IRAQ: LA SCOMODA VERITÀ

Una imbarazzante storia della rete dei rapporti con Baghdad

di Aldo Torchiaro

Nella prima metà dello scorso mese di agosto, quando i media hanno iniziato a paventare l’imminenza di un attacco Usa all’Iraq fra voci di assenso (poche), di critica (molte) e di netto dissenso (in buon numero), qualcuno ha rimesso in circolazione le vicende che videro il governo Usa, la Cia e l’industria della Difesa americana rifornire senza risparmio Saddam Hussein di armamenti, materiali strategici e finanziamenti, assumendo al contempo un’incredibile atteggiamento tollerante nei suoi confronti.

Una manovra chiaramente tesa a danneggiare l’Amministrazione Bush che però potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio perché di certe scelte politiche e strategiche, non sarebbero solo gli Stati Uniti a dover arrossire, ma si troverebbero in eccellente compagnia. Per esempio di Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Svizzera.

Nel 1989-90 infatti, proprio gli aiuti concordemente forniti all’Iraq da questi Paesi nel decennio precedente avevano consentito a Saddam Hussein di approntare, proporzionalmente, quella che alla vigilia dell’operazione Desert Storm era considerata la più forte struttura militare del mondo.

In quell’anno, infatti, mentre l’allora Unione Sovietica con una popolazione di circa 290 milioni di abitanti aveva alle armi 4.250.000 suoi cittadini, gli Stati Uniti 2.125.000 per 248 milioni di abitanti e la Cina Popolare, 3.200.000 a fronte di ben 1 miliardo e 112 milioni di cinesi, l’Iraq, con una popolazione numericamente trascurabile al confronto, appena 18 milioni di unità, ne aveva in divisa ben 1 milione più 450.000 nella Milizia, appoggiati da 4.800 carri da battaglia, 2.000 blindati trasporto truppe, un’artiglieria di 4.000 bocche da fuoco e così via.

Una massa di uomini imponente, ben armata ma anche abituata al combattimento, perché tra il 1980 e il 1988 l’Esercito iracheno aveva combattuto una lunghissima e sanguinosa guerra, terminata senza veri vincitori né vinti, con il confinante Iran.

Eppure, nonostante il conflitto in atto che logorava giorno per giorno lo strumento militare, Baghdad aveva sostenuto con successo una poderosa campagna di potenziamento dei suoi armamenti proprio grazie agli aiuti dei Paesi occidentali.

Questi infatti, per ostacolare il radicalismo sciita che aveva sommerso l’Iran travolgendo lo Scià di Persia Reza Pahlevi, storico e corrotto alleato degli Stati Uniti nell’area, instaurando la Repubblica Islamica e divenendo il nemico numero uno del “Grande Satana” di Washington e della “cricca sionista” di Tel Aviv, su input Usa avevano deciso di appoggiare indiscriminatamente il suo peggiore nemico: Saddam Hussein.

Le Forze Armate iraniane erano qualitativamente superiori a quelle irachene grazie agli aiuti americani accumulati dallo Scià; potevano contare su una buona Aeronautica, e una moderna Marina controllava in assoluto le vie d’acqua del Golfo Persico mentre l’Iraq ne era praticamente sprovvisto. Occorreva correre subito ai ripari, ma la rapidità dell’azione andò a discapito della accuratezza delle valutazioni che saranno, come poi si vedrà, disastrose.

Subito dopo l’inizio del conflitto e prima della fine del 1980, la Francia dichiarava di voler dare immediato seguito al previsto programma di fornitura di velivoli da combattimento all’Iraq per 1,6 miliardi USD (valuta del 1980), e per non perdere tempo inviava subito 5 Super Etendard della Marine Nationale.

Ma la decisione più grave veniva presa da Francia e Italia che confermavano il loro appoggio al programma in atto per la costruzione di un reattore nucleare destinato alla ricerca a ” scopi del tutto pacifici” ed “eventualmente alla produzione di energia elettrica” denominato Osirak.

Questo era un apparato di progettazione francese da 40 megawatt che utilizzava uranio 235 arricchito al 93% cui era stato dato il nome del dio Osiris; destinato a Baghdad diveniva Osirak, mentre gli iracheni lo chiamavano Tammuz dal mese nel quale il Partito Ba’ath salì al potere con il colpo di Stato del 1968. Qualcuno obiettava che poteva forse essere rischioso dare il via ad un programma nucleare in quell’area e in quel particolare momento, ma il quotidiano parigino Le Monde commentava, un poco pontificando, che “Il nostro Governo non può correre il rischio di irritare questo Paese produttore di petrolio.”.

Alla fine del maggio 1981 il reattore era quasi ultimato e gli scienziati francesi ammettevano che, in teoria, avrebbe potuto essere impiegato anche per la realizzazione di armamenti; negli stessi giorni il Presidente François Mitterrand  dichiarava di essere pronto a fornire all’Iraq il combustibile nucleare necessario.

Fortunatamente qualcuno aveva mantenuto una visione obiettiva della vicenda: i servizi segreti di Israele, che poteva essere il primo bersaglio di eventuali atomiche irachene, avevano la conferma che Osirak era in grado di essere utilizzato per la costruzione di ordigni nucleari e il 7 giugno cacciabombardieri di Tel Aviv con una incursione “chirurgica” distruggevano l’impianto, suscitando reazioni avverse da chi, nel mondo, non correva il rischio della guerra nucleare.

Per ironia delle sorte le proteste più dure dovevano essere quelle dell’Arabia Saudita che si offriva subito di finanziare la ricostruzione dell’impianto (che per fortuna non avverrà) e degli Stati Uniti il cui vice Presidente, George Bush, padre dell’attuale Presidente George W. Bush jr, deplorava vivacemente “il brutale attacco scatenato da Israele”.

Quello che il mondo non sapeva, o meglio che molti fingevano di non sapere, era che già all’inizio del 1980 l’Institut Mérieux, una società francese produttrice di vaccini con sede a Lione e facente parte del colosso farmaceutico Rhone-Poulenc (non proprio una fabbrichetta gestita da sprovveduti) aveva curato la realizzazione ad Al Manal di un complesso destinato “alla produzione di  vaccino contro l’afta epizootica”, una malattia virale del bestiame.

La spesa era stata elevatissima perché gli edifici non erano stati costruiti secondo le norme edili standard, ma avevano le strutture costituite da gettate di cemento armato insolitamente troppo spesse e rinforzate con sbarre  e piastre d’acciaio, mentre le zone interne, destinate alla produzione dei “vaccini”, erano state a loro volta corazzate con vere e proprie corazzature.

La maggior parte dei macchinari non era stata fornita dal Mérieux, ma proveniva da aziende europee del settore farmaceutico di Francia, Germania, Spagna e Svizzera. Così ufficialmente nessuno aveva venduto, ad esempio, una linea di produzione per l’antrace o per il gas sarin, ma singole apparecchiature che però, una volta assemblate, non avrebbero prodotto certo vaccini. Ma stranamente nessuno, neanche i tecnici francesi che supervisionavano la costruzione di una fabbrica di vaccini corazzata come un bunker antinucleare, ebbe mai alcun sospetto.

Come non ebbe alcun sospetto la direzione dell’American Type Culture Collection, un’organizzazione senza fini di lucro che vende materiale biologico a laboratori scientifici e industrie, che per 35 dollari fornì per posta ad uno sconosciuto laboratorio iracheno un ceppo di botulino, base per la produzione dell’antrace.

Un anno dopo, nel 1981, un noto gruppo farmaceutico tedesco sovrintendeva a Salman Pak e Fudaliyah alla costruzione di uno stabilimento per la produzione di pesticidi e di uno per la produzione di altre sostanze “destinate all’agricoltura” che sarebbero stati pronti nel mese di autunno, ma per produrre armi chimiche.

Questi ed altri impianti fornivano così iprite, gas nervini e gli altri aggressivi che l’Iraq iniziò ad impiegare in operazioni belliche nel 1984 e che nel marzo 1988, poco prima della fine della guerra, verranno usati per reprimere i moti indipendentisti curdi colpendo la città di Halabja, nell’Iraq settentrionale, gasando e uccidendo non meno di 5.000 persone e costringendone circa 80.000 a fuggire per trovare riparo in Turchia.

E nel 1985, quando da un anno si sapeva che Baghdad faceva ricorso alle armi chimiche, il personale specializzato del Mérieux che ad Al Manal istruiva il personale iracheno non interruppe il suo lavoro. Anche se ben sapeva che la catena per la produzione di un virus è la stessa sia per realizzarne uno da utilizzare in un vaccino che uno destinato ad un’arma di distruzione di massa. Basta cambiare le basi di partenza.

Nel 1982 Saddam Hussein dichiarava che avrebbe abbandonato il suo appoggio al terrorismo e a riprova di ciò espelleva da Baghdad Abu Abbas (che l’anno seguente gestirà il sequestro del transatlantico da crociera Achille Lauro). Il Dipartimento di Stato americano rispondeva al “gesto di buona volontà” cancellando l’Iraq dalla lista dei Paesi sponsor del terrorismo, con la qual cosa adesso Baghdad poteva avere accesso all’acquisto di tecnologie di ultima generazione e otteneva  anche di usufruire di cospicui prestiti dalla Washington’s Commodity Credit Corporation.

All’inizio dello stesso anno per avere un mezzo di contrasto da opporre alla Marina iraniana, il raìs ordinava a prezzi estremamente agevolati all’italiana Fincantieri 4 fregate e 6 corvette, tutte missilistiche, e una unità logistica. I lavori iniziavano nel 1982 e le unità venivano varate tra il 1982 (la logistica) il 1985 (le corvette) e il 1987 (le fregate).

L’Accademia Navale di Livorno e le Scuole Sottufficiali di Taranto e La Maddalena provvedevano  ad addestrare i quadri della futura Marina irachena, come del resto facevano da anni anche per la Marina iraniana, in una difficile ma controllata convivenza tra classi di allievi-nemici.

Ma l’addestramento degli equipaggi delle unità commissionate, previsto da un accordo con la Marina Militare, che avveniva a La Spezia, andava per le lunghe. Così  le unità, oramai navi da guerra irachene con tanto di bandiera militare, all’entrata in vigore dell’embargo del 1990 sulle esportazioni di armamenti e materiali militari all’Iraq venivano sequestrate e non verranno mai consegnate. La nave logistica, meno impegnativa, aveva lasciato l’Italia nel 1986, ma era stata internata ad Alessandria d’Egitto, dove si trova tuttora, prima di passare il Canale di Suez.

Questa fu l’unica o una delle poche operazioni di acquisizione armamenti fallita, ma solamente per una serie di casualità, e non certo per volontà di politici, militari o, ancor meno, industriali.

Nel 1983 “uomini d’affari” iracheni iniziavano ad acquistare, su consulenze di esperti finanziari francesi e svizzeri, tecnologie militari, rilevati in tale incarico, circa un anno dopo, dal Ministero per l’Industria e le Tecnologie Militari di Baghdad senza che nessuno lo trovasse strano.

Nel febbraio del 1984 gli Stati Uniti confermavano l’impiego da parte dell’Iraq dell’iprite contro gli iraniani. A novembre, dopo la seconda elezione alla presidenza di Ronald Reagan, venivano riprese le relazioni diplomatiche con Baghdad, interrotte anni prima. Durante questo anno Saddam Hussein spendeva ben 14 miliardi USD per l’acquisto all’estero di materiali bellici da impiegare nel conflitto. L’iniziale svantaggio militare nei confronti dell’Iran stava rapidamente decrescendo.

Nel 1985, su richiesta e dietro finanziamenti da parte del raìs, l’ex ambasciatore Usa in Oman Marshall W. Wiley fondava l’US-Iraq Business Forum nel quale confluivano circa 70 grandi aziende americane fra la quali Westinghouse e Caterpillar.

A novembre avveniva il sequestro dell’Achille Lauro organizzato e gestito dal “ripudiato” Abu Abbas che però viaggiava ancora con passaporto iracheno e che alla fine della vicenda avrebbe trovato rifugio a Baghdad; ma nonostante l’assassinio di Leon Klinghoffer e lo sdegno internazionale Washington decideva di non rimettere l’Iraq nella lista dei Paesi terroristi.

La vicenda degli aiuti aveva risvolti quasi comici quando il Governo di Londra nel 1986 decideva di cedere all’Esercito iracheno la sua intera disponibilità di uniformi desertiche. La cosa, infatti, non farà piacere ai soldati britannici che quattro anni dopo dovranno fronteggiare, infagottati in pesanti mimetiche dato che il vestiario desertico non era stato ancora sostituito, i militari iracheni confortevolmente dotati delle combinazioni britanniche.

Nel marzo del 1988 avveniva la già citata strage di curdi ad Halabja, e in America i senatori Clairborne Pell e Jesse Helms chiedevano l’applicazione di pesanti sanzioni a Baghdad, ma l’Amministrazione Reagan faceva notare che l’iniziativa era quanto meno “prematura” bloccandola.

Il 17 luglio aveva termine il lungo e sanguinoso conflitto tra Iran e Iraq che aveva visto un incredibile dispendio di uomini e mezzi, e contemporaneamente un sempre maggiore rafforzamento della struttura militare irachena. La fine della guerra non modificava in tutti i casi la corsa agli armamenti di Baghdad che, come abbiamo visto, aveva già dato ottimi frutti.

Ne è la prova il fatto che tra il febbraio del 1988 e il luglio 1989 la filiale dell’italiana Banca Nazionale del Lavoro di Atlanta, nella Georgia, accordava all’Iraq 3 miliardi di USD in prestiti segreti e non autorizzati, cifra che veniva ripartita in parte in acquisti presso aziende americane, britanniche e tedesche, il rimanente depositato presso la Banca Centrale dell’Iraq.

Baghdad, che nei due anni precedenti aveva ottenuto due prestiti da 1 miliardo USD dalla Commodity Credit Corporation, ne otteneva un altro da 750 milioni e prima della fine dell’anno ne avrà un altro ancora da 500 milioni. Ma il Congresso degli Stati Uniti, tenendo a mente quanto era avvenuto a Halabja e di come era stato insabbiato il suo appello per le sanzioni, rigettava la richiesta di Baghdad per avere altri prestiti da parte dell’Export-Import Bank.

Inutilmente perché nel gennaio dell’anno seguente, il 1990, il neo eletto Presidente George Bush, “in nome dell’interesse nazionale americano” rimuoveva il veto e consentiva l’accesso ai fondi. Esattamente ad un anno di distanza dall’inizio di Desert Storm.

A questo punto, però, nonostante la stessa Amministrazione Bush che un anno dopo sarebbe stata inflessibile contro Saddam Hussein (e tuttora continua ad esserlo in “linea ereditaria”) mantenesse una inspiegabile tolleranza nei confronti degli atteggiamenti sempre più insostenibili di Saddam Hussein, si era verificato un deterioramento nella situazione dei rapporti tra Baghdad e l’Occidente.

Non che questo portasse ad un blocco degli aiuti o delle vendite, tutt’altro. Ma episodi come l’arresto di contrabbandieri di materiale strategico che nel mese di marzo tentavano di importare da Londra componenti per i detonatori di ordigni nucleari (fabbricati da una ditta di San Diego, in California), la crescente arroganza delle dichiarazioni e degli atteggiamenti di Saddam Hussein, le sempre più numerose esercitazioni e i rischieramenti dell’Esercito iracheno nei pressi del confine kuwaitiano non erano ancora sufficienti a determinare una inversione di tendenza nella linea politica di Washington. Ma anche di molti altri Paesi.

In pratica fino a poco prima  dall’attacco della coalizione occidentale all’Iraq, l’atteggiamento dei Paesi ex amici di Saddam Hussein doveva rimanere quanto mai incerto e ambiguo, e i vari Governi che avevano appoggiato l’Iraq in maniera, come abbiamo visto, che giungeva a travalicare la ragion di Stato impiegheranno ancora molti mesi prima di ammettere i loro torti

L’Italia era fuori causa per via delle navi costruite per l’Iraq che, nonostante avesse pagato un anticipo più che lauto (le conseguenze sulla credibilità della nostra industria bellica derivate da questa vicenda saranno devastanti, con profonde ripercussioni sull’economia nazionale), erano state sequestrate e mai consegnate, ma la Francia, mentre era già in svolgimento Desert Shield ossia la fase preparatoria di Desert Storm, rifiutava ancora di fornire informazioni al Pentagono sugli apparati ECM forniti all’Iraq per il contrasto e il disturbo dei velivoli early warning  AWACS.

E sempre negli stessi giorni il Dipartimento di Stato e il Ministero del Commercio Usa facevano di tutto per far ottenere (fortunatamente con esito negativo) il permesso affinché l’IBM potesse fornire ad una azienda brasiliana, che era nota per avere legami ferrei con Baghdad al quale aveva già fornito una lunga serie di eccellenti materiali, tecnologia digitale di ultimissima generazione.

Non era migliore il comportamento della Germania che solo a undici giorni da Desert Storm bloccava un invio di materiali destinati al programma missilistico iracheno. La spedizione, da parte della H+H Metalform Gmbh risultava essere composta, secondo il manifesto di carico che avrebbe dovuto seguire casse e imballaggi, da “parti di macchinari per l’industria casearia”. E tanti altri casi analoghi, molti dei quali non saranno mai resi noti, si dovevano verificare in quei giorni.

In realtà tutto questo era stato dovuto ad una congiuntura piuttosto rara e per questo ancor più pericolosa, ossia al crearsi spontaneo di una perfetta simbiosi tra le decisioni di alcune classi politiche che avevano preso dei colossali abbagli, senza accorgersene in un primo tempo e senza volerlo ammettere in seguito, e le logiche linee di condotta di tante industrie belliche alle quali i politici avevano dato mano libera e che per questo, giustamente, ritenevano di avere carta bianca nella loro corsa al guadagno.

Allo stesso tempo i servizi segreti dei Paesi occidentali avevano dimostrato o una totale incapacità di operare corrette valutazioni o una totale incapacità di far valere i propri diritti quando avevano espresso le loro riserve davanti ai rispettivi Governi.

E oggi, a oltre dieci anni dagli eventi che ho citato, stiamo ancora pagando durissime conseguenze di questo anomalo ma fatale coacervo di circostanze.


USA/IRAQ

Le armi di Saddam

di Achille Lodovisi

La vicenda dell’Iraq dimostra che sono proprio gli Stati Uniti a guidare e controllare la proliferazione delle armi di distruzione di massa, decidendo volta a volta chi sono i “buoni” che possono “proliferare” tali armi e chi sono i “cattivi” contro cui usarle

Con la pubblicazione sul “New York Times” il 18 agosto scorso di un articolo di Patrick Tyler, le vicende che permisero all’Iraq di impiantare un arsenale chimico e batteriologico e di avviare un programma per l’acquisizione di capacità nucleari hanno assunto una coloritura politica assolutamente inaspettata e molto significativa.

DOLLARI PER SADDAM

Le nuove rivelazioni, basate su documenti del dipartimento di Stato resi in parte di pubblico dominio, dimostrano che fin dal 1982 il presidente Reagan e il suo vice George Bush senior non solo erano a conoscenza dell’impiego massiccio di armi chimiche da parte dell’Iraq, ma lavoravano a un programma segreto per inviare consiglieri militari a Baghdad allo scopo di seguire la pianificazione degli attacchi contro le truppe iraniane. La possibilità di un improvviso tracollo militare iracheno, che avrebbe aperto agli iraniani la strada per il Kuwait e per l’Arabia Saudita, convinsero Reagan e Bush a schierarsi senza esitazioni con Saddam Hussein: decisione sancita da una National Security Decision Directive del giugno 1982 (ancora oggi tenuta riservata) e dalla cancellazione dell’Iraq dalla lista degli stati “canaglia” che appoggiavano il terrorismo.

Nello stesso anno Baghdad fu ammessa a beneficiare delle esportazioni Usa di tecnologie, impianti e informazioni a uso duale (impiegabili sia in campo civile che militare) e delle tecnologie militari necessarie per sviluppare programmi di armamento chimico, batteriologico e nucleare, come hanno dimostrato le ispezioni alle installazioni irachene svolte dopo il 1991 dall’Onu. Tra il 1985 e il 1990 il dipartimento del Commercio Usa approvò 771 licenze di prodotti tecnologici dual use (1).

IL SOSTEGNO USA CONTRO L’IRAN

Washington fece affluire nelle casse del governo iracheno crediti per miliardi di dollari da impiegare nell’acquisto di armi, vigilando affinché Baghdad fosse messo in grado di sostenere lo sforzo bellico contro l’Iran.

Le importazioni irachene di grandi sistemi d’arma crebbero notevolmente dal 1983 al 1988 rispetto al periodo 1980-1982, mantenendosi sempre superiori ai 6 miliardi di dollari annui e toccando gli 11,9 miliardi nel 1984 (2). Tra i maggiori fornitori di Baghdad figuravano Urss, Francia, Cina, Brasile, Egitto, seguiti da Italia, Usa e Sudafrica.

Nel 1983 Reagan pose l’attuale segretario alla Difesa Rumsfeld – uno dei “falchi” oggi smaniosi di invadere l’Iraq – a capo della missione diplomatica inviata in Iraq per ristabilire le relazioni diplomatiche tra i due paesi e ribadire l’appoggio di Washington nel conflitto contro l’Iran. Gli Stati Uniti non si limitarono dunque a trasferire al temporaneo alleato tecnologie, componenti e know-how, ma svolsero un lavoro di regia e coordinamento del build-up dell’apparato bellico iracheno. Il direttore della Cia, W. Casey, in persona assisteva Baghdad nei negoziati per l’acquisto di armi e mezzi militari da altri paesi, incluse bombe a frammentazione e sistemi per la distruzione dei mezzi corazzati (probabilmente anche proiettili all’uranio impoverito).

CON L’AIUTO DELLA CIA

Sin dal 1984 la Cia fornì indicazioni sulla dislocazione sul terreno delle truppe iraniane, dati indispensabili per calibrare gli attacchi con il gas mustard e i gas nervini. Nel giugno del 1986, 60 consiglieri militari della Defense Intelligence Agency operarono in Iraq per trasferire agli stati maggiori di Baghdad le informazioni sullo schieramento iraniano ottenute dagli aerei radar sauditi Awacs, direttamente gestiti dal Pentagono.

Grazie alle informazioni e all’appoggio dell’intelligence Usa, negoziato nel 1983 dallo stesso Donald Rumsfeld (3), e alle forniture di tecnologie missilistiche da parte dell’Urss, nel febbraio 1988 l’Iraq riuscì ad attaccare con missili Teheran e con armi chimiche la città kurda di Halabja, provocando la morte di circa 5.000 civili inermi. Tra il 1983 e il 1988 le forze armate irachene impiegarono più di 100.000 proiettili caricati con gas mustard, acido cianidrico e gas nervini – impiegati per la prima volta nella storia sui campi di battaglia nel 1984.

QUANDO SADDAM ERA “NOSTRO AMICO”

Tutto ciò senza che nessuna condanna venisse pronunciata da Washington, da Mosca o da altri membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che solo nell’agosto del 1988 decise di avviare un’inchiesta. Le autorità di Baghdad si rifiutarono di collaborare, ma non vennero adottate né sanzioni né, soprattutto, misure per fermare le forniture di tecnologia e armamenti all’Iraq.

La vicenda assunse sembianze ciniche e farsesche allorché l’allora Segretario di stato Usa George Shultz dichiarò che non c’erano prove certe della responsabilità irachena nel bombardamento chimico di Halabja, quando egli stesso si era adoperato per convincere il National Security Council a vendere all’Iraq 10 elicotteri, ufficialmente destinati a “irrorare” le colture con diserbanti e insetticidi, ma in realtà impiegati per colpire la popolazione kurda con i gas.

IL PROGRAMMA BATTERIOLOGICO IRACHENO

Intanto gli Usa continuarono a fornire all’Iraq tecnologie e sostanze (precursori) da usare nella sintesi dei composti per la guerra chimica (gas nervino VX) oltre ad agenti patogeni impiegabili nella guerra batteriologica.

Secondo il Rapporto del Committee on Banking, Housing and Urban Affairs del Senato statunitense, gli Usa esportarono verso l’Iraq agenti patogeni per la guerra biologica fino al 28 novembre 1989. Ma il Center for Disease Control and Prevention (Cdc) inviò al senatore Donald Reigle – autore del rapporto – una lista “di tutti gli agenti biologici, inclusi virus, retrovirus, batteri, funghi inviati dal Cdc al governo iracheno dal primo ottobre 1984 al 13 ottobre 1993”, ossia due anni dopo la fine della guerra del Golfo (4).

Il programma di armamento biologico iracheno si era sviluppato a partire dal 1985, consentendo la produzione di notevoli quantità di agenti patogeni quali antrace, botulino e tossine (ricina, aflatossine, micotossine). Con l’acquisto dagli Usa e da altri paesi di speciali fermentatori e di ceppi batterici si avviarono studi sul Bacillus anthracis e sul Clostridium botulinum per conoscerne la virulenza, le condizioni di crescita e i parametri relativi alla sua conservazione. Nel 1988, dopo l’acquisto all’estero di altre attrezzature, venne sperimentata, con esiti peraltro assai deludenti, la prima arma batteriologica irachena e si compilarono piani per la produzione dell’antrace e del botulino.

chi sono i mostri?

Un ennesimo rapporto ufficiale statunitense, Strengthening the Export License System (5), segnala che fino al 18 luglio 1990, pochi giorni prima che l’Iraq invadesse il Kuwait, l’amministrazione Bush aveva approvato esportazioni di prodotti tecnologici di importanza strategica verso l’Iraq per 4,8 milioni di dollari, destinandoli al ministero dell’Industria e dell’Industrializzazione militare (Mimi), noto fin dal 1988 come responsabile della gestione degli impianti industriali coinvolti nei programmi di armamento chimico, biologico e nucleare.

Il sostegno tecnologico e finanziario statunitense favorì così le fasi evolutive più importanti dei programmi iracheni d’armamento nucleare, chimico e biologico: dopo il 1983, ovvero in seguito alla visita di Rumsfeld a Baghdad, l’Iraq riuscì a produrre agenti nervini, indispensabili per mettere a punto un armamento chimico strategico, sviluppò alcuni programmi nucleari e iniziò la produzione di armi batteriologiche che, tuttavia, restò a un livello molto embrionale.

Quanto scritto fin qui demolisce l’idea, infantile e manichea, secondo cui la pace nel mondo sarebbe minacciata da singoli “mostri malvagi” come Saddam Hussein che da soli costruiscono arsenali colmi di armi di distruzione di massa. E oggi?

L’ARABA FENICE

Dopo la guerra del Golfo, tra la primavera del 1991 e il 1998, la Commissione dell’Onu (Unscom) incaricata di individuare ed eliminare le armi di distruzione di massa dell’Iraq e le infrastrutture necessarie per produrle, distrusse impianti, laboratori, munizioni e missili pari a più del 90% degli arsenali chimico, batteriologico e nucleare dell’Iraq (6). Ma come l’araba fenice, a soli quattro anni di distanza l’armamentario iracheno sarebbe risorto dalle proprie ceneri al punto da giustificare una guerra “preventiva” contro Baghdad.

Anche ammettendo la fondatezza delle tesi dell’Amministrazione Bush, resta da chiarire chi e perché ha violato ripetutamente l’embargo vigente sui trasferimenti all’Iraq delle tecnologie indispensabili per fabbricare bombe chimiche, batteriologiche e nucleari. Non è chiaro inoltre da dove provenga la grande quantità di energia elettrica e materie prime strategiche necessarie per alimentare l’apparato militare-industriale non convenzionale, in particolare quello dedicato alla realizzazione delle armi nucleari.

Se prima della guerra del Golfo l’Iraq non disponeva di una base tecnologico-industriale tale da consentire la produzione autonoma dei macchinari e delle componenti strategiche di questi ultimi, a maggior ragione non può disporne oggi dopo undici anni di bombardamenti e distruzioni che, tra l’altro, hanno colpito gran parte delle centrali elettriche del paese (7).

LE SOSTANZE CHIMICHE DI SADDAM

A partire dal 1991 l’Iraq, sotto la sorveglianza dell’Unscom, ha ricostruito parte degli impianti chimici e ha riattivato stabilimenti la cui produzione potrebbe essere convertita dal settore civile a quello militare.

Ma per sostenere stabilmente un impiego massiccio di armi chimiche, la riconversione richiederebbe tempi lunghi, grandi disponibilità di mezzi e conoscenze associate a una costante manutenzione; sarebbe inoltre identificabile dai sistemi di telerilevamento e spionaggio satellitare e non si potrebbe realizzare senza l’afflusso di nuove componenti tecnologiche estremamente sofisticate da inserire nei cicli produttivi (8).

Quanto alle sostanze tossiche prodotte negli anni Ottanta, esse si sono degradate diventando innocue nel giro di cinque anni; lo stesso è accaduto – in soli tre anni – agli agenti per la guerra batteriologica, cosicché le eventuali “scorte” sottratte alle ispezioni Onu non sono oggi impiegabili.

IL PROGRAMMA NUCLEARE IRACHENO

Molte di queste considerazioni si possono estendere al “programma” nucleare iracheno. Dopo il 1981 l’Iraq tentò di acquisire la tecnologia per arricchire l’uranio da Gran Bretagna, Germania federale, Olanda e Francia. Dalla Germania giunsero attrezzature impiegabili nel processo basato sulle centrifughe a gas, da altri paesi materie prime, semilavorati e componenti, incluse 100 tonnellate di acciaio speciale a elevata resistenza. Tecnologie di origine francese e giapponese vennero impiegate nell’impianto di Tuwaitha per ottenere materiale fissile atto all’impiego militare mediante l’arricchimento chimico.

Come hanno dimostrato le ispezioni Unscom, i programmi non ottennero risultati di rilievo. Anche il tentativo iracheno di emanciparsi dalla dipendenza dalla tecnologia e dalla componentistica straniera non ebbe esiti incoraggianti: fallirono i progetti Calutron di arricchimento dell’uranio e quello che prevedeva l’impiego del plutonio recuperato dal materiale irradiato nel reattore di fabbricazione russa Irt-5000. Le ispezioni della Iaea dopo il 1991 – l’ultima si è svolta nel gennaio 2002 – non hanno rilevato traccia di effettiva produzione di uranio arricchito adatto all’impiego militare.

Le recenti “rivelazioni” Usa sul sequestro di tubi di alluminio ad alta resistenza destinati ai progetti nucleari dell’Iraq sono state ampiamente smentite dall’Institute for Science and International Security, un gruppo indipendente di scienziati statunitensi, secondo il quale simili attrezzature non possono essere impiegate nei processi per l’arricchimento dell’uranio (9).

CHI HA LE ARMI BATTERIOLOGICHE

Quanto alle armi batteriologiche, l’agenzia statunitense Defense Threat Reduction Agency ha dichiarato nel luglio 1999 che gli unici stati con “capacità superiori” nella produzione di agenti biologici, mezzi per la loro dispersione, individuazione degli organismi patogeni presenti nell’ambiente e realizzazione dei sistemi di difesa sono Usa, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania (10).

Sostanzialmente ridicola appare quindi la “rivelazione” dei servizi d’informazione britannici secondo cui l’Iraq tenterebbe di ottenere grandi quantità di ricina (tossina impiegata per la guerra biologica) mediante la produzione di olio di ricino, sostanza utilizzata per curare i tumori, che sono molto aumentati nel paese dopo la guerra del 1991.

Inoltre l’Iraq oggi non dispone di un numero sufficiente di vettori efficienti, missili e aerei (11), capaci di trasportare le armi di distruzione di massa oltre i confini nazionali su obiettivi a medio e lungo raggio mentre è addirittura risibile indicare quale fonte d’approvvigionamento il mercato nero; infatti un flusso clandestino di attrezzature, materiali nucleari, sostanze chimiche e ceppi di virus o batteri, sistemi missilistici, aerei ecc. avrebbe avuto dimensioni e frequenza tali da allertare i servizi d’informazione e le cancellerie di tutto il mondo.

Lo stesso Istituto di studi strategici di Londra (Iiss), molto vicino agli ambienti europei della Nato, ritiene che non esistano prove evidenti di una nuova “corsa agli armamenti” irachena (12) e perfino i vertici delle forze armate israeliane hanno dichiarato che la minaccia rappresentata dall’Iraq non è al primo posto nelle loro priorità.

IL DOTTOR STRANAMORE

Perché allora gli Usa si ostinano a presentare quale casus belli un coacervo di invenzioni e palesi esagerazioni? Da più parti si ritiene che dietro il pretesto delle armi di distruzione di massa irachene si celino altri interessi e motivazioni, quali il controllo del mercato mondiale dell’energia nei prossimi decenni, in funzione anticinese e antieuropea, o la crescente vulnerabilità dell’economia e della capacità di controllo globale degli Usa, che li spingerebbe a giocarsi il tutto per tutto in guerre senza fine.

Per restare alle armi di distruzione di massa, l’impostazione data dagli Usa alla questione irachena si muove nel solco di una politica, avviata fin dalla scomparsa dell’Urss, che rappresenta l’applicazione del concetto di american exceptionalism (particolarismo americano) al diritto internazionale in materia di controllo e distruzione delle armi nucleari, chimiche e batteriologiche (13).

In sostanza gli Stati Uniti, in quanto titolari di una missione e di un destino unici al mondo, diffusori e baluardo delle libertà, si ritengono i naturali detentori del diritto di valutare quali stati debbano accedere alle conoscenze e alle tecnologie necessarie per produrre armi di distruzione di massa fino a determinare il livello d’accesso dei paesi “buoni proliferanti” e a giudicare la “pericolosità” di quanti già fanno parte del club del terrore.

Il corollario di tale concenzione è da un lato la proliferazione, sotto stretto controllo statunitense, dei programi per la costruzione di armi nucleari, chimiche e batteriologiche da parte dei paesi “amici” (14) non appartenenti al novero delle potenze già detentrici (Pakistan e Israele nel settore nucleare, Egitto, Israele, Pakistan e Giappone per le armi batteriologiche e ancora l’Egitto in campo chimico); dall’altro la rimozione di ogni divieto a usare gli ordigni di sterminio di massa, nessuno escluso, contro gli stati “canaglia” o le potenze ostili agli Usa.

Oggi questa politica, applicata con feroce determinazione dopo le incertezze e i ripensamenti che hanno caratterizzato la presidenza Clinton, rischia di precipitare il mondo in una serie di conflitti dalle conseguenze catastrofiche.

NOTE

(1) S. Gonsalves, Bush fails to make case for war, “Seattle Post Intelligencer”, 17/9/2002.

(2) Prezzi in dollari costanti 1991, fonte: U.S. Arms Control and Disarmament Agency, World Military Expenditures and Arms Transfers 1991-1992, Washington, 1994, p. 109.

(3) R. Windrem, Rumsfeld key player in Iraq policy shift, NBC NEWS, Reuters, Associated Press, “The Independent”, 18/8/2002.

(4) “Business week online”, 20/9/2002.

(5) Citato in S.Gonsalves, U.S: was a key supplier to Saddam, “Seattle Post”, 24/9/2002.

(6) Si rimanda all’intervista dell’ex ispettore Unscom Scott Ritter pubblicata in W. Rivers Pitt, Guerra all’Iraq, Roma 2002; i rapporti Unscom sono consultabili mediante il sito della Federation of American Scientists <www.fas.org/>.

(7) Nel 1993, nel rapporto Technical Aspects of Chemical Weapon Proliferation, l’United States Office of Technology Assessment riconobbe che l’Iraq, senza l’assistenza di paesi e grandi aziende detentrici delle tecnologie per il controllo delle sintesi industriali degli agenti tossici e dei loro precursori, non avrebbe potuto fabbricare sostanze da impiegare nella guerra chimica. I componenti denominati precursori sono indispensabili sia nei programmi di armamento chimico, sia nei cicli industriali per fabbricare diserbanti, insetticidi, funghicidi, coloranti, detergenti, medicinali ecc. I maggiori produttori ed esportatori di essi (oltre che detentori di numerosi brevetti per la loro sintesi chimica) sono grandi gruppi chimico-industriali come Novartis, Monsanto, Zeneca, AgrEvo, Du Pont, Bayer, Rhone Poulenc, DowElanco, Cyanamid, Basf.

(8) L’impiego militare di un impianto chimico può essere segnalato dalla presenza di trattamenti o materiali speciali che preservano dalla corrosione quali: componenti realizzate in nickel o leghe con più del 40% di nickel o 25% di nickel e 20% di cromo; guarnizioni e componenti costruite con fluoropolimeri; serbatoi e tubazioni in vetro o rivestimenti vetrificati; scambiatori di calore, condensatori, colonne di distillazione o di assorbimento con applicazioni di grafite; parti dell’impianto realizzate in tantalio, o in leghe di tantalio, in titanio o leghe di titanio, in zirconio o leghe di zirconio (tutti materiali estremamente costosi e rari, il cui commercio è controllato dai paesi industrializzati); pompe rivestite con materiali ceramici.

(9) “Independent”, 23/9/2002.

(10) Il rapporto si può consultare su Internet <www.sunshine-project.org>.

(11) Le stime di fonte occidentale parlano di un numero di missili Scud variabile da 12 a 20, ma nessuna ha fornito ragguagli sulla loro efficienza; assai obsoleti risultano i caccia bombardieri in dotazione a Baghdad; un eventuale attacco aereo all’esterno del paese sarebbe stroncato sul nascere per la schiacciante superiorità dei mezzi schierati attualmente dagli Usa, Gran Bretagna e Israele, cfr. Jaffee Center for Strategic Studies (Tel Aviv ), The Middle East Military Balance, 1999-2000, Londra 2001; “Jane’s Intelligence Review”, gennaio 2002, pp. 42-43.

(12) Dichiarazione di Toby Dodge in “The Christian Science Monitor”, 29/8/2002.

(13) Si veda J. O’Loughlin, Dizionario di geopolitica, Trieste 2000, ad vocem.

(14) Sui paesi proliferanti alleati degli Usa si veda Iiss, Strategic Geography 2001/2002, Londra 2002, pp. XXIII-XXV.


Riporto il testo integrale di un articolo tratto da “Le Monde Diplomatique” del 1998 che ricostruisce una delle pagine più tragiche della storia irachena: lo sterminio dei curdi con il gas avvenuto il 16 marzo 1988 nella città di Halabja. Il testo rappresenta anche un atto di accusa agli americani che, a quei tempi, erano formalmente alleati dell’Iraq di Saddam ed anzi, dopo l’avvenuta strage, “la Casa bianca aveva persino concesso a Saddam Hussein crediti supplementari per un miliardo di dollari”.

Il link alla pagina originale è http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Marzo-1998/9803lm18.01.html

Ecco il testo Integrale:

Quando l'”amico” Saddam gasava i kurdi

La ricerca di armi chimiche e batteriologiche irachene è stata al centro della recente crisi del Golfo. Il rifiuto di Baghdad di permettere agli esperti delle Nazioni unite di ispezionare i siti presidenziali, dove queste armi sarebbero nascoste, avrebbe giustificato la nuova campagna di bombardamenti. I tempi cambiano. Dieci anni or sono, l’uso sistematico di gas venefici contro le popolazioni kurde del nord Iraq non aveva destato altrettanta commiserazione negli Stati uniti. A sei mesi dal martirio della città di Halabda, la Casa bianca aveva persino concesso a Saddam Hussein crediti supplementari per un miliardo di dollari. Vero è che, allora, quello che sarebbe diventato il “nuovo Hitler” era ancora l’alleato dell’Occidente contro la rivoluzione islamica iraniana…

di Kendal Nezan
Il 16 marzo 1988, nel bel mezzo di una mattina di primavera, i bombardieri iracheni invadono il cielo di Halabja, città di 60.000 abitanti all’estremo sud del Kurdistan iracheno, a pochi chilometri dalla frontiera iraniana (1). Il giorno precedente, la città era caduta nelle mani dei peshmergas (partigiani) dell’Unione patriottica del Kurdistan (Upk) di Jalal Talabani, sostenuti dai Guardiani della rivoluzione iraniani. Abituata alle alterne offensive e controffensive nel conflitto Iraq-Iran che devastavano la regione dal settembre del 1980, la popolazione crede sulle prime che si tratti di una classica operazione di rappresaglia. Chi fa in tempo si mette al riparo in rifugi di fortuna. Gli altri sono sorpresi da bombe chimiche che, a ondate successive, Mirage e Mig iracheni gli rovesciano addosso. Un odore nauseante di mele imputridite riempie Halabda. Al calar della notte, le incursioni aeree cessano e comincia a piovere. Poiché le truppe irachene hanno distrutto la centrale elettrica, gli abitanti partono alla ricerca dei loro morti nel fango, alla luce delle torce. L’indomani, si trovano di fronte a uno spettacolo spaventoso: strade lastricate di cadaveri, persone sorprese dalla morte chimica nei loro gesti quotidiani: neonati ancora attaccati al seno materno, bambini tenuti in mano dal padre o dalla madre immobilizzati, come in un’istantanea, pietrificati. In poche ore, 5.000 morti, 3.200 dei quali, rimasti senza famiglia, vengono tumulati in una fossa comune. Le immagini di questo massacro fanno il giro del mondo grazie a corrispondenti di guerra iraniani raggiunti dalla stampa internazionale che si reca sul posto e dà un certo spazio a questo avvenimento senza precedenti. Il fatto è che l’uso di armi chimiche è formalmente proibito dalla convenzione di Ginevra del 1925 soltanto l’Italia di Mussolini ha infranto questo divieto nella guerra d’Abissinia. Ma stavolta è contro il suo stesso popolo che uno stato usa i gas chimici..
A dire il vero, l’Iraq ha fatto uso di armi chimiche contro i kurdi fin dal 15 aprile 1987, due settimane dopo la nomina di un cugino di Saddam Hussein, Hassan Ali Al Majid, alla testa dell’ufficio per gli affari del nord, cioè del Kurdistan. Il decreto n. 160 del 29 marzo 1987 del Consiglio di direzione della rivoluzione (Ccr) gli dava i pieni poteri per l’avvio della soluzione finale del problema kurdo, mai risolto nonostante la politica di arabizzazione intensiva, gli spostamenti forzati di popolazioni, le esecuzioni dei capi, e persino a dispetto di una guerra che si protraeva, a intervalli, dal 1961.
Investito del potere di vita e di morte, il proconsole iracheno decide di evacuare e di distruggere tutti i villaggi, di raggrupparne gli abitanti in campi allestiti lungo i grandi assi stradali e di eliminare fisicamente le popolazioni ritenute ostili. Nell’ambito di questa strategia, l’uso di armi chimiche è caldeggiato per “ripulire” le sacche di partigiani e i villaggi di montagna, difficilmente raggiungibili. Condotte a partire dal 15 aprile contro una trentina di villaggi nelle province di Suleymanieh e di Erbil, i primi esperimenti chimici di Hassan Al Majid fanno centinaia di morti e si dimostrano terribilmente efficaci. Il 17 aprile, dopo un attacco con armi chimiche che fa 400 morti nella valle di Balisan, 286 sopravvissuti, feriti, tentano di raggiungere Erbil per farsi medicare. Vengono fermati dall’esercito e abbattuti. Deciso a convincere i suoi colleghi, e soprattutto il presidente Saddam Hussein, dell’efficacia del suo metodo, il capo dell’ufficio per gli affari del nord fa filmare i massacri, le deportazioni nonché l’effetto dei gas chimici sulla popolazione. Formati dagli specialisti della Stasi della Rdt, i servizi iracheni hanno un gusto pronunciato per gli archivi, anche quando documentano le loro azioni più spaventose. Durante l’insurrezione kurda del marzo 1991, parte di questi archivi cadrà nelle mani della resistenza che li passerà all’organizzazione umanitaria Human Rights Watch negli Stati uniti. La custodia e la consultazione di queste 18 tonnellate di documenti politici e di polizia, che presto saranno consultabili su Internet, sono assicurate dall’università del Colorado.
Grazie a loro si potrà scrivere la storia della campagna di genocidio operata dal regime del presidente Saddam Hussein contro i kurdi. Si viene così a sapere che il 26 maggio 1987 Hassan Al Majid riunisce i responsabili del partito Baas ai quali dichiara: “Appena avremo concluso le deportazioni, cominceremo ad attaccarli [i peshmergas] da tutte le parti. […] Li accerchieremo con armi chimiche. Useremo queste armi non per un solo giorno, continueremo ad attaccarli per quindici giorni. […
] Ho detto ai compagni-esperti che mi servono gruppi di guerriglieri in Europa per uccidere il maggior numero possibile [di membri kurdi dell’opposizione]. Lo farò, con l’aiuto di Dio. Li vincerò e li perseguirò fino in Iran, dove chiederò ai mujaheddin [del popolo iraniano] (2) di attaccarli (3). Il 3 giugno 1987, il proconsole firma la direttiva personale n.
28/3650 che dichiara “zona proibita” un territorio di oltre 1.000 villaggi kurdi in cui dovrà essere cancellata ogni vita umana e animale. Secondo queste disposizioni, “ogni movimento di cibo, di persone o di macchine verso villaggi proibiti per ragioni di sicurezza è totalmente vietato […]. Quanto alla mietitura, deve essere conclusa prima del 15 luglio, dopo di che l’agricoltura non sarà più autorizzata in questa regione […].
Le forze armate devono uccidere ogni essere umano o animale presente in queste zone”.
Con questi ordini, le forze irachene si lanciano in un attacco che raggiunge il suo apice con le operazioni “Anfal” (dal titolo di un versetto del Corano che autorizza il saccheggio dei beni degli infedeli) tra febbraio e settembre 1988. L’ultima operazione è lanciata il 25 agosto, pochi giorni dopo il cessate- il-fuoco fra Iraq e Iran che pone fine a otto anni di guerra.
Sedici divisioni e un battaglione di armi chimiche, in totale 200.000 uomini appoggiati dall’aviazione, conducono una “campagna di pulizia finale” nella provincia kurda del Bahdinan lungo la frontiera turca. Operazione provoca l’esodo verso la Turchia di quasi 100.000 civili. Nel luglio 1988, l’esercito spiana al suolo con la dinamite la città di Halabja considerata dai kurdi un importante luogo di cultura. La città aveva anche raggiunto una certa notorietà nel mondo anglosassone grazie al fascino che la sua sovrana, Adela Khanum, protettrice delle arti, esercitava sugli inglesi all’inizio del secolo. A questa Medici in terra islamica, Londra, diventata potenza mandataria dopo la grande guerra, aveva assegnato il titolo di Khan Bahadur principessa dei Bravi. Noti fin dai tempi di Senofonte per la loro abilità nell’uso delle armi tradizionali e nell’arte della guerra, questi Bravi hanno finito per soccombere sotto i colpi di un invisibile nemico, il gas. Le distruzioni delle città e dei villaggi kurdi proseguono nel 1989. In giugno, Qala Diza, 120.000 abitanti alla frontiera iraniana, è evacuata, fatta saltare con la dinamite e rasa al suolo. E’ l’ultima grande operazione di questa campagna. Il 23 aprile 1989, con il decreto n. 271, il Consiglio di direzione della rivoluzione revoca i poteri speciali conferiti a Hassan Al Majid e, in dicembre, il presidente Saddam Hussein, ritenendo risolta la questione kurda, abolisce il comitato per gli affari del nord del Ccr, che aveva istituito dieci anni prima. Al termine di questo folle genocidio, il 90% dei villaggi kurdi e una ventina di borghi e di città scompaiono dalle carte geografiche (4). Circa 15 milioni di mine, disseminate nella campagne, rendono impraticabili agricoltura e allevamento. Un milione e mezzo di contadini kurdi sono internati in campi. La guerra di Baghdad contro i kurdi, iniziata nel 1974, si conclude con oltre 400.000 morti, di cui quasi la metà scomparsi, ossia circa il 10% della popolazione kurda dell’Iraq. La sorte degli scomparsi è evocata, nel maggio 1991, da una delegazione kurda durante i negoziati di pace rimasti senza esito con Baghdad. Interrogato sulla sorte delle 182 000 persone di cui non si avevano notizie, Hassan Al Majid si spazientisce: “Sono le vostre solite esagerazioni. Il numero complessivo di persone uccise durante l’Anfal non ha probabilmente superato la cifra di 100.000!”. Quanto ai mezzi messi in atto, egli non ne fa mistero nel verbale di una riunione tenutasi nel gennaio 1989 (5): “Sarei forse incaricato di mantenere in forma tutta questa gente, di prendermi cura di loro? No, li seppellirò con i bulldozer. Mi chiedono i nomi di tutti i prigionieri per pubblicarli. Dove dovrei sistemare questa enorme quantità di persone? Ho cominciato a suddividerle nei governatorati. Ho dovuto mandare i bulldozer qua e là”. A quel tempo il regime non teme reazioni internazionali. Nel verbale della riunione del 26 maggio 1987, il proconsole Al Majid proclamava: “Li ucciderò tutti con armi chimiche! Chi dirà qualcosa? La comunità internazionale? Che vada al diavolo!” (6). Con questo linguaggio brutale, il macellaio del Kurdistan, promosso in seguito governatore del Kuwait quindi ministro della difesa, ostenta un giustificato cinismo. Ritenuto all’epoca un baluardo contro il regime islamista di Tehran, l’Iraq ha l’appoggio dei paesi dell’Est e dell’Ovest nonché dell’insieme del mondo arabo, tranne la Siria. Tutti gli stati occidentali gli forniscono armi e denari. Menzione speciale per la Francia: oltre la vendita di Mirage e di elicotteri, Parigi si spinge fino a prestargli aerei Super-Etendard in piena guerra contro l’Iran. La Germania consegna a Baghdad gran parte della tecnologia delle armi chimiche e, in una insolita cooperazione militare Est-Ovest, ingegneri tedeschi perfezionano gli Scud iracheni di origine sovietica, aumentandone la portata perché possano colpire le città iraniane più lontane, come Tehran. Nonostante l’immensa emozione manifestata dall’opinione pubblica in seguito all’uso di gas su Halabja, la Francia, potenza depositaria della convenzione di Ginevra del 1925, si accontenta di un comunicato sibillino di condanna per “l’uso di armi chimiche in qualunque luogo”. L’Onu invia sul posto un esperto militare spagnolo, il colonnello Dominguez, la cui relazione, resa pubblica il 26 aprile 1988, si limita a rilevare che “armi chimiche sono ancora state utilizzate sia in Iran che in Iraq” e che “aumenta il numero di vittime civili” (7). Quello stesso giorno, il segretario generale dell’Onu dichiarava che “le nazionalità sono difficilmente individuabili, tanto per le armi che per coloro che le utilizzano”. E’ evidente che le potenze alleate dell’Iraq non desiderano una condanna di Baghdad. Nell’agosto 1988, la sottocommissione dei diritti dell’uomo delle Nazioni unite ritiene, con undici voti contro otto, che non c’è motivo di condannare l’Iraq per violazione dei diritti umani. Soltanto i paesi scandinavi, con l’Australia e il Canada e organismi come il Parlamento europeo e l’Internazionale socialista salvano l’onore con una chiara condanna del regime iracheno. Un cambiamento si intravvede solo dopo la fine del conflitto Iraq-Iran e con l’afflusso in Turchia, nel settembre 1988, di profughi che fuggono davanti a una nuova offensiva con armi chimiche. Il presidente francese François Mitterrand, in un comunicato del 7 settembre, esprime la propria “preoccupazione davanti alle notizie riguardanti i mezzi di repressione usati contro le popolazioni kurde in Iraq, e in particolare per l’uso di armi chimiche”. Senza voler entrare in problemi che competono alla sovranità irachena, aggiunge Mitterrand, “i legami di amicizia che legano l’Iraq e la Francia le consentono a maggior ragione di far conoscere il proprio sentimento”. Il presidente George Bush blocca una risoluzione adottata, su iniziativa del senatore Claiborne D. Pell, dalle due Camere e che prevede sanzioni contro l’Iraq. La Casa bianca si spinge fino a concedere a Baghdad un nuovo credito di un miliardo di dollari. Solo dopo l’occupazione, nell’agosto 1990, del ricco emirato del Kuwait, il presidente Saddam Hussein diventa la bestia nera degli Stati uniti e viene designato come il “nuovo Hitler” dal presidente Bush. L’utile spauracchio sopravviverà alla guerra del Golfo: non solo le truppe americane non tenteranno nulla per rovesciare il dittatore, ma lasceranno, nella primavera 1991, che la guardia presidenziale reprima nel sangue la rivolta popolare, quella stessa alla quale il presidente degli Stati uniti aveva chiamato il popolo iracheno.


IL PKK su Halabja

L’IPOCRISIA DEL GOVERNO USA, LA VERITA’ SUL MASSACRO DI HALABJA E LA NEGAZIONE DELL’IDENTITA’ KURDA.

                                      (Kurdish Media 20/3/2000)

Il messaggio lanciato dal Dipartimento di Stato americano per commemorare il 12° anniversario del massacro di Halabja ha, in realtà, mostrato l’ipocrisia di uno stato che nasconde le sue responsabilità e si presenta sempre come il paladino della giustizia mondiale. Nelle 445 parole del messaggio mai una volta il Dipartimento ha osato scrivere la parola “Kurdistan” e “Nazione kurda” e la cosa più ridicola è che il dittatore Hussein non ha alcuna difficoltà a pronunciare la parola Kurdistan per intendere Kurdistan meridionale o Iraq del nord. Gli Usa non vogliono evidentemente turbare la profonda sensibilità della Turchia sulla materia in questione.

“Le vittime di Halabja chiedono giustizia e il supporto della comunità internazionale”, parole veramente commoventi da parte del più ricco stato del mondo che non dice però cosa vuole fare per dare questo “supporto “. L’altra cosa strana di tutta la faccenda è che le N.U. sborsano ancora milioni di $ di risarcimento alle vittime dell’invasione del Kuwait ma non danno un centesimo alle vittime kurde del genocidio del 1988. Le sanzioni imposte sull’Iraq completano l’opera ed oggi i superstiti di Halabja hanno due nemici Saddam e gli USA. Bisogna anche ricordare, per dover di cronaca, che fino al 1988, l’Iraq era il primo cliente degli Usa per quanto riguarda la vendita delle armi e che fino a pochi mesi prima dell’invasione del Kuwait, gli USA hanno continuato a comperare a basso costo il petrolio iraqeno ( evidentemente il massacro di 5000 civili non turbò più di tanto il governo USA, che non prese alcuna iniziativa anti-iraqena appena avuta notizia del massacro.) Anche il Regno Unito non esce pulitissimo dalla faccenda, basti ricordare che dal 1987 al 1990 le importazioni britanniche di petrolio iraqeno aumentarono del 400%. Chiediamo troppo se per il 13° anniversario di Halabja il Dipartimento di Stato USA si decidesse a considerare i kurdi una nazione e la loro terra il Kurdistan? Grazie.


12 Dicembre 2002
ZNet

Bugie, maledette bugie, e allarmi terroristici

John Pilger

Il 7 novembre, il giorno prima che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite votasse la risoluzione che ha reso più che probabile un attacco degli USA e della Gran Bretagna contro l’Iraq, il governo inglese ha cominciato ad emettere comunicati di minacce terroristiche imminenti contro il Regno Unito.

I comunicati riportavano che i traghetti della Manica, la metropolitana di Londra e tutti i principali eventi pubblici potrebbero essere potenziali “bersagli”.

La fonte governativa anonima descriveva “misure di sicurezza di emergenza”, inclusa “una forza di reazione rapida di riservisti dell’esercito” ed una flotta di aerei da combattimento in “stato di allerta costante”. Venivano stilati piani “di evacuazione delle principali città e per gestire un numero elevato di cadaveri contaminati”. I cecchini della polizia venivano addestrati ad “uccidere i kamikaze” e pillole anti-radiazioni venivano distribuite negli ospedali. Già l’11 Novembre, Tony Blair stesso aveva comunicato al pubblico britannico di “stare all’erta” contro un attacco che avrebbe potuto provocare “una carneficina di dimensioni inaudite”.

Incuriosisce quindi che non sia stato mai attivato lo stato di allerta nazionale per un probabile attacco – indicato dal colore ambra – che un allarme così grave avrebbe sicuramente richiesto. Lo stato di allerta rimane su “nero speciale”, cioè poco al di sopra del normale. Perché?

Tutto questo più di due settimane fa, e domande urgenti rimangono senza risposta. Adesso il personale sanitario deve essere vaccinato contro il vaiolo per “far fronte alla minaccia di un attacco batteriologico”; ed il Ministero degli Esteri ha prodotto uno straordinario video in cui si suggerisce che la Gran Bretagna sta per attaccare l’Iraq perché è preoccupata per i suoi risultati nel campo dei diritti umani. (Questo significa quindi che la Gran Bretagna attaccherà presto anche altri paesi per via dei loro risultati nel campo dei diritti umani, come la Cina, la Russia e gli Stati Uniti).

L’assurdità di tutto questo sta diventando grottesca, e il popolo Britannico deve porre al suo governo delle domande urgenti.

Dove sono le prove, di qualunque tipo, per un “allarme” nazionale che rasenta una tale orchestrata isteria? E cosa spiega il suo inspiegabile tempismo con le più recenti macchinazioni sull’Iraq degli USA e della Gran Bretagna alle Nazioni Unite?

La strategia governativa basata sulla menzogna è conosciuta come propaganda nera. La Gran Bretagna ha inventato la sua forma moderna. Josef Goebbels, il capo della propaganda nazista, aveva una grande ammirazione per il modello britannico. Dall’11 settembre 2001, ogni tentativo dei propagandisti neri a Whitehall e a Washington di giustificare un attacco non provocato contro l’Iraq, legando il regime di Baghdad ad al-Qaeda, è miseramente fallito.

All’inizio, si è accusato l’Iraq di essere responsabile per l’allarme-antrace negli Stati Uniti lo scorso anno; poi si è sostenuto che Mohamed Atta, uno dei presunti dirottatori dell’11 settembre, si fosse messo in contatto con i servizi segreti iracheni a Praga. Entrambe le accuse si sono rivelate fasulle, insieme ad una serie di storie piantante sui giornali dai servizi segreti americani, secondo cui l’Iraq stava addestrando i terroristi di al-Qaeda in una base segreta.

È sempre stato difficile per i fautori americani e britannici della propaganda nera trionfare sulla verità che il secolare regime iracheno teme e detesta Osama bin Laden ed i suoi militanti islamici – anche se di recente George Bush farfuglia sciocchezze sull’ “esportare questa malvagia minaccia di al-Qaeda al resto del mondo”.

Blair è più prudente; ma il suo messaggio implicito è lo stesso: che il “flagello” del terrorismo mondiale è legato a Saddam Hussein, la cui demonologia deve ora eguagliare quella del “boche mangia-bambini”* durante la Prima Guerra Mondiale, uno dei primi trionfi della propaganda nera.

Questi inganni e queste complete bugie sono dirette alla stragrande maggioranza dei britannici che, come dimostrano i sondaggi, sono contrari ad un attacco all’Iraq, un paese che non rappresenta per loro alcuna minaccia. Tuttavia, se spaventi il pubblico con messaggi apocalittici sull’evacuazione delle città, e crei continui legami tra l’Iraq, l’11 Settembre e le bombe di Bali, allora le persone potrebbero cambiare idea ed essere pronte per la guerra – o almeno questa è la scommessa dei propagandisti. “È un processo di ammorbidimento,” dice un ex funzionario dei servizi segreti, familiare con l’arte nera, “un gioco di bugie su vasta scala”.

È anche un’indicazione della disperazione del governo britannico. Blair sa, tuttavia, che per quanto successo possa avere l’indebolimento della democrazia parlamentare, l’opinione pubblica conta e, certe volte, ha un potere imprevedibile.

Quindi a mo’ di antidoto contro l’ “ammorbidimento” dell’opinione pubblica, vi offro questa guida tascabile all’attuale gioco delle menzogne:

Quello che Bush e Blair vogliono farci dimenticare…..

LA STORIA D’AMORE

L’attuale regime iracheno è un prodotto del partito Ba’atista, che la CIA ha aiutato ad arrivare al potere. L’ufficiale della CIA responsabile dell’operazione la descrisse come “il mio colpo di stato preferito”. Negli anni ’80, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno fornito a Saddam Hussein tutte le armi che voleva, spesso in segreto ed illegalmente. Questa relazione è cinicamente nota a Washington come “la storia d’amore”.

Quando Blair e Bush parlano costantemente di Saddam “che ha usato armi chimiche contro la sua stessa gente”, particolarmente il villaggio kurdo di Halabja nel 1988, non spiegano mai che la Gran Bretagna e gli Stati Uniti sono stati suoi complici.

Non solo i due governi hanno segretamente ed illegalmente approvato la vendita di agenti per armi batteriologiche, i funzionari di Washington e Whitehall hanno cercato di nascondere le atrocità di Halabja, con gli americani che si sono addirittura inventati che la responsabilità fosse dell’Iran.(**)

E mentre la gente veniva uccisa dai gas, Saddam Hussein riceveva le congratulazioni per la sua saggia leadership da David Mellor, un segretario del Ministero degli Esteri Inglese, a cui toccava il turno di sedersi ai piedi del dittatore. Quasi a premiarlo, il governo Thatcher elargì a Saddam Hussein 340 milioni di sterline in crediti di esportazione, pagati con i soldi dei contribuenti. Quando Bush e Blair chiamano Saddam “una minaccia per i suoi vicini”, non dicono mai che George Bush padre, come capo della CIA e poi come Presidente, spinse l’Iraq ad attaccare l’Iran e fornì ai militari iracheni informazioni cruciali, che fecero sì che la guerra continuasse per 8 anni. Ne sono derivati profitti di milioni di dollari per i mercanti d’armi inglesi ed americani, ed un milione di giovani morti da entrambe le parti. Un’indagine del congresso americano, da tempo dimenticata, ha descritto tutto ciò come “un grande crimine”.

IPOCRISIA SENZA LIMITI

Il 12 Settembre, George W Bush, di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con tono teatrale ha detto: “Dobbiamo onorare o mettere da parte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza?

La risposta è giunta qualche settimana dopo, quando il Consiglio di Sicurezza ha passato la Risoluzione 1435, chiedendo che “Israele cessasse immediatamente le azioni dentro e attorno Ramallah, inclusa la distruzione delle infrastrutture civili e di sicurezza palestinesi”, e di ritirare “le forze di occupazione dalle città palestinesi verso le posizioni detenute prima del settembre 2000”.

La risoluzione venne approvata 14-0, con un solo astenuto, gli Stati Uniti. Israele l’ha ignorata; e non è successo niente. Questo non deve sorprendere. Israele ha sfidato almeno 40 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ed un gran numero di risoluzioni dell’Assemblea Generale: un vero e proprio record nel disonorare e “mettere da parte” la legge (per citare Bush) che nessuna nazione è mai riuscita ad uguagliare, da quando sono state fondate le Nazioni Unite.

Come l’Iraq di Saddam Hussein negli anni ’80, l’atteggiamento di sfida di Israele è ricompensato con tutte le armi e gli aerei da combattimento che vuole. Così come la Gran Bretagna era solita fornire a Saddam i mezzi per fabbricare le armi chimiche, così adesso il governo di Blair fornisce al regime israeliano di Ariel Sharon la tecnologia per la guerra batteriologica. Questo include i “PCP” che possono essere facilmente trasformati nel letale gas nervino sarin che, dopo le armi nucleari, è la più temuta arma di distruzione di massa.

LE VERE RAGIONI DI UN ATTACCO ALL’IRAQ

L’America brucia un quarto di tutto il petrolio consumato dall’umanità. Uno studio sponsorizzato dal Consiglio Statunitense per le Relazioni Internazionali dice che “il popolo americano continua a domandare energia in abbondanza e a basso costo, senza sacrifici o disagi.” Negli USA, i soli trasporti consumano il 66 per cento del petrolio americano.

Si stima che le riserve petrolifere cominceranno a diminuire, tra 5 o 10 anni, ad un tasso di due milioni di barili al giorno. Nel Medio Oriente, l’unico paese capace di aumentare in modo significativo la produzione è l’Iraq, descritto una volta dal Vice Presidente Dick Cheney come “il grande premio”.

L’America attualmente dipende dai vicini dell’Iraq, l’Arabia Saudita, non solo per il petrolio, ma anche per mantenere basso il costo del petrolio. L’Arabia Saudita tuttavia è la patria di al-Qaeda, di Osama bin Laden e di 15 degli 11 dirottatori dell’11 Settembre.

Si dice che il malcontento nei confronti degli Americani per i loro interventi imperialisti in Medio Oriente sia maggiore nel paese creato dall’imperialismo britannico e che da allora è stato mantenuto dagli USA come una colonia petrolifera.

Se l’America installa un regime coloniale a Baghdad, certamente la sua dipendenza dall’Arabia Saudita diminuirà, mentre aumenterà la sua presa sul maggiore mercato mondiale di petrolio. Il prezzo, per i popoli della regione, per gli Americani e per tutti noi, sarà un continuo stato di agitazione simile a quello della Palestina, esemplificato dall’attacco terroristico, la scorsa settimana, contro un hotel israeliano in Kenia.

Questo è il motivo recondito della “guerra al terrorismo” – un termine che è non più di eufemismo per lo sfruttamento da parte dell’amministrazione Bush degli attacchi dell’11 settembre e per l’accelerazione delle ambizioni imperiali americane. Negli ultimi 14 mesi, con il pretesto di “combattere il terrore”, si sono installate basi americane nei punti d’accesso dei maggiori giacimenti di petrolio e di gas al mondo, particolarmente in Asia Centrale, anch’essa considerata “un premio ambito”.

In Afghanistan, il presidente Hamid Karzai, protetto da 46 soldati delle forze speciali americane, era impiegato di una sussidiaria della Unocal, la compagnia petrolifera americana. L’ambasciatore negli USA post-Talibani è un manager della Unocal, e la Unocal costruirà un oleodotto per portare profittevoli gas e petrolio dal Mar Caspio attraverso il paese.

La maggior parte dei membri del gabinetto di Bush provengono dall’industria del petrolio, grazie alla quale sono diventati molto ricchi. Il padre di Bush è ancora un consulente per il colosso dei servizi dell’industria petrolifera, il Gruppo Carlyle, ed i suoi clienti personali includono la famiglia di Osama Bin Laden. Una delle ragioni per cui l’America ha attaccato l’Afghanistan non era per liberare le donne, ma per spianare la strada al contratto per l’oleodotto. Come ha riportato la BBC il 18 Settembre 2001: “Niaz Niak, ex ministro degli esteri pakistano, ha appreso da funzionari americani d’alto rango intorno alla metà di Luglio (2001) che l’azione militare contro l’Afganistan sarebbe cominciata intorno alle metà di Ottobre. Secondo Naik, Washington non avrebbe rinunciato alla guerra contro l’Afganistan neppure se Osama Bin Laden si fosse arreso immediatamente ai Talibani.” Ricorda, questo l’ha detto prima che avvenissero gli attacchi dell’11 Settembre.

Dei milioni di dollari promessi per ricostruire l’Afghanistan, sono arrivate solo le briciole. Il Guardian stima che sono morte circa 20.000 persone, tra bombardati e morti di fame a causa delle bombe, affinché l’Occidente potesse riconquistare l’Afghanistan. Di Osama bin Laden si sono perse le tracce.

SEGRETI E CONSEGUENZE

Mentre i crimini di Saddam Hussain contro il suo popolo sono conosciuti, quelli dell’Occidente in Iraq vengono generalmente nascosti. Bush e Blair non parlano mai delle sofferenze del popolo Iracheno, ed i media vi accennano solo raramente. Questo non deve sorprendere. Sotto un embargo delle Nazioni Unite che assomiglia ad un assedio medievale, studiato e controllato dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, all’Iraq è consentito di spendere poco più di 100 sterline a persona all’anno per il garantire la sopravvivenza di ciascun cittadino. Questo è meno della metà del reddito annuale procapite di Haiti, il paese più povero dell’emisfero occidentale. È meno di quello che l’ONU spende per il cibo dei cani utilizzato per le operazioni di sminamento in Iraq.

Un recente studio approfondito da parte di un accademico americano, il prof. Joy Gordon, ha rivelato che gli Stati Uniti hanno bloccato aiuti umanitari destinati all’Iraq per un valore complessivo superiore ai 5 miliardi di dollari. Tutti i beni erano stati approvati dalle Nazioni Unite ed erano stati finanziati con la vendita di petrolio iracheno. Includono farina, medicinali, attrezzature per la produzione di latte, attrezzature da pompieri e cisterne.

“Nel corso degli ultimi 3 anni,” ha scritto il prof. Gordon, “ho avuto accesso a molti documenti chiave segreti delle Nazioni Unite riguardanti l’amministrazione delle sanzioni all’Iraq. Quello che mostrano è che gli Stati Uniti hanno combattuto aggressivamente negli ultimi 10 anni per ridurre al minimo, di proposito, gli aiuti umanitari che entrano nel paese. E lo hanno fatto nonostante le indicibili sofferenze umane, incluso un aumento marcato della mortalità infantile e le epidemie diffuse.”

Questa è la gente, più della metà bambini, che Bush e Blair si stanno preparando ad attaccare non appena sarà venuta meno l’utilità degli ispettori dell’ONU. Negli ultimi 3 anni, il solo governo Blair ha speso 1 miliardo di sterline per bombardare illegalmente l’Iraq – con gli Stati Uniti. Pastori, pescatori, camionisti vengono ridotti in mille pezzettini nel silenzio quasi totale dei media. Nessuno dei due paesi ha un mandato dell’ONU per queste azioni; per la legge internazionale, è semplicemente un atto di pirateria.

Le conseguenze di un attacco Anglo-Americano all’Iraq saranno senza dubbio l’unico legame tra il terrorismo internazionale e l’Iraq. Nulla avrà più successo nel trasformare al-Qaeda da una banda relativamente piccola ad una jihad internazionale di fanatici, o in un network. Nulla avrà più successo nel creare una generazione di manovalanza per il terrorismo, animata dal risentimento anti-occidentale.

Quando Blair parla della minaccia di una “carneficina” del terrorismo in Gran Bretagna, la terribile ironia delle sue predizioni è che probabilmente saranno auto-realizzantesi, se Blair riuscirà a coinvolgere il popolo britannico in un’avventura criminale internazionale.

Per questo atto irresponsabile, metterà a rischio ogni cittadino britannico in Gran Bretagna ed all’estero. Diffonderà la paura e fomenterà divisioni etniche. Questa è la vera misura del suo inchinarsi al grande potere. Il popolo britannico non deve consentire che accada.

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* Boche era un termine colloquiale francese per indicare i tedeschi durante la Prima Guerra Mondiale.

(**)Dalla notizia che segue Pilger trae la sua conclusione:

“SU NEW YORK TIMES: MASSACRO HALABJA FU COLPA IRAN” (ANSA) – NEW YORK, 31 GEN – L’esperto della Cia che negli anni ottanta fu il capo del desk iracheno all’agenzia di Langley ha rovesciato le accuse fatte piu’ volte dalla Casa Bianca all’Iraq di avere usato gas chimici letali contro i curdi del nord. Secondo Stephen Pelletiere, i centomila civili curdi che persero la vita nel 1988 ad Halabja furono coinvolti in una delle ultime battaglie della guerra tra Iran e Iraq e i gas che li uccisero partirono probabilmente dalle artiglierie iraniane. Possono esserci mille ragioni per andare in guerra contro Saddam Hussein, ma il massacro di Halabja non puo’ essere una di queste, ha concluso l’ex esperto della Cia. Il presidente Bush ha piu’ volte citato il massacro di Halabja come una delle ragioni per rovesciare Saddam Hussein: Noi pero’ non possiamo affermare con certezza che i gas che li uccisero fossero iracheni, ha scritto Pelletiere in un articolo pubblicato oggi nella pagina degli editoriali del New York Times. Autore di ‘Iraq e il sistema internazionale del petrolio’, un saggio sulla prima guerra del Golfo, Pelletiere ha riassunto sul Times le sue credenziali: durante gli otto anni della guerra Iran-Iraq fu a capo del desk iracheno della Cia. Dopo aver lasciato l’agenzia di Langley, nel 1991 guido’ un’inchiesta dell’Esercito Usa su come l’Iraq avrebbe combattuto in una guerra contro gli Usa: questo studio si basava in gran parte su materiale top secret su Halabja. Pelletiere ha concluso che i civili curdi furono intossicati dal gas i nel corso di una battaglia combattuta dall’Iraq per riconquistare la citta’ nel nord non lontano dal confine iraniano: Ebbero la sfortuna di essere presi in mezzo tra le parti in guerra, ma non furono il principale obiettivo iracheno. Se dunque gli iracheni furono responsabili del massacro, non fu per disprezzo dei diritti umani ma per un tragico atto di guerra, ha sostenuto l’ex esperto della Cia. Secondo Pelletiere tuttavia i soldati di Saddam Hussein sarebbero stati accusati ingiustamente del massacro: Subito dopo la battaglia, la Defense Intelligence Agency del Pentagono indago’ sul campo di battaglia e, in un rapporto fatto circolare nella comunita’ di intelligence, concluse che il gas colpevole della morte dei civili non era il gas mostarda (iprite) presente negli arsenali iracheni, ma un altro gas al cianuro gia’ usato in altre occasioni dall’Iran.”



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