre il trattino ——— rappresenta il legame chimico e cioè la messa in comune di un elettrone da parte dei due atomi uniti dal trattino stesso; in definitiva ogni trattino rappresenta due elettroni; uno per ciascuno dei due atomi da questo legati):

Conteggiando per ogni trattino due elettroni e sommandoli a quelli non legati si vede facilmente che in ambedue i casi il totale degli elettroni dell’ultimo strato dei tre ossigeni è 18 (6 per ciascun ossigeno) così come deve essere.

       Riferendoci alla figura (a), vediamo che ci sono due ossigeni uniti da un legame doppio, mentre due sono uniti da un legame singolo (analogamente nella figura (b)).

       Ancora dalla figura (a) ricaviamo che l’ossigeno terminale verso il basso completa lo strato K avendo 6 elettroni non legati più due che si originano dal legame (il trattino che lo unisce con l’ossigeno centrale). Così stando le cose, però, questo ossigeno terminale risulta avere un elettrone in più sull’ultimo strato (7 invece di 6) rispetto a quello che si dovrebbe avere considerando un ossigeno isolato. Si deve allora considerare l’atomo che sta più in basso come uno ione negativo originato dalla cat tura di un elettrone dall’atomo centrale il quale evidentemente risulta ione positivo:

       Lo ione positivo al centro della formula di struttura forma allora tre legami: uno semplice ed uno doppio.

       Tutte queste cose, che abbiamo detto, si possono dire allo stesso modo per la struttura della penultima figura (b) solo cambiando gli uffici degli atomi terminali.

       Vediamo un altro esempio: quello della grafite.

       In questa sostanza ogni atomo è circondato da altri tre, ai quali è legato da un legame doppio e da due semplici (completando quindi il suo ultimo strato che manca appunto di quattro elettroni).

       Le possibili formule di struttura della grafite possono quindi essere:      

Di esempi di questo tipo se ne possono fare moltissimi (anidride carbonica CO2, ossido di carbonio CO, etc.) e stanno ad indicare ciò che avevamo accennato qualche riga più indietro, il fatto, cioè, che spesso è difficile assegnare ad una molecola una sola struttura elettronica (una sola formula di struttura) che rappresenti in modo soddisfacente, e non sterile, le sue proprietà.

       Quando ci troviamo di fronte a casi del genere dobbiamo ammettere che tutte le formule probabili siano in risonanza  tra loro cioè che nessuna delle formule che noi abbiamo ricavato dai nostri presupposti teorici rappresenta in modo completo ed efficace la struttura della sostanza, ma tutte insieme concorrono a rappresentare la vera struttura che tuttavia rimane incognita. Qual’è allora la vera struttura dell’ozono? Nessuna delle due fornite. La struttura vera risuona (è il doppio legame che risuona) tra le due risultando un ibrido tra le varie strutture probabili (è stata paragonata ad un mulo che ha le caratteristiche dell’asino e del cavallo pur non essendo né asino né cavallo).

       Qual’è la struttura vera della grafite di figura precedente? Anche qui nessuna delle tre. La struttura vera risuona    tra le tre risultando un ibrido tra esse.(5)

       Un’ultima cosa da dire a proposito della risonanza è relativa all’energia che gli compete.

       Facendo i conti sulle strutture probabili che noi possiamo costruire di molecole risonanti troviamo sempre che le energie di legame di queste strutture risultano minori delle energie di legame, per le molecole in considerazione, misurate sperimentalmente (e questa, se vogliamo, è un’altra riprova della inadeguatezza delle formule probabili che scriviamo) .

       La differenza, che dà sempre un valore positivo, tra le energie di legame misurate sperimentalmente (per molecole risonanti) e quelle calcolate dalle formule di struttura probabili ricavate teoricamente dà la misura della stabilità della vera struttura rispetto a quella rappresentata dalle nostre semplici formule probabili. Questa differenza di energia tra la vera molecola e la più stabile delle strutture probabili è chiamata energia di risonanza.(6)

       Torniamo al legame idrogeno per vedere come si cercava di renderne conto (come abbiamo già detto: a partire dal 1927) mediante la risonanza.

        Supponiamo di avere un gruppo di tre molecole di acqua (H2O)3. Queste molecole sono unite da legami idrogeno ed il gruppo risulta stabile.

       L’energia di risonanza tra le due strutture riportate in figura seguente, poteva rendere conto della stabilità osservata sperimentalmente(7).

L’energia del legame idrogeno era quindi attribuita all’energia di risonanza risultante.

       Questo modo di intendere le cose ha ancora oggi dei sostenitori ma il massimo successo lo ebbe negli anni che vanno dal 1930 al 1940.

       La principale obiezione che venne (e che è) mossa alla risonanza è che essa non può essere la causa principale della forza che si esercita nel legame idrogeno a causa della posizione dell’idrogeno nel legame stesso.

       Infatti, da molti dati sperimentali, risulta che l’idrogeno, impegnato nel legame omonimo tra due atomi (X ed Y), non si trova mai ad ugual e distanza da questi [eccetto che nel caso dello ione (HF2)] essendo situato più vicino ad uno dei due. Risulta inoltre che, in un legame idrogeno del tipo X.————H- – – – – – -Y, più breve è la distanza di X da Y, più forte è il legame idrogeno. Ora, affinché si abbia risonanza, l’atomo di idrogeno (e quindi il nucleo, cioè il protone) dovrebbe essere situato presumibilmente al centro dei due atomi (X ed Y) e questo fatto, come abbiamo visto, non si verifica mai. Inoltre, poiché in diversi casi è stato possibile misurare l’energia di risonanza, quest’ultima risulta insufficiente a rendere conto dell’energia del legame idrogeno osservata sperimentalmente.

       Nel 1928 cominciò a studiare il problema Linus Pauling (i suoi studi, in gran parte riguardanti il legame idrogeno, sono proseguiti per più di 30 anni). Pauling affrontò il problema dal punto di vista della meccanica quantistica trovando, come importante risultato, che l’attrazione di due atomi, nel legame idrogeno, deve attribuirsi in modo determinante a forze che si esercitano tra ioni, a forze in definitiva, di natura elettrostatica.

        II meccanismo è in pratica quello delle forze di induzione di Debye.

        Supponiamo di avere un legame idrogeno tra due atomi X ed Y:

X———H- – – – – -Y

Già sappiamo che il legame idrogeno si forma prevalentemente quando X ed Y sono fortemente elettronegativi. Ciò implica che l’atomo X, impegnato nel legame, eserciterà una forte attrazione sull’elettrone dell’idrogeno. Questo elettrone passerà quindi gran parte del suo tempo delle vicinanze di X dando origine ad un legame con una polarità ben precisa: negativa dalla parte di X e positiva dalla parte di H. La situazione, schematizzata in figura, è quindi la seguente:

   X————H+– – – – – – -Y

Osserviamo ora che il legame X————H+  possiamo rappresentarlo con un dipolo, mentre l’atomo Y, lo possiamo rappresentare con la sua nuvola carica e quindi con la sua polarizzabilità.

        Si ha quindi la situazione seguente:

che origina la polarizzazione e quindi un dipolo indotto su Y:

E questo stato di cose, come sappiamo, è relativo ad una attrazione tra i dipoli (quello permanente e quello indotto) con una energia (proporzionale ad 1/r 6) che ha lo stesso andamento di quella prevista da Debye pur essendo più grande(8).

       Pensando a come stanno le cose si capisce subito che la grande energia U di interazione che si riscontra è dovuta alla piccolezza del protone dell’idrogeno che sta in mezzo agli atomi X ed Y; infatti questa piccolezza permette un, grande avvicinamento r tra il gruppo X—-——H+  e l’atomo Y:

Nel caso in cui non due (X ed Y) ma più atomi X e più atomi Y siano interessati al legame idrogeno (come nel ghiaccio) si può fare un altro ragionamento per rendere conto della sua natura elettrostatica. Infatti considerando, come prima, il legame:

  X————H- – – – – – – -Y

e restando il fatto che il gruppo X——H forma un dipolo permanente:

ora l’atomo Y  ha altri atomi di idrogeno a disposizione e, per la sua elettronegatività, risulterà in qualche modo ionizzato negativamente avendo prelevato, con lo stesso meccanismo di X, un elettrone a qualche altro atomo di idrogeno.

       La situazione sarà allora la seguente:

risultando, in definitiva una attrazione di un tipo particolare (ione-di polo) che vedremo più avanti.

        Prima di concludere con il legame idrogeno, e con esso con le forze di Van der Waals, è necessario dire che a tutt’oggi si crede generalmente che il meccanismo elettrostatico sia il componente principale della forza che si esercita in un legame idrogeno. Naturalmente una frazione della forza di legame sarà originata anche dalla risonanza; ma solo una frazione.

       Studi recenti hanno mostrato che questo tipo di legame riveste una eccezionale importanza; molte macromolecole presentano infatti questo tipo di legame e la sua presenza è spesso vitale nei sistemi biochimici. Per esempio si crede che il legame idrogeno sia la causa della particolare struttura a doppia elica dell’acido deossiribonucleico (DNA: Watson e Crick, 1953)  la sostanza che porta il codice genetico nelle cellule viventi. 

Una ricostruzione tridimensionale della famosa doppia elica del DNA.

Più in basso un disegno schematico del DNA in cui si fanno notare i legami 

idrogeno esistenti tra le basi.

Osservo a parte che l’unità di misura presente nel secondo disegno, il nanometro 

(nm) vale: 1nm = 10-9 m.

Si crede inoltre che il legame idrogeno presente nelle proteine permetta lo scambio tra queste di informazioni biologiche (in un ambiente acquoso) secondo il seguente meccanismo: gli H del legame idrogeno possono scorrere formando delle correnti che portano l’informazione biologica da un punto all’altro della proteina:

Disegno schematico di una catena peptidica, alla base di proteine ed amminoacidi.

Nella prima figura i pallini neri sono legami idrogeno. Nella seconda, vi è la 

schematizzazione della prima per far notare che il legame idrogeno (linea

tratteggiata) attraversa tutto l’asse della macromolecola. Osservo che il simbolo R

sta ad indicare l’inizio di una catena laterale di altri componenti (residui 

amminoacidi)

Dato poi che in tutte le sostanze organiche vi è il legame idrogeno, si è fatta l’ipotesi che l’indeterminazione nella posizione di H serva per il trasferimento di informazioni in una cellula.

2 – Ricapitoliamo sulle forze di Van der Waals  

(sono ancora grato ad Emilio Segrè che, a margine di un incontro ai Lincei, mi ha indicato il lavoro da cui ho tratto una gran mole di notizie: H. Margenau – Van der Waals Forces – Reviews of Modern Physics, V.11, n. 1, 1939. )

       Le forze di Van der Waals si possono raggruppare in tre particolari tipi di forze (oltre al legame idrogeno che può essere considerato un caso particolare  delle forze di induzione):

a) Forze d’orientamento di Keesom tra molecole rigide polari (legame dipolo-di polo).  In questo legame si ha una energia media U di interazione proporzionale ad 1/r6 e ad 1/T; la forza invece è proporzionale ad 1/r7 e ad 1/T (queste forze non sono additive e dipendono dalla temperatura).

b) Forze di induzione di Debye tra molecole polarizzabili (legame dipolo-dipolo indotto). In questo legame si ha una energia media U di interazione proporzionale ad 1/r6 ed una forza proporzionale ad 1/r7 (queste forze non sono additive).

c) Forze di dispersione di London tra atomi e molecole polarizzabili  (legame dipolo istantaneo-dipolo indotto). In questo legame si ha una energia media U di interazione proporzionale ad 1/r6 e dipendente dall’energia di punto zero; la forza, anch’essa dipendente dall’energia di punto zero, è proporzionale ad 1/r7 (queste forze risultano additive).(9)

[In una generica attrazione molecolare si avrà a che fare con la somma degli effetti di tutti e tre i tipi di forze].

***

        II problema delle forze di Van der Waals che abbiamo or ora finito di trattare è uno dei tanti problemi relativi alle forze chimiche.

       Per completare il discorso, relativamente a queste forze, rimangono da studiare le interazioni elettrostatiche tra molecole (legame ione-ione, o dativo, e legame ione-dipolo) ed il legame metallico (che comunque verrà trat tato dopo le teorie dell’orbitale molecolare e del legame di valenza che vedremo più avanti).

3 – Attrazione elettrostatica tra molecole. Legame dativo.

       Questo tipo di legame tra molecole, che può essere considerato equivalente ad un doppio legame covalente tra atomi, fu studiato da Werner (1893), Lowry (1923) e Sidgwick(10) (1927)  [il quale usò, per rappresentare il legame il simbolo  ——> che sta ad indicare un trasferimento di carica elettrica da un atomo ad un altro].(11)

       La spiegazione data da Werner per questo legame era soltanto empirica; solo con lo sviluppo della teoria elettronica della valenza Lowry e Sidgwick riuscirono a darne una interpretazione teorica.

       Quando abbiamo studiato il legame covalente abbiamo visto che, in ogni coppia di elettroni messa in comune tra due atomi, ciascun atomo contribuisce con un elettrone.  

        Un altro modo di mettere in comune elettroni tra due atomi (o due molecole) si ha quando uno dei due atomi (o molecole) che entrano nel legame  fornisce ambedue gli elettroni che poi vengono messi in comune. Formalmente, quindi, i due atomi sono tenuti insieme da una coppia di elettroni condivisa: per questo spesso si parla di covalenza dativa. Quando pero si vanno a studiare le proprietà delle molecole tenute insieme da questo particolare legame covalente si trovano proprietà diverse da quelle che ci aspetteremmo. Inoltre, le formule classiche ricavate con l’ausilio della teoria elettronica della valenza devono spesso essere completamente modificate per rendere conto di questo legame (e per questo il legame dativo viene studiato a parte rispetto al covalente).

        La spiegazione data da Sidgwick consiste di due importanti postulati:

1)  Gli atomi non raggiungono la loro configurazione più stabile solo quando sulle loro orbite esterne vi sono otto elettroni, ma anche quando su queste orbite vi sono dieci, dodici e sedici elettroni (si ricordino i sottolivelli che originano uno strato!).

2) Legami covalenti possono ottenersi anche quando uno dei due atomi  (o molecole) interessati al legame fornisce ambedue gli elettroni.

       Abbiamo già detto che il legame dativo è presente particolarmente in composti complessi in cui due molecole sono tenute insieme dalla messa in comune di due elettroni forniti da una di esse. Questi composti complessi sono particolarmente numerosi in natura, soprattutto nelle molecole impegnate nei processi biologici (quali: la respirazione, la sintesi clorofilliana, etc…). Di  esempi  quindi  se ne potrebbero  fare molti ma noi  ci  limiteremo  ad uno nel quale il legame dativo tiene insieme due molecole già di per sé abbastanza complicate.

       Il tricloruro di boro (BCl3) e l’ammoniaca (NH3) hanno le seguenti formule elettroniche:

Come si può vedere, nell’ammoniaca, vi è una coppia di elettroni non impegnati in alcun legame, mentre il boro del tricloruro ha ancora la possibilità di accogliere nella sua orbita più esterna due elettroni.

       Si può quindi stabilire un legame dativo tra le due molecole per formare BCl3NH3 (che scritto secondo la convenzione fatta è: Cl3B<——NH3) che può essere rappresentato come in figura:

       Un’osservazione può essere subito fatta: se una molecola contiene uno solo di questi legami essa avrà un momento di dipolo poiché il trasferimento di elettroni avviene tutto in un’unica direzione, facendo acquistare alle molecole (o atomi) componenti un certo grado di polarità. Quando poi una molecola ha più di uno di questi legami, la sua geometria (spaziale) determinerà se essa ha nell’insieme un momento di dipolo.

       Il processo che abbiamo descritto, per la formazione della molecola di BCl3NH3, può essere anche interpretato in altro modo.

       Una molecola di tricloruro di Boro (BCl3) portata vicino ad una molecola di ammoniaca (NH3), la ionizza (con un meccanismo analogo a quello visto nel legame ionico) togliendogli un elettrone; si ha quindi:

BCl3  +  NH3 = [BCl3] + [NH3]+.

In questo modo si sono ottenuti due ioni i quali, essendo dotati di carica elettrica, eserciteranno tra di loro una attrazione, il cui andamento sarà sostanzialmente regolato dalla legge di Coulomb, fino a che si legheranno nella formazione della molecola (mettendo in comune, come in un normale legame covalente, l’elettrone libero rimasto nell’ammoniaca e quello precedentemente ceduto al trifluoruro di boro). Per questo motivo il legame dativo va anche sotto il nome di legame ione-ione (o legame semipolare, poiché si ha a che fare, in successione, prima con un legame ionico poi con uno covalente).

4 – Attrazione elettrostatica tra molecole: interazione ione-dipolo.

       Irvin Langmuir, nel 1919, cominciò a studiare le interazioni ione-dipolo. Gli studi di Langmuir si arricchirono negli anni seguenti di contributi ad opera di altri studiosi, soprattutto dopo la pubblicazione dei lavori di Debye sull’interazione dipolo-dipolo indotto (1920-1921).

       Questo tipo di interazione si manifesta soprattutto tra uno ione (cioè: una carica elettrica) ed un insieme di molecole polari (dotate cioè di dipolo permanente) o di molecole polarizzabili (che possono acquistare cioè un dipolo indotto), in genere, nelle soluzioni.

        Cominciamo con lo studiare l’interazione ione-dipolo permanente riferendoci all’esempio tipico del cloruro di sodio (NaCl e cioè: sale da cucina) disciolto in acqua (H2O).

       Quando si mette l’NaCl (che è un solido cristallino, vedi oltre) in H2O, le molecole di acqua, che sono polari,(12)  attaccano il reticolo cristallino dell’NaCI con una forza di origine elettrostatica che sopravanza quella, sempre di origine elettrostatica che lega insieme (in un legame ionico) lo ione Na  e lo ione Cl.

       Rappresentando il dipolo permanente associato alla molecola di H2O, in accordo con quanto già detto sull’acqua, con un dipolo e disegnando gli ioni con un cerchio contenente il simbolo dello ione, si ha la figura seguente:

Tenendo presente la figura  si possono fare le seguenti considerazioni che hanno comunque validità generale. Fissiamo le idee sullo ione-positivo Na+ . Quando a questo ione si avvicina una molecola d’acqua, dotata di momento di dipolo, lo ione attrarrà la parte negativa del dipolo e respingerà la parte positiva dello stesso [figura (b)]. Le due entità tenderanno quindi ad assumere la posizione seguente:

A questa disposizione ordinata si oppongono le vibrazioni molecolari di origine termica che tendono ad orientare a caso le molecole; in media comunque prevarrà la disposizione di figura precedente. Quando lo ione ed il dipolo sono orientati, come visto, si eserciterà una forza di attrazione tra lo ione (+) e la carica (-) del dipolo, mentre si eserciterà una repulsione tra lo stesso ione e la carica (+) del dipolo. La forza di attrazione prevarrà su quella di repulsione poiché la carica (-) del dipolo è più vicina allo ione (+) della carica (+) del dipolo stesso. Si ha quindi una attrazione tra lo ione ed il dipolo.

       Supponendo che la carica dello ione sia q e che il momento del di-

polo sia m, l’energia (UI-D) di interazione media è data da:

 UI-D  =  – (qm/r2)

che risulta ovviamente più debole dell’energia di interazione ione-ione che abbiamo visto nel paragrafo precedente.

       Nel caso in cui l’energia KT (con K = costante di Boltzmann, e T = temperatura assoluta) di agitazione termica delle molecole è grande (cioè, se è alta la temperatura) rispetto ad UI-D, allora occorre correggere la formula scritta e sostituirla con l’altra:

Prendiamo ora in esame l’interazione ione-dipolo indotto. Senza dilungarci troppo osserviamo subito che le cose vanno più o meno come nel caso visto precedentemente. Uno ione posto vicino ad una molecola non polare, dotata di una polarizzabilità a, la polarizza, secondo il meccanismo già visto quando abbiamo discusso le forze di induzione di Debye, inducendovi un dipolo:

In questo modo si origina una debole attrazione tra lo ione ed il dipolo indotto.

       Supponendo che lo ione abbia una carica q e la molecola una polarizzabilità a, l’energia media (UI-DI) di interazione sarà:

Una osservazione prima di concludere questo paragrafo: un dipolo indotto si origina sempre nell’interazione tra uno ione ed una molecola (sia essa polare o no). Se la molecola è polare, la forza di attrazione dovuta all’interazione ione-dipolo indotto si somma a quella dovuta all’interazione ione-dipolo permanente.  

***

        Tutti i legami che abbiamo fin qui studiati (compreso quello metallico che studieremo più avanti) in alcuni casi sono presenti in forma praticamente pura; il più delle volte però il legame chimico è un misto tra i vari legami.

        Quando si ha a che fare con un legame misto, si studiano separatamente i diversi contributi cercando poi di metterli insieme in una forza di attrazione o repulsione risultante. Come si può ben capire questo discorso è estremamente complicato fornendo solo del risultati approssimati ed il più delle volte aggiustati empiricamente dal confronto con i dati sperimentali.

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        Prima di iniziare la trattazione delle forze di Van der Waals e delle interazioni elettrostatiche avevamo discusso, dandone la spiegazione clas sica di Lewis e Langmuir, il legame covalente. Nel 1927, appena dopo la formulazione della meccanica quantistica, Heitler e London dettero una esauriente spiegazione del legame covalente nella loro teoria del legame di valenza e,  sempre nel 1927, Burrau ed altri svilupparono ancora una spiegazione di questo legame nella loro teoria dell’orbitale molecolare.

       Affronteremo ora lo studio quanto-meccanico di queste due importanti teorie.

NOTE

(1) I due fisici cominciarono, appunto nel 1912, a scrivere formule chimiche in cui, per la prima volta, l’idrogeno era considerato come bivalente. Sempre nel 1912 T. S. Moore e T. F. Winmill utilizzarono questa ipotesi in un loro importante articolo.

(2) Le formule chimiche (H2O; HF; H2SO4; etc.) che solitamente si usano sono chiamate, in genere, formule brute. Le formule di struttura sono rappresentazioni grafiche usate per chiarire i legami tra gli atomi delle molecole; a tale scopo, accanto ai simboli degli elementi, si indicano le rispettive valenze per mezzo delle lineette continue (ad ogni linea corrisponde una valenza). Vediamo per esempio la molecola di idrogeno (H2): l’idrogeno è monovalente (normalmente) per cui si ha che la sua valenza si può rappresentare con una sola lineetta (H-); per quanto riguarda la formula di struttura di H2, si ha: H-H.

(3) L’elettronegatività è la proprietà, che ogni atomo ha, di addensare su di sé gli elettroni messi in comune con un altro atomo nella formazione di un legame. Si veda comunque più oltre.

(4) Osserviamo che l’ossigeno si trova comunemente in natura in molecole biatomiche O2. Ricordando che l’ossigeno è bivalente (e che comunque, avendo sei elettroni nello strato L, tende a completare questo strato con altri due elettroni) normalmente esso si lega ad altri elementi con un doppio legame (ad esempio nell’ossido di Carbonio CO si ha: C=O). Si sarebbe quindi portati a pensare che la molecola O2 fosse costituita da un doppio legame covalente del tipo O=O (in questo modo due elettro ni dello strato L di un ossigeno andrebbero a completare lo strato L del l’altro e viceversa). Invece si ha un solo legame O—O, in modo tale da avere, come risultato, sette elettroni su ogni strato L dei due ossigeni con una valenza, almeno teorica, libera.

(5) La trattazione che qui abbiamo fatto della risonanza è manchevole sotto molti aspetti. La teoria della risonanza è stata ricavata (1930) con metodi quantistici abbastanza complicati che al nostro livello non siamo in grado di affrontare. Per quanto ci occorre basta comunque quanto abbiamo fin qui detto.

(6) L’idea della risonanza è stata sviluppata con metodi quantomeccanici nel 1931 soprattutto ad opera di Slater, Pauling e Huckel.

(7) Sul legame di figura (a) non dovrebbero esserci dubbi, a parte la necessaria osservazione che gli H impegnati nel legame idrogeno (————H- – – – – – – -) hanno il loro protone non al centro rispetto ai due ossigeni. Questi protoni risultano più vicini agli ossigeni con cui si ha legame a tratto continuo (——) mentre gli elettroni degli stessi idrogeni hanno una maggiore probabilità di trovarsi vicini a questi ossigeni piuttosto che ai nuclei degli idrogeni stessi. Relativamente alla figura (b) c’è da dare qualche chiarimento. Se il protone del primo  H  impegnato nel legame idrogeno, per un qualche motivo, si avvicina di più all’ossigeno centrale, questo protone rimane legato a questo ossigeno che risulta ionizzato posi tivamente (O+), lasciando il suo elettrone al primo ossigeno che risulta ionizzato negativamente (O). Si ha allora la seguente situazione intermedia:

la quale risulta instabile. Come conseguenza il secondo H impegnato nel legame idrogeno allontanerà il suo nucleo dall’ossigeno centrale (lasciando però l’elettrone) facendolo avvicinare al terzo idrogeno. Si ha così la situazione di figura (b), dall’instabilità della quale si ritorna, tramite questa figura, alla figura (a).

(8) Ricordiamo che il legame idrogeno è un particolare tipo di forza di Van der Waals che risulta intensa rispetto a quelle che abbiamo studiate (in media risulta da 5 a 10 volte più intensa).

(9)  Le formule complete per i tre tipi di forze sono:

a)  Forze d’orientamento di Keesom:

dove:

|m1| =  momento  di  dipolo  della  prima  molecola  (in  valore  assoluto);

|m2| =  momento  di  dipolo  della  seconda  molecola  (in  valore  assoluto);

  K   = costante di Boitzman = 1,38.10-23 Joule/°K;

  T   = temperatura (in gradi Kelvin) a cui si trovano i dipoli;

  r   = distanza tra i centri dei dipoli (cioè tra i centri delle molecole).

b) Forze di induzione di Debye:

Nel caso in cui si abbia un dipolo permanente di momento m ed una molecola di polarizzabilità a, si ha:

dove:

m  =  momento  di  dipolo  della  prima  molecola (in valore assoluto);

a  =  polarizzabilità della  seconda  molecola;

r   = distanza tra i centri delle molecole.

Nel caso in cui si abbiano ambedue le molecole polarizzabili con diverse polarizzabilità e (quindi) momenti, si ha:

con chiaro significato dei simboli.

c) Forze di dispersione di London:

  dove:

  3hν0  = energia di punto zero dei due oscillatori (dipolo istantaneo e dipolo indotto);

e con gli altri simboli di chiaro significato.

(10) Per questo legame Lowry usò il nome di doppio legame semipolare; Sidgwick lo chiamò invece legame coordinato. Le molecole tenute insieme da questo legame si raggruppano in composti complessi. Poiché questi composti (a strut tura più complicata di quelli studiati comunemente in un corso di chimica) alla fine del secolo XIX non potevano essere spiegati con la teoria della valenza sviluppata fino ad allora si ricorse (Werner, 1893) al concetto di valenza secondaria per rendere conto di quelle forze intermolecolari che all’epoca era impossibile conoscere. Questi concetti furono sviluppati da Werner nella sua teoria di coordinazione; per questo motivo il legame che ora stia mo studiando è stato chiamato anche coordinato.

(11) In un legame dativo l’atomo che fornisce elettroni è chiamato donore, quello che li acquista è chiamato accettore. Un legame dativo tra due atomi A (accettore) e B (donore) è rappresentato da:

A<———B.

Se A è donore e B accettore, si ha:

  A————>B.

(12) Ricordiamo comunque che il dipolo permanente associato alla molecola di H2O può essere rappresentato nel modo seguente



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