La necessità di pensare questo paradosso: la cultura cattolica ufficiale non ha più nulla da dire alla cultura tout court, proprio quando la pratica dei cattolici impegnati ad approssimare il Vangelo si afferma come modello.
PAOLO FLORES d’ARCAIS
Da MicroMega 5/98, pagg. 187/214
Vuoto culturale e ricchezza di testimonianza
Fides et ratio, ultima enciclica di Karol Wojtyta, dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio che la cultura cattolica ufficiale non ha più nulla da dire alla cultura tout court. E ciò, paradossalmente, proprio quando la pratica dei cattolici cristiani, esistenzialmente impegnati ad approssimare il Vangelo – dalla parte e nella cura degli ultimi – si afferma spesso come modello per l’impegno tout court. Questo paradosso andrà pensato in tutte le sue implicazioni e conseguenze. Da parte cattolica, poiché è uno scarto che allude ad un conflitto tendenzialmente insanabile tra cattolicesimo del conformismo e cristianesimo della testimonianza, da parte «laica», poiché costringe a interrogare la possibilità di un impegno senza trascendenza, di una passione per il relativo. Ma di questo più avanti.
Resta il carattere essenziale che marchia questa enciclica: una tradizionalissima e inargomentabile (in termini razionali) riaffermazione della pretesa della Chiesa cattolica apostolica romana al monopolio della verità. Con l’accattivante finzione dell’umiltà, infatti, la «diaconia della verità», che il papa polacco aggiorna nella sua enciclica, altro non è che il dogmaticissimo imperio di sempre che la Chiesa si arroga sulla verità. Agghindato con una «difesa della grandezza della ragione» che vale esclusivamente se quest’ultima, rinunciando alla propria autonomia, rinnega se stessa, e anziché darsi da sé i propri limiti si subordina alla fede, cioè al magistero di Roma, unico autorizzato interprete delle scritture e della tradizione. Poiché una Chiesa che si confessa unica e incontestabile serva della verità, in realtà si erge a padrona di quanti devono obbedirla (la verità, cioè la Chiesa, o la Chiesa, cioè la verità).
Il che è certamente nella natura della Chiesa, se intende parlare ai soli fedeli per riaffermare un dogma da essi sempre più tiepidamente vissuto, ma è del tutto incompatibile con ogni velleità di confronto «senza preclusioni di sorta e senza limite alcuno» (1) con chi, non avendo «accolto» quel dogma, può accettare esclusivamente un argomentato dialogo.
Il tanto sbandierato elogio della filosofia, con l’invito – addirittura – «a non prefiggersi mete troppo modeste nel filosofare» (§ 56), si risolve in conclusione nella deludente ovvietà del «messaggio ultimo dell’enciclica» (Breve sintesi): «verità e libertà, o si coniugano insieme o insieme miseramente periscono» (§ 90). Dove per verità si intende l’opinione fulminata ex cathedra, e la libertà è dunque niente altro che la servitù volontaria delle coscienze agli ukase del sacro soglio. Ma andiamo con ordine.
(1) Come dichiara la Breve sintesi dell’Enciclica diffusa dalla sala stampa della Santa Sede. Le due straordinarie pagine promozionali di Joaquim Navarro Vals sembrano 1’unico testo utilizzato dalla maggior parte dei mass media nel dar conto dell’enciclica. Per quanto riguarda il testo completo dell’enciclica, invece, poiché ormai ne circolano diverse edizioni, faremo riferimento non alle pagine ma ai capitoli.
Elogio della filosofia?
A parole, nell’enciclica di Giovanni Paolo II, la filosofia la fa da regina. «L’uomo è naturalmente filosofo» (§ 64) perché «tutti gli uomini desiderano sapere» (§ 25) «e oggetto proprio di questo desiderio è la verità» (ibidem). Al punto che «il desiderio di verità appartiene alla stessa natura dell’uomo» (§ 3) e che la definizione dell’uomo come «colui che cerca la verità» (§ 28) suona essenziale. In questo quadro dall’orizzonte illuminista, dove la kantiana divisa del «sapere aude!» fa tutt’uno con il dovere e la dignità dell’uomo, poiché della natura umana costituisce la fibra e la trama, sembra che la Chiesa riconosca con entusiasmo la libera ricerca filosofica. Non solo infatti, nelle parole di Wojtyla, la filosofia «emerge» tra le «molteplici risorse che l’uomo possiede per promuovere il progresso della conoscenza della verità» (§ 3) ma addirittura la Chiesa «vede nella filosofia la via per conoscere fondamentali verità concernenti l’esistenza dell’uomo» (§ 5). Sembra perciò un semplice sigillo di autorevolezza e solennità, non certo una limitazione o una riserva, la conferma che viene dal Libro e dall’autore ispirato «È Dio», infatti, «ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità» (incipit e § 16). Insomma: l’uomo è naturaliter illuminista. Conoscere è la sua vocazione e il suo destino. Lo dice ogni analisi dell’uomo, e lo conferma la parola di Dio. E quello della conoscenza «è un cammino che non ha sosta» (§ 18).
Ma «cosa è la verità»? L’enciclica si serve del termine secondo l’uso comune, o magari l’uso della scienza, o non piuttosto contro e a distruzione di entrambi? L’interrogativo di Pilato a Gesù (Giovanni, 18, 38) diventa perciò la necessaria domanda di ogni lettore a Wojtyla. Perché già nelle affermazioni «illuministe» sopra riportate si annidano contraddizioni e «distinguo» che ne rovesciano il senso. E infatti: il tratto prevalente, dunque a suo modo «universale», che segna l’umanità, diventa la incapacità di dare seguito al desiderio di verità, «la nativa limitatezza della ragione e l’incostanza del cuore» che «oscurano e deviano spesso la ricerca personale» (§ 28). Non c’è più una natura umana a vocazione filosofica, dunque. Ma piuttosto una lacerazione, che segna tanto l’essenza quanto l’esistenza dell’uomo. All’illuminismo della vocazione risponde l’oscurantismo strutturale dell’indagine umana. Dunque, alla vocazione non corrisponde l’azione, e non può corrispondervi. L’uomo perciò non è affatto naturalmente filosofo ma soprattutto e per lo più dedito all’autoinganno. Dell’affermazione antropologica che regge tutta l’enciclica (se vuole parlare anche alla cultura laica), non rimane già più nulla.
E d’altro canto, se la conoscenza fosse la natura e la vocazione dell’uomo, oltretutto benedetta da Dio, perché mai quello di Adamo sarebbe stato il peccato inespiabile? Perché mai desiderio di conoscenza e dovere di obbedienza sarebbero stati consegnati da Dio all’uomo come aut aut, come insanabile e mortale conflitto? La conoscenza non scaturisce dalla meraviglia (§4), cioè da una inestinguibile e doverosa curiosità? Nell’enciclica di Wojtyla in realtà è già all’opera – fin dalla prima pagina e in ogni categoria utilizzata – un doppio registro, a seconda che il discorso si intenda rivolto solo ai credenti, o addirittura ai «Venerati Fratelli nell’Episcopato», o invece intenda discutere di filosofia per aprirsi a tutti, poiché «il pensiero filosofico è spesso l’unico terreno d’intesa e di dialogo con chi non condivide la nostra fede» (§ 104). I due piani vengono però – sistematicamente e surrettiziamente – confusi e disinvoltamente scambiati, consentendo a Wojtyla ogni sorta di rovesciamento e di acrobazia dialettica. Il primo rovesciamento di un concetto nel suo contrario confonde e assimila la ricerca della verità, cioè l’attività critico-razionale, con l’accoglimento della verità, cioè con la passività del fideismo dogmatico.
Logica della scienza e delirio del desiderio
Punto per punto. «La sete di verità è talmente radicata nel cuore dell’uomo che il doverne prescindere comprometterebbe l’esistenza» (§ 29) e tale sete si articola nelle «domande di fondo che caratterizzano il percorso dell’esistenza umana: chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita?» (§ 1). La comunità credente «è partecipe dello sforzo comune che l’umanità compie per raggiungere la verità» (§ 2). Dunque, una condizione esistenziale originaria e comune: la sete di verità, il bisogno di porre le domande fondamentali. Solo questo è, fin qui, ciò da cui l’uomo non può prescindere perché ne andrebbe della sua stessa esistenza. Ma questo bisogno strutturale e irrinunciabile di domandarsi il senso, diviene poi la necessità che una risposta certa e definitiva alla domanda di senso possa anche essere trovata. Questo passaggio, dalla necessità della domanda alla necessità della risposta, resta non solo abusivo, perché assolutamente acritico, ma anche menzognero, laddove si spaccia l’identità delle due necessità come caratteristica della logica della scoperta scientifica.
Scrive il papa: «Non è pensabile che una ricerca così profondamente radicata nella natura umana possa essere del tutto inutile e vana. La stessa capacità di cercare la verità e di porre domande implica già una prima risposta» (§ 29), che poi sarà in realtà intesa come risposta ultima e definitiva. E perché mai? Un bisogno resta sempre un bisogno, non implica affatto – «logicamente» – la sua soddisfazione. Se così non fosse, non esisterebbe, e non sarebbe mai esistito, il problema della fame nel mondo. E nessun altro problema, a dire il vero. Desiderio e realizzazione si corrispondono solo nel «pensiero» infantile, infatti. La sostituzione del principio di piacere con il principio di realtà è il meccanismo ordinario, ancorché dolorosissimo, con cui si realizza l’effettivo, e non più solo biologico, venire al mondo dell’uomo. La logica del desiderio è invece la logica dell’illusione, perché «caratteristico dell’illusione è il suo derivare dai desideri umani» (S. Freud, L’avvenire di un’illusione, in Opere complete, vol. X, Boringhieri, Torino, p. 461).
Che il desiderio o il bisogno implichino la rispettiva soddisfazione è, alla lettera, una «idea delirante», perché «una credenza è un’illusione qualora nella sua motivazione prevalga l’appagamento di desiderio, e prescindiamo perciò dal suo rapporto con la realtà (ibidem). E’ del tutto falso, perciò, che «proprio questo è ciò che normalmente accade nella ricerca scientifica» (§ 29). Lo scienziato che «a seguito di una sua intuizione, si pone alla ricerca della spiegazione logica e verificabile» (ibidem), si muove in modo assolutamente opposto alla «logica del desiderio» per cui la domanda sul senso implica, per il fatto stesso che siamo capaci di porla, una risposta (positiva e definitiva). Il fatto che lo scienziato abbia «fiducia fin dall’inizio di trovare una risposta, e non s’arrenda davanti agli insuccessi» (ibidem) contiene anzi la possibilità che questo «non arrendersi» coincida con l’abbandono definitivo dell’ipotesi di partenza. L’unica analogia valida fra il procedere della scienza e la domanda «ha un senso la vita? verso dove è diretta?» (§ 26) è allora quella che preveda la possibilità della risposta contro il desiderio: la vita non ha senso alcuno e non va in nessuna direzione. Semplicemente è.
La ‘nefasta separazione’
Occultata l’opposizione fondamentale fra logica della scienza e delirio del desiderio, tutto il resto «logicamente» segue. Segue, cioè, un baccanale di «rovesciamenti». Con accattivante apparenza, l’enciclica afferma che «la verità si presenta all’uomo in forma interrogativa: ha un senso la vita? verso dove è diretta?» La verità dell’uomo è il suo interrogarsi, dunque. La verità è problema, sembrerebbe. Con questo canto di sirena critico, però, l’enciclica vuole solo spacciare la pretesa opposta e radicalmente dogmatica secondo cui l’interrogativo porterebbe già con sé Una e maiuscola verità. La domanda è già la risposta, non perché – kantianamente – la domanda (metafisica) non possa mai avere una soddisfacente risposta, bensì perché la risposta è già data prima della domanda. La domanda presuppone la risposta, e dunque la risposta, anticipata dogmaticamente, annulla la domanda in quanto interrogativo autentico.
Ecco perché, con uno spostamento apparentemente di dettaglio, la Chiesa, che dichiarava di non poter essere estranea ad un «cammino di ricerca» (§2) che riguarda tutti gli uomini, ora più esattamente «intende riaffermare la necessità della riflessione sulla verità» (§ 6). La ricerca della verità, che in quanto ricerca è governata dal dubbio e i cui esiti sono impregiudicati, lascia il posto alla riflessione sulla verità, già acquisita come certezza dalla (della) Chiesa, perché rivelazione. La filosofia sarà perciò commento della fede, glossa marginale, omelia «razionale». Riflessione su una verità ultima – non più da cercare ma semmai da meditare – che «la Chiesa ha ricevuto in dono» (§ 2). Ma la «diaconia della verità» (ibidem) così intesa è incompatibile con il pellegrinaggio della ricerca. Con queste premesse, perciò, ovvia l’equazione wojtyliana per cui «fuori della Verità rivelata» equivale a «fuori della verità pura e semplice» (§ 73). Ovvia, ma improponibile nell’orizzonte di un argomentato dialogo. Che ha per oggetto, oltre tutto, la filosofia. Se la Chiesa è la verità ultima, infatti, non resta più nulla da dire, ma tutto e soltanto da obbedire. Per la ricerca e la filosofia ogni spazio è precluso.
Solo in apparenza, perciò, «la fede e la ragione sono come due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità», secondo quanto proclama l’incipit dell’enciclica. E solo in apparenza «non ha dunque motivo di esistere competizione alcuna tra la ragione e la fede» poiché «ciascuna ha un suo spazio proprio di realizzazione» (§ 17) e «l’una non rende superflua l’altra» (§ 9). Anche qui, il rovesciamento dei significati è in agguato, e anzi già operante. «La legittima distinzione fra i due saperi» (§ 45), infatti, vale solo a patto che non si trasformi in «nefasta separazione» (ibidem), cioè in reale autonomia reciproca. In altri termini, le due «ali» sono radicalmente asimmetriche. Al punto che con l’una si vola e con l’altra si precipita.
Quella della ragione, infatti, non può pretendere alla autonomia, poiché senza il riferimento alla verità della Chiesa «resta in balia dell’arbitrio» (§ 5) e «una filosofia separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della fede» (§ 45) porta anzi alla «diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa ragione» (ibidem). L’autonomia della ragione, cioè la ragione che per definizione si da da sé le sue leggi (autòs nomos), e che dunque – se non vuole tradire il senso del concetto – deve prescindere da qualsiasi altro principio e autorità, viene invece condannata come quella «cecità dell’orgoglio» che «illuse i nostri progenitori» proprio perché pretendevano ad una conoscenza autonoma «dalla conoscenza derivante da Dio» (§ 22). Dunque, l’autonomia non è affatto nomos autòs ma hybris, dismisura di orgoglio e anzi cecità, perché il cammino della conoscenza può essere percorso «in maniera spedita, senza ostacoli e fino alla fine» solo «se con animo retto inserisce la sua ricerca nell’orizzonte della fede» (§16).
La ragione ha delle ragioni che la fede non comprende
La «autonomia» della ragione come la intende il papa, al contrario, assoggetta e vincola questa «autonomia» ad un orizzonte eteronomo, quello della fede, appunto. Ma una autonomia assoggettata è ossimoro senza poesia. Contradictio in adjecto. Kantiana Realrepugnanz. «L’una è nell’altra» (§ 17), scrive Wojtyla, ma niente affatto reciprocamente, perché l’una (la ragione) non può ex iure contraddire l’altra, mentre l’altra è orizzonte originario di verità che decide i limiti della prima, e vale dunque come l’unico ambito autenticamente autonomo. Alla filosofia critica, che vuole la religione nei limiti della ragione, si sostituisce con ciò il medioevo, che postula la ragione nei limiti della religione. Sostituzione conclamata, poiché esplicita è la condanna della «nefasta separazione» (cioè della autonomia) che la filosofia realizza rispetto alla fede «a partire dal tardo Medio Evo» (§ 45). Vi ritorneremo.
La ragione di cui parla il papa è insomma e sempre la ragione dal punto di vista della fede, non della ragione. Non l’autonomo e mobile orizzonte della domanda, della in-certezza al cui interno cercare la risposta, imprevedibile e sempre esposta allo scacco, ma il chiuso e vincolante orizzonte della risposta scontata, che anticipa la domanda e dunque la annienta nella certezza della fede. Nulla di cui scandalizzarsi, ovviamente. Dovrebbe stupire il contrario, semmai. Il sovrano pontefice è pastor fidei e non un volterriano «filosofo ignorante». Stride invece fino all’insopportabile, poiché pretende di iscriversi in un dialogo erga omnes, l’ostinata presunzione cattolica romana di presentare la subordinazione della ragione alla fede, della ricerca al dogma, del logos alla cathedra, per l’opposto di ciò che è: autonomia della ragione anziché servitù volontaria.
Che senso ha, infatti, insistere che la fede «non interviene per umiliare l’autonomia della ragione o per ridurne lo spazio di azione» (§ 16) ma «solo»(!) per stabilire che «non è possibile conoscere a fondo il mondo e gli avvenimenti della storia senza confessare al contempo la fede in Dio che in essi opera» (ibidem)? Più esplicita confessione della subordinazione assoluta della ragione alla fede non si può immaginare. Del tutto conseguente, perciò, che la «autonomia» della ragione diventi un mero «indagare autonomamente all’interno del mistero» (§ 13), un uso eteronomo e strumentale della ragione a scopi teologici. La Rivelazione non «rende superflua» (§ 9) la filosofia, allora, ma solo nel senso che anche il cervello e le mani del chirurgo non rendono superfluo il bisturi.
Nella tradizione dell’integralismo cattolico che governa l’enciclica, la subordinazione e l’assoggettamento della ragione è tale che solo «la fede libera la ragione» dalla cattività cui la pretesa di autonomia la condanna. L’autonomia come cattività, ulteriore capitolo nel sabba dei rovesciamenti. Perciò, «il timore del Signore» – l’opposto esatto del «sapere aude! » – «è il principio della scienza» (§ 20). Conclusione ineludibile: «Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?» (§ 23), intimazione che costituisce il fascino di Paolo di Tarso, ma taglia alla radice ogni confronto di sapienza con un mondo che tenga ferma l’autonomia della ragione. Torna così prepotente la domanda che quasi ogni pagina dell’enciclica ripropone: a chi si rivolge in realtà il papa polacco? Ai suoi confratelli pastori, perché ribadiscano con energia ad un gregge pervaso dalla secolarizzazione la necessità della filosofia come recta ratio funzionale alla Verità della Rivelazione, o anche a «chi non condivide la nostra fede» (§ 104) e può perciò discutere solo se la fede viene provvisoriamente accantonata nella parentesi del foro inferiore? In realtà Wojtyla pretende di usare argomenti che suonano persuasivi solo all’interno di una comunità di fedeli, ma come se fossero argomenti razionalmente cogenti per un pubblico potenzialmente universale.
La distruzione della filosofia
L’elogio della filosofia, abbiamo visto, suona in apparenza ditirambico. La filosofia costituisce «l’istanza ultima di unificazione del sapere e dell’agire umano» (§ 82). «L’argomentazione sviluppata secondo rigorosi criteri razionali, infatti, è garanzia del raggiungimento di risultati universalmente validi» (§ 75). Non solo: «Di poco aiuto sarebbe una filosofia che non procedesse alla luce della ragione secondo propri principi e specifiche metodologie» (§ 49). La filosofia deve dunque obbedire solo a se stessa. E mirare alto. Per spronare una ambizione doverosa, il papa sceglie addirittura il timbro dell’appello accorato e diretto: «Non posso non incoraggiare i filosofi, cristiani o meno (corsivo mio, n.d.a.), ad avere fiducia nelle capacità della ragione umana e a non prefiggersi mete troppo modeste nel loro filosofare» (§ 56).
Al ditirambo segue la preoccupazione – dalle sembianze ancora illuministe – per «la radicale sfiducia nella ragione che rivelano», invece, «i più recenti sviluppi di molti studi filosofici» (§ 55), tanto che «ai nostri giorni, la ricerca della verità ultima appare spesso offuscata» (§ 5). Ma la preoccupazione già veicola l’ennesimo misfatto della «logica» del rovesciamento. Seguiamone i passaggi essenziali.
«Ogni sistema filosofico (…) deve riconoscere la priorità del pensare filosofico, da cui trae origine e a cui deve servire in forma coerente» (§ 4). Sembra una semplice messa in guardia contro la «superbia filosofica» (ibidem) delle varie scuole che pretendono di spacciare i loro sistemi come la filosofia. E sarebbe un rilievo metodologico addirittura sacrosanto, se mirasse a riaffermare la ricerca senza dogmi e l’interrogare senza risposte anticipate come l’irrinunciabile della filosofia. In realtà, invece, il primato del «pensare filosofico» rispetto ai sistemi e ai singoli serve a stabilire, in opposizione alle filosofie plurali realmente costruite nella storia, e svalutate come effimere, un arbitrario «nucleo di conoscenze filosofiche la cui presenza è costante nella storia del pensiero» (ibidem). Conoscenze, si badi, non teorie o ipotesi. Dunque risposte definitivamente acquisite, e non domande inestinguibili (malgrado, o magari in forza della impossibilità di una risposta). «Conoscenze» che poi sarebbero: «i principi di non contraddizione, di finalità, di causalità», «la concezione della persona come soggetto libero e intelligente e la sua capacità di conoscere Dio, la verità, il bene» e infine «alcune norme morali fondamentali che risultano comunemente condivise» (ibidem).
Ma queste asserite «conoscenze» costituiscono semmai il catalogo, perfino parziale, delle dispute senza fine che hanno percorso la storia della filosofia e che ancor oggi definiscono un terreno comune solo come comune è il campo della battaglia. Dove il punto di vista condiviso è l’eccezione assolutamente provvisoria, la tregua, mentre il conflitto insanabile è la norma. Perfino laddove il consenso sembrerebbe inerente all’uso dialogico del medesimo strumento logico, visto che per Hegel – uno dei grandi classici, dunque, non un marginale epigono – il principio di (non) contraddizione esprime la pochezza e l’antifìlosofica finitezza dell’illuminismo (una bestia nera anche per il papa) e va sostituito con la contraddizione dialettica come legge sia del pensiero che della realtà.
Non parliamo poi delle altre categorie e «conoscenze» tirate in ballo qui dall’enciclica. Oltre tutto inassimilabili fra di loro proprio sotto il profilo delle dispute o degli accordi che hanno suscitato nella storia del pensiero. Ad esempio, finalità e causalità, come spiegazione del mondo, tutto possono essere ormai tranne che due «conoscenze». Semmai, o l’una o l’altra. Con la scienza moderna, infatti, l’una – il principio di causalità – destituisce di ogni fondamento l’altra. Nessuno scienziato, che si mettesse oggi alla ricerca delle «cause finali» di un fenomeno, potrebbe sperare di essere preso sul serio. Si metterebbe sul piano dell’occultismo, dell’astrologia, della cartomanzia. Addirittura ridicolo sostenere ancora l’esistenza di «alcune norme morali fondamentali che risultano comunemente condivise». In proposito basta, per una definitiva smentita (e da secoli), il cristianissimo Pascal: «II furto, l’incesto, l’uccisione dei figli e dei padri, tutto ha trovato il suo posto tra le azioni virtuose» (230 Chevalier, 294 Brunschvicg). Si condanni tutto ciò come male, frutto della caduta, resta il fatto che su nessuna norma morale fondamentale vi è mai stato unanime accordo. E che proprio questo è il cuore del problema che da sempre agita la filosofia morale.
Insomma, con la teoria dell’introvabile «nucleo di conoscenze filosofiche la cui presenza è costante nella storia del pensiero», è l’intera storia della filosofia ad essere vanificata e azzerata in ciò che la caratterizza e distingue: nel suo carattere problematico, plurale, e infine critico. Si contrabbanda cioè per filosofia perenne, per Filosofia tout court, una predigerita assimilazione della storia effettiva della filosofia, problematica e conflittuale, alla filosofia prediletta dalla Chiesa, in modo che la filosofia stessa sembri apparecchiarsi da sé al ruolo di ancilla fidei.
Un ritorno sostanziale «all’incomparabile valore della filosofia di san Tommaso» (§ 57), solo questo intende dunque il papa quando invita i filosofi, cristiani o meno, a non prefiggersi mete troppo modeste. Altro che «sapere aude!». Nessun elogio della filosofia, dunque. Ma l’oscurantismo della condanna più tradizionale: «La filosofia “separata” perseguita da parecchi filosofi moderni» – in realtà da quasi tutti, a partire dal tardo medioevo, come la stessa enciclica ha stigmatizzato — «costituisce la rivendicazione di una autosufficienza del pensiero che si rivela chiaramente illegittima» (§ 75).
‘Germi di pensiero’ e pensiero autoreferenziale
Perché mai illegittima? Secondo il tribunale della ragione o secondo il tribunale del Sant’Uffizio? Che senso ha ribadire ad ogni riga che la filosofia deve essere autonoma (altrimenti è inutile e superflua), ma concludere che «il Magistero ecclesiastico può e deve esercitare autoritativamente, alla luce della fede, il proprio discernimento critico nei confronti delle filosofie e delle affermazioni che si scontrano con la dottrina cristiana» (§ 50)? Lo avrebbe ancora, un senso, se valesse come richiamo all’ortodossia esclusivamente indirizzato al fedele. Tanto più lo avrebbe, anzi, proprio perché oggi il fedele, e non solo se filosofo, appare riottoso a una così integralistica interpretazione dell’ortodossia (del resto la precedente enciclica Veritatis splendor non costituiva un imperioso richiamo all’ordine per una teologia in tentazione di «eccessi» pluralistici?).
Ma Karol Wojtyla pretende che questi ukase suonino convincenti per ogni filosofo (cristiano o meno). E che la filosofia non solo obbedisca per l’intervento «autoritativo» ma addirittura ringrazi.
E infatti: «Ogni filosofo dovrebbe apprezzare» i vescovi quando «esercitano questo discernimento», perché è a vantaggio della «ragione che riflette correttamente sul vero» (ibidem). Di conseguenza: «E’ auspicabile che teologi e filosofi si lascino guidare dall’unica autorità della verità così che venga elaborata una filosofìa in consonanza con la parola di Dio» (§ 79). Resta assolutamente misteriosa, perché certamente non vuole essere una intenzionale irrisione, la pretesa di Wojtyla di convincere il filosofo anche non cristiano che gli interventi «autoritativi» di «discernimento», in lingua volgare la censura e la condanna, «sono intesi in primo luogo a provocare e incoraggiare il pensiero filosofico» (§51). Provocare, forse. Ma incoraggiare? Si arriva così al puro e semplice non senso: «Si può dire che senza questo influsso stimolante della parola di Dio, buona parte della filosofia moderna e contemporanea non esisterebbe» (§ 76). Conclusione davvero azzardata, visto che proprio l’enciclica fa risalire al tardo medioevo quella «nefasta separazione» della ragione dalla fede, cioè quella affermazione di autonomia della ragione, senza la quale vengono meno cinque secoli e rotti di pensiero filosofico.
Più coerente che si riconosca al gigantesco lavoro filosofico di questa intera epoca il modestissimo e umiliante ruolo di aver prodotto «germi di pensiero» (§ 48) e nulla più. Non a caso, del resto, la filosofia «contribuisce» sì «direttamente a porre la domanda circa il senso della vita», ma poi può aspirare solo «ad abbozzarne la risposta» (§ 3). Le risposte non mancano affatto, invece. Semplicemente, non vanno nella stessa direzione del dogma cattolico, poiché la «nefasta separazione» prepara l’epoca del moderno disincanto – la scienza e l’eresia – che consegna all’uomo l’intera responsabilità di creare senso alla propria esistenza. Senso altrimenti introvabile.
Per l’altra strada, di radicale disconoscimento di tutta la modernità e della sua cultura, si arriva solo all’anatema nei confronti di tutte le correnti della filosofia a partire dalla fine del medioevo: eclettismo, modernismo, storicismo, scientismo, pragmatismo, nichilismo (§§ 86-90), idealismo, umanesimo ateo, positivismo, razionalismo e ancora nichilismo (§ 46), secondo la terminologia, spesso sommaria e tendenziosa, di un «sillabo» le cui intenzioni sono però perfettamente trasparenti. Si finisce, con ciò e coerentemente, a ridurre la filosofia a «una funzione mediatrice nella comprensione della Rivelazione» (§ 83). Questa «portata autenticamente metafisica (ibidem) segna però la definitiva incomunicabilità del pensiero cattolico ufficiale con la filosofia (cioè con le filosofie effettivamente esistenti). Questa dottrinaria impermeabilità ad ogni confronto condanna il dogma cattolico ad una esistenza esclusivamente autoreferenziale.
La fede, «come virtù teologale, libera la ragione dalla presunzione, tipica tentazione a cui i filosofi sono facilmente soggetti» (§ 76), ma la «libera» solo nel senso che la priva della sua vocazione ad una ricerca senza dogmi. Quanto alla presunzione, invece, essa è da tempo, almeno da quando Kant privilegiò come compito della filosofia proprio l’indagine sui limiti della ragione, appannaggio proprio dei rinnovati tentativi di restaurare la metafisica (anche come oltrepassamento della medesima, eventualmente).
La credenza tra illusione e conoscenza
In Fides et ratio il solo tentativo di dimostrare, o almeno di argomentare anche per il non credente, che nel presupporre la fede la ragione non solo non rinuncia a se stessa, ma che anzi «è la fede che permette a ciascuno di esprimere al meglio la propria libertà» (§ 13), è la ricostruzione del processo di accumulazione del sapere in quanto basato sulla identità fra ricerca della verità e fiducia personale, tra conoscenza e affidamento. E proprio in questa «dimostrazione» risplende il qui pro quo logico (e ontologico) che funziona da inesausto alambicco nella produzione dei rovesciamenti di senso (e di realtà) che abbiamo incontrato e incontreremo e il cui nome, in questa enciclica, è legione.
«L’uomo non è fatto per vivere solo» (§ 31). Da questa ovvia affermazione, e dall’altra, altrettanto ovvia, che «fin dalla nascita si trova immerso in varie tradizioni» che si presentano come «molteplici verità a cui, quasi istintivamente, crede» (ibidem) viene fatta discendere la conclusione che anche nella vita adulta, dove tutto viene «vagliato attraverso la peculiare attività critica del pensiero (…) le verità semplicemente credute rimangono molto più numerose di quelle che egli acquisisce mediante la personale verifica» (ibidem). Ineccepibile. Solo che qui, sotto l’apparente banalità, è già occultata e predisposta una surrettizia interpolazione. Lo spartiacque del nostro universo gnoseologico, infatti, non è affatto quello che contrappone conoscenze verificate di persona e conoscenze semplicemente credute. L’enciclica stessa sottolinea, del resto, che nessuno «sarebbe in grado di vagliare criticamente gli innumerevoli risultati delle scienze su cui la vita moderna si fonda» (ibidem). Quasi tutte le nostre conoscenze, appena superata la soglia di una complessità assolutamente primitiva, non sono più acquisite per esperienza personale. Questo significa che lo spartiacque tra conoscenze valide e mere illusioni contrappone affermazioni che sono, le une e le altre, «credute». E che la differenza è tutta nel perché (dunque se) meritano di essere credute. Cioè nella differenza di procedure che portano a quelle affermazioni. Il fatto che siano entrambe «credenze» è il lato generico e assolutamente insignificante che le accomuna. Ma è la loro differenza specifica (per usare una terminologia aristotelica che dovrebbe essere cara ad ogni tomista) l’unico elemento significativo. Se si prende invece il predicato generico che accomuna gli enti, e lo si ipostatizza o trasforma in categoria, ogni abuso è consentito. Una carrozza e una zucca vuota sono entrambi oggetti inanimati – esattamente come la formula della relatività e le risposte dei tarocchi sono entrambe «credenze» – ma solo nelle favole le zucche passano a prendere le cenerentole per portarle a perdere una scarpetta fatale. A «ragionare» così si dimentica la ragione, anziché la scarpetta. E si incontra solo il principe azzurro dell’illusione. La «logica» qui usata dall’enciclica porta addirittura alla bestemmia: un papa e un panda (absit iniuria verbis) appartengono entrambi al «genere animale», ma nessun conclave potrà mai eleggere un panda.
E’ del tutto abusivo, perciò, dire che «l’uomo, essere che cerca la verità, è dunque anche colui che vive di credenza» (ibidem), se non si chiarisce come essenziale che la generica categoria di «credenza» occulta le vere e insanabili differenze fra modalità opposte e incompatibili di ricerca della verità. Una «credenza» accertata secondo rigorose procedure di controllo intersoggettivo di un’ipotesi, e sottoposta senza successo a tentativi sistematici di confutazione in condizioni standard di laboratorio, e controllabile in via di principio da chiunque attraverso la reiterabilità degli esperimenti, è certo una «credenza», nel senso che la si crede anche senza averla effettuata di persona. Ma ha solo questo in comune, dunque nulla di significativo in comune, con la «credenza» negli extraterrestri poiché l’ospite di un talk-show, o una lontana cugina, asserisce di averci fatto perfino del sesso. «Credenza» è qui solo il comune e fuorviante flatus vocis di due procedure antitetiche di accertamento della verità.
Non esiste dunque una categoria «conoscenza-per-credenza», ma forme diversissime di credenza con status conoscitivi altrettanto diversissimi, fino alla contrapposizione, cui spettano nomi propri che quelle diversità mettano in evidenza. La stregoneria non è la medicina, infatti, come l’alchimia non è la chimica e l’astrologia non è l’astronomia e la «smorfia» non è la psicoanalisi e la divinazione non è la meteorologia e il creazionismo non è il darwinismo, benché tutte siano «credenze». Con gradi di «verificabilità» tutti diversissimi, però.
E’ irrilevante, perciò, l’affermazione che «nel credere, ciascuno si affida alle conoscenze acquisite da altre persone» (§ 32), poiché per decidere sulla validità gnoseologica di tale «affidarsi» contano le procedure con cui è costruita la catena delle acquisizioni, poiché – ripetiamo fino alla nausea qualcosa che dovrebbe essere ovvio ma evidentemente ovvio non è – non è la stessa cosa se la fiducia dell’«affidarsi» nasce da simpatia personale o da intersoggettivi e sistematici controlli di laboratorio.
Ma lo scambio attraverso cui il predicato generico di ogni conoscenza (o «conoscenza»), la «credenza», viene innalzato a soggetto, e le forme specifiche e contrapposte della stessa (scienza, stregoneria, favola, e via elencando) – unici soggetti reali – vengono presentate invece come predicati, come varianti di una medesima attività, non è un qui pro quo innocente. Svolge una funzione precisa. Serve ad annullare la differenza tra le pretese di validità — più o meno o niente affatto fondate — delle diverse «credenze», annullandone lo status. Di modo che, se tutto è credenza, e ogni conoscenza un mero affidarsi, non contano le procedure di controllo ma la caratura emotiva di «un rapporto stabile e intimo» con cui «l’uomo, credendo, si affida alla verità che l’altro gli manifesta» (ibidem).
Verità e/o sacrificio
E’ così preparato il rovesciamento estremo. La verità è corroborata non già dall’anonima freddezza dei controlli intersoggettivi, ma testimoniata dalla disponibilità personale al sacrificio. «Il martire è il più genuino testimone della verità dell’esistenza» (§ 32). Era già la posizione di Pascal: «Io credo solo alle storie i cui testimoni sono pronti a farsi sgozzare» (397 Chevalier, 593 Brunschvicg). Anche il kamikaze, perciò. Anche i suicidi della setta di Hale-Bopp. Anche il militante della jihad che si lascia saltare in aria dentro una macchina imbottita di plastico in un mercato ebreo pieno di donne e bambini, infine. In verità, la disponibilità a morire per una «credenza» ci dice tutto sulla intensità con cui essa è vissuta, ma nulla sulla sua affidabilità in termini di verità. E troppo spesso i martiri, come ricordava Camus, finiscono per essere solo l’alibi dei bigotti (Essais, La Pleiade-Gallimard, Paris, p. 578).
Il bisogno di azzerare i diversi gradi di conoscenza nella «credenza» indistinta (che l’enciclica dispone poi gerarchicamente, però e contraddittoriamente: dalla vita quotidiana e dalla ricerca scientifica fino alla religione, passando per la filosofia) viene fatto valere anche come insopprimibile esigenza esistenziale: l’uomo come «colui che cerca la verità» rifiuta di «fondare la propria vita sul dubbio, sull’incertezza o sulla menzogna» (§ 28), incunaboli di angoscia. Ora, va da sé che tanto il dubbio come l’incertezza e infine la menzogna non sono la verità. Ma, per il resto, il rapporto alla verità è nei tre casi diversissimo. Nella ricerca scientifica, anzi, il dubbio è uno strumento di lavoro irrinunciabile (la filosofia lo esige sistematico, a partire da Cartesio anticipato da Agostino) che nulla ha in comune con la menzogna. Anzi. E l’incertezza produce bensì paura (tutto il «progresso» può anche essere visto come la lotta per ridurre l’incertezza) ma non è mai del tutto eliminabile dalla vita, e forse costituisce la cifra e la struttura stessa dell’esistenza. La sua «verità», volendo, non certo una menzogna. Più precisamente: solo riconoscendo che la vita è anche incertezza e frustrazione ci si sottrae all’infantile delirio di onnipotenza – le citazioni freudiane in proposito sono volumi.
La fallacia dell’amalgama, che presenta come funzionalmente equivalenti dubbio incertezza e menzogna, serve semplicemente a «dimostrare» che «nel più profondo del cuore dell’uomo è seminato il desiderio e la nostalgia di Dio» (§ 24), e che dunque inconsapevolmente credente è anche lo scettico e l’ateo, poiché altrimenti non sarebbe uomo: «La religiosità è costitutiva di ogni persona» (§ 81). Ma una «logica» siffatta, che definisce non-uomo chi non partecipi dell’identità di un gruppo (qui lo scettico o l’ateo rispetto al credente) è la stessa per cui gli indiani guayaki studiati da Pierre Clastres chiamano se stessi Aché, semplicemente le Persone o gli Uomini, poiché tali non sono i nemici. Non-uomini, appunto.
Ma senza arrivare a tanto (benché questo implicitamente, anche inconsapevolmente, contenga la «logica» dell’enciclica), la tradizione argomentativa apologetica, già con Agostino, se ha voluto parlare anche al non cristiano, da Dio ha sempre dovuto non già partire, ma a Dio arrivare partendo da un più laico «desiderio» iscritto nel profondo dell’uomo: il desiderio di felicità e immortalità. Il risultato non cambia, comunque. Nasca il desiderio di Dio da quello di felicità/immortalità, o ne sia indipendente, resta che il desiderio non può essere criterio di verità.
Contro l’individuo e la democrazia
E siamo con ciò tornati all’inizio. Al desiderio che si fa prova, cioè alla «logica» dell’illusione. Al wishful thinking, quel «pio desiderio» con cui l’espressione italiana sintetizza compiutamente le tesi freudiane sul carattere della religione, sulla sua fuga consolatoria dalla realtà.
Ma è così certo che solo l’illusione possa salvarci? E, ancor più modestamente, è almeno sicuro che «credere nella possibilità di conoscere una verità universalmente valida» (§ 92), quando poi questa non può non coincidere con la particolarissima «verità» della Chiesa di Roma, «non è minimamente fonte di intolleranza» ma «al contrario, condizione necessaria per un sincero e autentico dialogo tra le persone» (ibidem) ?
Per intanto comporta il rifiuto dell’individuo: «Siamo noi ad appartenere alla tradizione, e non possiamo disporre di essa come vogliamo» (§ 85). Che non è la semplice constatazione di un fatto, cioè dell’influenza che comunque eserciterà su di noi la tradizione in cui veniamo cresciuti, quale che sia la distanza critica che poi instaureremo «illuministicamente» con essa. Qui si vuole proprio sottolineare, in consonanza piena con una «fissazione» di Comunione e liberazione che il papa ha sempre apprezzato moltissimo, come assiologicamente la tradizione venga prima rispetto all’individuo e alla sua critica libertaria, alla sua pretesa di autonomia. Ma è proprio questa tesi che apre un varco di legittimazione ad ogni integralismo e fondamentalismo, poiché privilegia la «personalità» di una tradizione come concretezza di radici, rispetto alla dissipatoria astrattezza dell’individuo che la contesta. Ma con ciò viene meno ogni argomento per condannare il multiculturalismo disumano che in nome della sacralità di una tradizione («a cui apparteniamo e di cui non possiamo disporre») impone alle ragazze la mutilazione del piacere o alle adultere il piacere della lapidazione.
Oltre al rifiuto dell’individuo, e conseguente ad esso, l’illusione dogmatica fondata sulla logica del desiderio mette in discussione anche la democrazia. Non è accettabile, per il papa polacco, «una concezione della democrazia che non contempla il riferimento a fondamenti di ordine assiologico e perciò immutabili» (§ 89), che poi coincidono, come sappiamo, con l’insegnamento morale della Chiesa. Già Pio XII, così distratto nel denunciare il totalitarismo nazista, e riluttante nell’abbracciare la democrazia, accettata tardivamente e faute de mieux, la pretendeva poi cristiana, quella democrazia, altrimenti era di nuovo anatema. Ma qualcuno, soprattutto cattolico, aveva immaginato che con il Concilio…
Sia chiaro: il rapporto fra consenso e fondamento resta un problema cruciale della teoria democratica. Il principio di maggioranza, irrinunciabile, non può essere usato per contraddire ciò che lo legittima, cioè i diritti giuridici e politici di ogni individuo, poiché di tutti gli individui (cioè di ciascuno) è fatta la sovranità che attraverso il principio di maggioranza si esercita. Ma la preoccupazione del papa non ha nulla a che fare con questa tematica. Karol Wojtyla vuole solo impedire che una tutelata libertà dei singoli possa decidere in difformità dal magistero cattolico quando siano in gioco divorzio, aborto, contraccezione, eutanasia, protezione dall’Aids, e il crescente ambito delle controversie bioetiche. In tutti questi campi, ogni legge che al papa sembri «contro natura» viene dichiarata illegittima, e antidemocratico ogni parlamento che la voti. Non è per diffamante eccesso retorico, dunque, ma per coerenza con la sua idea di «tolleranza», che Giovanni Paolo II ha messo sullo stesso piano aborto e Olocausto, e tratta dunque ogni donna che interrompa la gravidanza alla stregua di un ufficiale delle SS che getta bambini ebrei nel forno di Auschwitz.
‘Wishful thinking’ come prova ontologica
Eppure, benché l’enciclica riproponga un integralismo datatissimo e dall’afflato preconciliare, riscuote consensi assai vasti, fino alla genuflessione acritica, anche fra i non credenti. Almeno in Italia. Gioca la sua parte il conformismo, naturalmente. Ma non spiega tutto. La forza del papa, il motivo della fascinazione che esercita, nasce non dalla forza dei suoi argomenti ma dai fallimenti del mondo laico, dalle promesse del disincanto, eluse e deluse.
Il papa ha buon gioco a ricordare che «uno dei dati più rilevanti della nostra condizione attuale consiste nella “crisi del senso”» (§ 81) ma è del tutto problematico, invece, che essa nasca dalla «frammentarietà del sapere», che spinge «non pochi a chiedersi se abbia ancora senso porsi una domanda sul senso» (ibidem) e che in questo nichilismo, soprattutto come «diffusa mentalità» (§ 46), sia la radice di «una delle maggiori minacce, in questa fine di secolo, la tentazione della disperazione» (§91).
Questa «tentazione» nascerebbe dal fallimento dell’«ottimismo razionalista» incapace di prevedere «l’esperienza del male che ha segnato la nostra epoca» (ibidem), fra cui l’Olocausto, di gravità eguale all’aborto, abbiamo visto. E poiché qui traspare di nuovo una tesi ripetuta in tutte le encicliche di questo papa, la legittima filiazione dei totalitarismi dall’illuminismo – come dire Hitler e Stalin nipotini di Voltaire! – sarà bene ricordare che oltre alla disperazione esistenziale dei sazi di Occidente, altre disperazioni meno opulente percorrono il mondo. La fame da sovrappopolazione, ad esempio, che nessuna politica potrà mai fronteggiare, senza una battaglia antidemografica in cui un po’ di illuminismo suonerebbe quanto mai opportuno, visto che sarebbe non già puerile ma criminale pensare di affidarla al generale Ogino-Knaus e ad altri marchingegni di affidabilità apostolica romana. Quanto alla crisi del senso. Essa non nasce dalla «frammentarietà del sapere». Nasce dal sapere in quanto tale, dalla scienza moderna con la sua logica di disincanto. E se si intende dire che è il disincanto a precipitare l’uomo nell’abisso di un universo sempre meglio conosciuto ma sempre più freddo e vuoto, perché conosciuto come privo di senso, si dice la verità ineludibile della modernità, quella che ci rende ormai responsabili del senso. Esso, infatti, dipende interamente da noi, non come conoscenza – nell’universo sono introvabili i cromosomi del senso – ma come creazione, fragile e provvisoria invenzione sempre esposta allo scacco. Questa è la realtà, nella sobrietà del disincanto, anche se può apparire disperante per chi non rinuncia a pretendere che il desiderio implichi la realtà della soddisfazione – il wishful thinking come prova ontologica.
Perciò non è vero affatto che «la sete di verità è talmente radicata nel cuore dell’uomo che il doverne prescindere comprometterebbe l’esistenza» (§ 29). E’ vero l’opposto, e l’enciclica stessa lo proclama, con parole tanto più esatte quanto indirizzate ad opposta finalità: «Succede anche che l’uomo addirittura la sfugga (la verità) non appena comincia ad intravederla, perché ne teme le esigenze» (§ 28). Non si potrebbe dire meglio, per raccontare una post-modernità in fuga dall’eredità illuminista e dalla consapevolezza del disincanto. In fuga da quella ferita al nostro narcisismo, da quella delusione del nostro desiderio di immortalità che si fa desiderio di Dio, da quella verità che ci rimanda la finitezza come orizzonte della esistenza. Che, fin dall’inizio, ci annuncia l’esistenza come irrimediabilmente finita.
Contro questo verdetto della modernità e della sua scienza, possiamo far fronte solo pensando, con Leopardi, l’atroce assurdità della vita, o agendo, con Camus, per riscattarla nella fragilità, sempre esposta, dell’impegno con gli altri: «solitaire, solidaire».
Inutile illudersi: sappiamo tutto. Almeno e proprio in risposta alle famose domande: chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita? Siamo un quasi nulla, selezionati dal caso contro ogni probabilità e per infinite contingenze (dalla comparsa della vita all’evoluzione di queste specie), e nell’arco di questa finitezza – dove il dolore non ha scopo e ad esso sappiamo anche aggiungere l’ingiustizia – concluderemo la nostra esistenza.
Ma quando si chiede una «risposta» si pensa ad altro. Alla possibilità che l’esistenza – ineludibilmente così – abbia anche un senso. Non può trovarlo, però, poiché esso non è. Possiamo solo provare a crearlo, costruendo una con-vivenza che renda l’esistenza significativo essere-con-gli-altri. Tutto qui. La cittadinanza per tutti e per ciascuno, appunto. Ma proprio questa promessa del disincanto sembra oggi elusa. Proprio all’eguaglianza delle dignità sembra che oggi si rinunci, nella forma regolativa dell’approssimazione, financo. Ogni qualvolta che, per tragico realismo, viviamo come nemico da respingere il clandestino che assedia il nostro benessere con ondate inarrestabili di immigrazione da povertà. Ed è solo un esempio fra mille.
Ovvio, allora, che il tracollo dell’eguaglianza, questa metamorfosi secolarizzata dell’universalismo evangelico, rilanci il cristianesimo come salvezza metafisica, e con esso ogni religione ed ogni metafisica illusione, comunque travestita. Altrettanto doveroso non stupirsi, però, se questa rivincita di Dio – una volta usciti dall’ottica provinciale di un’Italia che ospita il Vaticano – si presenti più spesso con il fanatismo della jihad e le rivendicazioni di suolo e sangue, o con il consumismo degli imbonitori telematici e della new age, o con l’overdose delle sette pronte al suicidio, che non col ritorno alla testimonianza del Vangelo.
Cattolicesimo del conformismo e cristianesimo del Vangelo
Resta da spiegare la contraddizione di questa enciclica: perché si rivolge al mondo e ai filosofi, se poi usa argomenti che per convincere presuppongono la condizione della fede?
Si ha l’impressione di un doppio movimento. Primo movimento: Karol Wojtyla solo formalmente si rivolge ai vescovi, e per loro tramite a tutti i fedeli, ma in realtà (e del resto esplicitamente) vuole parlare al mondo e a tutti i filosofi. Secondo e più segreto movimento: solo apparentemente Karol Wojtyla si rivolge anche al mondo, perché in realtà mira solo a recuperare la piena ortodossia di fedeli sempre più (dis) incantati dalle sirene del mondo. Giunto al termine del pontificato, la sua preoccupazione ultima sembra non essere più né il comunismo, Babilonia definitivamente sconfitta, ne il consumismo, Babilonia più che mai trionfante, ma una deriva protestante nella Chiesa e nella teologia, un cristianesimo senza cattolicesimo, un Vangelo senza gerarchie né obbedienza, una fede senza dogma.
Ma è solo attraverso un cristianesimo vissuto come testimonianza pratica del Vangelo, che la Chiesa può oggi parlare a chi non crede. facendolo perfino arrossire. Colpisce, perciò, che Wojtyla condanni in questa enciclica «una cristologia “dal basso”» (§ 97), così come nelle precedenti la teologia della liberazione (e come papa Pacelli i preti operai). Colpisce ma si spiega. Per il papa – che teme la deriva protestante – sono inaccettabili le opere senza la fede, o la fede come semplice motìvazione alle opere (un ennesimo caso di eterogenesi dei fini, oltre tutto). Il papa vive come insopportabilmente pericoloso un cattolicesimo debole. Cioè un cristianesimo gerarchicamente debole anche se evangelicamente fortissimo.
Uno degli obiettivi polemici centrali dell’enciclica diventa perciò la «teologia debole» (come ieri quella della liberazione), e perciò l’ermeneutica di ascendenza heideggeriana e le filosofie «deboli» che di quella teologia sono il brodo di coltura. L’invito alla filosofia a non darsi traguardi modesti va inteso quindi esclusivamente come rifiuto di queste filosofie (oltre che di quelle di filiazione illuminista, che sono però bestie nere comuni al papa e agli heideggerismi) e della loro critica della metafisica tradizionale. Un monito perché la teologia non ne ascolti le sirene. Vuole insomma legare la teologia all’albero di una tradizionalissima metafisica tomista, e tappargli le orecchie con la cera dell’ortodossia, contro ogni Scilla dell’illuminismo e Cariddi dell’heideggerismo. Critica paradossale, perché pensieri «deboli» e altre ermeneutiche di ascendenza heideggeriana, oggi molto spesso egemoni nel panorama filosofico, rappresentano il solo alleato possibile del papa, filosofìcamente parlando, contro la modernità.
In realtà, è solo nel cristianesimo delle opere, della fedeltà al Vangelo, dell’impegno a fianco degli ultimi, che il non credente trova la sua pietra d’inciampo, poiché in ciò deve affrontare l’hic Rhodus del disincanto: se e come sia possibile passione per il relativo e impegno altruistico non fondato sulla trascendenza. Difficoltà che ha già vissuto come antinomia, visto che l’indignazione per l’ingiustizia ha dovuto prendere le forme dell’ideologia, del surrogato di religione, per muovere le masse. Con gli esiti totalitari che sappiamo.
Solo questo cristianesimo delle opere, allora, e non il pensiero filosofico – meno che mai nella parodia che pretende di giudicare secoli di travaglio critico con la «attualità» del tomismo – «è spesso l’unico terreno di intesa e di dialogo con chi non condivide la nostra fede» (§ 104). Ma quale fede? Poiché l’enciclica mette in luce proprio lo scarto crescente fra due modi di essere cristiani, quello dell’ortodossia e del potere, e quello del Vangelo e dell’impegno. Che ex professo fanno tutt’uno, ovviamente, ma che nel privilegiamento pratico di uno dei due lati sempre più configurano due religioni sotto gli stessi riti. Karol Wojtyla vuole impedire la lacerazione, ma solo riportando alla cattività dell’obbedienza il cristianesimo della testimonianza.
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