Bruno Touschek

Carlo Bernardini

Dipartimento di fisica, Università di Roma

´La Sapienzaª Piazzale A. Moro 2, Roma.

il nuovo saggiatore Vol. 15, 3-4  (1999)  pagg. 29/33

Bruno Touschek non sarebbe potuto nascere che a Vienna, come fece il 3 febbraio 1921. E quando sentì che la morte si avvicinava, volle tornare in Austria, dove morì assai giovane, il 25 maggio 1978. L’Austria di Karl Kraus, di Egon Schiele, di Gustav Klimt e di Ludwig Fiittgenstein: una eccezionale miscela di eleganza, eccentricità e razionalità che in Bruno si riconosceva immediatamente. Guai a non avere il senso dell’umorismo! Con lui, si rischiava di soccombere agli scatti di impazienza che accompagnavano una battuta sprecata, un riferimento colto non afferrato. Tuttavia, va detto subito che se Touschek esigeva dai colleghi più illustri e autorevoli di essere all’altezza della loro posizione accademica, altrettanto, al contrario, era indulgente e disponibile con i giovani, con gli studenti. E che seguisse una vocazione tutta particolare per la didattica va ricordato, a suo onore, specie in tempi in cui queste vocazioni si vanno perdendo in una sorta di infondato disprezzo. Ripercorrendo le innumerevoli note, scritte con inchiostri nerissimi in una calligrafia un po’ latina e un po’ gotica, su quaderni ordinati a pagine numerate, si scopre in genere che accanto agli embrioni delle sue idee si sviluppano i mille modi per rendere comprensibili le cose della fisica, con particolare riguardo alle formulazioni matematiche e alle tecniche di soluzione.

Bruno aveva alcune idee di riferimento, con le quali produceva la maggior parte delle sue rappresentazioni mentali. Può apparire presuntuoso, da parte mia, cercare di illustrare queste idee in modo schematico, ma in tanti anni di dimestichezza era impossibile non accorgersene, non scoprirle. Intanto, l’elettrodinamica  quantistica era per lui uno dei passi più importanti di tutta la storia della fisica, buon modello anche per la costruzione delle interazioni deboli: non a caso era stato un attento seguace di Wolfgang Pauli sin dagli anni della gioventù (e fu in casa di Bruno che ebbi occasione di incontrare Pauli e di provare una soggezione indicibile). Il concetto di simmetria discreta è poi un altro dei leitmotiv del suo modo di pensare, e ne troviamo importanti manifestazioni in lavori degli anni ’50 in cui introduce sia la simmetria chinale (la non conservazione della parità era stata appena scoperta) che le speculazioni più importanti  sul problema dell’inversione temporale.

E’ di quegli anni un sodalizio con Luigi  Radicati e Giacomo Morpurgo, nonché con Marcello Cini: alcuni di noi più anziani ricordano ancora la vivacità delle discussioni al secondo piano dell’edificio Marconi all’Università  di Roma. Molta della fisica teorica di allora veniva concepita e sviluppata in corridoio, nel braccio che andava dalla stanza di Edoardo Amaldi a quella di Enrico Persico che, ogni tanto, facevano capolino incuriositi e venivano catturati ed edotti (con Marcello Conversi,  che era in posizione mediana).

A quel tempo, la fisica italiana delle particelle elementari si stava affrancando dai raggi cosmici: a Frascati, era in via di completamento  un sincrotrone per elettroni, sotto la direzione di Giorgio Salvini. Disporre di un  fascio di particelle di alta energia era quanto di meglio si potesse desiderare. Le interazioni forti affascinavano Touschek ma, come ho detto, l’elettrodinamica era il suo modello prediletto, sicché arrivare alle interazioni forti attraverso l’elettrodinamica gli sembrava la strada naturale: urti fra adroni, diceva, fanno troppo “rumore”; molto meglio la gentilezza degli elettroni. Gli adroni, diceva, sono hooligans, teppisti e vanno bene per il Cern… intanto, faceva modelli per risonanze adroniche, convinto che nella nozione  di risonanza fosse la chiave di volta per la comprensione della materia nucleare. Questa convinzione era un’altra delle sue rappresentazioni  preferite, ora cercherò di spiegare perché. Intanto, scuoteva il capo scontento per gli acceleratori di quell’epoca: certo, meglio, molto meglio dei raggi cosmici; ma che  spreco! Un elettrone relativistico contro un bersaglio pesante, sia pure un protone, spreca  quasi tutta la sua energia nel moto finale del centro di massa piuttosto che per produrre “reazioni”, cioè stati finali interessanti con nuove particelle (risonanze). Lentamente, si fece strada nella sua mente l’idea che si potesse fare molto meglio e molto di più. Bruno immaginava il vuoto fisico come un magazzino di “pezzi fondamentali”, che si sarebbero manifestati come modi normali del vuoto (risonanze, massefrequenze caratteristiche ––  il suo modo di ragionare era intrinsecamente relativistico). Il problema era quello di “depositare” nel vuoto una ragionevole quantità  di energia, qualificata con numeri quantici appropriati, per eccitare questi modi normali e portarli allo scoperto. Certo, non c’era da aspettarsi molto da stati iniziali carichi, o con numeri barionici o leptonici non nulli; dunque gli stati iniziali prevedibilmente più interessanti non potevano essere che stati di particella-antiparticella; in particolare, nel caso elettrone-positrone, i numeri quantici del sistema avrebbero potuto essere quelli di un fotone, l’intermediario prediletto di ogni scambio energetico! Insomma, Bruno aveva in mente una rappresentazione dielettrica del vuoto fisico: effettivamente, tra i suoi appunti manoscritti si ritrovano alcuni tentativi di lavorare con una costante dielettrica adronica definita in modo semiclassico. A quel tempo, ricordo, uno dei problemi era quello di quale uso fare delle relazioni di dispersione per lo  scattering: con gli acceleratori convenzionali, per esempio il Linac di Stanford (elettroni da 500 mev), Robert Hofstadter aveva misurato i fattori di forma di nucleoni e nuclei, aveva cioè ricostruito la geometria degli oggetti adronici a partire dalle figure di diffrazione (formula di Rosenbluth) corrispondenti allo scattering elastico, cioè a momenti trasferiti space-like. Si trattava di estendere le misure al settore time-like! Il trasferimento di momento avveniva per l’intermediario di un fotone (virtuale, fuori del mass-shell) in entrambi i casi: dunque, il prolungamento analitico dello scattering era l’annichilazione. Annichilazione di positroni su elettroni fermi, nemmeno a parlarne: energie disponibili nel centro di massa per produrre adroni, ridicole. Ma si poteva pensare di sparare elettroni contro positroni in un anello magnetico, in modo che il centro di massa fosse fermo.

Il 7 marzo 1960 Bruno fa un seminario ai laboratori nazionali di Frascati e propone di realizzare un anello magnetico in cui fare collidere elettroni e positroni viaggianti a velocità relativistiche su un’unica orbita: a chi gli chiede “perché mai dovrebbero incontrarsi?” risponde con tono sprezzante che “basta il teorema TCP per convincersi che lo faranno”; e così scrive sulla proposta che apparirà nel Nuovo Cimento, utilizzando la sua fiducia nelle simmetrie discrete e nell’elettrodinamica quantistica.

Lì per lì, i problemi tecnici di una tale impresa  furono elencati con una certa spregiudicatezza: come produrre e iniettare fasci di positroni? Come assicurare un vuoto sufficiente per avere fasci stabili accumulati per tempi lunghi? Come monitorare ciò che accade in un simile dispositivo? Come misurare la produttività della macchina? eccetera. Bruno si convertì all’istante da fisico teorico dei più astratti a fisico applicato: siccome l’idea era piaciuta, Salvini, Amaldi e Felice Ippolito (allora segretario del Cnen) avevano trovato i fondi per realizzarla in quattro e quattr’otto, bisognava rimboccarsi le maniche e risolvere i problemi pratici. Mai sarebbero stati risolti senza le eccezionali risorse intellettuali e competenze messe in gioco dai nostri colleghi Giorgio Ghigo e Gianfranco Corazza: ad entrambi, Bruno si affezionò con un sentimento di ammirazione che mai gli avevo visto prima per altri. Seppi dopo che questo lo riportava al clima in cui aveva collaborato con Rolf Fiideröe, R. Kollath e G. Schumacher alla costruzione di un betatrone da 15 MeV, nel 1943-44 (a Pfuhlsbüttel, vicino ad Amburgo); e che da giovanissimo aveva lavorato in una fabbrica radioelettronica tedesca e costruito tubi a raggi catodici.

Irruento e determinato com’era, però, quando concepisce l’idea dell’anello di accumulazione (AdA) va dritto da Salvini che aveva appena messo in funzione l’elettrosincrotrone da 1100 MeV, un vero successo per quei tempi, e cerca di convincerlo del fatto che “è una macchina poco intelligente” di scarsa utilità; così che sarebbe stato meglio convertirlo in anello di accumulazione adattandolo opportunamente. Fortunatamente, Salvini lo tenne a bada, evitando un disastro pressoché certo, e lo convinse a costruire un anello ad hoc. La conversione sincrotrone ad anello fu effettivamente fatta, dieci anni dopo, con una macchina acceleratrice americana, il CEA di Cambridge Mass., ma con grandi fatiche e magri risultati.

  AdA

Del lavoro con AdA non resta molto, nella letteratura. Indubbiamente, la più importante rassegna delle vicende e dei risultati è una tesi, assai accurata, dell’allora giovane Jacques Haïssinski, che era venuto a fare il dottorato nel nostro gruppo quando ci eravamo trasferiti a Orsay. Di quel dottorato, fummo esaminatori Touschek, Neél ed io nel 1963, quando ormai l’idea di Bruno si era completamente affermata. Sia Haïssinski che Pierre Marin (altro nostro collaboratore francese) nutrivano una vera venerazione per Bruno, nonostante le terribili sfuriate che egli andava facendo in laboratorio insoddisfatto dei tecnici francesi e dei loro servizi centrali. Molte volte si andò vicini all’incidente diplomatico, con la dogana per il trasporto dell’anello o con i controlli aeroportuali perché Bruno non rinunciava a ironizzare sulle guardie nel suo francese assai approssimativo. Le lunghe notti degli innumerevoli week end durante i quali si lavorava con AdA presso la “salle de cible 500 MeV” del Linac francese, che aveva rimpiazzato il sincrotrone di Frascati come iniettore, erano a dir poco infernali: l’impianto di raffreddamento dell’alimentatore della cavità a radiofrequenza faceva un rumore altissimo; spesso il Linac si rompeva e il lento lavoro di accumulazione andava perduto. Ma Bruno era quasi sempre presente (quando non riuscivamo a mandarlo a riposare nella foresteria) e voleva fare personalmente  le calibrazioni degli strumenti e le misure.

La sua innata passione per il disegno si rivelava anche in un comunissimo grafico, ancora oggi riconoscibile come “suo” originale da semplici ed efficaci segni. Accanto ai grafici, i disegni, per lo più satirici, che disseminava per il laboratorio per la gioia di tutti noi che ne facevamo incetta.

Come ho già detto, ci trasferimmo in Francia, ad Orsay; ma la prova che un fascio di bassa corrente potesse circolare per ore nella macchina s’era già avuta a Frascati, grazie alla straordinaria abilità di Corazza nel produrre vuoti decisamente inferiori a 1029 torr con pompe al titanio e degassamento e pulitura delle pareti interne della donut. A Frascati, il punto dolente era l’iniezione: il sincrotrone era stato concepito con un duty cycle eccellente per gli esperimenti con coincidenze; ma per AdA questo era irrilevante: un fascio di elettroni impulsati molto intenso andava benissimo e il Linac di Orsay (da 1000 MeV) sembrava l’iniettore giusto. Bruno partecipò agli accordi con i francesi e alle operazioni di trasferimento dell’anello che, su un grosso camion, attraversò le alpi mantenendo il vuoto nella donut a 1028 torr grazie a un certo numero di batterie in tampone. A Frascati, avevamo già messo a punto le tecniche di calibrazione del fascio (ottiche); Touschek era deliziato dal fatto che la luce di sincrotrone di un singolo elettrone circolante da 200 mev si vedesse ad occhio nudo; spesso, AdA veniva caricata per misure di vita media dei fasci e Bruno faceva da cicerone ai visitatori invitandoli a guardare dall’oblò “l’ultimo elettrone circolante” (una spot bianco-bluastra in grado tuttavia di abbagliare l’incauto che restasse a fissarla, necrotizzandogli un punto della retina). P. I. Dee, un amico di Glasgow (presso il quale Bruno era stato da  “profugo”, dopo la guerra), era assolutamente incredulo circa la visibilità del singolo elettrone sicché Bruno si produsse in un convincente calcolo della magnitudine della spot: queste stime improvvisate erano la sua passione –– e non sono certo semplici.

Furono risolti innumerevoli problemi, tutti reperibili sulla tesi di Haïssinski. Ma il vero momento di pathos venne, una notte del 1963, quando ci accorgemmo che, nonostante la velocità di iniezione fosse ormai eccellente, l’intensità dava palesi segni di saturazione, come se la vita media del fascio dipendesse dall’intensità del singolo fascio. Bruno si allarmò.

Cercò il bar della stazione di Orsay, che restava aperto durante la notte, ordinò il prediletto rosé sec e incominciò a riflettere. Tornò all’alba: aveva capito. quello che avveniva era che lo scattering Møller fra gli elettroni che correvano insieme in un bunch produceva un trasferimento di momento dai modi trasversali (ben contenuti dalle forze magnetiche) a quello longitudinale, assai più debole e anarmonico.

Ovviamente, tanto più grande la densità di elettroni in un bunch tanto più vistoso l’effetto di saturazione: questo forniva anche una ricetta per curare il danno aumentando la densità; il che fu ottenuto mediante l’inserzione di una bobina quadrupolare in una sezione libera del magnete. Bruno produsse immediatamente un calcolo dell’effetto, che da lì in poi è noto come “effetto Touschek”; si vide che per macchine più grandi di AdA non sarebbe stato così catastrofico. AdA dimostrò che i fasci di elettroni e positroni si incontrano; la “luminosità” della macchina era piccola, ma sufficiente a misurare una sezione d’urto di bremstrahlung elettrone-positrone. Questo lavoro fu così convincente che già nel 1961 a Frascati fu messa in cantiere una macchina ben più grande: Adone, due fasci antagonisti da 1.5 GeV ciascuno contro i 220 MeV di AdA. Poco dopo, i francesi incominciarono a costruire ACO (Anneau de Collision Orsay), 23500 MeV.

Bruno era contento e distaccato: finiva l’avventura, incominciava il corso “regolare” delle cose; e lui, come altri, non era uomo di grandi collaborazioni rigidamente organizzate. Tuttavia, continuò a prestare la sua opera, che era di accesa e disinteressata partecipazione alla soluzione di problemi. Intanto, riprendeva a ragionare sui neutrini, e posso dire che non era poi così lontano dall’unificazione elettrodebole. Per circa dieci anni dopo il 1964, anno in cui terminò l’attività con AdA, Bruno soffrì per gli eventi politici che si manifestavano intorno a tutti noi: il caso Ippolito, prima, in cui ebbe un ruolo non irrilevante (le riunioni dei “cospiratori” pro Ippolito si tenevano a casa sua); poi, la contestazione, che lo infastidì moltissimo per l’ottusità di coloro che l’avevano portata nell’Istituto di Fisica di Roma. Il modo, in verità, era assai poco viennese. Se non fosse stato per Edoardo Amaldi, per il quale Bruno aveva una stima illimitata, probabilmente sarebbe andato via, forse in Austria (aveva ripreso i contatti con gli austriaci, particolarmente Fialter Thirring, e conosceva personalmente il presidente austriaco Bruno Kreisky). Parlava spesso in modo sconsolato dell’Italia e della burocrazia italiana. Se posso dire, per come lo ho conosciuto, che cosa gli sarebbe piaciuto “inventare” in fisica, dopo AdA, dico senz’altro la vector dominance, che sembrava fare da ponte tra la prediletta elettrodinamica e il mondo adronico, riempiendo di risonanze ben definite il prolungamento analitico dei fattori di forma. Quando fu scoperta la jy, appena sopra l’energia massima di Adone, per nera fatalità, Bruno sentì che la sua idea stava rendendo il massimo di ciò che si poteva sperare.

Negli ultimi anni, era amareggiato. Smodato per sua natura, sembrava volesse autodistruggersi. Stava spesso molto male. Volle andare al Cern. Di lì, peggiorando in salute, decise di trasferirsi sulle montagne sopra Innsbruck, a Igls. Telefonava che la piscina lo distraeva molto: aveva una gran passione per il nuoto e la pesca (e aveva tanto nuotato e pescato nel lago, a Castelgandolfo). Il 25 maggio 1978 se ne andò, alla clinica medica di Innsbruck, per coma epatico. I suoi discorsi degli ultimi giorni manifestavano, come ha scritto Amaldi, una grande voglia di vivere.

Per molti di noi, vive, come esempio inimitabile, pure, esempio.


Una storia più dettagliata della fisica degli Anelli di Accumulazione, scritta dallo stesso Bernardini, si può trovare nel sito.




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