MAGNETISMO 3:LE TEORIE DEL MAGNETISMO DALL’ANTICHITÀ AI GIORNI NOSTRI

PARTE III: la trattazione quantistica del magnetismo

Roberto Renzetti

RICAPITOLIAMO IN BREVE

         Concludevo il precedente articolo dicendo:

        “In definitiva, anche se da una parte le elaborazioni di Langevin e Weiss rispondevano a molti fatti sperimentali, pur essendo ricavate dall’apparato concettuale della fisica classica, dall’altra aprivano all’interpretazione dei medesimi fatti sperimentali alle teorie quantistiche. La cosa fu notata dallo stesso Bohr nella sua dissertazione per il dottorato del 1911(1) quando sostenne che i risultati dei due fisici francesi erano stati ricavati perché avevano fatto ipotesi di carattere quantistico e che proprio con la fisica quantistica sarebbe stato necessario rivedere l’intera teoria. […] Ormai la fisica dei quanti premeva in ogni campo della fisica e gli ulteriori sviluppi nella comprensione del magnetismo, verranno da questa teoria”.

        Riprendo ora il filo iniziando con il ricordare alcune elaborazioni fisiche degli inizi del Novecento che avranno importanza negli sviluppi delle teorie del magnetismo. Per questo debbo iniziare proprio da Bohr e dal suo modello atomico che era stato costruito agli albori della fisica quantistica come modello che potremo definire semiclassico (ipotesi quantistiche inserite in un apparato di fisica classica).

        Nel 1900 Planck, per risolvere l’annoso problema del corpo nero, introdusse nella fisica il concetto di quanto. Nel 1905 Einstein riprese il lavoro di Planck per spiegare con i quanti alcuni fenomeni che non riuscivano a trovare un quadro interpretativo all’interno della fisica classica. Tra questi l’effetto fotoelettrico che da venti anni non si riusciva a comprendere in una qualche teoria.

        Intanto, sul finire dell’Ottocento, era stato scoperto l’elettrone da parte di J.J. Thomson ed all’inizio del nuovo secolo si era avuta l’elaborazione dei primi modelli atomici, tra cui quello di Rutherford e di Bohr (con le correzioni di Sommerfeld) che, per primo, si servì dei quanti di Planck.

        Per tutti questi argomenti rimando ai collegamenti ipertestuali. Qui tratterò invece quanto altrove non detto e d’interesse per l’argomento che discuto.

MOMENTO MAGNETICO ATOMICO

        Una delle conseguenze di rilievo del modello atomico di Rutherford era l’esistenza  in un atomo di un momento magnetico proprio a causa degli elettroni ruotanti intorno al nucleo. Abbiamo più volte detto che l’elettrone è una carica elettrica e che una carica elettrica in moto è una corrente. Possiamo ricordare in breve che, per il teorema di equivalenza di Ampère, una spira percorsa da corrente può essere considerata come un magnete (un ago o dipolo magnetico). Nel caso atomico l’elettrone ruotante corrisponde ad una spira elementare e quindi il sistema corrisponde ad un magnetino elementare. L’elettrone, secondo la fisica classica, possiede un momento della quantità di moto dovuto alla sua rotazione intorno al nucleo ed a tale momento si associa il vettore momento magnetico µ perpendicolare al piano di rotazione  (più oltre, quando sarà introdotto lo spin, il movimento dell’elettrone di rotazione su se stesso, dovremo considerare quest’altro momento e considerare come questo momento magnetico di spin va ad interagire con il momento magnetico dovuto all’orbita; per ora parlare di momento magnetico atomico è solo riferito all’effetto della rotazione elettronica intorno al nucleo).

Nella figura e è la carica dell’elettrone orbitante a velocità vi = e/t (dove t è il tempo) è la corrente dovuta alla carica dell’elettrone rotante; è il raggio dell’orbita; n è la normale al piano dell’orbita; μ è il momento magnetico orbitale dell’elettrone che è un vettore che in modulo vale μ = eS/t, dove S = πr2 è l’area racchiusa dalla traiettoria dell’elettrone e t il tempo impiegato a percorrere la traiettoria  (è diretto verso l’alto perché il verso di rotazione dell’elettrone è quello orario; se l’elettrone si muovesse in senso antiorario  μ sarebbe diretto verso il basso). Se ci si riferisce al periodo T = (2πr)/v, la quantità μ sarà data da μ = eS/T.

        Il valore classico (in modulo) di μ è dato dalla corrente nel circuitino in un periodo, e/T, moltiplicata per la superficie S del circuito (teorema di Ampère):

                                      μ = (e/T).S = ½ evr.                                    (1)

Ricordo ora alcune delle elaborazioni di Bohr.

         Supponiamo di considerare un elettrone che ruoti intorno al nucleo su una determinata orbita; sia r il raggio dell’orbita che stiamo considerando e q =  mv  la quantità di moto dell’elettrone su questa orbita, di modo che il momento della quantità di moto, meglio, il momento angolare dell’elettrone rispetto al nucleo sarà p = mvr;   ebbene, questo momento angolare non può assumere tutti i valori possibili, ma solo alcuni determinati, multipli interi di una data quantità elementare; vale cioè la relazione:

                                       mvr =  n(h/2p)                                 (2) 

là dove n è un numero intero  positivo chiamato numero quantico principale ed h è la costante di Planck.

Quanto ricordato vuol solo dire che anche il momento magnetico orbitale dell’elettrone deve risultare quantizzato e quindi ubbidire alla legge ora citata di Bohr. La (1) e la (2) si possono mettere a sistema: ricavando vr dalla (2) e sostituendolo nella (1) si trova:

                                                                                         (3)

dove n è il numero quantico principale che indica su quale orbita ci troviamo e può assumere i valori  1, 2, 3, ….., ∞.

        Se ci riferiamo ad n = 1, cioè alla prima orbita elettronica, abbiamo il momento magnetico elementare che assume il nome di magnetone di Bohr che ha un valore preciso indipendente da grandezze meccaniche che, nei conti, sono sparite

                                                                                         (4)

        E’ estremamente interessante notare che il momento magnetico di un elettrone orbitante risulta sempre multiplo intero di questo magnetone di Bohr che assume quindi il ruolo di una unità dei momenti magnetici.

        A questo punto è utile ritornare all’atomo di Bohr ed in particolare alle correzioni che ad esso fece Sommerfeld. Ritorno quindi ad alcune cose dette a suo tempo.

          La quantizzazione del momento angolare introdotta da Bohr, l’espressione (2), limitava i gradi di libertà di un elettrone costringendolo ad un raggio r di una determinata orbita. Sommerfeld suppose che l’elettrone, muovendosi nello spazio ha tre gradi di libertà e non uno solo. E le orbite di Sommerfeld diventate ellissi, risultavano anch’esse quantizzate. Bohr aveva introdotto il numero quantico n che ci diceva in quale orbita si trovava l’elettrone. Con la quantizzazione delle orbite ellittiche di Sommerfeld (1915)(2), mentre restava immutato il numero (che continua ad indicare in che orbita ci si trova e quindi in che livello energetico), occorreva introdurre un numero quantico a per indicare l’eccentricità dell’orbita (in genere si fornisce il numero = a – 1 che rappresenta il momento angolare in unità h) che ha una stretta relazione con il momento angolare dell’elettrone. Più in dettaglio, dato un livello energetico n, gli ℓ dicono quanti sottolivelli alla stessa energia ha quel livello. Se n = 1 non si hanno sottolivelli, se n = 2 si ha un solo sottolivello, …

        Altra sistemazione di Sommerfeld riguardava l’applicazione della relatività al moto dell’elettrone con la conseguenza di dover considerare il moto di precessione del perielio nel moto dell’elettrone (fenomeno previsto in Relatività Generale da Einstein nel 1919 ed osservato nel sistema solare per il pianeta Mercurio) che origina quel movimento a rosetta illustrato nella figura seguente.

         E la sistemazione non era finita perché vi era un altro fenomeno da dover prendere in considerazione e che veniva fuori, pur non ben compreso, da elaborazioni successive (1920) di Sommerfeld(3). Risultava che anche l’inclinazione delle orbite, rispetto ad un piano di riferimento, non poteva essere qualunque ma ubbidire ad un’altra quantizzazione di tipo spaziale.

Questo risultato era teorico e mancavano riscontri sperimentali per cui fu inizialmente lasciato da parte. Solo più tardi, con le esperienze di Otto Stern (1888-1969) e Walther Gerlach (1889-1979), l’elaborazione teorica risulterà confermata (questo numero quantico è chiamato numero quantico magnetico e si indica con m. Essopuò assumere tutti i valori interi seguenti  m  = 0,  ±1,  ±2, … ,  ± ℓ ).

        La verifica sperimentale dell’esistenza del quanto magnetico predetto da Sommerfeld, fu fatta appunto da Stern e Gerlach tra il 1921 ed il 1922(4).

Rappresentazione schematica dell’esperienza di Stern e Gerlach

L’apparato sperimentale di Stern e Gerlach

        Un fascio di atomi di argento veniva prodotto in una fornace ad elevata temperatura. Dopo essere passati attraverso una fenditura, tali atomi attraversavano un campo magnetico non omogeneo ed andavano a finire su uno schermo che permetteva di fotografare le tracce qui lasciate. L’esperienza è semplice concettualmente ma difficilissima e costosissima da realizzare. Si trattava di verificare sullo schermo se, sotto l’azione del campo magnetico H, vi fossero deflessioni continue degli atomi (sullo schermo sarebbe apparsa una striscia uniforme) o solo alcune deflessioni finite da imputare alla quantizzazione (sullo schermo sarebbero apparse alcune tracce separate, ognuna relativa alla quantizzazione spaziale del gruppo di atomi che la componeva). L’atomo con momento magnetico è come un piccolissimo magnete con dimensioni comunque finite. Se sistemiamo questo magnete elementare in un campo magnetico omogeneo, si muoverà secondo una linea retta dentro il campo. Ma se il campo non è omogeneo, le forze che agiscono sui due poli del magnetino non sono le stesse, come nel caso precedente, ed accelerano il magnete elementare o nel verso del campo o in quello opposto con la conseguenza che la sua traiettoria non sarà più rettilinea ed ogni singolo atomo subirà una deviazione proporzionale all’intensità e direzione del suo momento magnetico. Queste tracce si possono  rendere visibili su uno schermo. Se vale la teoria classica il fascio di elettroni che arriva sullo schermo deve risultare ampliato, visto che i momenti magnetici degli atomi che fluiscono nel campo magnetico possono assumere tutte le direzioni rispetto al campo medesimo. Ma se vale la quantizzazione spaziale, non sono possibili tutte le posizioni ma solo un certo numero discreto di esse. Il fascio sullo schermo deve quindi scomporsi in un numero finito di fasci discreti determinato dal numero quantico magnetico (un numero diverso per atomi di differenti elementi). I risultati trovati furono quelli rappresentati nelle seguenti prime due due fotografie (la terza essendo stata costruita per far vedere cosa si sarebbe visto nel caso di validità dell’ipotesi classica):

Fascio di elettroni in assenza di campo magnetico esterno.

Fascio di elettroni che ha attraversato un campo magnetico non omogeneo nell’ipotesi quantistica.

Fascio di elettroni che ha attraversato un campo magnetico non omogeneo nell’ipotesi classica.

Cartolina che Gerlach inviò a Bohr facendogli i complimenti per la correttezza della sua teoria. Fra l’altro si dice: E’ qui riportata la prova sperimentale della quantizzazione spaziale. Questo è un risultato sorprendente. Senza campo magnetico non c’è splitting. Se c’è campo magnetico c’è splitting. Il momento magnetico è quantizzato.

        E’ utile far osservare che l’esperienza di Stern e Gerlach oltre a permettere la prima misura del magnetone di Bohr, suggerì l’esistenza dello spin elettronico poiché lo sdoppiamento del fascio atomico provocato dall’interazione degli elettroni con un campo magnetico indicava una qualche quantizzazione a due valori dei possibili orientamenti del moto dell’elettrone.

        Con il magnetone di Bohr le ipotesi successivamente fatte da Ampère, da Weber e da Langevin trovarono conferma; con il lavoro di Sommerfeld del 1915 appariva chiaro che l’ipotesi di Langevin (uguale possibilità di tutte le orientazioni dei momenti elementari rispetto al campo magnetico) diventava insostenibile. Occorreva ora tener conto della quantizzazione spaziale che impone al momento magnetico totale delle discontinuità e quindi che esso non più avere ogni direzione dello spazio ma solo il suo essere parallelo, antiparallelo o perpendicolare al campo. 

        Il passo successivo, che aiutava di molto la comprensione di molti fenomeni che si erano presentati e che sarà di grande aiuto nelle elaborazioni future, anche nel campo del magnetismo, si ebbe nel 1925, quando i due fisici olandesi Uhlenbeck e Goudsmit(5), per rendere conto dei cosiddetti multipletti nelle righe spettrali (su una intuizione dello statunitense Compton del 1921), introdussero (sospinti in questo da Ehrenfest) il concetto di momento angolare intrinseco o spin dell’elettrone.  Nel lavoro dei due fisici  si ipotizzava che lo stato di un elettrone non potesse essere descritto per intero da posizione e velocità ma doveva esservi anche un suo movimento a trottola su se stesso (spin), anch’esso, quantizzato. Essi proposero per lo spin due possibili valori:

                                 ms  =  – 1/2.(h/2π);      ms  = + 1/2.(h/2π)                  (5)

e ciò vuol dire che o esso è diretto in un senso o in un senso opposto; se nel caso di rotazione antioraria dell’elettrone su un suo asse lo spin è diretto verso l’alto, allora nel caso di rotazione oraria su quello stesso asse lo spin è diretto verso il basso (si osservi che un momento cinematico pari a mezzo quanto (h/2), crea un momento magnetico pari ad un magnetone di Bohr). Questa idea ebbe almeno per un anno l’opposizione di Pauli ma non tardò ad affermarsi.

        Ammessa quindi l’esistenza dello spin come momento angolare intrinseco dell’elettrone, sorgeva immediatamente il problema di comporre questo vettore al momento angolare fornito dal moto orbitale dell’elettrone che, abbiamo già detto, è multiplo del magnetone di Bohr. Ma lo spin giocava anche un altro ruolo, quello di spiegare, oltre a varie questioni legate agli spettri atomici, anche un problema posto e non risolto a partire da una memoria del fisico britannico O. W. Richardson nel 1908(6). Egli aveva suggerito l’esistenza di un effetto meccanico che avrebbe dovuto accompagnare la magnetizzazione. Per elaborare l’idea immaginò una lungo e sottile cilindro di ferro sospeso longitudinalmente mediante un filo di torsione in modo da poter eseguire piccole oscillazioni rotazionali intorno al suo asse verticale.

Quando il cilindretto  non è magnetizzato, gli elettroni in moto in orbite circolari negli atomi o molecole (le correnti molecolari di Ampère) non avranno un momento angolare risultante dalle loro orbite poiché la disposizione dei singoli momenti angolari risulta casualmente orientata in tutte le direzioni. Consideriamo ora l’effetto che si origina all’applicare un campo magnetico esterno. Le orbite considerate prima si orienteranno secondo un piano perpendicolare alla direzione del campo in modo da dar luogo ad un momento angolare totale degli elettroni intorno all’asse di sospensione. Tale momento angolare dovrebbe essere bilanciato da una reazione uguale ma in un luogo diverso della barretta in modo da creare una sorta di torsione dell’intero sistema. In definitiva il rapporto M/J (chiamato rapporto giromagnetico o rapporto magnetomeccanico ed indicato con g) tra il momento magnetico M ed il momento della quantità di moto J sarebbe dovuto risultare uguale a  e/2m(8). Questo è almeno ciò che ci si sarebbe dovuto aspettare. Richardson tentò l’esperienza ma non riuscì ad osservare l’effetto che sarà invece osservato nel 1915 da Albert Einstein e dal fisico olandese Johannes Wander de Haas(7).

         C’è da notare che questo è l’unico lavoro sperimentale di Einstein (dirà: Alla mia età mi sto appassionando all’esperimento) del quale scriverà al suo amico Michele Besso, il 12 febbraio 1915, con le seguenti parole:

Caro Michele,

[…] 2. Prova sperimentale  dell’ipotesi delle correnti molecolari di Ampère. Se le molecole paramagnetiche sono giroscopi elettronici, ad ogni momento magnetico J corrisponde un momento meccanico con impulso M con la stessa orientazione, il valore del quale è M = 1,13.10-r. Quando J varia, appare un momento cinetico – dM /dt.

        Se si altera la magnetizzazione di una sbarra sospesa, essa presenta un momento cinetico assiale la cui esistenza ho dimostrato sperimentalmente insieme al sig. De Haas (genero di Lorentz) in un laboratorio di questo istituto [godeva di un incarico temporaneo presso la Physikalisch-Technische Reichsanstalt di Charlottenburg]. Le esperienza saranno presto ultimate. Per mezzo di esse si sarà dimostrato, almeno in un caso, l’esistenza di una “energia di punto zero”. Una esperienza molto bella, peccato che tu non mi possa aiutare a realizzarla.

      L’idea alla base dell’esperienza è quella di Richardson con un apparato sperimentale più perfezionato. Anche qui si trattava di sospendere un cilindretto ferromagnetico mediante un filo di torsione in modo da poter eseguire piccole oscillazioni rotazionali intorno al suo asse verticale (la prima delle figure seguenti). Per apprezzare piccole torsioni ci si serviva del metodo dello specchietto applicato al filo: una piccolissima torsione di esso viene amplificata dalla riflessione di un pennello di luce che va successivamente a incidere su un’asta graduata (la seconda delle figure seguenti). Il cilindretto era poi sottoposto ad un campo magnetico esterno generato da una corrente alternata avente un periodo uguale a quello dell’oscillazione libera (senza campo esterno) del cilindretto (la seconda delle figure seguenti).

Sezione dell’apparato sperimentale di Einstein e de Haas

Schema di principio dell’esperienza di Einstein e de Haas

Ricostruzione dell’apparato sperimentale di Einstein e de Haas.

    Pais racconta in questo modo la conduzione dell’esperienza:

        La tecnica di Einstein e de Haas per la misura di g consisteva nell’ analizzare il moto di un cilindro di ferro sospeso verticalmente (nella direzione z, considerando come verso positivo quello “all’insù”) tramite un filo metallico. Un solenoide fisso è disposto coassialmente attorno al cilindro. Il ferro è magnetizzato da una corrente alternata che percorre il solenoide. La variazione ΔM del momento magnetico nella direzione z induce una variazione ΔJ del momento angolare nascosto dovuto ai moti degli elettroni tale che ΔM = – egΔJ/2m. La conservazione del momento angolare esige che ci sia una compensazione per ΔJ. Così il cilindro di ferro nel suo insieme acquista un momento angolare – ΔJ, dato che questo corpo può essere considerato rigido. La velocità angolare che ne deriva, Δα sarebbe data da egQΔα = 2mΔM se sul cilindro agisse soltanto la forza magnetica (Q essendo il momento di inerzia relativo all’asse z). La  Δα effettiva risulta dal gioco tra la forza magnetica pilota e la forza di richiamo dovuta al filo cui il cilindro è attaccato. È chiaro che l’esperimento serve a determinare g se sono noti gli altri vari parametri magnetici e meccanici.
        Le complicazioni sono molte. Il cilindro dev’essere appeso esattamente per il suo asse; il campo magnetico dev’ essere simmetrico rispetto all’asse del cilindro; deve anche essere uniforme perché si possa conferire un significato semplice a ΔM; bisogna compensare l’effetto del campo magnetico terrestre; possono esserci perturbazioni dovute all’interazione della corrente alternata con un’eventuale magnetizzazione residua del cilindro. Nessuna meraviglia che il cilindro compisse “i movimenti più imprevedibili”. Einstein e de Haas mostrarono che molte di queste difficoltà potevano essere superate grazie a un ingegnoso accorgimento, il metodo della risonanza. Il cilindro viene sospeso per mezzo di un filo di vetro piuttosto rigido. La frequenza dell’oscillazione meccanica di questo sistema viene accoppiata con la frequenza della corrente alternata: la risonanza che ne risulta rende molto più facile separare l’effetto desiderato dalle influenze perturbatrici.

        Le misure fatte (e poi ripetute da vari altri ricercatori(9)) mostrarono che quel rapporto M/J vale esattamente il doppio di quanto teoricamente preventivato e cioè – e/m. Un errore troppo grande per poter essere accettato sperimentalmente. Vi doveva essere qualcosa di non compreso nella teoria. [I dettagli dei conti dell’esperimento di Einstein-de Haas si possono trovare qui].

        Il fenomeno inverso fu studiato negli USA, sempre nel 1915, da S. J. Barnett(10) (che nelle sue prime misure aveva trovato u valore doppio del rapporto giromagnetico trovato da Einstein e de Haas, valore che oggi sappiamo essere quello corretto ma allora non attendibile per le infinite complicazioni di misura che le esperienze in oggetto presentavano). Se si mette bruscamente in rotazione un cilindretto ferromagnetico, si comunica agli elettroni dei suoi atomi un momento cinetico e, di conseguenza, un momento magnetico. L’effetto è d’interesse perché permette la magnetizzazione per rotazioni intorno ai loro assi di materiali ferromagnetici(11). In pratica le correnti molecolari di Ampère, poiché sono dotate di momento angolare, si comportano come gli anelli di un giroscopio, che cambiano le loro orientazioni tendendo a renderle parallele alla rotazione impressa. Conseguenza di ciò è il generarsi di una preponderanza di momenti magnetici lungo l’asse dalla rotazione impressa.

        Ebbene queste esperienze non furono ben comprese perché avrebbero potuto anticipare di 10 anni la scoperta dello spin. E fu proprio l’introduzione dello spin nella teoria fisica che permise di inserirle in un contesto chiaro e conseguente. Abbiamo più su visto che lo spin non è altro che il momento angolare intrinseco dell’elettrone e vale ms = ± ½ (h/2π). Associato con lo spin vi è poi il momento magnetico μ che abbiamo visto essere il magnetone di Bohr (per n = 1) e valere:

                                                                                                 (4)

        Se pensiamo che questo μ corrisponda all’M che abbiamo incontrato e che ms sia J, troviamo che il rapporto giromagnetico M/J ora diventa μ/ms e vale esattamente quanto avevamo trovato prima e cioè (in modulo) e/m.Ciò vuol dire che il che avevamo incontrato e definito come quantità di moto dell’elettrone non era altro che lo spin del medesimo. Ma vi è una considerazione in più fa fare ed alla quale posso solo accennare. Il moto dell’elettrone,  quindi lo spin, va trattato in modo relativistico (le velocità orbitali in gioco sono dell’ordine di grandezza di quella della luce) come fecero Thomas (1926) e Kramers (1935). In tal modo il momento di spin si ricava ancora da quello meccanico ma moltiplicando non più per e/2m (come per i momenti orbitali) ma per e/m. Questo cambiamento comporta la sistemazione di quel valore del rapporto giromagnetico che, si ricorderà, aveva, nell’esperienza di Einstein e de Haas, un valore doppio rispetto a quanto la teoria classica (non relativistica) prevedesse. Con la correzione relativistica si trova il valore corretto per il rapporto giromagnetico che è appunto (in modulo) e/m. Una trattazione completa e rigorosa di ciò è dovuta a Dirac (1928) che elaborò una generalizzazione relativistica dell’equazione di Schrödinger: l’equazione quantistica relativistica di Dirac(12) conteneva sorprendentemente (come dice Hund) anche lo spin dell’elettrone (presentandosi quindi anche come teoria dello spin) e trovava per il rapporto giromagnetico proprio quello che fornivano i dati sperimentali (da questo fondamentale lavoro di Dirac, che tra l’altro chiariva definitivamente l’effetto Zeeman, discesero immediatamente una notevole quantità di ulteriori elaborazioni e risultati da parte di Gordon, C.G. Darwin, Weyl, van der Waerden, Klein, Oppenheimer, … che nel loro insieme costituirono la base di quell’evoluzione della fisica dalla meccanica quantistica alla teoria quantistica dei campi).

        Non è un salto logico perché, a questo punto, si capirà facilmente che il ferromagnetismo è essenzialmente un effetto di spin (come vedremo ancora meglio). I momenti magnetici sono i momenti magnetici di spin ed il campo molecolare (che abbiamo visto nell’articolo precedente) non è altro che un accoppiamento di spin vicini, accoppiamento che tende a fornire loro, in un dominio di Weiss, direzioni parallele. E tutto ciò si chiarì proprio nel 1925 con l’introduzione dello spin.

IL RAFFREDDAMENTO MAGNETICO DI DEBYE: DEMAGNETIZZAZIONE ADIABATICA

        Nel 1926 il fisico tedesco P. Debye (che abbiamo già incontrato a proposito della teoria dei calori specifici) e nel 1927 il chimico fisico nordamericano W.F. Giauque proposero, indipendentemente, un metodo per riuscire ad ottenere temperature al di sotto di 0,3°K(13).  Questo argomento l’ho già affrontato quando ho trattato della FISICA DELLE BASSE TEMPERATURE-3ed ora richiamo solo la parte di interesse per quanto sto discutendo.

        Ogni atomo, come fin qui visto, ha componenti magnetiche che discendono dagli elettroni che orbitano intorno al nucleo. Se pensiamo questa situazione all’interno di un gas è facile capire che i campi magnetici di ciascun atomo sono orientati in genere con il massimo disordine in modo da non dare alcun effetto all’esterno del gas medesimo. Se introduciamo lo spin l’atomo risulta avere componenti magnetiche doppie, quelle atomiche e quelle elettroniche e noi ora ci occupiamo solo di quelle elettroniche. Un gas, sotto questo profilo, è composto da tanti magnetini sistemati in modo del tutto disordinato, a temperature ordinarie. Invece di pensarlo così possiamo pensare che ogni magnetino sia rappresentato da un vettore che abbia i due poli magnetici alle due estremità (il Nord dal lato della freccia) di modo che il gas è come costituito da tanti piccoli vettori orientati a caso nello spazio (vedi la figura seguente).

        Sappiamo anche che se sistemiamo una sostanza tra le espansioni polari di un potente elettromagnete essa tende a magnetizzarsi anche per effetto dell’orientamento degli spin in una sola direzione (fenomeno noto come suscettività magnetica χ). All’orientamento degli spin si oppongono però le vibrazioni termiche degli atomi che risultano maggiori quanto più è elevata la temperatura. Se scendiamo di temperatura le vibrazioni atomiche diminuiscono ed allora è più facile orientare gli spin del gas elettronico. Quest’ultima è la proprietà che fu scoperta da Pierre Curie il quale stabilì che la suscettività è inversamente proporzionale alla temperatura (χ ~ 1/T). Ma le cose non sono così lineari perché alcune sostanze hanno strutture tali che gli spin hanno fortissime azioni tra loro e con i reticoli cristallini tanto che è difficile riuscire ad orientarli. Vi sono invece altre sostanze in cui l’orientamento degli spin è più semplice ed è in caso dei sali paramagnetici. La cosa fu studiata da Kamerlingh Onnes e H. R. Woltjer(14) nel 1924 con un sale paramagnetico (il solfato di gadolino), che segue la legge di Curie, per vedere se a temperature intorno ad 1°K si riuscissero ad orientare tutti gli spin.

        I due scienziati trovarono la seguente curva sperimentale in cui si vede che la magnetizzazione (ordinate) cresce (fino alla saturazione) al diminuire della temperatura (ascisse in cui la temperatura compare al denominatore). E questa

curva mostra la validità della legge di Curie.

        E’ arrivato il momento di capire qual era la finalità di questa proporzionalità inversa tra suscettività e temperatura e, per farlo, occorre mettere in gioco l’entropia. Abbiamo visto che entropia è sinonimo di disordine e che se l’entropia cresce cresce il disordine. Anche la temperatura ha a che fare con il disordine: aumentare la temperatura significa aumentare il disordine. In definitiva se riusciamo a ordinare un sistema avremo abbassato la sua entropia e quindi la temperatura. E fu proprio questa operazione che suggerirono Debye e Giaugue (ho usato il verbo suggerire perché dagli articoli che illustravano questo sistema per raffreddare alla sua realizzazione passarono 7 anni. Le esperienze di Giaugue, che vinse la gara con Debye in quanto era un fisico sperimentale, furono fatte a Berkeley nel 1933).

        Alla temperatura di 1°K non debbono più esservi vibrazioni atomiche ed è quindi possibile intervenire sull’orientamento degli spin. Vediamo il modo di procedere per raggiungere il risultato (seguo il lavoro di Giaugue tratto dalla sua Nobel Lecture del 1949). Il sale paramagnetico, che è alla temperatura di 1°K dell’elio liquido che lo raffredda, viene messo all’interno di un intenso campo magnetico ottenuto con un avvolgimento di spire (il tutto deve essere perfettamente isolato dall’ambiente esterno).

Figura (a)

        Dopo un poco ci troveremo nella situazione seguente: gli spin saranno orientati secondo il campo magnetico esterno.

Figura (b)

        E’ quanto fin qui detto: si sono allineati gli spin e si è aumentato l’ordine:

        A questo punto si toglie il campo magnetico esterno ed andiamo a questa situazione di spin di nuovo disordinati:

Figura (c)

             Per capire cosa è accaduto riferiamoci al grafico seguente:

Da Dekker

        La figura (a) ci situa nel punto B nella curva disegnata più in alto. E’ cioè accaduto che aver ordinato gli spin ha abbassato l’entropia del sale paramagnetico e siamo scesi al punto C della curva che descrive l’entropia più bassa. Questa situazione è descritta dalla figura (b). Se, come in figura (c), togliamo il campo magnetico esterno, si tornano a disordinare gli spin e ritorniamo alla situazione di entropia più elevata MA a temperatura più bassa (la temperatura TA). Passiamo dal punto C della curva ad entropia più bassa al punto A della curva ad entropia più alta e questo passaggio avviene ad entropia costante, siamo cioè in una trasformazione adiabatica (dS = 0), senza scambio, cioè, di calore con l’ambiente esterno. Questi passaggi fanno dire che il processo in atto è quello di una demagnetizzazione (togliamo il campo magnetico esterno)  adiabatica (camminiamo lungo una trasformazione adiabatica). A questo punto si può continuare fornendo di nuovo al gas degenere un campo esterno, quindi demagnetizzare ed in tal modo si scende ancora di temperatura. Ripetendo ciò più volte si è arrivati ad ottenere temperature intorno al millesimo di 1°K. Questo discorso può essere formalizzato a partire dal Secondo Principio della termodinamica. Rimando a tale formalizzazione fatta in modo eccellente da Dekker (pag. 453) e da Syčev (pagg. 75-86).

Come si ordinano gli spin in un sale paramagnetico al variare della temperatura.

          In quanto visto si può comprendere un fatto di grande importanza: la conoscenza teorica può permettere cose assolutamente imprevedibili sul piano empirico e, per ciò che ci interessa, abbiamo ripreso una cosa che avevamo tralasciato con Curie e cioè la dipendenza esistente tra magnetismo e temperatura. Con un altro aspetto del problema che può essere definito ordine.

        Nel lavoro di Debye del 1926, così come in quelli indipendenti e dello stesso periodo di Léon Brioullin(15), vi era una trattazione quantistica del paramagnetismo che faceva vedere come, in presenza di campi magnetici deboli, la formula classica di Langevin che abbiamo incontrato nel precedente articolo è una buona approssimazione che permette un calcolo corretto dei magnetini elementari.

        Serviva però inserire il tutto in un quadro generale, senza inseguire fenomeno per fenomeno con soluzioni particolari e questo problema venne risolto da W. Heisenberg con l’introduzione delle forze di scambio(16).

LE FORZE DI SCAMBIO DI HEISENBERG

       Le forze di scambio furono trattate in modo completo e rigoroso da Heisenberg nel 1932 e 1933. L’idea di affrontare tali forze venne ad Heisenberg nel 1926, quando elaborava due articoli in cui era trattata la risonanza e la teoria a molti corpi applicata alle due specie di elio (ortoelio e paraelio). Studiando le equazioni d’onda del problema si era reso conto con chiarezza che gli elettroni quantistici sono non solo identici ma indistinguibili e quindi che nella funzione che forniva l’energia doveva essere considerata la possibilità che potessero essere scambiati l’uno con l’altro. Una sola funzione d’onda che intenda descrivere molti elettroni deve avere dentro delle proprietà di simmetria che dovrebbero venir fuori quando  gli elettroni indistinguibili permutassero le loro posizioni. Tenendo conto del Principio di esclusione di Pauli, Heisenberg riuscì a stabilire che tale funzione d’onda doveva essere antisimmetrica. Heisenberg costruì una tale equazione d’onda (che doveva avere dentro lo spin, il Principio di Pauli e l’indistinguibilità degli elettroni) che forniva una soluzione approssimata che conteneva un termine inatteso, proprio l’energia di scambio che deve rendere conto del possibile cambiamento di posizione dei due elettroni indistinguibili dell’elio. Faccio una esemplificazione che rende conto della proprietà dell’indistinguibilità tra elettroni nella fisica quantistica. Analizziamo la funzione d’onda Ψ(1,2) di due particelle, avendo denotato con 1 e 2 le coordinate contenenti lo spin delle due particelle. Scambiando posto alle due particelle (permutandole), gli argomenti della funzione d’onda subiranno una permutazione:

Ψ(1,2) => Ψ(2,1).

         Aver fatto una tale operazione non deve aver variato lo stato del sistema ma ciò significa che durante la permutazione la funzione può solo risultare moltiplicata per un fattore costante che possiamo indicare con α. Avremo quindi:

Ψ(2,1) =  α.Ψ(1,2).

         Se ritorniamo alla situazione iniziale (doppio scambio di posizione) dovremo avere che α2 = 1. Ciò vuol dire che α = ± 1 ed il valore di α non è stabilito dallo stato del sistema ma dal tipo di particelle che lo costituiscono. Poiché α = ± 1 dovranno esistere due particelle:

  • quelle per le quali la permutazione di posizione non porta alla variazione della funzione d’onda:

                                      Ψ(2,1) =  Ψ(1,2)                                        (B)

  • quelle per le quali la permutazione di posizione porta alla variazione del segno della funzione d’onda:

                                      Ψ(2,1) =  – Ψ(1,2)                                      (F)

Una cosa del genere non ha un corrispettivo in fisica classica. Si deve notare, in aggiunta a quanto detto, che questa proprietà non è vincolata al fatto che le particelle interagiscano tra loro; esse possono anche non farlo ma la legge di permutazione descritta vale allo stesso modo. Generalizzando poi le relazioni (B) ed (F) possiamo studiare il comportamento di qualsiasi insieme di particelle e per generalizzare occorre passare alla statistica quantistica che sarà quella di Bose-Einstein per le particelle indicate non a caso (B) e sarà quella di Fermi-Dirac per le particelle indicate con (F). Ed era inevitabile che si arrivasse a questo perché la fisica quantistica fa differenza tra particelle a spin intero (bosoni) e quelle a spin semintero (fermioni) come gli elettroni.

        Vediamo meglio qual è la regola di somma  dei vettori per capire qual è lo spin di un sistema di molti elettroni. Iniziamo con due elettroni. Poiché lo spin ha due posizioni possibili, o essi sono antiparalleli (hanno verso opposto) ed in tal caso lo spin totale S è zero, o essi sono paralleli (stesso verso) ed in tal caso lo spin totale è S = 1 [a margine di ciò ma utile per quanto vedremo, si può mostrare, ma non è ora il caso di farlo, che il prodotto scalare tra due vettori quantistici(17) di spin sed s2 vale:

s1.s2  = – 3/4      per S = 0

s1.s =   1/4       per S = 1

e se gli spin fossero stati classici  il prodotto scalare tra i due vettori s1.sper spin paralleli ed antiparalleli si sarebbe differenziato per il solo segno risultando uguali ad s2 = ± 1/4]. Tra i due stati caratterizzati da S = 0 ed S = 1 vi è una importante differenza: lo stato con S = 0 è unico e si chiama perciò singoletto; vi sono invece tre eventualità con S = 1 e tale stato si chiama tripletto (con gli spin diretti nello stesso verso, S = 1 si ottiene in tre modi, come mostrato nella tabella seguente):

La configurazione totale degli spin può essere simmetrica (S = 1) o antisimmetrica (S = 0)(18).

        Possiamo ora tornare al magnetismo cercando di capire il ruolo che gioca l’antisimmetria della funzione d’onda degli elettroni, evidentemente considerati con il loro spin. Riferiamoci ad un sistema di due elettroni legato solo dalla forza elettrostatica. Il fatto che si prescinda dall’interazione magnetica significa che stiamo trascurando gli spin degli elettroni. Supponiamo che ψ(r1,r2) sia la funzione d’onda che descrive il moto orbitale degli elettroni aventi coordinate vettoriali r1 ed r2 (non compaiono gli spin). Gli spin non possono essere completamente trascurati perché la funzione Ψ(1,2) deve essere antisimmetrica in quanto abbiamo a che fare con elettroni e cioè con quelli che ubbidiscono alla relazione (F) che abbiamo visto più su. Dobbiamo quindi prendere atto che la funzione d’onda totale Ψ(1,2) deve essere data dal prodotto della funzione di spin S(s1,s2) che descrive lo stato di spin degli elettroni (s1ed s2 sono le variabili di spin) e la funzione orbitale ψ(r1,r2) che descrive il loro moto orbitale:

Ψ(1,2) = S(s1,s2).ψ(r1,r2)

Abbiamo visto nella tavola precedente le condizioni di simmetria (S = 1) ed antisimmetria (S = 0) per due elettroni. Inoltre la funzione  Ψ(1,2) deve essere antisimmetrica. In conseguenza di queste due condizioni, ad una funzione di spin simmetrica deve corrispondere una funzione orbitale antisimmetrica e viceversa. Da ciò segue che:

  • quando S = 0    si ha:     ψ(r1,r2) = ψs     funzione simmetrica;
  • quando S = 1    si ha:     ψ(r1,r2) = ψa    funzione antisimmetrica.

        Le funzioni simmetriche ed antisimmetriche ψe  ψdescrivono moti orbitali differenti degli elettroni, ragione per la quale ad esse corrispondono differenti energie (ricordo che in condizioni normali la natura predilige lo stato ad energia minima). Per conoscere quale energia è minore occorre riferirsi ad un problema reale. Nella molecola d’idrogeno, ad esempio, l’energia minima corrisponde alla funzione d’onda simmetrica che descrive il moto orbitale ed infatti lo spin elettronico di tale molecola è zero. In definitiva abbiamo come risultato che la variazione dell’energia del sistema di elettroni è in relazione con la simmetria della funzione d’onda, cioè con gli spin.

        Indichiamo con Es l’energia degli elettroni corrispondente alla funzione d’onda ψe con El’energia corrispondente a ψa. Da quanto detto sappiamo che esiste una corrispondenza tra l’energia del sistema ed il suo spin totale:

Es   <=>  S = 0

 Ea   <=>  S = 1.

        A partire dallo spin degli elettroni si può costruire una espressione, nota come hamiltoniana di spin (analogo quantistico della funzione di Hamilton che rappresentava l’energia espressa per mezzo di impulsi e coordinate)ed indicata con Hs . Tale espressione sarà costruita in modo che, per S = 0,  assuma il valore Es e, per S = 1, il valore Ea. L’hamiltoniana cercata, che fornisce i valori possibili dell’energia del sistema degli elettroni (gli Es ed Ea a cui abbiamo ora accennato), è complessa ed in ogni caso non ci interessa. Si può dire invece che l’hamiltoniana di spin può assumere la forma semplificata seguente(19):

 Hs  = K – A.s1.s2

Il primo termine della somma, K, non dipende dallo spin del sistema ed è l’energia dell’interazione coulombiana (mediata rispetto ai possibili stati dello spin) che qui non interessa. Il segno del secondo membro è determinato da A che è l’integrale di scambio e che può essere positivo o negativo: quando A < 0, il secondo addendo è positivo e quando A > 0 il secondo addendo è negativo. Il segno – corrisponde al caso in cui i due spin sono paralleli e quindi ad uno stato magnetico (è quello che a noi interessa e che origina il ferromagnetismo anche se è quello che la natura non preferisce). Il segno + è relativo a spin antiparalleli e quindi ad uno stato non magnetico (ne parleremo più oltre nel paragrafo che tratterà l’antiferromagnetismo). All’intero secondo addendo della relazione precedente si dà il nome di energia di scambio. E si può qui capire il significato del termine scambio: le funzioni d’onda simmetriche ed antisimmetriche descrivono lo stato degli elettroni che cambiano di posto. Il parametro A è la misura della frequenza con cui avviene questo cambiamento. Occorre dire che A diminuisce rapidamente all’aumentare della distanza tra gli spin. Infine occorre osservare che l’interazione di scambio è isotropa e ciò vuol dire che la rotazione di tutti gli spin di uno stesso angolo non fa variare il valore dell’energia di scambio (questo risultato si ricava dall’ultima relazione scritta nella quale compare un prodotto scalare tra spin, il quale prodotto  non varia per una rotazione dei due spin di uno stesso angolo).

          Heisenberg, nel 1928, applicò questa sua teoria delle forze di scambio, ancora non completa (perché da estendersi ancora al nucleo atomico),  al difficile problema del ferromagnetismo(20) (appena un anno prima Pauli si era cimentato con il paramagnetismo(21)). Heisenberg dimostrò che il campo molecolare, che poi è quello introdotto da Weiss, può essere spiegato mediante le forze di scambio  (o integrale di scambio(22)) tra elettroni. Occorre dire però che, come accennato, il contributo maggiore a tali forze è di origine elettrostatica, poiché esse esprimono la differenza nell’energia d’interazione coulombiana dei sistemi quando gli spin sono paralleli o antiparalleli. E questa è una conseguenza del Principio di Pauli poiché nella meccanica dei quanti non si può  cambiare la direzione relativa di due spin senza che vi siano cambiamenti nella distribuzione di carica spaziale nella regione vicina. La parte magnetica interviene quindi solo a seguito degli spin degli elettroni che, a loro volta, intervengono a seguito del Principio di Pauli.

FERROMAGNETISMO, FORZE DI SCAMBIO E DOMINI. PARETI DI BLOCH

        Ricordo che Weiss aveva introdotto il concetto di dominio. L’ipotesi gli serviva per spiegare il fatto che un materiale ferromagnetico può esistere allo stato non magnetizzato. Ogni dominio ha una sua spontanea magnetizzazione che dipende solo dalla temperatura T in cui si trova. La somma dei vettori dei singoli domini provoca la magnetizzazione dell’intero materiale. Tale magnetizzazione può, anche in presenza di domini magnetizzati, risultare nulla. Vi sono almeno due modi con i quali è possibile ottenere la magnetizzazione di un campione: per estensione di un dominio a danno di un altro con lo spostamento delle pareti dei domini medesimi; per rotazione dei singoli domini (vedi figure).

Da Dekker (H è l’intensità del campo magnetico esterno)

        La prova più diretta dell’esistenza dei domini, dopo le esperienze di Barkhausen (alle quali ho accennato) e di Williams e Scockley (1949), è certamente quella delle immagini dei confini dei domini prodotte con polveri di Bitter (1931)(23). Occorre preparare molto bene la superficie di un campione di materiale; su di essa si porrà una goccia di sospensione colloidale di particelle ferromagnetiche (ad esempio magnetite); in prossimità dei confini di un dominio vi è la presenza di campi magnetici locali molto intensi che provocano l’addensamento di particelle che rendono osservabili al microscopio i confini medesimi (l’osservazione ottica è stata facilitata dalla scoperta di composti ferromagnetici trasparenti).

Domini ferromagnetici sulla superficie di una piastrina monocristallina di nichel. I confini dei domini sono resi visibili mediante la tecnica delle polveri di Bitter. La direzionedella magnetizzazione dentro un dominio si determina osservando la crescita o la concentrazione del dominio in un campo magnetico come mostrato nella figura seguente. Da Kittel.

Movimento reversibile e continuo di pareti di domini in un cristallo di ferro. I domini orientati nella direzione del campo applicato crescono a spese di altri domini. Da Kittel.

        Rivedendo la curva d’isteresi (prima magnetizzazione) sotto questa luce troviamo la figura seguente:

Da Dekker.

        L’origine dei domini discende da un principio generale della termodinamica che in un solido richiede che l’energia libera (E – TS) sia minima, come mostrarono i fisici sovietici Landau e Lifshits(25) che gettarono le basi per la teoria dei domini. Poiché in un magnete vi è un alto livello di ordine (se ci si trova distanti dalla temperatura di Curie), si può trascurare il termine contenente l’entropia S. E’ quindi l’energia E del sistema che deve essere minima. Vediamo quanto detto nella figura seguente.

Nella figura (a) vi è una situazione di magnetizzazione alla saturazione. Tolto il campo esterno, si riformano i domini come in (b) che è una fase di transizione come la (c) per arrivare alla figura (d) e poi (e) in cui si sono costituiti i domini triangolari detti di chiusura (vedi figura seguente in cui vi è un dominio di chiusura visto al microscopio con il metodo di Bitter). Da Kittel

        In presenza di un forte campo esterno abbiamo la figura (a); siamo in situazione di magnetizzazione di saturazione del campione (un solo dominio). Togliendo il campo esterno il campione perde via via la saturazione; si vengono a creare domini che vanno ad annullare quanto il campo esterno aveva modificato (figure b e c). La creazione di ogni dominio richiede energia, quella che occorre per fornirlo di pareti (come diremo tra un poco). Il processo ad un certo punto termina: si arriva ad una situazione di equilibrio in cui l’energia E del campione è minima e non si dispone più di energia per creare pareti (figura e). Siamo nella situazione di energia del campo magnetico nulla. In generale scopriamo (Heisenberg 1928) che lo stato stabile ad energia minima, nelle condizioni ferromagnetiche di un dato numero di atomi vicini e delle loro distanze, deve corrispondere al parallelismo (simmetria) di almeno una parte degli spin e cioè ad una magnetizzazione spontanea. Ci si può chiedere in quanti domini può dividersi un materiale magnetizzato quando abbiamo tolto il campo H.  Dal punto di vista dell’energia del campo magnetico tanto maggiore è il numero dei domini tanto meglio poiché con l’aumento del numero diminuisce la dimensione di essi ed il campo magnetico diminuisce. La domanda seguente è relativa a cosa impedisce questa minimizzazione dei domini.  Ma qui torniamo a quanto discutevo poco fa sul fatto che l’esistenza di un dominio è garantita dalle sue pareti e che tali pareti richiedono energia per essere innalzate. Occorre aggiungere una osservazione: tutto, anche la dimensione dei domini (che può variare tra 10-2 e 10-6 cm3), dipende naturalmente dalla forma e dalle dimensioni del cristallo in considerazione.

        Nel  paragrafo precedente avevo accennato al fatto che l’interazione di scambio è isotropa. Ciò comporta come conseguenza che l’orientazione del momento magnetico di un materiale ferromagnetico è indeterminata. Se disponiamo il materiale ferromagnetico in un campo esterno H è evidente che è energeticamente vantaggioso che il momento magnetico si allinei con H. E’ utile però cercare di capire quali cause intrinseche al materiale determinino l’orientazione del momento magnetico in un cristallo. Intanto occorre considerare le forze magnetiche (dipolo-dipolo) che agiscono tra i magnetini elementari. Vi sono quindi i momenti magnetici di spin degli atomi che formano il momento magnetico totale del materiale ferromagnetico; questi momenti magnetici di spin interagiscono con le correnti elettroniche (interazione spin-orbita) che risultano condizionate dal moto orbitale e dalla loro orientazione nello spazio. Il risultato è che alcune orientazioni degli spin sono energeticamente più vantaggiose di altre. Ebbene, l’energia che dipende dall’orientazione nello spazio, sia come conseguenza delle interazioni dipolo-dipolo atomico sia dai momenti magnetici di spin, viene chiamata energia d’anisotropia (è l’energia che dirige la magnetizzazione lungo determinati assi cristallografici e che, va detto, risulta molto minore dell’energia di scambio)(24). In definitiva l’energia d’anisotropia è determinata dall’interazione magnetica dipolo-dipolo e da quella spin-orbita.

        E’ a questo punto possibile passare a dare un cenno all’energia delle pareti dei domini. Esse furono studiate da Bloch in una memoria del 1932(26) (la cosa sarà aggiornata a  partire dagli anni Quaranta del Novecento, quando W.F. Brown introdusse una teoria delle strutture magnetiche consistente nel sistematizzare i calcoli fatti da Bloch, operazione già iniziata ancora da Landau e  Lifshitz, sulla struttura interna di una parete ed infine da L. Néel). Bloch si mosse su una strada aperta da Heisenberg che aveva introdotto il campo molecolare fittizio che agisce su un momento magnetico. Tale campo traduce le interazioni tra questo momento ed i momenti degli atomi vicini (azioni a corto raggio). Una parete di Bloch è lo strato di transizione che separa domini adiacenti magnetizzati in direzioni diverse. Quando si ha a che fare con un cambiamento di direzione di spin fra domini, esso non avviene con un salto discontinuo su un unico piano di atomi, ma avviene con gradualità coinvolgendo molti piani atomici (vedi figura seguente). Anche qui il tutto avviene rendendo minima l’energia. Infatti l’energia di scambio è minore quando il cambiamento è distribuito su molti spin.

Per costruire la parete di un dominio il momento magnetico ruota rimanendo parallelo al piano che separa i domini. Lontano dalla parete del dominio i momenti magnetici sono disposti lungo l’asse di anisotropia, antiparalleli tra loro. Figura tratta da Kittel.

        Ripeto con maggiori dettagli, dopo aver ripetuto che spin antiparalleli vicini comportano la massimizzazione dell’energia di scambio (con la conseguenza che questa posizione non è naturalmente favorita). Lo studio del problema mostra che la transizione da una direzione del momento magnetico a quella opposta si realizza per  distanze dell’ordine di quelle interatomiche. In tal caso, invece di una frontiera geometricamente nitida tra i domini, si forma uno strato di transizione di spessore finito che è la parete del dominio. La sua struttura è tale che si può passare da un dominio ad un altro con la minore perdita di energia (quanto maggiore è l’energia di scambio, tanto più spessa è la parete del dominio; quanto maggiore è l’energia di anisotropia, tanto più sottile è la parete. E dalle due cose messe insieme si capisce che la parete avrebbe spessore senza limite se non lo limitasse l’energia di anisotropia). Se si conosce la distribuzione del momento magnetico nel cristallo si ha la possibilità di calcolare l’energia che occorre perché nasca la parete di un dominio. Una volta calcolata questa energia, si può non pensare più alla struttura della parete del dominio tornando a considerarla come una frontiera precisa.

        Si può allora comprendere cos’è che impedisce il frazionamento dei materiali ferromagnetici in domini troppo piccoli: l’apparizione di nuovi domini aumenta l’energia delle loro frontiere e limita il frazionamento. Le dimensioni di un dominio sono quindi date da condizioni di minimo per l’energia e tali condizioni furono per la prima volta determinate nella memoria citata di Landau e Lifshitz ed anche dall’altro fisico sovietico, Yakov Il’ich Frénkel(27) (che, già negli anni Venti, si era occupato della teoria molecolare degli stati condensati introducendo la nozione di difetti (o vacanze) di Frénkel). Landau e Lifshitz stabilirono anche (come già accennato) che le suddette dimensioni dipendono dalle caratteristiche del materiale ferromagnetico e crescono con l’aumentare delle dimensioni del campione.

        Nel 1931 intervenne ancora Bloch che si occupò di magnetizzazione a temperature molto basse(28). Se ci si trova con un materiale ferromagnetico allo zero assoluto, si avrà il massimo ordine quando tutti i momenti magnetici atomici saranno paralleli. Elevando la temperatura si rompe quest’ordine e quando uno dei momenti devia dalla sua posizione, la perturbazione magnetica agisce sugli atomi vicini, comunicandosi via via agli altri. Si ha a che fare con un meccanismo simile alla propagazione nei solidi delle perturbazioni elastiche che descrivono l’agitazione termica e che propagano fononi. Nel nostro caso, la propagazione delle perturbazioni magnetiche si chiamano onde di spin e propagano magnoni (dei bosoni) dotati di energia ed impulso (e verificati sperimentalmente mediante l’urto con essi di neutroni).

        Approfitto per dare il solo titolo di un possibile campo in cui indagare e studiare. Quanto abbiamo visto in modo semplice sulla struttura periodica dei domini è solo un esempio di un fenomeno più generale e cioè l’alterazione spontanea della simmetria: ad un materiale ferromagnetico omogeneo e con grande simmetria conviene, da un punto di vista energetico, ridurre la sua simmetria trasformandosi in una struttura periodica.

       Una considerazione è indispensabile. Le forze di scambio di Heisenberg, non solo hanno spiegato moltissime questioni che erano in sospeso ma, con l’introduzione di un campo che agisce localmente, permisero la previsione e la scoperta di nuove specie magnetiche. Nella teoria di Weiss del ferromagnetismo il campo molecolare era positivo e parallelo alla risultante dei momenti magnetici degli atomi vicini. Se si riflette un attimo, non vi è alcun motivo per il quale il campo molecolare debba essere positivo e le forze di scambio danno naturalmente la possibilità di campo molecolare negativo. Come vedremo, con l’introduzione del campo molecolare negativo, Néel (1932) ed indipendentemente Landau (1933)faranno la previsione dell’antiferromagnetismo

IL PARAMAGNETISMO DI PAULI

        Torniamo ora a rivedere alcune cose relative al paramagnetismo, lasciando da parte il ferromagnetismo. Si tratta di lavori importanti fatti successivamente da Pauli e da Landau.

        Nel 1927 Pauli cambiò approccio al problema del paramagnetismo e nella sua memoria, Sulla degenerazione del gas e il paramagnetismo(29), estese la statistica quantistica del gas perfetto monoatomico di Fermi al caso in cui gli atomi del gas possiedano spin e alla magnetizzazione di un tale gas. In questo lavoro, Pauli considerava appunto gli elettroni di conduzione all’interno di un metallo come un gas perfetto degenere. Nel settembre 1927, in occasione del Congresso di Como, Arnold Sommerfeld presentò una relazione in cui riusciva a spiegare per la prima volta il contributo al calore specifico da parte degli elettroni di un metallo utilizzando la nuova statistica(30). In pratica si tratta di passare dai livelli energetici atomici a livelli energetici dell’intero cristallo ed applicare anche qui la possibilità di occupazione di ognuno di questi livelli per due soli elettroni se hanno spin opposti. [L’intera trattazione dell’argomento la si può trovare nell’articolo: Teoria dell’elettrone libero e delle bande di energia. Per approfondire poi il cammino che dai lavori di Pauli e Sommerfeld andò verso il raggiungimento di basse temperature si può vedere negli articoli sulle basse temperature che pubblicherò più oltre].

        Il ragionamento di Pauli e Sommerfeld era il seguente. Un elettrone in un metallo o in un solido qualunque è soggetto al campo generato da tutti i nuclei e gli elettroni che lo costituiscono. Tra gli elettroni si dovranno considerare quelli responsabili dei legami e quelli di valenza considerati liberi responsabili cioè, in determinate condizioni, della conduzione. Questi ultimi elettroni liberi si devono trovare in una zona a potenziale costante dentro il metallo e devono avere un’energia potenziale minore di quella posseduta da un elettrone all’esterno del metallo (nella zona chiamata di vuoto).


        Riferendoci alla figura, vi è una buca di potenziale dentro la quale vi sono tanti livelli energetici su cui si trovano elettroni liberi in accordo con il principio di Pauli. Oltre ai livelli pieni di elettroni e cioè quelli fino ad EF (livello di Fermi) vi saranno altri livelli, in figura non riportati, che si trovano sopra al livello di Fermi, ed occupanti l’intervallo energetico Φ. La quantità ES rappresenta la differenza di energia tra un elettrone in riposo dentro il metallo ed un altro in riposo fuori di esso, al livello di vuoto. Alla temperatura T = 0°K il massimo livello occupato è quello di Fermi. Al crescere della temperatura gli elettroni andranno su livelli superiori nell’intervallo energetico Φ (con Φ = ES – EF). Il comportamento degli elettroni è come quello di un gas. Per avere, ad esempio, conduzione occorre applicare al metallo una differenza di potenziale che provoca, in questo modello, l’abbassamento di una parete della buca di potenziale e quindi la fuoriuscita degli elettroni dalla parte dove la barriera si è abbassata. Il modello è semplice ed intuitivo e si sbarazza della grande complicazione che sarebbe il mantenere l’intero cristallo e valutarne tutte le interazioni.

        In definitiva, fino all’intervento di Pauli, avevamo trattato i fenomeni del paramagnetismo riferendoci essenzialmente ad atomi, molecole o ioni presupponendo poi che queste elaborazioni potessero avere valore per un insieme di tali atomi e molecole organizzati in un metallo. Pauli intuì che era possibile trattare un metallo come se si trattasse di una gran quantità di ioni sistemati nei reticoli cristallini dentro i quali vi fosse un gas di elettroni. Vale anche qui quanto detto per la conduzione: ci si può sbarazzare degli ioni pensando gli elettroni come un gas in una scatola (buca di potenziale). Non si deve tener conto di forze reciproche (elettrone-elettrone, ione-elettrone) perché esse sono già compensate tra loro (la repulsione tra elettroni è compensata dalla loro attrazione da parte degli ioni). Abbiamo, come già visto, degli elettroni liberi che, in linea di massima, dovrebbero rendere il metallo un paramagnete poiché gli elettroni sono un numero enorme (dell’ordine del numero di Avogadro) di magnetini elementari disordinati in un contenitore. Il momento magnetico di ogni elettrone è grande perché, come visto, equivale ad un magnetone di Bohr [anche gli ioni, liberi degli elettroni di conduzione, in quasi tutti i metalli presentano l’ultimo strato elettronico come quello dei gas inerti che sono paramagnetici. In ogni caso l’effetto degli ioni deve risultare trascurabile rispetto a quello degli elettroni]. Si tratta di capire qual è la differenza tra un gas di elettroni ed un gas classico. A questo punto la risposta è facile perché gli elettroni vanno trattati con la fisica dei quanti ed in particolare con la statistica di Fermi-Dirac.

        A questo punto occorre considerare varie variabili fisiche che ci informano di quando un gas può essere trattato come classico e quando come quantistico. Dovremo considerare temperatura e massa per capire. Supponiamo di avere un gas di N particelle (nel nostro caso elettroni) per unità di volume, ciascuna con massa ma, e supponiamo che il gas sia alla temperatura T. La distanza media d tra le particelle del gas è data da d = N-⅓ e non dipende dalla temperatura. La fisica classica dava per l’energia media di ogni particella il valore ē = 3/2 kT da cui si ricavava l’impulso medio p = (3kTma)⅓ . Prendiamo ora in considerazione il principio di indeterminazione

             Δpx.Δx ≥ h/2π         Δpy.Δy ≥ h/2π         Δpz.Δz ≥ h/2π              

ed osserviamo che, se l’indeterminazione di coordinate ed impulsi è piccola rispetto al loro valore medio, possiamo trattare la situazione come classica. Ma se non si verificano queste condizioni occorre applicare la fisica quantistica.

        Proviamo a fare qualche conto. La distanza media tra le particelle d indica con quale precisione si può fissare una delle coordinate (ad esempio x) di una particella isolata e cioè qual è l’indeterminazione. Risulta:

 Δx ~ d = N

Di conseguenza l’impulso di ogni particella, sempre per il principio di Heisenberg ora ricordato, avrà un’indeterminazione non minore di h/πd e cioè di  hN. L’impulso medio p diminuisce al diminuire della temperatura e per una data temperatura che chiamiamo Tquantistica data da Tquantistica = h2N/k.π2ma, tale impulso risulterà dell’ordine di grandezza di Δp. Siamo ora in grado di definire gli ambiti di gas classico e gas quantistico:

quando T >> Tquantistica il gas può considerarsi calssico; per T < Tquantistica il gas deve essere considerato quantistico.

        Quando  T < Tquantistica il gas viene detto degenere e sarà di Fermi se si ha a che fare con fermioni e di Bose se si ha a che fare con bosoni.

        Se ci calcoliamo Tquantistica = h2N/k.π2ma per un gas di magnetini elementari, ad esempio nell’ossigeno, troviamo che Tquantistica ~ 10-3 °K escopriamo che nelle sostanze paramagnetiche (non metalliche) liquide e solide, a basse temperature,  esercita il suo influsso l’azione tra magnetini in modo tale che non è più trattabile il gas come gas di magnetini non interagenti. Ma quando trattiamo un gas elettronico in un metallo risulta una cosa ben diversa e cioè Tquantistica = 105 °K (un’enormità). Ciò vuol dire che in un metallo un gas di elettroni a qualunque temperatura è quantistico e, avendo a che fare con elettroni, sarà un gas di Fermi. Prima dfi andare allora oltre, conviene ripassare la statistica di Fermi-Dirac nel modo con cui era stata trattata nell’articolo omonimo.

LA STATISTICA DI FERMI-DIRAC

        Inizio con il riportare la relazione di Fermi-Dirac, altrove ricavata, che ci fornisce le possibili distribuzioni di una energia (totale) E fra un insieme di N elettroni (identici e soggetti al principio di Pauli); essa è:

con: il primo membro  =   numero di elettroni che possiedono energia Eiz(Ei) =  numero di stati (cellette) del sistema a cui compete energia Ei, o meglio, densità degli stati per unità di energia e di volume; C = parametro da determinarsi imponendo che la somma di tutte le particelle sia costante ed uguale ad NK = costante di Boltzmann; T =  temperatura (assoluta) a cui si trova il sistema.

      La relazione scritta ci dice che il numero n(Ei) di elettroni, che ha energia E, dipende dal  numero z (Eidi stati a cui compete energia Ei  secondo  il termine moltiplicativo di z(Ei al secondo membro.

      In altre parole, potendosi interpretare n(Ei) come il numero degli stati (ad energia Ei) che possono essere occupati e z(Ei) come la probabilità che uno stato (ad energia Ei) sia occupato [e quindi: come peso statistico da dare ad ognuna delle possibili distribuzioni che ci sono date dalla relazione chiamata (7′)], la (7′) ci dice che il numero di stati (ad energia Ei) che possono essere occupati è proporzionale al peso statistico dello stato (ad energia Ei) moltiplicato per il fattore moltiplicativo di z(Ei)

        Fissata ora una energia di riferimento chiamata EF  (energia di Fermi), per il parametro C si trova:

                              C  =  e EF/kT    =>   1/C   =  e – EF/kT

mentre la (7′) si può scrivere (avendo eliminato per comodità gli indici i)

        Ricordando che la probabilità  è definita come il numero dei casi favorevoli diviso per il numero dei casi possibili, possiamo dire che il rapporto n(E)/z(E) rappresenta la probabilità di avere elettroni con energia   EF. Possiamo indicare questa probabilità con il simbolo fF(E) e chiamarla funzione di distribuzione di Fermi:

        Per il numero di elettroni (indistinguibili e soggetti al principio di Pauli) con energia   EF (con EF= energia di riferimento) si ha allora:

con: n(E) =   numero degli stati occupati; z(E)  =   numero degli stati a disposizione o, meglio, densità degli stati (per unità di energia e di volume); si può dimostrare che z(E) = g.E1/2  essendo g una costante; fF(E) =  probabilità che uno stato sia occupato. La (9) dice che il numero n(E) di elettroni con energia   EF dipende dal numero di stati che  hanno energia E (dalla densità degli stati con energia E), decresce esponenzialmente all’aumentare dell’energia e tende a ridursi alla metà quando E assume valori sempre più vicini ad EF (E => EF ) ; oppure, in altre parole, il numero degli stati occupati è dato dal prodotto della densità degli stati per la probabilità che uno stato sia occupato.

     Vediamo ora i grafici delle relazioni scritte.

     Cominciamo con lo studiare il grafico della (8). Poiché la temperatura risulta, in questo caso, un parametro molto importante, cominciamo con il distinguere due casi:

                       1)  T = 0

                       2)   0

e studiamo la (8) prima nel caso in cui risulti T = 0 e quindi nel caso risulti  0.

     Sia poi, che risulti T = 0  o T  0, si possono avere diverse eventualità per i valori assunti dall’ energia, cioè:

  1)  può risultare T = 0 e   o      a) E < EF;     o     b) E > EF;

  2)  può risultare  0 e   o      a)  E < EF;    o     b) E = EF;    o    c) E > EF.

Studiamo allora i vari casi che si possono presentare. Si ha:

1 a)     T = 0;       E < EF;   =>     E – EF < 0

Si ha:

e questo vuol dire che a energie E < EF  la fF(E)  si mantiene sempre uguale ad 1.

1 b)      T = 0;      E > EF     =>     E – EF > 0

Si ha:

e questo vuol dire che a energia E > EF  la  fB(E) si mantiene sempre uguale a 0.

     Il grafico della funzione di distribuzione di Fermi fF (E), nell’eventualità che risulti T = 0, è allora fatto:

Fig. 1

        Che significa un grafico come quello ora disegnato? Ricordiamo che fF(E) rappresenta la probabilità  che uno stato sia occupato e che avere una probabilità 1 vuol dire avere certezza dell’evento mentre avere probabilità 0 vuol dire impossibilità dell’evento; allora il grafico rappresenta la situazione descritta nel seguito.

         Allo zero assoluto (T = 0) tutti i possibili stati al di sotto dell’energia di Fermi (EF) sono occupati, mentre tutti i possibili stati al di sopra  di EF sono vuoti (tra parentesi diamo una prima definizione dell’energia EF di Fermi: è l’energia che compete al più alto livello energetico occupato quando ci troviamo allo zero assoluto; e poiché il più alto livello occupato dipende dal numero di elettroni che si hanno per unità di volume, possiamo dire che la posizione del livello di Fermi dipende dal numero di elettroni per unità di volume che si hanno).

      Si osservi che per E = EF la fF(E) presenta una discontinuità passando dal valore 0 al valore 1.

      Continuiamo allora a studiare i casi che abbiamo elencato.

2 a)    0;      kT  <<  EF     =>     E << E=>       E – EF << 0

Si ha che in base alle posizioni iniziali, -.(E  – EF)/kT risulta piccolissimo potendosi quindi trascurare rispetto all’uno del denominatore:

e questo vuol dire che ad energia E << EFla fF(E) ha lo stesso andamento della fF(E) a T = 0.

2 b)   0;     kT qualunque,        E = EF       =>         E – EF  = 0

Si ha:

e questo vuoi dire che per E = EF  la  fF(E) si è ridotta alla metà rispetto al valore che aveva a T = 0.

2 c)    0;       kT >> EF    =>     E > EF=>    E – EF > 0

Si ha che, in base alle posizioni iniziali, si  può trascurare l’uno al denominatore rispetto ad -.(E – EF)/kT che risulta grande:

e questo vuoi dire che la fF(E) assume un’espressione uguale a quella della fB(E) di Boltzmann quando E > EF.

      Il grafico che ne risulta è il seguente:

Fig. 2

     Si può vedere che quando E << EF  il grafico è praticamente lo stesso che si otteneva a T = 0. Quindi all’aumentare della temperatura T (o dell’energia E) solo gli elettroni che hanno una energia pari alla EF di Fermi meno alcuni kT acquistano energia e vanno a occupare stati liberi ad energia più alta. Dal livello EF di Fermi in poi (al crescere di E) sono  pochi gli elettroni e tanti gli stati, quindi la situazione statistica è analoga a quella di un gas, analoga cioè a quella trattata da Maxwell-Boltzmann; si parla allora  (quando cioè E >EF) di una coda di Boltzmann. Ancora qualcosa c’è da dire a proposito del livello EF di Fermi. Con i no stri conti abbiamo visto che per E = EF si ha fF(E) = 1/2 . Ricordando allora il significato di  fF(E)  possiamo dare quest’altra definizione del livello  EF  di Fermi: è il livello che  a T = 0 ha una probabilità del 50% di essere occupato.

     Dopo aver visto l’andamento della fF(E) sia  a T = 0 sia a  0, vediamo qual è l’andamento della z(E) densità degli stati; si ha:

                                               z(E) = g . E½                                 (10)

ricordando quanto sappiamo di geometria analitica, l’espressione scritta rappresenta  un arco di parabola con vertice l’origine degli assi e con asse la direzione positiva dell’asse delle ascisse (nel nostro caso E):

Fig. 3

Rimane ora da studiare solo l’andamento della relazione (9) che è il prodotto tra la fF(E) e la z(E):

Anche qui occorrerà distinguere nei vari casi che abbiamo già elencato quando abbiamo discusso la fF(E):

1 a)    T = 0;         E < EF       =>       E – EF <  0

Si ha:

e questo vuol dire che a energia E < EF la n(E) ha  lo stesso andamento visto per la z(E).

1 b)    T = 0;         E > EF       =>       E – EF >  0

Si ha:

e questo vuol dire che a energie E >EF, la n(E) ha  lo stesso andamento visto per la fF(E)  quando, appunto, si aveva E > EF.

     II grafico del numero degli stati occupati n(E), in funzione dell’energia E, nell’eventualità che risulti T = 0, è allora fatto:

Fig. 4

     Cerchiamo di capire il significato di un grafico che rappresenta il numero relativo di elettroni nello stato più stabile (T = 0) in funzione dell’energia.

     Per ogni unità di energia (asse delle ascisse) si ha un minor numero di elettroni (asse delle ordinate) quando l’energia è piccola (≈ 0) del numero di elettroni che si ha quando l’energia è grande (≈ EF) . Quando poi l’energia supera EF  allora non si ha più nessun elettrone negli stati liberi ad energia superiore, appunto, ad EF. Questo fatto si verifica perché a basse energie gli intervalli tra livelli energetici sono più grandi degli intervalli tra  livelli a basse energie:

Fig. 5

      Quindi i livelli energetici sono più distanziati a basse energie di quanto lo siano ad alte energie; questo fatto comporta che più elettroni per unità di energia si possono sistemare ad energia più alta.                      

      Tutti i livelli energetici sono così occupati da tutti gli elettroni che si hanno a disposizione, fino al livello EF di Fermi. Tutti i livelli fino ad EF sono occupati e gli elettroni risultano ben impacchettati: nessun elettrone ha una energia, neppure di poco, superiore a quanto gli è necessaria per occupa re i successivi livelli energetici (in accordo con il principio di Pauli e con l’indistinguibilità degli elettroni).

     Continuiamo allora a studiare i possibili casi che si possono verificare.

2 a)     0;         kT << EF       =>        E << EF        =>        E – EF <<  0

Si ha che, in base alle posizioni iniziali,  (E-EF)/kT risulta piccolissimo potendosi quindi trascurare rispetto all’uno al denominatore:

e ciò vuol dire che ad energia E << EFla n(E) ha lo stesso andamento della n(E) a T = 0.

2 b)     0;             kT qualunque;         E  =  EF       =>          E – EF   =  0

Si ha:

e questo vuol dire che, quando E = EF , la n(E) si è ridotta alla metà rispetto al valore che aveva a T = 0.

2 c)       0;      kT   >>   EF      =>     E  >>  EF       =>       E – EF   >>  0

Si ha che, in base alle posizioni iniziali, si può trascurare l’uno al denominatore rispetto ad -.(E-EF)/kT che risulta grande:

e questo vuol dire che, quando E >> EF, la n(E) assume una espressione uguale a quella che avevamo trovato per la n(E) di Boltzmann.

     Il grafico che ne risulta è il seguente:

Fig. 6

     Si può subito osservare che quando E  <<  EF  il grafico è praticamente lo stesso che si otteneva a T = 0.

     All’aumentare della temperatura T (o dell’energia E) solo gli elettroni che hanno una energia pari alla EF di Fermi meno alcuni kT acquistano energia e vanno ad occupare stati liberi ad energia più alta.

     Dal livello di Fermi (EF) per valori dell’energia (E) crescenti sono pochi gli elettroni,  mentre gli stati sono praticamente infiniti; la situazione statistica è allora la stessa di un gas di molecole, analoga cioè a quella trattata da Maxwell-Boltzmann; conseguenza di ciò è che la parte di grafico che  si sviluppa da EF  verso le E crescenti è chiamata coda di Boltzmann.

     Un’ultima cosa, estremamente importante, da evidenziare è che allo zero assoluto (T = 0) l’energia posseduta da un insieme qualsivoglia di elettroni non si annulla (non potendovi essere più di un elettrone per cella è evidente che la cella a cui compete energia E = 0 potrà essere occupata da un solo elettrone; tutti gli altri elettroni si sistemeranno in celle ad energia superiore).

 CONTINUIAMO CON PAULI

        Iniziamo con il trovare il comportamento di un gas di elettroni allo zero assoluto, T = 0 °K. Se consideriamo un elettrone libero esso sarà caratterizzato dal suo impulso p e dal suo spin sz= ± ½. In assenza di campo magnetico, l’energia ε dell’elettrone dipenderà dal solo impulso p:

             ε = p2/2me oppure, esplicitando,   p2x + p2y + p2z = 2meε            (11)

        Ci troviamo in uno spazio delle fasi (degli impulsi e delle coordinate)(31) in cui l’impulso in funzione dell’energia è rappresentato da una sfera di raggio (2meε)½. Si può poi determinare che la densità degli stati z(ε) fornisce il grafico della figura 3 del paragrafo precedente essendo data dall’equazione (10) dello stesso paragrafo(32). Il comportamento del gas di elettroni a differenti temperature si ricava con facilità dalla figura 4 del paragrafo precedente osservando solo che ora non abbiamo più una scatola chiusa dal livello di Fermi εF ma una sfera di elettroni chiusa dalla superficie di Fermi. A T = 0 tutti gli elettroni saranno nella sfera e la massima energia che loro compete, l’energia di Fermi (la superficie della sfera), si potrà ricavare integrando la densità degli stati da zero fino ad ε . Si ha:

                                                                       (12)

dove Ne rappresenta il numero di elettroni del metallo. C’è da osservare che tale energia coincide con la grandezza della temperatura quantistica, a meno della costante di Boltzmann:

                                               ε= kTquantistica

        Allo zero assoluto (T = 0) siamo come nel caso della scatola di elettroni. In seguito al principio di Pauli, non cessa il moto delle particelle e gli elettroni hanno un massimo di energia nella superficie di Fermi. A T ≠ 0 , ma molto inferiore alla temperatura quantistica, la distribuzione delle energie degli elettroni cambia in modo insignificante, come illustrato nella figura 6.

        Fatta questa lunga ma indispensabile premessa, applichiamo un campo esterno H ≠ 0. In questa situazione le energie degli elettroni con spin orientati come il campo e quelle degli elettroni con spin orientati in verso opposto al campo, differenzieranno i loro comportamenti. Indichiamo ora con una freccia la grandezza che ci interessa. Quando la freccia sarà rivolta verso l’alto, allora avrà lo stesso verso di H, quando sarà diretta verso il basso, avrà verso opposto ad H. Abbiamo per l’energia ε le seguenti due espressioni:

                                                                                   (13)

dove μ vale (per n = 1):              

come abbiamo già trovato nella (4) del secondo paragrafo.

        Vediamo come si rappresenta questa situazione rispetto alla figura 4 che non teneva conto del campo H che ora abbiamo fatto agire sugli spin.

Fig. 7. Distribuzione delle particelle di gas di Fermi riguardo le energie in presenza di campo H alla temperatura T = 0. Le densità degli stati degli elettroni con momenti magnetici orientati come o contro il campo sono rappresentati con la stessa convenzione usata per le energie. L’area sottesa da ogni curva è uguale al numero di elettroni corrispondenti.

        Va notato che i livelli riempiti di elettroni con spin orientati in un modo sono gli stessi di quelli orientati in verso opposto (l’area tratteggiata è uguale alla quadrettata). E le energie degli elettroni, diretti in un modo e nell’altro, risultano ambedue minori dell’energia di Fermi nel campo magnetico HεFH. Se il numero dei livelli fossero differenti, alcuni elettroni si sposterebbero allo stato con spin opposto e l’energia del sistema diminuirebbe. Comunque il numero di elettroni (non livelli ma elettroni) con lo spin diretto secondo il campo è maggiore di quello con spin opposto, si ha cioè:

e ciò discende dal fatto che 

 risulta  minore di 

. A conseguenza di ciò  il gas di elettroni risulta magnetizzato secondo il campo ed è paramagnetico.

        Per calcolare il momento magnetico del gas di elettroni è necessario trovare la differenza del numero di elettroni in una condizione ed in quella opposta:

Un facile calcolo che comunque non interessa porta a:

e ad una suscettività magnetica pari a:

                                                                                 (14)

        Siamo arrivati alla conclusione perché il paramagnetismo di un gas degenere è chiamato paramagnetismo di Pauli.

IL DIAMAGNETISMO DI LANDAU

        Alla luce del gas di elettroni introdotto da Pauli indaghiamo il fenomeno del diamagnetismo. Il principio di fondo su cui si basa il fenomeno è facilmente intuibile se si ricorda la legge di Lenz che conosciamo dall’elettromagnetismo. Quando una corrente circola in una spira ad essa si associa un campo magnetico. Se si tenta di cambiare il flusso magnetico concatenato con la spira applicando un campo esterno H, si induce nel circuito una corrente in una direzione tale da provocare un campo magnetico che va a compensare il campo H. Per una resistenza nulla del circuito la corrente indotta persisterà finché esiste il campo inducente H. Questo fenomeno si verifica anche negli elettroni orbitanti di un dato materiale posto in un campo esterno. Da qualche parte avevo anche detto che si trattava di un fenomeno generale della natura ed il ragionamento alla base di questa affermazione è, oltre a quanto detto, il seguente.

         Per farlo ritorniamo a discutere il diamagnetismo in modo più approfondito.

        Un campo magnetico origina in qualunque atomo e/o molecola un momento magnetico proporzionale al suo valore. Il momento magnetico nasce perché sugli elettroni in moto agisce la componente magnetica della Forza di Lorentz che vale (nel caso semplice di campo magnetico perpendicolare al piano dell’orbita dell’elettrone):

                                                 F = evH.                                (15)

        Oggi sappiamo che la suscettività diamagnetica può essere trattata in modo rigoroso solo con la fisica dei quanti ma è possibile un approccio classico che provo a ricostruire. Con esso si può vedere come nasce l’effetto diamagnetico, calcolare la suscettività magnetica e, solo alla fine, andare a capire dove la trattazione non è rigorosa.

        La prima osservazione da fare riguarda il valore della suscettività magnetica. Essa è una grandezza molto ma molto piccola. Se un atomo ha un suo momento magnetico, la variazione di esso dovuta al diamagnetismo è talmente piccola che può essere trascurata. Quindi, per uno studio del diamagnetismo è utile riferirsi ad atomi che non abbiano momenti magnetici propri (paramagnetici) e ciò si ha con atomi che hanno due elettroni in una stessa orbita e ruotanti in verso opposto. In tal caso la somma dei due momenti magnetici è zero.

        Sistemiamo tale atomo in un campo esterno H con le orbite elettroniche perpendicolari ad esso. Supponiamo ancora che il campo H sia piccolo in modo da rendere la forza di Lorentz data dalla (15), trascurabile rispetto alle sollecitazioni degli elettroni da parte del nucleo.

        Chiamiamo con v0 la velocità dell’elettrone nella sua orbita di raggio R (che supponiamo stabile) quando H = 0 e v la sua velocità quando H ≠ 0. Uguagliando la forza centripeta alla proiezione radiale della forza che agisce sull’elettrone (FR), ci calcoliamo la variazione Δv provocata dal campo H. Si ha:

– per H = 0:                                                    

– per H ≠ 0:

                                                                                    (16)

 Facendo i conti e limitandosi al termine lineare rispetto ad H, si trova:

Da sottolineare che il segno di Δv è determinato solo da H ≠ 0 in quanto per H = 0 non vi è dipendenza dal verso di rotazione. Di passaggio osservo che la quantità:

è nota come la precessione di Larmor (che abbiamo già incontrato nel precedente articolo) ed ha le dimensioni di una frequenza che si indica con ωL. Per influsso della forza di Lorentz l’elettrone realizza un movimento rotatorio intorno al campo magnetico e tale moto si aggiunge al moto dell’elettrone per H = 0. Quanto ricavato è nel caso particolare di perpendicolarità tra H e piano dell’orbita ma quanto detto vale nel caso più generale quello descritto dal Teorema di Larmor:

Supponiamo che si conosca il moto degli elettroni in assenza di campo magnetico esterno; il moto in un campo magnetico debole H sarà lo stesso che il moto senza campo con una rotazione addizionale intorno alla direzione di H con una velocità angolare uguale ad ωL.

Il vettore momento angolare Ma precessa intorno ad H con la frequenza di Larmor ωL a causa della coppia esercitata dal campo magnetico sul momento magnetico dipolare associato ad Ma. Da Dekker.

        Quando H ≠ 0 ambedue gli elettroni acquisiscono un momento della quantità di moto aggiuntivo  che vale me.Δv.R ed è diretto nella direzione di H. In tal modo è l’intero atomo che acquista un momento della quantità di moto diverso da zero ed uguale alla somma dei momenti degli elettroni. Ed esistendo un momento della quantità di moto, l’atomo acquista anche un momento magnetico Ma. Da che parte è diretto ? Il momento della quantità di moto ha il verso del campo; la relazione giromagnetica (rapporto tra momento magnetico e meccanico; vedi il secondo paragrafo di questo lavoro) risulta negativa poiché, non si dimentichi, la carica e dell’elettrone è negativa. Mettendo insieme tutto ciò la conseguenza è che il momento magnetico atomico Ma è diretto in verso opposto al campo H:

        Trasformiamo questa espressione classica in quantistica. Un elettrone quantistico non percorre orbite circolari di raggio R (R2 = x2 + y2) ma si muove, senza che sia possibile conoscere la sua traiettoria (Indeterminazione di Heisenberg), in una sfera di raggio r (r2 = x2 + y2 + z2). Poiché poi tutte le direzioni in un atomo sferico sono equivalenti, si ha che R2 = ⅔.r. Indichiamo provvisoriamente con un subindice posto ad il numero dell’elettrone nell’atomo e scriviamo l’espressione corretta in fisica dei quanti (l’espressione è generale e vale per atomi con qualunque Z; noi abbiamo invece discusso un atomo a Z = 2):

                                                                                (17)

Se si hanno N atomi per unità di volume nel campione della nostra sostanza la suscettività diamagnetica risulta essere:

                                                                                (18)

Sistemiamo ulteriormente per togliere l’espressione “provvisoriamente” usata qualche riga più su. L’espressione è corretta se intendiamo con ri2 la media quanto meccanica che è ora inutile andare a fare. Si può semplificare in modo corretto sostituendo ad rila quantità a2, dove a è la dimensione dell’atomo.

        Per ritornare ora ad una affermazione fatta all’inizio di questo paragrafo, c’è da dire che la suscettività magnetica di una sostanza è somma delle suscettività diamagnetica e paramagnetica:

χ = χpara + χdia

(dove il secondo termine è negativo) e che se una sostanza è para o diamagnetica dipende dall’eventualità che i suoi atomi originino o no un momento magnetico. Se così è allora, pur restando sempre il diamagnetismo, il paramagnetismo è di gran lunga maggiore tanto che nella somma data più su il diamagnetismo è totalmente trascurabile. Per fornire un dato da cui si possa capire la differenza tra le due suscettività, basta dire che se si introduce una impurezza paramagnetica in un intero campione diamagnetico, l’intero campione risulterà paramagnetico. Aggiungo una cosa già detta: la suscettività diamagnetica, a differenza di quella paramagnetica, non dipende dalla temperatura. Da ultimo c’è da segnalare che anche il nucleo atomico ha un suo momento magnetico che naturalmente dovrebbe essere messo in conto. Esso però è molto piccolo (700 volte minore al magnetone di Bohr) e dovrà essere preso in  considerazione solo nel caso si abbia a che fare con sostanze diamagnetiche.

        Riprendiamo a questo punto il problema che ci eravamo posti ad inizio di paragrafo. Da una parte abbiamo affermato che il diamagnetismo è un fenomeno generale della natura che riguarda tutte le sostanze. Cosa succede se analizziamo il problema di un gas elettronico e studiamo il diamagnetismo come Pauli ha studiato il paramagnetismo ? Il gas di elettroni può essere un’eccezione, può far vedere che il diamagnetismo non è un fenomeno generale della natura ?

        La formula (18) è stata ricavata sotto due condizioni: il teorema di Larmor e la stabilità delle orbite. Se abbiamo a che fare con elettroni liberi cadono queste due condizioni (non vi sono orbite per elettroni che si muovono su livelli energetici non più atomici ma estesi all’intero cristallo ed il teorema di Larmor discute di precessioni nell’orbita). Eppure l’elettrone, oltre alla suscettività paramagnetica che abbiamo visto discutere da Pauli, possiede anche una suscettività diamagnetica, quella studiata come diamagnetismo di Landau. Landau, con conti improponibili in questa sede, trovò per la suscettività magnetica di un gas di elettroni il seguente valore:

                                                 χL = – ⅓ χ                                         (19)

dove χè il paramagnetismo di Pauli dato dalla (14). Cerchiamo di capire da dove proviene tale diamagnetismo.

        Gli elettroni liberi quando H = 0 non hanno stati stazionari discreti che invece acquistano quando H ≠ 0. Ciò comporta la quantizzazione del moto degli elettroni in un campo magnetico. Un elettrone che si muove in un campo magnetico, ripeto ancora, è una corrente elementare soggetta ad un campo magnetico. Abbiamo di nuovo a che fare con la forza di Lorentz che provoca la rotazione dell’elettrone intorno al campo H con una frequenza ω= eH/mchiamata frequenza di ciclotrone(33). Ma l’elettrone si muove anche lungo il campo e ciò vuol dire che l’elettrone si muove a spirale intorno al campo (vedi figura).

        L’energia dell’elettrone è la somma dell’energia dei moti dovuti al campo e nel piano perpendicolare ad esso. Questa ultima è, come detto, una rotazione e quindi una oscillazione con la frequenza di ciclotrone. Ed una particella che oscilla con frequenza ωc  può solo avere i livelli discreti di energia εn = hωc/2π.(n + ½) dove n = 0, 1, 2, … . A questo valore occorre aggiungere quello che consegue dai moti dovuti al campo data da pH2/2me, con pH proiezione dell’impulso dell’elettrone su H.

        Per l’energia totale si ha allora:

                                                                          (20)

Tenendo ora conto del momento magnetico proprio dell’elettrone (e cioè dello spin che può assumere le solite due direzioni o nello stesso verso del campo o in quello opposto) i livelli energetici forniti dalla (20) si divideranno in due sistemi di livelli:

        Già sappiamo che questo sdoppiamento porta al paramagnetismo di Pauli e per questo non lo terremo, per ora, in conto. Sappiamo che, a partire da qui, Landau ha trovato la relazione (19):

                                                  χL = – ⅓ χ                                              (19)

Prendendo in considerazione sia il paramagnetismo che il diamagnetismo del gas di elettroni si trova la suscettività magnetica totale:

χ = χpara + χdia     =>    χe = χP + χL     =>      χe = χP – ⅓ χP     =>     χe = ⅔ χP

 Ricordando la (14) del paragrafo precedente:

                                                                                   (14)

troviamo che:

                                                                                     (20)

Questa quantità è positiva e ciò vuol dire che vi è prevalenza di paramagnetismo. L’apparente contraddizione si chiude e si ritorna al dato sperimentale che alcuni metalli sono diamagnetici, osservando che occorre prendere in considerazione anche gli ioni del reticolo cristallino che danno un contributo diamagnetico. Quest’ultima quantità va sottratta alla (15) e certamente fornisce un contributo rendendo χe positivo per alcuni metalli e negativo per altri. Ma questa sola spiegazione, certamente corretta, non può rendere conto del grande diamagnetismo di alcuni metalli, tra cui ilo bismuto.

        E’ a questo punto che subentra una nuova condizione quantica che esclude le interpretazioni semiclassiche.  Gli elettroni di conduzione, il gas di elettroni di cui ci occupiamo non si muovono nel vuoto ma all’interno del reticolo cristallino in bande di energia. Per comprendere cosa accade nei reticoli cristallini dei solidi occorre rivedere la teoria delle bande. In questo caso basta dire che gli elettroni subiscono delle interazioni con gli ioni tali da renderli non perfettamente liberi. L’effetto è sulla massa dell’elettrone che non è più quella ordinaria me ma massa efficace (o effettiva) che indichiamo con m* (la differenza tra le due masse rende conto dell’interazione dell’elettrone con gli ioni del reticolo e non è il caso di indagare oltre)(34):

                                         ε = p2/2m*                                           (21)

Con la sostituzione della massa ordinaria mcon la massa efficace m* la (14) e la (20) devono essere modificate e diventano:

                                                  (22)

                                χe = χP – ⅓ χP    =>

                                                                      (23)

dove:

                                                                     (24)

        Con questa correzione si trova accordo tra dati sperimentali ed apparato teorico e da qui proviene la spiegazione del diamagnetismo di metalli come il bismuto (osservo qui che un superconduttore del quale mi sono occupato in altro articolo è una sostanza diamagnetica ideale).

L’ANTIFERROMAGNETISMO

        In un precedente paragrafo nel quale ho trattato le forze di scambio avevo scritto l’hamiltoniana di spin:

                                            Hs  = K – A.s1.s                                   (25)

ed avevo detto che: il primo termine della somma non dipende dallo spin del sistema ed è l’energia dell’interazione coulombiana (mediata rispetto ai possibili stati dello spin) che qui non interessa. Il segno del secondo membro è determinato da A che è l’integrale di scambio e che può essere positivo o negativo: quando A  < 0, il secondo addendo è positivo ed abbiamo a che fare con spin e quando A  > 0 il secondo addendo è negativo. Il segno – corrisponde al caso in cui i due spin sono paralleli e quindi ad uno stato magnetico (è quello che a noi interessa e che origina il ferromagnetismo anche se è quello che la natura non preferisce). Il segno + è relativo a spin antiparalleli e quindi ad uno stato non magnetico. All’intero secondo addendo della relazione precedente si dà il nome di energia di scambio.  E si può qui capire il significato del termine scambio: le funzioni d’onda simmetriche ed antisimmetriche descrivono lo stato degli elettroni che cambiano di posto. Il parametro A è la misura della frequenza con cui avviene questo cambiamento. Cerchiamo ora di capire in cosa consiste lo stato antiferromagnetico seguendo gli studi del francese Néel (1932 e 1936), del sovietico Landau (1933), dello statunitense Bitter (1937) e dell’olandese van Vleck (1941)(35), avvertendo che lo stato antiferromagnetico fu scoperto sperimentalmente da L.V. Shúbnikov e collaboratori (1935) e da Bizette, Squire e Tsai nel 1938(36).

        La caratteristica principale di una sostanza (policristallina) antiferromagnetica è la sua suscettività che presenta un massimo in funzione della temperatura

        Per comprendere in modo qualitativo cosa accade serviamoci del modello seguente. Il cristallo che dobbiamo considerare deve essere costituito da due tipi di atomi A e B messi insieme da due reticoli concatenati (ad esempio gli A occupino i vertici di un cubo mentre i B occupino i centri di tali cubi). Pensiamo inoltre che la l’interazione tra atomi risulti tale da rendere gli spin di A antiparalleli rispetto agli spin di B. A basse temperature avremo a che fare con interazioni forti con piccola magnetizzazione rispetto ad un campo esterno. Al crescere della temperatura diminuisce l’interazione e cresce la suscettività. Al di sopra di una data temperatura critica TNtemperatura di Néel, gli spin risultano liberi ed il materiale antiferromagnetico diventa paramagnetico e ciò vuol dire che la suscettività χ diminuisce al crescere di T. Questo modello ha avuto le prime conferme sperimentali nel 1949(37).

        Guardando la cosa attraverso le forze di scambio, occorre partire dall’hamiltoniana riportata in apertura del paragrafo e metterci nella condizione di A < 0.

                                          Hs  = K – A.s1.s2                                           (25)

Immaginiamo ora che questa espressione sia un’espressione classica e che s1 ed s2 siano due vettori classici, ordinari e di lunghezza data. Prendiamo ora in considerazione la figura seguente

Un cristallo costituito da atomi paramagnetici. In (a) la temperatura è più elevata di quella di Curie; in (b) siamo a T = 0 e tutti gli atomi hanno una medesima direzione e verso.

Da un lato abbiamo le frecce che indicano i momenti magnetici degli atomi disposti ai vertici del reticolo di un cristallo. L’interazione tra i magnetini tende ad allinearli parallelamente mentre l’aumento di temperatura tende a disordinarli. Sappiamo per quanto abbiamo già detto che tra quei magnetini devono agire forze di scambio che a distanze interatomiche sono molto più intense di quelle tra dipoli elementari. Ed il ferromagnetismo dipende proprio da forze di scambio. Per accertarci di ciò riprendiamo in considerazione la (25) ed elaboriamola un poco. Considereremo una generalizzazione della relazione considerando che tra due atomi qualunque del cristallo esista una relazione che cambia il secondo addendo della (25) nel modo seguente:

                                Hs =K – Σi,kAi,k.si.sk                                         (26)

con la sommatoria estesa a tutti gli atomi del cristallo numerati dai subindici i e k. Sappiamo già che l’integrale di scambio Ai,k diminuisce rapidamente con la distanza. In conseguenza di ciò, anche se ogni atomo del cristallo è formalmente legato con le forze di scambio a tutti gli altri atomi, va considerato solo lo scambio con gli atomi vicini. Ciò ci permette di scrivere la (26) in altro modo:

                               Hs = K – ½.A.Σi si.Σ’k sk (27)

dove l’apice sulla seconda sommatoria sta ad indicare che prenderemo in considerazione solo atomi vicini a quello indicato con il subindice i. La figura seguente ci mostra il caso di un reticolo cubico semplice e quello di un reticolo cubico a corpo centrato (ma anche nella figura precedente mi ero riferito ad un reticolo cubico per ragioni di semplicità). Nel primo caso il numero di atomi più vicini è sei, nel secondo è otto.

Gli atomi più vicini ad un dato atomo. In (a) abbiamo un reticolo cubico semplice e gli atomi più vicini sono sei; in (b) abbiamo un reticolo cubico centrato e gli atomi più vicini diventano otto.

Nella (27) l’integrale di scambio è posto fuori il segno di sommatoria perché il campione è omogeneo ed abbiamo a che fare con soggetti identici che interagiscono. L’½ che compare è dovuto al fatto che contando come indicato dalle sommatorie, gli atomi si conterebbero due volte.

    Quanto ho detto qualche riga più su a proposito del considerare i vettori s1 ed s2  come classici nell’hamiltoniana, dopo le elaborazioni fatte, va riferito ora ad si ed sk e la formula (27) definisce il modo in cui l’energia del corpo in considerazione dipende dalla loro disposizione mutua(38). E quando si dice mutua si intende esattamente che ogni atomo può interagire con ogni altro perché, come detto quando ci siamo occupati di forze di scambio, l’interazione è isotropa. Abbiamo più volte detto che la situazione più stabile si ha in corrispondenza di energia minima. Qui siamo in presenza di A < 0 (spin antiparalleli) ed il minimo di energia si ottiene per una configurazione di spin nella quale si alternino gli spin orientati lungo una data direzione con quelli orientati in direzione opposta (vedi figura).

Ordine antiferromagnetico dei momenti magnetici. In (a) abbiamo un reticolo cubico centrato; in (b) un reticolo cubico semplice.

Infatti per tale configurazione ogni prodotto scalare tra gli spin più vicini sarà massimo per il suo valore assoluto ma di segno negativo.

        La configurazione con gli spin alternanti  può considerarsi come ottenuta da due reticoli ferromagnetici, uno introdotto nell’altro. Ognuno di tali reticoli incassati viene chiamato sottoreticolo magnetico ed i sottoreticoli sono legati tra loro proprio dalle forze di scambio. Nella figura precedente abbiamo mostrato due strutture antiferromagnetiche originate da due sottoreticoli (ve ne sono di più complesse ma non ce ne occupiamo).

        A questo punto possiamo dare la suscettività χ di un materiale antiferromagnetico (i conti, essendo classici, sono semplici ma ormai inutili). Le condizioni da cui partire sono: ammettiamo che tutti gli atomi più vicini ad un atomo A siano atomi B e viceversa. Ammettiamo poi che oltre ad un’interazione antiferromagnetica AB, vi siano interazioni antiferromagnetiche AA e BB. Supponiamo infine di trovarci al di sopra della temperatura TN di Néel (T > TN). Si trova:

                                                                                             (28)

Questa espressione va confrontata con quella trovata da Curie e Weiss per i materiali ferromagnetici al di sopra della temperatura critica:

La differenza è che ora abbiamo T + θ anziché T – θ e che la costante C è ora due volte quella del singolo reticolo A o B. E’ ora possibile, in grafici (1/χ,T) e (χ, T), cogliere le differenze tra sostanze paramagnetiche, ferromagnetiche ed antiferromagnetiche nella regione delle alte temperature:

Da Dekker.

                                                                    (29)

para

ferro

                                                             antiferro

Da Kittel.

        Andiamo ora a vedere qual è la suscettività antiferromagnetica di un materiale al di sotto della temperatura di Néel (T < T) nell’ipotesi semplificativa che esistano solo interazioni AB. Come risultato dell’anisotropia cristallina vi saranno una o più direzioni nelle quali gli spin tenderanno naturalmente ad allinearsi con due casi di interesse:

a) quando il campo esterno è applicato perpendicolarmente alla direzione naturale degli spin;

b) quando il campo esterno è applicato parallelamente alla direzione degli spin.

         La figura (a) seguente rappresenta la prima situazione. In tal caso il campo tende ad allineare i dipoli lungo la sua direzione ma la tendenza dei dipoli A e B a restare antiparalleli provoca una situazione intermedia che vede i dipoli formare un certo angolo φ con la direzione originale degli spin. Facendo i conti come mostrato nella figura (b) precedente per la suscettività antiferromagnetica si trova:

χ = 1/β

dove β è una costante positiva (di Weiss). Fatto notevole è che questa suscettività non dipende dalla temperatura.

Data una disposizione antiferromagnetica dei dipoli come in (a), in (b) si illustra il calcolo  della suscettività antiferromagnetica per un campo applicato perpendicolarmente alla direzione naturale degli spin. Da Dekker.

        La seconda situazione è molto più complessa da discutere. Esperienze di van Vleck hanno mostrato che la suscettività, all’aumentare della temperatura, cresce dolcemente  da zero ad un valore che corrisponde a TN.

La suscettività di una sostanza antiferromagnetica in fuinzione della temperatura per differenti valori degli spin. Da Dekker.

        Mentre al disotto della temperatura di Néel si ottiene una curva del tipo della prima riportata in questo paragrafo.

        In definitiva, un materiale antiferromagnetico si comporta come uno ferromagnetico. Anche negli antiferromagnetici si ha una temperatura caratteristica al di sotto della quale compare uno stato ordinato dei momenti magnetici. In un ferromagnetico tutti i momenti sono allineati parallelamente alla direzione del campo e nello stesso verso, in un antiferromagnetico tutti i momenti sono allineati nella stessa direzione del campo ma metà in un verso e metà in quello opposto (con conseguente risultante nulla). La temperatura critica presenta anomalie come nel caso ferromagnetico relativamente al calore specifico ed alla suscettività che presenta un massimo (vedi figura precedente).
        La teoria di Néel interpretava bene tutte le proprietà dell’antiferromagnetismo ma era ancora insoddisfacente.
 

IL FERRIMAGNETISMO

        Non si può chiudere un lavoro sul magnetismo senza neppure un cenno al ferrimagnetismo. Materiali ferrimagnetici furono costruiti in laboratorio da ricercatori della Philips in Olanda nel 1952(39). Tali scienziati lavoravano alla ricerca di materiali ferromagnetici che potessero essere utilizzati ad alte frequenze nei nuclei dei trasformatori e per farlo modificavano la struttura dei materiali ferromagnetici. Occorre però dire che lo studio teorico del ferrimagnetismo era stato fatto da Néel nel 1948(40) sempre utilizzando le forze di scambio ed in particolare la nozione di campo molecolare negativo.

        Accenno ad una possibile operazione che permette di passare da un materiale ferromagnetico ad uno ferrimagnetico. Data la magnetite, il materiale ferromagnetico più noto, essa ha come formula chimica Fe3O4. Se si entra nei dettagli di tale formula, si scopre che essa è costituita da due ioni di ferro quello bivalente e quello trivalente, Fe2+ (ione ferroso) ed Fe3+ (ione ferrico), di modo che la formula più precisa è Fe2+Fe3+2O4. A questo punto è possibile sostituire lo ione di ferro bivalente con un altro metallo bivalente (come manganese, cobalto, nichel, zinco, cadmio, …) si ottiene quella che si chiama ferrite. Indicando il generico metallo che sostituisce lo ione bivalente di ferro con Me, si avrà come formula generale di una ferrite Me2+Fe3+2O4. Tali ferriti assunsero il nome di ferroxcube. La loro resistività in corrente continua è molto più elevata di quella del ferro (da 104 a 1011 volte maggiore e quindi molto più adatte del ferro per svariati usi tra cui quelli per cui erano state progettate). Si può capire facilmente che di tali ferriti ne esistono oggi a volontà, ognuna rispondente ad usi specifici. Si capisce anche che la trattazione di tale argomento, oltre ad essere estremamente complessa, è anche legata a strutture reticolari complicate che invadono ampiamente il mondo della cristallografia e della chimica.

La figura mostra come alcuni reticoli (indicati con B) siano incassati in altri reticoli più grandi. Dal punto di vista dei momenti magnetici dei reticoli piccoli e di quelli grandi, è utile la figura seguente che rende ben conto della diversa intensità di essi. Tratto da un lavoro del CNR.

        In modo molto brutale si può dire che si tratta di sottoreticoli che vanno ad essere inseriti l’uno nell’altro (ma non tali da compensarsi perché la magnetizzazione di uno è molte volte maggiore di quella dell’altro). Uno è tetraedrico con ioni che chiamiamo A mentre l’altro è ottaedrico con ioni B. Ebbene Néel avanzò l’ipotesi di interazione (di scambio) negativa tra gli ioni A e B (una sorta di interazione antiferromagnetica). Tale interazione tende a favorire un allineamento antiparallelo degli spin degli ioni A e B. Oltre a tale interazione negativa AB, si deve tener conto delle interazioni AA e BB ed anch’esse sono negative ma molto più deboli rispetto alla prima. Arriviamo ad un risultato che appare stupefacente: il comportamento ferromagnetico risulta dalla composizione di tre interazioni antiferromagnetiche. E proprio questo fenomeno fu chiamato da Néel ferrimagnetismo. Resta solo da dire che rappresentando l’inverso della suscettività magnetica in funzione della temperatura al di sopra del punto di Curie, si ottiene quasi sempre una curva concava verso l’asse T, invece della retta predetta dalla teoria di Curie e Weiss.

Reciproco della suscettività della magnetite al di sopra della temperatura di Curie.

       

La teoria di Néel descrive con buon accordo i dati sperimentali.

 In definitiva un materiale ferrimagnetico è, come un antiferromagnetico, una sostanza in cui i momenti magnetici sono orientati in due versi opposti. Ma, mentre nel materiale antiferromagnetico tali momenti sono in ugual numero in modo da avere magnetizzazione totale nulla, nei materiali ferrimagnetici si può avere una magnetizzazione spontanea al di sotto di una temperatura critica.

        E’ utile confrontare le suscettività magnetiche ed altre caratteristiche dei differenti materiali magnetici, come fatto nella tabella seguente:

Suscettività Magnetiche 
 
Per le sostanze diamagnetiche χ è molto piccola e negativa. Nel caso delle sostanze paramagnetiche χ è piccola ma positiva. Di conseguenza, le sostanze paramagnetiche sono attratte da un campo magnetico, mentre le diamagnetiche debolmente respinte. I superconduttori mostrano un perfetto diamagnetismo; χ ha valore – 1 e il campo magnetico è completamente espulso. Nelle sostanze ferromagnetiche χ >> 1 e tali materiali sono fortemente attratti da campi magnetici. Nelle sostanze antiferromagnetiche, χ è positiva e comparabile o un poco inferiore rispetto alle sostanze paramagnetiche. Tratta da un lavoro del CNR.

In definitiva un materiale ferrimagnetico è, come un antiferromagnetico, una sostanza in cui i momenti magnetici sono orientati in due versi opposti. Ma, mentre nel materiale antiferromagnetico tali momenti sono in ugual numero in modo da avere magnetizzazione totale nulla, nei materiali ferrimagnetici si può avere una magnetizzazione spontanea al di sotto di una temperatura critica.

       

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        L’andamento complessivo delle suscettibilità magnetiche χ al variare della temperatura nei diversi casi è mostrata nelle figure seguenti

ULTERIORI SVILUPPI


Riporto quanto a proposito scrivono Bauer ed Herpin (in Storia Generale delle Scienze diretta da René Taton) su ulteriori sviluppi delle ricerche nel campo del magnetismo.


Uno dei più recenti capitoli del magnetismo, sviluppato  dai primi anni  Cinquanta, è l’utilizzazione delle tecniche di radiofrequenza per lo studio del magnetismo. La prima esperienza in questo campo risale al 1913, con la scoperta fatta da V. K. Arkadiev dell’assorbimento selettivo di onde radioelettriche di frequenza determinata nei corpi ferromagnetici. Questa esperienza non aveva avuto seguito, ma aveva permesso a Dorfmann (1923) e poi a Landau e a Lifschitz (1935) di precisare in teoria la condizione di risonanza dei momenti magnetici in un ferromagnetico. Le esperienze di risonanza propriamente dette furono realizzate soltanto trenta anni dopo, quando considerevoli progressi furono fatti nella tecnica delle radiofrequenze. Ma essi furono preceduti dalla scoperta del rilassamento paramagnetico da parte di C. J. Gorter nel 1936, le cui esperienze furono interpretate da H. B. C. Casimir du Prè nel 1938.
Consideriamo un insieme di momenti magnetici. Essi sono in equilibrio termodinamico fra loro e con gli altri atomi. Se modifichiamo bruscamente le condizioni di questo equilibrio, il nostro sistema evolve verso un nuovo stato di equilibrio con un certo ritardo. Infatti intervengono due costanti di tempo, l’una riguardante il tempo necessario a ristabilire l’equilibrio termodinamico all’interno del sistema di spins (tempi di rilassamento spin-spin), l’altra relativa al tempo per stabilire l’equilibrio termodinamico fra il sistema di spins e le vibrazioni del reticolo (tempo di rilassamento spin-reticolo). Il secondo è molto più grande del primo ed è quindi possibile parlare di una temperatura di spin che può essere diversa da quella del reticolo, Questo ritardo nell’assestamento dell’equilibrio ha come conseguenza quella di far comparire, nelle misure effettuate in alta frequenza, una componente della magnetizzazione in quadratura col campo. Dalla misura della suscettibilità complessa (che traduce formalmente l’esistenza di una temperatura di spin) si può, in base a certe ipotesi (in particolare dell’esistenza di una temperatura di spin), determinare il tempo di rilassamento ed approfondire così la meccanica di accoppiamento fra momenti magnetici e reticolo (Gorter, van Vleck).
Nel 1944 Zavoiskij scoperse a Kazan la Risonanza paramagnetica elettronica. Questa scoperta venne tardi, dopo un certo numero di tentativi infruttuosi, i cui insuccessi derivano da un eccesso di precauzioni, sia che per aumentare i segnali si utilizzassero dei solidi contenenti troppi centri paramagnetici, cosa che allargava talmente le righe di risonanza che queste diventavano inosservabili, sia che si lavorasse su cristalli troppo perfetti, per i quali i tempi di rilassamento sono troppo lunghi, cosa che distrugge il segnale di risonanza.
In pratica la risonanza elettronica ha beneficiato degli insegnamenti della risonanza nucleare scoperta qualche mese prima; essa è divenuta, grazie ai lavori dei gruppi sovietici (Altschuler, Zavoiskij, ecc.) e britannici (Bleaney, Pryce), il mezzo di studio più fine del paramagnetismo. In particolare la sensibilità del metodo permette di individuare solidi che contengono un numero molto piccolo di portatori di momenti magnetici, per esempio dei corpi contenenti dei radicali liberi o dei difetti prodotti dall’irradiazione. Esso quindi è una nuova via in cui il magnetismo classico non poteva avventurarsi per difetto di sensibilità.
Un altro apporto della risonanza paramagnetica fu la scoperta sperimentale fatta da Penrose e Bleaney (1949) della struttura iperfina, e cioè dell’effetto dell’accoppiamento fra il momento magnetico elettronico ed il momento magnetico nucleare; accoppiamento la cui interpretazione teorica fu data da Abragam e Pryce (1951).
Verso la stessa epoca (1946) Griffiths scoprì la risonanza ferromagnetica intravista trenta anni prima da Arkadiev. La sua interpretazione, resa difficile dall’esistenza di un campo smagnetizzante che dipende dalla forma del campione, fu data poco dopo da Ch. Kittel.
È anche durante gli ultimi trenta anni che si è sviluppato il magnetismo nucleare. Esso è nato dalla spettroscopia ottica, dato che l’alta precisione delle misure spettroscopiche ha permesso di rivelare l’energia piccolissima di interazione fra i momenti magnetici elettronici ed i momenti magnetici dei nuclei. Le misure interferenziali avevano mostrato che molte delle righe spettrali avevano una struttura «iperfina», essendo ciascuna riga composta da parecchie componenti il cui scarto è piccolissimo. Nel 1924 W. Pauli aveva attribuito questa struttura ad un momento magnetico nucleare, perché l’energia dell’atomo sarebbe dipesa dall’orientazione reciproca di quel momento nucleare e del momento atomico. Questa idea servì da base ad una memoria tecnica fondamentale di Fermi (1930), in cui egli calcolò l’interazione magnetica elettrone-nucleo. Per quadrare con i risultati sperimentali fu necessario supporre il momento magnetico nucleare molto piccolo, cosa che stupì profondamente i fisici dell’epoca.
Come scrive lo stesso Fermi nel suo rapporto al Congresso Solvay del 1930:
«Applicando al nucleo le idee ordinarie sulla composizione dei vettori magnetici, si sarebbe portati a pensare che, almeno in generale, il suo momento magnetico dovrebbe essere dell’ordine di grandezza del magnetone di Bohr. Questa previsione è del tutto smentita dall’esperienza … Se ne conclude che il momento magnetico del nucleo deve essere dell’ordine del millesimo del magnetone di Bohr».
Una simile conclusione è difficile da capire se si ammette, come si faceva a quell’epoca, che il nucleo contenga protoni ed elettroni. Ma è invece evidente se, come ha fatto Heisenberg, nel 1924, si considera il nucleo formato di protoni e neutroni. Il protone deve soddisfare le equazioni di Dirac ed il suo momento magnetico proprio, la cui stessa esistenza è una conseguenza di quelle equazioni, deve essere circa 2000 volte più piccolo del momento magnetico dell’elettrone.
Si chiama «magnetone nucleare» il valore teorico così dato da una formula quasi identica a quella del «magnetone di Bohr», in cui la massa del protone sostituisce semplicemente quella dell’elettrone.
È curioso che questo argomento non si sia affacciato prima, per fare ammettere la struttura del nucleo proposta da Heisenberg. Ma l’interpretazione delle misure ottiche non poteva dare valori precisi dei momenti magnetici nucleari.
Queste determinazioni precise furono fatte da Rabi ed i suoi collaboratori a partire dal 1934 con metodi di getti atomici il cui punto di partenza è l’esperienza di Stern e Gerlach. Da un perfezionamento ad un altro, J.J. Rabi è arrivato all’esperienza di Risonanza magnetica dei getti atomici (1939).
Questa esperienza, che ha procurato il premio Nobel al suo autore, è fra le più belle a causa delle difficoltà che si dovevano vincere ed è anche fra le più fondamentali perché ha per base il principio stesso della risonanza nucleare. Il momento magnetico è in effetti misurato per mezzo della sua frequenza di Larmor in un campo uniforme; il principio di deflessione di Stern e Gerlach serve soltanto a rivelare la risonanza che si produce quando le frequenze del
campo di radiofrequenze al quale si sottopongono i nuclei è uguale alla
frequenza di Larmor. Questo metodo molto preciso ha permesso a Rabi ed ai suoi collaboratori di misurare un gran numero di momenti magnetici nucleari; essi non sono – neanche per il protone – dei multipli interi del magnetone nucleare. In particolare, utilizzando il metodo di Rabi, Alvarez e Bloch hanno potuto misurare nel 1940 il momento magnetico del neutrone, uguale a 1,91290 ± 9.10-5 magnetoni nucleari. Quest’ultimo risultato è particolarmente importante perché esso è in contraddizione con la rappresentazione ingenua delle particelle nucleari, secondo la quale il momento magnetico sarebbe associato all’esistenza
di una carica elettrica.
Per rendere più utilizzabile il metodo di risonanza non si doveva fare altro che sostituire il modo di rivelazione particolarmente difficile di Rabi con una rivelazione più diretta: cosa che fu fatta qualche anno dopo. Nel 1946 Felix Bloch all’Università di Stanford, California, E. M. Purcel e R. V. Pound all’Università di Harvard mettevano in evidenza la risonanza magnetica dei nuclei osservando direttamente la forza elettromotrice indotta dal movimento dei loro momenti magnetici.
Fin dalla comparsa della prima memoria, Felix Bloch seppe introdurre nelle equazioni fenomenologiche le grandezze importanti per l’interpretazione della risonanza nucleare: i tempi di rilassamento spin-spin e spin-reticolo, di cui abbiamo parlato trattando della risonanza paramagnetica elettronica. Ma ora gli spins sono nucleari; li si osserva in una sostanza diamagnetica; ne risultano dei tempi di rilassamento i cui ordini di grandezza sono completamente diversi da quelli della risonanza paramagnetica elettronica. Così pure le frequenze di risonanza nei campi usuali sono mille volte più piccole a causa della piccolezza dei momenti magnetici nucleari, da cui una considerevole semplificazione dell’attrezzatura, che si serve delle radiofrequenze usuali (qualche decina di megacicli).

La risonanza nucleare, in particolare quella del protone, fu ben presto utilizzata per misurare le interazioni fra i momenti magnetici nucleari in una molecola diamagnetica. Da ciò una applicazione fisico-chimica immediata ha portato all’adozione generalizzata del metodo di risonanza nei laboratori di chimica e ad un numero considerevole di lavori, dato che si contano al momento attuale (1960) più di duemila pubblicazioni dedicate ad essa.
E non è soltanto in fisica nucleare e in chimica, ma anche in fisica classica che lo studio delle proprietà magnetiche dei nuclei ci ha dato nuova luce.
In effetti il momento magnetico legato allo spin di un nucleo non può prendere, rispetto ad un campo magnetico, che un piccolo numero di orientazioni, di stati energetici diversi. Da questo fatto deriva un sistema particolarmente semp1ice e la riunione dei momenti in interazioni in un corpo costituisce uno di tali sistemi considerati dalla termodinamica statistica; insieme ridotto all’essenziale e che può essere legato molto debolmente al mezzo che lo circonda, mediante un tempo di rilassamento notevolmente lungo. Si può quindi definire facilmente ed osservare una temperatura di spin diversa da quella del reticolo.
Ma ben di più, per un campo di radiofrequenze, è possibile popolare di
preferenze i livelli di energia superiori, contrariamente alla legge di Boltzmann o piuttosto in armonia ad una legge di Boltzmann con una temperatura assoluta negativa. Fra i lavori su questo argomento occorre citare soprattutto quelli di A. Abragam che è stato indotto, fra l’altro, a preparare dei campioni di corpi idrogenati fortemente polarizzati, nei quali cioè una parte notevole dei protoni ha i loro spin paralleli.
Come un tempo la pietra calamitata ci ha rivelato l’esistenza di un campo di forze sconosciute, così oggi lo studio delle proprietà magnetiche della materia, così specializzato in apparenza, ci apre in ogni direzione degli orizzonti nuovi, in ottica, in chimica, in termodinamica, in fisica nucleare. Ricordiamo che, da questo punto di vista, il momento magnetico «anormale» del protone e soprattutto quello del neutrone furono, storicamente, i primi indizi di una struttura complessa dei nucleoni.

DUE PAROLE DI CONCLUSIONE


        Abbiamo fatto un lungo excursus sulla storia degli studi relativi al magnetismo e più precisamente al magnetismo nei solidi. Come si sarà potuto notare più si avanzava verso i nostri giorni e più le cose si complicavano. In particolare la lettura dell’ultimo paragrafo avrà fatto rendere conto di quante cose ho saltato e di come mi era praticamente impossibile trattare tali argomenti. Da un certo punto in poi è solo la buona volontà e la cortesia del lettore che lo ha portato eventualmente qui.

        Spero si sia capito che se si vogliono affrontare studi seri occorre lavorare molto. Qui vi è una sorta di riassuntino delle problematiche in gioco. Il voler trattare tutto con completezza richiederebbe volumi interi. Inoltre gli sudi non si sono fermati con Néel o Landau o Kittel ma sono proseguiti e proseguono ancora. La fisica è un campo sterminato di conoscenze complesse in molteplici campi ma appaganti che vale appunto la pena affrontare. Non vi sono certezze ma piccole acquisizioni su piccole acquisizioni sempre passibili di essere rimesse in discussione. Nessuna verità assoluta quindi ma ricerca continua.

Roberto Renzetti


NOTE

(1) Niels Bohr, Studier over Metallernes Elektronteori (doctoral dissertation), University of Copenhagen, 1911.

(2) A. Sommerfeld, Sitz. Ber. München, pp. 425-429, 1915.  Ann. Phys. 51, 1, 125, 1916.

(3) A. Sommerfeld, Annalen der Physick63, p. 221, 1920.

(4) Walther Gerlach & Otto Stern, Das magnetische Moment des SilberatomsZeitschrift für Physik, 9, 353-355, 1922.

Otto Stern, Ein Weg zur experimentellen Pruefung der Richtungsquantelung im MagnetfeldZeitschr. f. Physik, 7, 249-253, 1921.

W. Gerlach, Zeitschr. f. Physik, 8, 110, 1921.

Walther Gerlach & Otto Stern, Der experimentelle Nachweis der Richtungsquantelung im Magnetfeld, Zeitschr. f. Physik, 9, 349-352, 1922.

(5) G.E. Uhlenbeck e S.A. Goudsmit, Ersetzung der Hypothese vom unmechanischen Zwang durch eineorderung bezüglich des inneren Verhaltens jedes einzelnen Elektrons [Sostituzione dell’ipotesi di unos forzo non meccanico con un postulato riguardante il comportamento interno di ogni singolo elettrone],
Die Naturwissenschaften, 13, pp. 953–954, 1925. 

Lo studio approfondito dello spin e la dimostrazione che esso nasce da un effetto relativistico si deve a Dirac: P.A.M. Dirac: The quantum theory of the electron [Teoria quantistica dell’elettrone], Proceedings of the Royal Society of London A 117, pp. 610–624, 1928; 118, pp.351–361, 1928.

(6) O. W. Richardson, A Mechani Effect Accompanying MagnetizationPhys. Rev. 26, pp. 248-253, 1908.

(7) A. Einstein, W. J. de Haas, Experimenteller Nachweis der Ampereschen Molekularstrome, [Experimental Proof of Ampère’s Molecular Currents] Deutsche Physikalische Gesellschaft Verhandlungen, [Experimental Proof of Ampère’s Molecular Currents], 17, pp. 152–170, 1915.

A. Einstein, W. J. de Haas, Experimental Proof of the Existence of Ampère’s Molecular Currents (in English), Koninklijke Akademie van Wetenschappen te Amsterdam, Proceedings 18, pp. 696-711, 1915.

(8) Supponiamo di avere a che fare con un atomo ad un solo elettrone che ruota intorno ad un nucleo in orbite circolari (n orbite al secondo). Ciò equivale ad una corrente i = ne, ad un momento magnetico  M = πr2.i = – πr2.ne e ad un momento della quantità di moto J = m.2πrn.r. Facendo il rapporto, si trova:  M/J = – e/2m (il segno meno discende dalla carica negativa dell’elettrone)Tale rapporto dovrebbe sussistere non solo a livello atomico ma anche per corpi di dimensioni finite  perché i due vettori M e J sono paralleli e si sommano sia per un solo elettrone che per molti elettroni.

Una importante osservazione riguarda i sistemi di unità di misura utilizzati che, il lettore esperto avrà notato, non tocco mai perché avrebbero bisogno di ampia trattazione a parte. In questo caso è invece utile dire che, se la carica e dell’elettrone è in unità elettrostatiche, l’espressione del rapporto giromagnetico deve prevedere la velocità della luce c al denominatore:

M/J = – e /2mc

Qui, come nel seguito, mi riferirò all’espressione data nel testo utilizzando il sistema MKS  per ragioni di semplicità espositiva.

(9) J.Q. Stewart (1918); E. Beck (1919); G. Arvidsson (1920); W. Sucksmith e L.F. Bates (1923 e 1925).

(10) Barnett S. J., Magnetization by RotationPhysical Review 6/4, pp. 239–270, 1915.

(11) L’effetto era stato predetto da John Perry nel 1890 ed anche da Schuster nel 1912.

(12) P.A.M. Dirac, The Quantum Theory of the ElectronProc. Roy. Soc. 117, p. 610, 1928.
P.A.M. Dirac, Proc. Roy. Soc. 118, p. 35, 1928.
P.A.M. Dirac, The Principles of Quantum Mechanics, Clarendon Press, Oxford 1930. Tradotto in: I principi della meccanica quantistica, Boringhieri 1959.

    Da quest’ultimo testo riprendo e riporto il paragrafo che dimostra l’esistenza dello spin dell’elettrone.

(13) P. Debye, Einige Bemerkungen zur Magnetisierung bei tiefer Temperatur, Ann. Physik, 81, 1154, 1926.
W.F. Giauque, A thermodynamic treatment of certain magnetic effects. A proposed method of producing temperatures considerably below 1° absolute, J. Am. Chem. Soc., 49, 1864-70, 1927.
W.F. Giauque, Paramagnetism and the third law of thermodynamics. Interpretation of the low-temperature magnetic susceptibility of gadolinium sulfate, J. Am. Chem. Soc., 49, 1870-77, 1927.

(14) Onnes, Kamerlingh; H. R. Woltjer, The Magnetisation of. Gadolinium Sulphate at Temperatures attainable with. Liquid HeliumProc. K. Alcad. Wetensch. Amsterdam, 1923, 26, 626-634.

(15) L. Brioullin, La mécanique ondulatoire de Schrödinger; une méthode générale de résolution par approximations successives,  Comptes Rendus Acad. Sci. Paris183, pp. 24-26, 1926.
L. Brioullin, J. de Physique 7, p. 353, 1926.
L. Brioullin, Peut-on décider directement le moment magnétique de l’électronComptes Rendus Acad. Sci. Paris184, pp. 82-84, 1927.

(16) Le forze di scambio sono trattate in modo completo e rigoroso negli ultimi tre articoli di seguito riportati. Nei primi due articoli citati Heisenberg trattava la risonanza e la teoria a molti corpi applicato alle due specie di elio (ortoelio e paraelio). Aggiungo una nota che può essere d’interesse. Lo stimolo a scrivere questi primi due articoli venne ad Heisenberg per una disputa con Schrödinger. Il primo sosteneva che la meccanica ondulatoria era limitata e non poteva, come la sua meccanica delle matrici, rendere conto di tutti i problemi che si presentavano. Heisenberg difendeva la sua meccanica delle matrici che egli aveva già pubblicato nell’ultimo articolo riportato di seguito.
W. Heisenberg, Zeitschrift für Physik38, pp. 411-426, 1926.                                                                     

W.  Heisenberg, Zeitschrift für  Physik 39, pp. 499-518,  1926.
W. Heisenberg Über den Bau der Atomkerne. I.Z. Phys. Volume 77, 1-11 (1932)
W. Heisenberg Über den Bau der Atomkerne. II.Z. Phys. Volume 78, 156-164 (1932)
W. Heisenberg Über den Bau der Atomkerne. III.Z. Phys. Volume 80, 587-596 (1933)
W. Heisenberg, Über quantentheoretishe Umdeutung kinematisher und mechanischer BeziehungenZeitschrift für Physik33, 879-893, 1925.

        Anche Heitler e London elaborarono nello stesso tempo un qualcosa di analogo nell’ambito delle forze chimiche ed anche qui compariva un termine di scambio.

(17) Espongo in breve il modo di fare il prodotto scalare tra due vettori quantistici. E’ noto come si sommano i vettori classici: vale la regola del parallelogrammo per la quale è necessario conoscere la lunghezza di ogni vettore e l’angolo che formano tra loro. Per i vettori quantistici si procede come segue.

Supponiamo di avere due vettori quantistici, L1 ed L2 tali che L12 = (ℓ1 + 1).ℓe L2= (ℓ2 + 1).ℓ2 essendo ℓed ℓnumeri interi o seminteri. Si richiede il vettore somma, J = L1 + L2. Iniziamo con il proiettare i due vettori sul loro asse comune. La proiezione massima e minima della loro somma sarà rispettivamente ℓ1 + ℓ2 e  |ℓ1 – ℓ2| . Ciò significa che la proiezione massima del vettore J, cioè J, può assumere i valori da |ℓ1 – ℓ2| fino a ℓ1 + ℓ2. E noi non sappiamo quale sarà il valore che assumerà tale proiezione ma possiamo solo valutarne la probabilità. Ricordando che il quadrato di un vettore L è dato da L2 = (ℓ + 1).ℓ, calcoliamoci il quadrato di J = L1 + L2.  Si avrà:

                            J2 = (L1 + L2)= L1+ L22 + 2.L1.L2               =>

                   J(J + 1) = (ℓ1 + 1).ℓ+ (ℓ2 + 1).ℓ2  + 2.L1.L2              =>

                L1.L2 = ½ [J(J + 1) –   (ℓ1 + 1).ℓ–  (ℓ2 + 1).ℓ2]

Sostituendo a J uno dei suoi possibili valori da |ℓ1 – ℓ2| fino a ℓ1 + ℓ2 avremo un dato numero di valori discreti possibili per il prodotto scalare  L1.L2.  

(18) Se passiamo a tre elettroni lo spin totale può essere 1/2 o 3/2. In generale un numero pari di elettroni crea configurazioni con spin intero (in particolare con spin zero) ed il numero dispari di elettroni, con spin semintero.

(19) L’hamiltoniana completa, ricordando il risultato del prodotto scalare tra due vettori quantici di spin s1.s2 (vedi nota 17) sarebbe:

 Hs  =  ¼ (E+ 3 Ea) + (Ea – Es).s1.s2

si può vedere che l’espressione per Hs data nel testo ha K = ¼ (E+ 3 Ea) e A = ± (Ea – Es).

(20) W. Heisenberg Zur Theorie des FerromagnetismusZ. Phys. Volume 49, pp. 619-636, 1928

(21) Pauli, W., Uber Gasentartung und ParamagnetismusZeitschrift für Physik 41, pp. 81–102, 1927.

(22) Il valore dell’integrale di scambio risulta generalmente negativo mostrando che in natura sono favorite le situazioni NON ferromagnetiche.

(23) F. Bitter, Phys. Rev.38, p. 1903, 1931. Francis Bitter è  il Bitter che, a lato del MIT, fondò il “Bitter Magnet Laboratory” (laboratorio che fornì i magneti per il primo reattore a fusione ad alto campo tokamak costruito negli USA, l’ALCATOR A). In bibliografia è riportato un suo pregevole libretto divulgativo.

(24) I dettagli di questa problematica sono stati trattati da J.H. van Vleck, Annales de l’Institut Henri Poincaré, 10, p. 57, 1947.

(25) L. D. Landau, E. M. Lifshitz, Theory of the dispersion of magnetic permeability in ferromagnetic bodiesPhysik. Zeits. Sowjetunion8, pp.153-169, 1935.

(26) F. Bloch, Z. Physik, 61, p. 206, 1932.

(27)  Ј. Frenkel, Viscous Flow of Crystalline Bodies under the Action of Surface TensionJournal of Physics9, 5, pp. 385-391, 1945.

(28) F. Bloch, Zur Theorie des FerromagnetismusZ. Physik 61, p. 206, 1930.

(29) W. Pauli, Über Gasentartung und Paramagnetismus (On Gas Degeneracy and Paramagnetism), Zeitschrift fur physik41, 6-7, pp. 81-102, 1927.

(30) A. Sommerfeld, On the electron theory of metals based on Fermi statisticsZeitschrift fur. Physik, 47, 1-32; 43-60, 1928.

(31) In somma sintesi, lo spazio delle fasi, in coordinate cartesiane, è uno spazio che ha su uno degli assi coordinati le quantità di moto q di un sistema in moto e sull’altro asse le coordinate spaziali dello stesso sistema. In coordinate qualunque, la definizione più generale di spazio delle fasi è quello spazio in cui si rappresenta il moto di un sistema. Tale spazio è formato dalle 2n coordinate generalizzate del sistema in studio (sistema di coordinate uguali al numero dei gradi di libertà del sistema) qn e dai momenti coniugati del medesimo sistema (o velocità generalizzate di esso) piSi tratta di un metodo matematico elaborato da Hamilton per rendere più semplice lo studio di sistemi complessi.

    Riporto il disegno (uno dei pochi realizzabili perché in due dimensioni) dello spazio delle fasi per un semplice oscillatore armonico. Si tratta di ellissi che, se trattiamo l’oscillatore con i quanti e quindi con h, risultano quantizzate, ciascuna delle quali con area ∫pdq = nh.

        In accordo con l’espressione per l’area ora data, l’area della prima ellisse è h, della seconda è 2h, della terza 3h, e così via. Ed anche l’area tra due ellissi consecutive è h. L’oscillatore quantizzato, che è rappresentato nel grafico con un punto, se acquista energia ed acquista un quanto di energia hν salta da una ellisse a quella superiore (e viceversa se perde energia). Avverto però che la traiettoria dell’oscillatore nello spazio delle fasi non deve essere confusa con una traiettoria ordinaria in uno spazio ordinario.

(32) La costante di proporzionalità γ che figura nella (10),  z(ε) = g . ε½ , si può determinare e vale:

γ = [(2)½.π.V.(m)3/2]/h3

dove V è il volume del campione di metallo.

(33) Il nome deriva dal fatto che la frequenza data è quella degli elettroni nei ciclotroni, delle macchine acceleratrici di particelle. Si noti, e ci sarebbe da discutere, che ωc = 2ωL.

(34) Un elettrone singolo, in una banda di energia, può avere massa efficace positiva o negativa: gli stati con massa efficace positiva si trovano presso il fondo di una banda poiché massa efficace positiva significa che la banda ha curvatura rivolta verso l’alto. Stati con massa efficace negativa si hanno  presso la sommità della banda e una massa efficace negativa vuol solo dire che nella sommità della banda l’elettrone si comporta come se avesse carica positiva. Nella zona intermedia della banda la massa ordinaria e la massa efficace sono circa uguali mentre nei punti d’inflessione della banda la massa efficace diventa infinita. L’andamento della massa efficace è determinato dalla relazione:

                                       m* = (h/2π). 1/(d2E/dk2)

nella quale E = (h/2π).ω è l’energia alla quale ci troviamo e k è il numero d’onda (che ordinariamente definisce le zone di Brillouin).

(35) L. Néel, Influence des fluctustions du champ moléculaire sur le propriétés magnetiques des corpsAnn. Phys.18, 5, 1932.
L. Néel, Theory of constant paramagnetism. Application to manganeseComp. Rend. Acad. Sci. Paris, 203:304-6, 1936
L. Néel, Propriétés magnétiques de l’état magnétique et énergie d’interaction entre atomes magnétiquesAnn. Phys.5, 232-279, 1936.
F. Bitter, A generalization of the theory of ferromagnetism, Phys. Rev.54, 79, 1938.
J. H. Van Vleck, On the Theory of AntiferromagnetismJ. Chem. Phys. 9, 1941.

La Nobel Lecture di Néel è molto interessante perché ricostruisce i vari passi delle ultime ricerche sul magnetismo.

(36) H. Bizette, C.F. Squire, B. Tsai, Transition point of magnetic susceptibility of MsOComp. Rend. Acad. Sci. Paris,, 207, 449, 1938.

(37) C. G. Shull, J. S. Smart, Detection of Antiferromagnetism by Neutron DiffractionPhys. Rev.76, 1256, 1949. La verifica sperimentale è avvenuta mediante diffrazione di neutroni da parte dei nuclei atomici e dall’interazione dello spin neutronico e gli ioni paramagnetici presenti. I neutroni termici sono particelle dotate di momento magnetico sul quale è possibile l’azione dei momenti magnetici atomici che hanno lunghezza d’onda dello stesso ordine di grandezza delle distanze interatomiche. Con tali particelle si possono studiare le strutture magnetiche come i raggi X permettono lo studio delle strutture atomiche. Questa tecnica è stata migliorata ed ha permesso la scoperta di ulteriori nuove strutture magnetiche. Lo studio di tali strutture e della loro stabilità relativa costituisce una delle branche più nuove del magnetismo sulla quale vengono applicate anche altre tecniche come la risonanza magnetica e l’effetto Mössbauer, tecniche che permettono di superare le
incertezze derivanti dalle tecniche classiche di misura. Non posso entrare in dettagli perché richiederebbero un altro articolo.

(38) Non sono in grado di dire cosa sia accaduto in termini di trattamento teorico della questione ma, ancora nel 1982, il modello classico in tal caso era una necessità in quanto non si era ancora riusciti a realizzare una trattazione quantistica del problema.

(39) J.J. Went, E.W. Gorter, The Magnetic and Electrical Properties of Ferroxcube Materials, Philips Tech. Rev.13, 7, 181-208, 1952.
J.J. Went, G.W. Rathenau, E.W. Gorter, G.W. Oosterhout, Ferroxdure, a class of new permanent magnet materialsPhilips, Tech, Rev13, 194, 1952.

(40) L. Néel, Propriétés magnétiques des ferrites. Ferrimagnétisme et antiferromagnétismeAnn. Phys.3, 137-198, 1948.


BIBLIOGRAFIA

1) Pierre Weiss, Gabriel Foex – Le magnétisme – Libraire Armand Colin, Paris 1926

2) Francis Bitter – Vita coi magneti – Einaudi 1960

3) Maxwell – Trattato di Elettricità e Magnetismo – UTET 1973

4) E. Whittaker – A History of the Theories of Aether and Electricity – Thomas Nelson & Sons 1951/1953

5) Maurice Daumas (a cura di) – Storia della scienza: le scienze del mondo fisico – Laterza 1976

6) Mario Gliozzi, Michele Giua – Storia delle scienze (Vol. II) – UTET 1965

7) A. I. Kitaigorodskij – Ordine e disordine nel mondo degli atomi – Boringhieri 1968

8) M Cyrot, Étienne du Trémolet de Lacheisserie – Magnétisme. Fondements – EDP Sciences, Grenoble 1999

9) U. Forti – Storia della scienza – Dall’Oglio 1968

10) R. Pitoni – Storia della fisica – Società Tipografico Editrice Nazionale 1913

11) J. A. Ewing – Magnetic Induction in Iron and Other Metals – London: Van Nostrand, 1891

12) René Taton (a cura di) – Storia Generale delle Scienze – Casini 1967

13) G. Castelfranchi – Fisica moderna – Hoepli, (data non indicata)

14) Eligio Perucca – Fisica generale e sperimentale – UTET 1940

15) P. Fleury, J. P. Mathieu – Elettrostatica. Corrente continua. Magnetismo – Zanichelli 1970

16) Charles Kittel – Introduzione alla fisica dello stato solido – Boringhieri 1971

17) A. J. Dekker – Fisica dello stato solido – Ambrosiana 1965

18) J. M. Ziman – Principles of the Theory of Solids – Cambridge University Press 1965

19) Alfred Kastler – Questa strana materia – EST Mondadori 1977

20) Alan Holden – Fisica dei solidi – EST Mondadori 1967

21) Einstein, Besso – Correspondance (1903-1955) – Hermann, Paris, 1979

22) A. Pais – Sottile è il Signore … – Boringhieri 1986.

23) F. Hund – Storia della teoria dei quanti – Boringhieri 1980

24) Kurt Mendelssohn – Sulla via dello zero assoluto – Il Saggiatore 1966

25) V.V. Syčev – Sistemi termodinamici complessi – Editori Riuniti, Edizioni MIR 1985

26) G. Tagliaferri – Storia della fisica quantistica – Franco Angeli 1985

27) M. Kagánov, V. Tsukérnik – La naturaleza del magnetismo – Editorial MIR, Moscu, 1985 (questo libro mi ha fornito moltissimi argomenti e da esso ho attinto molto).



Categorie:Fisica e Storia della Fisica

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