Non c’è nulla da fare, non cambiano. In Vaticano dicono idiozie ma è un loro diritto. I cattolici noti, come Scoppola, si genuflettono ed obbediscono diventando addirittura esegeti dei propalatori di idiozie ed è un loro diritto. I fedeli hanno fede e tanto basta per qualificarli: hanno diritto di aver fede e di votare Buttiglione. Quelli che non hanno fatto nulla siamo tutti noi che non hanno alcun dovere di sopportare il becerume quotidiano. Che qualcuno mi teorizzi il perché si discute di uomo e donna come entità separate. E se ne è capace mi dica quali sono le differenze in diritto. E se ci riesce costruisce l’unica categoria umana che costituisce un insieme separato (purtroppo non vuoto), quello degli imbecilli. Ha iniziato Ratzinger a riempire l’insieme (anche se, in realtà, vi è nato in quell’insieme). Scoppola aderisce. Chi si prenota ?
Roberto Renzetti
PS. Dimenticavo: Scoppola sarebbe uno storico cattolico (?). Risulta pure che è un margherito.
Sabato 31 luglio il cardinale Joseph Ratzinger ha resa pubblica una sua “Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo“.
I commenti si sono concentrati per la gran parte sulle critiche portate da Ratzinger contro le recenti teorie femministe, in particolare contro la teoria del “genere”, che a suo giudizio cancella le differenze corporee tra i sessi ed esalta invece le diversità strettamente culturali, modellabili a piacimento.
Ma oltre alle conseguenze antropologiche di tale teoria, vi sono anche le conseguenze teologiche, che intaccano non la periferia del dogma, ma i suoi elementi fondanti.
Uno di questi è la maschilità di Cristo. C’è un libro famoso di Leo Steinberg, storico e critico dell’arte, uscito nel 1983 col titolo “The Sexuality of Christ in Renaissance Art and in Modern Oblivion“, che in italiano è purtroppo esaurito. Andrebbe riletto.
In questa nota a commento della “Lettera” ratzingeriana, Pietro De Marco, docente alla Facoltà teologica dell’Italia Centrale, ripropone con forza la lezione di Steinberg e la centralità irrinunciabile del Cristo maschio – in tutta la sua corporeità e sessualità – nella Rivelazione cristiana.
La Chiesa e la donna che entra nella storia
di PIETRO SCOPPOLA
La Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo del cardinale Ratzinger ha un tale spessore culturale e riveste un tale interesse che credo valga la pena, anche a distanza di alcuni giorni dalla sua diffusione, tornare su di essa.
Prima di tutto mi sembra vada sottolineata una novità di metodo nel documento che è anche novità profonda di sostanza. Il documento non si sviluppa sulla base di un richiamo al diritto naturale di cui la Chiesa rivendichi la corretta interpretazione, ma è tutto e solo fondato su una acuta lettura ed interpretazione della Bibbia.
Vi è in questo una profonda innovazione rispetto ad una lunga, secolare tradizione, che neppure il Concilio Vaticano II aveva del tutto innovato. La Chiesa cattolica in sostanza, sui problemi sociali ed etici, si è posta per secoli come interprete e garante di un ordine naturale voluto da Dio; un ordine che la ragione umana era in grado di leggere purché non sviata dalle passioni e dagli interessi del secolo e tutelata in qualche modo dalla Chiesa stessa. Questo dava al suo insegnamento un carattere e una pretesa di universalità destinata a risolversi in una sorta di astoricità.
La formula con la quale si apre il documento di Ratzinger – la Chiesa esperta in umanità – è quella usata per la prima volta da Paolo VI in un suo discorso all’Onu che segnò il primo superamento della tradizione di cui si diceva. Il superamento è ora pieno e consapevole nel documento di Ratzinger.
Questioni da specialisti prive di interesse per il grande pubblico? Non direi se appena si sia consapevoli di quello che la Bibbia ha rappresentato nella cultura europea.
E’ evidente anzitutto il respiro umano, la modernità di linguaggio che l’impostazione biblica conferisce al documento. E’ impossibile qui indulgere in citazioni ma si resta colpiti ad esempio da quell’invito ad accogliere “la testimonianza resa dalla vita delle donne come rivelazione di valori senza i quali l’umanità si chiuderebbe nell’autosufficienza, nei sogni di potere e nel dramma della violenza”.
Ma al di là di ogni questione di linguaggio proprio quei problemi sui quali il documento è apparso ed è – in parte almeno – elusivo si pongono su basi nuove e in una luce nuova quando si passa da una prospettiva di razionalità naturale e di diritto canonico ad una prospettiva biblica. Penso ai discussi temi del sacerdozio femminile, dei sacramenti ai divorziati, delle convivenze prematrimoniali, e della stessa omosessualità. Non ci sono novità clamorose su questi temi ma mi sembra lecito prevedere che l’innovazione dell’apparato concettuale non potrà non incidere sui singoli giudizi di contenuto, come del resto è già avvenuto nelle chiese riformate che hanno fatto della Bibbia il cardine della loro identità.
E infine un ultimo aspetto di rilevanza storica mi sembra vada sottolineato: non c’è dubbio che il confronto con l’Islam sia nel nostro futuro. Certe previsioni che si leggevano negli anni Settanta dello scorso secolo sulla inevitabile erosione e scomparsa del fattore religioso dalla storia umana a seguito dei processi di modernizzazione sono state clamorosamente smentite dalla realtà.
Il fattore religioso è tornato a porsi nel bene e nel male come elemento decisivo nella storia umana: nel bene quando è fattore di pace e di convivenza; nel male quando assume le forme dei vari fondamentalismi che generano intolleranza e violenza.
Ebbene il confronto con l’Islam ha proprio nella idea che si ha della donna, del suo ruolo, della sua dignità, uno dei suoi momenti critici. L’impostazione biblica del documento appare, a mio avviso, la più idonea a suscitare un confronto, ad aprire un dibattito. La riaffermazione da parte degli Stati come il nostro, che sono campo di immigrazione da paesi islamici, dei fondamentali principi costituzionali di uguaglianza e di pari dignità a prescindere da differenze di sesso e di religione, è fondamentale e irrinunciabile, ma è altrettanto importante e forse più importante ai fini della convivenza favorire un confronto che investa le radici stesse delle diverse culture.
Non credo con queste mie poche osservazioni di aver dato la misura della importanza del documento e dei problemi che esso implica, ma vorrei avere, quanto meno, espresso l’esigenza che la laicità cui Repubblica si ispira è legittima preoccupazione di pluralismo e di distinzione di ruoli, ma non è disinteresse e tanto meno irrisione del fattore religioso.
(9 agosto 2004)
il manifesto 27 agosto 2004
LE DONNE DI RATZINGER
L’antico medicamento di una nuova ferita
Chiesa cattolica Una ferma risposta al «pericolo» del mutamento femminile
LEA MELANDRI
Leggendo la Lettera sulla collaborazione dell’uomo e della donna del cardinal Ratzinger colpisce che un testo, inequivocabile quanto al senso e alle finalità che lo muovono, abbia potuto dare luogo a giudizi tra loro così contrastanti. C’è chi vi ha visto una Chiesa che finalmente «benedice la sessualità», chi, al contrario, una riconferma del suo assunto normalizzatore contro il rischio di un libero «polimorfismo sessuale»; chi un intervento utile a mettere fine al «caos» generato dal «veterofemminismo», chi invece, come Ida Domijanni e Luisa Muraro, un documento «nuovo» e «dirompente», che dimostrerebbe da parte della Chiesa un’inattesa capacità di ascolto rispetto «al cambiamento prodotto dalla rivoluzione femminista», in particolare nei confronti del «pensiero della differenza sessuale», che andrebbe così a riscuotere quel riconoscimento che ha atteso invano dalla sinistra (il Manifesto, 3 e 8 agosto 2004). A me sembra che «nuovo» sia essenzialmente il linguaggio, sapientemente modulato sull’idea del «dialogo», della «sincera ricerca della verità», così come insolito è anche l’imbarazzo là dove l’argomentazione mostra vistosamente la sua debolezza e contraddittorietà: un documento che nel titolo nomina l’uomo e la donna e che poi si occupa esclusivamente della «questione femminile», che invoca «valori», quali l’altruismo, l’amore, la pietà, riconoscendoli come «umani», salvo poi ricollocarli in quell’ umano-femmina che si vuole più «naturalmente» portato alla «cura» dell’altro. Per il resto, la Lettera appare come una «risposta» ferma a un pericolo, che non viene riscontrato, come ci si aspetterebbe, nei «sogni di potere» e nel «dramma della violenza» che oggi sconvolgono il mondo – il che avrebbe comportato l’analisi di una «maschilità» distruttiva -, ma proprio nei cambiamenti che hanno visto negli ultimi decenni molte donne diventare più consapevoli e più padrone della loro vita.
Al di là della maggiore vicinanza o distanza da questa o quella corrente di pensiero femminista, ciò che inquieta, e che ritorna insistentemente nel testo, è il fatto che, per un’imprevista «presa di coscienza», oggi le donne vengano legittimando la possibilità di «esistere per se stesse», fosse anche solo per dare «liberamente» un segno positivo a quelle stesse condizioni per cui sono state inferiorizzate. Di questa «libertà», che io non considero tale e che chiamerei piuttosto un’«alienazione attiva», non vedo nella Lettera alcuna traccia. Così come non direi che vengano messe a tema l’arroganza della «ragione», che qui anzi si impone nella sua forma più assoluta, come «verità rivelata», e la rottura tra biologia e storia, dal momento che la differenza sessuale vi è affermata sulla base dell’ordine voluto dal Creatore. Come è detto chiaramente nell’Introduzione, la «risposta» a che cosa si debba intendere oggi per collaborazione tra i sessi, ha i suoi «presupposti», le sue «finalità genuine», nelle Sacre Scritture.
Dal racconto della Genesi emergono «disposizioni originarie» riguardo all’uomo e alla donna che non possono essere «annullate», perché parte del disegno divino. Tra queste c’è la «complementarità», in cui è chiaro che la «prospettiva sponsale», valevole per entrambi gli sposi, attiene specificamente alla donna, in quanto «esistere per l’altro» sta nel suo «essere più profondo e originario». Nei paragrafi che seguono, l’alleanza tra l’uomo e la donna, compromessa dal peccato originale, va poi a collocarsi nella «promessa del Salvatore», cioè nei molti modi in cui , nel corso della storia, «Dio si rivela al suo popolo». E’ qui che il «vocabolario nuziale» prende la sua massima estensione, fino a quell’apogeo che è Maria, «eletta figlia di Sion», vergine e sposa perfetta. Ma è proprio su questo «simbolismo», considerato «indispensabile» per quanto «audace» nell’unire sacro e profano, che si avverte quasi una excusatio non petita, a cui segue immediatamente la precisazione che riporta al centro ancora una volta la gerarchia nota: prima Dio e poi gli uomini. I termini «sposo», «sposa» sono «molto più di semplici metafore», e i loro referenti reali, gli «sposi cristiani», sono soltanto «segni viventi» dell’amore di Cristo e della Chiesa.
Analoga «disumanizzazione» è quella che Rossana Rossanda (il manifesto 22-8) ha rilevato a proposito di Maria, attraverso i dogmi dell’«immacolata concezione» e dell’«Assunta». Le differenze tra i sessi, così innestate nel disegno di Dio e poi nel «mistero pasquale», sono destinate a durare «oltre il tempo presente». E’ su questi «presupposti» astorici che si fondano anche le «nuove prospettive» riguardanti i «valori femminili» nella vita della società e della Chiesa. Non dovrebbe meravigliare perciò se la constatazione di un dato di fatto, la presenza oggi delle donne nella famiglia e nel lavoro, si accompagna alla preoccupazione che le donne, sviate dal desiderio di «vivere per se stesse», abbandonino quel ruolo, così indispensabile alla sopravvivenza della specie e all’«identità mistica» della Chiesa, che è la loro capacità di «essere per l’altro», estensione sul piano esistenziale, psicologico e spirituale della loro capacità biologica di dare la vita. «Nonostante il fatto che un certo discorso femminista rivendichi le esigenze ‘per se stessa’, la donna conserva l’intuizione profonda che il meglio della sua vita è fatto di attività orientate al risveglio dell’altro, alla sua crescita, alla sua protezione…Questa intuizione è collegata alla sua capacità fisica di dare la vita. Vissuta o potenziale, tale capacità è una realtà che struttura la personalità femminile in profondità». Non so come si sia potuto leggere in queste pagine uno svincolamento dal ruolo materno, una più libera concezione della sessualità, quando anche la rinuncia alla maternità biologica è posta sotto l’egida di una «verginità» sostanziata di sentimenti e pensieri materni, preferibile, in quanto non c’è di mezzo la «ferita» del peccato originale: la concupiscenza.
Mi chiedo se a lusingare il femminismo che si richiama al «pensiero della differenza» non sia stata la funzione particolare che la Chiesa, da sempre del resto, riserva alla donna, e che qui è ripresa con toni alti e, dal punto di vista linguistico, «moderni». Le donne, la loro vita, i loro modi di essere, costituiscono una «ricchezza» e un «modello» per l’«umanizzazione» di una civiltà che sembra votata alla morte. Ma a patto che si lascino convertire «all’amore per l’altro». Il prezzo dunque di questo primato e di questa investitura salvifica, che il maschio è chiamato a riconoscere, ha come contropartita l’indifferenza ai cambiamenti della storia e delle coscienze, la sordità rispetto a quella «soggettività femminile» che oggi chiede, in modi liberi o meno liberi, di decidere della propria sorte.
Non è casuale che la Lettera si chiuda con l’immagine di Maria, una femminilità fatta di «ubbidienza umile e amante», capace di «fedeltà» e resistenza al dolore, quelle stesse doti che il Pontefice invoca in una «nuova preghiera» scritta da lui: «vergine della speranza», «dimora santa del Verbo»,«umile serva del Signore», «donna del dolore», «Madre dei viventi»(Corsera, 15 agosto 2004). Dopo il peccato originale, sembra che sia il risveglio imprevisto della coscienza femminile la nuova «ferita» da guarire. E questa Lettera, con il suo medicamento antico, appare in questo senso effettivamente «aggiornata».
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